dentro ...l'Inferno. Il destino di una vita negata

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Abbandonata dalla madre milanese all’età di soli dodici anni, Floriana viene violentemente proiettata nella realtà ostile di un piccolo paese della Puglia, dove si trova a combattere con le proprie sensazioni, attraverso un’analisi introspettiva delle ragioni di tale abbandono.L’amnesia totale sui primi anni di vita, la spingono a ripercorrere un viaggio alla ricerca del rapporto con il padre, la madre ed il suo amante.Floriana scoprirà la sua vita pregressa in un vortice di emozioni e colpi di scena, caratterizzati da un morboso intreccio di sesso, tradimenti, inganni e violenza.Aveva solo diciotto anni quando la voglia di morire che l’aveva caratterizzata sin da piccina stava cominciando a riemergere, prepotente ed implacabile.Forse la morte sarebbe stato il vero, unico, rimedio contro tutte le sofferenze che le erano state imposte dalla vita. Ma quello era il suo destino: il destino di una vita negata.

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Giuseppe Benvestito

dentro...l’Inferno

il destino di una vita negata

WIP Edizioni

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1a edizione: novembre 2011

ISBN 978-88-8459-202-6

L’immagine di copertina, Dolore di donna © (1995),è tratta dalla collezione privata dell’autore,

su gentile concessione dell’artista Viky, sua moglie.

WIP Edizionivia L. Franchetti, 29 – 70125 Bari

tel. 080.5576003 - fax 080.5523055www.wipedizioni.it - [email protected]

È vietata la riproduzione totale o parziale del contenuto della pubblicazione senza autorizzazione dell’Autore e dell’Editore

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Ai miei figli

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Nota dell’Autore

Il 4 maggio 1983 in Italia entra in vigore la legge sul Diritto del minore ad avere una fami-glia, il cui articolo 1 sostiene: «Il minore ha di-ritto ad essere educato nell’ambito della propria famiglia».

Pochi giorni dopo nasce O.S., alla quale questo diritto è stato negato sin dalla nascita.

Il romanzo si ispira alla sua vera storia.Per evidenti ragioni di tutela della privacy del-

le persone, sono stati utilizzati nomi di fantasia, anche di alcuni luoghi.

Situazioni che possono apparire strane e incre-dibili trovano spiegazione soltanto nella mente di chi le ha realizzate.

Talune fantasie sono, invece, dovute alla mia narrazione.

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Parte Seconda

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X

Il viaggio da Milano a Bari fu sconvolgente. Ormai era stato deciso che anche Floriana sa-

rebbe entrata a far parte del nucleo familiare di origine di Angelo.

Aveva dodici anni e veniva da un periodo par-ticolarmente doloroso e travagliato.

Erano trascorsi sei anni ormai da quando Mat-teo era andato via e Floriana era stata costretta a subire il rapporto mostruoso che si era venuto a creare tra Sonia, Angelo e Savio, che ormai an-dava avanti da anni.

Sonia aveva deciso di tenersi entrambi gli uo-mini, stando bene attenta, ovviamente, a far in modo che non si incontrassero. Aveva addirittura convinto Savio a lasciare il lavoro di autotraspor-tatore, utilizzando la liquidazione per aprire una pizzeria d’asporto.

Mai nessuno si era accorto della sofferenza di quella bambina, che aveva cominciato a chiuder-si in un misterioso silenzio. Nessuno riusciva a capire che Floriana aveva la morte nel cuore, co-stretta a vivere nel mondo orribile che Sonia le aveva costruito intorno.

Eppure, bastava poco per regalarle un briciolo di felicità, seppure illusoria e di breve durata. Gli unici bei ricordi erano legati ai brevi momenti che Sonia le dedicava ogni tanto, facendole le facci-

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ne buffe che tanto la divertivano, oppure facendo insieme il gioco della bicicletta sul letto. In quei momenti sporadici il male era esorcizzato.

In quei momenti, ma solo in quelli, Floriana pensava di essere amata.

Non era la prima volta che andava in Puglia a trovare gli zii, accompagnata dal papà. Era ca-pitato altre volte che, in estate, Angelo portasse con sé Floriana ad Altamura, facendo contenta Sonia, che era ben lieta di togliersi di torno quel fardello per un po’ di tempo. E la piccola era felice di trascorrere un po’ di tempo con Angelo, colui che aveva sempre considerato suo padre.

