La Dea Coatlicue

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1 La dea Coatlicue, fascino e mistero nell’arte messicana preispanica. Chi visita la grande sala del Museo Nazionale di Archeologia e storia del Messico (INAH) consacrata alla cultura azteca, non può che restare ammirato davanti alla statua della dea Coatlicue Maxima, un reperto di enorme interesse storico, artistico e antropologico che ancora oggi trova gli studiosi di arte precolombiana divisi sul senso da dare a questo monolito. Il 13 agosto 1790, mentre si eseguivano lavori di sistemazione della piazza principale di Città del Messico, fu ritrovata, in ottime condizioni una statua di enormi dimensioni raffigurante la dea Coatlicue (colei che ha una veste di serpenti). Secondo la mitologia azteca Coatlicue, dea del fuoco e della fertilità, madre delle stelle del sud, fu resa feconda da una sfera piumata e i suoi figli per vergogna la uccisero. Huitzilopochtli, il figlio che aveva in grembo fuoriuscì dal suo ventre e uccise i suoi fratelli e sorelle. Si dice ancora che partorì Quetzalcoatl e Xolotl. È dello stesso periodo il ritrovamento anche de “La pietra del Sol (La Piedra del Sol), detta “pietra di Tenochtitlan”, un disco di basalto scolpito di forma circolare con 3,6 metri di diametro e 25 t. di peso. È un monumento dal significato complesso e fortemente simbolico che ruota attorno alla figura del Sole, centro del monolito e centro dell’universo. Da quel momento inizia a svilupparsi lo studio dell’arte preispanica e s’intensificarono nello stesso tempo i lavori che riportarono alla luce un totale di 23 sculture azteche risalenti a oltre 550 anni fa. Altri reperti, piume, giada, ori e preziosi codici d’epoca di enorme valore artistico e culturale, sono stati scoperti dagli archeologi di fronte al Tempio Mayor della città di Tenochtitlàn, oggi Città del Messico. Per lo studioso Raul Barrera le pietre erano poste di fronte a quello che era il centro del culto Huitzilopochtl e possono essere attribuite alla quarta fase della costruzione del Tempio Grande (1440-1469). Lo scopo e il significato della pietra non é chiaro. L’antropologo messicano Antonio de Leòn y Gama ha osservato che la Pietra del Sol ha un significato religioso e dimostra che gli Aztechi avevano conoscenza della geometria e della meccanica. Secondo una teoria il volto al centro della pietra rappresenta Tonatiuh, il dio messicano del sole. La pietra serviva a nche a segnare il tempo, da qui il nome di “calendario di pietra” ma aveva anche una funzione di orientamento. I quattro punti marcati sulla Pietra possono riferirsi ai quattro angoli della terra o punti cardinali. I cerchi interni possono esprimere lo spazio e il tempo. Inoltre c’è il significato politico della pietra. Essa può intendersi destinata a mostrare Tenochtitlàn come il centro del mondo e quindi come centro di autorità. Nonostante sia conosciuta come

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La dea Coatlicue, fascino e mistero nell’arte messicana preispanica. Chi visita la grande sala del Museo

Nazionale di Archeologia e storia del Messico (INAH) consacrata alla cultura azteca, non può che restare ammirato davanti alla statua della dea Coatlicue Maxima, un reperto di enorme interesse storico, artistico e

antropologico che ancora oggi trova gli studiosi di arte precolombiana divisi sul senso da dare a questo monolito. Il 13 agosto 1790, mentre si eseguivano lavori di sistemazione della piazza principale di Città del Messico, fu ritrovata, in ottime condizioni una statua di enormi dimensioni raffigurante la dea Coatlicue (colei che ha una veste di serpenti). Secondo la mitologia azteca Coatlicue, dea del fuoco e della fertilità, madre delle stelle del sud, fu resa feconda da una sfera piumata e i suoi figli per vergogna la uccisero. Huitzilopochtli, il figlio che aveva in grembo fuoriuscì dal suo ventre e uccise i suoi fratelli e sorelle. Si dice ancora che partorì Quetzalcoatl e Xolotl. È dello stesso periodo il ritrovamento anche de “La pietra del Sol (La Piedra del Sol), detta “pietra di Tenochtitlan”, un disco di basalto scolpito di forma circolare con 3,6 metri di diametro e 25 t. di peso. È un monumento dal significato complesso e fortemente simbolico che ruota attorno alla figura del Sole, centro del monolito e centro dell’universo. Da quel momento inizia a svilupparsi lo studio dell’arte preispanica e s’intensificarono nello stesso tempo i lavori che riportarono alla luce un totale di 23 sculture azteche risalenti a oltre 550 anni fa. Altri reperti, piume, giada, ori e preziosi codici d’epoca di enorme valore artistico e culturale, sono stati scoperti dagli archeologi di fronte al Tempio Mayor della città di Tenochtitlàn, oggi Città del Messico. Per lo studioso Raul Barrera le pietre erano poste di fronte a quello che era il centro del culto Huitzilopochtl e possono essere attribuite alla quarta fase della costruzione del Tempio Grande (1440-1469). Lo scopo e il significato della pietra non é chiaro. L’antropologo messicano Antonio de Leòn y Gama ha osservato che la Pietra del Sol ha un significato religioso e dimostra che gli Aztechi avevano conoscenza della geometria e della meccanica. Secondo una teoria il volto al centro della pietra rappresenta Tonatiuh, il dio messicano del sole. La pietra serviva a nche a segnare il tempo, da qui il nome di “calendario di pietra” ma aveva anche una funzione di orientamento. I quattro punti marcati sulla Pietra possono riferirsi ai quattro angoli della terra o punti cardinali. I cerchi interni possono esprimere lo spazio e il tempo. Inoltre c’è il significato politico della pietra. Essa può intendersi destinata a mostrare Tenochtitlàn come il centro del mondo e quindi come centro di autorità. Nonostante sia conosciuta come

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una”pietra calendario” archeologi moderni credono che sia più probabile che sia stata utilizzata principalmente come un bacino cerimoniale o altare rituale per sacrifici piuttosto che come un riferimento astrologico o astronomico. A Huitzilopochtl figlio di Coatlicue e dio del sole e della guerra, erano sacrificati i prigionieri di guerra. Il sacrificio umano è una delle caratteristiche più note della religione azteca: sembra che esso fosse simbolico e rituale. Un posto speciale tra le divinità azteche occupava Quetzalcoatl (il serpente dalle piume preziose, detto anche “serpente piumato verde”). Costui era, in realtà, un

antico re tolteco che s’impegnò per abolire i sacrifici umani praticati dal suo popolo. Osteggiato dalla casta sacerdotale di Tula, fu costretto all’esilio. Prima di partire promise che sarebbe comunque ritornato. Dopo la sua scomparsa fu divinizzato e in suo onore furono istituiti sacrifici umani. Lo sbarco di Hernan Cortès e degli spagnoli (1519) fu visto dagli aztechi come “il ritorno di Quetzalcoatl”. Per quanto concerne la statua della dea Coatlicue, dea della vita e della morte,

