L'identità negata la guerra di liberazione del bangladesh come disfacimento dell'ideale...

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L'identità negata La Guerra di Liberazione del Bangladesh come disfacimento dell'ideale artificioso di Pakistan unito Dott.ssa Cristina Lo Giudice

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An historical and literary study about Bangladeshi War of Liberation of 1971, from the double point of view of astonishing Tahmima Anam's novel, "A Golden Age" and of the witnesses of a freedom fighter and the daughter of a Awami League politician. ---In Italian --

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L'identità negata La Guerra di Liberazione del Bangladesh come disfacimento dell'ideale artificioso

di Pakistan unito

Dott.ssa Cristina Lo Giudice

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Indice • Prefazione

.I. Contesto Storico

1. Eventi precedenti la guerra (1947-1971)

1.1. Controversia linguistica

1.2. Instaurazione del regime militare di Ayub Khan (1958-1969)

1.3. Disuguaglianze tra East e West Pakistan nella rappresentanza e nell’economia

1.4. Il Partito Awami e il Movimento dei 6 Punti

1.5. Il passaggio di potere a Yahya Khan e la preparazione alle elezioni del 1970

1.6. Le elezioni del 1970, il ciclone Bhola e l’inasprirsi del pubblico dissenso

1.7. L'ultimo tentativo di negoziazione politica tra il palesarsi delle strategie dei partiti

1.8. La posposizione dell'Assemblea Nazionale come ultima prevaricazione: l'antefatto del conflitto armato

1.9. La prorompente reazione popolare al rinvio dell’Assemblea Nazionale e la pianificazione dell’intervento militare 2. La Guerra di Liberazione del Bangladesh (26 Marzo-16

Dicembre 1971)

2.1. L’operazione Searchlight, la dichiarazione di Indipendenza e le prime fasi della guerra

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2.2. Il genocidio selettivo e la questione dei profughi

2.3. L'etnia Bihari e i collaborazionisti dell'esercito pakistano

2.4. Seconda fase del conflitto (Luglio-Novembre)

2.5. L'intervento militare indiano ( I Guerra Indo-Pakistana) e la resa finale del Pakistan

.II.

La Storia riletta dalla letteratura

1. Panoramica sul libro “I giorni dell'amore e della guerra” di T. Anam

2. La guerra di liberazione vissuta dai personaggi del romanzo di T. Anam

2.1. Avvenimenti precedenti l'inizio del conflitto

2.2. L'operazione Searchlight

2.3. Prime fasi della guerra

2.4. L'estate del '71 e il proseguimento della guerra

2.5. Il dramma dei campi profughi e l'evolvere della situazione verso una fine

2.6. Il 16 Dicembre 1971

.III. Testimonianze dirette

• Introduzione

1. Saifullah Said

2. Nasrin Hasan

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Prefazione La Guerra di Liberazione del Bangladesh del 1971 è un evento storico imprescindibile per comprendere le dinamiche geo-politiche del Subcontinente inteso nella sua totalità. Purtroppo in Italia questo avvenimento non è tema di discussione nel campo degli studi sud-asiatici, perciò ritengo necessario trattarlo, seppur in modo parziale, al fine di rendere giustizia ai personaggi che vi hanno preso parte e ai martiri che hanno dato la vita per la causa della libertà.

Il mio intento non è quello di analizzare la guerra in sé, ma di inquadrarla in un contesto più ampio che la consideri come l'effettiva conseguenza di un processo storico che, a partire dal 1947, ha fatto emergere le abissali differenze culturali, linguistiche, politiche e sociali tra West e East Pakistan. Attraverso l'analisi degli eventi che precedettero la guerra del 1971, cercherò di mostrare come il popolo bangladeshi abbia sviluppato un senso di nazione e un'identità diverse da quelle del West Pakistan. Questo perché ritengo che la cultura, la lingua, le tradizioni, la concezione della politica e della società siano gli ambiti peculiari attraverso i quali si può delineare il concetto di nazione. Al riguardo considero emblematica la dichiarazione di Abdul Mansur Ahmad, un bengalese che partecipò al dibattito costituzionale nell'Assemblea Costituente del 1956, che testualmente cito:

«Pakistan is a unique country having two wings which are separated by a distance of more than a thousand miles... These two wings differ in all matter, excepting two things, namely, that they have a common religion, barring a section of the people in East Pakistan, and that we achieved our indipendence by a common struggle. These are the only two points which are common to both the wings of Pakistan. With the exception of these two things, all other factors, viz, the language, the tradition, the culture, the costume, the dietary, the calendar, the standard time, practically everything is different. There is, in fact, nothing common in the two wings, particularly in respect to those [things] which are the sine qua non to form a nation.»¹

Dopo il necessario inquadramento storico, intendo analizzare due punti di vista attraverso i quali questo evento viene interpretato oggi: quello letterario, grazie allo splendido libro della scrittrice bengalese Tahmima Anam, pubblicato in Italia da Garzanti con il titolo “I giorni dell'amore e della guerra” (titolo originale “A golden age”) e quello più realistico offertomi dalla viva testimonianza di un ex-combattente -muktijoddha, in bengali- , il Sig. Saifullah Said, e della figlia di un politico bangladeshi, la Sig.ra Nasrin Hasan, che ho intervistato grazie alla collaborazione della Dott.ssa Neeman Sobhan, la mia docente di bengali, la quale ringrazio vivamente per il suo contributo. Per la bibliografia, questo lavoro è principalmente il frutto dello studio dell'esauriente analisi contenuta nel libro di R. Sisson e L. E. Rose “War and Secession:Pakistan, India and the creation of Bangladesh”.

Dott.ssa Cristina Lo Giudice _________________________________________ ¹ «Il Pakistan è un paese unico composto da due parti che sono separate da una distanza di più di mille miglia...Queste due parti differiscono in tutti i punti, eccetto per due cose, vale a dire che condividono una religione comune, esclusa una fetta della popolazione dell'East Pakistan, e che abbiamo raggiunto la nostra indipendenza grazie ad una lotta comune. Queste sono gli unici due punti che sono comuni a entrambe le parti del Pakistan. Con l'eccezione di queste due cose, tutti gli altri fattori, viz [cioè], la lingua, la tradizione, la cultura, i costumi, le consuetudini, la dieta, il calendario, il tempo standard, praticamente tutto è diverso. Non c'è, in effetti, niente in comune tra le due parti, specialmente rispetto a quelle [cose] che costituiscono sine qua non una nazione.»

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.I.

Contesto Storico

1. Eventi precedenti la guerra (1947-1971)

Durante la partizione dell'India britannica nel 1947, si decise di dividere la regione del Bengala su

base religiosa; la zona a maggioranza hindu sarebbe diventata parte dell'India con il nome di West

Bengal e la regione a maggioranza musulmana sarebbe andata al Pakistan con il nome prima di East

Bengal e poi di East Pakistan.

Se consideriamo la Guerra di Liberazione – muktijuddho - come l'esplosione del risentimento dei

bangladeshi verso la politica pakistana e quindi come la reazione all'acquisita consapevolezza di

importanti differenze culturali e linguistiche, dobbiamo necessariamente pensare che i rapporti tra le

due parti del paese andarono progressivamente deteriorandosi.

Possiamo inquadrare il disfacimento di un'unità nazionale che ci risulta forzata, viste le notevole

differenze, in diverse fasi da considerare quindi come le maggiori cause del conflitto armato.

1.1 Controversia linguistica

Nel 1948 il Qa'id-e-A'zam (=Fondatore della nazione) Mohammed Ali Jinnah, primo Presidente del

Pakistan, dichiarò pubblicamente a Dhaka che la lingua ufficiale del neo-nato stato del Pakistan

(East e West) sarebbe stata «l'urdu e solo l'urdu».Questa e altre dichiarazioni simili di politici del

West Pakistan scatenarono grandi proteste di massa in East Pakistan perché l'urdu veniva parlato

solo da una ristretta élite culturale della parte ovest del paese. La gran parte della popolazione del

West Pakistan, infatti, parlava punjabi, baluchi, sindhi e pashtu, mentre la popolazione bangladeshi

parlava bengali. L'opposizione popolare contro questa decisione non rappresentava solo il bisogno

di vedere riconosciuta dallo stato l'identità linguistica bengalese, ma esprimeva anche il timore che

la mancata conoscenza dell'urdu avrebbe precluso ai cittadini dell'East Pakistan la possibilità di

intraprendere una carriera in settori chiave dello stato, quali la pubblica amministrazione e la

burocrazia, la politica e la difesa.

Il linguista Mohammed Shahidullah argomentò che l'urdu non era la lingua madre di nessuna

componente sociale dell'intero stato del Pakistan. Nel 1948 alla prima sessione dell'Assemblea

Costituente della nazione, Dhirendranath Datta presentò una risoluzione per far riconoscere la

bengali come una delle lingue ufficiali dello stato, che però venne del tutto ignorata, dato che la

maggior parte dei politici presenti non erano bengalesi.

Il 31 Gennaio 1952 venne creata la All-Party Central Language Action Committe _ Shorbodolio

Kendrio Rashtrobhasha Kormi Porishod_ in un incontro alla Bar Library Hall all'università di

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Dhaka dal politico bengalese Maulana Bhashani. La proposta di scrivere la lingua bengali

nell'alfabeto arabo venne aspramente criticata nell'assemblea. La commissione propose per il 21

Febbraio uno sciopero di massa - hartal -. In risposta, il governo pakistano impose il divieto di

assembramento di più di cinque persone, pena l'intervento dell'esercito. Ciò nonostante, il 21

Febbraio 1952 migliaia di studenti e civili si riunirono davanti all'università di Dhaka, infrangendo

le restrizioni per le manifestazioni pubbliche imposte dal governo. Quando gli studenti cercarono di

rompere il cordone di polizia, le forze dell'ordine cominciarono a lanciare gas lacrimogeni verso i

cancelli dell'università per disperdere i dimostranti. Il vice-rettore chiese alla polizia di interrompere

l'azione di repressione e agli studenti di lasciare l'area per evitare scontri, ma non venne ascoltato da

nessuna delle parti. La polizia arrestò molti dimostranti per la violazione del divieto di

assembramento e questo indusse gli studenti a riunirsi davanti all'Assemblea Legislativa dell'East

Pakistan per chiedere di essere rappresentati. Allora le forze dell'ordine aprirono il fuoco sulla folla

disarmata e quando la notizia degli assassini si diffuse, la protesta si estese a tutta la città di Dhaka

attraverso azioni di boicottaggio delle attività pubbliche e scioperi di massa.

Il 21 Febbraio, in memoria degli studenti e civili inermi brutalmente uccisi dalla polizia, viene

ricordato ogni anno in Bangladesh come Giornata dei Martiri per la Lingua- Bhasha Shaheed

Dibosh - e dal 1999 l’UNESCO ha sancito per questa data la Giornata Internazionale per la Lingua

Madre, nella quale si festeggia ogni anno in tutto il mondo.

Nella notte del 23 Febbraio gli studenti del Dhaka Medical College lavorarono per costruire il

Monumento alla Memoria dei Martiri - Shaheed Smritistombho -, il quale, inaugurato dal padre di

uno dei giovani uccisi dalla polizia, venne distrutto dai militari il 26 Febbraio. Gli arresti e le

uccisioni continuarono nei giorni successivi, nel tentativo delle forze dell'ordine di reprimere i

continui scioperi e le manifestazioni. Il governo censurò tutte le notizie e i reportage sugli scontri e i

media filo-governativi incolparono gli hindu e i comunisti di fomentare i disordini.

Il 27 Aprile la All-Party Central Language Action Committe tenne un ciclo di seminari nel quale i

delegati chiedevano il rilascio dei prigionieri politici, l’abbandono delle restrizioni militari sulle

libertà civili e l’adozione della lingua bengali come lingua ufficiale dell’East Pakistan.

Molti politici pakistani alimentarono i rancori anti-governativi dichiarando che chiunque avesse

voluto la bengali come lingua nazionale sarebbe stato considerato un «nemico della nazione».

1.2. Instaurazione del regime militare di Ayub Khan (1958-1969)

Il regime militare di Ayub Khan fu creato dopo un colpo di stato nell’Ottobre del 1958. Fu l’apice

di una lunga impasse politica e di un periodo di grandi disordini sociali in East Pakistan culminati

con l’assassinio di un deputato in un’assemblea provinciale e con il ferimento di due ministri negli

scontri tra membri dell’opposizione e polizia.

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L’assenza di una coesa leadership nazionale e di consenso sulle norme costituzionali rese il sistema

politico soggetto a inferenze da parte del potere militare e amministrativo nei processi decisionali,

condannando perciò lo stato all’instabilità.

L’effettiva presa di potere dei militari avvenne su invito del Presidente Iskander Mirza il 7 Ottobre

1958. Mirza dichiarò che la Costituzione conteneva compromessi e cavilli pericolosi per la coesione

del Pakistan e che, per rettificarla, il paese doveva essere riportato alla ragionevolezza attraverso

una rivoluzione pacifica. Poi attuò il suo progetto di “rivoluzione pacifica” abrogando la

Costituzione, destituendo i governi centrale e provinciali, sciogliendo il Parlamento nazionale e le

Assemblee provinciali e abolendo tutti i partiti politici. Impose la legge marziale e nominò

Mohammed Ayub Khan Chief Martial Law Administrator (Amministratore Capo della Legge

Marziale), il quale dichiarò che il golpe aveva come obiettivo quello di preservare la nazione dalla

disintegrazione e di proteggere il popolo dalle incontrollabili macchinazioni dei politici disonesti.

Il nuovo regime era stato definito temporaneo e attivo fino al raggiungimento di due principali

obiettivi:

• Eliminare l’inefficienza della pubblica amministrazione, ogni forma di corruzione,

accumulazioni indebite di denaro, contrabbando e attività di mercato nero;

• Varare riforme costituzionali per creare le condizioni per la stabilità politica e proporre

modernizzazioni legislative a lungo termine;

Un altro obiettivo definito chiave da parte del regime era quello di impegnarsi per coinvolgere

maggiormente l’East Pakistan nella vita politica e amministrativa dello stato e per diminuire le

disparità tra le due parti del paese.

1.3. Disuguaglianze tra East e West Pakistan nella rappresentanza e

nell’economia

Un altro motivo di insoddisfazione da parte del popolo bengalese verso la politica del Pakistan era

la forte discrepanza nelle percentuali di rappresentanza politica, amministrativa e militare dei

bangladeshi rispetto ai cittadini west-pakistani. Considerando che il numero degli east-pakistani era

nettamente superiore a quello degli abitanti della zona ovest del paese e che la rappresentanza

doveva essere proporzionale al numero di cittadini delle due parti del Pakistan, le evidenze

dimostravano il totale fallimento di uno degli obiettivi definiti chiave dal regime.

Per poter constatare la gravità del problema, facciamo qualche esempio. Negli anni ’60, dei 741

impiegati statali di alto livello, solo 51 erano bengalesi e nessuno di loro ricopriva il rango di

segretario; dei 133 segretari di deputati, solo 10 erano bengalesi. Per quanto riguarda l’ambito

militare, nel 1955 c’era solo 1 brigadiere bengalese, 1 colonnello, e 2 luogotenenti tra 308 soldati

che ricoprivano le suddette cariche; nel 1963 solo il 5% degli ufficiali e il 7% degli altri corpi

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dell’esercito pakistano erano bengalesi. E lo stesso discorso si può fare per la marina (20%), per

l’aeronautica(15%) e per i corpi di polizia.

A livello economico, durante il regime di Ayub Khan si assistette ad una discreta crescita

economica in East Pakistan, ma relativamente a quella del West, le disparità erano ancora evidenti.

L’opinione pubblica bangladeshi percepiva un profondo sfruttamento economico da parte del

governo centrale, in quanto l’ammontare degli investimenti nella parte più popolosa dello stato era

insufficiente se confrontato con il volume di risorse e materie prime provenienti dallo stesso East

Pakistan. La parte est dello stato riforniva il mercato interno di cotone e juta, oltre che di riso e altri

cereali, in quantità nettamente superiori rispetto a quelle che l’arido e prevalentemente montuoso

territorio del West Pakistan poteva offrire. Questo senso di frustrazione nell’ambito sia economico

che della rappresentanza era il risultato di un forte sentimento di alienazione dei bangladeshi, che

percepivano la loro regione come una sorta di “colonia” del West Pakistan.

1.4. Il Partito Awami e il Movimento dei 6 Punti

Il clima di malcontento popolare e la forte sfiducia verso la politica pakistana del popolo bengalese

venne subito percepito dal maggior partito in East Pakistan, l’Awami League, fondato nel 1949 da

Maulana Bhashani e Huseyn Shaheed Suhrawardy. Il partito, nato come opposizione ideologica e

politica alla Muslim League, si fece da subito portavoce delle istanze di democrazia e secolarismo

dei bangladeshi. Dopo la morte di Suhrawardy nel 1963, la leadership del partito Awami passò a

Sheikh Mujibur Rahman, popolarmente noto come Mujib e denominato Amico del Bengala -

Bangabandhu-, il quale era stato rilasciato due anni prima dopo esser stato incarcerato nel 1958 dal

dittatore militare Ayub Khan perché sospettato di progettare attentati e disordini contro il regime.

