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INTRODUZIONE ALLA
BAGHAVAT GITA
È un poema in lingua sanscrita, composto da cir-ca 700 versi raccolti in 18 capitoli. Inglobato nel
più ampio poema epico della letteratura indiana e dell’intera letteratura mondiale, Mahabharata, ne
costituisce il “gioiello” centrale.
Arthur Schopenhauer ha definito la Baghavat Gita come “l’opera più istruttiva e sublime che esista
al mondo”. Per Immanuel Kant “questo poema esige il più ampio rispetto”. Il Mahatma Gandhi
ne ha parlato come dell’insegnamento che lo ha condotto a superare tutte le vicende e le tragedie
della sua vita.
Paolo Ammassari
DA PAGINA 2 A PAGINA 7
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
GIORGIO FORNI
Pagina 8
ArchitettiArchitetti
e artistie artisti
alle prese alle prese
con l’ornamentocon l’ornamento
EEROSROS
DADA INDOSSAREINDOSSARE
Ricordo un’appassionata conver-saz ione con i l Re t tore dell’Università degli Studi di Pavia nella pri-
m a v e r a dell’anno scorso
in cui finimmo per scegliere il tema della virtù della speranza come argomen-to centrale del-
la prima edizio-ne di un ciclo che affronterà altre virtù teo-logali e cardina-li, che sono scolpite nel
grande monu-mento gotico dell’Arca delle virtù di San Pietro in Ciel d’Oro. Il complesso pensiero di Agosti-no è per noi, in modo incontro-vertibile, un classico entro la no-
stra tradizione intellettuale. E come accade spesso nei nostri incontri con il classico, noi siamo indotti a saggiare al tempo stes-so la nostra prossimità e la no-stra distanza. Il registro della
prossimità è attestato dal fatto elementare che la riflessione, la meditazione e la lezione di Ago-stino ci parlano. Esse hanno luce
e ci inducono a riflettere su noi stessi e sul mondo. Come la luce delle stelle lontane e morte, la
lezione di Agostino ci coinvolge e ci attrae. Se adottiamo il regi-stro della distanza, noi - cui ac-cade di vivere e convivere nei decenni di avvio del ventunesi-mo secolo - avvertiamo per con-trasto il carattere situato e re-
moto del discorso agostiniano. Ma nella nostra riflessione e nel confronto delle idee, nell’esame riflessivo delle nostre vite, av-vertiamo al tempo stesso qual-cosa come l’eco della parola del
doctor gratiae.
Così, fra prossimità e distanza, abbiamo progettato un ciclo di convegni internazionali che, per
un verso, sono dedicati all’esercizio della ricostruzione e dell’interpretazione dello straor-dinario repertorio della ricerca di Agostino, per altro verso sono incentrati su quanto fa problema per noi, oggi. L’Arca delle virtù
può generare modi più ricchi e illuminanti di riflessione sulla condizione umana e sui suoi di-lemmi, sulle sfide e le opportu-nità, sul senso dei modi di con-vivere per noi contemporanei.
Per questo, il nostro convegno di oggi si articola in due sessio-ni. La prima è dedicata all’interpretazione di aspetti e temi del discorso e della lezione di Agostino sulla speranza. La seconda è dedicata alle doman-
de che noi oggi formuliamo e al-le risposte che noi oggi abboz-
ziamo, con tut-ta l’eco del re-taggio.
Possiamo chie-derci: perché il
tema di questa prima edizione è la speranza? Quali le ragioni di una scelta, entro il paniere
de l l e v i r t ù dell’Arca? Con-sentitemi una breve digressio-ne, per chiarire le ragioni della scelta.
Qualche anno fa, mi è stato chiesto di com-
mentare la celebre affermazione di Agostino a proposito della priorità della fede sulla ragione e sulla comprensione umane che
è alla base di un modo di vivere l’esperienza religiosa e di dare senso alla propria vita finita. Un modo che ha avuto una persi-stente influenza e ha esercitato una durevole attrazione nel cor-
so dei secoli. Basta pensare, in proposito, agli straordinari saggi di Blaise Pascal che, nei suoi Pensieri, riflette sui limiti della
ragione e sulle ragioni del cuore. Riconosciamo in questo modo le radici profonde di una gramma-
tica della virtù della fede, che la inscrive al centro dell’esperienza umana. A prima vista, tutto ciò sembra riguardare così stretta-mente le credenze di chi vive, sente e testimonia l’esperienza religiosa che qualsiasi discorso
cerchi di verificare ed esplorare una possibile estensione della prospettiva agostiniana ad altra sfera sembra destinato allo scacco. Ma potremmo sempre impegnarci in una scommessa,
(a pagina 5)
L’editoriale
di Salvatore Veca
LA SPERANZA
DA AGOSTINO
AL XXI SECOLO
Numero centodiciannove Marzo 2017
DALL’INTRODUZIONE AL CONVEGNO SULL’”ARCA DELLE VIRTÙ”, PROMOSSO DALL’UNIVERSITÀ DI PAVIA E DALLO IUSS NELLA SALA DEL CAMINO DEL BROLETTO IL 10 FEBBRAIO SCORSO. Sono molto lieto e onorato
per il compito affidatomi di introdurre i lavori della
prima edizione del ciclo di convegni, L’Arca delle Virtù: da Agostino al XXI secolo. Questa prima edizione è dedicata alla
virtù della speranza.
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Il giornale di Socrate al caffè
Direttore Salvatore Veca - Direttore responsabile Sisto Capra Editore Associazione “Il giornale di Socrate al caffè”
(iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)
Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia
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Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002
IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 119- MARZO 2017 Pagina 2
La Baghavat Gita
(pron. “ghita”)
è un poema in
lingua sanscrita,
composto da circa
700 versi raccolti
in 18 capitoli.
Inglobato nella
sterminata
epopea
Mahabharata, ne
costituisce il
“gioiello” centrale.
Il “Mahabharata”, a sua volta, è composto da 75.000 a 95.000 versi, a seconda delle varie versioni giunte a oggi (in confronto, l’Iliade ne ha
15.696), ed è il poema epico riguardante la grande (“maha”, corrispondente al greco me/gav
megas e al latino magnus) stirpe, storica e leggendaria, dei discendenti dell’Imperatore Bharata, nella notte dei tempi.
Nel mondo indiano l’importanza di tale discendenza è così sentita da designare il nome
ufficiale della Republic of India: Bharat Ganarajya (lo Stato del popolo dei Bharata). All’interno della Baghavat, come in un gioco di scatole cinesi o di matrioske, i capitoli più
eminenti sono i primi sei. Tra questi poi i più importanti sono i primi tre. All’interno di questi, il fondamentale è il secondo capitolo e, infine, al suo interno i versi sui quali si regge tutto
l’impianto religioso, filosofico ed esistenziale dell’insegnamento contenuto nella Baghavat Gita, come si vedrà in seguito, sono due: il 45 e il 48. A tali capitoli e a tali versi si riferisce il presente testo.
“Bhagavat Gita”, significa “poema, il canto del Bhagavan”, cioè maestro per eccellenza, e concerne l’insegnamento esistenziale impartito dalla divinità Khrisna all’eroe Arjuna,
prima che avvenga uno scontro di dimensioni cosmiche, tra le
schiere dei malvagi usurpatori e quelle dei legittimi sovrani. Prima di entrare specificamente nell’introdurre il poema, è
necessario tratteggiare il quadro storico, filosofico e religioso nel quale la Baghavat Gita è venuta alla luce.
LA COMPOSIZIONE DELLA BAGHAVAT GITA
Nel mondo del pensiero indiano
sovente si celebra una fusione tra eventi cronologicamente separati e anche alquanto
distanti. Fino a prima dell’epoca moderna, infatti, nell’ambito indiano non si annetteva grande
importanza alla storia, in quanto i suoi fondamenti erano considerati, se non proprio eterni, almeno risalenti a epoche immemorabili. Per questa ragione succede che eventi o composizioni di testi
siano considerati indipendenti
dalla cronologia del loro accadimento. Non fa eccezione a tale
attitudine la attribuzione della composizione della Baghavat Gita, stimata dai moderni attorno al V-III secolo a.C. a Vyasa (letteralmente: il Compilatore), il quale peraltro è considerato anche autore di
buona parte dei Veda, testi ai quali seri studi e commenti
attribuiscono una antichità di qualche millennio a.C. Vyasa è infatti chiamato anche Veda-
Vyasa, l’autore dei Veda. Ma data la sostanziale coerenza del corpus letterario vedico e la successiva composizione della Baghavat Gita, tale fatto non riveste una eccessiva importanza.
LA LINGUA
DELLA BAGHAVAT GITA A differenza degli antichi Veda e anche delle più recenti
Upanishad, il sanscrito della Baghavat Gita presenta una forma più articolata nel lessico e nella struttura sintattica e grammaticale. È pertanto di
(a pagina 3)
Introduzione allaIntroduzione allaIntroduzione alla
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Paolo Ammassari
Pagina 3 IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 119 - MARZO 2017
minore difficoltà di comprensione. Probabilmente la arcaica forma sanscrita dei Veda, data la molteplicità dei
significati dei singoli termini, era dovuta al proliferarsi strutturale di somiglianze e analogie, forse frutto di un pensiero analogico, magico e intuitivo, ancora non sviluppato (o costretto) nelle
forme logiche maggiormente orientate alla univocità dei significati. Gli specialisti distinguono il “(sanscrito) vedico” dal “sanscrito (classico)” (saṃskṛtaṃ, lett. „perfezionato, purificato’). Il sanscrito della
Gita, anche se non ancora definibile come “classico”, presenta una variegata articolazione di suffissi, prefissi e infissi che qualificano la base radicale nei suoi molti significati possibili e contempla otto casi
(due in più del latino classico), con tre numerali (singolare, duale e plurale) e tre generi
(maschile, femminile e neutro). I verbi, oltre all’attivo e al passivo, sviluppano una forma
intermedia; i modi sono quattro e i tempi cinque. La trasmissione generazionale della tradizione vedica è certamente avvenuta in forma orale per secoli. Solo attorno al terzo secolo a.C. si è cominciato
a codificarla in forma scritta secondo una modalità detta “brahmi”, su supporti costituiti da corteccia di betulla, della quale peraltro non restano molte tracce. Solo attorno all’ottavo secolo d.C. è stata
adottata la forma attuale di scrittura detta, un po’ enfaticamente, “devanagari”, che significa città (o luogo) degli dei, la cui origine è stata, sulla base di seri studi, ipotizzata
come semita. È abbastanza evidente come la trasmissione orale, avvenuta per millenni, e una doppia trascrizione scritta (brahmi e devanagari) abbiano comportato ingenti variazioni, aggiunte, specificazioni,
interpretazioni, a una lingua già di per sé così complessa.
La stessa Baghavat Gita, proprio in conseguenza della lettura “intuitiva” del testo, presenta sovente alcune discrepanze interpretative, in
relazione alla base culturale di chi legge e la considera. La presente introduzione è stata basata sulla lettura comparativa di 5 commentatori e traduttori (nota 1. Le note al testo sono alle pagine 6-7), e soprattutto in base ad alcune serie di lezioni impartite dalla viva voce di Maestri, qualificati dalla appartenenza a lignaggi connessi alla più stretta aderenza agli insegnamenti,
scritti, di Shankara (grande riformatore della cultura vedica e brahmanica, VII – VIII secolo d.C.).
IL CONTESTO FILOSOFICO E RELIGIOSO
DELLA BHAGAVAT GITA
Come accennato in precedenza, la radice culturale, sia filosofica, e sia religiosa e, in definitiva,
esistenziale, di tutta la cultura del sub continente indiano, è costituita dai Veda. Quattro raccolte principali, più altre quattro secondarie, di
precetti soprattutto pratici, per il compimento di riti propiziatori, e anche sacrifici, ai quali le divinità sono chiamate in ausilio.