Era ormai abituata a fare su e giù tra Milano e Bari, ma quella volta un brivido le percorse la schiena, quando Sonia la baciò senza troppo tra-sporto, per affidarla alla cure della hostess della compagnia aerea che avrebbe curato il suo tra-sferimento sino a Bari.

Era la prima volta che viaggiava da sola, e Flo-riana sentiva che la mantellina gialla che le ave-vano fatto indossare avrebbe segnato per sem-pre la sua vita.

Sarebbe stato il ricordo del suo abbandono.Il suo colore.Sonia, ignorando le lacrime di angoscia e rab-

bia che bagnavano il viso della figlia, le mentì: «Vengo a prenderti presto».

Ma sapeva che non era vero.

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Dietro quel trasferimento, che non sarebbe stato temporaneo, non c’era solo la volontà dei genitori. L’assenza di un gruppo familiare stabi-le, la vita sbandata che avevano condotto sino a quel momento aveva fatto intervenire il Tribu-nale per i Minorenni di Milano che, al fine di non pregiudicare ulteriormente lo sviluppo fisico e mentale di Floriana, aveva evitato di dichiararne l’adottabilità, ma aveva disposto che la piccola venisse affidata agli zii paterni, gli stessi presso i quali viveva anche Matteo.

L’hostess che la prese in consegna fece una smorfia di compassione quando vide le condizioni in cui viaggiava quella bambina. Aveva il gomito ingessato e i capelli sporchi e infestati dai pidocchi.

Erano queste le condizioni in cui Sonia aveva ridotto Floriana a soli dodici anni.

Non parlava con nessuno. Quella piccola bam-bina infelice sembrava essere muta. Gli occhi, di una infinita dolcezza, malcelavano una malinco-nia infinita mista a rabbia e tristezza.

Il braccio le faceva male. Ricordava la mamma che al telefono litigava

con il padre, la padella tra le sue mani, pronta per preparare la cena a Savio. Rammentava di aver pianto perché Sonia le negava il telefono e non la faceva parlare con Angelo. Le urla di Sonia e il suo pianto e, in un istante, il dolore lanci-nante al braccio per la padella che colpiva il suo

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gomito, con tutta la rabbia e la frustrazione di cui la madre era capace.

Svenne. Si risvegliò tra le braccia di Angelo che la soc-

correva e la portava al pronto soccorso. Ricordò anche le menzogne della madre che riferiva ai medici che la bambina era caduta per le scale.

Il dolore di quella menzogna l’avrebbe accom-pagnata molto più a lungo di quello fisico.

Trascorse l’intero viaggio in aereo guardando fuori dal finestrino, senza proferire parola alcuna.

Si era persa per troppo tempo.Come un black out, non ricordava nulla di

quello che aveva vissuto sino a quel momento. Si ritrovò all’improvviso tra quelle facce sconosciu-te, senza sapere chi fosse e da dove provenisse. L’ultimo ricordo vivido nella sua memoria erano Angelo e Sonia in camera da letto dopo la furiosa litigata telefonica della sera precedente.

Aveva rimosso l’inferno in cui era piombata, solo a causa dalla sua nascita.

Dopo il controllo dei documenti, l’assistente di volo affidò Floriana allo zio, che l’attendeva in aeroporto.

Provava un senso di smarrimento enorme. Si rifugiò tra le braccia dello zio Michele, senza

dire alcuna parola. Ancora una volta si sentì abbandonata. I sentimenti che provava in quel momento la

confondevano. L’unico modo che aveva per pro-

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teggersi era chiudersi sempre più in se stessa. Negli anni di convivenza tra Savio e Sonia, spes-so le accadeva di rifugiarsi in un mondo tutto suo, al quale gli adulti non potevano avere accesso.

Era il suo scudo dalla realtà.Nel breve tragitto fino ad Altamura, Floriana

non disse una parola. Suo zio le parlava con pa-role che echeggiavano nella mente, lontane, sen-za alcun significato. Sentiva che qualcosa nella voce di quell’uomo cercava di rincuorarla, come se volesse convincerla che era solo un brutto so-gno, dal quale da un momento all’altro si sarebbe risvegliata.

Ma sapeva che non era così. Aveva appena messo piede in casa degli zii e

già avvertiva il senso di oppressione che vi aleg-giava. Floriana conosceva bene quell’abitazione, vi era andata spesso con Angelo a trovare Matteo.