Dopo il suo rilascio, fondò un’associazione clandestina, la Free Bangla Revolutionary Council -

Swadhin Bangal Biplobi Parishad-, al fine di sovvertire la dittatura e restaurare una libera

democrazia in un Bangladesh indipendente, e per questo motivo venne di nuovo arrestato nel 1962.

Una volta divenuto nel 1963 capo del Partito Awami, poté subito constatare la gravità del

discontento e della frustrazione del suo popolo e si mobilitò per ottenere giustizia sui fatti del 1952

e sui morti del Movimento per la Lingua Bengali.

Nel 1966 proclamò il suo manifesto politico e il suo piano in sei punti per il raggiungimento della

democrazia e della giustizia sociale in East Pakistan, in un documento chiamato “La nostra carta di

sopravvivenza” e presentato in una conferenza di partiti d’opposizione a Lahore, dando vita al

Movimento dei 6 Punti. Offriamo una sintetica panoramica di questi sei punti, che rappresentano

l’essenza della lotta per la libertà dei bangladeshi:

1. La nascita di una Federazione del Pakistan con un sistema di governo parlamentare, la

cui supremazia andrà ad una legislatura composta da membri direttamente eletti sulla

base della popolazione e con suffragio universale;

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2. Il governo federale avrà giurisdizione solo sulla Difesa e gli Affari Esteri. Le altre

materie saranno sfera d’influenza delle singole unità federate;

3. Sarà costituito un sistema bancario federale centrale per vigilare sugli spostamenti di

denaro da una regione all’altra e garantirne un’equa distribuzione nel territorio, insieme

alla fondazione di due diverse valute convertibili tra loro secondo valori definiti dalla

banca federale centrale;

4. Il sistema di tassazione e l’investimento delle entrate dovranno essere gestiti da ogni

unità federata. Lo stato centrale avrà diritto a provvigioni stabilite per rispondere alle sue

esigenze;

5. Ogni unità federata ha il diritto di amministrare gli introiti provenienti dal cambio valuta

estero e ha il potere di negoziare il commercio estero e i tassi di cambio valuta. I prodotti

destinati al mercato interno saranno trasferiti da una regione all’altra senza l’obbligo di

pagamento di alcun dazio;

6. L’East Pakistan dovrà avere una propria militia o distinte forze paramilitari.

Questi punti furono l’espressione delle richieste di democrazia e di riconoscimento della distinta

identità socio-culturale dei cittadini dell’East Pakistan. Il Partito Awami fece propri questi valori

che furono a fondamento della propria attività politica di resistenza.

Entro un anno dall’enunciazione dei sei punti, cinque partiti di opposizione con base in East

Pakistan formarono una coalizione, la Pakistan Democratic Alliance.

Proclamarono un programma nel quale si chiedeva:

• La creazione di una forma parlamentare di governo basta sul suffragio universale;

• La fondazione di un sistema federale che avrebbe dato più potere alle singole regioni e avrebbe

garantito la parità di rappresentanza nei servizi civili e militari;

• La rimozione delle disparità economiche e sociali entro dieci anni.

La reazione del governo pakistano alle istanze presentate dal Partito Awami fu durissima.

Nel 1966, Sheikh Mujibur Rahman, insieme a tre connazionali membri del servizio civile e 24

giovani sottoufficiali bengalesi delle forze armate, venne arrestato e processato per un presunto

complotto con l’India, progettato in incontri clandestini avvenuti nella città di Agartala al fine di

organizzare la secessione dell’East Pakistan. Questo evento divenne noto come “Cospirazione di

Agartala” ed è emblematico per comprendere la convinzione del West Pakistan secondo la quale

dietro le richieste di parità di diritti e di riconoscimento dell’identità bangladeshi ci fosse

l’ingerenza dell’India con l’obiettivo nascosto di minare l’unità del Pakistan per indebolirlo

politicamente.

Tuttavia Ayub Khan dovette confrontarsi con varie contestazioni e radicali tumulti popolari sia nel

West che nell’East Pakistan che esprimevano principalmente la volontà di un ritorno alla

democrazia guidata da una classe dirigente direttamente eletta.

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Per contenere le manifestazioni di pubblico dissenso, Ayub fu costretto ad annunciare il suo ritiro

dalla candidatura alle elezioni presidenziali indette per il 1970 e ad accettare di liberare i prigionieri

politici. Perciò annullò le accuse mosse contro Sheikh Mujibur Rahman e i suoi presunti

collaboratori nella congiura, allo scopo di permettere la partecipazione di Mujib alla All-Parties

Round Table Conference fissata per il 1969. Molti leader di partiti con base anche in West Pakistan

si erano infatti rifiutati di prender parte alla conferenza per negoziare la nuova bozza costituzionale

e le liste elettorali nel caso in cui il leader del Partito Awami non avrebbe potuto parteciparvi.

Pur avendo concesso la presenza di Mujib alla conferenza, il dittatore Ayub non prese affatto in

considerazione l’idea di dividere il Pakistan nelle sue unità provinciali costituenti e non concesse la

decentralizzazione federale, due delle proposte avanzate nei 6 Punti del Partito Awami. Questo

provocò il fallimento della All-Parties Round Table Conference.

1.5. Il passaggio di potere a Yahya Khan e la preparazione alle elezioni del ‘70

In un clima di forte dissenso a livello politico e popolare e di estreme manifestazioni di protesta

nelle due parti del paese, Ayub iniziò a trattare con i vertici militari per «riportare il paese sulla retta

via». Il comandante dell’esercito, il Gen. Agha Mohammed Yahya Khan, consigliò ad Ayub di

estendere la legge marziale a tutto il paese allo scopo di poter dare all’esercito pieni poteri di

intervento in ogni parte della nazione, per poter ristabilire l’ordine pubblico e sedare ogni tipo di

rivolta. Il 25 Marzo 1969 Ayub ordinò il passaggio di potere a Yahya Khan, che divenne capo di

stato oltre che comandante delle forze armate, e l’immediata estensione della legge marziale a tutto

il paese. La creazione del nuovo regime militare era stata giustificata come la necessaria istituzione

atta a presiedere alle negoziazioni per stilare un nuovo ordine costituzionale, alla fine del quale i

militari si sarebbero preparati alle dimissioni e al trasferimento di potere alla legislatura

democraticamente eletta. Gli obiettivi del regime di transizione di Yahya erano basati su tre

principi:

• La rimozione dall’agenda per la creazione dell’ordine costituzionale di tutte le materie

politiche e legislative che nel passato avevano causato dissenso e discordanze di opinioni;

• Il rispetto della natura islamica e unitaria dello stato, pur garantendo il dibattito su istanze

laiche e secolari;

• Il mantenimento della legge marziale fino al momento in cui l’Assemblea Costituente

avrebbe proposto un modello costituzionale da far approvare alla giunta militare da lui

presieduta, la quale aveva quindi la massima autorità sul processo costituzionale.

Yahya Khan presiedette alle discussioni politiche per delineare un nuovo governo costituzionale e

incoraggiò le trattative tra i maggiori partiti nazionali per evitare l’impasse che nel 1958 portò al

colpo di stato. Il dibattito politico era incentrato sulla struttura del futuro governo e sui diversi

livelli di autorità da garantire ad ogni sua componente. La maggior parte dei leader politici e degli

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ufficiali nel governo ad interim concordavano su un modello parlamentare di stampo anglosassone,

basato su un sistema con un presidente a capo dello stato, un primo ministro con poteri effettivi e un

gabinetto composto da membri direttamente eletti dal popolo e appartenenti all’Assemblea

Nazionale, responsabili del potere legislativo. C’era ampio consenso sulla creazione di un sistema

federale decentralizzato, seppure nel rispetto del principio di integrità statale. Molti rappresentanti

dei partiti erano favorevoli alla suddivisione del West Pakistan nelle sue province costituenti, ad

ognuna delle quali sarebbe stato assegnato un collegio elettorale e qualche leader avanzò la

proposta di effettuare una simile suddivisione elettorale anche in East Pakistan. Infine erano tutti

concordi nel concedere il suffragio universale basato sulla distribuzione territoriale dei cittadini e

nella natura islamica dello stato, anche se sono da segnalare le opposizioni di alcuni membri laici di

partiti con base in East Pakistan.

L’assemblea politica comunicò le proprie conclusioni al regime e Yahya nominò una commissione

per delineare le linee guida sulle quali condurre la campagna elettorale e le direttive legali per la

formazione della nuova costituzione. La commissione rese pubblico l’esito del dibattimento e

promulgò la prima stesura della bozza costituzionale nel Novembre del 1969. Yahya indisse la

chiamata alle urne per le elezioni generali sia nazionali che provinciali, da tenersi a Ottobre del

1970.

1.6. Le elezioni del ‘70, il ciclone Bhola e l’inasprirsi del pubblico dissenso

Tra la fine di Ottobre e l’inizio di Novembre del 1970, il terribile ciclone Bhola devastò gran parte

dei territori dell’East Pakistan e causò la proroga delle elezioni a Dicembre. L'uragano fu uno delle

più distruttive catastrofi naturali mai registrate, provocando circa 500˙000 vittime e spazzando via

gran parte delle aree coltivate e dei villaggi costieri; ciò provocò l'aggravamento della già precaria

situazione economica di questa regione.

La giunta militare di Yahya Khan venne accusata di non aver saputo affrontare tempestivamente

l'emergenza, avendo fornito aiuti insufficienti e disorganizzati alla popolazione colpita dalla

calamità naturale. Undici politici di partiti con base in East Pakistan rilasciarono una dichiarazione

ad una settimana dal disastro, accusando il governo di «grave negligenza, insensibile indifferenza e

assoluta noncuranza». Il leader politico Maulana Bhashani annunciò uno sciopero di massa per il 24

Novembre e chiese pubblicamente le dimissioni del presidente Yahya Khan.

La percezione di essere stati abbandonati dal governo pakistano in un tale momento di crisi,

accentuò i sentimenti di sfiducia e di discredito dei bangladeshi e portò a più radicali contestazioni

popolari e movimenti di rivolta anti-regime. Il Partito Awami fece proprio il senso di totale

frustrazione del popolo bangladeshi e basò la sua campagna elettorale sull'estrema indifferenza del

governo pakistano verso le esigenze dei cittadini dell'East Pakistan.

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In un così teso clima sociale il paese si preparava alle elezioni e i temi della campagna elettorale dei

partiti in lizza furono molto diversi tra East e West Pakistan. Ogni tentativo di creare alleanze

politiche fu vanificato dai diversi interessi dei partiti, dato che il dibattito era intriso di regionalismi

e lotte di potere.

In East Pakistan le dichiarazioni del Partito Awami e di altri partiti affini erano incentrate sulla

ricerca di strumenti per risolvere le divergenze socio-economiche e politiche tra le due parti del

paese e su forti richieste di decentramento amministrativo e,in alcuni casi, di vera e propria

secessione della loro regione dal Pakistan. La maggioranza dei politici bangladeshi concordava sui

principi che sottostavano al programma dei 6 Punti del Partito Awami.

In West Pakistan, il campanilismo che contrapponeva le province costituenti rese vana ogni

iniziativa volta alla creazione di coalizioni tra i partiti musulmani, facendo apparire il panorama

politico come una miriade di piccole fazioni che, pur condividendo molti valori, erano soggette a

contrasti su materie regionali ed identitarie.

Il risultato delle elezioni del 7 Dicembre 1970 fu talmente sensazionale da essere imprevedibile per

i 24 partiti partecipanti. Le elezioni mutarono radicalmente lo scenario politico del paese e crearono

le condizioni per una radicale presa di coscienza dell'identità bangladeshi, la quale era stata

legittimata dalla volontà popolare ma, come vedremo, non dalla dirigenza politica pakistana.

Numero di seggi vinti (% di voto)

Partito Awami

Partito Popolare Pakistano

Altri

partiti

Partiti

indipendenti

TOTALE Seggi vinti

Affluenza al voto (%)

TOTALE Voti validi (Milioni)

East Pakistan 160 (75%)

0 (0%)

1 (22%)

1 (3%)

162

56

16.5

West Pakistan:

- Punjab

0 (0%)

62 (42%)

15 (45%)

5 (12%)

82

66

10.9

- Sind

0 (0%)

18 (45%)

6 (44%)

3 (11%)

27

58

3.1

- North West Frontier

0 (0%)

1 (14%)

17 (80%)

7 (6%)

25

47

1.4

- Baluchistan

0 (1%)

0 (2%)

4 (91%)

0 (7%)

4

39

0.4

TOTALE West-Pakistan

0

81

42

15

138

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13

TOTALE (% voto nazionale)

160 (38%)

81 (20%)

43 (35%)

16 (7%)

300

59

32.3

Fonti: Craig Baxter, “Pakistan Votes – 1970”, Asian Survey (197218) , Marzo 1971;

G.W. Choudhury, The Last Days of United Pakistan, Bloomington: Indiana University Press, 1974, p.129.

Nota:Le percentuali sono maggiori di 100 a causa dell'arrotondamento.

Gli stessi leader del Partito Awami si sbalordirono di fronte al risultato elettorale. Grazie alla

schiacciante vittoria, l'ipotesi pre-elettorale di dover cercare di formare una coalizione per poter

governare venne smentita perché le percentuali di vantaggio sugli altri partiti permettevano

all'Awami League di poter formare da soli un esecutivo.

In West Pakistan la sorpresa fu ancora maggiore, pur considerando il fatto che il grado di successo

del Partito Popolare Pakistano era di gran lunga inferiore a quello ottenuto in East Pakistan dal

Partito Awami. Come fece notare un rappresentante del maggior partito west-pakistano, il numero

di seggi conquistato dal Partito Popolare Pakistano era «di gran lunga superiore rispetto alle più

rosee aspettative di Bhutto[leader del PPP].».

Una fondamentale conseguenza del voto popolare fu il radicale mutamento nella composizione del

panorama politico nazionale. La vecchia dirigenza politica fu sbaragliata da candidati vincitori che,

per la maggior parte, erano alla loro prima esperienza governativa. In particolare, nessuno dei neo-

eletti membri dell'Assemblea Nazionale aveva mai preso parte ad alcuna arena politica pan-

pakistana, fatta eccezione per pochi membri prestigiosi eletti nella parte ovest del paese.

Le elezioni rivelarono un sistema politico erede di una tradizione partitica regionalistica, quindi uno

scenario profondamente frammentario. Come nel passato, venne alla luce che l'interesse dei partiti

era rivolto ad una sola delle due parti del paese e che eventuali alleanze pan-pakistane erano in

contraddizione con i valori e le ideologie propugnate dalle singole parti. Questa provincializzazione

della politica rimarcò la problematicità della presenza di identità in antitesi tra loro e sottolineò il

carattere artificioso e fittizio della tanto declamata unità pakistana.

1.7. L'ultimo tentativo di negoziazione politica tra il palesarsi delle strategie

dei partiti

L'esito delle elezioni del 1970 mutò il ruolo che i vari partiti avevano previsto nelle negoziazioni

per il trasferimento di potere. Coloro i quali credevano di poter avere un ruolo determinante nelle

trattative per la formazione del nuovo governo democratico, si ritrovarono confinati in posizioni

secondarie. Il clima politico era poco incline ad un dialogo sereno e costruttivo tra le parti, dato che

i vari personaggi erano impegnati a rivalutare le strategie atte a raggiungere i propri obiettivi,

facendo sì che venisse stilata una costituzione che avrebbe garantito loro il soddisfacimento dei

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propri disegni politici.

In un tale contesto, i due partiti di maggioranza, l'Awami League e il Pakistan's People Party, videro

accresciute le proprie aspettative e si prepararono a concretizzare i loro programmi elettorali.

Fin da subito, Sheikh Mujibur Rahman annunciò pubblicamente l'intenzione della Lega Awami di

esercitare a pieno il potere di primo partito nazionale per vagliare una costituzione forgiata sui

principi contenuti nel programma dei 6 Punti, pur garantendo una certa elasticità che venisse

incontro alle diverse esigenze dei partiti con base in West Pakistan. Infatti, nella parte ovest del

paese, il programma dei 6 Punti era stato accolto con diffidenza e, in alcuni casi, con profondo

sdegno, in quanto era parso fazioso e platealmente rivolto al solo East Pakistan, e perciò era

considerato un affronto all'unità nazionale. Pertanto Mujib si trovò costretto a dichiarare varie volte

che il suo era il partito di maggioranza dell'intero Pakistan e che nel dibattito costituzionale avrebbe

cercato il consenso dei partiti della parte ovest del paese.