Lo studioso Roberto Calasso ha ipotizzato che la cura quasi ossessiva, fin nel dettaglio, dei riti, fosse una disciplina dedicata a formare ed
educare l’attenzione quale parte del processo di sviluppo della propria mente. Veda, Brahmana e Upanishad venivano imparati a memoria. E questa era parte
essenziale della paideia. La lingua dei Veda, il sanscrito arcaico, è di
difficile interpretazione, data la moltitudine di significati semantici, anche se costretti da una chiara grammatica, e spesso il testo sembra
esprimere contemporaneamente più messaggi colleganti diversi livelli di profondità interpretativa. Uno degli elementi centrali dei veda è il Rta, l’equilibrio della legge che
regola cosmo, natura e la essenza umana, alla osservanza della quale, è preposto il dio Varuna. In seguito, tale concetto sarà sviluppato nel Dharma, o legge, così centrale nella filosofia della Baghavat
Gita. È interessante notare come il corrispondente etimologico esatto di Ṛta è nell’iranico di Zarathustra Aša (ant. pers. Arta; vedi per esempio Artaserse) “verità, ordine”, cardine centrale dello
zoroastrismo, opposto a druj “menzogna”. I Veda pullulano di divinità,
maggiori e minori, rette e malvagie, derivanti probabilmente da percezioni
animistiche dalla realtà. Così, accanto alle divinità superiori, reggitrici della evoluzione del mondo e, possibilmente, dell’umanità, si manifestano le
divinità delle rocce, delle piante (con particolare accentuazione verso le piante psicotrope da cui il succo del leggendario soma), degli animali, delle sorgenti, dei fiumi, delle montagne, delle
case e degli oggetti domestici e da battaglia. In omaggio a tutte queste deità i Veda prevedono riti e sacrifici, anche se in alcuni brani, si sottolinea la maggior importanza della ricerca interiore rispetto a tali
manifestazioni esteriori. Il carattere devozionale e non cruento dei riti e dei sacrifici, probabilmente per effetto di una supposta esigenza mercantilistica, mutò sostanzialmente e divenne
proposta di scambio con le divinità, un do ut des che avrebbe condotto anche a
sacrificare animali innocenti al fine di ottenere una presunta benevolenza da parte della
divinità. Sembra tuttavia che originariamente non fosse così: il rito e il sacrificio erano azioni compiute in intonazione degli uomini con i ritmi e i movimenti della natura;
dal “miracolo” del percorso del sole, all’alternarsi delle stagioni, all’arrivo della pioggia monsonica, alle nascite e alle morti, alla malattia e alla
guarigione. La divinità principale espressa nei Veda è Indra, probabilmente personificante il condottiero che aveva
guidato una popolazione nomade dalle steppe degli attuali Kazakistan e Turkmenistan, attraverso le montagne dell’Himalaya sino alla pianure dell’Indo, abitate
da popolazioni di etnia dravidica, delle quali si sa poco, se non che
avessero la pelle scura e alcune credenze in divinità zoomorfe, desunte da sigilli e poche incisioni rimaste nelle rovine di Harappa e di Mohenio Daro. Il
che non significa che non possano avere avuto contesti culturali e religiosi più evoluti. Sull’incontro tra i bianchi Arya invasori e gli scuri stanziali dell’Indo, forse non è di
estranea derivazione il rapporto tra il bianco Arjuna e lo scuro dio Khrisna, come espresso nella Baghavat Gita. Nella grande tradizione indiana gli dei maggiori hanno uno specifico colore della pelle: rosso, per
Brahma, nero o blu scuro per Vishnu, bianco per Shiva. Khrisna, avatar di Vishnu, è generalmente rappresentato con la pelle di colore azzurro chiaro. Posteriori ai Veda, furono
composti sia i Brahmana, commentari ai Veda, e sia le Upanishad (insegnamento orale
dal maestro agli allievi seduti accanto a lui), organico assieme sistematico della filosofia e della
religiosità. Veda, Brahmana e Upanishad vengono chiamati Shruti, testi di riferimento indiscusso per la religione e tradizione spirituale induista. L’obiettivo di attuare una ricerca interiore stabilito da alcune
strofe dei Veda, è trattato, oltre che da questi, soprattutto dalle Upanishad. Sin dalle più antiche (databili all‟VIII secolo a.C.) viene espresso il quadro cosmologico complesso e articolato dei Veda e soprattutto
il tema della ricerca interiore, sempre più profonda. Al fine di raggiungere la unione (yoga) tra l’anima individuale e quella universale, viene indicato l’impiego dei mantra, versetti
dei veda, parole, sillabe, suoni, il primordiale e generale dei quali è AUM. La sua pronuncia coincide quasi con OM ma, come hanno descritto commentatori e maestri, a mano a mano che la attenzione
procede verso ambiti sempre più profondi della mente, tale
(da pagina 2)
(a pagina 4)
“LA MERAVIGLIA DELLA BAGHAVAT GITA
È LA SUA DAVVERO BELLA RIVELAZIONE
SULLA SAGGEZZA DELLA VITA
CHE CONSENTE ALLA FILOSOFIA DI FIORIRE
SULLA RELIGIONE”.
Hermann Hesse
“QUANDO HO LETTO LA BAGHAVAT GITA
E HO RIFLETTUTO SUL COME DIO AVESSE CREATO
QUESTO UNIVERSO, QUALSIASI ALTRA COSA
MI È SEMBRATA COSÌ SUPERFLUA …”.
“HO FATTO DELLA BAGHAVAT GITA LA PRINCIPALE
FONTE DELLA MIA ISPIRAZIONE E GUIDA, AL FINE
DELLE RICERCHE SCIENTIFICHE
E DELLA FORMAZIONE DELLE MIE IDEE”.
Albert Einstein
“LA BAGHAVAT GITA È UNA SCRITTURA VERA
DEL GENERE UMANO, UNA CREATURA VIVENTE
PIUTTOSTO CHE UN LIBRO,
CON UN NUOVO MESSAGGIO PER OGNI ETÀ
E UN NUOVO SIGNIFICATO PER OGNI CIVILTÀ”.
Sri Aurobindo
RAPRRESENTAZIONE IN SCRITTURA DEVENAGARI
STILIZZATA DEL MANTRA AUM.
IL CARATTERE SIMILE A UN 3 E LA GRAZIA
DI DESTRA INDICANO LA LETTERA A, LA VIRGOLA
ORIZZONTALE LA LETTERA U E IL QUADRATINO
SUPERIORE IL SUONO NASALE M
IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 119 - MARZO 2017 Pagina 4
suono si tramuta in un sottile, mentalmente sussurrato e vibrato, “aàam” prolungato (nota 2). I testi successivi, i Purana, alcune tarde Upanishad e i due poemi epici, Mahabarata e Ramayana,
sono denominati Smriti, sviluppi successivi del pensiero vedico, delle Shruti, e accessibili a un pubblico più vasto dei Bramani, degli kshatriya e degli vaishya, includendovi gli shudra e persino
le donne! I paria, o dalit, o “fuori casta”, o Intoccabili, invece no. Solo il Mahatma Gandhi promulgò la equiparazione ai diritti umani di costoro. Ma ancora oggi, i dalit, che rappresentano circa il 15% della popolazione indiana, sono di
fatto emarginati e costretti a lavori manuali di pulizia di latrine a cielo aperto, che in qualsiasi
paese civile verrebbero considerati come infami; e infamanti per chi li tollerasse. Peraltro sin dall’insegnamento dei
Veda e dai Brahmana l’appartenenza a una casta o a una delle miriadi di sotto-caste, per nascita, avrebbe potuto essere modificata in virtù del comportamento dell’individuo. In
teoria; le consorterie castali, le associazioni di categoria, le corporazioni, custodi del più conveniente status quo, lo avrebbero certamente ostacolato. Siddharta Gautama, detto il Buddha apparve nel tardo
scenario vedico-upanishadìco del VI secolo a.C. Nato da una famiglia di bramani di alto lignaggio, a 29 anni abbandonò la famiglia e gli agi per un periodo di ascetismo e dopo aver trascorso in meditazione alcuni giorni e
notti, emerse appunto come buddha, il risvegliato, l’“illuminato”. Il suo insegnamento poggia sul riconoscimento del dolore esistenziale e sul modo di vincerlo, attraverso una serie di
otto precetti. I primi cinque sono di ordine comportamentale ma gli ultimi tre sono istruzioni per una
corretta meditazione al fine di uscire dal ciclo delle rinascite ed entrare nella beatitudine del Nirvana, attraverso la esperienza
del Samadhi. Nei secoli a tali terminologie sono stati attribuiti diversi significati; il più distante dall’origine ha riguardato il Nirvana, che è stato inteso come uno stato di annullamento dei sensi, un vuoto,
un nulla. Proprio il contrario della pienezza del suo significato: uno stato di totale consapevolezza del mondo e di sé. In epoca coeva o appena successiva alla nascita del
buddismo sono state composte quelle che vengono chiamate Darshana (visioni o punti di vista) del pensiero indiano, successivamente sistematiizzate da Shankara, il più noto, chiamato Adi, il preminente, di un mitico
lignaggio con il medesimo nome, nell’VIII secolo d.C. Esse sono sommariamente riportate nella nota 3. In particolare la Baghavat Gita si articola richiamando il Samkhya come base teorica della realtà e
poi lo Yoga, come procedura per comprenderla.
Il termine Prakriti, introdotto dai
Veda e dalle Upanishad e codificato dal Samkhya, ha assunto, come sovente accade nel complesso delle dottrine dell’antica India, diversi significati, ognuno legato agli altri da connessioni di affinità o
somiglianza. Tuttavia, il significato di maggiore attribuzione è quello di “evoluzione della natura”. Non si tratta di un oggetto, o materia, anche se a volte non si è resistito alla tentazione di divinizzarla;
piuttosto di una funzione applicata alla natura, a Purusha. Anche questo termine ha assunto una diversità di significati: da natura a principio primordiale, da organismo sociale dalle membra del quale si assicurava fossero
nate le caste, ognuna con il suo immutabile destino e ruolo nella comunità (il romano Menenio
Agrippa deve aver convinto, con il suo celebre apologo, i plebei, artigiani e operai, che avevano incrociato le braccia, ritirandosi a
Monte Sacro, con considerazioni analoghe, a ritornare a lavorare), ad anima individuale, con la a minuscola, ad Anima generale, immanifesta, principio di tutto, nella quale l’anima particolare è
destinata a con-fondersi. È forse più interessante la definizione di Purusha nell’agnostico Samkhya: Natura. Si ha così la coppia Purusha - Prakriti costituita dalla Natura e dal suo Principio funzionale
evolutivo. Hardware Purusha e software Prakriti! Sia le scritture più antiche (Veda e Upanishad) sia il Samkhya considerano l’attività di Prakriti articolata secondo tre sotto-princìpi, denominati Guna
(qualità). Sattwa Guna è il principio e l’attività della creazione, Raja Guna lo è per la conservazione dell’esistenza e Tamas Guna lo è per la distruzione. Tali principi possono
essere considerati analoghi ai principi greci di Eros e Tanathos che reggono anch’essi l’evolversi
della natura delle cose e degli uomini. Singolare l’assonanza, forse casuale, tra il vedico Tamas e il dionisiaco Thanatos.
