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a cura di Graziano Meneghin e Jacopo Trabona Arthur “Jack” Milanese Il quadrato nero di Malevich

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Il primo romanzo di Jack Milanese, The black square, qui nella sua prima edizione italiana a cura di Graziano Meneghin e Jacopo Trabona.

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Arthur “Jack” Milanese

Il quadratonerodi Malevich

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Arthur “Jack” Milanese

IL QUADRATO NERODI MALEVICH

a cura di Graziano Meneghin e Jacopo Trabona

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Prefazione. Un romanzo ritrovato.

Una delle caratteristiche di maggior rilievo nella cultura degli ultimi vent’anni è stata la riscoperta di piccole pietre miliari ingiustamente abbando-nate dalla storia ufficiale. Dai romanzi di Colette, al rock-folk di protesta di Sixto Rodriguez, pas-sando per i documentari di Ivens e Piavoli fino ad arrivare ad artisti quali Sturtevant e Bas Jan Ader, l’angelo di Klee sembra aver fatto finalmen-te pace con la storia. Di certo l’avvento del web ha permesso di rendere maggiormente frenetica la ricerca di personaggi dimenticati nel tempo ma, d’altro canto, ne ha acuito l’inevitabile arbi-trarietà portando, talvolta, ad un appiattimento delle caratteristiche specifiche di ogni prodotto.

The Black Square si posiziona in linea con queste declinazioni, curiosi esempi di intoppi nel tauto-logico funzionamento di un filtro storico. Uscito nel 1967 per la Mackarel Publishing il racconto è rimasto infatti a lungo pressoché ignoto. Certo, le capacità promozionali della Mackarel non erano alla pari con quelle delle principali case editrici di fantascienza che operavano a New York in quegli anni, ma, sebbene illuminante quando osservato con un’ottica retrospettiva, è il romanzo stesso e l’analisi della sua struttura a fornire il plausibile

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movente di tale svista. È difficile, infatti, parlare di capolavoro: la pro-sa di Milanese è ridondante, barocca e talvolta schizofrenica nel suo incedere, tanto che a tratti ne risulta persino ardua la lettura. Il suo rilievo linguistico, pur rispettando gli stereotipati conte-nuti del racconto fantascientifico, appare eccede-re i canoni e gli stilemi dell’epoca storica da cui proviene, mentre il denso ricamo di citazioni di certo non aiuta a renderlo accessibile al grande pubblico. Fallì nel trovare una precisa collocazio-ne di mercato, intrappolato com’era fra le due fasce che tradizionalmente si spartivano la tota-lità del genere: la letteratura di assoluto rilievo culturale di scrittori quali Ray Bradbury e J. G. Ballard trovava infatti una netta distinzione nel-la sua controparte che appassionava migliaia di lettori con vicissitudini facilmente fruibili grazie al loro sviluppo lineare e prevedibile. The Black Square, invece, ambisce alla levatura dei primi esempi, ma, nel non raggiungerla, è certamente troppo elaborato per le tirature proprie dei secon-di. È un libro di serie B che non si pone, nemme-no minimamente, il problema dell’esistenza stessa di un pubblico si serie B. Per questo, riletto a qua-rant’anni di distanza, non solo costituisce una cu-riosa eccezione, ma diviene interpretabile come un consapevole crossover che sfugge con efficacia ad ogni tipo di definizione.

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Paradossalmente inoltre, anche gli interessi e le influenze del suo scrittore non si stabilizzano su una posizione certa, ma esplodono in un connu-bio che spazia dalla letteratura storica, alla filoso-fia, dalla solennità biblica all’arte visiva; e proprio quest’ultima, a tratti, fornisce l’ossatura vera e propria della narrazione, affiancandola per tutto il suo svolgersi ed esplodendo saltuariamente in picchi di citazionismo. Se la metafora d’apertura e il titolo stesso sono infatti presi in prestito dal celebre dipinto di Kazimir Malevich “Quadrato nero su fondo bianco”, la presenza di Robert Smi-thson è la più ingombrante nella seconda parte del romanzo, essendo questa rielaborata in un pro-cesso che dimostra un’inaspettata comprensione del suo linguaggio da parte di Milanese. Conside-rando, per l’appunto, che il saggio di Smithson a cui ci si riferisce rappresenta un espediente fittizio che fa recitare all’artista il ruolo di un fotoreporter alle prese con la cittadina di Passaic, la scelta di Milanese di produrre a sua volta una finzione che ne segue le orme si rivela particolarmente acuta e volutamente labirintica.