L'interesse del Partito Popolare Pakistano di Zulfikar Ali Bhutto era incentrato sulla spartizione del

potere all'interno del nuovo governo. Consapevole della schiacciante quota di maggioranza ottenuta

dal Partito Awami, Bhutto decise che non avrebbe permesso la partecipazione dei membri del suo

partito all'Assemblea Nazionale a meno che non venisse garantito al Pakistan's People Party il ruolo

di secondo partito maggioritario. Egli riteneva che ciò gli spettasse di diritto, in quanto si

considerava l'artefice del processo di restaurazione dell'ordine democratico e si proponeva come il

legittimo “erede al trono”, dopo la fine della reggenza militare. Perciò le sue azioni furono dettate

da un'impellente brama di potere. Addirittura un consulente di Yahya confidò al dittatore militare

che se Bhutto non avesse potuto assumere il potere entro un anno sarebbe letteralmente impazzito.

Tra la giunta militare c'era un consenso relativamente ampio sul trasferimento del potere ad una

legislatura democratica, mentre invece dai più venivano sollevati interrogativi sulle modalità di tale

passaggio. In particolare, i dubbi dei militari concernevano le garanzie che il nuovo governo

democratico avrebbe dovuto assicurare alla giunta e il grado di autonomia e di autorità che l'esercito

avrebbe mantenuto nel nuovo ordine costituzionale. Ciò che rassicurava il regime era il fatto che le

leggi in vigore imponevano alla politica di dover presentare ogni esito del dibattito costituzionale al

Presidente Yahya, a cui era riservata la definitiva approvazione.

L'Amministratore Capo della Legge Marziale Yahya Khan si impegnò affinché i leader del Partito

Awami e del Partito Popolare Pakistano si incontrassero per negoziare i termini del trasferimento di

potere e il nuovo assetto costituzionale. Perciò mandò un emissario a Dhaka, il quale comunicò a

Mujib l'invito del Presidente a Rawalpindi per iniziare ad intavolare le trattative con Bhutto; la

stessa richiesta venne rivolta al leader del PPP. Inaspettatamente, Sheikh Mujibur Rahman declinò

l'invito a Rawalpindi e fece comunicare a Yahya che il luogo più consono per ogni trattativa era

l'Assemblea Nazionale e rimarcò il bisogno di una sua convocazione immediata, proponendo la fine

di Gennaio come data di inizio delle discussioni e Dhaka come sede. Al contrario, Bhutto diede la

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sua disponibilità ad un incontro con Mujib, da tenersi però in West Pakistan e non si pronunciò

affatto sulla necessità di un'immediata convocazione dell'Assemblea Nazionale.

La strategia di opposizione al Partito Awami di Bhutto si concretizzò attraverso una critica pubblica

al programma dei 6 punti, quale illegittima richiesta avanzata da un singolo partito che aveva

pretesa di rappresentare le esigenze dell'intera nazione. Per questo sottolineò la necessità di una

partecipazione attiva del Partito Popolare Pakistano alla costruzione del nuovo esecutivo, rifiutando

totalmente di sedersi all'opposizione. In un discorso tenuto a Hyderabad il 24 Dicembre 1970,

Bhutto dichiarò che il PPP era « l'unico rappresentante del popolo del West Pakistan, come il Partito

Awami in East Pakistan, e quindi non può essere privato della compartecipazione all'esercizio del

potere nel governo.».

Le autorità militari non avevano ancora definito una data per la convocazione dell'Assemblea

Nazionale, anche se Yahya aveva dichiarato che avrebbe riunito l'Assemblea «il prima possibile» e

aveva espresso la volontà che i vari partiti potessero giungere ad un accordo prima della

convocazione dell'Assemblea, approfittando del lasso di tempo tra le elezioni e la prima sessione di

incontri parlamentari.

Il 10 Gennaio, Yahya comunicò che sarebbe andato a Dhaka per parlare con Mujib. Gli incontri tra

il Presidente e il leader del Partito Awami furono incentrati sull'essenza dei 6 Punti e sulla

composizione del nuovo governo civile. Sheikh Mujibur Rahman puntualizzò ulteriormente la

necessità di un'immediata convocazione dell'Assemblea Nazionale ed esortò Yahya ad intervenire

in tal senso, facendogli notare che il mancato annuncio di una data per la prima sessione

dell'Assemblea stava portando il popolo bangladeshi a dubitare dell'affidabilità e della sincerità

delle promesse del regime.

Il 17 Gennaio Yahya visitò la tenuta della famiglia di Bhutto a Larkana per incontri principalmente

privati tra i due, durante i quali il leader del PPP fece notare al Presidente il suo forte disappunto per

l'aver nominato Mujib Primo Ministro senza aver prima consultato i rappresentanti degli altri partiti.

Yahya obiettò che non era stato lui ad investire Mujib della carica di Primo Ministro, ma il suo

elettorato e, ricordando a Bhutto la fragilità del suo partito, intimò al leader di scendere a

compromessi con Mujib per poter avere una parte nel governo. Infatti il Partito Awami aveva i

numeri per poter formare autonomamente un esecutivo, mentre il PPP di Bhutto doveva

assolutamente creare un governo di coalizione, altrimenti sarebbe stato confinato all'opposizione.

Bhutto rispose che la ricerca di un consenso sulla composizione del governo andava conclusa prima

della convocazione dell'Assemblea Nazionale e che per trovare un accordo con Mujib su tali

materie aveva bisogno di tempo. Il ragionamento di Bhutto andava perfettamente a genio con la

volontà di temporeggiare espressa dalla giunta militare, la quale aveva bisogno di sondare la

situazione per poter valutare al meglio le richieste che l'esercito avrebbe avanzato al nuovo governo.

Infine Bhutto propose di verificare la fedeltà allo stato di Mujib, osservando la sua reazione di

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fronte all'annuncio della posposizione dell'Assemblea Nazionale. Se Sheikh Mujibur Rahman era un

«vero pakistano», un uomo di cui «ci si poteva fidare veramente», avrebbe compreso i motivi del

ritardo nella convocazione e avrebbe cercato di giungere ad un compromesso con Bhutto; in caso

contrario, era da considerarsi un traditore e un secessionista che non aveva realmente a cuore

l'integrità del Pakistan.

La successiva mossa di Bhutto fu di comunicare al Partito Awami la disponibilità del Partito

Popolare Pakistano di venire a Dhaka per discutere con Mujib riguardo i 6 punti e il trasferimento di

potere a fine Gennaio. Gli incontri si svolsero su due livelli: da un lato le rispettive delegazioni di

politici dibatterono riguardo i motivi del sotto-sviluppo dell'East Pakistan e dall'altro Mujib e

Bhutto si affrontarono personalmente. In ambedue i livelli,le posizioni, le argomentazioni e gli

interessi erano contrastanti e questo aumentò il senso di diffidenza e sospetto che l'uno provava per

l'altro partito. Mujib era profondamente infastidito dall'arroganza e dalla prepotenza di Bhutto,

dietro la quale non c'era una costruttiva opposizione al programma dei 6 punti, che rimaneva l'unico

programma nell'agenda costituzionale, dato che il PPP non aveva proposto una concreta alternativa.

Bhutto, invece, capì che la sua immagine del Partito Awami, desideroso di scendere a qualsiasi

compromesso con il PPP sulla composizione del governo pur di vedere accettati i 6 Punti, era

totalmente infondata. La sua strategia quindi, doveva essere volta a rappresentare Mujib come il

leader di un partito regionale e, di contro, il suo partito come l'unico portavoce dell'intera nazione e

questo doveva essere vero sia per l'opinione pubblica che per gli atri partiti del West Pakistan.

Finalmente, il 13 Febbraio Yahya annunciò la convocazione dell'Assemblea Nazionale per il 3

Marzo 1971.

1.8. La posposizione dell'Assemblea Nazionale come ultima prevaricazione:

l'antefatto del conflitto armato

All’inizio di Febbraio, il Presidente fece invitare Mujib e altri leader del Partito Awami a

Rawalpindi per continuare le trattative. Alcune autorità governative consigliarono a Mujib di

accettare l’invito perché una sua visita nel West Pakistan avrebbe aumentato la visibilità nazionale

del Partito Awami e avrebbe fugato i dubbi, avanzati da Bhutto, di partigianeria del partito.

Tuttavia, Mujib declinò l’invito e Yahya gli fece recapitare un telegramma contenente il suo

disappunto per la mancata visita di Mujib e l’avvertimento che se il leader bengalese non fosse

andato dal Presidente il prima possibile, avrebbe dovuto assumersi tutta le responsabilità che ne

sarebbero conseguite.

In alcuni incontri con rappresentanti di partiti del West Pakistan avvenuti a fine Febbraio, Mujib

palesò le sue preoccupazioni riguardo le reali intenzioni di Yahya sulla convocazione

dell’Assemblea Nazionale, ritenendo che il Presidente non aveva alcuna intenzione di comunicare

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una data certa per l’inizio dei lavori parlamentari e che non voleva accettare il trasferimento di

potere al Partito Awami. Supponeva che Yahya, Bhutto e alcuni generali dell’esercito fossero in

combutta tra loro per impedire il convenzionale iter democratico e, a sostegno di tale ipotesi,

suggerì alcune prove: l’indugio sulla determinazione di una data certa per la convocazione

dell’Assemblea, l’insistenza sul raggiungimento di un accordo tra le parti politiche preventivo al

dibattito nella sua sede opportuna, il tentativo di Bhutto di creare una coalizione in West Pakistan

con l’obiettivo di porre il Partito Awami in una posizione minoritaria e il suggerimento di scendere

a compromessi con le diverse istanze portate da Bhutto.

Bhutto intanto perseguiva nella sua strategia di allargare il consenso del PPP attraverso una

coalizione con gli altri partiti in West Pakistan per opporre al Partito Awami una fazione compatta.

Dopo il fallimento di questo obiettivo, Bhutto dichiarò pubblicamente di non voler prender parte

alla prima sessione dell’Assemblea Nazionale, fissata per il 3 Marzo a Dhaka, a meno che le sue

proposte non fossero state vagliate nel dibattito costituzionale. La sua strategia di ostracismo

proseguì con l’asserzione che il Partito Awami era poco incline al dialogo con il PPP e con la giunta

militare, dato che aveva sempre rifiutato gli inviti in West Pakistan, mentre sia lui che Yahya erano

andati a Dhaka. Concluse affermando che un incontro dell’Assemblea nazionale a Dhaka sarebbe

stato un «mattatoio».

Il 18 Febbraio Yahya convocò Bhutto a Rawalpindi per un incontro confidenziale, al termine del

quale il leader del PPP comunicò alla stampa che la responsabilità della crisi non era né sua né del

Presidente, in quanto egli aveva fatto tutto il possibile per raggiungere un accordo con il Partito

Awami e per mantenere un clima sereno e disponibile.

In un’assemblea del Partito Popolare Pakistano del 20 Febbraio, Bhutto ottenne il consenso unitario

del suo partito riguardo al rifiuto di partecipare alla prima sessione dell’Assemblea Nazionale. Per

concretizzare questa decisione, fece emendare da Yahya un articolo del decreto presidenziale, il

Legal Framework Order, nel quale era previsto il diritto di ogni membro dell’Assemblea di

abbandonare il posto assegnatogli prima della convocazione della sessione di apertura. Ciò

confermò i timori, avanzati dal Partito Awami, di collusioni tra il PPP di Bhutto e la reggenza

militare.

1.9. La prorompente reazione popolare al rinvio dell’Assemblea Nazionale e

la pianificazione dell’intervento militare

La giunta militare temeva che la convocazione dell’Assemblea Nazionale a Dhaka avrebbe potuto

diminuire il prestigio dell’esercito e provocare la perdita del controllo sulla popolazione. Yahya

intendeva ribadire la propria autorità perché riteneva che il popolo, in particolare l’etnia

bangladeshi, aveva cominciato a metterla in dubbio.

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Perciò il Presidente organizzò un incontro con i vertici militari e amministrativi per il 22 Febbraio

per discutere della crisi delle negoziazioni. Sentenziò che il fallimento delle trattative era da

additare all’atteggiamento «rigido e intransigente» tenuto dal Partito Awami sul programma dei 6

Punti. Su queste basi, la convocazione dell’Assemblea Nazionale venne considerata inutile e

improduttiva, perché non incline ad un sereno confronto tra le parti.

Dopo questo primo incontro, al quale avevano preso parte anche amministratori bangladeshi, Yahya

ritenne opportuno convocare alcuni ufficiali – i generali Hamid, Peerzada e Yaqub e l’ammiraglio

Ahsan – in separata sede. Ivi comunicò ai presenti la sua intenzione di posporre l’Assemblea

Nazionale per permettere alle parti politiche di ritornare ad un sereno clima di discussione.

L’ammiraglio Ahsan avvertì il Presidente che una tale decisione avrebbe scatenato le ire del popolo

dell’East Pakistan e che la reazione popolare in quella regione sarebbe stata incontenibile. Coloro i

quali non detenevano una posizione amministrativa nella parte est del paese giudicarono il punto di

vista di Ahsan quantomeno allarmista. Yahya perciò rimase sulle sue posizioni e ordinò la

disposizione di una più severa censura nella stampa nazionale e l’imposizione di una legge marziale

maggiormente rigorosa in East Pakistan. Concluse dicendo di voler annunciare pubblicamente la

posposizione il 1 Marzo e ordinò ad Ahsan di comunicare queste disposizioni a Mujib con un

giorno d’anticipo. Una delegazione insistette nel far notare al Presidente che la scelta di rafforzare

la legge marziale per contenere la reazione del popolo non era una saggia decisione. Oltre a

fomentare il pubblico dissenso, ciò avrebbe potuto comportare l’ammutinamento delle componenti

bengalesi delle forze armate, rendendo più complesso il previsto intervento militare e facendo

precipitare il paese in una situazione di guerra civile. Inoltre, una volta intrapresa l’opzione militare,

ritornare alla dialettica politica sarebbe stato impossibile.

Il 28 Febbraio, Ahsan comunicò le decisioni del Presidente a Mujib, il quale chiese di far dichiarare

a Yahya, nel suo pubblico annuncio del giorno dopo, di proporre una nuova data per la

convocazione dell’Assemblea. In caso contrario, Mujib non avrebbe potuto garantire il controllo

della reazione popolare. Ahsan, insieme ai generali Yaqub e Farman Ali, cercò la sera stessa di

mettersi in contatto con il Presidente, ma con scarsi risultati. Perciò mandò un telegramma a

Karachi dove supplicava il Presidente di non rimandare l’Assemblea sine die, perché «altrimenti,

avremmo raggiunto il punto di non-ritorno». Quella stessa sera, Ahsan ricevette in risposta un

telegramma che lo informava di essere stato sollevato dal suo incarico di governatore dell’East

Pakistan e sostituito dal generale Yaqub.

Il giorno successivo, dopo il pubblico annuncio di Yahya, la reazione popolare fu estremamente

dura. Il popolo non era preparato ad un annuncio del genere e comprese subito che tale decisione

era stata presa perché la giunta militare non aveva alcuna intenzione di consegnare il governo del

paese ad un partito bangladeshi. La gente si riversò immediatamente per le strade di Dhaka e le

unità delle forze armate presenti in East Pakistan non riuscirono – e forse la componente bengalese

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non volle- contenere le rivolte. La situazione sfociò rapidamente nella più totale anarchia, con

manifestazioni di protesta che esprimevano l’angoscia e il profondo rancore che i bangladeshi

provavano nei confronti del regime. L’autorità centrale dell’East Pakistan perse velocemente il

controllo del paese e l’Awami League assunse il potere, legittimamente assegnato loro dalle

elezioni.

Mujib reagì lo stesso giorno attraverso una conferenza stampa, tenuta presso l’hotel Purbani di

Dhaka, nella quale dichiarò di essere pronto a qualsiasi sacrificio necessario all’emancipazione del

suo popolo. Ribadì che la posposizione dell’Assemblea Nazionale era l’ennesimo tentativo di

prevaricazione del governo sui bangladeshi e che rappresentava perfettamente la cospirazione della

giunta militare e del PPP contro la legislatura democratica che il popolo aveva scelto di far condurre

dal Partito Awami. Il giorno dopo, in un’assemblea organizzata a Dhaka dagli studenti universitari,

Mujib delineò le future azioni del partito. Innanzitutto indisse per il 3 Marzo un hartal, vale a dire

un movimento non-violento di non-cooperazione, unito ad uno sciopero di massa, da effettuarsi in

tutto l’East Pakistan e a tutti i livelli: doveva colpire tutti le sedi governative, gli esercizi

commerciali, i servizi come tutti i trasporti pubblici e le comunicazioni, oltre che tutte le attività

industriali. Il 3 Marzo, quindi, giorno in cui era prevista la prima sessione dell’Assemblea

Nazionale, venne dichiarato un “giorno di lutto”. Lo sciopero di massa fu un inaspettato successo,

oltre ogni previsione.