Ma durante quelle visite, accompagnata dal padre, non avrebbe mai pensato che si sarebbe ritrovata a viverci.

L’incontro con la zia Martina, contribuì ad ac-crescere il senso di estraneità che l’aveva accom-pagnata sino ad allora.

Zia Martina sembrava contenta che Floriana fosse lì, aveva insistito tanto perché ciò avvenis-se, combattendo con la ritrosia di Sonia.

L’approccio, tuttavia, non fu dei migliori: la zia non evitò di criticare il modo in cui si era presen-tata, indifferente al fatto che una padellata sul

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gomito da parte della madre per sfogare la sua frustrazione e la mancanza di igiene di una bam-bina, non dipendessero certo da lei.

Ciò aumentò l’ostilità di Floriana, chiusa sem-pre più in se stessa.

Nessuno poteva fargliene una colpa. Il legame affettivo perverso tra Savio, Sonia e Angelo ave-va lasciato su di lei dei segni indelebili.

E, per quanto non istruita, zia Martina non era una stupida. Si era accorta, probabilmente sape-va, che quella bambina aveva trascorsi di grave sofferenza. Ma decise di non darvi peso, attri-buendo quella malinconia alla lontananza dalla madre e da tutto quello che lei avrebbe potuto rappresentare.

“Le passerà” pensò tra sé.Zia e nipote si guardarono negli occhi. Floriana, se solo la zia avesse potuto capirlo, le

avrebbe gettato le braccia al collo per dimostrar-le tutta la sua riconoscenza, per averla portata via da Milano, per averle dato la speranza di una vita normale. Purtroppo, però, stava vivendo da sola un momento di particolare confusione, lon-tana da coloro che, nel bene o nel male avevano rappresentato per lei il punto di riferimento più importante della sua vita.

Adesso voleva solo riflettere, riprendersi la sua vita, capire quello che le stava succedendo e, so-prattutto, perché.

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Si limitò ad abbassare gli occhi, richiudendosi nel suo mutismo e risollevando la sua corazza verso il mondo esterno.

La casa degli zii, per quanto piccina, era molto confortevole. Floriana non aveva una sua came-ra, ma avrebbe dovuto condividere con Matteo il divano letto che si trovava nell’ingresso. Quello sarebbe stato il loro letto, la loro stanza, il loro armadio.

Ma andava benissimo anche così. In quel tur-binio di emozioni, pur nella confusione derivante dalla nuova vita, quella bambina non cercava al-tro, se non una famiglia che le volesse bene.

A soli dodici anni, Floriana era alla disperata ricerca di amore.

Si soffermò a notare l’arredamento della casa. La conosceva bene, era il posto dove si recava ogni estate, ma era la casa delle vacanze in cam-pagna, niente di più.

Adesso quella casa sarebbe diventata la sua, quella in cui avrebbe dovuto vivere ogni giorno per il resto della propria vita.

Almeno sino a quando sarebbe diventata mag-giorenne.

«C’è qualcosa che non va, Floriana?», si sentì riportare alla realtà dalla voce di zia Martina, che cercava di essere più dolce possibile.

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Voleva capire cosa non andava in quella bam-bina. Lei non rispose.

Non avrebbe mai avuto il coraggio di rivelare quello che in realtà stava pensando, di urlarle in faccia tutta la sua rabbia e la sua disperazione per la situazione in cui si era venuta a trovare senza avere nessuna colpa.

Non le avrebbe mai potuto rivelare lo sdegno che provava nei confronti della madre, per averla abbandonata ancora una volta. Aveva solo voglia di piangere, di urlare.

Di abbracciarla e di farsi abbracciare; di far-si tenere stretta per un giorno intero, per tutto il tempo necessario a sconfiggere quelle atrocità che si portava dentro e che la stavano divorando.

Si trovò a guardare fuori dalla finestra in cerca di qualcosa di indefinito, che potesse attenuare quel senso di solitudine sempre crescente.

La bocca le si aprì automaticamente, era la pri-ma volta che parlava dacché era giunta in casa.

E si trovò a mentire: «Stavo solo riflettendo su come dormire, se a destra o a sinistra».

«Forse faresti meglio a chiedere anche a tuo fratello dove preferirebbe stare, non credi?», fu la risposta della zia.

