Jules Verne - Dieci Ore Di Caccia

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Racconto

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Jules Verne

DIECI ORE DI CACCIA

Titolo originale dell’opera DIX HEURES EN CHASSE

(1881)

Traduzioni integrali dal francese di GIUSEPPE MINA

Prima edizione: 1984

Proprietà letteraria e artistica riservata - Printed in Italy © Copyright 1984 U. MURSIA & C.

2668/AC - U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29

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Indice

PRESENTAZIONE............................................................... 3 DIECI ORE DI CACCIA ..................................................... 4

CAPITOLO I ........................................................................ 4 CAPITOLO II ....................................................................... 5 CAPITOLO III...................................................................... 8 CAPITOLO IV.................................................................... 11 CAPITOLO V ..................................................................... 14 CAPITOLO VI.................................................................... 17 CAPITOLO VII .................................................................. 20 CAPITOLO VIII ................................................................. 23 CAPITOLO IX.................................................................... 25 CAPITOLO X ..................................................................... 27 CAPITOLO XI.................................................................... 30 CAPITOLO XII .................................................................. 31

PRESENTAZIONE

Questo gustoso racconto è stato letto personalmente dall'autore nel 1881, in occasione di una seduta della Académie d'Amiens, e pubblicato lo stesso anno. Le illustrazioni sono dello stesso Verne.

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DIECI ORE DI CACCIA

CAPITOLO I

C'È DELLA gente che non vuol bene ai cacciatori, e forse non ha molto torto.

È perché ai cacciatori non ripugna ammazzare la selvaggina con le proprie mani prima di mangiarla? O non sarebbe piuttosto perché essi raccontano troppo volentieri a ogni proposito, e anche a sproposito, le loro prodezze, le loro avventure? Io inclino verso quest'ultima ragione. Circa vent'anni or sono, mi resi colpevole del primo di questi misfatti. Anch'io andai a caccia! Sì, andai a caccia!... Per punirmi, mi renderò colpevole anche del secondo misfatto, narrandovi oggi le mie avventure. Possa questo racconto, sincero e veritiero, disgustare per sempre i miei simili dal correre per i campi, dietro un cane, col carniere a tracolla, con la cartucciera alla

cintola e il fucile sotto il braccio! Ma ci spero poco, lo confesso! Basta, ad ogni buon conto, incomincio.

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CAPITOLO II

UN FILOSOFO stravagante ha detto non so dove: « Non abbiate mai né casa di campagna né carrozza né cavalli... né caccia! perché ci saranno sempre degli amici che penseranno ad averne per voi! ». Ed è per l'applicazione di questo assioma che io fui invitato a fare le prime armi in una certa riserva, senza esserne il proprietario. Era la fine del mese di agosto dell'anno 1859, se non sbaglio. Un decreto prefettizio aveva fissato per il giorno seguente l'apertura della caccia.

Nella nostra città, dove non c'è piccolo bottegaio o artigiano che non possegga un fucile qualsiasi, col quale va a caccia per le vie maestre dei sobborghi, questa data solenne era attesa impazientemente da sei settimane almeno. Gli sportsmen di

mestiere, i tiratori di terza e di quarta categoria, gli abili che ammazzano senza mirare, così come gli inesperti che mirano senza mai ammazzare nulla, i cacciatori di cartello e i cacciatori di cartapesta, tutti si preparavano per quest'apertura, si equipaggiavano, si approvvigionavano, non pensando ad altro che alle quaglie, non parlando d'altro che di lepri, non sognando altro che pernici! Moglie, figli, famiglia, amici, tutto era dimenticato! Politica, arte, letteratura, agricoltura, commercio, tutto si

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cancellava dinanzi alle consuetudini di quel gran giorno, nel quale dovevano farsi illustri i fanatici di ciò che l'immortale Joseph Prudhomme ha creduto di poter tranquillamente chiamare un «

divertimento barbaro ». Ora avvenne che, fra i pochi amici che avevo nella città, ce ne fosse uno, cacciatore accanito, ma brava persona, benché funzionario dSolo, se egli si dava qualche

ello Stato.

volta per raffreddato, quando si trattava di andare in ufficio (pur godendo

di una salute di ferro), era perché un permesso di otto giorni gli concedeva di fare l'apertura della caccia. Questo amico si chiamava Brétigne. Alcuni giorni prima del gran giorno, Brétigne venne a chiamarmi. — Non siete mai andato a caccia? — mi domandò con quel tono di superiorità che è composto di due parti di benevolenza e di otto di disprezzo. — Mai, Brétigne — risposi — e non ho la minima voglia di...

— Ebbene, venite a fare l'apertura con me — soggiunse Brétigne. — Nel comune abbiamo duecento ettari di riserva, dove la selvaggina abbonda! Ho diritto di portare con me un invitato, quindi vi invito e vi conduco! — Ma... — osservai esitando. — Non avete fucile? — No, Brétigne, e non ne ho mai avuto.

— Non importa! Ve ne presterò uno io; un fucile a bacchetta, d'accordo, ma che v'inchioda una lepre ad ottanta passi! — A patto di colpirla! — risposi. — Naturalmente! Sarà abbastanza buono per voi.