c’è da sottolineare il fatto che gli studiosi dell’Università decisero di rinterrarla nel luogo dove era stata trovata, convinti che la sua esposizione costituisse un’offesa all’idea stessa di bellezza. Alcuni anni dopo, durante un soggiorno nel Messico il barone tedesco Alexandre von Humbolt1 chiese di poter esaminare la statua. Soddisfatta la sua curiosità, la statua fu di nuovo seppellita essendo la sua presenza veramente insopportabile. Dopo l’epoca dell’Indipendenza la statua della divinità fu nuovamente riportata alla luce ed esposta in un angolo di un cortile dell’Università e successivamente in un corridoio, dietro un paravento. Il passaggio da dea a demonio e poi a mostro inguardabile e infine a capolavoro è segno del cambiamento di sensibilità del popolo messicano durante i quattro ultimi secoli. Il prete azteco venerava la statua come una dea, mentre il monaco spagnolo la considerava come una manifestazione demoniaca. Per l’uno come per l’altro la Coatlicue era un terribile “mystère”, un 1 Alexander von Humboldt (Berlino 1769-1859), naturalista e viaggiatore tedesco si formò nelle migliori Università di Berlino, di GÖttinga e di Amburgo è oggi troppo poco ricordato rispetto al ruolo che ha avuto in ambito delle scoperte etnologiche e scientifiche. Studioso di economia politica e di sociologia, si specializzò nello studio della geologia e della mineralogia. Simultaneamente l’esploratore etnologo è stato naturalista, geografico, archeologo ed etnologo. Viaggiatore infaticabile, Humboldt trasferì nella Relation historique du voyage aux régions équinoxiales du Nouveau Continent le sue molteplici e acute osservazioni scientifiche. Appassionato di vulcanologia fece l’ascensione del Chimborazo senza raggiungere la vetta. Attraversò le Ande fino al Perù e esplorò i rami sorgivi del fiume delle Amazzoni seguendo il tracciato delle antiche strade Inca. Studiò la flora e raccolse innumerevoli reperti di rocce, guidò le ricerche sull’equatore magnetico e scoprì una corrente fredda sulla costa peruviana. Dal suo viaggio in Messico riportò il tubero di un’orchidea sconosciuta ai botanici. A Washington Humboldt è ricevuto da Jefferson che aiuta a tracciare la nuova frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. A Parigi dove si stabilì, curò l’elaborazione di sessanta mila reperti divisi nei settori della botanica, della mineralogia e dell’archeologia che poi saranno esposti ai visitatori nel Jardin des Plantes. Considerato il fondatore della moderna geografia fisica, Humboldt ebbe il merito di studiare i fenomeni naturali facendone notare le reciproche connessioni secondo una concezione unitaria e armonica del mondo fisico. Tra i suoi più significativi contributi vanno ricordati l’introduzione delle isoterme per lo studio comparato dei climi, la scoperta delle variazioni d’intensità del campo magnetico terrestre con la latitudine, lo studio della temperatura con l’altezza, l’impulso dato alla fitogeografia attraverso la descrizione della flora dell’America Meridionale, Centrale e del Messico. Per una conoscenza più dettagliata e completa dell’aristocratico prussiano, si legga il testo biografico di Pierre Gascar dal titolo Humbolt, l’explorateur, Éditions Gallimard, Paris, 1986.

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oggetto che simultaneamente attira e respinge, seduce e fa inorridire. Questo enorme blocco di pietra, ornato di mani lacerate, cuori, serpenti e crani, dalla forma vagamente umana stupisce e paralizza lo sguardo del visitatore. Lo studioso Octavio Paz dice che di fronte ad essa si prova la stessa sensazione di meraviglia che l’uomo europeo provò nei confronti della scoperta dell’America, quando le nuove terre sembrarono far parte di un’altra e sconosciuta dimensione della realtà. È che la Grande Coatlicue non ci sorprende soltanto per le sue dimensioni(due metri e mezzo di altezza per un peso di due tonnellate) ma perché costituisce un concetto pietrificato. Ogni attributo della divinità è rappresentato realisticamente mentre l’insieme è un’astrazione. Un cubo di pietra, una fusione della materia e del denso: la pietra è l’idea e l’idea si fa pietra. L’uomo non è al centro del gioco ma è lui che dà il suo sangue, la sostanza preziosa che fa muovere il mondo e attraverso la quale rinasce il sole. Quando il “conquérant” Hernan Cortès arrivò a Messico-Tenochtitlàn, una vera città imperiale con più di mezzo milione di abitanti, non capì che aveva di fronte un vero paradiso terrestre e malgrado avesse ricevuto in dono da Montezuma II molti dei suoi tesori poiché il re pensava che l’uomo vestito di nero fosse Quetzlcoatl, il Serpente Piumato, il dio che aveva scoperto il mais, insegnato l’arte della misurazione del tempo e delle rivoluzioni stellari, l’elegante gentiluomo spagnolo ordinò ai suoi soldati di radere al suolo la città. Fece distruggere templi, demolire palazzi e piramidi e sulle macerie fece edificare la futura Città del Messico. Della splendente società precolombiana come della vita di corte e dei complessi rituali religiosi non restò traccia se non nei racconti orali e nelle testimonianze dei soldati spagnoli e soprattutto nei diari dei missionari che assistettero inermi alle brutalità di Cortès. Sui monumenti, un tempo magnifici, cadde il manto funebre dell’oblio. Dagli inizi dell’ottocento in poi emersero dal sottosuolo di Città del Messico i tesori dello spendente impero di Montezuma: resti di templi, sculture, maschere, pugnali e ori fanno rivivere oggi una delle civiltà più affascinanti della storia. Affascinano due figure antropomorfe in terracotta, stucco e pittura a grandezze naturali trovate entrambe nella Casa delle Aquile, a nord del Templo Mayor, a città del Messico. L’uomo Aquila così chiamato per il copricapo a forma di testa di rapace, dalla postura lievemente inclinata in avanti, dell’espressione interrogativa sul volto simboleggia forse il sole all’alba. Mictlantecuhtli è il dio della morte: le mani sono artigli enormi, la testa piena di buchi in cui dovevano trovare posto i capelli ricci caratteristici delle divinità della terra e delle tenebre. Le sculture sono ispirate al mondo naturale, con i coyote primati, il cane con il naso verso il cielo, il giaguaro stanco in pietra vulcanica incantano così come quelle ispirate al mondo divino: Quetzalcoaltl, il Serpente Piumato, l’antico dio della sapienza. Ma sono i tesori, i manufatti più preziosi che erano offerti agli dei a suscitare interesse nel visitatore: il serpente a due teste in legno, turchesi e conchiglie, i coltelli sacrificali dalle impugnature tempestate di piccole tessere colorate, uno scudo di piume, foglie d’oro, carte d’agave, cuoio raffigurante un cane, maschere meravigliose di ossidiana o conchiglia. La figura che più colpisce rimane comunque quella della dea madre del pantheon azteco, la Coatlicue, un blocco impressionante che non ha sembianze umane. Contrariamente a quanto accade nella mitologia greco-latina in cui gli dei hanno sembianze umane (Zeus, Apollo, Venere, Minerva) nel pantheon messicano il dio non è antropomorfo. Il pantheon della divinità era sovrappopolato e comprendeva tra gli altri Tonathiu, il dio del sole, Quetzalcoaltl,il serpente piumato, Tezcatlipoca, il suo antagonista, Ehecalt, il vento, Tlaloc, la pioggia, Cinteotl, il giovane dio del mais, Huehueteotl, il vecchio dio del fuoco e di Tlaloc ce n’erano ben quattro di quattro colori diversi, legati probabilmente alle quattro direzioni dei punti cardinali. C’erano anche delle divinità femminili come la Coatlicue, la Grande Madre e Xochiquetzal, la dea delle arti e del piacere.