L’attività delle tre Guna si esplica a ogni aspetto o livello della natura. In ambito cosmologico, nei tempi di esistenza delle divinità, un giorno di Brahma, o kalpa, è stato “calcolato “ pari a 4,32 miliardi di anni (ci siamo
quasi, andando indietro, fino alla terra raffreddata!), e la vita di Brahma (anche gli dei hanno una nascita, una vita e una morte), pari alla vita passata e futura dell’Universo, dalla nascita alla
sua distruzione, è “stimata” pari a 311 x 1012 anni. Si sappia che l’età dell’Universo è stata calcolata dai cosmologi moderni in circa 14 x 109 anni, meno di un millesimo della vita di Brahma. La nascita dell’Universo è
descritta nella cosmologia vedica come derivante da un atto eccezionale (una singolarità!) del principio indifferenziato, il Brahaman. Da questo sono nati gli dei della creazione, Brahma, Vishnu e Shiva. Nelle scritture
vediche la nascita degli dei da parte del Brahaman è descritta
come una increspatura della
superficie del suo oceano. Non può non venire in mente l’analogia con il titolo del racconto dello scienziato Geofrrey Landis, “Increspature sul Mare di Dirac”,
riferendosi alla denominazione che Paul Dirac, premio Nobel nel 1933, dette al concetto di Vuoto,
come mare infinito di particelle a “energia negativa”. Ad ogni modo Sattwa Guna si è dato da fare nella creazione
dell’Universo, Raja nel suo mantenimento e Tamas dominerà nella sua prossima distruzione; ma in ogni istante della vita dell’Universo, come delle creature, i loro organi, le loro cellule, tutte e tre, quale più,
quale meno, sono presenti. Con il benevolo consenso degli astrofisici contemporanei, si potrebbe dire che Sattwa fosse protagonista nel documentato Big Bang, Tamas lo sarà nella sostenibile ipotesi del
Big Crunch o con la morte termica e la dissoluzione entropica. Sattwa domina nella formazione degli ipotizzati Buchi bianchi, mentre Tamas è il reggitore di quei divoratori di materia e di energia che sono i Buchi neri.
Nel mondo organico, vegetale, animale e, in particolare, nell’umano le cose si complicano. Accanto ai principi della Prakriti nasce l’espressione dei principi etici umani. Principi assoluti, presenti nella generalità delle
religioni e nelle leggi dell’umanità, pur in presenza di aberrazioni
relativistiche: non uccidere, non
rubare, non dire il falso, onora chi ti ha messo al mondo e ha avuto cura di te, eccetera. Tali principi sono assunti nel concetto generale di Legge. Per i vedici e
nelle forme successive delle religioni orientali (induismo, buddismo, jainismo, sikhismo):
Dharma. Per converso, tutto ciò che è contrario alla Legge, al Dharma, viene chiamato con A-dharma ed è sinonimo di vizio,
peccato, crimine, male, eccetera. Si ha quindi una funzione esistenziale dell’uomo, “a matrice”, dove in una ordinata sono espresse le Guna e nell’altra Dharma, la sua negazione, Ad-harma, e le forme intermedie.
Pertanto, ogni Guna di per sé non è né bene né male, ma è la sua adesione al Dharma, o al suo contrario, che ne qualifica il contenuto etico. La spinta creativa del Sattwa può far nascere ciò che
si conforma al Dharma o anche al suo contrario e così Raja e anche Tamas, che può distruggere nell’uno che nell’altro caso. Tali concetti derivano dai testi “sacri” vedici e delle Upanishad, ma sono espressi ordinatamente
nel Samkhya, in modo assolutamente laico, agnostico e privi di ogni riferimento religioso. È la naturale tendenza degli umani a sviluppare la fede in ciò che appare soprannaturale e ad attribuire a cose e funzioni nature
soprannaturali e divine. Così nascono le divinità dei luoghi,
dalle sorgenti ai fiumi, dalle
nuvole alla folgore, dalle montagne alle foreste, dal fuoco alla pioggia; e così nascono le divinità delle funzioni, e tra queste anche le Guna, divinizzate
in Brahma il creatore, Vishnu il mantenitore reggitore del mondo e Shiva il distruttore. Come le
Guna anche i rispettivi dei non agiscono solo per il bene o per i male. Così Brahma non crea solo cose perfette, ma anche il loro
contrario e Shiva non distrugge solo cose buone ma anche quelle cattive. Così quindi, come nell’Universo e nell’Umano, Prakriti si esprime con la contemporanea presenza delle tre Guna, così le tre divinità
corrispondenti reggono il destino cosmico e dell’uomo. In questo caso, in accordo o meno con il Dharma. Viene a questo punto da chiedersi coma faccia l’uomo a comportarsi,
nell’articolazione funzionale di Prakriti e delle tre Guna, secondo il Dharma, secondo la Legge dei Princìpi universali. La risposta è nel concetto di karma, letteralmente: nell’agire. È bene ciò che è contenuto nel karma che
si adegui al Dharma (Khrisna chiama tale karma yaghya. Verso 11, capitolo III). Sono bene il pensiero, la parola, l’azione, la non omissione che si adeguino ai Comandamenti: nihil sub sole novi. Tuttavia, l’insegnamento etico contenuto nella Bhagavat Gita si
spinge radicalmente oltre.
IL MAHABHARATA
Si tratta, assieme al Ramayana,
del più ampio poema epico delle letteratura indiana e dell’intera letteratura mondiale. Sembra che originariamente, nella indefinibile notte dei tempi, fosse composto
da circa 22.000 versi, trasmessi
rigorosamente oralmente con assoluta fedeltà, di generazione in generazione, e che successivamente, come spesso è successo a ogni latitudine, devoti commentari, entusiasti esegeti e volenterosi apportatori di altre
storie e leggende, abbiano convogliato sul testo originario enormi quantità di aggiunte, superfetazioni, incrostazioni religiose, storiche e letterarie. Come sopra si è detto, il poema contiene, nelle versioni
contemporanee, quasi centomila versi. Il poema narra le interminabili vicende belliche tra la leggendaria stirpe dei Bharata contro i nemici esterni e anche quelle sviluppatesi
all’interno della stessa, naturalmente con puntuali interventi delle varie divinità, a sostegno di questo o quel combattente, a seconda dei propri lignaggi. Uno o due millenni dopo, Omero, Esiodo e successivamente
i tragici greci hanno ripercorso, con arte eccelsa, le medesime tracce e i medesimi miti. Con qualche differenza, però. Mentre
gli eroi dell’Iliade ascoltavano le
voci degli dei ed erano ammaliati
dalle apparizioni, divenendone inconsapevoli succubi, “eroici automi”, i protagonisti del Mahabharata, e soprattutto della Baghavat Gita, erano fortemente rivolti alla acquisizione della consapevolezza interiore e gli dei
divenivano i loro istruttori nello sviluppo di tale dote profonda. Secondo la tradizione, ma non c’è verso di verificarla scientificamente, i fatti trattati principalmente dal Mahabharata
avvennero attorno al 3200 a.C. Tuttavia, al di là di pretese storicizzanti non tanto fondate, è indubbio che i fatti storici, come accadde per quelli dell’Iliade, fossero davvero molto antichi.
LA BHAGAVAT GITA La storia inizia quando tra due
rami della dinastia dei Bharata,
discendenti da due fratelli, Dhritarashtra e Pandu, avviene una lunga serie di dispute pertinenti l’attribuzione della legittimità del regno del paese. È una storia che vede contrapporsi i malvagi Kaurava, usurpatori, bari
e violenti, ai Pandava, legittimi, corretti e vittime non violente dei cugini. In sintesi, i Pandava erano in sintonia con la legge del Dharma e quindi rappresentavano il Bene, i Kaurava ne erano i
trasgressori ed erano pertanto la personificazione del Male. La contrapposizione tra il bene e il male arrivò infine alla battaglia suprema tra i due schieramenti coinvolgenti tutte le armate del mondo e il campo di battaglia, che
è chiamato Kurukshetra, oltre a designare una specifica località posta a nord est di Delhi, significa, nel caratteristico multisenso dei termini sanscriti, anche “il campo della esistenza”, il campo stesso della vita, ove
Bene e Male, il comportamento in armonia o in contrasto con il Dharma universale, sono in perenne confronto, esterno e interno.
I Kaurava si battevano in
supporto di Duryodhana, i più perverso tra loro. Tra i cinque fratelli Pandava avrebbe dovuto combattere Arjuna, il migliore degli arcieri del mondo, a sua volta avatar di Indra, a supporto del pretendente legittimo del
trono, il fratello maggiore Yudhisthira. Prima della battaglia, i due schieramenti chiesero al dio Khrisna, avatar di Vishnu, di scegliere quale delle due parti appoggiare e questi lasciò ai due
condottieri la scelta se avere dalla propria il dio stesso, ma con l’impegno di non combattere, o la sua armata. I malvagi scelsero l’armata e il dio, disarmato, si limitò a essere l’auriga del carro
di battaglia di Arjuna. Prima che la battaglia inizi, il carro di Khrisna e Arjuna passa tra i due sterminati schieramenti delle armate contrapposte e Khrisna esprime ad Arjuna uno degli insegnamenti esistenziali più
importanti di tutta la storia del pensiero umano. Armato dell’arco di Shiva, il giusto Arjuna passa in rassegna i nemici
dello schieramento opposto,
anche per individuare chi colpire
per primo, ma si accorge che tra essi ci sono i cugini, i parenti, i maestri. Ancora una volta in questa vicenda emerge il disinteresse indiano per la precisa collocazione temporale e quindi Arjuna non si sorprende di
scorgere tra i nemici anche i padri, i nonni e gli avi. Tutto il mondo, nello spazio e nel tempo, si confronta sul terreno della esistenza. Arjuna improvvisamente è colto
da una profonda emozione nel vedere nello schieramento nemico persone alle quali voleva bene, che rispettava, per parentela, amicizia e di rapporto tra discepolo e maestri. A tale emozione fa seguito l’esplosione
di una crisi esistenziale profonda: come conciliare il proprio dovere di khsatrya, di guerriero, con
l’affetto verso persone da combattere, come contemperare la mente con il cuore. Arjuna è preso da un tale sconforto che
accantona l’arco e comunica al dio che piuttosto di uccidere avrebbe lasciato il suo status di guerriero e avrebbe accettato persino di diventare un mendicante, coperto dal disprezzo e dall’accusa di
disonore e viltà. Qui inizia il canto e l’insegnamento del dio, maestro supremo, Khrisna che alla fine convincerà Arjuna a battersi contro il “Male”. Per prima cosa il dio ricorda ad
Arjuna di essere uno kshatrya e che il più profondo compito del guerriero non sia un generico combattere ma sia specificamente la lotta al Male. Un abbandono del suo ruolo sarebbe in contrasto con il Dharma.
In secondo luogo ogni azione, e in particolare la corretta azione del guerriero, sarà conseguente esclusivamente all’obiettivo posto: la sconfitta del male; indipendentemente dalle attese
dell’esito della battaglia (nota 4). Quanto sinora detto dal dio, la necessità di adeguare la propria
azione con il Dharma, è in accordo con insegnamento del Samkhya, che stabilisce la correttezza o meno di ogni
comportamento umano. Quanto invece seguirà, da questo momento in poi, sarà in accordo con l’insegnamento dello Yoga. Lo Yoga, infatti, costituendo l’Unione tra l’Assoluto immanifesto e la molteplicità
relativa del mondo manifestato, costituisce il sentiero per la vera conoscenza, tale da improntare il comportamento al Dharma, non attraverso la via della necessaria, coercitiva, obbedienza ai suoi
precetti, a volte in contrasto con altre pulsioni e desideri, ma attraverso l’armonia di una consapevolezza tanto profonda da superare ogni possibile contrasto (nota 5). Khrisna dice allora ad Arjuna,
verso 45 capitolo II, “Pòrtati [con la meditazione] al di sopra [del mondo fenomenico] delle tre Guna” e, verso 48, capitolo II, “… una volta stabilizzato nello Yoga, allora agisci !” (nota 6). Una volta espansa e approfondita la propria
coscienza, mantenuta stabilmente a tale livello, essendo in armonia
(da pagina 3)
(a pagina 6)
Il ricordo di Angelo Cerri
professore di umanità
Docente per 20 anni
al liceo “Foscolo”
Vent’anni fa scompariva
uno dei più grandi profes-
sori “di umanità” del Liceo Foscolo di Pavia.