Gli ufficiali militari non avevano previsto una reazione così radicale a est del paese, ma erano

comunque preparati ad un intervento militare per ristabilire l’ordine pubblico. Tuttavia

l’amministratore capo della legge marziale in East Pakistan, il generale Yaqub presentò le sue

dimissioni per l’impossibilità di mantenere saldo il governo del paese e di conseguenza,il

coprifuoco fu sospeso e la maggior parte delle truppe fu costretta a tornare nelle caserme in attesa di

nuovi ordini.

In questa difficile situazione, Yahya cercò di reintavolare le trattative politiche, ma incontrò il

rifiuto sia di Bhutto che di Mujib. Dichiarò allora che la sua decisione di rimandare l’Assemblea era

stata «completamente fraintesa» e annunciò come nuova data per la sessione inaugurale il 25

Marzo, chiedendo alle parti di risolvere l’impasse politica che aveva portato il paese nel caos totale.

Il 7 Marzo Mujib tenne uno storico discorso in uno pubblico raduno al Ramna Race Course di

Dhaka. Dichiarò che non avrebbe partecipato all’Assemblea Nazionale del 25 Marzo se la giunta

militare non avesse accolto queste richieste: l’abrogazione della legge marziale; lo stazionamento

delle truppe all’interno delle caserme; la conduzione di un’inchiesta sugli scontri con la polizia e gli

assassinii da essi compiuti e, infine, l’immediato trasferimento di potere ai rappresentanti

democraticamente eletti. Continuò affermando che «il confronto politico sarebbe stato presto

sostituito da quello militare, se la maggioranza non decidesse di sottomettersi ai dettati della

minoranza». Concluse con queste celeberrime parole: «se la cricca al potere cercherà di ostacolare

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queste aspirazioni, il popolo è pronto per una lunga e prolungata lotta per l’emancipazione. Ci

impegniamo a guidare questa lotta per far raggiungere infine alla nostra gente i suoi ambiziosi

obiettivi di libertà per i quali così tanti martiri hanno versato il loro sangue e compiuto il supremo

sacrificio delle loro vite. Il sangue di questi martiri non sarà stato versato invano.»

In un ultimo tentativo di risolvere politicamente la situazione, Yahya e alcuni ufficiali militari

giunsero a Dhaka il 15 Marzo per trattare con Mujib. Inizialmente i due riuscirono a scendere a patti

su tre delle quattro richieste avanzate dal leader del Partito Awami; sulla richiesta di un immediato

trasferimento di potere, Yahya comunicò a Mujib che una tale evenienza andava negoziata. Fu su

questo punto che si arenarono le trattative. Nei giorni successivi Yahya e Mujib furono raggiunti a

Dhaka prima da un equipe di costituzionalisti e poi da Bhutto e altri rappresentanti del PPP.

Entrambi i gruppi sostenevano che un immediato trasferimento di potere fosse fuori discussione e

che l’abrogazione della legge marziale prima della convocazione dell’Assemblea Nazionale avrebbe

comportato un vuoto di potere. Bhutto in particolare espresse la sua preoccupazione al riguardo,

sottolineando il fatto che in un tale vuoto di potere, le tendenze secessioniste dell’East Pakistan si

sarebbero concretizzate, portando ad una divisione del paese. Inoltre, le istanze federaliste

contenute nel programma dei 6 punti e lungamente discusse nei vari incontri di quei giorni a Dhaka,

si sarebbero potute realizzare in assenza della legge marziale e dell’autorità di Yahya, nel caso in

cui il trasferimento di potere fosse diventato effettivo.

L’arenamento delle trattative si fece palese il 22 Marzo, in un incontro faccia a faccia tra Yahya,

Mujib e Bhutto, durante il quale era evidente il forte senso di fraintendimento e di sospetto tra i

partecipanti.

Il giorno successivo, il 23 Marzo – Giorno dell’Indipendenza o Giorno della Resistenza- le trattative

proseguirono, mentre la popolazione aveva completamente perso la fiducia in qualsiasi eventuale

esito positivo della negoziazione. Fu una giornata ricca di manifestazioni, cortei e parate nelle quali

studenti e civili, spesso in formazione militare, chiedevano a gran voce l’indipendenza da ottenere

con la resistenza armata, agitando bandiere del Bangladesh e scandendo cori, come “Joi

Bangla”(=”Vittoria al Bangladesh”) e intonando canti patriottici, come “Amar Shonar Bangla”(=”Il

mio Bengala dorato”) di Rabindranath Tagore, che divenne poi l’inno nazionale.

Quando la delegazione del Partito Awami arrivò davanti alla villa del Presidente portando con sé la

bandiera del Bangladesh, i militari considerarono questo atto come l’estremo affronto all’unità

nazionale.

Le trattative raggiunsero il definitivo punto morto quando un membro del Partito Awami propose il

nome Confederazione del Pakistan, invece che Federazione o Unione del Pakistan. L’equipe

governativa considerava una confederazione come un accordo tra diversi stati sovrani, ognuno dei

quali con una propria giurisdizione e legislatura. Per questo una tale proposta era del tutto

inaccettabile e rendeva lampante l’idea che il Partito Awami fosse interessato unicamente

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all’indipendenza.

Intanto Yahya, in concomitanza con lo svolgimento delle trattative, si incontrò con i generali Tikka

Khan- da poco nominato nuovo Amministratore Capo della Legge Marziale in East Pakistan- e Rao

Farman Ali Khan per delineare le fasi dell’intervento militare, atto a ristabilire l’ordine pubblico e il

controllo sull’East Pakistan. Venne data la priorità a questi obiettivi:

• I membri del Partito Awami andavano considerati traditori della nazione e ribelli;

• Le unità delle forze armate e i corpi di polizia in East Pakistan dovevano essere disarmati;

• I maggiori rappresentanti del Partito Awami, le associazioni studentesche a loro affiliate e i

simpatizzanti dovevano essere arrestati.

Dopo questo e altri vertici tra il Presidente e alcuni ufficiali militari, fu presa la definitiva decisione

di intervenire militarmente e venne pianificata a tale scopo l’Operazione Searchlight, che si

prefiggeva l’obiettivo di sedare le rivolte popolari e neutralizzare il Partito Awami e ogni

potenziale opposizione politica e sociale al regime. Inizialmente considerata un’operazione-lampo,

comportò invece un’inaspettata reazione da parte dei bangladeshi e sfociò quindi nella Guerra di

Liberazione, dalla quale risultò l’indipendenza del Bangladesh il 16 Dicembre del 1971, dopo nove

logoranti mesi di guerra e dopo l’intervento militare dell’India.

2. La Guerra di Liberazione del Bangladesh

(26 Marzo - 16 Dicembre1971)

2.1. L’operazione Searchlight, la dichiarazione di Indipendenza e le prime fasi

della guerra

L’azione militare venne giustificata dal Presidente come la necessaria risposta all’arroganza e

all’intransigenza dimostrata dal Partito Awami durante le trattative. In un discorso tenuto a Karachi,

il Presidente dichiarò che l’intera responsabilità del conflitto era riconducibile alle azioni di Mujib e

perciò mise al bando il suo partito. Di conseguenza, nella notte tra il 25 e il 26 Marzo, Sheikh

Mujibur Rahman venne raggiunto dai militari in casa propria e arrestato con l’accusa di alto

tradimento.

Le prime fasi dell’Operazione Searchlight si concentrarono sull’arresto di membri del Partito

Awami e di attivisti politici, molti dei quali tuttavia erano già andati in esilio volontario in India. La

città di Dhaka venne occupata, venne imposto un severo coprifuoco e tutte le comunicazioni

vennero interrotte. Per evitare ogni possibile diffusione di notizie, tutti i giornalisti stranieri vennero

condotti al confine ed estradati nei loro paesi d’origine e molti giornalisti bangladeshi vennero

minacciati, arrestati o addirittura assassinati. Nella prima notte di occupazione la città di Dhaka

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venne messa a ferro e fuoco e si stima che 7000 persone siano state uccise. I primi a morire furono

alcuni giovani che stavano alzando barricate nella zona dell’Università. I dormitori universitari, tra i

quali il tristemente famoso Jagannath Hall, infatti, furono tra i primi obiettivi dei militari e vennero

subito occupati e scrupolosamente perquisiti. Gli studenti vennero colti nel sonno e molti di loro

vennero assassinati seduta stante; molte studentesse dovettero subire un trattamento peggiore,

perché vennero sistematicamente violentate, anche da più soldati contemporaneamente. Per questo

alcune tra loro preferirono il suicidio ad un tale oltraggio alla loro dignità femminile. Oltre alla zona

universitaria, venne attaccato anche il quartiere residenziale hindu di Dhaka e si stima che lì circa

700 residenti hindu abbiano perso la vita in quella notte.

Un altro obiettivo chiave dell’operazione fu quello di disarmare tutte le unità delle forze armate con

base in East Pakistan. Già da Febbraio, alcuni generali avevano espresso i loro dubbi sulla fedeltà

dei militari bangladeshi, in particolare gli East Pakistan Rifles. Infatti l’esercito pakistano incontrò

la feroce resistenza delle unità bengalesi e riuscì a disarmarne solo una piccola parte. Molti militari

riuscirono ad uccidere i propri comandanti pakistani e a fuggire in zone nascoste al confine con

l’India, dove organizzarono la resistenza armata e divennero i personaggi chiave nell’addestramento

dell’esercito volontario dei Mukti Bahini (= Combattenti per la libertà).

Il Partito Awami organizzò segretamente la fuga della maggior parte dei propri membri in India,

dove cercarono l’appoggio del governo indiano e successivamente formarono il governo

provvisorio del Bangladesh in esilio guidato da Tajuddin Ahmed (17 Aprile 1971-Mujibnagar

Government).

Le offensive militari pianificate nell'Operazione Searchlight non si limitarono alla città di Dhaka,

dato che le maggiori città dell'East Pakistan- Chittagong, Khulna, Comilla, Jessore, Rajshahi, Sylhet

e altre- vennero attaccate e occupate simultaneamente con modalità simili. Questa cruciale fase

dell'operazione terminò con la resa delle suddette città verso la metà di Maggio.

Il 26 Marzo venne diffuso via radio un discorso tenuto da Mujib poco prima dell’arresto, nel quale

il leader proclamava l’Indipendenza del Bangladesh con queste parole:

«Questo potrebbe essere il mio ultimo messaggio; da oggi il Bangladesh è uno stato indipendente.

Esorto il popolo del Bangladesh dovunque siate e con qualsiasi [arma] abbiate, a resistere contro

l’esercito di occupazione fino alla fine. La nostra lotta dovrà continuare finchè l’ultimo soldato

dell’esercito di occupazione pakistano non venga espulso dalla terra del Bangladesh. La vittoria

finale sarà nostra.»

Molte radio vennero occupate da ribelli bengalesi e altre vennero fondate con mezzi di fortuna.

Tra queste la più famosa e diffusa fu la Swadhin Bangla Betar Kendro, nata il 26 Marzo grazie

all’attività di dieci giovani bangladeshi che la inaugurarono con un trasmettitore da 10KW. Fu

presso questa stazione radio che la sera del 27 Marzo il maggiore Ziaur Rahman, diffuse il suo

messaggio di indipendenza alla nazione a nome di Mujib, che cito:

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«Io, maggiore Ziaur Rahman, sotto la direzione di Sheikh Mujibur Rahman, con la presente

dichiaro che è stata fondata la Repubblica Popolare del Bangladesh. Seguendo le sue direttive, ho

preso il comando come Capo di Stato provvisorio. Nel nome di S. M. Rahman, esorto tutti i

bengalesi a ribellarsi contro l’attacco dell’esercito west-pakistano. Dobbiamo lottare fino alla fine

per liberare la nostra Patria. Grazie ad Allah, la vittoria è nostra. Joi Bangla (=vittoria al

Bangladesh)».

Dopo l'occupazione delle principali città dell'East Pakistan, lo scioglimento del partito Awami e

l'arresto di molti suoi membri, l'arresto o l'assassinio sistematico di studenti, civili, professionisti e

intellettuali, la giunta militare pakistana considerava conclusa l'operazione. Si riteneva che avendo

preso il controllo delle città e delle comunicazioni e avendo privato il popolo bangladeshi dei propri

leader politici, la popolazione terrorizzata non sarebbe riuscita ad organizzare alcuna resistenza.

Ma al contrario, furono proprio le offensive militari e le atrocità da loro commesse che portarono i

bangladeshi a pianificare la resistenza, la quale inizialmente era formata da civili disarmati,

disorganizzati e scarsamente coordinati. A metà Aprile, l'ex-generale dell'esercito pakistano M. A.

G. Osmani assunse il comando delle truppe bengalesi ribelli, provenienti principalmente dagli East

Bengal Regiments e dagli East Pakistan Rifles che insieme formarono l'esercito regolare chiamato

Niomita Bahini.

Le forze armate bengalesi nel complesso erano quindi composte da militari ammutinati, ex-

poliziotti, forze paramilitari e comuni cittadini. La componente civile dell'esercito, formata da

studenti, contadini e lavoratori, cominciò a collaborare con l'esercito regolare e ad essere addestrata

e armata dai militari bangladeshi. Insieme formarono i Mukti Bahini (=Combattenti per la libertà),

anche se in un primo tempo era comune il termine Mukti Fauj (=Brigate per la libertà), soprattutto

tra i gruppi paramilitari studenteschi.

L'esercito di liberazione operò principalmente attraverso azioni di guerrilla, atte a destabilizzare il

nemico e a neutralizzare le sue postazioni e caratterizzate dalla presenza di pochi uomini esperti

conoscitori del terreno di guerra e coadiuvati dalla popolazione locale, che forniva loro riparo,

rifornimenti e nascondigli. Queste azioni di sabotaggio venivano pianificate in vari campi di

addestramento che sorsero durante i primi mesi di guerra in zone isolate lungo il confine con l'India,

dove i militari ammutinati preparavano i civili alle azioni di guerra e fornivano loro armi ed

equipaggiamento. Anche se ancora in forma non ufficiale, molte fonti riportano che l'esercito

indiano contribuì in questa prima fase attraverso la fornitura di armi e l'invio di soldati indiani sotto

copertura per assistere i militari bangladeshi nelle azioni di reclutamento e di addestramento.

2.2. Il genocidio selettivo e la questione dei profughi

Fin dall'inizio dell'offensiva militare pakistana nella notte del 25 Marzo 1971, l'esercito di

occupazione eseguì sistematiche azioni di violenza contro la popolazione bangladeshi. Allo scopo

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di neutralizzare le componenti della società considerate pericolose, come politici dell'Awami

League, studenti e intellettuali, l'esercito intervenne senza alcuna pietà e commise atrocità tali che

oggi la maggior parte degli storici è concorde nel definire questi eventi come parte di uno dei

genocidi più cruenti del 20° secolo.

Le violenze si manifestarono in varie forme e furono rivolte a varie componenti della società e

avevano come obiettivo primario quello di terrorizzare la popolazione per sedare qualsiasi tentativo

di resistenza.

I dormitori universitari come quello di Dhaka furono presi subito di mira e moltissimi studenti

vennero massacrati e fucilati senza alcun indugio. Questo perché si voleva evitare la formazione di

gruppi studenteschi antagonisti e perché ogni studente maschio poteva diventare un potenziale

guerrigliero.

Gli intellettuali e l'intellighenzia bangladeshi furono bersaglio delle rappresaglie dell'esercito con

l'obiettivo di decimare l'élite culturale e politico-economica bengalese. In questo caso alcuni storici

usano il neologismo “éliticidio” o pulizia intellettuale per esprimere il sistematico tentativo di

eliminare la parte di una società che è essenziale per il suo sviluppo culturale e politico e cioè

insegnanti, ingegneri, dottori, intellettuali, giornalisti, avvocati e professionisti acculturati.

Altro infame fenomeno furono le atrocità commesse contro le donne. Questo genocidio di genere si

concretizzò attraverso stupri di gruppo, sevizie e sequestri di donne a fini sessuali. Infatti furono

migliaia i cosiddetti “figli della guerra” nati da donne stuprate da soldati pakistani e molte

testimonianze riportano di ragazze che venivano prelevate nelle loro case o nei dormitori

universitari e tenute segregate come oggetti sessuali a disposizione delle truppe delle caserme.

Molte donne morirono per le ferite riportate durante le violenze sessuali oppure si suicidarono per

evitare un tale trattamento. Altre riportarono turbe psichiche e squilibri mentali che segnarono

irrimediabilmente le loro vite. Per evitare ogni possibile atto di ghettizzazione o di discriminazione

da parte dei concittadini, subito dopo la guerra la propaganda del neo-nato stato del Bangladesh

cominciò a definire le donne violentate o ingravidate dal nemico come birangona (=eroine), anche

se esistono dubbi sull'effettiva utilità di tale definizione al fine di alleviare le loro sofferenze.