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Il dio principale degli aztechi era Huitzlocochtl, il colibrì, dio guerriero che conduceva il suo popolo in battaglia, fratello di Quetzalcoatl. Il mito della sua nascita la dice lunga circa la sua personalità; infatti nasce adulto e già armato di tutto punto allo scopo di uccidere e fare a pezzi la zia materna Cyolxauhqui che voleva liberarsi di sua madre Coatlicue. Alla luce di tutto ciò è pacifico non essere d’accordo con chi definisce le culture americane esclusivamente autoctone. C’è da credere piuttosto che vi sia stata un’evoluzione dipendente da presupposti comuni ad altri popoli, originari anche di altri continenti che influenzarono la cultura americana con iniezioni sporadiche di elementi estranei. La tradizione azteca sembra presentare connessioni soprattutto con le etnie arya per la sua base ideologica impostata principalmente sulla guerra. Alla fine del XIXo secolo, il grande artista José Guadalupe POSADA messicano fu molto apprezzato dal poeta francese André Breton che non esitò a confrontare le incisioni su legno di Posada con certe opere surrealiste, in particolare i “collages” di Max Ernst. Tra i pittori più rinomati spiccano José Clemente Orozco e il muralista Diego Rivera. La pittura messicana moderna è il punto di convergenza di due rivoluzioni: la rivoluzione sociale messicana e la rivoluzione artistica dell’occidente. Prof. Raffaele FRANGIONE

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Conclusione. Siamo giunti alla fine di quest’affascinante viaggio nell’America Latina. Un viaggio “letterario” inevitabilmente incompleto che ha cercato, attraverso la lettura di libri ricchi di pagine descrittive e istruttive, di comprendere gli aspetti contraddittori, tipici e ricorrenti del continente sudamericano. È incontestabile che l’America Latina abbia sempre esercitato sugli europei un fascino di “Paese lontano”. Questa terra è stata spesso idealizzata come il luogo dove è possibile realizzare l’utopia. Lo testimoniano le opere di Thomas Moro e Tommaso Campanella, il “buon selvaggio” di J.J.Rousseau, i pellegrinaggi messicani di D. H. Lawrence, Antonin Artaud, Jack Kerouak e degli scrittori della “beat generation”, fino alla teologia della liberazione, all’epopea guerrigliera simboleggiata da Che Guevara e alla letteratura che va sotto l’etichetta di “realismo magico”. Ora, però, siamo a una svolta. La caduta del comunismo come ideologia, l’agonia della rivoluzione cubana e il dilagare della globalizzazione hanno ridimensionato le attese idealistico-rivoluzionarie legate all’America Latina. È tramontato il”realismo magico” e al suo posto è nata una nuova letteratura che prende atto della modernità e recupera quella che in fondo è l’essenza stessa del Nuovo Continente e la sua ricchezza più grande: l’ibridismo, il meticciato, l’incrocio di popoli e culture differenti. Il ”realismo magico” era esploso negli anni sessanta sull’onda dell’entusiasmo per la rivoluzione cubana e delle attese redentrici legate a Che Guevara e ai movimenti rivoluzionari del terzo mondo. I suoi esponenti erano a quel tempo tutti simpatizzanti del regime castrista e presentavano un’America Latina immersa in un tempo mitico, ignara del progresso e priva di complicazioni intellettualistiche. Scrittori come Gabriel Garcìa Marquez, il primo Mario Vargas Llosa, Alejo Carpentier idealizzavano il carattere primitivo del continente sudamericano e lo proiettavano nell’avvenire rivoluzionario. Alla lunga, però, il”realismo magico” ha finito per esaurirsi come tutte le formule. Oggi è teorizzato solo dai sopravvissuti della vecchia generazione (per lo più ridotto a un fatto stilistico, come nel recente Memorias de mis putas tristes di G. G. Marquez) e da alcuni epigoni di qualità discutibile come la messicana Laura Esquivel, l’autrice di Dolce come il cioccolato. Non si vedono nuovi Marquez all’orizzonte. L’America Latina del”boom” venata di vecchie utopie antiprogressiste non è più compatibile con il presente. Macondo esiste ancora ma convive con metropoli sterminate, metro, Internet, cellulari, MTV, fast-food e fantasmagorici centri commerciali. I nuovi autori non seguono manifesti programmatici comuni. Ognuno ha i suoi temi e generi favoriti. Ma tutti accettano la modernità e la post-modernità come un dato di fatto, pur non esaltandola e accantonano il vecchio mito dell’America Latina come luogo dell’Utopia, come la terra dove è possibile costruire una civiltà nuova alternativa a quella del progresso esemplificata dall’Europa o dagli USA. Assistiamo al moltiplicarsi di romanzi urbani dai tratti post-moderni come Satana(2003) del colombiano Mario Mendoza. Nato e cresciuto a Bogotà ha fatto della metropoli immensa e disparata la principale fonte d’ispirazione della sua letteratura, alla ricerca di storie che illuminino la condizione umana nella Colombia del terzo millennio. Altri autori sono più vicini al noir come il colombiano Jorge Franco Ramos, autore di Donna in rossa(2002). Non manca una nuova generazione di giovani narratori cresciuta all’ombra del rock, del cinema e della globalizzazione che rivendica la propria autonomia da G.G.Marquez e dalla sua poetica del realismo magico come il cileno Alberto Fuguet de I film della mia vita (2004) o il colombiano Efraim Medina Reyes di C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo (2003),