Da un punto di vista strettamente letterario, inve-ce, si potrebbe parlare di un piccolo tesoro della narrativa postmodernista. Si pensi in tal senso al secondo capitolo del romanzo e al suo pastiche di diversi testi preesistenti: da Celine, a Borges,

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da Lord Byron a Nietzsche, da Fante ad Hemin-gway, fino ad arrivare ai Beatles di “Lucy in the sky with diamonds”, Milanese sembra non rispar-miare nessuno, mostrando, di certo, una notevole conoscenza della materia trattata. Da questo pun-to di vista lo scrittore italo-americano sbaglia cla-morosamente epoca e luogo di pubblicazione nel suo apparire troppo in anticipo rispetto al proprio pubblico, in linea com’è con la letteratura succes-siva di De Lillo e di Foster Wallace; questo errore storico non avrebbe tuttavia impedito a Milanese di avere già nel 1967 un riscontro critico se il ro-manzo fosse stato pubblicato nell’Italia di Calvino o nella Francia di Perec. L’editing impassibile di citazioni, con cui l’autore racconta l’esperienza nella grotta del proprio protagonista Elof Elias-son Kelly, appare in definitiva come un perfetto compendio letterario al saggio del 1969 di Ro-land Barthes “La morte dell’autore”. L’autore era già morto qui, tra queste pagine, nelle quali vita e morte si confondono in una narrazione spesso confusa ma mai banale.

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Il Quadrato nero di Malevich

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I. Elof Kelly Eliasson

Le spalle curve, a toccare il muro di una parete che si estendeva fino all’estremità ultima di quel museo di New York. Pochi passi più in là quella città che lo aveva inghiottito, e che, dopo aver-lo fatto diventare un eroe, lo aveva abbandonato nella più fredda disperazione. Erano passati solo pochi mesi da quando era apparso in copertina sulle pagine di Arts Magazine, pochi mesi però che pesavano come macigni sulla sua carriera. Elof Kelly, padre svedese e madre statunitense, aveva 29 anni, un principio di calvizia ne accarez-zava la fronte alta da vero uomo venuto dal nord. Quei pochi e lunghi capelli, che si estendevano ben oltre le spalle curve, erano divenuti un’ico-na di quel tentativo di riportare in auge la pittura nella Grande Mela. Elof se ne stava appoggiato lì da un paio d’ore quando una guardasala si avvi-cinò e sorridendo gli disse: - Buongiorno, la posso disturbare - - Mi dica – rispose Elof con sgarbo. - Lei è per caso il signor Kelly? - - Potrei esserlo ma non sono ancora certo di voler-lo essere per lei, signorina - Dopo un attimo di silenzio la guardasala imbaraz-zata aggiunse: - Volevo solamente informarla che fra dieci minuti il museo chiude -- Il museo è già chiuso - Elof alzò la testa e con gli

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occhi indicò all’attonita inserviente una finestra chiusa che se ne stava vicina a quel quadrato nero che da ore fissava. Passarono alcuni minuti duran-te i quali Elof annotò alcune osservazioni sul suo taccuino mentre la guardasala abbandonava indi-spettita la stanza. “I contorni della realtà obiettiva svaniscono gradualmente mentre ci addentriamo, passo dopo passo, in quel quadrato nero, finché tutto quello che amiamo e per cui siamo vissu-ti, svanisce alla vista” poté leggere chi passò lì in quell’istante. La guardasala intanto era ritornata sui suoi passi ed aveva iniziato ad osservare Elof con una certa stizza. Le altre stanze del museo erano ormai vuo-te, solo quelle due presenze umane davano ancora senso a quel reliquiario. Elof prese fra le mani il doppiopetto nero che teneva piegato sull’avam-braccio, se lo infilò con una certa noncuranza, estrasse una sigaretta dalla tasca destra ed uscì. Fuori la città si stava facendo buia, un buio che faceva parte della normale esistenza del quotidia-no ma che ad Elof parve preannunciare catastrofi a venire.

Si ricordò, a quel punto, di aver provato quella strana sensazione in un’altra occasione: era inver-no ed era a casa della nonna in Svezia, nei sobbor-ghi di Goteborg. Una sera, poco prima di cena, era uscito in cerca di legna. Dopo aver trovato dei