Un altro triste capitolo nel quadro generale delle atrocità durante la guerra è quello delle violenze su

base religiosa contro gli hindu. La propaganda pakistana ancor prima dell'inizio della guerra

continuava a definire i bangladeshi come un popolo influenzato dalla cultura e dalla religiosità

indiane. Gli hindu dell'East Pakistan divennero allora i capri espiatori perfetti e, in quanto

considerati come i veri responsabili della guerra civile, subirono il trattamento peggiore da parte

dell'esercito. Quando i soldati eseguivano un rastrellamento in un villaggio, erano guidati da un

forte razzismo anti-bengalese e anti-hindu e intendevano effettuare una definitiva pulizia etnico-

religiosa nei loro confronti, credendo così di restaurare il Pakistan unito. Il prof. R.J. Rummel,

emerito politologo e studioso di genocidi, riporta uno dei metodi più inumani per scovare gli hindu

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durante un rastrellamento: gli uomini catturati venivano obbligati a denudarsi di fronte ai soldati, i

quali verificavano se essi fossero circoncisi; in caso contrario, venivano fucilati all'istante. Egli

conferma inoltre che i bangladeshi erano spesso paragonati a scimmie o galline e che gli hindu tra i

bengalesi erano come gli ebrei per i nazisti.

La maggior parte delle vittime degli assassinii compiuti dall'esercito veniva seppellita in fosse

comuni per tentare di celare al mondo l'enorme numero di morti e l'entità del genocidio. Dal periodo

immediatamente successivo alla guerra fino ai giorni nostri sono centinaia le fosse comuni ritrovate

in varie zone rurali del Bangladesh.

Tra i pochi testimoni stranieri ancora presenti nel paese e in grado di raccontare al mondo i crimini

di guerra commessi dall'esercito pakistano, va ricordato il diplomatico americano Archer Blood, che

il 6 Aprile mandò al Dipartimento di Stato Americano il famoso Blood Telegram, estremo atto di

accusa non solo delle violenze perpetrate dall'esercito, ma anche della collusione del governo Nixon

con il Pakistan e il silenzio ipocrita di fronte a tanta disumanità per meri obiettivi di alleanze

geopolitiche.

Ricordiamo infatti che gli USA rimasero fedeli alleati del Pakistan durante la guerra di liberazione

per controbilanciare il potere dell'URSS in Asia, alleata strategica proprio dell'India – queste ultime

siglarono in estate un trattato (Trattato di pace, amicizia e cooperazione indo-sovietico, 9 Agosto

1971) che si rivelerà di importanza strategica per l'aiuto militare e di fornitura di armi ai guerriglieri

e per gli equilibri geopolitici inseriti nel contesto della guerra fredda -.

L'infinita varietà di violenze costrinse un enorme numero di persone a cercare rifugio lungo il

confine con l'India, formando il più grande movimento di persone per motivi umanitari dalla

Partizione del 1947.

Il governo indiano stima che tra i 7 e gli 8 milioni di persone abbiano rischiato le proprie vite per

varcare il confine e cercare rifugio negli 829 campi profughi messi a disposizione dall'esecutivo di

Indira Gandhi. Tra questi si calcola che più del 60-70% fosse di religione hindu, intenzionati a

diventare residenti indiani e, stando così la situazione, a non rimpatriare.

Ovviamente questo afflusso continuo di gente disperata pesò enormemente sulle finanze indiane, sia

in termini di spese per la gestione dei campi, sia nel lungo termine, dato che bisognava prevedere

che molte di queste persone cercassero di ottenere la cittadinanza indiana e che quindi diventassero

categorie sociali a rischio da tutelare. L'ammontare del fondo per il welfare era insufficiente per

coprire tali spese e anche il budget per i programmi di sviluppo era minacciato da una tale priorità

umanitaria.

Inoltre la concentrazione geografica dei rifugiati era situata in zone socialmente e politicamente

problematiche, cioè il West Bengal, l'Assam e gli stati tribali del nord-est, come Tripura,

Meghalaya, Mizoram e il Nagaland. A livello sociale l'etnia bangladeshi in arrivo da oltre il confine

poteva scontrarsi con le popolazioni locali di etnia e cultura diverse -in particolare con gli adivasi- e

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a livello politico queste zone erano avverse al Partito del Congresso perché da anni erano governate

da vari partiti comunisti- in particolare il Partito Comunista-Marxista del West Bengal- e minacciate

dagli attacchi terroristi dei ribelli maoisti noti come Naxaliti. In sintesi, il problema per l'India non

era solo l'esistenza dei profughi, ma i luoghi dove essi esistevano!

2.3. L'etnia Bihari e i collaborazionisti dell'esercito pakistano

Nel clima di anarchia provocato dalla guerra, purtroppo non si assistette solo alla violenza

dell'esercito pakistano contro i bangladeshi. Infatti, in East Pakistan esisteva un nutrito gruppo

sociale composto dall'etnia Bihari, popolazione musulmana e parlante urdu proveniente dallo stato

indiano del Bihar che nel 1947 emigrò numerosa nel confinante East Pakistan. Tuttavia essi si

identificavano maggiormente con il West Pakistan, grazie alla comune lingua urdu e perciò non si

assimilarono mai del tutto con la locale etnia bengalese. Quando scoppiò la guerra, i Bihari si

schierarono con il West Pakistan dato che credevano nell'idea di Pakistan unito e divennero un

facile bersaglio per i guerriglieri bangladeshi e a volte anche per i civili che li discriminarono.

Instillarono il sospetto nella popolazione locale perché vennero descritti sommariamente come

collaborazionisti e cospirazionisti contro i bangladeshi. Pur non negando che numerose volte tali atti

di collaborazione tra Bihari e Pakistani avvennero realmente, è un fatto storico che l'intera etnia

Bihari, comprese donne, bambini e persone inermi, è stata oggetto di violenze e discriminazioni

razziali di ogni genere frutto di vendetta e rancore da parte dei Mukti Bahini e di molti cittadini.

I Bihari non furono l'unica parte della società dell'East Pakistan a schierarsi con la parte ovest del

paese durante la guerra. Ancora prima della guerra, erano molti i partiti politici o le associazioni

islamiste ed estremiste che credevano fortemente nell'ideale di un Pakistan unito dalla comune fede

musulmana. Quando queste idee vennero disilluse dalla guerra civile, questi gruppi sociali

iniziarono a collaborare con l'esercito fornendo informazioni sui propri concittadini pro-Bangladesh

o addirittura prendendo parte attivamente al conflitto. L'esercito regolare pakistano non aveva quasi

alcuna conoscenza del territorio e degli equilibri sociali della popolazione occupata quindi la

presenza sul campo di persone organiche a quella popolazione, e perciò inserite nel loro tessuto

sociale, era di fondamentale importanza nella strategia militare west-pakistana.

Tra questi gruppi spiccarono per efficienza e crudeltà i Razakar, (=[lett.] volontari), forza

paramilitare islamista composta da bengalesi pro-Pakistan e da migranti parlanti urdu che aiutarono

l'esercito pakistano nell'individuare i guerriglieri e nel garantire un continuo e dettagliato flusso di

informazioni sui loro spostamenti e sulle attività di supporto fornite dalla popolazione locale. Dopo

l'iniziale contributo di “spionaggio”, dall'ordine del generale pakistano Tikka Khan del giugno del

'71, i Razakar divennero formalmente parte dell'esercito regolare e intervennero militarmente nelle

offensive e nei rastrellamenti nelle zone più remote del paese. Per dare un'idea dell'eredità culturale

che i loro comportamenti hanno trasmesso ai bangladeshi, basti pensare che oggi in bengali la

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parola razakar, derivata dall'arabo <volontario>, significa <traditore>.

Oltre ai Razakar, ci furono altri gruppi paramilitari di collaborazionisti, composti da militanti di

partiti di estrema destra, islamisti e jihadisti tra i quali i più tristemente famosi sono gli Al-Badr -

ala militante del partito Jamat-e-Islami – e gli Al-Shams – studenti e insegnanti nelle madrasa e

fondamentalisti membri di partiti islamisti minori come la Muslim League o il Nejam-e-Islami -.

2.4. Seconda fase del conflitto (Luglio-Novembre)

Dopo l'iniziale fase di disorganizzazione, l'esercito di liberazione cominciò a diventare una realtà

sempre più organica, compatta ed efficace. Grazie anche al supporto politico fornito dal pur fragile

governo provvisorio in esilio, nato a Mujibnagar (Distretto di Meherpur, Kolkata ) ad Aprile, gli

ufficiali ribelli dell'esercito cominciarono a creare una struttura militare coordinata e organizzata

gerarchicamente. Questi sforzi culminarono a Luglio in una conferenza di vertici militari, la

Bangladesh Sector Commander Conference (11-17 Luglio), nella quale si decise di dividere il paese

in 11 settori, ognuno gestito da un comandante di settore scelto tra i migliori ufficiali disertori

dell'esercito pakistano. Al vertice delle forze di liberazione venne scelto come Comandante Capo il

generale M.A.G. Osmani. Le strategie militari venivano decise dal comandante di settore che

doveva rispondere al Comandante Capo. Per una maggiore efficienza, ogni settore venne diviso in

vari sub-settori, con a capo un sub-comandante di settore. I comandanti coordinavano anche le

attività di reclutamento e di addestramento truppe nei campi allestiti lungo il confine e dopo l'estate

cominciarono a gestire anche le neo-nate aeronautica (BAF-Bangladesh Air Force) e marina (BN-

Bangladesh Navy) militari.

Le operazioni militari, sia di guerrilla che di guerra convenzionale, divennero così più pianificate

ed efficaci. I primi importanti risultati si videro con il successo dell'Operazione Jackpot del 16

Agosto, nella quale un commando della marina, coadiuvato dai Mukti Bahini, riuscì a sabotare e a

minare una gran parte della flotta pakistana in varie città costiere, tra le quali Chittagong e

Naryaganj.

2.5. L'intervento militare indiano (I Guerra Indo-Pakistana) e la resa finale

del Pakistan

Il governo indiano guidato da Indira Gandhi, fin dalle sommosse e dagli scioperi popolari del 1970,

aveva assunto un atteggiamento molto prudente e distaccato verso gli avvenimenti nel futuro

Bangladesh, considerandoli come questioni di politica interna del Pakistan e confidando in un

accordo politico tra le parti. Il lancio dell'Operazione Searchlight e l'occupazione west-pakistana

della parte est del paese furono eventi del tutto inaspettati in India. Ovviamente tale attacco fu

aspramente criticato dai politici e dall'opinione pubblica indiana, ma tali critiche rimanevano sulla

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carta stampata o nei discorsi in parlamento, perché la strategia politica del governo rimase prudente

e circospetta. L'unico passo concreto messo in atto fu quello di offrire asilo politico ai membri del

Partito Awami scappati in esilio volontario dopo la messa al bando del loro partito e le rappresaglie

dell'esercito.

Successivamente una relativa apertura del governo indiano verso la causa bangladeshi fu il

permesso per la costituzione del governo provvisorio in esilio della autoproclamata Repubblica

popolare del Bangladesh. Tuttavia l'India non riconobbe ufficialmente la sovranità del Bangladesh

fino a Dicembre.

Altro controverso intervento indiano nei confronti dell'East Pakistan fu l'invio di soldati indiani,

facenti parte della Border Security Force, presso i campi di addestramento che vennero istallati

dalle forze di liberazione bangladeshi lungo il confine con l'India. Ufficialmente i militari indiani si

trovavano lungo il confine per svolgere attività di polizia di routine e perché avevano il compito di

controllare e mettere in sicurezza l'afflusso di rifugiati. In effetti secondo alcune fonti ufficiali

intervistate dopo la guerra e anche secondo alcuni storici, il compito principale delle forze armate

indiane non era di aiutare i guerriglieri bangladeshi, ma di controllare i confini ed evitare

un'eventuale collaborazione tra le frange più estremiste dei muktijoddha (=combattenti per la

libertà) e i terroristi Naxaliti e west-bengalesi. Ricordiamo infatti che le zone di confine dove era

attiva la resistenza anti-pakistana e dove sorsero i campi profughi, erano territori scarsamente

controllati dal partito del Congresso al governo federale, ma in mano a svariati gruppi terroristi e

indipendentisti e abitati da popolazioni tribali. La preoccupazione di Indira Gandhi era proprio la

potenziale alleanza tra bangladeshi in esilio in India e estremisti anti-Congresso al fine di

destabilizzare il potere dello stato indiano in quelle zone, già minato dallo scarso peso elettorale del

suo partito.

Qualsiasi fosse stata la motivazione indiana dietro l'invio dei propri soldati, è un fatto assodato che

essi aiutarono e finanziarono sempre più massivamente le forze di liberazione bengalese, anche se a

livello politico e diplomatico l'India si dichiarava ancora neutrale. Anche un reparto dei servizi

segreti indiani, la RAW, ebbe un ruolo cruciale nel fornire informazioni strategiche e logistica alle

forze armate bangladeshi. Certamente la sempre più gravosa questione dei profughi east-pakistani

influì nella decisione indiana di giocare un ruolo sempre più concreto nel processo di liberazione.

Il governo indiano tentò di trovare appoggio politico ed economico dai paesi confinanti e,

soprattutto, dagli alleati e parallelamente iniziò una intensiva campagna diplomatica per portare

all'attenzione degli organi internazionali le violazioni dei diritti umani in atto e la delicata situazione

in cui si trovava l'India. L'obiettivo delle missioni diplomatiche condotte in molti paesi in Europa,

Asia e in Nord America fu quello di indurre il governo pakistano ad interrompere le ostilità e di

cercare di negoziare una soluzione politica con il Partito Awami, per il bene dell'intera Asia del

Sud. In un discorso al parlamento indiano Indira Gandhi fece chiaramente intendere che se la

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comunità internazionale non avesse preso alcuna posizione,il governo indiano sarebbe stato

costretto ad intervenire direttamente per garantire la propria sicurezza e preservare tutti gli sforzi

fatti nel cammino dello sviluppo economico e sociale. Questo sforzo nell' “internazionalizzare” la

guerra, anche se nell'immediato si rivelò infruttuoso, fu fondamentale nel giustificare il successivo

intervento militare indiano e nel sensibilizzare l'opinione pubblica mondiale sulle violenze in atto.

A tal proposito accenniamo al Concert for Bangladesh, organizzato dal chitarrista e compositore dei

Beatles George Harrison su appello del maestro di sitar Ravi Shankar, tenutosi al Madison Square

Garden di New Jork il 1° e il 2 Agosto e i cui proventi andarono a favore dei profughi bangladeshi.

Il pretesto per l'ufficiale entrata in guerra dell'India a fianco dell'East Pakistan fu un attacco west-

pakistano rivolto ad alcune basi aeree indiane nella sera del 3 Dicembre, noto con il nome in codice

di Operazione Chengiz Khan. La sera stessa Indira Gandhi annunciò pubblicamente in un

messaggio radio l'inizio delle ostilità tra India e Pakistan in risposta all'attacco subito, dando il via a

quella che viene definita la guerra Indo-pakistana del 1971. Fu uno dei conflitti più brevi della

storia, se non inserito nel contesto più ampio della guerra di liberazione bangladeshi e infatti durò

solo 13 giorni.

I vertici militari indiani ordinarono un immediato dispiegamento di forze armate e attacchi

simultanei in mare, aria e terra. La superiorità numerica e tecnologica messa in campo dall'India

sbaragliò l'esercito pakistano, già stremato da mesi di conflitto, che fu costretto a mandare rinforzi

svariate volte. Sul fronte orientale venne formato un esercito regolare formato da guerriglieri

bangladeshi e soldati indiani, i Mitro Bahini(=Forze alleate).

Le forze armate pakistane, disposte in piccoli gruppi dispiegati nel territorio per difendersi dagli

attacchi di guerrilla dei muktijoddha, furono sopraffatti dalle offensive di guerra convenzionale

messe in atto dall'esercito indiano.

Quando le forze di terra indiane riuscirono ad avanzare fino alle porte di Dhaka, i militari pakistani

capitolarono e dovettero stipulare un accordo di resa noto come lo Instrument of Surrender, firmato

al Ramna Race Course di Dhaka dai luogotenenti generali indiano e pakistano J.S. Aurora e A.A.K.

Niazi il 16 Dicembre 1971. La sottoscrizione dell'accordo poneva fine alla guerra indo-pakistana e

dava vita alla nuova nazione del Bangla Desh (unito successivamente in una sola parola). In seguito

alla resa, più di 90˙000 soldati pakistani, tra cui lo stesso generale Niazi, furono fatti prigionieri e

per questo la guerra di liberazione bengalese portò al più alto numero di prigionieri di guerra dalla

Seconda Guerra Mondiale.