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— Troppo buono, Brétigne. — Ma non avete cane! — Oh! è inutile, dal momento che ne ha uno il mio fucile! L'amico Brétigne mi guardò con sospetto. Egli non ama che si scherzi sulle cose di caccia, che sono sacre! Però si rasserenò. — Allora, verrete? — mi domandò. — Se ci tenete proprio!... — risposi senza entusiasmo. — Ma sì... ma s

mi trovai cacciato in

, ad ogni modo, ch

e, accettò. .

ì... ci tengo!... Bisogna aver visto questo spettacolo almeno una volta in vita. Partiremo sabato sera; conto su di voi. Ed ecco come questa avventura, il cui funesto ricordo mi perseguita ancora. Confesso e i preparativi non mipreoccuparono minimamente, e che non persi un'ora di

sonno. Eppure, se bisogna dire tutto, il demone della curiosità mi pungeva un tantino. Era dunque una cosa tanto interessante un'apertura della caccia? In ogni caso mi proponevo, se non di agire, almeno di osservare tanto i cacciatori quanto la caccia. Se acconsentivo a pigliarmi in spalla un fucile, era unicamente per non fare una figura meschina in mezzo a quei Nemrod, di cui l'amico Brétigne m'invitava ad ammirare le alte gesta. Devo dire, tuttavia, che se Brétigne mi prestava un fucile, una fiaschetta per la polvere, un sacchetto per i pallini, non aveva però parlato del carniere. Mi toccò dunque comperare questo arnese di cui la maggior parte dei cacciatori potrebbe fare comodamente a meno. Ne cercai uno d'occasione, ma inutilmente. I carnieri erano in rialzo; erano venduti tutti. Dovetti comperarne uno nuovo, ma a condizione che il negoziante se lo sarebbe ripreso (col cinquanta per cento di perdita) se io non fossi riuscito a riempirlo. Il negoziante mi guardò, sorrisQuel sorriso non mi parve di buon augurio« Basta », pensai « chissà? » Oh! vanità umana!

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CAPITOLO III

IL GIORNO stabilito, la vigilia dell'apertura, alle sei del pomeriggio ero all'appuntamento che Brétigne mi aveva dato sulla piazza Périgord. Là

i tipi,

dovette

salii, come ottavo, senza contare i cani, sul coupé della diligenza. Brétigne e i suoi compagni di caccia - non osavo ancora inserire me stesso nel novero - erano magnifici nei loro abiti tradizionali. Ottimcuriosissimi; gli uni seri nell'attesa dell'indomani, gli altri gai, loquaci, facendo già, a parole, grandi stragi di selvaggina nel comune di

Herissart. C'era lì una mezza dozzina dei più abili tiratori della capitale piccarda. Io li conoscevo appena, perciò l'amico Brétigne presentarmi con tutte le forme. Fui dapprima presentato a Maximon, un uomo lungo ed asciutto, mitissimo nella vita normale, ma feroce non appena aveva un

fucile in mano, uno di quei cacciatori dei quali si dice che ammazzerebbero un compagno piuttosto che tornare a casa col carniere vuoto. Lui, Maximon, non parlava; era assorto nei suoi alti pensieri. Vicino a quest'importante personaggio si trovava Duvauchelle. Che contrasto! Duvauchelle grosso, tozzo, fra i cinquantacinque e i sessant'anni, sordo al punto di non sentire lo sparo del suo fucile, ma che tuttavia reclamava più rabbiosamente degli altri i colpi dubbi. A lui avevano fatto tirare più d'una volta a una lepre già morta con un fucile scarico, una di quelle burle da cacciatori che rallegrano per sei mesi le conversazioni dei circoli e delle sale d'albergo.

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Dovetti subire anche la vigorosa stretta di mano di Matifat, gran narratore di imprese cinegetiche. Egli non parlava mai d'altro. E che

interiezioni! Che onomatopee! Il grido della pernice, il latrato del cane, lo sparo del fucile! Pam! Pam! Pam!, tre « pam » per un fucile a due colpi! E poi che gesti! La mano che fa un movimento di biscia per imitare lo zig-zag della selvaggina, le gambe che si ripiegano; il dorso che s'incurva per assicurare meglio il colpo, il braccio sinistro che si allunga mentre il destro si stringe al petto per accennare allo spianar del fucile! E se ne cadeva della selvaggina grossa e piccola! Quante lepri messe a terra! Non ne falliva una! Anch'io nel mio

cantuccio rischiai di essere ammazzato da uno dei suoi gesti! Ma bisognava sentire Matifat quando discorreva con l'amico Pontcloue, due inseparabili (il che non impediva loro di citarsi scambievolmente davanti ai tribunali, se l'uno metteva piede nei terreni di caccia riservati dell'altro). — Le lepri che ho ammazzato l'anno scorso — diceva Matifat mentre la diligenza rotolava traballando verso Herissart — le lepri che ho ammazzato io non si possono contare! « To'! proprio come me! »

pensavo. — Ed io, Matifat! —

rispondeva Pontcloue. — Ti ricordi l'ultima volta che siamo andati a caccia ad Argoeuves? Eh!

quelle pernici! — Vedo ancora la prima che ha avuto la fortuna di passare attraverso la mia scarica di piombo!

