distruttiva -...

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Vorrei tornare, ancora una volta, su alcuni aspetti dell’idea di sviluppo sostenibile. In primo luogo, sul suo carattere di approccio analitico che si basa sulla connessione fra dimensione sociale, economica, ambientale e culturale. In secondo luogo, sul suo carattere di idea normativa che si basa sulla nozione di qualità della vita e di di- gnità delle persone, chiunque siano e ovunque siano. Sono convinto che la qualità di vita delle persone abbia più di una dimensione e richieda un approccio intrinsecamente pluralisti- co. In questo senso preciso, esami- nando la dinamica delle ricerche sulla sostenibilità, siamo indotti a riconoscerne i molti volti. Nella mia esperienza di direzione scientifica di Laboratorio Expo di Fondazione Fel- trinelli e nella redazione della Carta di Milano, il carat- tere multidiscipli- na-re e sistemico della sostenibilità è emerso con forza. “Tutto nel mondo è intima- mente connesso”, ci sug-gerisce nella Lau-dato sì Papa Francesco. Ed è naturale, in propo-sito, richia- mare ancora una volta l’attenzione sui contributi in- fluenti di Jeffrey D. Sachs che dirige ora per le Nazioni unite il network delle soluzioni di svilup- po sostenibile. Sappiamo che l’idea di sviluppo sostenibile risale almeno al celebre Rapporto della Commis- sione Bruntland del 1987. Nel rap- porto Bruntland la sostenibilità ri- guardava il livello di benessere delle persone su un orizzonte temporale esteso: è sostenibile lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle futu- re generazioni di soddisfare i propri. L’idea stessa di sostenibilità è stata approfondita nel tempo con l’introduzione di una pluralità di di- mensioni e di indicatori. Basta pen- sare agli esiti del Summit sulla Terra di Rio (1992), al Summit dell’Onu sullo sviluppo sostenibile di Johan- nesburg (2002), in cui si individuano le connessioni fra dimensioni econo- miche, sociali e ambientali; al Rio più Venti (2012) in cui l’Assemblea ge- nerale dell’Onu preserva e arricchi- sce l’approccio multidimensionale alla sostenibilità per “The Future We want”, sino alla definizione dei di- ciassette obiettivi di Sviluppo soste- nibile nel settembre 2015, avviata nel 2012 da Ban-Ki Moon con il network per le soluzioni di sviluppo sostenibile. E si consideri, d’altra parte, come a partire dagli anni No- vanta del secolo scorso, la ricerca sulla questione della qualità di vita per persone assuma come fonda- mentale una prospettiva incentrata sulle essenziale varietà delle sue dimensioni. Basti pensare, in propo- sito, ai lavori pionieristici di Amartya Sen, al classico The Quality of Life (1993), curato da Sen e Martha Nus- sbaum, alle idee centrali dell’approccio delle capacità, all’adozione di un paniere di criteri valutativi e di indicatori dello sviluppo come sviluppo umano, al centro di UNDP. Su questo sfondo si definisce oggi un complesso profilo di attività di ricerca, formazione ed educazione che cooperino nel tempo, nel mondo, sul sentiero ramificato dello sviluppo sostenibile. È naturale pensare al ruolo di istituzioni accademiche e di centri di ricerca nei diversi ambiti dello sviluppo sostenibile. E certa- mente, a questo livello di higher edu- cation, si deve generare una rete che faccia sistema sia dal punto di vista della ricerca sia dal punto di vista dell’alta formazione. Come ho soste- nuto più volte, è decisivo lavorare insieme, connet- tendo i differenti percorsi e proget- ti di ricerca e for- mazione in una vera e propria agenda per lo sviluppo sosteni- bile. Tuttavia, ciò su cui vorrei ri- chiamare l’attenzione ha a che vedere con un differente livel- lo di educazione: quello che, a partire dalle scuole primarie, coinvolge bambi- ne e bambini. Sono convinto che una cultura delle sviluppo sostenibile si alimenta e si consolida a partire dalle prime fasi dell’apprendimento. Per questo, è prioritario coinvolgere il mondo della scuola e assegnargli un ruolo di spicco nei percorsi educativi orientati agli obiettivi di sviluppo sostenibile. La mia convinzione si avvale dell’esperienza che abbiamo fatto, come Laboratorio Expo e Carta di Milano, con la Carta di Milano dei bambini che è stata diffusa nel giu- gno 2015. Con una modesta propo- sta di metodo: per un’educazione primaria è bene avvalersi di una die- ta non monotona di modi in cui bam- bine e bambini apprendono, com- prendono e avvalorano gli obiettivi della sostenibilità dai molti volti. La grammatica della sostenibilità si av- vale tanto di ragioni quanto di emo- zioni e, quindi, di motivazioni.Per questo, come esergo della Carta di Milano dei bambini, avevamo citato alcuni versi di un poeta, Gianni Ro- dari, rivolti ai bambini e al loro modo di sentire che cosa si prova a vivere con tanti altri in un mondo che deve uscire dalle trappole di una crescita insostenibile e iniqua. “Quanto pesa una lacrima?/ Dipende:/ la lacrima di un bambino capriccioso/ pesa meno del vento,/ quella di un bambino affamato/ pesa più di tutta la terra.” Numero centoundici Marzo 2016 DISTRIBUZIONE GRATUITA www.socratealcaffe.it la Feltrinelli a Pavia, in via XX Settembre 21. Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30 L’editoriale di Salvatore Veca QUANTO PESA UNA LACRIMA? FONDAZIONE SARTIRANA ARTE GIORGIO FORNI Pagine 6-7-8 Pier Vittorio Chierico PAGINE 4-5 Marcello Pirro Un bestiario (laccato e dorato) Il mito dell’innovazione distruttiva Luisa Lavelli PAGINA 2 PASSEGGIATE URBANISTICHE … ovvero Volare con i piedi a terra Patrizia Cucco PAGINA 3