Dopo la fine della guerra la comunità internazionale cominciò a riconoscere ufficialmente lo stato

del Bangladesh. Il primo stato a riconoscere il Bangladesh fu ovviamente l'India il 6 Dicembre,

ancor prima della resa del Pakistan. Tuttavia non tutti i paesi del mondo furono così tempestivi. Per

comprendere la tempistica del riconoscimento internazionale, bisogna inquadrarla nel periodo della

guerra fredda. Infatti dopo l'India furono i paesi del Blocco di Varsavia a legittimare il neonato stato

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sovrano, in primis la Germania dell'Est e l'URSS con i suoi stati-satellite. Poi fu la volta dei paesi

dell'Unione Europea, anche se la Gran Bretagna ebbe dei tentennamenti, e successivamente di altri

importanti stati, quali il Giappone, l'Argentina, il Canada, l'Australia, varie nazioni africane e arabe

e la maggior parte dei paesi dell'Asia meridionale e sud-orientale. Ovviamente, in quanto alleati del

Pakistan, gli ultimi a riconoscere la Repubblica Popolare del Bangladesh furono gli Stati Uniti e la

Cina che temporeggiarono fino al 1972 (USA) e addirittura fino al 1975 (Cina).

Il giorno della resa del Pakistan la folla davanti al Ramna Race Course scandì numerosi slogan anti-

pakistani e migliaia di cittadini di Dhaka si riversarono in strada per festeggiare l'avvenuta fine delle

ostilità e la nascita della loro nuova nazione, una repubblica democratica parlamentare con Sheikh

Mujibur Rahman come primo ministro e una propria costituzione entrata in vigore il 4 Novembre

del 1972.

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31

.II.

La Storia riletta dalla letteratura

1. Panoramica sul libro “I giorni dell'amore e della guerra” di

Tahmima Anam

Dopo il necessario inquadramento storico, passiamo ad analizzare la guerra di liberazione del

Bangladesh da una prospettiva meno dettagliata e attendibile, ma sicuramente più coinvolgente e

umana, offertaci dal meraviglioso romando d'esordio della scrittrice bangladeshi T. Anam.

Innanzitutto va messo in chiaro che il titolo del libro in italiano non rende giustizia alla poliedricità

e ricchezza del romanzo, dato che risulta alquanto incline al sentimentalismo e al melodramma,

mentre invece l'originale “A golden age” esprime meglio la profondità delle tematiche trattate e

comunica un certo carattere di contraddittorietà, presente in tutto il libro, che fa sì che anche in

un'epoca di guerra e dolore si possa essere amorevoli, vitali e speranzosi nel futuro.

Il romanzo ci offre un punto di vista originale e incisivo per rileggere la guerra di liberazione: il

protagonista infatti non è un soldato, un politico o un guerrigliero, ma è una donna, Rehana, vedova

e madre di due figli, originaria del West Pakistan ma residente nel futuro Bangladesh. Quando la

guerra travolge il paese in cui vive, si ritrova coinvolta sempre più attivamente nel processo di

liberazione e, distaccandosi dalle sue origini, si riscopre appartenente al paese dei suoi figli.

Inizia tutto nel 1959, quando Rehana, rimasta vedova, si vede togliere i suoi figli dal giudice che li

affida agli zii paterni a Lahore, in West Pakistan. La determinazione e la tenacia della donna

faranno sì che lei riuscirà a riprenderli con sé e a vincere la sua personale guerra. Ma poi sarà la

vera guerra del '71 a portarle via nuovamente i suoi figli e lei comprende che non può fare altro che

lasciarli andare e fare propria la loro guerra, imparando ad amare il suo paese per amore dei suoi

figli.

Così, mentre viene a conoscenza degli scempi e delle violenze perpetrate dall'esercito di

occupazione pakistano, Rehana affronta la guerra in un modo non meno eroico di coloro che vi

partecipano: la sua è una guerra nella quotidianità, fatta di piccole cose e di problemi semplici e

concreti come trovare il cibo per sfamare i suoi figli e di ansie e paure per la loro sorte quando

l'avranno abbandonata. Ma, parallelamente alla lotta per la libertà del suo paese, Rehana inizia ad

acquisire la consapevolezza della sua libertà e si distacca dal tradizionale ruolo di vedova e madre

remissiva e succube degli altri e sente la necessità di avere un ruolo attivo nel corso degli eventi.

Dal cucire coperte per i guerriglieri, al prendersi cura di un soldato bangladeshi ferito, dal

nascondere armi nel suo giardino al visitare un campo profughi, Rehana dà il suo contributo

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concreto alla causa che era inizialmente dei suoi figli, ma che poi farà propria. In quel clima di

violenza, riesce anche a ritagliarsi i suoi spazi fatti di amore e dolcezza, attraverso l'apprensione per

la sorte dei figli e grazie all'infatuazione per il maggiore ferito a cui dà rifugio in casa sua e che

diventa un fedele confidente ed una valvola di sfogo per l'interiorità mai ascoltata di Rehana.

Inoltre la sua personale liberazione, parallela a quella del suo paese, si esprime anche attraverso il

riconoscimento del fatto che non aveva mai amato realmente suo marito Iqbal e che, dato il suo

carattere estremamente apprensivo e prudente, alla sua morte Rehana provò un misto di dolore e

gioia.

Il fatto che in una società come quella bengalese una vedova si comporti così attivamente nella

società e addirittura si innamori di un altro uomo, riuscendo anche a strappargli un romantico bacio,

è indice dell'elevato grado di anticonformismo e indipendenza della protagonista, che è incurante

dei tabù culturali riguardanti la sua condizione di vedovanza.

Altra tematica presente nella vita di Rehana è il rapporto con il suo paese d'origine che si palesa nel

suo amore per la poesia urdu che lentamente si affianca alle canzoni popolari e o alle poesie di

Tagore, autore preferito della figlia Maya. L'ambivalenza della sua posizione di erudita conoscitrice

dell'urdu diventa quasi motivo di vergogna per Rehana, che ironizza sul fatto di continuare ad

amare la poesia in quella che è diventata la lingua del nemico. Questi numerosi riferimenti all'urdu e

alla bengali rappresentano l'espressione trainante del sentimento e dell'identità nazionalista

bengalese, cioè la questione linguistica iniziata nel '52 con il movimento per la lingua bengali.

Altro appunto cruciale da fare è il commento che fa Rehana riguardo la composizione geografica

del Pakistan che le sembra assurda e irragionevole.

Infatti riflette tra sé e sé con queste parole:

|Che senso ha un paese diviso in due metà situate ai capi opposti dell'India, come un paio di corna?|

Oltre ad essere una potente ed appassionante saga familiare, il libro riesce magistralmente ad

esprimere gli orrori della guerra con una narrazione vivida, toccante ma mai sentimentalista.

Attraverso i vari personaggi dalla personalità complessa e sfaccettata, l'autrice ci offre uno spaccato

variegato del Bangladesh durante da sua lotta di liberazione.

Grazie alla sua inquilina ed amica S. Sengupta assistiamo al dramma del genocidio compiuto a

danno degli hindu bangladeshi. La famiglia Sengupta fu costretta a lasciare Shona - la casa che

Rehana aveva fatto costruire con mille sacrifici vicino casa sua per guadagnare abbastanza per

riavere l'affidamento dei figli - per fuggire alla pulizia etnico-religiosa compiuta dall'esercito. Dopo

qualche mese, Rehana ritrova la sua amica Supriya in un campo profughi in India, sconvolta e sotto

shock. Incapace di raccontare a voce l'orrore subito, riesce a scrivere su un foglio parole sconnesse

riguardo la sorte del figlioletto, parole che fanno intuire a Rehana il tragico destino a cui è andata

incontro la sua famiglia.

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Un'altra figura emblematica è Silvi, la figlia della vicina di casa di Rehana, la signora Chowdhury,

la quale, per acconsentire al desiderio della madre, si sposa con Sabeer Mustafa, un soldato

dell'esercito pakistano, poi disertore, che per questo viene catturato e torturato in carcere.

Dopo il suo arresto, la dolce Silvi subisce un cambiamento sconvolgente e diventa una fervente

musulmana bigotta e comincia ad osservare la purdah (=auto-segregazione delle donne in zone

della casa vietate agli uomini e copertura del volto con un velo) e a studiare il Corano. Questa

chiusura nella religione certamente rappresenta una ricerca di un rifugio e di consolazione a livello

personale, ma allo stesso tempo appare emblematica del potenziale indottrinamento religioso che

può essere indotto nelle persone disinteressate alla politica e alle dinamiche sociali in tali momenti

difficili e, profeticamente, rappresenta la deriva islamista che dovette subire il suo paese dopo la

liberazione.

Per amore di suo figlio Sohail, da sempre innamorato di Silvi, Rehana riesce a far scarcerare Sabeer

grazie all'intercessione di suo cognato – lo stesso che aveva avuto in affido i suoi figli – e lo trova in

condizioni disumane, tali che dopo qualche tempo viene a mancare, incarnando il triste destino

subito da migliaia di bengalesi vittime di atroci torture commesse dai pakistani.

I due personaggi paradigmatici dell'ideologia indipendentista e del sentimento nazionale

bangladeshi sono i due figli di Rehana, Sohail e Maya. Il primo è un diciannovenne molto idealista

e attivo nelle associazioni studentesche universitarie di Dhaka, dove tiene lunghi discorsi di politica.

Preso dal fervore nazionalista, imbraccia le armi con i muktijoddha e abbandona la madre e la

sorella per rifugiarsi in un campo di addestramento, da dove venivano pianificate le offensive di

guerrilla. La sua vita di clandestinità si alterna a momenti in cui riesce a tornare a casa di soppiatto

per aggiornare la famiglia sul corso degli eventi e in un secondo momento per nascondere armi e

rifornimenti sotto il roseto di Shona. Insieme a lui,partono per la guerra alcuni suoi giovani amici,

uno dei quali, Aref, perderà la vita in un agguato.

L'altra figlia di Rehana, la diciassettenne Maya è una ragazza schiva e dal carattere introverso che,

dopo la perdita della sua cara amica Sharmeen, trovata dal fratello in ospedale morta e ingravidata

dopo uno stupro, decide di prendere parte al processo di liberazione e lascia sola la madre per

andare a Calcutta, per lavorare come giornalista di un giornale partigiano e per fornire assistenza in

un campo profughi, dove successivamente porterà Rehana.

Entrambi i ragazzi rappresentano, a mio avviso, la contraddittorietà che esiste tra ideologia e

pragmatica. Nello specifico la loro visione utopistica di concetti quali rivoluzione e liberazione –

che riempivano i loro discorsi e le loro letture marxiste – entra in netto contrasto con la brutalità

della guerra e delle esperienze crude e violente da loro vissute che forgeranno il loro carattere ma

allo stesso tempo inaspriranno la loro concezione della vita.

Il cognato di Rehana, Faiz Haque e sua moglie Parveen rappresentano invece l'élite west-pakistana

convinta sostenitrice del necessario e machiavellico mantenimento dell'unità del paese, anche al

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costo di tante vite umane. Faiz, fratello di Iqbal, l'ex-marito di Rehana, fa l'avvocato ed ha molte

conoscenze tra la classe dirigente west-pakistana. Quando Rehana viene invitata a pranzo nella loro

lussuosa casa per chiedere aiuto a Faiz per far rilasciare il soldato Sabeer, i due coniugi sciorinano

la peggior propaganda del governo pakistano, parlando dei guerriglieri come dei terroristi, dei

giovani allo sbando, del partito Awami al libro paga dell'India e di come l'esercito pakistano non

stia compiendo crimini di guerra efferatissimi, ma stia semplicemente riportando l'ordine nel paese

e preservando l''unita del Pakistan. Non risparmiano neanche critiche agli hindu, quando, parlando

della signora Sengupta che aveva dovuto lasciare l'appartamento di Rehana, li definiscono come dei

parassiti della società che non si sono mai voluti integrare e perciò meritano di fuggire in India. Non

fanno il benché minimo accenno ad alcun sopruso compiuto dal loro esercito e inneggiano al

Pakistan, scandendo frasi come | Pakistan zindabad!! | (=Lunga vita al Pakistan!!).

A livello simbolico il loro ruolo di antagonisti è accresciuto dal fatto che Rehana nutrirà per sempre

un inconscio rancore nei loro confronti perché Faiz e Parveen le hanno portato via i figli piccoli nel

1959.

2. La guerra di liberazione vissuta dai personaggi del romanzo di

Tahmima Anam

Mettendo da parte la costruzione narrativa e il profilo dei personaggi, il romanzo è ricco di

riferimenti diretti a fatti storici e, inoltre, spesso dalle parole dei protagonisti si evincono ideologie o

convinzioni che rispecchiano la cultura del tempo e l'immaginario collettivo rispetto a tematiche

fondamentali di quel tempo, come ad esempio le discriminazioni razziste contro gli hindu o la

scarsa considerazione che in Pakistan si aveva della lingua bengali.

Infatti bisogna dare atto all'autrice del lavoro preparatorio da lei compiuto per scrivere l'opera.

Durante i suoi studi di dottorato, T. Anam si è recata molte volte nel suo natale Bangladesh, dove ha

compiuto numerose ricerche storiche sul campo e ha intervistato svariate persone coinvolte a vario

titolo nei drammatici eventi del 1971.

Inoltre, “I giorni dell'amore e della guerra” è anche frutto dei racconti delle esperienze che i

familiari dell'autrice fecero durante la guerra. Ad esempio, la protagonista Rehana è stata

tratteggiata su ispirazione di sua nonna, che le ha spesso raccontato le sue personali vicissitudini e

gli eventi della Muktijuddho. L'episodio del libro in cui Rehana permette ai guerriglieri di

nascondere armi nel suo giardino è ispirato ad una simile iniziativa presa da sua nonna.

Andiamo a vedere nel dettaglio gli eventi storici citati nel romanzo - rimandando al primo capitolo

storico per un loro approfondimento - e il clima culturale dell'epoca, espresso dalle parole dei

protagonisti.

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2.1. Avvenimenti precedenti l'inizio del conflitto

Già nel Prologo, ambientato nel 1959, la descrizione del clima di instabilità sociale che si viveva in

East Pakistan è affidata alle parole del cognato della protagonista, Faiz che, per giustificare al

giudice il desiderio di avere in affidamento i nipoti dice:

| ” Qui non è più sicuro vostro onore […].

Con la legge marziale, gli scioperi, la gente che manifesta per strada...non è sicuro.

E' per questo che mia moglie e io vogliamo portare i bambini a Lahore.” |

(Pag.15)

La cruciale questione linguistica, sfociata nel Movimento per la Lingua Bengalese del 1952, oltre

ad essere presente nella figura di Rehana - che parla l'urdu del nemico - , è accennata attraverso le

parole di Marzia, la sua sorella residente a Karachi, che le muove questa critica:

| ”Il tuo urdu non è più quello di una volta; deve essere tutto quel bengali che parli.”.

L'aveva pronunciato bungali.. |

E poi continua, esprimendo con l'efficace immagine della servitù domestica, la sua concezione

razzista dell'etnia bangladeshi:

| E quando si era riferita ai suoi domestici, aveva detto:”Sì, siamo molto fortunati, abbiamo

due bungali; Rokeya, ne ha solo uno, ma non basta, sai, le case laggiù sono molto grandi” |

(Pag. 31)

Altro evento fondamentale è la posposizione dell'Assemblea Nazionale dopo la vittoria dellAwami

League alle elezioni del 1970, fatto storico che colpì duramente l'opinione pubblica bangladeshi.

Infatti viene evocato numerose volte nel primo capitolo del libro, da quando Rehana parla alla

tomba del marito al cimitero:

| L'ultima volta che sono stata qui ti ho parlato delle elezioni. Ora stiamo aspettando che Mujib

assuma la carica di primo ministro. Le cose stanno andando per le lunghe. |

(Pag. 32)

al discorso a casa di Rehana tra Sohail, il signor Sengupta, il soldato Sabeer e gli altri commensali

della festa, che attraverso gli argomenti di Sohail mostra il forte risentimento bengalese:

| ”Sono passati due mesi da quando Mujib ha vinto le elezioni. A quest'ora avrebbero

già dovuto convocare l'assemblea nazionale e nominarlo primo ministro, ma continuano

a prendere tempo. Una parte degli studenti sta spingendo Mujib verso una decisione

drastica. […] Dovrebbe dichiarare l'indipendenza. […]

[rivolto a Sabeer, nda] Se conoscessi almeno un po' il paese il cui vivi, sapresti che il

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Pakistan occidentale ci sta mandando sul lastrico. Portiamo a casa la maggior parte della

valuta estera, coltiviamo il riso, fabbrichiamo la iuta e in cambio non otteniamo

niente[...]. Non possiamo neanche parlare la nostra lingua, cazzo!” |

(Pagg. 42-43)

Le parole di Sohail rivolte a Sabeer sono un'ottima sintesi dei rancori dei bangladeshi rispetto alla

posizione di sudditanza economica rispetto al “colonialista” West Pakistan e riguardo il mancato

riconoscimento della loro identità linguistica. D'altronde, in tutto il libro, la figura di Sohail

rappresenta efficacemente l'archetipo del bangladeshi indipendentista e quindi esprime in modo

risoluto le ragioni delle proteste del popolo e della successiva dichiarazione di indipendenza.