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vecchi tronchi di betulla ed averli ripuliti dalle in-temperie di stagione aveva deciso di scaldarsi le mani fredde sotto un enorme tiglio fumandosi una sigaretta. Faticava però a rollare il tabacco che in continuazione si bagnava data la tempera-tura quasi polare. Di fronte a lui c’era un piccolo lago ghiacciato e una lince che, nell’inverno nor-dico, ha quel tipico aspetto di chi cerca sconsolato una preda mentre quest’ultima se ne sta ormai in uno stadio avanzato di letargo. Come si sa scoiat-toli e stambecchi preferiscono dormire, durante le lunghe giornate di freddo, piuttosto che essere divorati da qualche felino affamato. Mentre Elof accendeva la sigaretta tremante, lo aveva raggiun-to il cugino di un paio d’anni più piccolo, sfidando immediatamente quello strano parente america-no ad una corsa in mezzo al lago. Elof riluttante aveva accettato e, spenta la sua sigaretta nel ti-glio, iniziato a correre all’impazzata prendendo di sprovvisto il cuginetto che lo rincorreva con una decina di metri di svantaggio. Mentre il rumore del suo respiro prendeva il sopravvento rispetto al silenzio della natura, Elof si era girato vedendo il lago ghiacciato aprirsi e divaricarsi intorno al corpo del cuginetto. Era stato costretto a notare il ghiaccio farsi ragnatela, l’acqua riappropriarsi del naturale confine con il cielo mentre dei gabbiani, prima appollaiati lì intorno, si erano alzati in volo quasi a non voler essere parte di quello spettaco-

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lo, quasi a voler lasciare ad Elof la solitudine di quella visione. Una mano intanto rimaneva ag-grappata a quella ultima zolla di vita mentre il resto del corpo di Andreas Eliasson scompariva fra le acque. Elof aveva urlato qualche parola in quella lingua che nemmeno comprendeva. Il re-sto avrebbe preso solo la forma di una lunga se-quenza di immagini a cui ora ripensava mentre si lasciava il St. John Park alle spalle imboccando la prima Avenue in direzione Franklin Street.

Lì, a poche decine di metri da dove era situato il suo studio, vide un corvo morto in stato di essicca-zione. Passò oltre e, dopo un attimo di esitazione, tornò indietro, portando con sé un sacchetto di plastica trovato a terra. Una volta tagliata la testa del corvo, la mise nel sacchetto, e andò nel suo studio. Pensò di non voler ritornare a lavorare con i teschi degli animali morti poiché il solo posto per quelle cose in America era l’antropologia esotica. Tuttavia trovò così inusuale aver trovato un corvo morto in centro città. Una volta in studio appese la testa del corvo sopra ad un enorme trave di legno la cui geometria era scardinata orizzontalmente da un blocco d’acciaio che le conferiva l’aspetto di una croce cristiana. Installò la trave nella parete opposta all’entrata dello studio e, al suo fianco, sistemò un foglio di block-notes che riportava le seguenti parole: “Camminando intorno all’area

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del mio studio ho trovato un corvo morto in stato di essiccazione. Sono passato oltre. Dopo un bre-ve momento di esitazione sono tornato indietro portando con me un sacchetto di plastica trovato a terra. Una volta lì ho tagliato la testa del corvo e l’ho messa nel sacchetto, a questo punto sono venuto in studio. Non voglio ritornare a lavorare con teschi di animali morti poiché il solo posto per queste cose in America è l’antropologia esoti-ca. Tuttavia è piuttosto inusuale trovare un corvo morto in centro città”. Rimase lì per qualche mi-nuto ad osservare quello strano oggetto prima di decidere di riprendere il cammino verso il proprio appartamento. Una volta a casa si sedette nel vecchio sofà in-forme che occupava buona parte del suo picco-lissimo loft nella terza Avenue. Totalmente im-possibilitato a dipingere cercava ispirazione per scrivere un romanzo a partire da quel corvo e da quel quadrato nero che avevano fornito un senso nuovo alla sua giornata. Un romanzo potrebbe apparire una scelta inusuale per un pittore in crisi di identità, tuttavia Elof aveva ereditato dalla ma-dre un’insana passione per la lettura, totalmente inconcepibile per quello strano personaggio che era il padre, taglialegna scultore che trovava nella locuzione scritta un diversivo immorale a quella detta, la quale veniva usata comunque con parsi-monia e a bassa voce. Si ricordava inoltre di come

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fosse stato il prediletto del suo professore di lette-ratura al liceo, Mr. Wilson, incurve uomo brizzo-lato dedito al bricolage della parola. L’idea di ricominciare a scrivere gli era venuta già il sabato precedente quando a casa di Sarah aveva conosciuto John Brown, il nuovo fenomeno della letteratura americana, “the next big Fitz” così come glielo aveva presentato Marie, la ragaz-za francese di Arthur. Solo una francese poteva concepire un gioco di parole così pessimo in in-glese, infondo Fitzgerald era per qualsiasi buon americano “Scottie”. Elof aveva letto pochi gior-ni prima un racconto di Brown intitolato “Il gran-de freddo” nelle pagine centrali del New Yorker. Non aveva mai riso tanto leggendo un raccon-to che non precludeva il riso tra i suoi obiettivi. Quello sghignazzare era diventato presto imba-razzo per le altisonanti parole che gravitavano in-torno a se stesse, prive di senso, in quella stanca fatica letteraria. L’arroganza e la prepotenza con cui questi personaggi entravano nei salotti buoni della cultura americana lo infastidiva e non poco. “Il grande freddo” raccontava la storia di Jack Smith, scrittore privo di talento che utilizzava la narrativa come mezzo di arricchimento persona-le e sociale a scapito della giovane moglie, Lore-na, che trovava quindi conforto tra le braccia di Athur Vidal, brillante poeta che viveva di stenti a Brooklyn. Dopo aver conosciuto Brown, Elof