Era ancora troppo presto per rendersi conto che nei confronti di Matteo vi era una netta preferen-za, quanto meno affettiva. Matteo era lì da mol-to più tempo, era comprensibile l’affetto nei suoi confronti. Dal canto suo, zia Martina non sperava

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che Floriana le si sarebbe affezionata all’istante, ma quanto meno sperava che la salutasse con un po’ più di trasporto.

Intanto, era giunta l’ora di cena. Zia Martina, premurosa, le chiese cosa preferiva mangiare. Floriana, compita, rispose: «Grazie, zia. Qualsia-si cosa andrà bene». Si trattenne dall’aggiunge-re purché sia calda. Floriana sperava solo quella sera di cenare con qualcosa di caldo. Erano anni ormai che a cena non mangiava niente di più del panino che Sonia le preparava, e che le faceva mangiare da sola.

Si ritrovò, quasi meccanicamente, a ripetere «Qualsiasi cosa andrà bene» forse per convincer-si che sarebbe davvero andata così.

«Ma prima, dobbiamo lavarci bene i capelli. Non vorrai venire a tavole disordinata» le disse zia Martina, nel tentativo di porre un rimedio a quel disastro che le gravava sulla testa.

Le regole per la permanenza in casa furono stabilite già da quella sera. Floriana doveva con-tribuire ai lavori domestici.

Zia Martina le mostrò i cassetti dove si trova-vano le vettovaglie; il suo compito principale sa-rebbe stato quello di apparecchiare la tavola pri-ma di pranzo e cena, e di sbarazzarla dopo. Inol-tre, per tre volte alla settimana avrebbe dovuto

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contribuire alle ulteriori mansioni domestiche. Su quelle regole, non erano tollerate discussioni.

La pasta al pomodoro cucinata per cena aveva un sapore meraviglioso. Floriana diede ampia di-mostrazione di gradimento, chiedendo di averne un’altra razione.

«Hai visto quant’è buona la pasta con i pomo-dori, qui?» le chiese. «Questi sono i veri pomodo-ri, quelli che fanno crescere sani e forti» continuò «non quelli che mangiate a Milano, che sembra-no di plastica». Il vaneggiare filo-territoriale della zia non fu compreso da Floriana, che continuò a mangiare con gusto. Probabilmente zia Martina dimenticava che Angelo portava spesso quei po-modori a Milano.

Floriana aveva ancora la bocca piena e il sugo che le colava giù. In qualsiasi altra famiglia sa-rebbe stato un quadretto tenerissimo, con una bambina affamata che divora letteralmente il piatto, sporcandosi il muso e persino le guance.

«Fai attenzione a non sporcarti i vestiti» fu il commento di zia Martina. «Ma chi ti ha insegnato a mangiare? È così che mangiate a Milano? Come gli animali?», furono le frasi che uscirono di se-guito dalla bocca della donna.

Le si bloccò l’appetito ma solo per evitare scontri ulteriori, si determinò comunque a finire il piatto, complimentandosi per la prelibatezza.

Le offese gratuite non se le meritava.

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Matteo assisteva divertito a quella scena, mo-strando di essere ormai abituato a convivere in quell’atmosfera.

Dopo che ebbero finito di cenare e che la ta-vola fu sbarazzata, la zia aprì il divano letto e cominciò a prepararlo per la notte.

«Tu dove preferisci dormire?», Floriana chiese a Matteo.

«Qualsiasi parte va bene» rispose il piccolo «tanto non c’è né televisione, né qualsiasi altra cosa che ti possa fare preferire un lato del letto rispetto all’altro».

«Allora, se per te va bene, io dormirò a destra» fu la risposta di Floriana, che aveva individuato l’uscio come motivo per il quale preferire quella parte.

Zia Martina si stupì non poco della riservatezza della ragazza, che si chiuse in bagno per met-tere il pigiama. Andarono a letto presto quella sera. Erano ormai passate da un pezzo le dieci, e in quella casa non c’era l’abitudine di fermarsi a guardare la televisione dopo cena. D’altronde, l’unica televisione disponibile era stata spostata dal salone alla camera da letto degli zii, proprio per evitare che i due fratelli si addormentassero troppo tardi per guardare la tv.

«Come ti trovi qui?» fu la domanda che Flo-riana rivolse a Matteo non appena la porta della camera dei grandi fu chiusa.