Altri accenni alla posposizione dell'Assemblea Nazionale e alle potenziali deleterie conseguenze di

questo affronto alla democrazia sono presenti in tutto il primo capitolo, al termine del quale si fa

anche riferimento allo storico discorso tenuto da Mujib il 7 Marzo 1971 al Ramna Race Course di

Dhaka.

2.2. L'operazione Searchlight

Alla notte del 25 Marzo, che con tutte le atrocità compiute su dettame dell'operazione Searchlight

diede il via all'occupazione pakistana e alla guerra di liberazione, è dedicato un intero capitolo del

romanzo, intitolato proprio con il nome dell'operazione militare.

I personaggi principali del romanzo si ritrovano a cena dalla signora Chowdhuri che vuole

festeggiare il fidanzamento della figlia con il futuro genero soldato Sabeer. I commensali sono

ignari degli spostamenti dell'esercito e dei preparativi dell'attacco che così vengono riassunti:

| […] per le strade della città stava avanzando una lenta processione di jeep e carri armati;

era partita dall'acquartieramento, aveva attraversato i binari della ferrovia ed era entrata a

Bonani, dove si era divisa in due tronconi: uno aveva percorso Elephant Road, oltrepassando

Quaid-e-Azam Avenue e raggiungendo il quartiere universitario; l'altro si era fatto strada

verso Peelkhana [quartier generale degli East Pakistan Rifles, nda], jeep verdi con uomini in

verde che sventolavano la bandiera del Pakistan, verde anch'essa, una falce che sbatteva nel

vento con il suo sorriso sghembo, inquietante.

[E poi] alle dieci in punto i carri armati cominciarono a fare fuoco. |

(Pag. 73)

Dopo una notte di esplosioni, spari, grida e sirene, Rehana e i figli riescono a tornare a casa e lì

vengono a sapere da un annuncio proveniente da un camion militare che è in atto il coprifuoco che

cesserà solo dalle 2 alle 6 del pomeriggio. L'occupazione pakistana era improvvisamente avvenuta.

Cessato il coprifuoco, Sohail e Maya si precipitano all'università e Rehana, dopo aver assistito una

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trentina di rifugiati piombati nella notte nel suo giardino in cerca di un riparo, decide di raggiungere

i suoi figli per vedere con i suoi occhi l'orrore che aveva soltanto intuito dai minacciosi rumori della

notte precedente.

La sintesi degli eventi della prima notte di guerra è affidata al racconto dei figli di Rehana, una

volta tornati a casa dal quartiere universitario:

| Prima Mujib era stato arrestato e condotto in aereo nel Pakistan occidentale. L'esercito

aveva sferrato l'attacco all'università, bombardando il dormitorio, la mensa e il centro

studentesco. Tornando verso la città vecchia, i carri armati avevano raso al suolo la distesa

di catapecchie cresciuta intorno ai binari di Phulbaria: avevano bisogno di quella linea

ferroviaria per attraversare la città, così avevano abbattuto coi fucili le capanne di cartone e

di latta[...]. E poi avevano raggiunto i quartieri hindu a bordo delle jeep perché i carri armati

erano troppo ingombranti per quelle strette viuzze. E da quelle jeep avevano aperto il fuoco

trafiggendo persiane, porte, camicie e cuori. |

(Pag. 84)

Il capitolo si conclude con la succitata citazione del discorso radiofonico nel quale il maggiore Zia

annunciò la proclamazione dell'indipendenza del Bangladesh.

2.3. Prime fasi della guerra

Con l'inizio della guerra e l'occupazione di Dhaka, Rehana è costretta ad abituarsi ai nuovi ritmi e

alla quotidianità scandita solo dal suono della sirena del coprifuoco.

Come prima conseguenza, assiste impotente alla partenza dei suoi inquilini, i Sengupta, che si

congedano con queste parole:

| ”Questa città non è più sicura per noi indù.[...] Come ben sai.” | (Pag. 92)

Successivamente cominciano a circolare in città voci sul corso degli eventi. Gli hindu scappavano

in massa, rifugiandosi chi nei villaggi nativi dell'entroterra, chi in India, l'esercito scavava fosse

comuni per nascondere i cadaveri, i prigionieri venivano torturati, l'occupazione non era limitata

alla sola Dhaka, ma i pakistani stavano attraversando il paese e mettendo molti villaggi a ferro e

fuoco e, notizia più rilevante, tantissimi giovani scappavano di casa per unirsi alla resistenza,

varcando il confine per giungere nei campi di addestramento che il maggiore Zia e le forze armate

ribelli stavano allestendo. Sono quindi queste le prime fasi della costituzione dell'esercito di

liberazione bengalese.

Dopo qualche giorno infatti, è la volta di Sohail, che comunica alla madre la sua decisione di partire

e diventare un muktijoddha dicendole, tra le altre cose,

| ”Abbiamo sentito che oltre il confine ci sono forze di resistenza. Tutti i reggimenti

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bengalesi si sono ribellati. Non hai sentito il maggiore Zia?” |

(Pag. 100)

Rehana ovviamente rimane sconvolta da questa notizia ma non può che accondiscendere alla scelta

del figlio che | vuole combattere per il suo paese. | (Pag. 102)

Dopo la partenza del figlio, le giornate di Rehana diventano sempre più monotone e le notizie delle

violenze in atto la portano ad essere ancora più preoccupata e ansiosa per le sorti della sua famiglia

e in particolare di Sohail. Decide di cercare di rendersi utile per scacciare via l'ansia, cominciando a

cucire coperte per i profughi con le sue amiche.

A maggio, Rehana e Maya ascoltano una trasmissione di Radio Free Bangladesh nella quale si parla

della crescente emergenza profughi che sta avendo luogo al confine con l'India e della decisione di

Indira Gandhi di accoglierli e dar loro asilo.

Successivamente, la casa accanto quella di Rehana, Shona, diventa rifugio per le armi, i rifornimenti

e le scorte di medicinali dei guerriglieri, diventando il secondo rischioso contributo della donna alla

causa indipendentista.

Lentamente la comunità internazionale comincia a far luce sull'entità del genocidio e, nel romanzo,

questo atto è descritto da una trasmissione radiofonica:

| Dopo che l'esplosione all'InterContinental hotel [offensiva sferrata da Sohail e la sua

squadriglia, nda] ha fatto luce sull'entità delle forze di resistenza, i giornalisti stranieri

hanno chiesto il permesso al governo pakistano di avere accesso alla linea del fronte.

Il governo pakistano nega tutte le accuse di genocidio e il presidente Yahya Khan accusa lo

sceicco Mujib e i suoi sostenitori a Calcutta [sede del governo provvisorio in esilio, nda] di

fare falsa propaganda contro il governo del Pakistan. |

(Pag. 139, corsivo in originale)

A seguito dell'attacco, i guerriglieri portano a casa di Rehana il maggiore, ferito nell'operazione, il

quale diventerà una figura cardine nella vita della donna e che l'aiuterà ad imparare ad amare il suo

paese.

Poi troviamo un piccolo riferimento alla questione dei collaborazionisti bihari, quando Sohail dice

alla madre, intenta ad andare al mercato, di stare attenta ai macellai bihari che parlano urdu perché

collaborano con l'esercito.

E' proprio dall'incontro al mercato con un macellaio parlante urdu che Rehana comincia a mettere in

dubbio il suo amore incondizionato per la sua lingua madre, quando

| si rese conto di quanto quella lingua le sembrasse improvvisamente strana: aggressiva,

insinuante. Capì che quella ora era la lingua del nemico; del nemico di Sohail e del maggiore. |

(Pag. 147)

Dopo la scoperta della morte, a seguito di uno stupro, della sua amica Sharmeen, Maya decide di

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contribuire al conflitto partendo per Calcutta, dove scriverà comunicati stampa per un giornale

indipendentista.

2.4. L'estate del '71 e il proseguimento della guerra

Gli sviluppi del conflitto vengono descritti all'inizio del capitolo “I loves you, Porgy” con queste

parole:

| Durante tutto il mese di giugno, i soldati di Tikka Khan [comandante capo dell'esercito

pakistano di stanza in East Pakistan; per la sua crudeltà nella repressione dei guerriglieri fu

definito “Macellaio del Bangladesh”, nda] avanzarono attraverso le piane assolate del

Bangladesh. Saccheggiavano le case e incendiavano i tetti.

Stupravano. Assassinavano.

Mettevano in fila gli uomini e li giustiziavano abbandonando i cadaveri negli stagni.

Praticavano forme di tortura vecchie e nuove. Erano esploratori, pionieri della crudeltà, sempre

pronti a superarsi in brutalità, sentendosi ogni giorno più vicini a Dio, perché veniva detto loro

che stavano salvando il Pakistan, l'Islam, forse persino lo stesso Onnipotente dalla deprivazione

bengalese.[...] La resistenza bengalese era debole e disorganizzata. Il generale Zia faceva

affidamento sull'entusiasmo dei soldati, ottenendo successi modesti. Un ponte saltato in aria qui,

un'imboscata contro un convoglio dell'esercito là. L'occupazione di una stazione ferroviaria. |

(Pag. 157)

Tornando allo sviluppo narrativo, dopo la partenza di Maya, Rehana rimane di nuovo sola in casa e

rivive dopo anni il senso di solitudine che aveva provato quando era stata privata dei suoi figli. Il

suo rapporto con il maggiore diventa più personale e Rehana si confida spesso con lui e finalmente

riesce a raccontargli di come era riuscita a trovare i soldi per riportare i suoi figli a casa, un segreto

che l'aveva tormentata per anni.

In un'imboscata, Aref, amico di Sohail e fratello di Joy, viene colpito dal nemico e muore. Sua

madre va a far visita a Rehana, chiedendole notizie dei figli, senza sapere della terribile sorte

toccata ad Aref e la protagonista le dice di non aver più visti i ragazzi dall'inizio della guerra, come

le aveva consigliato Sohail.

A luglio Rehana viene a scoprire che il soldato Sabeer, marito di Silvi, è stato catturato dall'esercito.

Sabeer era un ufficiale dell'esercito pakistano che dopo lo scoppio della guerra si era ammutinato e

aveva raggiunto le truppe ribelli. Sohail viene a sapere della sua cattura e lo comunica a Silvi ed

essendo ancora innamorato di lei, chiede a Rehana di chiedere a suo cognato Faiz, lealista con

amicizie molto importanti tra i vertici militari, di farlo rilasciare.

L'incontro di Rehana con Faiz e sua moglie Parveen, che nel frattempo si sono trasferiti a Dhaka per

collaborare con l'esercito, è pieno di riferimenti alla propaganda filo-pakistana. Ad esempio Faiz

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dice:

| ”Questi giovani […], questi giovani ribelli... stanno combattendo per che cosa? Una

battaglia inutile. Credi che a Mujib importi di loro? Si sta solo intascando l'assegno paga

dell'India. Il punto è che il Pakistan non dovrebbe essere diviso.” |

(Pag. 215)

Oppure, riferendosi agli ex-inquilini hindu di Rehana, i coniugi Sengupta, afferma:

| ”Lo dico sempre!Non l'ho detto un migliaio di volte, moglie?Non lo considerano il loro paese.

Al primo colpo di vento se ne vanno, partono per l'India: non si sono mai integrati in Pakistan.

E' una bella liberazione non averli più qui!Lasciamo che tornino da dove sono venuti.” |

(Pag. 216)

Dopo essere riuscita a convincere il cognato ad aiutarla, Rehana va nel luogo dove era rinchiuso

Sabeer con un ordine di rilascio e riesce a farlo scarcerare.

In una delle scene più toccanti del romanzo, Rehana si rende conto dello stato in cui hanno ridotto

Sabeer. E' stato torturato per un tempo indefinito e si trova in condizioni disumane. Incapace di

parlare e forse di intendere e volere, si siede sul ciglio della strada e accovacciato con la testa tra le

ginocchia urla e si dimena quando lei cerca di farlo salire sul risciò. Poi Rehana si accorge che i

suoi torturatori gli avevano strappato via le unghie delle dita, oltre ad avergli provocato varie

escoriazioni sulle labbra e ad avergli arrecato irrimediabili danni psicologici.

2.5. Il dramma dei campi profughi e l'evolvere della situazione verso una fine

Alla fine dell'estate, Rehana deve allontanarsi da Dhaka a causa del fatto che non era più sicuro per

lei restare dopo essersi esposta così tanto con il cognato, dopo aver dato rifugio al maggiore e dopo

aver messo Shona, la casa di fronte alla sua, a disposizione dei guerriglieri. Le viene consigliato

perciò di andare a Calcutta da sua figlia Maya e le viene organizzato un viaggio in treno lungo un

itinerario tortuoso per evitare potenziali pedinamenti.

L'evoluzione geopolitica della guerra viene appena accennata da Maya nel momento in cui incontra

la madre presso il giornale dove lavora, quando, riferendosi al trattato indo-sovietico, le dice che

| i russi hanno firmato il trattato. | (Pag. 251)

L'evento viene ripreso grazie ad un comunicato radio della BBC, di cui Rehana sente solo questi

frammenti, intervallati dalle urla di gioia dei presenti:

| BBC World Service...uno storico trattato indo-sovietico...se Indira Gandhi interviene, la

guerra verrà sicuramente vinta dal popolo del Bangladesh... |

(Pag. 252, corsivo in originale)

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Nel successivo dialogo tra madre e figlia emergono altri inquietanti risvolti delle torture inflitte a

Sabeer:

| ”L'hanno picchiato, gli hanno rotto le costole.

L'hanno costretto a guardare il sole per ore, per giorni.

Gli hanno spento le sigarette sulla schiena.

L'hanno appeso a testa in giù.

Gli hanno fatto bere acqua salata finché non gli si sono spaccate le labbra.

E gli hanno strappato le unghie. |

(Pag. 256)

Il giorno dopo, Rehana si reca con sua figlia e i suoi nuovi amici al campo profughi di Salt Lake,

vicino Calcutta. Qui Rehana deve imparare a convivere con lo squallore e lo strazio dell'ambiente in

cui molte persone disperate sono costrette a vivere dopo essere sfuggite all'oppressione della guerra.

In questa desolazione, Rehana riconosce la sua ex-inquilina, la signora Sengupta tra i degenti

dell'ospedale da campo. Il dottore le comunica che la donna è arrivata da sola e Rehana gli dice di

ricontrollare e di cercare suo marito e il figlioletto Mithun. Supriya ha le labbra nere ed è in stato

confusionale, incapace di esprimersi.

I giorni successivi Rehana passa molte ore in compagnia dell'amica, accudendola e cercando di

capire cosa le sia successo, ma senza alcun risultato. Infine, dato che Supriya non aveva ancora

aperto bocca, Rehana le porge un taccuino su cui la donna scrive frasi sconnesse come:

| Sono andata nel canneto ... Nello stagno ... |

| L'ho lasciato lì e sono corsa nello stagno ... |

| Non ho pensato a lui, sono corsa via ... |

| Gli hanno sparato. |

(Pag. 275, corsivo in originale)

Altra vittima degli orrori della guerra risulta poi essere stato Sabeer, perché su un telegramma

datato 16 Ottobre Rehana legge:

| SABEER MORTO STOP FATTO DEL NOSTRO MEGLIO STOP NON RIUSCITI A

SALVARLO STOP DIO VI BENEDICA – SIG.RA C |

(Pag. 276, stampatello in originale)

In seguito, Sohail giunge al campo per riportare a Dhaka la madre e la sorella. Tornati finalmente a

casa, Rehana va a trovare la signora Chowdhuri insieme ai figli. Qui, parlando della morte di

Sabeer, Maya e Silvi discutono animatamente riguardo le ragioni della guerra. Assistiamo al

cambiamento di Silvi, divenuta una fervente musulmana, indottrinata dalla propaganda filo-

pakistana. Infatti la ragazza, litigando con Maya, afferma,

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| come se stesse recitando un testo imparato a memoria: [...] ”Il Pakistan dovrebbe rimanere

unito. E' per questo che è stato concepito. Per tenere unita la Ummah [la comunità

musulmana,nda]. Separare queste due terre è un peccato contro la tua religione.” |

(Pag. 293)

Dopo aver dissotterrato le armi dal giardino di Shona, Sohail e i suoi compagni scompaiono nella

notte per compiere un'offensiva a Dhaka, durante la quale saboteranno il sistema elettrico della

città. Il successo dell'impresa viene confermato dal black-out avvenuto durante la notte. Rehana

viene svegliata dal maggiore che, dopo essersene andato una volta guarito, è tornato da lei solo per

poterla vedere e la bacia appassionatamente.