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Ci sono anche scrittori certamente più solidi come il cileno Roberto Bolano o l’argentino Ricardo Piglìa. Bolano, narratore e poeta che ha abbandonato il Cile dopo il colpo di Stato, è uno scrittore irriverente e iconoclasta, ormai considerato un classico della contemporaneità. Piglìa, docente emerito dell’Università di Buenos Aires è uno scrittore sperimentale ma intensamente leggibile: la droga, il denaro, la schizofrenia, l’omosessualità sono i temi che predominano. Questi scrittori e i loro seguaci escono dagli schemi ideologici e dagli stereotipi della letteratura latino-americana del “realismo magico”. Le loro opere evidenziano il crollo, o perlomeno la profonda trasformazione dei valori tradizionali che si sta verificando nel continente. La letteratura omosessuale sembra avere un suo mercato e annovera romanzetti da spiaggia come quelli del peruviano Reinaldo Bayly fino a opere dalla significazione esistenziale e storica più densa come quelle del cubano Reinaldo Arenas, suicida prima che lo finisse l’Aids. Nella sua autobiografia, intitolata Prima che sia notte (2004), Arenas denuncia l’intolleranza del regime castrista nei confronti degli omosessuali e l’ipocrisia della sinistra occidentale accecata dal mito della rivoluzione. Un altro genere che nell’America Latina ha un certo peso è la letteratura di testimonianza soprattutto in quei paesi che negli anni ottanta si sono risvegliati dall’incubo delle dittature. Un caso su tutti è la celebre autobiografia della leader indigena Rigoberta Menchù raccontata a Elisabeth Bugos in Mi chiamo Rigoberta Menchù (1999).

Attraverso la Letteratura si punta a incorporare nella società le voci dei perseguitati politici e delle minoranze indigene o afroamericane. In Colombia tra i romanzi nati da testimonianze interessante è quello sulla presa del Palazzo di giustizia da parte dell’ M-19, partito di sinistra, nel 1985: si tratta di Noches de humo di Olga Bear. Andrebbe poi ricordata tutta l’opera di German Castro Caycedo, di Arturo Alape o di Alfredo Molano. Nel Cono Sur (Cile, Argentina e Uruguay) le problematiche legate alle dittature militari, alle torture e ai desaparecidos sono trattate in modo differente. Invece di ricorrere alle testimonianze si ricorre alla letteratura fantastica, ai sogni e agli elementi psicanalitici che abbondavano già in scrittori classici della regione come Jorge Luis Borges, Ernesto Sábato e Adolfo Bioy Casares. Sono significative in questo senso le opere Luisa Valenzuela (Noir con argentini, Perosini, 2002), di Damiela Eltit e Notturno cileno (Sellerio, 2003) del già ricordato Bolaño, precocemente scomparso nel 2003, un’opera emblematica. Sebastian Urrutia Lacroix, il protagonista, è un sacerdote e critico letterario, membro dell’Opus Dei e poeta mediocre che in una notte di febbre alta e di delirio, convinto di essere sul punto di morire, passa in rassegna i momenti più importanti della sua vita. Lentamente si rende conto di essere un fallito perchè in fondo ha sempre chinato il capo di fronte al regime di Pinochet e ha sempre usato la critica letteraria e la poesia come strumenti di evasione dalla realtà. Tutto il libro è un atto d’accusa contro i silenzi di certa Chiesa e di certa classe intellettuale durante gli anni del regime. Il tema religioso, oltre che in Notturno cileno, affiora in molte pagine dei nuovi autori e meriterebbe un’indagine più approfondita. C’è una religiosità molto profonda nella letteratura latinoamericana contemporanea. Una ricerca del sacro quasi disperata che nella maggior parte dei casi sembra generata dalle ingiustizie. In genere gli scrittori assumono una posizione critica nei confronti della Chiesa, ma allo stesso tempo non riescono a fare a meno di essa come punto di riferimento. Il caso de La vergine dei sicari (Guanda, 2002) di Fernando Vallejo – scrittore omosessuale, provocatore, blasfemo e critico impietoso della società colombiana - è, sotto questo profilo, molto indicativo.

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Così come i killer al soldo dei narcotrafficanti di Medellín vanno a pregare la Madonna prima dell’impresa criminale loro affidata (o per «ringraziare» dell’aiuto ricevuto), analogamente proprio mentre i giovani scrittori attaccano la Chiesa manifestano inconsciamente il radicamento popolare e culturale di cui la fede cristiana gode. Pesa molto - va detto - la «leggenda nera» sulla Conquista. La Chie- sa è spesso tacciata di codardia e opportunismo, di essere stata legata ai ricchi, ma nel fondo si avverte sempre un profondo ri spetto per il messaggio evangelico e per tutti quei sacerdoti o semplici cristiani che hanno dato la vita per il popolo latinoamericano.

Molte altre voci andrebbero aggiunte a questa breve panoramica sulla nuova letteratura latinoamericana. Quello che si nota, nel complesso, è una letteratura post-yuppies e post-comunista, una letteratura delusa tanto dal progetto della modernità come dalle ideologie di sinistra.

Lo storico francese Fernand Braudel poneva retoricamente la domanda:”Le Americhe sono una periferia, una “écorce” dell’Europa?, manifestando il suo intimo convincimento che a partire del 1492 il Nouveau Monde è entrato con il suo passato, il suo presente e il suo avvenire nel campo d’azione e di riflessione dell’Europa. E non è forse l’Europa che ha scoperto l’America e celebrato il viaggio di Colombo come il più grande avvenimento della storia dopo la creazione? Non è forse l’America, una creazione dell’Europa, un grande spazio per la realizzazione dei desideri degli europei? Un’America vuota, un’Utopia, un luogo di sogni? Per Braudel, l’America è anche una liberazione, la voglia di guardare oltre, di realizzare pienamente il suo spirito di protagonismo. Per il filosofo Hegel, l’America era il paese dell’avvenire ed era convinto che il futuro avrebbe mostrato la sua importanza e il suo valore storico. Per Simon Bolivar l’America latina era un mondo a parte circondato da vasti mari, nuovo in quasi tutte le arti e le scienze, una sorta di mescolanza di più identità, quella europea, indiana e africana. Non valeva pensare a una coscienza dell’insularità ma alla capacità d’integrare le differenti razze e culture della terra. Per questo era un’idea grandiosa riunire le forme di tutto il Nouveau Monde in una sola nazione cercando di far fronte agli artifici insidiosi dell’influenza esterna. Uno dei più funesti nemici del governo repubblicano, George Washington, nel suo discorso d’addio (17 settembre 1776) ribadiva la volontà di tenersi lontano da alleanze permanenti con qualsiasi parte del mondo esterno. Ma come si configura oggi l’America Latina? Ciò che è importante per i paesi sudamericani è assicurare e preservare la libertà e rafforzare le giovani e fragili democrazie non ricorrendo certamente alla politica delle frontiere ma anzi allargando gli spazi di libertà e colmando i vuoti di cui parlava Braudel, intensificando i contatti tra una nazione e l’altra. Non più quindi pensare di edificare dei nuovi muri anche simbolici per impedire ogni possibilità d’ingerenza ma accettare il confronto serio e leale in uno spirito democratico. In altre parole un progetto ambizioso che renda possibile “l’esprit comme liberté” dove i cittadini memori dell’aggressione spagnola contro la propria identità e dei tanti danni causati da essa, si impegnino ad arrestare nuove e più pericolose egemonie, azioni neo-imperialistiche e forme militaristiche assurde quanto anacronistiche. È questo il messaggio insulare che parte dall’America “métissée” che segna un mondo dove potranno vivere insieme tutte le culture in una grande e compatta nazione. Si renderanno, così, possibili i sogni dei “libérateurs” americani che prendono il posto dei “conquistadores” spagnoli e portoghesi. Il problema è di sapere quale ruolo la Letteratura può giocare di fronte a quest’Utopia.