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capì che si trattava di un evidente autobiografia, solo che mentre “the next big Fitz” credeva di de-scrivere sé quando descriveva le gesta di Vidal, la descrizione che forniva di Smith appariva come un’inconscia descrizione della propria mediocrità letteraria. Almeno questo sembrava pensare Elof, quando, al sesto scotch, sfidò Brown ad un impro-babile partita di roulette russa, urlando, a bassa voce, da buon scandinavo, un improbabile “ricor-dati di Puskin”. Mentre la luce del lumino si faceva sempre più fiacca e la scrittura sempre più pesante, Elof sentì di avere fame, erano solo tre giorni che non man-giava ma la nuova professione lo affaticava più di quanto lo avesse mai affaticato la pittura.

La mattina seguente si alzò di buon’ora e si av-viò verso la Columbia University dove da poco insegnava pittura ad un gruppo di diciannovenni innamorati di Cezanne e del post-impressioni-smo francese. Quando Elof cercava di spiegare loro perché dopo Husserl qualunque pittura pre-vedesse la decomposizione dello spazio in forma puramente ottica avesse perso il suo motivo di esistere, questi fingevano di ignorarlo e parlavano tra di loro di Seurat, di Sisley, di Van Gogh, di Bo Diddley, della supremazia della musica negra sul-la civiltà angloamericana, di Playboy, di Mickey Mante, di Ernie Banks, di Roger Maris, di John

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Coltrane, di Ornette Coleman, di Pearl Harbor, di Hiroshima, dello Sputnik e dell’inesorabile sconfitta occidentale in una guerra atomica. Troppo impaziente per cercar di far capire qual-cosa a chi quel qualcosa non voleva capire, Elof trovava allora riparò nell’osservare Silvia, l’av-venente modella caraibica che posava nuda per il suo gruppo di pittura. Si ricordava spesso del primo giorno in cui l’aveva incontrata entrando in classe per il suo primo giorno di insegnamento. Lei era di spalle ed Elof aveva notato immedia-tamente la linea morbida e compatta dei fianchi, la lieve traccia dei muscoli sulle braccia e i capel-li neri, folti e lucenti, che le ricadevano sciolti. A parte il contorno del viso e il candore dei den-ti, non era bella. Quest’ultimi li aveva scorti solo quando si era voltata a sorridere a uno degli stu-denti che sembrava conoscerla, rivelando una stri-scia bianca tra le labbra dischiuse. Aveva il naso degli indios, piatto, con le narici larghe. Le labbra, spesse come quelle di una negra, erano cariche di rossetto. Apparteneva ad un’altra razza, e forse ne era un esemplare pregevole, ma era troppo strana per Elof: aveva gli occhi a mandorla, la carnagio-ne scura, anche se non nera, e quando cammina-va i seni si muovevano rivelando la loro sodezza. Dopo quella prima occhiata, lei lo ignorò. Elof decise di smetterla con i cenni, ma continua-va a guardarla in modo tale da non lasciarle dubbi

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anche solo un terzo di quello che Lawrence ha detto si dimostrasse veritiero, le sue abilità potreb-bero essere una benedizione per le mie ricerche e per l’umanità tutta.” Elof, che come tutti i bravi pittori odiava essere al centro dell’attenzione, pro-vò ad ignorare quell’ultima affermazione, nello stesso modo in cui aveva eluso le domande più pressanti di Lawrence. Si chiedeva perché fosse lì, lui che nel dipinge-re aveva trovato una verità più funzionale della scienza; non si trattava di curiosità, ma di un ba-nale desiderio di conoscere la sua reale condizio-ne e le ragioni che lo avevano portato ad essere così unico fra le persone che lo circondavano. “È un uomo di poche parole” provò a giustificar-lo Lawrence. “Preferisce l’arte dell’orientamen-to”. Andrey sorrise, ma si rivolse subito ad Elof con un fare serio: “ Ci scommetto! Perché non ci fai vedere cosa sai fare Elof ?” “Scusi?!” rispose quest’ultimo con sguardo attonito. “Perché non ci guidi tu al laboratorio?! Stando a quanto ho sentito dovresti essere molto più qualifi-cato di me e Lawrence” sorrise ancora. “Secondo i miei calcoli, anche se nero e bidimensionale come una colata di cemento, il sentiero che conduceva alla villa dovrebbe essere ancora lì per lei. En-trambi riusciremmo a svolgere il compito, ma con ritmi ben più frustranti di quelli di un vedente”. Purché indispettito da quella domanda insolita,