Infine a casa di Rehana arrivano i camion dell'esercito con l'obiettivo di perquisire Shona ed

arrestare Sohail, come traditore del Pakistan. In un estremo atto d'amore e di sacrificio, il maggiore,

preso dai soldati vicino alla casa, si spaccia per il figlio di Rehana e

| prese il destino dei figli di lei tra le mani, dando loro la vita con il suo respiro. |

(Pag. 311)

2.6. Il 16 Dicembre 1971

Il piccolo capitolo finale del romanzo è dedicato al giorno della fine della guerra. Rehana infatti si

rivolge idealmente all'ex-marito dicendo:

| Caro marito. La guerra finirà oggi. | (Pag. 315)

Più tardi Maya accenna alla festa per la firma del trattato di resa dicendo alla madre:

| Dobbiamo trovarci a Shaheed Minar [monumento per i martiri del Movimento per la lingua

bengalese del 1951, nda] per il trattato.” |

(Pag. 316)

Infatti Rehana, dopo assere uscita in strada, vede che

| Le strade erano piene di gente.[...]

Ogni volta che un aereo rombava in cielo si alzavano urla di giubilo. |

(Pag. 317)

La donna giunge in un ex-commissariato di polizia occupato dai muktijoddha dove va a trovare suo

cognato, fatto prigioniero dalle forze di liberazione, in quanto collaborazionista pakistano.

Riflettendo sulla possibilità di perdonare Faiz e di farlo rilasciare, Rehana infine decide di non

aiutarlo quando

| l'immagine di tutti loro, Joy, Aref, la signora Sengupta le si parò davanti agli occhi.[...]

ricordò l'espressione sul viso di Maya quando le avevano detto di Sharmeen. |

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(Pag. 319)

L'ultima immagine del romanzo è dedicata agli imminenti festeggiamenti per la fine della guerra

che Rehana immagina di fronte alla tomba del marito. La protagonista ripete che

| La guerra finirà oggi. Niazi [generale pakistano ultimo comandante capo del commando

di stanza in East Pakistan, nda] firmerà il trattato e io uscirò in strada. |

Infine evoca il giubilo della gente immaginando:

<Ci sarà una gran folla[...]. Agiteranno i pugni in aria; si ballerà, un uomo soffierà nel suo

flauto e una donna suonerà un dhol [strumento a percussione, tipicamente usato nella musica

tradizionale bengalese,nda] appeso alla spalla.[...]; in preda come a un'estasi d'amore per la

nostra patria, cantiamo “Quanto ti amo, mio Bengala d'oro”. |

[“Amar shonar Bangla, ami tomay bhalobashi”- canzone popolare composta da R. Tagore,

poi divenuta inno nazionale del Bangladesh, nda]

(Pag. 321)

L'evocativa immagine del Bengala offertaci dalle sublimi parole del maestro Tagore sono la degna

conclusione di quest'opera che, secondo le parole dell’autrice:

| | è quello che è solo grazie al luogo che l'ha ispirato.

E perciò al mio paese bellissimo e ammaccato, al Bangladesh,

vanno tutta la mia gratitudine e il mio amore. | |

Tahmina Anam

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44

.III.

Testimonianze dirette

Introduzione

Passiamo ora alle memorie personali di due figure coinvolte a vario titolo negli eventi del '71, che

ho intervistato durante questi mesi grazie al contributo della mia professoressa di Bengali.

In mio intento è quello di mostrare come uno stesso evento storico possa essere rappresentato in

maniera diversa a seconda del mezzo utilizzato. Quindi dopo aver analizzato i fatti storici in sé e la

versione che ne dà la letteratura, esporrò la guerra di liberazione attraverso le parole e le

testimonianze dirette di un soldato ammutinato dall'esercito pakistano, divenuto quindi un

muktijoddha e della figlia di un politico del Partito Awami, attivo durante il conflitto come

collaboratore delle forze di liberazione.

Per la visione delle interviste si rimanda ai link sottocitati, relativi ai rispettivi filmati, visionabili

sul blog personale “India e Dintorni”.

Va precisato che si tratta di conversazioni informali più che di interviste vere e proprie; questa è

stata una scelta stilistica che vuole rimarcare la centralità del personaggio e della sua storia più che

fossilizzarsi sulla mera formalità e sulla fredda professionalità.

1. Saifullah Said

http://sempreindia.blogspot.it/2011/10/conversation-with-saifullah-said-about.html

Qualche mese fa ho avuto una piacevole conversazione con il signor Saifullah Said, ex-muktijoddha

e oggi impiegato presso la FAO riguardo il suo coinvolgimento nella guerra di liberazione e le sue

opinioni sul conflitto e sull'eredità che tale evento ha lasciato nel Bangladesh di oggi.

Innanzitutto presentiamo brevemente il personaggio, fornendo necessarie e basilari informazioni

sulla sua vita.

Saifullah Said nasce il 31 Marzo 1953 nel villaggio di Islamnagar, Distretto di Thakurgaon, nel

nord-ovest dell'allora East Pakistan. Proviene da una famiglia di ceto medio; suo padre era un

insegnante e preside della scuola superiore River View di Thakurgaon, mentre la madre era figlia di

un leader musulmano locale. Suo padre si interessò di politica fin da ragazzo, quando prima della

nascita del Pakistan era un importante leader dell'ala studentesca della Muslim League.

Dopo i suoi studi, Saifullah decide di intraprendere la carriera militare, considerata un mestiere

molto prestigioso, e per raggiungere questo scopo va a studiare presso l'Accademia Militare

Pakistana (PMA) a Kakul, nella città di Abbottabad in West Pakistan.

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La guerra inizia quando Saifullah ha appena compiuto diciotto anni. Il ragazzo, tra i pochi

bangladeshi che all'epoca ricoprivano posizioni abbastanza importanti in ambito militare, prende la

decisione di disertare e di unirsi alle forze di liberazione. Perciò è costretto a scappare

dall'accademia militare per raggiungere l'India. Varca il confine passando dalla città pakistana di

Bhawalnagar, in Punjab per arrivare a Ganganagar in Rajasthan, dove incontra il primo

ambasciatore del Bangladesh il quale lo indirizza verso il generale Osmani, nominato comandante

capo delle forze armate ribelli dal governo provvisorio in esilio di Calcutta. Il capo del personale

del comandante militare, conosciuto come Shishu Bhai, invia il giovane soldato a prestare servizio

nel 7° settore, sotto il comando del tenente colonnello Qazi Nuruzzaman. Dopo aver ricevuto

l'addestramento in India, Saifullah partecipa a numerose offensive contro l'esercito pakistano e in

una di queste viene anche ferito.

Dopo la fine della guerra abbandona la carriera militare e va studiare a Londra. Anni dopo, si sposa

con Francoise, una donna francese. Da anni lavora presso la FAO ed è impegnato nel campo dello

sviluppo economico e culturale del suo paese. Ha patrocinato la costruzione di un ospedale nel suo

villaggio e ha organizzato un torneo di calcio per bambini in onore di alcuni suoi ex-commilitoni,

morti durante la guerra.

Tornando agli argomenti della nostra conversazione, un tema molto sentito da Saifullah è la

peculiare identità bangladeshi, che da un lato si riconosce nei valori musulmani pur distaccandosi

dal fondamentalismo e dalla concezione teocratica dello stato pakistano e dall'altro a livello

culturale si inserisce nella tradizione bengalese. Egli afferma che la religiosità dei bangladeshi è

molto meno bigotta e inclusiva di quella pakistana, portando come esempio la miglior condizione

femminile in Bangladesh e che l'essere musulmano per loro è un fatto privato, che non deve

necessariamente condizionare la vita pubblica del loro paese. A livello politico i bangladeshi non

consideravano minimamente l'idea di uno stato teocratico, credendo in un sistema laico e

democratico.

Inoltre nell'analizzare il sentimento nazionalista bangladeshi, Saifullah concorda nell'affermare che

il movimento per la lingua bengalese del '52 è stato fondamentale per risvegliare le coscienze del

popolo e per comprendere l'enorme grado di ingiustizie inflitte dal governo west-pakistano.

Infatti mi ha spiegato che l'imposizione della lingua urdu è stata considerata come fortemente

discriminatoria nei confronti dei bangladeshi, dato che impediva loro di fare carriera in settori

strategici dello stato, come la pubblica amministrazione o l'esercito.

La dominazione dagli echi coloniali che il West Pakistan impose sul futuro Bangladesh fu un altro

fattore cardine nell'esplosione del conflitto tra le due ali del paese. Saifullah mi ha parlato del senso

di impotenza provato dal ceto medio-borghese bangladeshi, impossibilitato a trovare sbocchi

professionali e investimenti produttivi nel proprio paese, dato che il sistema industriale dell'intero

Pakistan era dominato dalla classe capitalista west-pakistana, che se e quando costruiva industrie in

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East Pakistan manteneva il controllo economico del mercato anche se impiegava mano d'opera

locale, sfruttando il loro bisogno di occupazione e non garantendo né salari dignitosi né garanzie di

sicurezza sul lavoro.

Mi ha parlato anche della questione dei Bihari, mettendo in risalto come, nel clima di anarchia della

guerra, anche i combattenti bangladeshi hanno compiuto estremi atti di violenza contro i Bihari.

Egli pensa che questo sia un tema molto scomodo per l'opinione pubblica bangladeshi ancora oggi,

dato che si parla solo ed unicamente delle atrocità commesse dal nemico.

Abbiamo discusso anche del coinvolgimento indiano nella guerra di liberazione e delle questioni

politiche e diplomatiche che hanno portato il governo di Indira Gandhi a prendere parte al conflitto

solo dopo aver assicurato la propria sicurezza grazie all'accordo con l'URSS e dopo aver pianificato

un efficace piano d'intervento. Mi ha confermato che la questione dei profughi è stata decisiva nel

guidare l'India verso una posizione interventista.

Saifullah nutre un forte risentimento contro la propaganda del partito Awami e contro i suoi politici,

che si sono appropriati dei sentimenti nazionalisti del popolo approfittando del loro bisogno di

libertà ma che in realtà erano guidati solo dalla ricerca di successo e arricchimento personale. Infatti

egli ritiene che dopo la guerra i politici del partito abbiano disatteso gli obiettivi sbandierati nei

comizi di piazza e abbiano tradito le speranze della gente che aveva dato la vita per quegli stessi

ideali.

Con il signor Saifullah abbiamo parlato non solo della guerra in sé, ma anche dell'eredità culturale

che ha lasciato alle generazioni successive. Egli ritiene che sia molto importante far conoscere ai

giovani quello che è accaduto nel '71, ma che allo stesso tempo bisogna imparare a guardare avanti

facendo tesoro delle esperienze passate per raggiungere nuovi obiettivi, quali la diminuzione della

povertà e delle disuguaglianze sociali e lo sviluppo economico.

2. Nasrin Hasan

http://sempreindia.blogspot.it/2011/09/conversation-with-nasrin-hasan-about.html

Successivamente ho avuto l'opportunità di ascoltare una testimonianza molto interessante e più

intima di quella avuta con il signor Said, grazie all'incontro con la signora Nasrin Hasan, figlia di un

politico del partito Awami e parente di altre persone coinvolte nella guerra.

Il padre di Nasrin, Mohammad Moniruzzaman, nacque nel 1924 a Morshidabad, nell'India

coloniale. Si trasferì con la sua famiglia a Rajshahi, dove lavorava come uomo d'affari ed era un

membro di spicco del partito Awami. Dal 1968-69 era Segretario Generale del partito nella

divisione di Rajshahi e nel 1970 fu nominato Presidente della Commissione dell'Assemblea

Nazionale. Durante la guerra fu Responsabile delle Relazioni tra il partito e le forze armate

bangladeshi. Aveva rapporti con il comandante del 7° settore Qazi Nuruzzaman e supportò i

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muktijoddha sia a livello finanziario sia partecipando attivamente in alcune operazioni.

Anche suo fratello, lo zio di Nasrin, Bodiuzzaman, si unì ai guerriglieri nel 7° settore e grazie al

coraggio dimostrato, gli è stata conferita un'importante onorificenza militare ed è stato nominato Bir

Protik ( Bir =Eroe di guerra/Eroe coraggioso, Protik =Simbolo).Anche uno zio materno di Nasrin,

Mokhlesur Rahman fu un freedom fighter che combatté nel 7° settore. Alcuni suoi parenti maschi

sono stati arrestati dall'esercito pakistano durante la guerra e da allora la famiglia non ha più avuto

loro notizie.

Nasrin Hasan nel '71 aveva 10 anni e mi ha raccontato di come la sua famiglia affrontò i nove mesi

di guerra. La nostra conversazione è stata incentrata sulle figure femminili della sua famiglia, che,

una volta abbandonate dai loro uomini che si erano uniti alla resistenza, furono costrette a scappare

di villaggio in villaggio per trovare rifugio e per evitare rappresaglie dell'esercito pakistano.

La sua testimonianza è un esempio palese di quanto le donne non solo siano vittime della guerra,

ma di quanto spesso le loro esperienze siano eroiche quanto e più di quelle degli uomini che

prendono parte al conflitto. Infatti la madre di Nasrin, Bilkis Begum, nel '71, all'età di 33 anni,

aveva ben otto figli, tra cui la piccola Nasrin. Originaria del villaggio di Naogaon, nella divisione

di Rajshahi, la signora Begum fu abbandonata dal marito che, senza avergliene parlato, decise di

unirsi ai muktijoddha, lasciando la sua casa di notte. Bilkis Begum si ritrovò a doversi prendere

cura da sola dei suoi otto figli che avevano dai 18 mesi ai 14 anni. Tra loro, la piccola Nasrin,

bimba di 10 anni e un'altra sorella minorenne. La signora Begum intuì subito la pericolosità della

loro situazione, dato che le ragazzine e i giovani ragazzi erano i primi obiettivi dei militari, le

prime per fini sessuali e gli ultimi in quanto potenziali muktijoddha.

Il giorno dopo l'inizio dell'Operazione Searchlight, il 26 Marzo, Begum decise quindi di lasciare la

città di Rajshahi per proteggere i suoi figli e durante i nove mesi di guerra fu costretta a percorrere

molti chilometri a piedi per raggiungere vari villaggi in zone remote del paese per scampare alle

violenze dell'esercito, insieme ai suoi figli, alla zia e al nonno di Nasrin e a vari cugini.

Il loro peregrinare iniziò nel villaggio natale della famiglia di Begum, Naogaon, dove trovarono

rifugio presso la casa di suo padre, il nonno di Nasrin. Successivamente si spostarono a casa della

sorella della signora Begum, a Bagshara. Quando il villaggio venne bombardato, dovettero scappare

verso Krishnapur dalla cognata di Begum, viaggiando su un carro trainato da buoi. Qui a

Krishnapur, l'intero villaggio diede rifugio alla famiglia di Nasrin. La donna ricorda ancora oggi la

disponibilità e l'ospitalità di quella gente, che apriva loro le porte delle proprie case e offriva loro

cibo e beni di prima necessità. Nel villaggio erano presenti altri rifugiati oltre alla famiglia di Nasrin

e tutti loro dormivano in ogni angolo disponibile del paese e le famiglie locali condividevano con i

profughi tutto quel poco che avevano.

In seguito, per non gravare troppo sulla gente di Krishnapur, la piccola Nasrin e la sua famiglia si

diressero verso il villaggio natale dei nonni paterni di Nasrin, a Dhobiapur. Dato che era la stagione

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dei monsoni, dovettero viaggiare su una piccola barca perché tutti i terreni circostanti erano allagati.

Nasrin ricorda il lungo e faticoso viaggio, durato cinque giorni e la distruzione provocata dagli

allagamenti, che mettevano a dura prova gli abitanti dei villaggi già stremati da mesi di guerra.

La famiglia di Nasrin rimase nel villaggio dei suoi nonni paterni dal mese di Luglio fino alla fine

della guerra. Tornarono a Rajshahi intorno al 19 Dicembre quando la guerra era già finita.

Dopo la guerra non riuscirono ad avere molte notizie dal padre di Nasrin sulle sue attività durante il

conflitto, perché l'uomo non aveva molta voglia di raccontare quello che aveva vissuto e soprattutto

perché le donne della famiglia avevano molte più cose di cui parlare, visto che avevano passato

nove mesi vagando per i villaggi nelle zone più remote del paese.

La testimonianza di Nasrin è molto diversa da quella di Saifullah, principalmente per il fatto che la

signora Hasan all'epoca era ancora una bambina e quindi non ricorda molto degli eventi del '71 e anche

perché il suo è stato un racconto molto personale senza quasi alcun riferimento ad avvenimenti storici e

senza alcuna valutazione politica sulla guerra. E' stata una conversazione molto interessante perché

mostra il lato “umano” della guerra e in questo si avvicina molto al romanzo di Tahmina Anam perché

narra la muktijuddho da un punto di vista femminile e da una prospettiva basata sulla quotidianità e

sulla necessità di sopravvivere di persone comuni e inermi, ma eroiche quanto i protagonisti del

conflitto.