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— Ed io la seconda, le cui penne sono volate in aria, tanto che sulle ossa finì col rimanere solo la pelle! — E quella che il mio cane non ha mai potuto trovare nel solco dove era caduta! — E quell'altra sulla quale ho osato sparare da più di cento passi di distanza, e pure sono certissimo d'averla colpita! — E quella che coi miei due colpi... pam! pam! pam! ho fatto cadere nel trifoglio, ma che, disgraziatamente, il mio cane si è mangiata in un boccone! — E quella frotta che si è levata proprio quando stavo ricaricando il fucile! brrr! brrr! Ah! che caccia, amici miei, che caccia!

Facendo i conti fra me e me, mi ero si avveduto che, di tutte le pernici di Pontcloue e di Matifat, nemmeno una era entrata nel loro carniere, ma non osavo dir nulla, perché io sono naturalmente timido con le persone che ne sanno più di me. Eppure, se non si trattava che di fallire la selvaggina, perdinci! avrei fatto anch'io altrettanto! Quanto agli altri cacciatori, ho dimenticato i loro nomi; ma, se non m'inganno, uno di loro era conosciuto sotto il nomignolo di Baccarà, perché, andando a caccia, egli « sparava i ». sempre e non colpiva ma

Chissà se non mi sarei meritato anch'io quel nomignolo? Non vedevo l'ora che venisse il giorno seguente.

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CAPITOLO IV

IL GIORNO seguente venne, ma che notte passai all'albergo di Herissart! Una camera sola per otto! Dei lettucci sui quali si sarebbe potuto fare una caccia molto più fruttifera che non nella riserva del

Comune! Gli odiosi parassiti erano da noi divisi fraternamente coi cani, i quali, coricati presso i letti, si grattavano tanto da far tremare il pavimento! E io che avevo domandato

ingenuamente alla nostra ostessa, una vecchia piccarda, se c'erano pulci nel suo albergo! — Oh no! — mi aveva risposto... — Le cimici le mangerebbero! E allora, avevo deciso di dormire vestito su una seggiola che gemeva ad ogni movimento. Ragion per cui, quando apparve il giorno, mi sentivo le ossa rotte. Naturalmente, fui il primo ad alzarmi. Brétigne, Matifat, Pontcloue, Duvauchelle e i loro compagni russavano ancora. Avevo fretta di trovarmi nella pianura, come tutti i cacciatori inesperti che vogliono partire all'alba, addirittura

prima di aver mangiato. Ma i maestri dell'arte — che svegliai rispettosamente uno dopo l'altro - calmarono, borbottando, la mia impazienza di neofita. Sapevano bene, i furbi,

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che all'alba la pernice, le cui ali sono ancora umide di rugiada, si lascia avvicinare molto difficilmente e che, se vola via, non la si persuade poi volentieri a posarsi. Si dovette cosi aspettare che il sole si fosse bevute tutte le lacrime dell'aurora. Finalmente, dopo una colazione spiccia, seguita dall'immancabile bicchiere del mattino, lasciammo l'albergo grattandoci le giunture, e ci dirigemmo verso la pianura, dove incominciava la riserva. Nel momento in cui vi giungevamo, Brétigne, tirandomi in disparte, mi disse: — Tenete bene il fucile, obliquamente, con la canna diretta verso terra, e cercate di non ammazzar nessuno! — Farò del mio meglio — risposi senza voler promettere troppo — ma purché voi facciate altrettanto, vero? Brétigne si strinse sdegnosamente nelle spalle; ed eccoci in caccia - caccia libera - ognuno a proprio piacimento. È un brutto paese, quell'Herissart, la cui assoluta nudità1 non ne giustifica il nome; ma a quanto pare, se non è ricco di selvaggina come Mont-sous-Vandrey, vi si trovavano però delle lepri, stando alle assicurazioni di Matifat; anzi, se ne erano viste a dozzine, rincarava Pontcloue. Con la prospettiva di tanti bei colpi da fare, tutte quelle brave persone erano di ottimo umore. Si camminava, dunque, con un tempo magnifico. Alcuni raggi di sole passavano attraverso le brume mattutine, le cui volute si raccoglievano all'orizzonte. Si sentiva qua e là un gridio, un pigolio, un chiocciare di buon augurio. Vi erano uccelli che, alzandosi dai solchi, salivano dritto verso il cielo, come elicotteri, la cui molla fosse stata improvvisamente fatta scattare. Più di una volta, incapace di vincermi, avevo spianato il fucile. 1 Gioco di parole intraducibile. Verne pretende qui che Herissart derivi da herissé, irto di peli, o di cespugli o di alberi (N.d.T.)