Il professor Angelo Cerri
era nato a Pavia il 17 giu-
gno 1938, si era laureato
in lettere antiche nel 1961
e aveva cominciato subito
a insegnare. Era stato tra-sferito a Taranto appena
un mese e mezzo dopo le
nozze e da lì si era sposta-
to, nel volgere di pochi
anni, a Fabriano, Mantova e Vigevano. Poi, l’atteso
ritorno a Pavia, prima alle
Magistral i e infine
all’amatissimo Liceo Clas-
sico “Ugo Foscolo”, dove
ha insegnato dal 1972 al 1992.
Ha dedicato la vita ai suoi
studenti, che ha amato ed
educato come un padre
severo ma estremamente
buono. Le sue lezioni era-
no speciali: senza perdere di vista l’argomento del
giorno e seguendo perfet-
tamente un filo logico, riu-
sciva a passare, ad esem-
pio, da un brano di greco alla società contempora-
nea. Le sue erano lezioni
di vita, e si restava a boc-
ca aperta ad ascoltare.
Adesso che si viaggia in
Internet, potrà sembrare
irrilevante, ma già allora il professor Cerri faceva
viaggiare con la fantasia i
suoi studenti. Il rapporto
con i suoi ragazzi era in-
staurato sulla fiducia e sul rispetto reciproco; e
ciò consentì di stringere
anche un sincero legame
di amicizia.
Nel 1992 abbandonò defi-
nitivamente la scuola, ma
non l’amore per la cultura e la passione per i libri,
testimoniata dai numerosi
testi scritti sul suo tema
preferito (il Foscolo di Pa-
via) e su altri argomenti.
La moglie Enzina e il figlio Leonardo ringraziano tutte
le persone che lo ricorda-
no e il Rotary Club Pavia
Minerva, di cui il professor
Cerri era socio, che lo ha
celebrato in una serata nella quale sono state por-
tate numerose testimo-
nianze della sua attività di
docente, di studioso e di
amico.
Pagina 5 IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 119 - MARZO 2017
suono si tramuta in un sottile, mentalmente sussurrato e vibrato, “aàam” prolungato (nota 2). I testi successivi, i Purana, alcune tarde Upanishad e i due poemi epici, Mahabarata e Ramayana,
sono denominati Smriti, sviluppi successivi del pensiero vedico, delle Shruti, e accessibili a un pubblico più vasto dei Bramani, degli kshatriya e degli vaishya, includendovi gli shudra e persino
le donne! I paria, o dalit, o “fuori casta”, o Intoccabili, invece no. Solo il Mahatma Gandhi promulgò la equiparazione ai diritti umani di costoro. Ma ancora oggi, i dalit, che rappresentano circa il 15% della popolazione indiana, sono di
fatto emarginati e costretti a lavori manuali di pulizia di latrine a cielo aperto, che in qualsiasi
paese civile verrebbero considerati come infami; e infamanti per chi li tollerasse. Peraltro sin dall’insegnamento dei
Veda e dai Brahmana l’appartenenza a una casta o a una delle miriadi di sotto-caste, per nascita, avrebbe potuto essere modificata in virtù del comportamento dell’individuo. In
teoria; le consorterie castali, le associazioni di categoria, le corporazioni, custodi del più conveniente status quo, lo avrebbero certamente ostacolato. Siddharta Gautama, detto il Buddha apparve nel tardo
scenario vedico-upanishadìco del VI secolo a.C. Nato da una famiglia di bramani di alto lignaggio, a 29 anni abbandonò la famiglia e gli agi per un periodo di ascetismo e dopo aver trascorso in meditazione alcuni giorni e
notti, emerse appunto come buddha, il risvegliato, l’“illuminato”. Il suo insegnamento poggia sul riconoscimento del dolore esistenziale e sul modo di vincerlo, attraverso una serie di
otto precetti. I primi cinque sono di ordine comportamentale ma gli ultimi tre sono istruzioni per una
corretta meditazione al fine di uscire dal ciclo delle rinascite ed entrare nella beatitudine del Nirvana, attraverso la esperienza
del Samadhi. Nei secoli a tali terminologie sono stati attribuiti diversi significati; il più distante dall’origine ha riguardato il Nirvana, che è stato inteso come uno stato di annullamento dei sensi, un vuoto,
un nulla. Proprio il contrario della pienezza del suo significato: uno stato di totale consapevolezza del mondo e di sé. In epoca coeva o appena successiva alla nascita del
buddismo sono state composte quelle che vengono chiamate Darshana (visioni o punti di vista) del pensiero indiano, successivamente sistematiizzate da Shankara, il più noto, chiamato Adi, il preminente, di un mitico
lignaggio con il medesimo nome, nell’VIII secolo d.C. Esse sono sommariamente riportate nella nota 3. In particolare la Baghavat Gita si articola richiamando il Samkhya come base teorica della realtà e
poi lo Yoga, come procedura per comprenderla.
Il termine Prakriti, introdotto dai
Veda e dalle Upanishad e codificato dal Samkhya, ha assunto, come sovente accade nel complesso delle dottrine dell’antica India, diversi significati, ognuno legato agli altri da connessioni di affinità o
somiglianza. Tuttavia, il significato di maggiore attribuzione è quello di “evoluzione della natura”. Non si tratta di un oggetto, o materia, anche se a volte non si è resistito alla tentazione di divinizzarla;
piuttosto di una funzione applicata alla natura, a Purusha. Anche questo termine ha assunto una diversità di significati: da natura a principio primordiale, da organismo sociale dalle membra del quale si assicurava fossero
nate le caste, ognuna con il suo immutabile destino e ruolo nella comunità (il romano Menenio
Agrippa deve aver convinto, con il suo celebre apologo, i plebei, artigiani e operai, che avevano incrociato le braccia, ritirandosi a
Monte Sacro, con considerazioni analoghe, a ritornare a lavorare), ad anima individuale, con la a minuscola, ad Anima generale, immanifesta, principio di tutto, nella quale l’anima particolare è
destinata a con-fondersi. È forse più interessante la definizione di Purusha nell’agnostico Samkhya: Natura. Si ha così la coppia Purusha - Prakriti costituita dalla Natura e dal suo Principio funzionale
evolutivo. Hardware Purusha e software Prakriti! Sia le scritture più antiche (Veda e Upanishad) sia il Samkhya considerano l’attività di Prakriti articolata secondo tre sotto-princìpi, denominati Guna
(qualità). Sattwa Guna è il principio e l’attività della creazione, Raja Guna lo è per la conservazione dell’esistenza e Tamas Guna lo è per la distruzione. Tali principi possono
essere considerati analoghi ai principi greci di Eros e Tanathos che reggono anch’essi l’evolversi
della natura delle cose e degli uomini. Singolare l’assonanza, forse casuale, tra il vedico Tamas e il dionisiaco Thanatos.
L’attività delle tre Guna si esplica a ogni aspetto o livello della natura. In ambito cosmologico, nei tempi di esistenza delle divinità, un giorno di Brahma, o kalpa, è stato “calcolato “ pari a 4,32 miliardi di anni (ci siamo
quasi, andando indietro, fino alla terra raffreddata!), e la vita di Brahma (anche gli dei hanno una nascita, una vita e una morte), pari alla vita passata e futura dell’Universo, dalla nascita alla
sua distruzione, è “stimata” pari a 311 x 1012 anni. Si sappia che l’età dell’Universo è stata calcolata dai cosmologi moderni in circa 14 x 109 anni, meno di un millesimo della vita di Brahma. La nascita dell’Universo è
descritta nella cosmologia vedica come derivante da un atto eccezionale (una singolarità!) del principio indifferenziato, il Brahaman. Da questo sono nati gli dei della creazione, Brahma, Vishnu e Shiva. Nelle scritture
vediche la nascita degli dei da parte del Brahaman è descritta
come una increspatura della
superficie del suo oceano. Non può non venire in mente l’analogia con il titolo del racconto dello scienziato Geofrrey Landis, “Increspature sul Mare di Dirac”,
riferendosi alla denominazione che Paul Dirac, premio Nobel nel 1933, dette al concetto di Vuoto,
come mare infinito di particelle a “energia negativa”. Ad ogni modo Sattwa Guna si è dato da fare nella creazione
dell’Universo, Raja nel suo mantenimento e Tamas dominerà nella sua prossima distruzione; ma in ogni istante della vita dell’Universo, come delle creature, i loro organi, le loro cellule, tutte e tre, quale più,
quale meno, sono presenti. Con il benevolo consenso degli astrofisici contemporanei, si potrebbe dire che Sattwa fosse protagonista nel documentato Big Bang, Tamas lo sarà nella sostenibile ipotesi del
Big Crunch o con la morte termica e la dissoluzione entropica. Sattwa domina nella formazione degli ipotizzati Buchi bianchi, mentre Tamas è il reggitore di quei divoratori di materia e di energia che sono i Buchi neri.
Nel mondo organico, vegetale, animale e, in particolare, nell’umano le cose si complicano. Accanto ai principi della Prakriti nasce l’espressione dei principi etici umani. Principi assoluti, presenti nella generalità delle
religioni e nelle leggi dell’umanità, pur in presenza di aberrazioni
relativistiche: non uccidere, non
rubare, non dire il falso, onora chi ti ha messo al mondo e ha avuto cura di te, eccetera. Tali principi sono assunti nel concetto generale di Legge. Per i vedici e
nelle forme successive delle religioni orientali (induismo, buddismo, jainismo, sikhismo):
Dharma. Per converso, tutto ciò che è contrario alla Legge, al Dharma, viene chiamato con A-dharma ed è sinonimo di vizio,
peccato, crimine, male, eccetera. Si ha quindi una funzione esistenziale dell’uomo, “a matrice”, dove in una ordinata sono espresse le Guna e nell’altra Dharma, la sua negazione, Ad-harma, e le forme intermedie.
Pertanto, ogni Guna di per sé non è né bene né male, ma è la sua adesione al Dharma, o al suo contrario, che ne qualifica il contenuto etico. La spinta creativa del Sattwa può far nascere ciò che
si conforma al Dharma o anche al suo contrario e così Raja e anche Tamas, che può distruggere nell’uno che nell’altro caso. Tali concetti derivano dai testi “sacri” vedici e delle Upanishad, ma sono espressi ordinatamente
nel Samkhya, in modo assolutamente laico, agnostico e privi di ogni riferimento religioso. È la naturale tendenza degli umani a sviluppare la fede in ciò che appare soprannaturale e ad attribuire a cose e funzioni nature
soprannaturali e divine. Così nascono le divinità dei luoghi,
dalle sorgenti ai fiumi, dalle
nuvole alla folgore, dalle montagne alle foreste, dal fuoco alla pioggia; e così nascono le divinità delle funzioni, e tra queste anche le Guna, divinizzate
in Brahma il creatore, Vishnu il mantenitore reggitore del mondo e Shiva il distruttore. Come le
Guna anche i rispettivi dei non agiscono solo per il bene o per i male. Così Brahma non crea solo cose perfette, ma anche il loro
contrario e Shiva non distrugge solo cose buone ma anche quelle cattive. Così quindi, come nell’Universo e nell’Umano, Prakriti si esprime con la contemporanea presenza delle tre Guna, così le tre divinità
corrispondenti reggono il destino cosmico e dell’uomo. In questo caso, in accordo o meno con il Dharma. Viene a questo punto da chiedersi coma faccia l’uomo a comportarsi,
nell’articolazione funzionale di Prakriti e delle tre Guna, secondo il Dharma, secondo la Legge dei Princìpi universali. La risposta è nel concetto di karma, letteralmente: nell’agire. È bene ciò che è contenuto nel karma che
si adegui al Dharma (Khrisna chiama tale karma yaghya. Verso 11, capitolo III). Sono bene il pensiero, la parola, l’azione, la non omissione che si adeguino ai Comandamenti: nihil sub sole novi. Tuttavia, l’insegnamento etico contenuto nella Bhagavat Gita si
spinge radicalmente oltre.