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Ben inteso, c’è da ripetere che la Letteratura non può molto contro i Poteri economici e militari, contro “les fusils et les dollars”. Eppure, perché la scrittura fa ancora tanta paura? Perché vengono perseguitati o minacciati editori, librai, e scrittori? È il caso clamoroso de “l’affaire Salman Rushdie”, quando, alla fine del secondo millennio, il governo di Teheran si accanì contro lo scrittore naturalizzato inglese mettendo in atto alla stregua di una decisione tipica dell’epoca medievale e dell’Inquisizione, la fatwa, per il solo motivo che nel 1988, lo scrittore indo-britannico aveva scritto “Les Versets Sataniques”, un libro che pone alcune domande sull’Iran e tenta di separare l’aspetto storico da quello mitologico Un testo che riprendendo le parole del suo autore è “une approche artistique du phénomène de la révelation”. Da qui la sua sorpresa alla reazione per lui insensata dei fanatici musulmani i quali considerarono le affermazioni espresse da Rushdie come insulti contro il Profeta, le sue spose e i credenti. Ora non è soltanto Rushdie la vittima di questi estremismi ma soprattutto la scrittura e la Letteratura. Dopo dieci anni nel suo nuovo libro autobiografico dal titolo “Joseph, Anton”(Éditions Plon, Paris, 2012) l’autore ripercorre i nove anni di clandestinità durante i quali Rushdie è stato costretto a vivere sotto sorveglianza permanente, protetto dalle forze di polizia, poiché i dirigenti iraniani continuavano a minacciarlo di morte. “L’affaire” ha fatto scalpore giacché in Europa e nel mondo sono rari i casi in cui si perseguitano scrittori per avere scritto dei romanzi. C’è da augurarsi che un giorno sarà possibile riconoscere il ruolo insostituibile della Cultura anche nei paesi a credenza musulmana in un clima di tolleranza e di rispetto per le altrui opinioni. La fiction esclude l’idea che chiunque possa avere una spiegazione completa della realtà. Solo le forme dittatoriali e i fondamentalismi religiosi musulmani hanno in comune l’ambizione di una spiegazione totale e unilaterale del mondo. Il romanzo è la celebrazione dell’impurezza, e l’arena privilegiata in cui idee e linguaggi in conflitto possono incontrarsi; civiltà ed epoche storiche distanti possono trovare dei punti in comune grazie al dialogo, giacché nessuno è padrone della storia e possiede l’ultima e definitiva parola. Milan Kundera ha ragione quando propone di vedere nella fiction una ridefinizione degli esseri umani come problemi, mai come verità chiuse e compiute. Ed è proprio questo che gli ayatollahs non possono tollerare. Per loro la realtà è stata definita dogmaticamente in modo definitivo da un testo sacro che per definizione non accetta aggiunte, rimaneggiamenti e interpretazioni. La verità è che “l’affaire Rushdie” non ha reso alcun servizio alla cosiddetta area moderata dell’Islam né alla Letteratura. Ciò significa che c’è ancora oggi chi nella società ha paura di chi usa un linguaggio che metta in discussione le certezze. La fiction è una manifestazione delle diversità culturali, personali e spirituali. Molti scrittori in America Latina sono stati ridotti al silenzio o sono scomparsi per non essersi sottomessi alla verità ufficiale. Ciò che Salman Rushdie esplora nella fede islamica sono i limiti dei dogmi, l’intolleranza religiosa . L’irriverenza è ancora censurata in molti paesi latino-americani, ecco perché molta parte della letteratura ispano-americana è pubblicata all’estero e quella che si riesce a pubblicare all’interno dei pochi paesi in cui non è proibito pensare né leggere incontra non poche difficoltà dovendo essere sottoposta a forme di controllo implacabili da parte di regimi dittatoriali, fortunatamente in fase calante, che cercano di ricondurre il continente al silenzio. Per far fronte a forme di analfabetismo in certi casi endemico e al crescente fenomeno di povertà, è necessario che gli scrittori che hanno avuto la possibilità di scrivere e di farsi leggere e apprezzare in tutto il mondo, riprendano a dialogare con il loro popolo tramandando alle generazioni future la storia collettiva di una comunità che ha tanto sofferto le ineguaglianze sociali, la fame e che ha