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— Non tirate! Non tirate! — mi gridava l'amico Brétigne, che mi teneva d'occhio senza parere. — Perché? Non sono quaglie? — No! Sono allodole! Non tirate! Naturalmente Maximon, Duvauchelle, Pontcloue, Matifat e gli altri due mi avevano lanciato uno sguardo bieco; poi si erano allontanati prudentemente coi loro cani, i quali, col muso basso, trotterellavano in mezzo al trifoglio e alle lupinelle, e le cui code, rivolte in su, si

dimenavano come tanti punti interrogativi, a cui io non avrei saputo cosa rispondere. Mi venne in mente che quei signori

non dovevano essere per nulla contenti di rimanere nella zona pericolosa di un novizio, il cui fucile provocava parecchie preoccupazioni per le loro tibie. — Perdinci! Tenete bene il vostro fucile! — mi ripetè Brétigne allontanandosi. — Eh! Non lo tengo certo peggio di un altro! — gli risposi un po' seccato. Brétigne si strinse nelle spalle un'altra volta, e piegò a sinistra; siccome non volevo rimanere indietro, allungai il passo anch'io.

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CAPITOLO V

AVEVO raggiunto i miei compagni; ma, per non spaventarli più, portavo il fucile in spalla, col calcio per aria. Com'erano belli da vedere, quei cacciatori professionisti con i loro strumenti di caccia, abito bianco, pantaloni larghi di velluto, grosse scarpe a chiodi, uose di tela che coprivano delle calze di lana, preferibili a quelle di filo o di cotone, che prima o poi producono delle vesciche (come ben presto potei notare a mie spese). Io ero ben lontano dal fare la stessa figura con il mio abbigliamento rimediato; ma non si può esigere da un esordiente il guardaroba di un vecchio commediante.

Per esempio, in fatto di selvaggina, io non vedevo nulla. Eppure, che vi fossero, in quella riserva, moltissime quaglie, pernici, lepri, leprotti, bisognava pur crederlo, poiché essi lo affermavano. — Anzi — mi aveva detto l'amico Brétigne — evitate di tirare alle lepri pregne! Non è degno di un cacciatore. Pregne o no, figurarsi se me ne sarei accorto, io, che non distinguo ancor oggi un coniglio da un gatto: nemmeno in fricassea! Infine l'amico Brétigne, il quale voleva che io gli facessi onore, aveva soggiunto: — Un'ultima raccomandazione, che può avere la sua importanza nel caso che doveste tirare a una lepre. — Se ne passano!... — feci osservare in tono maligno. — Ne passeranno — rispose freddamente Brétigne. -— Ebbene, ricordatevi che, a causa della sua conformazione, una lepre corre più veloce in salita che in discesa. Bisogna tenerne conto per la direzione del colpo. — Avete fatto bene ad avvertirmi, amico Brétigne! — risposi. — Questa osservazione non andrà perduta, e vi prometto che ne terrò conto.

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Ma, in fondo, pensavo che, anche in discesa, era probabile che la lepre corresse fin troppo presto perché il mio piombo mortifero potesse bloccarla per via. Uomo terribile! Ma non osai rispondere nulla. Davanti a noi, a perdita

d'occhio, a destra e a sinistra, si stendeva una larga pianura. I cani erano andati avanti, e i loro padroni si erano dispersi. Io facevo del mio meglio per non perderli di vista. Infatti, un'idea mi tormentava: che i miei compagni, burloni per natura, avessero voglia di giocarmi qualche brutto tiro, consentito dalla mia inesperienza. Mi ricordavo involontariamente della barzelletta di un novellino al quale gli amici

fecero tirare a un coniglio di cartone, che, seduto in una macchia, sonava ironicamente il tamburo! Io sarei morto di vergogna dopo uno scherzo simile! Frattanto, si andava a zonzo fra le stoppie, seguendo i cani, diretti verso una modesta collina che si disegnava a tre o quattro chilometri di distanza e la cui cresta era orlata di arbusti. Per quanto facessi, tutti quei camminatori, avvezzi al terreno difficile degli acquitrini e dei campi coltivati, andavano più presto di me, tanto che non

i alla mia triste sorte, si

uno! Che malumore, e

tardai a rimanere indietro. Perfino Brétigne, che dapprima aveva rallentato il passo per non abbandonarmera avviato, volendo avere la sua parte delle prime fucilate. Non ti serbo rancore, amico Brétigne! Il tuo istinto, più forte della tua amicizia, ti trascinava irresistibilmente!... Poco dopo, dei miei compagni non vedevo altro che le teste, che si stagliavano sopra i cespugli come tanti assi di picche. Ad ogni modo, due ore dopo aver lasciato la locanda di Herissart, non avevo ancora sentito un solo sparo, no, nemmeno

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che recriminazioni, e quante bestemmie mi aspettavo, se, al ritorno, i carnieri fossero stati vuoti come alla partenza! Ebbene, lo credereste? Doveva toccare a me la fortuna di sparare il primo colpo. In quali circostanze, avrò la vergogna di dirlo. Lo confesso, il mio fucile non era ancora carico. Imprevidenza di novellino? No, questione d'amor proprio. Siccome avevo paura di

a carica mi

ettere in mostra l'apertura

dataggine, - sì! mi venne questa idea! - se nella direzione della carica fosse passata una selvaggina qualsiasi, l'avrei senza dubbio ammazzata!...