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«Come vuoi che mi trovi?» fu la risposta del piccolo, che evidentemente non aveva nessuna intenzione di dialogare con la sorella, preferen-do dormire. «Mangio, bevo, dormo e ho un tet-to sulla testa» rispose, indotto dall’aria offesa di Floriana. «Non penso che possa capitare niente di peggio. Questa è una famiglia come ogni altra e mi hanno sempre trattato bene».

Floriana aveva voglia di parlare. Non le pareva vero di avere rivisto il fratello dopo tanto tempo.

«Ma non sei contento del fatto che io starò qua per un po’ di tempo?».

La risposta del fratello la gelò.«Credi ancora nelle favole?».Detto questo, si girò e si addormentò. Anche

Matteo l’aveva lasciata sola con i suoi fantasmi. Quelle parole le fecero più male di qualsiasi al-tra percossa. Anche in quella nuova casa sarebbe stata da sola. Provò fastidio per ciò che Matteo le aveva appena detto, per la crudezza con cui lo aveva fatto, ma soprattutto per la verità che trapelava da quelle parole.

Al tempo stesso provava ammirazione per il modo in cui Matteo aveva dimostrato di essere in grado di lasciarsi scivolare la sofferenza di dosso. Lui aveva già realizzato di essere stato abbando-nato dalla mamma e dal papà e che mai nessuno sarebbe andato a prenderlo per riportarlo nel-la famiglia di origine. Eppure, nonostante tutto, sembrava che non gliene importasse nulla.

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Floriana divenne ancora più triste nel rendersi conto di ciò che il fratellino, la piccola creatura che lei aveva sempre cercato di proteggere, era diventato all’età di soli nove anni.

Un cinico.Stanca e affranta da tali pensieri, si impose di

dormire. Dopo un silenzioso pianto liberatorio, finalmente piombò in un sonno pesante che le consentì di scacciare, almeno per un po’, i fanta-smi che continuavano a tormentarla dal profondo dell’anima.

Quando si svegliò ci mise non poco a rendersi conto che non si trovava nella casa di Bergamo, bensì ad Altamura.

Il risveglio fu piacevole, di certo tutt’altra cosa di quando conviveva con Sonia.

Durante la notte, la presenza di Matteo all’in-terno del letto le aveva dato sicurezza, attenuan-do il senso di disperazione dovuto alla solitudine.

«Buongiorno ragazzi!» fu la frase di saluto di zia Martina, accompagnata dal fastidioso gesto di alzare la tapparelle, per fare entrare la luce del sole. Il tono della sveglia non ammetteva repliche. Matteo scattò immediatamente giù dal letto. Era una calda mattina estiva, ben diversa da quelle nebbiose e umide a cui Floriana era abituata.

La colazione era abbondante in quella casa, con prodotti tipicamente locali: fette di pane fragran-

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te di forno erano abbondantemente condite con burro e marmellata fatta in casa. Un ciambellone al gusto di vaniglia e cioccolata troneggiava al centro della tavola.

Mancava zio Michele, che era capo macchinista per le Ferrovie dello Stato e, pertanto, trascorre-va fuori casa la gran parte del tempo.

Aveva già fatto colazione e si era affrettato al lavoro.

Dopo che finirono la colazione, toccò a Floriana disfare la tavola e rigovernare la cucina; quand’eb-be finito, fu lei stessa che si offrì di aiuto alla zia per sistemare le altre faccende domestiche.

Approfittò di quell’occasione per scoprire qual-cosa di più della casa in cui era stata portata, e soprattutto delle persone con cui avrebbe dovu-to coabitare. Aveva conosciuto zia Martina e zio Michele solo in occasione delle vacanze estive, quando veniva in ferie insieme al padre, ma non vi era stata alcuna vera occasione di approfondi-re la loro conoscenza.

Eppure, che lo volesse o no, in quel momento costituivano la sua famiglia. Avrebbe dovuto ten-tare di conoscerli meglio, per poterli comprende-re e poterci convivere.

Ormai Floriana aveva dodici anni. Non era più una bambina, ma una vera e propria ragazzina con le sue esigenze, i suoi pensieri e le sue de-terminazioni.

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Si scoprì a guardare una foto dei suoi genitori insieme agli zii. Conosceva il luogo in cui la foto era stata scattata, ma quella foto non l’aveva mai vista.