Coltrane, di Ornette Coleman, di Pearl Harbor, di Hiroshima, dello Sputnik e dell’inesorabile sconfitta occidentale in una guerra atomica. Troppo impaziente per cercar di far capire qual-cosa a chi quel qualcosa non voleva capire, Elof trovava allora riparò nell’osservare Silvia, l’av-venente modella caraibica che posava nuda per il suo gruppo di pittura. Si ricordava spesso del primo giorno in cui l’aveva incontrata entrando in classe per il suo primo giorno di insegnamento. Lei era di spalle ed Elof aveva notato immedia-tamente la linea morbida e compatta dei fianchi, la lieve traccia dei muscoli sulle braccia e i capel-li neri, folti e lucenti, che le ricadevano sciolti. A parte il contorno del viso e il candore dei den-ti, non era bella. Quest’ultimi li aveva scorti solo quando si era voltata a sorridere a uno degli stu-denti che sembrava conoscerla, rivelando una stri-scia bianca tra le labbra dischiuse. Aveva il naso degli indios, piatto, con le narici larghe. Le labbra, spesse come quelle di una negra, erano cariche di rossetto. Apparteneva ad un’altra razza, e forse ne era un esemplare pregevole, ma era troppo strana per Elof: aveva gli occhi a mandorla, la carnagio-ne scura, anche se non nera, e quando cammina-va i seni si muovevano rivelando la loro sodezza. Dopo quella prima occhiata, lei lo ignorò. Elof decise di smetterla con i cenni, ma continua-va a guardarla in modo tale da non lasciarle dubbi

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Elof si convinse ad accettare, comprendendo che, se avesse voluto ricevere qualsiasi tipo d’informa-zione da quell’uomo, avrebbe dovuto dimostrarsi abile in quel test. Si concentrò, dunque sulla diste-sa che apriva di fronte a lui e scorse, senza alcuna esitazione, quel viottolo seicentesco e ognuna del-le pietre che lo componevano a centinaia. Lo di-stinse, poi, dai corposi arbusti che lo delimitavano e che, pur possedendo evidentemente un passato signorile, s’incrostavano l’uno l’altro con un sus-seguirsi piuttosto goffo. Non gli importava troppo se fosse nera e bidimensionale, ma in quella strada gli sembrava di riconoscere diverse immagini già rappresentate nella sua mente. Si avviò dunque a passo spedito verso il piccolo complesso di edifi-ci all’orizzonte, continuando a parlare per offrire delle coordinate sonore ai due che lo seguivano.

“Sorprendente” Andrey definì così il racconto di Elof che, nel tragitto, aveva vuotato il sacco ri-spetto ai suoi mesi in caverna, nella consapevolez-za che quello era l’unico argomento che poteva sostenere all’interno di un monologo. Lo scienziato iniziava quindi ad azzardare qual-che ipotesi, contrariato, ma al tempo spesso in-curiosito dal fatto che queste non combaciassero con quelle che aveva portato avanti fino ad allora. Spiegò dunque ai suoi interlocutori che il ‘veden-te’ era stata un’entità del tutto teorica, una arti-

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ficio operativo che aveva introdotto nel processo di ricerca in modo puramente funzionale. Non avrebbe mai pensato, fino a quel momento, di po-terne incontrare uno in carne ed ossa ed ora che aveva avuto la prova della sua effettiva esistenza il suo primo pensiero, dato l’ovvio interesse profes-sionale, era quello di analizzare le cause e i poten-ziali effetti. “Quando Lawrence mi ha accennato la tua condizione, mi ero spinto verso spiegazioni quasi esoteriche che ben poco hanno a che fare con il mio metodo. Adesso le irrazionalità sem-brano finalmente diradarsi” confessò Andrey chiedendo ad Elof con un cenno di poggiare gli occhi su di una sorta di telescopio che si staglia-va, imponente, dal pavimento fino ad un’ampia fenditura nel logore soffritto affrescato. Questi, rimase titubante e sorpreso dal fatto che nulla di sostanziale stesse cambiando nel suo modo di ve-dere. “Rimani fermo un secondo” aggiunse allora Andrey avvicinandosi ad uno specchietto che si congiungeva direttamente con le lenti da cui stava guardando Elof. “Non preoccuparti, non è un vero telescopio, è un Miraclon, non ne otterrai mai alcun ingran-dimento nel campo visivo.” “Si” affermò inoltre “è come pensavo; il lungo periodo trascorso nella caverna e gli sforzi che hai compiuto per discer-nere forme che non esistevano hanno modificato la tua retina. È come se ti fossi abituato a vivere