apparire inadatto a quell'operazione, avevo voluto aspettare d'essere solo per compierla. Dunque, non essendoci testimoni, aprii la fiaschetta della polvere, versai nella canna una carica che assicurai con un semplice stoppaccio di carta; poi versai una buona misura di piombo, piuttosto abbondante. Chissà? Un pallino di più era forse quello che avrebbe colpito la selvaggina! Dopo di che, battei la carica fino a sfondare la canna del fucile, e infine, oh! imprudenza!, misi la capsula sul luminello dell'arma che avevo caricato. Ciò fatto, ripetei la medesima operazione per la canna destra. Ma, mentre battevo, gran Dio! Il colpo partì!... Tutta la primsfiorò il viso!... Avevo dimenticato di abbassare sulla capsula il cane della canna sinistra, e una scossa era bastata a farlo cadere. Avviso ai cacciatori novellini! Avrei potuto mdella caccia nel dipartimento della Somma con un incidente deplorevole. Che fatto di cronaca per i giornali del paese! Eppure, se nel momento in cui quel colpo partiva per sba

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CAPITOLO VI

FRATTANTO Brétigne ed i suoi compagni erano giunti alla cortina, dove si erano fermati, discutendo su quanto conveniva fare per scongiurare la cattiva sorte. Li raggiunsi dopo aver ricaricato il fucile, con la massima precauzione. Fu Maximon che mi rivolse la parola, ma con accento altero, come si addiceva ad un maestro. — Avete tirato? — mi domandò. — Sì!... cioè... sì!... ho tirato... — Una pernice? — Già, una pernice...

Per nulla al mondo avrei confessato la mia sbadataggine davanti a quell'areopago. — E dov'è questa pernice? — domandò Maximon, toccando il mio carniere vuoto con la canna del suo fucile. — Perduta! — risposi sfacciatamente. — Che volete? Non avevo cane! Ah! se avessi avuto un cane! « Suvvia! » pensai. « Con tanta sfrontatezza non si può far a meno di diventare un vero cacciatore! » Ad un tratto, l'interrogatorio che subivo fu interrotto bruscamente. Il cane di Pontcloue aveva fatto alzare una quaglia a meno di dieci passi. Involontariamente, per istinto, se si vuole, presi la mira... e pam! come diceva Matifat. Che schiaffo! Uno di quegli schiaffi, di cui non si può domandar ragione a nessuno! Ma la mia fucilata era stata seguita immediatamente da un'altra, quella di Pontcloue. La quaglia cadde, crivellata, e il cane la portò al suo padrone, che se la mise nel carniere. Non mi fecero nemmeno la cortesia di pensare che avrei potuto entrarci un tantino anch'io in quella carneficina. Ma io non dissi nulla, non osavo dir nulla; si sa che sono naturalmente timido con le persone che ne

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sanno più di me! In fede mia, quel primo colpo fortunato aveva stuzzicato l'appetito di quegli accaniti distruttori di selvaggina. Pensate un po'! Dopo tre ore di caccia, una quaglia per sette cacciatori! No! Non era possibile che su quei ricchi terreni di Herissart non ce ne fosse almeno un'altra, e, se riuscivano ad ammazzarla, avrebbero avuto circa un terzo di quaglia per

combattente. Superata la cortina, ci trovammo sul suolo deplorevole dei campi coltivati. Per quel che mi riguardava, quei solchi che obbligavano a fare passi smisurati, quei pezzi di gleba nei quali il piede affondava, non mi piacevano affatto, e preferivo molto l'asfalto delle vie. Le sopracciglia cominciavano a corrugarsi; una specie d'irascibilità truce si manifestava per tutto e nulla, per un solco nel quale si inciampava, per un cane che passava davanti ad

un altro. Insomma, si vedevano indizi sicuri di malumore generale. Finalmente, a una quarantina di passi, apparve un volo di pernici sopra un campo di barbabietole. Non oserei affermare che si potesse chiamarlo uno stormo, oppure era uno stormo ridotto al minimo degli effettivi. Infatti, era composto di due sole pernici. Poco importava. Tirai nel « mucchio » e anche questa volta la mia fucilata fu seguita immediatamente da altre due. Pontcloue e Matifat avevano fatto fuoco simultaneamente. Uno di quei poveri volatili cadde; l'altro se ne volò via allegramente, e andò a posarsi a un chilometro di distanza, dietro una ondulazione del terreno. Ah! Misera pernice, di quale contesa fosti causa! Che discussione tra Matifat e Pontcloue! Ognuno pretendeva di essere l'autore dell'eccidio! Dal che, gran battibecco! E che sottintesi offensivi! che allusioni spiacevoli! E i qualificativi! Incettatore!... Non ce n'è che per lui! Alla malora gli svergognati!... Era l'ultima volta che andavano a caccia insieme!... Ed altre amenità più pungenti che la mia penna non vuol scrivere.

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La verità è che i due colpi di quei signori erano partiti insieme. Ce n'era si stato un terzo, che pure aveva preceduto gli altri due. Ma (non era neppure discutibile!) si poteva forse ammettere che quella pernice fosse stata ammazzata da me? Pensate un po', un novellino! Quindi nella discussione di Pontcloue e di Matifat, non credetti di dover intervenire, nemmeno col pensiero generoso di metterli d'accordo. E se non reclamai, è perché sono timido per natura... conoscete il resto della frase.