IL MAHABHARATA
Si tratta, assieme al Ramayana,
del più ampio poema epico delle letteratura indiana e dell’intera letteratura mondiale. Sembra che originariamente, nella indefinibile notte dei tempi, fosse composto
da circa 22.000 versi, trasmessi
rigorosamente oralmente con assoluta fedeltà, di generazione in generazione, e che successivamente, come spesso è successo a ogni latitudine, devoti commentari, entusiasti esegeti e volenterosi apportatori di altre
storie e leggende, abbiano convogliato sul testo originario enormi quantità di aggiunte, superfetazioni, incrostazioni religiose, storiche e letterarie. Come sopra si è detto, il poema contiene, nelle versioni
contemporanee, quasi centomila versi. Il poema narra le interminabili vicende belliche tra la leggendaria stirpe dei Bharata contro i nemici esterni e anche quelle sviluppatesi
all’interno della stessa, naturalmente con puntuali interventi delle varie divinità, a sostegno di questo o quel combattente, a seconda dei propri lignaggi. Uno o due millenni dopo, Omero, Esiodo e successivamente
i tragici greci hanno ripercorso, con arte eccelsa, le medesime tracce e i medesimi miti. Con qualche differenza, però. Mentre
gli eroi dell’Iliade ascoltavano le
voci degli dei ed erano ammaliati
dalle apparizioni, divenendone inconsapevoli succubi, “eroici automi”, i protagonisti del Mahabharata, e soprattutto della Baghavat Gita, erano fortemente rivolti alla acquisizione della consapevolezza interiore e gli dei
divenivano i loro istruttori nello sviluppo di tale dote profonda. Secondo la tradizione, ma non c’è verso di verificarla scientificamente, i fatti trattati principalmente dal Mahabharata
avvennero attorno al 3200 a.C. Tuttavia, al di là di pretese storicizzanti non tanto fondate, è indubbio che i fatti storici, come accadde per quelli dell’Iliade, fossero davvero molto antichi.
LA BHAGAVAT GITA La storia inizia quando tra due
rami della dinastia dei Bharata,
discendenti da due fratelli, Dhritarashtra e Pandu, avviene una lunga serie di dispute pertinenti l’attribuzione della legittimità del regno del paese. È una storia che vede contrapporsi i malvagi Kaurava, usurpatori, bari
e violenti, ai Pandava, legittimi, corretti e vittime non violente dei cugini. In sintesi, i Pandava erano in sintonia con la legge del Dharma e quindi rappresentavano il Bene, i Kaurava ne erano i
trasgressori ed erano pertanto la personificazione del Male. La contrapposizione tra il bene e il male arrivò infine alla battaglia suprema tra i due schieramenti coinvolgenti tutte le armate del mondo e il campo di battaglia, che
è chiamato Kurukshetra, oltre a designare una specifica località posta a nord est di Delhi, significa, nel caratteristico multisenso dei termini sanscriti, anche “il campo della esistenza”, il campo stesso della vita, ove
Bene e Male, il comportamento in armonia o in contrasto con il Dharma universale, sono in perenne confronto, esterno e interno.
I Kaurava si battevano in
supporto di Duryodhana, i più perverso tra loro. Tra i cinque fratelli Pandava avrebbe dovuto combattere Arjuna, il migliore degli arcieri del mondo, a sua volta avatar di Indra, a supporto del pretendente legittimo del
trono, il fratello maggiore Yudhisthira. Prima della battaglia, i due schieramenti chiesero al dio Khrisna, avatar di Vishnu, di scegliere quale delle due parti appoggiare e questi lasciò ai due
condottieri la scelta se avere dalla propria il dio stesso, ma con l’impegno di non combattere, o la sua armata. I malvagi scelsero l’armata e il dio, disarmato, si limitò a essere l’auriga del carro
di battaglia di Arjuna. Prima che la battaglia inizi, il carro di Khrisna e Arjuna passa tra i due sterminati schieramenti delle armate contrapposte e Khrisna esprime ad Arjuna uno degli insegnamenti esistenziali più
importanti di tutta la storia del pensiero umano. Armato dell’arco di Shiva, il giusto Arjuna passa in rassegna i nemici
dello schieramento opposto,
anche per individuare chi colpire
per primo, ma si accorge che tra essi ci sono i cugini, i parenti, i maestri. Ancora una volta in questa vicenda emerge il disinteresse indiano per la precisa collocazione temporale e quindi Arjuna non si sorprende di
scorgere tra i nemici anche i padri, i nonni e gli avi. Tutto il mondo, nello spazio e nel tempo, si confronta sul terreno della esistenza. Arjuna improvvisamente è colto
da una profonda emozione nel vedere nello schieramento nemico persone alle quali voleva bene, che rispettava, per parentela, amicizia e di rapporto tra discepolo e maestri. A tale emozione fa seguito l’esplosione
di una crisi esistenziale profonda: come conciliare il proprio dovere di khsatrya, di guerriero, con
l’affetto verso persone da combattere, come contemperare la mente con il cuore. Arjuna è preso da un tale sconforto che
accantona l’arco e comunica al dio che piuttosto di uccidere avrebbe lasciato il suo status di guerriero e avrebbe accettato persino di diventare un mendicante, coperto dal disprezzo e dall’accusa di
disonore e viltà. Qui inizia il canto e l’insegnamento del dio, maestro supremo, Khrisna che alla fine convincerà Arjuna a battersi contro il “Male”. Per prima cosa il dio ricorda ad
Arjuna di essere uno kshatrya e che il più profondo compito del guerriero non sia un generico combattere ma sia specificamente la lotta al Male. Un abbandono del suo ruolo sarebbe in contrasto con il Dharma.
In secondo luogo ogni azione, e in particolare la corretta azione del guerriero, sarà conseguente esclusivamente all’obiettivo posto: la sconfitta del male; indipendentemente dalle attese
dell’esito della battaglia (nota 4). Quanto sinora detto dal dio, la necessità di adeguare la propria
azione con il Dharma, è in accordo con insegnamento del Samkhya, che stabilisce la correttezza o meno di ogni
comportamento umano. Quanto invece seguirà, da questo momento in poi, sarà in accordo con l’insegnamento dello Yoga. Lo Yoga, infatti, costituendo l’Unione tra l’Assoluto immanifesto e la molteplicità
relativa del mondo manifestato, costituisce il sentiero per la vera conoscenza, tale da improntare il comportamento al Dharma, non attraverso la via della necessaria, coercitiva, obbedienza ai suoi
precetti, a volte in contrasto con altre pulsioni e desideri, ma attraverso l’armonia di una consapevolezza tanto profonda da superare ogni possibile contrasto (nota 5). Khrisna dice allora ad Arjuna,
verso 45 capitolo II, “Pòrtati [con la meditazione] al di sopra [del mondo fenomenico] delle tre Guna” e, verso 48, capitolo II, “… una volta stabilizzato nello Yoga, allora agisci !” (nota 6). Una volta espansa e approfondita la propria
coscienza, mantenuta stabilmente a tale livello, essendo in armonia
(da pagina 3)
(a pagina 6)
per dirla in modo pascaliano an-che se blandamente infedele, cercando di saggiare lo spazio di
altre virtù, le virtù civili, l’ambito delle virtù della convi-venza umana. Un ambito che
chiama in causa i fondamentali dell’arte del convivere che coin-volge le persone, abbiano esse credenze religiose o meno. E mi venne fatto di pensare che la priorità della fede abbia a che
fare con un valore cruciale per l’arte della convivenza: il valore della fiducia. La fiducia, come ci ha suggerito il grande filosofo scettico David Hume, è il cemento della socie-tà. Si consideri che quanto più si
disperde e si dissipa il prezioso bene pubblico della fiducia che circola nella società, tanto più si accorcia e si contrae l’ombra del futuro sul presente. E ciascuno prova l’esperienza, di cui parla-va il poeta metafisico John Don-
ne, della condanna alla solitudi-ne involontaria. Il gran Decano della Cattedrale di Saint Paul di-ceva: nessun uomo è un’isola. Quindi, potremmo dire, la virtù civile della mutua fiducia è re-
sponsabile della buona compa-gnia umana, della condivisione del bene comune. Alla base di un senso elementare di recipro-
cità, rispetto e tolleranza trovia-mo, come precondizione, la vir-tù sociale della fiducia. Senza fi-
ducia, i beni comuni della reci-procità, del rispetto e della tolle-ranza diventano beni scarsi. Senza fiducia, l’esperienza della d i ve r s i t à è e sp e r i e n za dell’estraneità. E l’estraneità può indurre spesso all’inimicizia
e al conflitto, in tempi difficili. Ma soprattutto, e questo mira a suggerirci la breve digressione, senza fiducia si inaridiscono le radici della speranza. L‟ombra del futuro si contrae sul nostro
presente e ci accade di restare intrappolati in una sorta di con-danna alla dittatura del presen-te. Il futuro non è più quello di una volta, come ha scritto Paul Va-léry e hanno replicato, negli ulti-
mi anni, i graffiti sui muri delle nostre città. Senza voglia di fu-turo, senza desiderio categorico e progetto di futuro, sembra che no i rest iamo inch iodat i all’orizzonte di breve termine dei mezzi e perdiamo il gusto
dello sguardo e del pensiero e della riflessione di lungo termine sui fini. Per questo, abbiamo
scelto la virtù della speranza per inaugurare i convegni pavesi sull’Arca delle virtù. Agostino nei
suoi Sermones ci ha suggerito:
“Nulla è tanto contrario alla speranza quanto il guardare indietro, cioè riporre la speranza nelle cose che scorrono via e passano
/…/ Protenditi, slanciati verso ciò che ti sta davanti, dimen-tica il passato. Non voltarti indietro … Quante cose ti dice il mondo, quanto schiamazzo fa alle tue
spalle perché tu ti rivolga a guardare indietro”.
Tra prossimità e distanza, il no-stro primo convegno si assume la semplice responsabilità di av-
valerci al meglio del retaggio e non mollare, e perseverare nel riflettere assieme su un futuro più degno di lode e sulle virtù che è bene esercitare e far fiori-re nelle nostre vite individuali e collettive. Questa, almeno, è la
nostra scommessa pascaliana: da Agostino al XXI secolo.
… DALLA PRIMA PAGINA
IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 119 - MARZO 2017 Pagina 6
con i mondi interno ed esterno,
sei pronto a compiere la corretta azione (Karma), in
armonia con la legge (Dharma).