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nell’universo bidimensionale e oscuro delle tue rappresentazioni ed ora i tuoi occhi percepiscono il mondo stesso come rappresentazione.” “Questa è, evidentemente, la tua fortuna, il tuo dono, o meglio, quello di tutto questo mondo alla deriva”, aggiunse. Elof non gradiva minimamente il tono con cui Andrey si stava rivolgendo a lui. Per tutta la vita aveva provato ad allontanarsi dalle grati-ficazioni di coloro che, per un motivo o per un altro, si erano a lui relazionati in cerca di qualche tornaconto; queste gli ricordavano le adulazioni dei suoi studenti che aveva regolarmente ignora-to, persino penalizzandoli qualora queste fossero state troppo palesi. Provò, quindi, quasi un senso di disgusto per quell’uomo che lo guardava con gli occhi di un predatore che ha trovato carne fresca per il pasto a lungo aspettato. Inizialmente, nei pochi minuti trascorsi all’interno del laboratorio, si era sinceramente interessato alla causa che lo scienziato portava avanti con tanta abnegazione. Ora, invece, si riproponeva quella strana distor-sione dei fatti che si palesava come un anticorpo nell’allontanare Elof da ogni tipo di richiesta di aiuto; quel vedere nella manifestazione del biso-gno una riprovevole debolezza. “Non è un dono” pensò “me lo sono guadagnato con mesi di sup-plizi e isolamento”. Quattro lunghi giorni erano trascorsi nella tenuta Gardiner, quattro pranzi e tre cene offerti dagli

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ospitali padroni di casa, alternate da altrettante sessioni di snervanti attese in laboratorio. Dire che l’apporto fisico di Elof fosse marginale sarebbe un eufemismo, considerato che Andrey lo costringe-va per la maggior parte del tempo fermo su di una sedia, a fissare le due lenti binoculari del Mi-raclon. Questi gli aveva spiegato che lo strano ag-geggio era potenzialmente in grado di pescare la luce solare al dì sopra dell’atmosfera, superando così le nubi di Vantablack. Aveva deciso inoltre, in disaccordo con la comunità scientifica, di sca-valcare la ricerca delle cause del fenomeno per di concentrarsi direttamente sul trovare una soluzio-ne, ignorando l’analisi di queste. Il Miraclon, però, seppur perfetto nell’equilibrio delle sue componenti, sarebbe rimasto un vuoto oggetto dalle caratteristiche formali interessanti, senza l’ausilio di qualcuno in grado di impostarlo: serviva un ‘vedente’, appunto, che potesse dire-zionare il raggio di azione delle lenti telescopiche, spingendolo a squarciare quella lugubre cappa totalizzante. “Quanto manca?” continuava a ripetere Elof con l’impazienza di un bambino che si rivolge ai ge-nitori. Andrey regolarmente lo ignorava, o forse nemmeno riusciva a sentirlo, tanto era immerso in calcoli e pianificazioni. In tutto questo, inve-ce, Lawrence si dimostrava un perfetto assistente, sempre preciso nel riconoscere materiali e compo-

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nenti grazie allo sviluppato senso del tatto; al con-trario di Andrey, inoltre, aveva percepito l’iniziale momento d’incertezza di Elof e cercava sempre di chiamarlo in causa con racconti e battute di spirito. Il nostro eroe improvvisato, dal canto suo, incominciava gradualmente a sentirsi appagato all’interno di quell’ambiente peculiare. Non era tanto il compito che stavano portando avanti, ma l’atmosfera di dedizione senza compromessi che gli ricordava i mesi passati nella spelonca. Que-sta volta non si ritrovava però nel buio della sua anima solitaria, ma si sentiva parte di qualcosa di qualcosa di più complesso, di uno sforzo collettivo e realizzava, forse per la prima volta, quale fosse il potere della condivisione, quasi dispiacendosi che la loro collaborazione fosse sul procinto di finire. Il suo ultimo compito, infatti, sarebbe stato il col-laudare “la macchina per vedere ciò che c’è”, ver-sione portatile, e teoricamente più accessibile, del Miraclon. Come unico esemplare di ‘vedente’ an-cora conosciuto, era diventato l’ultima speranza per quell’utopico progetto; era colui che, a detta di Andrey, avrebbe potuto impostare lo strumento in base ai parametri di densità di vantablack pre-senti nel luogo di sua massima concentrazione: New York.