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CAPITOLO VII

FINALMENTE, con gran soddisfazione dei nostri stomaci, era venuto mezzogiorno. Ci fermammo all'ombra di un vecchio olmo, i fucili e i carnieri (vuoti, purtroppo) furono messi da parte e facemmo colazione per rimetterci in forze. Triste momento! Ogni boccone una recriminazione! « Orribile paese! Riserva di caccia, proprio! I cacciatori la devastavano! Si sarebbe dovuto impiccarne uno a ogni albero, con una scritta infamante sul petto!... La caccia diventava impossibile!... Altri due anni, e non ci sarebbe stata più selvaggina!... Perché non proibirla per un certo tempo?... Sì!... No!...» Insomma la solita litania dei cacciatori che non hanno ammazzato nulla dall'alba! Poi ricominciò la contesa fra Pontcloue e Matifat, circa la pernice contestata. Ci si immischiarono anche gli altri.

Credetti che fossero lì lì per venire alle mani. Finalmente, un'ora dopo, tutti si misero in moto. Forse, prima di pranzo, si sarebbe potuto essere più fortunati! Qual è mai il vero cacciatore che non conserva pur sempre un po' di speranza fino al momento in cui sente il richiamo delle pernici per la notte? Eccoci ripartiti. I cani,

quasi a malincuore come noi, erano andati avanti. I loro padroni urlavano loro dietro quei richiami di tono tanto terribile che sembravano

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i comandi della flotta inglese. Io li seguivo con passo incerto. Cominciavo ad essere sfinito: il mio carniere, per quanto vuoto, mi pesava sulle reni; il mio fucile, di un peso incredibile, mi faceva rimpiangere il bastone. La fiaschetta della polvere, il sacchetto dei pallini, tutti quegli oggetti imbarazzanti, li avrei affidati volentieri ad uno di quei contadini che mi seguivano con aria beffarda domandandomi quante pernici avevo ammazzato! Ma non osavo, per amor proprio. Due ore, due ore mortali, trascorsero ancora. Avevamo quindici chilometri nella gambe; una cosa sola mi sembrava evidente, e cioè che quell'escursione mi avrebbe fruttato molto più sicuramente una lombaggine che una mezza dozzina di quaglie. All'improvviso ecco un fru fru che mi sconcerta! Questa volta è proprio un volo di pernici, che si alza da un cespuglio. Tutti fanno fuoco! Fuoco a volontà! Si sparano quindici fucilate almeno, compresa la mia. Si ode un grido attraverso il fumo! Guardo... Nello stesso momento, una faccia compare al di sopra del cespuglio. Era un contadino con la guancia destra grossa come se avesse avuto una noce in bocca! — Ma bene! bene! Anche un incidente! — esclama Brétigne. — Non ci mancava altro! — risponde Duvauchelle. Fu tutto quanto ispirarono loro quelle « lesioni e traumi di origine preterintenzionale », come dice il codice. E quella gente spietata, correndo verso i cani che portavano due pernici ferite soltanto, finì a

colpi di calcagno i disgraziati volatili. Auguro loro altrettanto, se mai avranno bisogno di essere finiti! E frattanto l'indigeno era sempre là, con la faccia gonfia, senza poter parlare. Ma ecco che Brétigne e i suoi compagni tornano indietro. — Ebbene, brav'uomo, che

cos'è stato? - domandò Maximon in tono di protezione.

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— Perdinci! ho un pallino nella guancia! — rispose quello. — Via, non è nulla! — ribatté Duvauchelle — non è nulla! — Sì... sì... — esclamò il contadino, che credette di dover aumentare la gravità della propria ferita con un'orribile smorfia. — Ma chi può mai essere stato tanto sprovveduto da ferire questo povero diavolo? — domandò Brétigne il cui sguardo interrogativo finì col fermarsi su di me. — Non avete sparato, voi? — mi domandò Maximon. — Sì ho sparato... come tutti! — Allora si capisce! — esclamò Duvauchelle. — Siete un cacciatore incapace come Napoleone I — soggiunse Pontcloue, che detestava cordialmente l'impero. — Io! io? — esclamai. — Non potete essere stato che voi!... — mi disse severamente Brétigne. — Questo signore è un uomo pericoloso! — soggiunse Matifat. — E quando uno è tanto novellino — aggiunse Pontcloue — deve rifiutare qualsiasi invito, da chiunque gli venga. E dopo tali parole, tutti e tre si allontanarono. Compresi che mi lasciavano alle prese con il ferito. Mi rassegnai: tolsi di tasca il portafogli e offersi dieci franchi a quel bravo contadino, la cui guancia destra si sgonfiò subito. Senza dubbio aveva inghiottito la sua noce. — Andiamo meglio? — gli dissi. — Oh! là... là... Ma mi ritorna!... — rispose, gonfiando nuovamente la guancia, la sinistra questa volta. — Ah! no! — gli dissi — no! Per oggi di guancia ne basta una! — E me ne andai esterrefatto.