Transcript of distruttiva -...

Vorrei tornare, ancora una volta, su alcuni aspetti dell’idea di sviluppo sostenibile. In primo luogo, sul suo carattere di approccio analitico che si basa sulla connessione fra dimensione sociale, economica, ambientale e culturale. In secondo luogo, sul suo carattere di idea normativa che si basa sulla nozione di qualità della vita e di di-gnità delle persone, chiunque siano e ovunque siano. Sono convinto che la qualità di vita delle persone abbia più di una dimensione e richieda un approccio intrinsecamente pluralisti-co. In questo senso preciso, esami-nando la dinamica delle ricerche sulla sostenibilità, siamo indotti a riconoscerne i molti volti. Nella mia esperienza di direzione scientifica di Laboratorio Expo di Fondazione Fel-trinelli e nella redazione della Carta di Milano, il carat-tere multidiscipli-na-re e sistemico della sostenibilità è emerso con forza. “Tutto nel mondo è intima-mente connesso”, ci sug-gerisce nella Lau-dato sì Papa Francesco. Ed è naturale, in propo-sito, richia-mare ancora una volta l’attenzione sui contributi in-fluenti di Jeffrey D. Sachs che dirige ora per le Nazioni unite il network delle soluzioni di svilup-po sostenibile. Sappiamo che l’idea di sviluppo sostenibile risale almeno al celebre Rapporto della Commis-sione Bruntland del 1987. Nel rap-porto Bruntland la sostenibilità ri-guardava il livello di benessere delle persone su un orizzonte temporale esteso: è sostenibile lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle futu-re generazioni di soddisfare i propri. L’idea stessa di sostenibilità è stata approfondita nel tempo con l’introduzione di una pluralità di di-mensioni e di indicatori. Basta pen-sare agli esiti del Summit sulla Terra di Rio (1992), al Summit dell’Onu sullo sviluppo sostenibile di Johan-nesburg (2002), in cui si individuano le connessioni fra dimensioni econo-miche, sociali e ambientali; al Rio più Venti (2012) in cui l’Assemblea ge-nerale dell’Onu preserva e arricchi-sce l’approccio multidimensionale alla sostenibilità per “The Future We want”, sino alla definizione dei di-ciassette obiettivi di Sviluppo soste-nibile nel settembre 2015, avviata nel 2012 da Ban-Ki Moon con il network per le soluzioni di sviluppo sostenibile. E si consideri, d’altra parte, come a partire dagli anni No-vanta del secolo scorso, la ricerca sulla questione della qualità di vita