La procedura per portarsi al di
sopra delle tre Guna,
trascendere cioè il mondo fenomenico, sebbene giudicata centrale per il pensiero e per l’azione corretti, non è esplicitata letteralmente nell’insegnamento di Khrisna, ma è implicita in tutta la storia
del pensiero e della spiritualità indiana, e non solo indiana (nota 7). I Veda indicano la esperienza interiore come più importante dei riti e dei sacrifici agli dei. Le Upanishad la esplicitano come veicolo per la
riunificazione di atman e Atman. La pratica dell’esperienza interiore e il conseguente sviluppo della consapevolezza, indicata dai Veda, dalle Upanishad e dallo Yoga, avviene
attraverso il processo meditativo. La meditazione è stata anche la procedura di espansione dell’ approfondimento della consapevolezza di Siddharta il Buddha, che ha portato alla
illuminazione e alla decisione di condividerne la saggezza a tutta l’umanità. È la pratica millenaria della meditazione che, attraverso varie fasi di sviluppo
della coscienza, porta l’uomo ad avere esperienza degli stati più
profondi e sottili della propria mente, laddove si formano pensieri ed emozioni. Una volta che si sviluppi una familiarità in questa condizione, mediante la costante pratica meditativa,
tutti i potenziali contrasti, problemi e dissonanze della vita vengono risolti da un contesto, a loro sottostante e comune, di consapevolezza più profonda che li ingloba, comprende e armonizza.
Durante il processo meditativo il
pensiero raggiunge i livelli più profondi della mente e i sensi si ritraggono dalle percezioni esterne; ma quando si esce dalla meditazione i sensi ritornano liberi e la loro attività
viene potenziata dallo stato di armonia raggiunto durante la meditazione. L’insegnamento di Khrisna non
è, in alcun modo, quello di ritrarsi dall’azione. Non è necessario ritirarsi nella vita
strettamente intellettuale del monaco o dell’eremita. La normale vita nel mondo è invece una vita di azione e la meditazione è la procedura che è applicabile sia all’una che all’altra modalità esistenziale.
Nel verso 48 del II capitolo, Khrisna invita Arjuna, una volta trasceso il mondo delle tre Guna, a compiere l’azione (kuru karmani). Nel verso 4 del III
capitolo il dio specifica come
non sia astenendosi dalla azione che l’uomo giunge alla non-azione, ottenuta invece nel processo meditativo, nella quale la mente compresa in se stessa raggiunge la pace profonda del
Samadhi (il mettere insieme, l’unire). Dice il dio: “non si ottiene la perfezione mediante la semplice rinuncia”. E
aggiunge (verso 6, III capitolo): “ colui che sta seduto, frenando gli organi di azione e indugiando
nella sua mente sugli oggetti dei sensi, inganna se stesso: di costui si può dire che sia un ipocrita”. La pratica costante durante il corso della propria esistenza della meditazione, unita alla
quotidiana azione, viene paragonata da commentatori della Baghavat Gita a un arco: per scagliare il più lontano possibile la freccia e ottenere il
massimo dell’efficacia nel tiro, è
necessaria una fase di carica della sua energia, ritraendo nell’arco, teso il più possibile, la freccia all’indietro. E questo è il compito della fase meditativa. Questo è anche il significato del
verso 45 del II capitolo: il trascendere l’esperienza del mondo governato da Prakriti e dalle sue modalità operative, le
tre Guna, ma poi tornare nel mondo e agire. Le manifestazioni sensoriali
connesse ai contrasti del mondo esterno perdono quindi di importanza, ma ciò non vuol dire un disinteresse all’azione e al mondo esterno. Al contrario, una mente dotata di consapevolezza stabile e
profonda si riversa in un pensiero e in un’azione che si occupano meno delle contingenze superficiali e di più di quelle più importanti come la
bellezza, la giustizia, l’etica, la
fratellanza umana, l’armonia con la natura in tutte le sue manifestazioni. Il rapporto visivo con la bellezza di un fiore non è distratto o superficiale, ma più intimo, più diretto. Il
soggetto che guarda, l’oggetto guardato e l’atto stesso del guardare sono integrati e uniti, “aggiogati”, oggetto di Yoga.
L’azione, integrata, consapevole e profondamente armonizzata con il mondo interno ed
esterno, è l’obiettivo raggiunto dalla pratica costante della trascendenza delle Guna, mediante la procedura meditativa. Quando ciò accade, l’aspettativa dei frutti dell’azione, pur essendone la
ragione causale, perde importanza nel compiere la azione stessa. Sono pertanto trascurati dalla mente, mentre
(da pagina 4)
(a pagina 7)
Nota 1
Si sono consultati e, per quanto possibile, approfon-
diti, i testi, le traduzioni e i commenti seguenti:
Yogi Ramacharaka, versione dal sanscrito,
Milano-Roma 1954.
Sarvepalli Radhakhrisna, commento in
italiano di Icilio Vecchiotti, Ubaldini, Roma
1964.
Maharishi Mahesh Yogi, A new translation
and commentary. Oslo, 1967. Traduzione
italiana di Simonetta de Robertis, Roma
1981.
Raniero Gnoli, Il Canto del Beato, Edizioni
UTET, 1976-1987.
Bhaktivedanta Swami Prabhupada, La Bha-
gavad-Gita, così com’è. Traduzione in ita-
liano. Bhaktivedanta Book Trust, Italia
1989.
L‟autore di questo articolo ha avuto il privilegio di
ascoltare il racconto, il commento e l‟insegnamento
dalla viva voce di Maharishi Mahesh Yogi, negli
anni 1964-1970.
Nota 2
Oṃ Maṇi Padme Hūṃ è il mantra del Buddha della
Compassione e protettore di chi è in imminente
pericolo. Si tratta altresì di uno tra i più noti e diffu-
si dei numerosi mantra del Buddhismo, soprattutto
della scuola Mahāyāna. Traducibile con “Om il
Gioiello nel Loto Hum”: Oṃ rappresenta il princi-
pio universale, il suono che diede origine a tutte le
cose, e lo si pone all'inizio di ogni mantra; Mani in
sanscrito significa “Gioiello” e indica l'essenza del
Nirvana, il più prezioso dei tesori; Padme significa
“loto” e indica il Saṃsāra, il mondo fenomenico;
Hūṃ è la sillaba che rappresenta la Sapienza che
trionfa sull'odio, ed è utilizzata anche come simbolo
di buon auspicio.
Nota 3
Sono qui riportati i 6 “punti di vista” della filosofia
indiana.
Nyaia (attributo a Gautama, II secolo a. C.
che tratta di logica);
Viseshika (attribuito a Kanada attorno al II
secolo a.C. che tratta della realtà e della sua
conoscenza);
Samkhya, la più antica tra tutte, viene fatta
risalire a un‟epoca mitica nel primo millen-
nio a.C, a opera di Kapila, mentre ai nostri
giorni è giunta solo una parte, denominata
Samkhya karika (strofa del Samkhya) com-
posta da Ishvarakhrisna nel IV secolo d.C.;
Yoga, attribuito a Patanjali, composta
anch‟essa attorno al II secolo a.C. e che
tratta della unione (yoga, corradicale di
jungo, jugum, giogo, giungere, unire) tra il
relativo e l‟assoluto, l‟anima individuale e
quella universale, e delle procedure per
attuarla;
Mimansa, attribuita a Jaimimi nel IV-III
secolo a.C., prescrive la esattezza dei riti
per garantire la loro armonia con il Dharma;
Vedanta (il fine dei Veda) generalmente
attribuito a Badarayana nel III -II secolo
a.C. La sua interpretazione è stata oggetto di
varie correnti di pensiero, spesso in conflitto
tra loro. La principale è attribuita a Shanka-
ra è la Advaita Vedanta (non - due; a – dva)
provenente dalle antiche visioni vediche
della unicità dell‟Atman universale e le
singole atman individuali.
Nota 4
Ciò può solo sembrare in contrasto con
l‟atteggiamento apparentemente pacifista di chi,
come il Mahatma Gandhi, nel corso del secolo scor-
so, aveva fatto profondamente proprio
l‟insegnamento della Baghavat Gita. In realtà Gan-
dhi non rinunciò né alla lotta per conseguire
l‟indipendenza dell‟India, e neanche alla forza.
Rinunciò alla violenza, ma utilizzò, nei confronti
dell‟Impero Britannico, l‟enorme impatto di resi-
stenza passiva di quasi un miliardo di indiani.
Nota 5
Albert Einstein, quello straordinario scienziato che
ha fatto dell‟intuizione, molto di più della deduzio-
ne, il principale strumento della sua ricerca, ha
scritto: “No problem can be solved from the same
level of consciousness that crated it”, “Nessun pro-
blema può essere risolto se affrontato al medesimo
livello di consapevolezza che lo ha creato”.
Nota 6
Verso 45 del capitolo II:
Nistray guniò bhav’Arjuna. Giungi al di sopra delle
Guna, diletto Arjuna.
Verso 48 del Capitolo II:
Yoga stah kuru karmani. Stabilizzato nello Yoga
[attraverso la costante pratica dello Yoga] [è allora
il momento che] sarai in grado di compiere la giusta
azione.
Nota 7
Il pensiero e le espressioni, le procedure, le
“tecnologie del sé” (Michel Foucault), nella storia
culturale e filosofica, che hanno avuto come obietti-
vo la trascendenza.
L‟esortazione di Talete, primo dei filosofi
storici dell‟occidente o dalla sacerdotessa
del tempio di Delfi, Fenotea: γνῶθι
σαυτόν, gnōthi sautón, conosci te stesso.
L‟“esame di coscienza” di Pitagora (VI
secolo a.C).
Il riconoscimento di come, quando si perda
il Tao, l‟azione spontanea corretta e
l‟attenzione costante e consapevole al mon-
do, “appaiono precetti morali e dovere”,
espressa da Lao Tze, filosofo cinese del V
secolo a.C., quindi contemporaneo di Sid-
dharta il Buddha, autore del trattato Tao Te
Ching.
Il logos di Eraclito. Gli uomini saggi sono
coloro che riconoscono in loro stessi il lo-
gos, come espressione universale della leg-
ge divina; in molti lo cercano ma pochi lo
trovano, tanto vasti sono i confini della
coscienza. Peraltro il logos, sia nella tradi-
zione platonica, che in quella giudaico ales-
sandrina, che, infine, nel cristianesimo, ha
assunto i significato di Parola intermediaria
tra Dio e il creato.
La atarassia, come ritrazione dei sensi e
libertà dal dolore, nonché sospensione dal
giudizio, dello “scettico” Pirrone (IV seco-
lo a.C.) che conobbe tratti della filosofia
indiana e persiana, accompagnando Ales-
sandro Magno sino all‟Indo.
Il logos come Parola, come Verbo. Vangelo
di Giovanni (III secolo): “In principio era il
logos e il logos era presso di Dio, e Dio era
il logos. Questi era in principio presso Dio”.
Il logos come Parola profonda. Vangelo di
Marco, parabola del seminatore:
“«Ascoltate. Ecco, uscì il seminatore a se-
minare. Mentre seminava, una parte cadde
lungo la strada e vennero gli uccelli e la
divorarono. Un‟altra cadde fra i sassi, dove
non c‟era molta terra, e subito spuntò per-
ché non c'era un terreno profondo; ma quan-
do si levò il sole, restò bruciata e, non aven-
do radice, si seccò. 7 Un‟altra cadde tra le
spine; le spine crebbero, la soffocarono e
non diede frutto. E un‟altra cadde sulla
terra buona, diede frutto che venne su e
crebbe, e rese ora il trenta, ora il sessanta e
ora il cento per uno». E diceva: «Chi ha
orecchi per intendere intenda!».