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CAPITOLO VIII

MENTRE me la cavavo cosi con quel furbo piccardo, gli altri andavano avanti. Del resto, mi avevano fatto capire chiaramente che non erano sicuri vicino a un incosciente pari mio, dal quale la più elementare prudenza consigliava di starsene ben lontani. Perfino Brétigne, severo, ma ingiusto, mi abbandonava, come se fossi stato uno iettatore. Scomparvero tutti dietro un boschetto, a sinistra; a dire il vero, non ne fui affatto dispiaciuto; almeno non sarei stato responsabile che dei miei atti. Ero dunque solo, solo in mezzo a quella pianura che non finiva più. Che cosa ero venuto a fare là, mio Dio!, con tutti quegli aggeggi sulle spalle? Avrei dovuto rimanermene tranquillamente nel mio studio a leggere, a scrivere, o anche a non far nulla! Procedevo senza meta. Preferivo i sentieri battuti ai terreni coltivati; mi sedevo per dieci minuti, camminavo per venti. Non si vedeva una casa in un raggio di cinque chilometri; nemmeno un campanile spuntava all'orizzonte. Era il deserto. Ogni tanto un cartello in cima a un palo minacciava gli intrusi con questa scritta: Riserva di caccia. Riserva di caccia!... Non alla selvaggina, certo, perché non ce n'era traccia!

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Insomma, camminavo sempre, fantasticando, filosofando, col fucile a tracolla, trascinando i piedi. A parer mio, il sole non scendeva abbastanza presto sull'orizzonte. Forse che un nuovo Giosuè, sospendendo le leggi della cosmografia, lo aveva fermato nella sua corsa diurna per far piacere alla combriccola dei miei arrabbiati compagni? Non sarebbe dunque mai scesa la notte su quella disgraziata giornata?

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CAPITOLO IX

MA C'È UN LIMITE a tutto, anche alle riserve di caccia. Vidi un bosco che chiudeva la pianura; un chilometro ancora, e ci sarei giunto. Continuai dunque a camminare, senza affrettare il passo; il

chilometro fu percorso e giunsi sul limitare del bosco. In lontananza si sentivano degli spari. « Se ne ammazzano! » pensavo. « Certamente non ne lasceranno più per l'anno venturo! » E allora (come siamo fatti mai!) mi venne in mente che, forse, sarei stato più fortunato sotto il bosco che non nell'aperta pianura. Sulla cima degli alberi ci dovevano essere pur sempre di quegli innocenti passeri che vi imbandiscono dappertutto, elegantemente infilati su spiedini, sotto il nome di tordi. Mi caccio dunque per i sentierucoli che portano in direzione della strada maestra. In verità il demone della caccia aveva ripreso possesso del vostro servitore! Si! Non tenevo più il mio fucile in spalla, ma l'avevo armato... I miei sguardi correvano ansiosamente da destra a sinistra. Ma i passerotti diffidavano certamente degli osti di Parigi, e se ne stavano nascosti. Una o due volte presi la mira... Ma erano solo foglie che si movevano in cima agli alberi e non potevo certo sparare alle foglie! Erano le cinque. Sapevo che, quaranta minuti dopo, sarei stato di ritorno all'albergo in cui dovevamo desinare, prima di montare sulla carrozza che, uomini e animali, vivi e morti, doveva ricondurci ad Amiens. Continuai dunque a seguire il sentiero principale, che piegava in linea obliqua verso Herissart, sempre con lo sguardo attento. All'improvviso,

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mi fermai... Il cuore mi batteva più forte! Sotto un cespuglio, a cinquanta passi, fra i rovi, c'era certamente qualche cosa. Era una cosa nerastra, con un orlo argentato, e un tantino di rosso vivo, come una pupilla ardente, che mi guardava! Certamente, un animale selvatico — non avrei saputo dire quale - si era nascosto là. Esitavo fra una lepre e un fagiano. Perché no?... Questo si, che mi avrebbe innalzato, e di parecchio, nella opinione dei miei compagni, se per caso fossi ritornato con un fagiano nel carniere! Mi avvicinai dunque prudentemente, pronto a spianare il fucile. Trattenevo il respiro; ero emozionato, sì!, emozionato come Duvauchelle, Maximon e Brétigne. Finalmente, quando fui a tiro - venti passi circa - col ginocchio a terra, per assicurare meglio il colpo, con l'occhio destro bene aperto, col sinistro chiuso, mirai ben bene e sparai. — Colpito! — esclamai, fuori di me. — E questa volta, non mi contesteranno il colpo! Infatti, avevo veduto personalmente, con i miei occhi!, avevo veduto volare in aria delle penne, o forse dei peli. In mancanza di cane, corsi verso il cespuglio, mi precipitai sulla selvaggina immobile, che non dava segni di vita! La raccolsi!... Era un cappello da gendarme, gallonato di argento, con una coccarda, il cui rosso sembrava guardarmi come un occhio!... Fortunatamente, non si trovava sulla testa del suo proprietario, quando avevo sparato.