Per un momento si trovò proiettata in un mon-do fantastico, in cui Angelo e Sonia erano insieme e si tenevano per mano. Con l’altra mano Angelo stringeva quella piccina di Floriana, e quel tatto le donava sicurezza.

La voce della zia la riportò alla realtà di quella stanza. Il suo tono era sinceramente dispiaciuto: «Quanto erano giovani!» le disse «ne hanno fatti di errori dall’epoca».

Floriana mise a posto silenziosamente la foto e tornò a sbrigare le faccende di casa.

Le prime giornate in casa di zia Martina servi-rono a capire molte cose su che tipo di persone fossero i suoi zii, e quale rapporto si sarebbe in-staurato tra loro. Era evidente che si trattava di una coppia abituata a vivere nei limiti della bana-lità quotidiana.

In verità, era quello di cui Floriana aveva bi-sogno, dopo tutto ciò che aveva passato. Com-prenderlo sarebbe stata la cosa migliore che zia Martina avrebbe potuto fare per quella ragazza.

Eppure, nonostante tutto, quella disperata ri-chiesta di aiuto era destinata a rimanere inesora-bilmente senza risposta.

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Erano ormai trascorsi più di cinque mesi da quando Floriana era arrivata ad Altamura. A set-tembre aveva iniziato a frequentare la scuola. Di-versamente da quando era a Milano con la mam-ma, la frequenza scolastica aveva cominciato ad essere assidua.

Per Sonia era un sacrificio accompagnarla a scuola tutte le mattine. Proprio le ripetute as-senze della bambina da scuola avevano spinto gli insegnanti e gli assistenti sociali a inoltrare una denuncia per violazione degli obblighi di istruzio-ne minorile.

Giunta ad Altamura, una delle prime richieste che avanzò alla zia fu proprio quella di tornare a scuola.

Quella bimba aveva voglia di una vita normale. Anche se la vita in casa degli zii non era sem-

pre facile. Gli zii erano troppo spesso pedanti. Non la smettevano mai di dirle quello che doveva o non doveva fare, sembrava che passassero il tempo a giudicarla.

Qualunque cosa facesse, non era nulla di buo-no, come se fosse sua la colpa di tutto; lei, la bambina cattiva che mamma e papà non poteva-no più sopportare.

Aveva pochissimi ricordi della vita trascorsa a Milano, buchi nella memoria che non lasciavano alcuno spazio alle sensazioni. Pensava a Sonia, nei cui confronti nutriva sentimenti di amore e di odio contemporaneamente.

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Avrebbe voluto tornare a Milano, da Angelo e Sonia. Malgrado la presenza di Savio.

C’era qualcosa, in quella strana situazione fa-miliare, che – pur dandole senso di frustrazione e nausea – la attraeva inesorabilmente. Sapeva che Angelo e Sonia, nonostante l’ingombrante fi-gura di Savio, non avevano mai smesso di fre-quentarsi.

La frustrazione del dubbio, la mancanza di cer-tezza, il continuare a vivere una vita nell’ombra, aveva cagionato una seria irrequietudine nella giovane, che ormai stava per compiere i tredici anni.

Il rapporto tra Floriana e zia Martina non fu mai idilliaco.

Per la zia l’unico modo di raddrizzare quella ra-gazza, per evitare ribellioni, era quello di impe-dirle di uscire di casa. Non capiva che in tal modo avrebbe perso la fiducia della nipote. Sarebbe stato sufficiente fermarsi un attimo ad ascoltarla, tentare di capire quello che le stava succedendo, quello che la logorava, per ottenere risultati com-pletamente diversi.

Il suo atteggiamento, invece, non faceva al-tro che alimentare ulteriormente le frustrazioni di Floriana.

La rabbia, covata e celata per lungo tempo, doveva esplodere.

Il mostro che si portava dentro si stava risve-gliando, e avrebbe piano piano iniziato a divorarla.

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A scuola avvenne un episodio determinante. Nonostante cercasse sempre di mimetizzarsi nel-la folla, di non apparire mai, anche vestendo in modo anonimo, Floriana tuttavia catalizzava l’at-tenzione dei suoi compagni di scuola.

E non sempre positivamente...Assomigliava sempre più alla madre e stava

diventando una bella ragazza, ma il fatto di pro-venire da una grande città, così lontana e così diversa, costituiva, agli occhi delle persone, un fatto di particolare curiosità, che, soprattutto, ca-gionava invidia.