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pagato a caro prezzo la voracità e le menzogne di un sistema costruito sulle prevaricazioni e i soprusi. La storia, in quanto memoria viva, è un’utile traccia che servirà a decifrare nuovi percorsi, a difendere il diritto di sognare senza il quale la Letteratura non potrebbe sopravvivere. Uscire, dunque, da una sorta di pessimismo “coléreux” per dare a tanti operai e contadini che non hanno abbandonato “la douce patrie”, la speranza di un avvenire diverso. Una Letteratura che analizza il passato rivisitando luoghi, fatti e personalità che hanno segnato un’epoca, è tale da essere temibile? Il punto é cercare di ridurre il fossato tra il passato e il presente e abbattere le barriere tra il mondo “général” e quello “particulier” in modo da sostituire al “je” il “nous”. Ripensando la forza creativa e critica insita nelle grandi opere del passato, i nuovi scrittori sudamericani si attivano per illuminare le zone d’ombra del passato e far sì che le ideologie stabiliscano rapporti più chiari e costruttivi con l’identità collettiva, con la memoria storica e con altre culture. Le grandi questioni per l’umanità emergono dal più profondo della creazione letteraria, i processi di esclusione che attraversano la Storia portano a privare l’uomo della sua umanità e di ogni relazione con l’identità, la memoria e la cultura. Il sistema vorrebbe convincerci che la letteratura politica è una “littérature imbécile et pamphletaire”, una sorta di trappola destinata a svuotare del suo contenuto politico la vita quotidiana. Non è così, giacché un atto comunicativo veicola un’idea politica. Artisti come Rulfo, Arguedas, a volte Gabriel Garçìa Marquez e Mario Vargas Llosa, hanno fatto della politica senza saperlo parlando della quotidianità. La letteratura politica è quella che aiuta la gente a recuperare la sua memoria, la sua identità, a sapere chi si è e da dove si viene. La scrittura aiuta il lettore destinatario a verificare se è in grado di mettere in atto un meccanismo d’immaginazione, d’intelligenza, di viva memoria, in altre parole essa scuote le forze creative che ciascuno ha in sé. Scrivere nel proprio paese come in luoghi lontani e distanti ha sempre e comunque un senso. Non soltanto per coloro che oggi possono leggere i libri in paesi dove non è vietata la lettura ma per tutta quella massa di lettori in esilio che ha bisogno di riconoscersi in una letteratura che soddisfi i loro bisogni ma soprattutto per le generazioni future. Oggi forse molti di questi libri non saranno letti dai loro destinatari naturali ma essi potranno, un domani, aiutare altre generazioni ad avvicinarsi alla vera storia del proprio tempo. Non è una ricerca dell’immortalità. È un tentativo di comunicazione, un atto di speranza. Per gli argentini, uruguagi, cileni e brasiliani, gli anni ’70 sono stati caratterizzati da colpi di stato, da persecuzioni, da prigioni, da morti bianche: trentamila persone in maggioranza tra i venti e i trenta anni di età sono scomparse o morte in condizioni terribili. Sono gli anni delle fughe e dell’esilio. Sono anche gli anni in cui parecchie centinaia di bambini sono sottratti ai loro genitori naturali o nati in campi di concentramento clandestini o allevati dai responsabili o complici dell’assassinio dei loro genitori. Si è trattato di un vero “plan de récupération” immaginato dai militari che ricorda in scala ridotta il fenomeno della “germanisation” dei paesi dell’est in cui i nazisti sottraevano duecento mila bambini cechi e polacchi di “bonne race” per farli adottare da coppie naziste sterili. Sono stati necessari l’ostinazione, il coraggio e la determinazione di alcune donne, una cinquantina di madri, che si rivolsero al generale Videla per non far venir meno l’interesse e l’attenzione su questo squallido episodio di “malaise dans la civilisation” e mantenere vivo il ricordo. Da quel giorno (30 aprile 1977) quelle che la stampa di regime definiva le “locas de Plaza de Mayo”, divennero le “madres de Plaza de Mayo”, ossia il movimento morale più significativo di quegli anni, i “soggetti politici” che si opponevano fermamente alla dittatura e che sfidavano apertamente la legge marziale. Con la giunta militare capeggiata dal generale Jorge Rafael Videla si avviò la “guerra antisubversiva”, basata sui principi della sicurezza nazionale adottati dalle forze armate e sullo sviluppo di un apparato paramilitare repressivo, segreto e autonomo, all’interno dello Stato autoritario. Furono aperti in tutto il paese circa trecentoquaranta dei tristemente noti Centros

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Clandestinos de Detenciòn (Ccd) dove passarono dal 1976 al 1982 i trentamila “desaparecidos”. In questi centri “la disparecion iniziava con la soppressione di tutti i legami con l’esterno. Da qui la denominazione di “pozos” data a molti di questi luoghi nel gergo repressivo. Non si trattava solamente della privazione della libertà ma anche di una sinistra modalità di prigionia che rasentava la ferocia e la follia. Con il successivo governo del presidente Kirchner si ripropose vigorosamente il tema dei disparecidos per affrontare anche quello più generale del recupero completo della democrazia sostanziale. Tra le tante riforme proposte quella che rappresenta uno spartiacque nella storia dell’America Latina tout court, violentata per decenni a partire dalla metà degli anni ’60 dalle giunte militari, è l’abolizione della Ley de Obediencia Debida (1987) e Punto Final (1986) che sancivano l’impunità dei militari e che furono entrambe approvate durante la delicata “transiciòn a la democrazia” dal primo governo democratico di Raul Alfonsìn e confermate dal Presidente Menem che anzi arivò a decretare l’indulto a favore dei militari accusati di violazione dei diritti umani. Anche il governo De la Rua con un decreto impedì l’estradizione dei militari condannati in virtù del “principio di territorialità”. Dal canto loro le alte cariche militari mai hanno riconosciuto la loro colpevolezza. Solo il generale Martin Balza, comandante dell’esercito nel 1995 dodici anni dopo la fine della dittatura fece autocritica: “L’Esercito, disse, non ha saputo affrontare tramite la legge il folle terrorismo”. Il Presidente Kirchner rilevò la necessità di rispettare i diritti umani e di ristabilire un’equilibrata divisione dei poteri. Proprio in questa situazione di rilancio delle grandi questioni morali e civili si colloca l’annullamento di quelle leggi che garantivano l’impunità ai militari coinvolti in una repressione spietata e indiscriminata. Una decisione immediatamente elogiata dalle numerose associazioni dei parenti sopravvissuti dei “desaparecidos” che da anni lottano per conoscere la verità e ottenere giustizia. A dimostrazione della ferma volontà di proseguire su questa strada, il Presidente Kirchner ha trasformato la Escuela de Mécanica de la Armada (ESMA) in un Museo della Memoria per non dimenticare i crimini della dittatura militare e per promuovere i diritti umani. Le manifestazioni di protesta che continuano tuttora tutti i giovedì sulla Plaza de Mayo tengono viva la speranza che bambini scomparsi possano fare ritorno nelle loro famiglie di origine, grazie anche alla creazione di una banca-dati genetica che permette di stabilire la filiazione biologica dei bambini. Un espediente che si è dimostrato molto efficace senza, così, rivolgersi ai funzionari complici dei militari, ai giudici per la maggior parte reazionari o al clero dipendente dal potere. L’impegno della nuova letteratura sudamericana deve tener conto di alcune esigenze fondamentali: è importante che lo scrittore nel racconto rifletta la storia contemporanea; sia sensibile ai cambiamenti politici e sociali inserendo nei testi narrativi articoli e prese di posizione di natura politica e sociale e infine, abbia con la politica rapporti di apertura e di confronto. Va da sé che nessuno scrittore riuscirebbe a fare un’opera di fiction completamente distaccata dalla storia del suo tempo. Con riferimento alla difficile realtà argentina, lo scrittore argentino non poteva esimersi dal dare una sua personale visione su ciò che succedeva in quell’epoca, ciò non significa sacrificare la dimensione letteraria di un’opera, ma incidere positivamente sulle mentalità, le coscienze e le sensibilità. Soltanto a queste condizioni una rivoluzione può avere un grande valore progettuale. È opportuno, però, che la Letteratura mantenga sempre quella distanza necessaria per non cadere nella trappola delle semplici esemplificazioni di principio. L’opposizione ai regimi dittatoriali degli anni ’50 ha segnato l’inizio di un processo di democratizzazione in più paesi del Nouveau Monde e ha costituito una fase evolutiva di grande interesse che, con la scomparsa una dopo l’altra di dittature militari, ha dato origine a regimi civili nati da elezioni più o meno libere tanto da poter dire che ad eccezione di Cuba e del Paraguay e delle semi-dittature di Panama, del Nicaragua e di Haïti tutto il resto delle popolazioni del continente ha optato per il sistema democratico. Questo processo di democratizzazione politica del continente è un chiaro segno di progresso e di emancipazione e