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CAPITOLO X

IN QUEL MOMENTO, un lungo corpo, sdraiato sull'erba, si rizzò in piedi. Riconobbi con terrore i pantaloni azzurri con banda nera, la tunica scura a bottoni d'argento e il cinturino di Pandore, che la mia sciagurata fucilata aveva svegliato. — Oh! Sparate sui cappelli da gendarme adesso? — domandò con il tono caratteristico del corpo a cui apparteneva. — Gendarme, vi assicuro!... — risposi balbettando. — E pare che l'abbiate colp

m

un cappello da

sangue mi affluì al

cenza! s'è

di

ito nella coccarda! — Gendar e, ho creduto... che fosse una lepre!... È stata una illusione ottica!... del resto, mi offro di pagare... — Davvero!... È carissimogendarme... specialmente quando gli si spara addosso senza licenza! Divenni pallido, tutto ilcuore. Questo era il punto delicato! — Oh! Ce l'avete, la licenza? — La licenza? — Si! La liSapete che couna licenza? Ebbene, no! Non ne avevo, licenza! Per un

giorno solo di caccia avevo creduto di poterne fare a meno. Credetti tuttavia di dover affermare ciò che si

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afferma sempre in simili frangenti: che avevo dimenticato la licenza. Un sorriso di sovrana incredulità apparve sul viso del rappresentante della legge. — Sono costretto a fare il verbale! — mi disse con il tono raddolcito dell'uomo che intravede un premio. — Perché?... Domani ve la manderò, questa licenza, mio bravo gendarme, e... — Davvero? — rispose Pandore. — Ma io sono costretto ugualmente a fare il verbale! ... — E allora fatelo, visto che siete insensibile alle preghiere di un cacciatore alle prime armi! Un gendarme sensibile non sarebbe più un gendarme. I mio estrasse di tasca un taccuino, avvolto in una pergamena giallastra. — Il vostro nome? — mi domandò. Ecco il difficile! Sapevo benissimo che, di solito, in queste gravi situazioni, si dà all'autorità il nome di un amico. Anzi, se in quel periodo avessi avuto l'onore di

essere un membro dell'Accademia di Amiens, forse non avrei esitato a dare il nome di uno dei miei colleghi! Mi accontentai di dire quello di un mio vecchio amico di Parigi, valente pianista. Quel bravo ragazzo in quel momento, senza dubbio, non poteva di certo immaginare che si stesse stendendo un verbale proprio contro di lui, e a proposito di un reato... di caccia! Pandore scrisse con cura il nome di quella vittima, la sua professione, la sua età, il suo recapito, poi mi pregò, garbatamente, di dargli il mio fucile, il che mi affrettai a fare. Era tanto di meno da portare. Gli

chiesi, anzi, di comprendere nella sua confisca anche il carniere, il sacchetto per il piombo e la fiaschetta della polvere, ma egli rifiutò con un disinteresse che mi rattristò. Rimaneva la questione del cappello, che fu risolta immediatamente, con soddisfazione generale, mediante una

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moneta d'oro. — È un peccato — osservai — era un cappello ben conservato! — Un cappello quasi nuovo! — rispose Pandore. — L'avevo comprato sei anni or sono, da un brigadiere andato in congedo per limiti di età. E dopo esserselo rimesso in capo con un gesto regolamentare, il maestoso gendarme, dondolandosi sull'anca, se ne andò per la sua strada. Feci altrettanto per la mia. Un'ora dopo ero giunto all'albergo, giustificando alla meglio la scomparsa del fucile confiscato, e non dissi verbo della mia avventura. I miei compagni portavano dalla loro spedizione una quaglia e due pernici in sette. Quanto a Pontcloue e a Matifat, erano nemici giurati dopo la loro lite, mentre fra Maximon e Duvauchelle erano corsi dei pugni a proposito di una lepre... che corre ancora.

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CAPITOLO XI

Ecco LA SERIE di emozioni in cui passò quella memorabile giornata. Avevo forse ammazzato una quaglia, avevo forse ferito una pernice, avevo forse ferito un contadino, ma certamente avevo crivellato un cappello di gendarme! Ero stato colto senza licenza, si era steso un verbale contro di me sotto il nome di altro! Avevo

ingannato l'autorità!!! Che cosa mai può accadere di peggio ad un cacciatore novellino per il suo esordio nella carriera degli Anderson e dei Pertuiset? Naturalmente il mio amico pianista dovette rimanere meravigliato molto sgradevolmente, quando ricevette una citazione davanti al pretore di Doultens. Seppi poi che non gli era stato possibile produrre un alibi e che, per conseguenza, era stato condannato a sedici franchi di multa, oltre alle spese, che ammontavano ad altrettanto. Mi affretto ad aggiungere che, qualche tempo dopo, egli ricevette tramite posta, con l'indicazione « Restituzione », un vaglia di trentadue franchi, che lo indennizzava delle sue spese. Egli non ha mai saputo chi gli avesse fatta quella burletta, ma l'onta del tribunale gli sta sulla fronte e ora è incasellato nello schedario giudiziario!

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CAPITOLO XII

NON MI PIACCIONO i cacciatori, come ho già detto all'inizio, specialmente perché narrano le loro avventure di caccia. Ora vi ho narrato le mie; perdonatemelo, non mi accadrà più. Questa spedizione è stata al tempo stesso la prima e l'ultima dell'autore, ma egli ne ha conservato un ricordo che è quasi del rancore. Perciò, ogniqualvolta incontra un cacciatore che se ne va dietro il suo cane col fucile sotto il braccio, egli non manca mai di augurargli buona caccia. Si dice che ciò porti sfortuna!