Ancora, il logos come Parola profonda e
sottile nella mente degli uomini. Vangelo di
Marco, parabola del granello di senape: «A
che cosa possiamo paragonare il regno di
Dio o con quale parabola possiamo descri-
verlo? Esso è come un granellino di senapa
che, quando viene seminato per terra, è il
più piccolo di tutti semi che sono sulla terra;
ma appena seminato cresce e diviene più
grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto
grandi che gli uccelli del cielo possono
ripararsi alla sua ombra. ». Stupefacente,
per chi provi stupore, è la analogia esistente
tra questo brano dell‟evangelista Marco, del
(a pagina 7)
Note al testoNote al testoNote al testo
TTTRARARA LELELE NUMEROSENUMEROSENUMEROSE
INTERPRETAZIONIINTERPRETAZIONIINTERPRETAZIONI DELLADELLADELLA BBBAGHAVATAGHAVATAGHAVAT
GGGITAITAITA, , , ANCHEANCHEANCHE QUELLAQUELLAQUELLA
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Pagina 7 IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 119 - MARZO 2017
l’azione viene compiuta, poiché la loro presenza nella mente
costituirebbe un elemento inopportuno di disturbo e porterebbe a un indebolimento dell’azione stessa (nota 8). L’azione sarebbe in tal caso “priva di grandezza” (verso 49 del capitolo II). Avendo
superato i contrasti e raggiunta l’armonizzazione interiore ed esteriore, la pienezza di pace, di gioia e di amore, l’azione integrata, invece, risulta carica di consapevolezza. Il
raggiungimento della consapevolezza profonda non implica affatto il ritrarsi dal mondo e dalle azioni che questo comporta. Al contrario, dopo la fase meditativa e il raggiungimento del Samadhi,
una volta che si sia rientrati nel mondo, i pensieri, le parole e le azioni vengono attuati al massimo della loro possibile potenzialità. Nei versi 19 e 22 del capitolo IV Khrisna dice: “ Colui le cui
imprese sono libere dal desiderio e da qualunque incentivo che ne derivi, e le cui azioni sono arse dal fuoco della conoscenza, egli è chiamato saggio, dai conoscitori della
realtà. Soddisfatto di qualunque cosa gli venga, al di là delle coppie degli opposti, libero dall’invidia, equilibrato nel
successo e nell’ insuccesso, non è vincolato perfino nell’agire” (nota 9). Molti commentatori della Baghavat Gita hanno interpretato questo insegnamento come un invito a sforzarsi a distaccarsi dalle emozioni al fine di raggiungere la stabilità della mente. Ma tale
sforzo è del tutto innaturale e non produce altro che tensioni, determinando uno stato interiore privo di spontaneità e tutto sommato finto e ipocrita. È
un dannoso errore l’imitazione formale di un uomo realizzato, da parte di chi non lo sia. Altro
è il percorso di sviluppo spirituale condotto spontaneamente dal processo meditativo, secondo le
potenzialità naturali della mente, senza sforzo, tensione o forzata obbedienza a precetti o
a pratiche corporali. L’esperienza della trascendenza sulle Guna e, con la costanza di tale esperienza, l’acquisizione di una consapevolezza profonda e stabile, che unisce il mondo
della manifestazione molteplice con quello non manifestato dell’assoluto (nota 10), è cosa ben diversa dalla ricerca razionale e intellettuale. A confronto con l’esperienza profonda persino i precetti, i riti
e i sacrifici dei Veda sono di importanza trascurabile (nota 11). L’osservanza delle leggi, dei precetti e comandamenti è essenziale. È il dovere della convivenza sociale; ma, al fine
di superare i contrasti che possono portare l’uomo a soffrirne l’obbedienza, l’approfondimento del livello di consapevolezza e la armonizzazione di tutti i
conflitti, attuali e potenziali, sono essenziali per il raggiungimento di un pensiero, di una espressione e di
un’azione corretta, in accordo con detti precetti, non forzata, non ipocrita, non superficiale,
ma contenente gioia, pace, appagamento. È qui racchiuso un tema centrale di tutta storia del pensiero umano. Il rapporto tra Etica e Morale. A volte tali termini sono stati intesi come
sinonimi, altre con significati diversi, da contesto a contesto. Altre volte ciò che si intendeva significare con il primo veniva attribuito al secondo, e
viceversa. Spesso sono stati oggetto di speculazioni nebulose. Quanto qui viene
chiarito è che una cosa sia il comportamento che si adegui ai precetti con un atto di volontà, eventualmente anche in
contrasto con alcune pulsioni interne, e un’altra il comportamento che è frutto
naturale dell’armonizzazione profonda dei contrasti interni e provenienti dall’esterno, e che non abbia necessità di atti coercitivi, poiché i precetti sono semplice espressione formale e
naturale della propria esistenza. In questo senso, al primo tipo di comportamento si dovrebbe applicare il termine Morale. Al secondo Etica. È pertanto evidente che in una società priva di Etica si debba applicare
la Morale coercitiva delle proprie leggi. Ed è altrettanto evidente come in una società etica la coercizione sociale viene a perdere la propria necessità (nota 12). La seconda metà del capitolo III
tratta del rapporto tra l’uomo e gli dei. Questi sono riconosciuti come esistenti e il rapporto di
mutuo rispetto viene incoraggiato, con preghiere, riti e sacrifici. Tuttavia il modo di
offrire le proprie azioni agli dei non implica anche l’abbandonarsi a essi o a esserne soggiogati.
Nel capitolo IV Khrisna riconosce come il tempo sia il responsabile della tragedia della
perdita della saggezza nel corso della storia, per effetto della trasmissione da generazione a generazione. Ogni trasmissione può essere affetta dal “rumore” delle interpretazioni, e dalle
interpretazioni delle interpretazioni, e il messaggio che giunge è distorto e gravemente mutato rispetto il messaggio originariamente trasmesso. Ma nel verso 7 del capitolo IV Khrisna aggiunge un
contenuto salvifico: “Ogni volta che il Dharma viene corrotto e l’Adharma fiorisce, allora io creo me stesso”. I commentatori portano ad esempio sia la incarnazione di Vishnu nell’Avatar di Khrisna, ma anche
la venuta di Buddha e quella di Shankara. Il capitolo V tratta della condizione suprema, raggiungibile dagli uomini attraverso la pratica meditativa.
L’alto stato di consapevolezza raggiunto nella meditazione, con la pratica e il conseguente aumento della familiarità di tali
stati, consente di raggiungere lo stato stabile di unione tra il mondo relativo e l’assoluto. Tale
stato è tuttavia soggetto a un’ulteriore progressione, in quanto dal livello di consapevolezza umana si accede a quello di consapevolezza degli angeli e degli dei e, poi, della più elevata
divinità manifestata, Brahma. Ma non è finita. C’è un ulteriore, finale, livello di coscienza. L’indescrivibile coscienza del
principio assoluto divino, il Brahman. Dice il verso 24 del V Capitolo:
”Colui la cui felicità è dentro di sé, il cui appagamento è dentro di sé, la cui luce è tutta dentro di sé, quello Yogi, essendo uno
con il Brahman, raggiunge la libertà eterna nella coscienza divina”.
E qui, come al termine del viaggio di Dante, è opportuno fermarsi. Si descriverebbero stati e cose che se non vissute, ammesso sia possibile il farlo, sarebbero inaccessibili, del
valore di fiabe e fantasie: “A l’alta fantasia qui mancò possa.” Dopo la lettura, lo studio, la interpretazione e il commento della Baghavat Gita, resta la fertilità dell’insegnamento, non solo spirituale, religioso o
intellettuale, ma soprattutto esistenziale e accessibile ugualmente al credente e al laico. Il credente ne coglie le straordinarie assonanze con le scritture, gli insegnamenti e le pratiche della propria Fede. Il
laico, libero di sfrondare dall’insegnamento gli dei e l’assoluto, lo può applicare a una feconda visione, non confessionale, dell’esistenza umana.
Resta per tutti l’insegnamento centrale della Baghavat Gita, indicato da Khrisna nei versi 45
e 48 del secondo capitolo: il metodo meditativo come processo di ampliamento e
approfondimento della propria coscienza, riverberato nella pienezza, correttezza ed etica dei propri pensiero, parola e azione. Per sé, per gli altri, per la natura tutta.
Paolo Ammassari
(da pagina 6)
I secolo, con un passo della Chandogya
Upanishad, composta circa un millennio
prima: “È questo Sé [Atman] dentro il mio
cuore, che è più piccolo di un grano di riso,
di un grano di orzo, di un grano di senape,
di un grano di miglio, di un nocciolo di un
grano di miglio: questo stesso Sé che è den-
tro il mio cuore è più grande della terra, più
grande dello spazio, più grande del cielo,
più grande di tutti i mondi”.
Vangelo di Luca, 17.21: “I farisei gli do-
mandarono: «Quando verrà il regno di Di-
o?». Gesù rispose loro: «Il regno di Dio è
dentro [entos] di voi!»”.
La consapevolezza dì far parte del logo V,
la ratio cosmica e la necessità della ricerca
interiore di Seneca (I secolo d.C.).
I Colloqui con se stesso di Marco Aurelio
(II secolo d.C.).
La extasis di Plotino (III secolo d.C.): solo
nell‟estasi l‟uno ha la possibilità di vivere la
propria condizione più profonda e l‟unione
del molteplice con l‟Uno, pur non perdendo
la propria individualità.
Agostino di Tagaste, Vescovo di Ippona,
Dottore della Chiesa Cristiana (IV secolo):
Recognosce igitur quae sit summa conve-
nientia. Noli foras ire, in te ipsum redi; in
interiore homine habitat verits; et si tuam
naturam mutabilem inveneris, trascende te
ipsum. Sed memento con te transcendis,
ratiocinantem animam te transcendere.
Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis
accenditur. Riconosci quindi in cosa con-
sista la suprema armonia. Non uscire fuori
di te, ritorna in te stesso; la verità abita
nell‟uomo interiore; e se trovassi che la tua
natura è mutevole, trascendi te stesso. Ma,
un attimo! Quando trascendi te stesso, tra-
scendi l‟anima razionale: tendi pertanto là
dove si accende il lume stesso della ragione.
L‟incipit della terza Cantica di Dante:
La gloria di Colui che tutto move
Per l’Universo penetra e discende
In qualche luogo più e meno altrove
Nel Ciel che più della Sua luce prende
Fui io e vidi cose che ridire
Né sa né può chi di lassù discende,
Ché appressando se al suo Disire
Nostro intelletto si profonda tanto
Che dietro la memoria non può ire
La perenne contemplazione di Meister E-
ckhart (XIII secolo), come rinuncia alla
ragione e alla intelligenza come strumenti
per arrivare all‟esperienza divina, ma me-
diante l‟approfondimento della attenzione
che “ciò che per gli uomini saggi è strumen-
to di conoscenza mentre per gli uomini
semplici è una questione di fede”.
Il castello interiore di Teresa d’Avila (XVI
secolo), come simbolo della ricerca e del
cammino di approfondimento della consa-
pevolezza interiore. Il metodo di Teresa
consiste essenzialmente nell‟esercizio men-
tale rivolto alla calma dello stato disordina-
to dei pensieri, e con loro, delle emozioni,
dei ricordi, ragionamenti e affetti, che impe-
discono l‟accesso a quella profondità della
mente in cui regna sempre la quiete divina.
Le meditazioni di Teresa sono comunque
sempre veicolate o da episodi edificanti, o
da letture o dalla “contemplazione della
natura”.
La Salita del Monte Carmelo, in cui San
Giovanni della Croce (anch‟egli del XVI
secolo), chiamato scherzosamente da Teresa
d‟Avila “piccolo Seneca” sia per la sua
saggezza che per la complessione fisica
esile, descrive uno sforzo sistematico per
l‟incontro con eventi mistici e con Dio.