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giustifichebbe l’ottimismo circa l’avvenire dell’America latina, anche se sul piano economico molti paesi si trovano oggi in una fase di stagnazione recessiva a causa di una produzione e di salari che sprofondano, di un risparmio che scompare, degli investimenti che flettono e di un fenomeno inflattivo che si riaccende dopo tentativi inutili di stabilità colpendo duramente i settori più svantaggiati della società demoralizzata e abbattuta. Insomma, eccezion fatta per pochi paesi le altre economie si dibattono nell’incertezza e affrontano crisi diverse ma gravi. Come spiegare questa dilagante quanto angosciante situazione? Che cosa è in gioco e che cosa rende un paese come l’Argentina che era una delle nazioni più sviluppate del mondo, una delle economie più caotiche e più precarie? È di questi giorni la notizia di saccheggi nei super mercati non di pane ma di articoli tecnologici, di computers e di TV al plasma, di liquori, un’ondata di razzie sostenuta, dicono le forze di governo, da organizzazioni esterne per agevolare la fuga di ladri e il trasporto delle merci sottratte illegalmente. Il Paese è afflitto dal carovita: l’inflazione reale è stimata al 25% e la crescita prevista dal governo per il 2012 è pari al 3,4% ma per gli analisti sarà minore. Il Paese è sotto osservazione del FMI per la scarsa affidabilità dei dati economici forniti. Intanto è stato vietato l’acquisto di dollari per risparmiare o viaggiare. La Presidenta Cristina Kirchner, rieletta nel 2011, è protagonista di uno scontro interno al fronte peronista. Suo rivale è il potente sindacato CGT diretto da Hugo Moyano, per anni vicino ai governi Kirchner, ora suo nemico giurato. Moyano e Kirchner si accusano a vicenda di fomentare i saccheggi approfittando del momento difficile che sta attraversando la Presidenta Cristina. I saccheggi natalizi del 2012 fanno tornare alla memoria quelli del 2001 che portarono alla rivolta di piazza contro il governo De la Rua, alla sua caduta e all’esplosione della grande crisi d’inizio decennio. Analogo malcontento si è manifestato di recente con i “cacerolazos”, la rivolta serale delle pentole. È la protesta contro il carovita e contro provvedimenti politici che hanno prodotto nuove sacche di povertà e di esclusione da parte dei ceti meno favoriti. Anche il Messico non attraversa un buon momento. Il Paese che non vive ufficialmente un conflitto armato è seriamente preoccupato per i quarantasei mila messicani morti nei sei anni del governo di Felipe Calderon di cui ben sedici mila non sono mai stati identificati. Ci sembra di leggere un bilancio di guerra. Tutto ciò è confermato dalla commissione per i diritti umani secondo la quale nel Messico sono denunciati per violenza appena otto delitti su cento e il tasso d’impunità è del 99%. A questo si aggiunge un’altra piaga concernente le sparizioni forzate in forte crescita. Sono oltre 2100 i casi ancora aperti. Nel 2005 c’era stata appena una denuncia in tutto l’anno. In Uruguay oggi il tema della legalizzazione della droga tiene banco e divide la popolazione. Sebbene la maggioranza degli uruguayani (64%) sia contro la legalizzazione della marijuana il presidente José Mujica è del parere che bisogna intervenire se si vuole combattere il flagello e il business basato sull’uso della droga. Nelle intenzioni del suo presidente l’Uruguay dovrà dotarsi al più presto di una legislazione più liberale sulle droghe leggere e addirittura sta pensando di dare allo Stato l’onere di occuparsi persino della produzione. Sebbene gli indici di violenza in Uruguay siano lontani dai picchi raggiunti in altri Paesi latino-americani, la tendenza è in forte aumento. Mujica ricorda che un detenuto su tre nel Paese è in carcere per reati legati alle droghe. La situazione in Cile è preoccupante poiché il tasso di suicidi tra i giovani è assai elevato. Negli ultimi dieci anni, secondo il Ministero della Salute, si è passati da quattro a otto persone su centomila abitanti che si è tolta la vita tra i dieci e i diciannove anni di età. Secondo uno studio le cause di questo inquietante fenomeno sono varie ma si ritiene che un quarto dei giovani tra i dieci e i quattordici anni soffra di forti alterazioni della psiche. Si tratta di giovani che hanno vissuto in

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genere situazioni di violenza a scuola e in famiglia o sono cresciuti in ambienti molto degradati con grossi problemi di alcolismo, di povertà e di corruzione. Nel Nicaragua di Daniel Ortega le cose non sono migliori, ma nel 2012 per l’Istituto nazionale del Turismo, il Paese ha visto incrementare il numero di visitatori stranieri, oltre 1,1 milioni, in buona parte cittadini USA. Il governo di Ortega sostiene che ogni dollaro lasciato dagli stranieri è usato per ridurre la povertà e finanziare programmi sociali, ma c’è chi sostiene che i benefici per la popolazione locale sono tuttora assai modesti.

Un grido di allarme tendenzialmente critico contro il governo di Daniel Ortega è partito dalla Chiesa del Nicaragua. Silvio Báez, vescovo ausiliare di Managua, noto per la sua opposizione al governo, ha accusato il presidente Ortega di comprare, a suon di denaro e prebende, parroci e personaggi di spicco del mondo cattolico. Il presidente avrebbe un obiettivo ben preciso: fare in modo che i rappresentanti della Chiesa si astengano dal criticare pubblicamente il governo e denunciare le azioni autoritarie dell'esecutivo, quali, ad esempio, la frode nelle elezioni comunali del 2008 che ha favorito il Frente Sandinista, il partito di governo, o le violazioni arbitrarie del diritto dell'opposizione a manifestare. Una delle caratteristiche degli attuali governanti del Nicaragua, sottolineata in un recente editoriale sul quotidiano La Prensa, intitolato La religiosidad del orteguismo, è quella di ostentare la propria religiosità, presentandosi come "più Chiesa della Chiesa". Secondo il vescovo Silvio Báez "esiste una manipolazione" che ha tra le sue finalità la divisione della Chiesa nicaraguense tra partigiani e avversari del presidente.