Passo dopo passo Elof e Lawrence si addentra-rono nel secco scheletro di New York, una città

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che, con i suoi abitanti rinchiusi all’interno de-gli edifici, ricordava più i set artificiali di un film Western che il glorioso dinamismo della capitale d’Occidente. Lawrence, che poteva apprezzare solo in parte quello spettacolo tombale, provava a rappresentarlo tramite i racconti sui quali ave-va provato a ricostruire i suoi riferimenti visivi. S’immaginava quegli scenari come simili a quelli di Flatlandia, mondo bidimensionale dove la po-polazione è composta da figure geometriche la cui forma varia a seconda della classe di appar-tenenza. Mentre raccontava ad Elof le vicissitu-dini del romanzo, questi contemplava ciò che lo circondava seguendo il suo compagno nello stes-so forzo immaginifico; entrambi si incontravano quindi in un’ipotesi di realtà che, per ragioni op-poste, non era dato vedere a loro. Proseguirono verso Manhattan immersi in questo stato surreale e semi-cosciente, solo che, mentre la posizione di Lawrence non molto diversa da quella dei passan-ti che incontravano, quella di Elof era propria di un privilegiato in un mondo al contrario. Si salutarono all’entrata del loro palazzo di Tri-beca. Elof sapeva che era giunto il momento che aveva procrastinato per tutta la durata del viaggio, sapeva che quei giorni di collaborazione stavano per terminare e che, da lì in poi, avrebbe potuto contare solo su se stesso come in un eterno ritorno di quella dannata spelonca. Paradossalmente, non

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vi era grossa differenza fra quella missione e il suo progetto altrettanto utopico di dipingere il buio con il buio. Forse, pensò, almeno nella caverna ci era arrivato indipendentemente e non per asse-condare le richieste di uno scienziato pazzo. Odiava il modo in cui Andrey lo trattava alla pari dello strumento che stringeva fra le mani, come un vuoto intermezzo che fungeva al suo fine; ora che non vi era più la saggia presenza di Lawrence a rassicurarlo, quest’odio si trasformava quasi in negazione. Mise a tacere la vena schizofrenia che si era riproposta e proseguì; ma uno strano umore avvolgeva i suoi pensieri. La sua meta, più per utilità che per simbologia, era quel palazzo di centotre piani alla fine della trentaquattresima, la cui invadenza gli era sempre sembrata fuori misura. L’Empire State Building si rivelava l’unico edificio adatto allo scopo per cui il nostro protagonista era rientrato in città. Alto 1454 piedi, la sua vetta era la posizione più privi-legiata da dove poter impostare “la macchina per vedere ciò che c’è”, il punto di tensione più strug-gente fra il buio del mondo terreno e la salvezza dell’atmosfera. Guardò lo strumento che reggeva fra le mani e il cui peso si distribuiva sul collo tramite uno stret-to laccetto che ad ogni passo gli provocava una leggerissima escoriazione. Sentiva che stava per arrivare il momento decisivo fra i tanti che aveva

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vissuto passivamente negli ultimi giorni; sentiva che da lì a poco tutto sarebbe finito. Elof Kelly Eliasson girovagava per l’impecca-bile linea tracciata dalla trentasettesima stra-da. Improvvisamente, indirizzò il suo tipizzante nervosismo contro la perpendicolarità ossessiva dell’urbanismo new yorkese: Arthur aveva ragio-ne quando diceva che era il tipico prodotto della mentalità pragmatica americana, di quell’idea che ogni fine dovesse essere perseguito con il mi-nor impiego di tempo possibile. S’indignò e pensò “la distanza più corta fra due punti non è una linea retta”. Incominciò quindi a correre, zig-zagando da un lato all’altro della strada e ritardando, ancora, il momento della risoluzione. Che immenso piacere provava nel riprodurre, in tal modo, l’andamento al quale il resto della popolazione era stato costretto ad abi-tuarsi. Quale insperata soddisfazione nel sentirsi brevemente dalla parte corretta della società. Questa sensazione di giubilo lo perseguitò fino a che non giunse, quasi inconsapevolmente, da-vanti all’ingresso dell’iconico grattacielo. Con sua moderata sorpresa, non vi era traccia delle folle che occupavano solitamente la hall, né alcun se-gno del personale di sicurezza. Arrivò così, facil-mente, alla porta dell’ascensore per scoprire con paradossale sollievo che il suo funzionamento era interrotto. Evidentemente, ogni elemento che