per persone assuma come fonda-mentale una prospettiva incentrata sulle essenziale varietà delle sue dimensioni. Basti pensare, in propo-sito, ai lavori pionieristici di Amartya Sen, al classico The Quality of Life (1993), curato da Sen e Martha Nus-s b a u m , a l l e i d e e c e n t r a l i dell’approccio delle capacità, all’adozione di un paniere di criteri valutativi e di indicatori dello sviluppo come sviluppo umano, al centro di UNDP. Su questo sfondo si definisce oggi un complesso profilo di attività di ricerca, formazione ed educazione che cooperino nel tempo, nel mondo, sul sentiero ramificato dello sviluppo sostenibile. È naturale pensare al ruolo di istituzioni accademiche e di centri di ricerca nei diversi ambiti dello sviluppo sostenibile. E certa-mente, a questo livello di higher edu-cation, si deve generare una rete che faccia sistema sia dal punto di vista della ricerca sia dal punto di vista dell’alta formazione. Come ho soste-nuto più volte, è decisivo lavorare

insieme, connet-tendo i differenti percorsi e proget-ti di ricerca e for-mazione in una vera e propria agenda per lo sviluppo sosteni-bile. Tuttavia, ciò su cui vorrei ri-c h i a m a r e l’attenzione ha a che vedere con un differente livel-lo di educazione: quello che, a par t i re da l le scuole primarie, coinvolge bambi-ne e bambini. Sono convinto che una cultura

delle sviluppo sostenibile si alimenta e si consolida a partire dalle prime fasi dell’apprendimento. Per questo, è prioritario coinvolgere il mondo della scuola e assegnargli un ruolo di spicco nei percorsi educativi orientati agli obiettivi di sviluppo sostenibile. La mia convinzione si avvale dell’esperienza che abbiamo fatto, come Laboratorio Expo e Carta di Milano, con la Carta di Milano dei bambini che è stata diffusa nel giu-gno 2015. Con una modesta propo-sta di metodo: per un’educazione primaria è bene avvalersi di una die-ta non monotona di modi in cui bam-bine e bambini apprendono, com-prendono e avvalorano gli obiettivi della sostenibilità dai molti volti. La grammatica della sostenibilità si av-vale tanto di ragioni quanto di emo-zioni e, quindi, di motivazioni.Per questo, come esergo della Carta di Milano dei bambini, avevamo citato alcuni versi di un poeta, Gianni Ro-dari, rivolti ai bambini e al loro modo di sentire che cosa si prova a vivere con tanti altri in un mondo che deve uscire dalle trappole di una crescita insostenibile e iniqua. “Quanto pesa una lacrima?/ Dipende:/ la lacrima di un bambino capriccioso/ pesa meno del vento,/ quella di un bambino affamato/ pesa più di tutta la terra.”

Numero centoundici Marzo 2016

DISTRIBUZIONE GRATUITA www.socratealcaffe.it

la Feltrinelli a Pavia,

in via XX Settembre 21.

Orari: Lunedì - sabato 9:00-19:30 Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30

L’editoriale

di Salvatore Veca

QUANTO PESA

UNA LACRIMA?

FONDAZIONE

SARTIRANA

ARTE

GIORGIO FORNI

Pagine 6-7-8

Pier Vittorio Chierico

PAGINE 4-5

Marcello Pirro

Un bestiario (laccato e dorato)

Il mito dell’innovazione

distruttiva

Luisa Lavelli

PAGINA 2

PASSEGGIATE URBANISTICHE … ovvero Volare con i piedi a terra

Patrizia Cucco

PAGINA 3

SPORTELLO DONNA SPORTELLO DONNA INCUBATORE D’IMPRESAINCUBATORE D’IMPRESA

START UP/INNOVAZIONE/CREATIVITÀ

Non cercare lavoro, crealo PAVIA, via Mentana 51

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Il giornale di Socrate al caffè

Direttore Salvatore Veca - Direttore responsabile Sisto Capra Editore Associazione “Il giornale di Socrate al caffè”

(iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)

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Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia

Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002

IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016 Pagina 2

L’articolo Disruption Machine. When the Gospel of Innovation gets wrong di Jill Lepore, Ph.D. of History, University of Harvard, apparso sulla rivista “The New Yorker” il 23 giugno 2014, suscitò all’epoca un acceso dibattito accademico fra i sostenitori dell’innovazione e altri che ritenevano che fosse arrivato il momento di un necessario rethinking the innovation craze. Ogni epoca – scriveva la studiosa - ha la sua teoria di crescita e declino: il XVIII secolo abbraccia l’idea del progresso, il XIX l’evoluzione, il XX la crescita, il XXI l’innovazione. Joseph Schumpeter (1883-1950), economista austriaco, usò la parola innovazione con il significato di portare nuovi prodotti sul mercato e teorizzò la creazione di altri, unica via a una crescita sostenibile. Clayton Christensen, professore alla Harvard Business School, erede del pensiero schumpeteriano, e teorico del ciclo e sviluppo economico, pubblicò nel 1997 un testo, divenuto sacro, The Innovator’s Dilemma. When new Technologies cause great Firms to fail, sostenendo che aziende ben consolidate nel tempo fallivano non a causa di manager incapaci, ma perché riluttanti ad abbracciare nuove tecnologie nel timore che avrebbero potuto minare il loro modello di business e non potessero più dominare il mercato. Distruggere il passato per far spazio al nuovo è sempre stata l’essenza delle economie di mercato. Oggigiorno, però, la parola disruption è diventata un vangelo (disrupt or be disrupted). La teoria della distruzione - afferma Jill Lepore - è stata oggetto di scarsa critica, in parte perché l’analisi di un fenomeno ha tempi lunghi e non può essere mai rapida, in parte perché i disruptors prendono in giro coloro che sollevano dubbi: “un dibattito noioso, che non porta a nulla di significativo, vecchiume”, come se criticare il cambiamento radicale di cui siamo testimoni fosse screditare il cambiamento stesso. Paul Krugman, premio Nobel 2008 per l’economia, professore al MIT e a Princeton, scriveva : “ .. negli scambi commerciali come nella concorrenza fra imprese, è tutto da dimostrare che a guadagnare siano quelli che gettano il passato nella pattumiera e inventano nuove cose. La Germania investe nella qualità e non tira fuori dal cilindro prodotti sempre nuovi. Ecco un pensiero rivoluzionario: forse invece di preoccuparci delle innovazioni di rottura faremmo meglio a dedicare più sforzi a fare bene qualunque cosa facciamo” (“New York Times”, 16 giugno 2014). Andrew Leonard (su Solon) racconta che i tecnocrati della Silicon Valley non sono stati molto contenti dell’articolo di Jill Lepore, la loro irritazione ci aiuta forse a capire come tutta questa battage pubblicitaria sull’innovazione di rottura è nata: rende seducente il business e raffigura i nerd eroi del giorno.

La nozione che la storia sia la storia del miglioramento delle condizioni economiche di prosperità e benessere dell’umanità ha dominato la visione occidentale per secoli. Ora la parola “progresso” è stata sostituita da “innovazione”, una buzzword, un insieme di novelty, invenzione, creatività, originalità, e cominciamo a chiederci se il potenziale dirompente di prodotti sempre nuovi, di app, di gadget

elettronici, di startup, produrrà una crescita economica, una stabilità finanziaria, posti di lavoro. La storia insegna che gli aggiustamenti sono sempre stati lenti, difficili, complessi. Evgeny Morozov, politologo, sociologo e studioso di media, autore dei best seller “Ingenuità della rete” e “Internet non salverà il mondo”, in un articolo pubblicato su “La Lettura” scriveva : “L’infatuazione per l’innovazione è solo un modo per nascondere una politica seria nei confronti della tecnologia, una politica che sia indipendente dai piani infrastrutturali e commerciali di Silicon Valley e dei suoi equivalenti e sia in grado di produrre benefici sociali maggiori di quelli portati dalle automobili volanti e dalle pillole della longevità”. L’atmosfera dell’Inghilterra nel periodo della rivoluzione industriale è stata similmente un’atmosfera di contrasti. Molte voci si levarono a criticare i nuovi sviluppi in termini e negli accenti di una solida e antica Inghilterra. Tra tutte queste, due furono le più importanti: Burke e Cobbet. Essi attaccarono la nuova Inghilterra e dalla loro opera presero avvio potenti tradizioni di critica della nuova democrazia e del nuovo industrialismo a difesa della tradizione storica contro l’astrattismo antistorico del presente . Erano lì a cercare di imparare e registrare i fatti, riconoscendo la complessità e la difficoltà delle vicende umane, riservando le frecce più acuminate a

tutti gli schemi di rinnovamento totale e di ricostruzione radicale . Sia la rivoluzione industriale sia la successiva ebbero le loro vittime, persone che persero il lavoro a causa di invenzioni che cambiarono il mondo : il telaio meccanico di E. Cartwirght, la lampadina di T. Edison, l’automobile di R.Benz . Tuttavia, crearono nuove opportunità di lavoro in sostituzione dei vecchi mestieri. È tutto da vedere se la rivoluzione digitale e l’automazione