Nel Brasile si respira un certo malcontento sul piano economico (il Paese sta conoscendo una brusca frenata e chiuderà il 2012 con una crescita inferiore all’1%, in pratica in stagnazione) e malgrado le previsioni di un’inflazione in salita del 5,7% la crescita del Brasile dovrebbe riprendere ma a tassi assai inferiori a quelli degli anni scorsi.. Tiene banco nel Paese l’annoso problema del disboscamento della foresta amazzonica. Il responsabile in Brasile di Greenpeace afferma che non è più tollerabile la distruzione della foresta e che bisogna eliminare il taglio degli alberi dalla catena produttiva. È vero che la riduzione della foresta pluviale in Brasile è in netto rallentamento dal 2004 ma secondo le organizzazioni ambientaliste esiste il pericolo di un’inversione di tendenza dopo la recente riforma del codice forestale, considerato favorevole alla lobby agricola brasiliana. I produttori agricoli e gli allevatori di bestiame vogliono meno limitazioni nell’apertura di nuovi spazi e chiedono un’amnistia sugli abusi del passato. Il Ministero dell’ambiente però conferma la volontà del governo brasiliano di porre fine alla deforestazione. Il Venezuela sta vivendo un momento di grande incertezza. La malattia di Hugo Chàvez (il comandante/ Presidente ha subito la quarta operazione da quando gli è stato diagnosticato un grave tumore in fase molto avanzata) rischia di provocare un effetto a catena che cambierebbe il volto della regione. Almeno altri tre paesi ne sarebbero direttamente coinvolti. Per Cuba, la Bolivia e il Nicaragua, solidi alleati del mito del socialismo bolivariano e molto dipendenti dai petrodollari di Chàvez, il 2013 potrebbe diventare un anno drammatico. Il Venezuela è ancora flagellato dalla povertà e le timide riforme di cui si è fatto promotore Chàvez faticano a dare risultati incoraggianti. Nonostante il Paese sia il quarto produttore del mondo di petrolio, la disoccupazione galoppa a due cifre con una caduta del Pil pari al 10%, malgrado un costante aumento del prezzo del petrolio provocato dalla guerra in Iraq.

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A Cuba arrivano le tasse. Dopo la rivoluzione del 1959, le imposte erano state praticamente eliminate. Raul Castro, fratello di Fidel e suo successore alla guida del governo cubano, oggi sostiene che il sistema tributario è uno strumento fondamentale della politica economica di Cuba e che sebbene i cubani non siano abituati alle tasse, tutti devono contribuire. Non sono mancate le proteste. Molti fanno notare che il problema dei salari bassissimi a Cuba non è stato affrontato come priorità così come la discrepanza tra la moneta nazionale e quella convertibile con cui si compra quasi tutto. Il nuovo codice del fratello di Fidel introduce aliquote al 50% applicate a chi guadagna oltre 50.000 pesos l’anno, cioè 1.800 euro. Una delle motivazioni per spiegare i mali del Nouveau Monde consiste nell’attribuire a macchinazioni perverse ordite dall’esterno la precaria realtà economica dell’America Latina. Altri pensano invece che le fragili democrazie siano di ostacolo alla crescita economica e sociale e non permettano di far uscire i paesi devastati dalla crisi dal tunnel del sotto sviluppo economico. Per Mario Vargas Llosa occorre che tutti i paesi riconoscano che la causa principale delle crisi in cui si dibattono è da ricercare in se stessi, nei loro governi e nelle loro abitudini. Per il premio nobel 2010 la soluzione del problema deve venire principalmente dalle singole comunità, dalle loro decisioni che devono essere lucide e lungimiranti e non da fuori. Per lo scrittore peruviano il problema dell’indebitamento non è l’origine ma piuttosto un sintomo dei mali che affliggono il Sudamerica. L’indebitamento fu contratto e si è sviluppato in modo irresponsabile in conformità ad abitudini e a mentalità inadatte e arcaiche, profondamente in contrasto con l’essenza stessa della democrazia. Mentre sul piano politico ci si apre a visioni più libere, sul terreno economico persiste ancora la servitù verso società civili esterne enormi e onnipotenti con la conseguenza che i cittadini sono tornati a essere dipendenti senza voglia di protestare. Come ha scritto il cileno Claudio Véliz nel suo libro” La tradition centraliste”, pesa sul latino americano una vecchia tradizione che lo porta a attendersi tutto da una persona, da una Istituzione, o da un mito, davanti al quale egli mette da parte la sua responsabilità civile. Questa funzione dominatrice fu esercitata in passato dagli Inca, dai maya o aztechi, poi più tardi dal monarca spagnolo e dai “caudillos” carismatici e sanguinari del XIXo secolo. Oggi è lo Stato che esercita questo ruolo, lo Stato che gli umili contadini chiamano “El senor gobierno”, formula indubbiamente di stampo coloniale e dal quale ci si aspetta passivamente uno sviluppo economico rapido ed efficace. Dalla metà degli anni ’50, questa filosofia chiamata anche “théorie de la dépendance” si rafforza sul continente nel momento in cui prendono piede i governi autoritari. E paradossalmente mentre assistiamo a una produzione letteraria ricca, originale, audace e matura,nel campo economico e sociale l’America Latina chiude le porte al progresso e mantiene il sottosviluppo. Con ciò non si vuole misconoscere il ruolo che hanno giocato nelle crisi latino-americane fattori esterni non controllabili, quali l’elevato tasso d’interessi provocato dal deficit fiscale degli Stati Uniti, i bassi prezzi internazionali applicati all’esportazione dei prodotti locali e le pratiche protezionistiche dei paesi sviluppati. Oggi i governi democratici dell’America Latina devono far fronte a una grande sfida: pagare e rispettare gli obblighi interni ed esterni e migliorare le condizioni di vita dei poveri, cosa non facile perché nel soddisfare i creditori si sono visti privati delle risorse indispensabili per far fronte ai servizi più urgenti e per assicurare gli investimenti pubblici. Tutto ciò ha provocato una grande agitazione generale, campagne di stampa a favore delle riforme strutturali considerate urgenti. Per liberarsi dal pesante condizionamento occorre che l’America Latina rafforzi la crescita. Lo sviluppo economico è la prima priorità politica e morale per paesi in cui la miseria estrema, la povertà, la disoccupazione e l’ignoranza mantengono ancora milioni d’individui in condizioni di vita assai difficili. Un paese latino americano che voglia progredire non può però rompere con la comunità finanziaria internazionale. La nostra epoca è quella dell’internazionalizzazione dell’economia e della cultura, quella del mercato mondiale delle idee, delle tecniche, dei beni, dei capitali, dell’informazione. Un

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paese, sostiene Vargas Llosa, che invece di aprirsi al mondo, si chiude, è destinato ad autocondannarsi, alla stagnazione e alla barbarie. Perciò il tema dell’indebitamento va affrontato e negoziato realisticamente all’interno del contesto della cooperazione. Che ogni paese paghi ciò che può dare e che nello stesso tempo riceva l’appoggio e la comprensione della comunità internazionale. L’Occidente dovrà farsi carico di una politica che non sia discriminatoria e selettiva al fine di sostenere la buona causa democratica. La “théorie de la dépendance” non favorisce lo sviluppo degli stati latino-americani ma li rende amorfi, lenti e inefficaci orientandoli verso il nazionalismo e l’autarchia. La difesa fanatica della sovranità nazionale e la paura dell’esterno hanno, di fatto, ostacolato l’apertura verso nuovi mercati e l’integrazione con altre economie, nonché l’uso delle tecnologie più avanzate per la valorizzazione delle risorse locali. Per produrre ricchezza occorre eliminare le forme di controllo asfissiante, le lentezze burocratiche, le pratiche discriminatorie e antidemocratiche, la corruzione e l’illegalità . Prof. Raffaele FRANGIONE ___________________________________