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componeva la regolare dinamica del palazzo, era fuori servizio. Si diresse verso le scale di emergen-za, ne spalancò la porta di accesso e incominciò a salire, gradino dopo gradino, seguendo un ritmo pacato ma inesorabile. Pensò, e si perse nuova-mente nella sua anima incominciando ad estra-niarsi dalla cognizione dei propri passi. Proseguiva in uno strano vortice dalla clinica pre-cisione, percorrendo i piani di numero dispari nel-la più totale apprensione e quelli di numero pari immerso nella sicurezza del suo compito. Si ritro-vava quindi a fuggire il peso della sua responsabi-lità, per poi risollevarsi ripassando le istruzioni di Andrey ad alta voce. Percepiva il profumo dell’al-titudine divenire sempre più intenso, masticando amaro e pur assaporando il gusto dei suoi stessi ripensamenti. Arrivato al novantaquattresimo piano però, quel susseguirsi automatico dovette ricredersi, scon-trandosi con la risposta di una porta chiusa. Ne graffiò il rivestimento ligneo. Provo a scardinar-la, senza esito alcuno. Si stese sull’ultimo gradino stremato dallo sforzo, ma si rialzò prontamente, deciso a prolungare la sua inerzia. Sfondò quin-di la finestra con il gomito, scavalcandola senza timore. Si aggrappò lentamente all’appiglio del cornicione e diede inizio alla sua salita finale. Vin-ceva l’equilibrio e le poche forze rimaste scalando principalmente con l’impeto delle braccia mentre

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lo strumento che portava al collo pendeva fasti-diosamente spingendolo a cadere. Aveva lacrime e denti stretti per le continue scosse di vento gelido. Godeva di uno stato di incoscien-za mai raggiunto prima. Si spinse fino ad una de-cina di metri dalla vetta, quando l’ennesima folata gli sfilò la macchina dal collo. Reagì; allungò la mano destra lasciando alla sinistra l’onere dell’ul-timo appiglio e afferrò quel carico per il laccetto, salvando così anni di lavoro. Si aggrappò, guardò in alto, scorgendo quell’an-tenna che aveva riconosciuto in infiniti scatti e rappresentazioni cinematografiche. Quasi la vide squarciare la nebbia oscura mentre osservava le forme di finestre e sporgenze diventare quelle da lui dipinte giorni addietro. Si ricordò di quei mesi di solitudine urticante e respirò le preoccupazioni che lo tormentavano congelato dal granito sotto i polpastrelli. Salì, quasi senza coscienza nella figurazione astratta dei suoi ragionamenti: “la macchina per vedere ciò che c’è” era un prototipo realizzato con materiali non replicabili; lui l’aveva salvata, ma quali sarebbero stati i mezzi e i decenni neces-sari affinché questa acquisisse un impatto rilevan-te e universalmente fruibile? Da vedente sarebbe rimasto isolato fino alla fine dei suoi giorni nello stesso esilio della spelonca. Era giunto al limite più alto di quel pennone e vi si

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appigliava con un braccio, scoprendo le lenti del dispositivo e il suo lungo obiettivo con gesta pu-ramente automatiche. La sua volontà era invece cambiata. La sua propensione voleva abbandona-re quel passato per un futuro in cui poter gioca-re la sua occasione di vivere come uno fra tanti. Impugnò il corpo della macchina e ne scombinò un vetrino capovolgendone il funzionamento. Appoggiò i suoi occhi spenti sulla testa del mi-croscopio che la costituiva e osservò, stupefatto, Manhattan trasformarsi in un piano geometrico senza tatto.

Si ricordò delle frasi annotate in un taccuino mesi addietro: “I contorni della realtà obbiettiva sva-niscono gradualmente mentre ci addentriamo, passo dopo passo, in quel quadrato nero, finché tutto quello che amiamo e per cui siamo vissuti, svanisce alla vista”.

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“Quello che lei non ha ancora capito, come le dicevo, rappresenta un passaggio insolito nel percorso di questo destino comune: il vantablack infatti assorbe la totalità della luce solare, in parole povere non rispedisce al mittente quello che dovrebbe; non chieda a me, ma coloro che possedevano il dono dell’immagine giurano che non percepiscono nulla più di una piatta distesa oscura che avvolge tutto senza la distrazione della notte. A lei il destino sembra invece aver riservato un trattamento differente...”Elof si precipitò allora alla finestra, in cerca forse di una prova, forse di un’illuminazione, ma davanti ai suoi occhi solo la poco rassicurante certezza che per lui nulla era cambiato.

Il quadrato nero di Malevich è l’opera prima dello scrittore italo-americano Arthur “Jack” Milanese. La sua attribuzione, tuttavia, non è stata mai ufficialmente riconosciuta dell’autore stesso che, presumibilmente, ha preferito vivere una carriera nell’ombra occupandosi dell’azienda di famiglia nella sua Philadelphia. Arthur “Jack” Milanese è nato nel 1942 e si è spento nel 2009.

In queso volume viene presentata la prima edizione italiana del romanzo a cura di Graziano Meneghin e Jacopo Trabona.

€ 10