La dottrina mistica dei Quietisti spagnoli e
francesi (XVII secolo) consistente nel puro
abbandono nella preghiera di quiete alla
volontà divina. Contrastato dalle autorità
ecclesiastiche perché si poneva come alter-
nativa alle pratiche liturgiche tradizionali, il
movimento fu condannato come eretico da
papa Innocenzo XII.
L‟esperienza intuitiva dei fenomenologi
(Edmund Husserl, tra il XIX ed il XX seco-
lo), che definirono come Fenomenologia
Trascendentale la pratica di estrazione dai
fenomeni l‟essenza delle esperienze sogget-
tive, sospendendone attenzione razionale (o
epoché, termine derivato da Pirrone) me-
diante la sfera emozionale della persona.
La Coscienza Trascendentale di Martin
Heidegger e Karl Jaspers (XX secolo). Un
concetto e una via che riprendono la mistica
di Meister Eckhard, attraverso un abbando-
no agli oggetti del mondo per coglierne la
loro ontologia e una meditazione, attraverso
il silenzio interiore, per accedere alle possi-
bilità di nuove manifestazioni di verità
dell‟Essere.
Nota 8
Non priva di importanza pratica è l‟esperienza che i
tennisti o i golfisti provano nel loro gioco e i musi-
cisti nelle loro esecuzioni. Tanto più la consapevo-
lezza integrata viene portata sull‟azione e meno sul
ragionamento o meno sull‟attenzione del successo,
tanto più l‟esito è efficace. Il colpo perfetto, la suo-
nata straordinaria si raggiungono quando il giocato-
re, o il pianista, diviene tutt‟uno con la racchetta da
tennis o la mazza da golf, o la tastiera del pianofor-
te. Forse più di tutte le discipline sportive il tiro con
l‟arco sembra essere quello che maggiormente ne-
cessiti di una consapevolezza integrata e profonda,
non distratta dalla ragione né dal successo del tiro.
Arjuna era un arciere.
Nota 9
Vengono in mente i versi della poesia “Se” di Ru-
dyard Kipling: “… se saprai incontrare il trionfo e il
disastro e trattare questi due impostori nello stesso
modo … tuo sarà il mondo e tutto ciò che esso con-
tiene, e, ciò che più conta, tu sarai un Uomo, figlio
mio”.
Nota 10
Il termine “assoluto” deriva da una visione spiritua-
le o religiosa del profondo, per la introduzione alla
potenziale visione del quale i cattolici, ed altre con-
fessioni, praticano il battesimo (dal greco baptizein:
l‟abisso; da cui curve batimetriche, batiscafo, ecce-
tera). Per un religioso il limite di tale profondità è
l‟infinito, l‟assoluto. Per un ateo il limite è finito,
essendo dovuto alla finita, fisica, materiale attività
dei neuroni. Per un agnostico la profondità è indefi-
nita essendo definibile solo con una eventuale cono-
scenza diretta. Per tal motivo il processo meditativo
è praticabile sia da un credente, sia da un ateo e sia,
infine, da un agnostico.
Nota 11
Verso 46 del II capitolo. “Per l‟Illuminato tutti i
Veda non hanno un contenuto di utilità maggiore di
un secchiello pieno in un mare d‟acqua”.
Nota 12
Accanto alle citazioni dei giganti del pensiero della
storia della umanità, può apparire inadeguato, e
persino risibile, il rimando a un passo di una com-
media musicale degli anni ‟60, composta dai famosi
Garinei e Giovannini: “Buona notte Bettina”. Tale
passo, di per sé adeguato allo stile della commedia,
nasconde, forse persino ai suoi autori, un significato
non altrettanto leggero. La frase è:” Questo è un
pulsante. Se tu lo premessi diventeresti enormemen-
te ricco ma, sappilo, lontano da te, diciamo in Cina,
in conseguenza del tuo gesto un uomo sconosciuto
verrebbe immediatamente ucciso”. Al primo bivio
decisionale, una piccola parte dell‟umanità preme-
rebbe il pulsante, e il resto fortunatamente no. Ma
in questo resto è insito un secondo bivio meno su-
perficiale. Tra coloro che si astenessero dal premere
il pulsante, una parte non lo farebbe per comanda-
menti religiosi, del tipo “non uccidere”, e per paura
di una punizione divina, altri per timore di conse-
guenze penali, altri (pochi) in ossequio all‟art. 2
della Costituzione italiana. Tutti per buoni motivi
morali. Ma una sensibile parte della umanità si
asterrebbe dal premere il pulsante perché, senza
necessità di razionalizzazione del gesto, in sempli-
ce, naturale armonia con il diritto alla vita di tutta
l‟umanità, e anche della vita in senso universale.
Questo è un comportamento etico; anche se si po-
trebbe fare di più.
(da pagina 6)
Note al testoNote al testoNote al testo
DOMENICA 2 APRILE 2017
ALLE ORE 11, PRESSO LA LIBRERIA
FELTRINELLI DI PAVIA,
L’AUTORE DELL’ARTICOLO,
PAOLO AMMASSARI, APPROFONDIRÀ
LE TEMATICHE LEGATE
ALLA BAGHAVAT GITA
IN UN INCONTRO ORGANIZZATO
DA “SOCRATE AL CAFFÈ”
IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 119 - MARZO 2017 Pagina 8
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
Ma intanto
vediamo le prove
fatte “in
carrozzeria” (si
direbbe ...) da
Mario Maioli con
le fibre di carbonio,
per strutture leggere di pendenti,
abbinabili a smalti e /o pietre dure
semipreziose. Quando non
direttamente con alluminio o
acciaio, anche oro se vogliamo,
tagliati e fresati con macchine a
controllo numerico. Edizioni
perfette sino al milionesimo
esemplare. Perfetto esempio di
design industriale.
Di Bice (d'Errico) sono invece
famosi i pezzi all‟uncinetto. Pezzi
unici e manufatti con fili in argento,
oro, acciaio o rame espressamente
tirati. “Quando l‟artigianato incontra
il design” fu un titolo dedicato ai
suoi lavori dal quotidiano libanese
più letto. Quando Bice era visiting
professor alla Fondazione Hariri di
Beirut. Gemelli e cravatte
bisex. Ma
anche collane e
orecchini, anelli e
bracciali sono le sue
creazioni. Leggere come nuvole
traforate da cui occhieggiano perle,
tormaline e coralli.
Parimenti leggerissimi sono gli
ornamenti di Paola Crema,
fiorentina, detentrice di un singolare
brevetto. Che le consente di
argentare con un processo elettro-
galvanico altre nuvole. Di resina, dal
peso di una piuma. Ma di forte
impatto scenografico. Su queste
forme (anelli, collane, bracciali,
catene e pendenti, anche maschili ...)
una pioggia di coralli e cristalli,
perle di fiume o grandi mabee, con
frammenti fossili e fusioni in bronzo
dorato. Una vera Wunderkammer.
Ma veniamo alle provocazioni
dark/punk di Efrem Guidi, che
preparò per Anversa crudeli parure
in argento: collane garrota, irte di
puntali con piccoli occhi di
diamante; orecchini tormento dei
lobi. Poi una serie di tessiture rigide,
trame o gabbie, quasi micro cotte
medioevali, capaci a stento di ...
trattenere pietre e cristalli su braccia
o dita. Visioni forti. Anche quando
gentili.
Fortissime o delicate le creazioni di
Angelo Rinaldi. Leggeri girocollo
in argento dorato con bracciali in
bronzo che si appoggiano morbidi
sul dorso della mano.
O fili d'argento che inquadrano
piccole lastre di vetro soffiato
muranese, piastre incise e graffiate
da Rinaldi con motivi astratto
geometrici. O divertimenti
classicheggianti. Le spille pendenti
Eva e Adamo (Apollo o Venere) in
rame argentato con piccole perle
applicate. A connotare il sesso di
ogni opera. Ma il vero pezzo da
novanta (sempre per Anversa „95) è
una fibbia per cintura “salvavita”, in
argento sabbiato. Salvavita in
quanto ... condom holder. Non serve
commento. Che è utile invece per il
pezzo che fu scelto come immagine
guida della mostra belga, derivato da
un calco fallico, non saprei se
miceneo o pompeiano. Un cache sex
da legare alla vita con nastri di seta
nera ... Oggetto imperdibile per un
esibizionista volonteroso, che voglia
abbigliarsi con una testa di
ariete con inquietanti
occhi di diamante. Nessun limite
alla creatività. Solo un mezzo
ettogrammo di buon gusto e pudore.
Da usare a seconda delle occasioni.
Private, preferibilmente ... O … in
tempi di Carnevale. Eccoci…
Anche per altri momenti ludici, agli
inizi degli anni „70 l‟editore di
multipli d‟arte Luciano Soletti
chiese a un gruppo di amici scultori
(Arman, Cesar, Consagra,
Arnaldo Pomodoro e Tilson ) una
loro interpretazione dell‟eros, tanto
piccola da poter essere un pendente
unisex per una collanina estiva.
I Maestri si divertirono per primi,
alludendo con i modelli proposti a
un eros genitale
più o meno
esplicito, da
tradurre in oro e
smalti. Io fui tra
gli “sconsiderati”
che provarono a
indossarli, insieme
ai membri della
Giunta della
Provincia, modelli
per “uno scatto”
da usare per una
pubblicazione
(pensavamo a un
... calendario
benefico ) per
raccogliere fondi
... Ma io ne
portavo uno al
collo (quello del
mio amico
Pomodoro) nella
primavera „81,
quando facevo il
mio mestiere di
geriatra,
comandato da
Regione
Lombardia, nelle
zone terremotate
dell‟Irpinia. Per ...
allegria ...
Una sorta di
antidoto al
disastro che ancora ogni giorno
affrontavamo. Ma non vi dico
l‟imbarazzo ... paralizzante
provocato dal bacio al ciondolo di
una vecchia suora che mi aiutava …
Lo aveva scambiato per una
versione astratta di Nostro Signore
in croce ...
Esempio (estremo ?) di come anche
un piccolo ornamento funzioni come
forma di comunicazione, seppur
provocatoria, e di stimolo, per
curiosità, alla ... relazione ...
interpersonale. Non datemi del
matto! Lo dicono i sociologi
comportamentali!
Lasciatemi però dire, su un opposto
versante, l‟emozione provata di
fronte ai sassi di Paolo Spalla. Sì,
piccoli ciottoli raccolti sul greto del
Po, durante le sue passeggiate, da
questo maestro orafo valenzano, che
era solito lavorare “quintali” d‟oro
ogni anno (per Tiffany e Van Cleef
o Bulgari). Contoterzista con anima,
che si disse nauseato da tanto oro. A
tal punto da costruire vere trine,
pizzi lapidei, traforando e
imperniando i sassolini con piccole
pepite luccicanti. “Il se-greto del
fiume” fu il titolo che Spalla diede
alla sua prima collezione
naturalistica; la più anticonformista
e poetica tra quelle ospitate dal
nostro museo.
Voltiamo la pagina
del minimalismo e vediamo
di documentare alcune
esperienze più ... coraggiose,
divertenti e spregiudicate,
alcune ... estreme.
Come quelle che ci chiesero
per la mostra ad Anversa
(1995) al Diamantmuseum.
Giorgio Forni
SOPRA, DA SINISTRA RINALDI; CONSAGRA, ARMAN, POMODORO; ANCORA RINALDI.
SOTTO, DA SINISTRA, DUE PEZZI DI TILSON, POI CESAR.
D’ERRICO
CREMA
GUIDI
SPALLA
VIGNELLI ZORZI
DE VECCHI
VERONESI