In paese, la presenza di una milanese, soprat-tutto agli inizi degli anni novanta, rappresentava qualcosa di sconosciuto e misterioso, da cui era meglio prendere le distanze.

Floriana pagava lo scotto di non essere nata in quel posto. Aveva provato in tutte le maniere a diventare amica di qualcuno, ma vi era sem-pre stata una diffidenza nei suoi confronti. Le sue compagne di classe si conoscevano tutte sin da piccole, e si frequentavano anche al di fuori della scuola, e per lei era più difficile potersi integrare in un ambiente nuovo.

Zia Martina non favoriva altri momenti di so-cializzazione, concedendole solo un’ora per usci-re il pomeriggio. Le poche volte che le era con-sentito di uscire per una passeggiata, si recava presso la Piazza Comunale di Altamura per intrat-tenersi con qualche compagno, ma aveva sempre

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difficoltà a integrarsi con loro, soprattutto con le ragazze.

Con i ragazzi era un po’ diverso anzi, loro avrebbero fatto a gara per conoscere e frequen-tare “la milanese”.

Poco dopo essere arrivata in piazza, Floriana spariva. Questo aveva alimentato una serie di pettegolezzi sul suo conto, a cui la giovane non dava seguito: “Credessero quel che vogliono”, pensava.

D’altronde, era meglio il pettegolezzo, nutri-to dal mistero sulle sue origini, piuttosto che far conoscere la triste verità, ossia che la zia non la lasciava uscire per più di un’ora al pomeriggio, costringendola a rimanere in casa a sbrigare le faccende domestiche dopo i compiti.

Un episodio la rese consapevole delle difficoltà che doveva affrontare per far capire alla gente chi era, o forse chi non era.

Era appena passata davanti a un gruppo di ra-gazze che sostavano nel corridoio durante l’ora di ricreazione. Era da sola, come al solito. Il vociare del gruppetto si abbassò di colpo quando Floria-na fu vista, per interrompersi del tutto quando vi passò davanti. Era evidente che stavano parlan-do di lei. Gli occhi delle ragazze le furono addosso come saette quando oltrepassò il gruppetto, che la squadrò da capo a piedi. Floriana fece finta di nulla, soffocando una rabbia che sentiva montar-le dentro. Perché parlavano di lei?

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Neppure la conoscevano, eppure si permetteva-no di giudicarla. Non avrebbe voluto compromet-tersi; non avrebbe mai voluto che accadesse ciò che avvenne poco dopo. Avrebbe voluto stare per i fatti suoi, non essere provocata, né insultata.

Se non volevano esserle amiche, che almeno la lasciassero in pace.

Era questo che stava pensando mentre le ol-trepassava, quando l’offesa che le giunse alle orecchie le provocò l’effetto di una randellata in piena fronte.

«Che puttana!» le rimbombò nel cervello.La reazione fu immediata. Senza badare a chi

avesse pronunciato l’insulto, Floriana si scagliò contro l’intero gruppo.

Si udirono solo le grida delle ragazzine che ve-nivano prese a sberle, vittime di un impetuoso sfogo di ira e di frustrazione che Floriana aveva covato sino a quel momento. Quell’offesa gratui-ta fu la goccia che fece traboccare il vaso.

Non lo meritava. Non avevano il diritto di giu-dicarla. Nessuno lo aveva.

Quando finalmente si calmò, nessuna delle ra-gazze ebbe il coraggio di dire nulla. Forse aveva-no capito. Nessuna, infatti, denunciò l’episodio ai professori.

Floriana si congedò senza alcuna parola. Era arrabbiata ma al tempo stesso troppo euforica per la sonora lezione che aveva rifilato a quel-

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le stupide. Adesso l’avrebbero rispettata. Non le importava di quello che sarebbe accaduto dopo.

I conti da pagare, purtroppo, sarebbero arri-vati solo più tardi. Floriana pagò il suo disadat-tamento alla nuova situazione, alla famiglia, alla scuola, al paese, nel peggiore dei modi.

Quell’anno fu bocciata.La perdita di un anno non significava granché

nella carriera scolastica, ma contribuì non poco a dilatare la voragine della sua solitudine.

Avrebbe perso, infatti, anche i suoi amici di classe, quelli che stava faticosamente cercando di conquistare e, soprattutto, quei pochi che ave-va già conquistato.

Avrebbe dovuto iniziare tutto daccapo.

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