porteranno alla creazione di una

massiccia quantità di posti di lavoro e a una distribuzione equa della ricchezza. Una possibile eclissi del lavoro potrebbe diventare una forza sociale distruttiva, mentre la ricchezza tenderebbe a diventare sempre più concentrata nelle mani di pochi, i nuovi padroni, un’egemonia economica. Jaron Lanier, computer scientist, in Who Owns the Future? (2013) scriveva: “gli unici a guadagnarci sono le piattaforme tecnologiche, i siren servers, i winners-take-all che diventeranno sempre più potenti in ogni parte del mondo, a scapito di un graduale declino del ceto medio”. Due ricercatori del MIT, Eric Bryolfson e Andrew McAfee , in Race against the Machine (2011) sostenevano : “Non esiste una legge in economia che possa affermare che tutti, o perlomeno la maggior parte, potranno automaticamente beneficiare del progresso tecnologico”. Il saggio provocò un dibattito caustico fra gli economisti, attirando subito l’attenzione dei giornalisti che cominciarono a chiedersi se fossimo entrati in una “disoccupazione tecnologica” . Come non mai si sono aperti divari così abissali nei salari fra skilled workers e non, fra possessori di capitale e i lavoratori. Thomas Picketty, professore all’Ecole d’economie de Paris nel saggio Disugualianze (2014) scriveva: “la teoria del capitale umano dice semplicemente che il lavoro non è un’entità omogenea, e che individui differenti per ogni sorta di ragioni sono caratterizzati da diversi livelli di capitale umano, cioè da capacità differenziali di

contribuire alla produzione di beni e servizi domandati dal consumatore. La teoria del capitale umano è indispensabile per capire le disuguaglianze dei salari e ineguaglianza del capitale umano”. Il MIT ha analizzato il cambiamento della natura dei posti di lavoro classificandoli in manuali o cognitivi, di routine o complessi. Le imprese tendono o a sostituire i lavori di routine con robot che hanno costi di produttività minori, non sollevano

problemi, non fanno assenze,

non discutono sulla paga, sono innocui. In contrapposizione è in forte crescita la domanda di high skilled workers e di lavoratori con low skill, low productivity e low wage. Ne consegue che l’economia della conoscenza premierà coloro che sanno padroneggiare i nuovi strumenti informatici a completamento delle funzioni intellettuali e penalizzerà i lavoratori di bassa skillfulness, di serie B, che già soffrono della concorrenza di lavoratori di paesi low cost. Potremmo porre fine a questa depressione solo se riusciremo a trovare la lucidità e volontà politica necessarie. Diversamente i Governi andrebbero incontro a una serie di gravi problemi che, alla lunga, potrebbero sfilacciare il tessuto sociale, spingendo a soluzioni estremiste. James K. Galbraight, Professore di economia alla University of Texas, Austin, sosteneva nel suo saggio The end of Normal (2014) che non ci sarà un ritorno alla normalità di crescita del passato. Quattro fattori (metaforicamente i quattro Cavalieri dell’Apocalisse ), lo impediscono: i costi delle risorse energetiche; l’inutilità della forza militare globale che non garantisce energia a basso costo; le conseguenze della rivoluzione digitale sull’occupazione e il fallimento di regole ed etica del settore finanziario. L’instabilità economica è da ritenersi il new normal: “ We have become very large, very complex, very efficient and therefore very fragile”. L’innovazione distruttiva, un’idea che ebbe origine nell’area del business e negli studi specializzati di economia viene oggigiorno applicata ad arene i cui valori e fini sono lontani dall’area degli affari fra cui l’educazione e gli studi universitari. “The Economist”, a metà del 2014 ha dedicato un ampio servizio sulle

cause e le necessità di reinventare le università del futuro, un rivolgimento culturale profondo dovuto a tre forze concomitanti: i costi elevati di gestione delle università; il mutamento del mercato del lavoro (la laurea non è più il sicuro biglietto di entrata a professioni ben retribuite); tecnologie avanzate e automazione hanno e continueranno ad avere un impatto determinante nel gioco domanda/offerta di posti di lavoro (nuove figure professionali si affacciano sul mercato globale). In tanta necessitate la terza forza di rottura è la disruptive technology. In una serie di conversazioni The Experimentation Heart of the Universities’ Future tenutesi nel gennaio dell’anno scorso alla Georgetown University of Washington, Susan Hockfield, former President del Mit e neurobiologa, affermava che “il cervello umano è incline, all’inizio, a rifiutare ogni cambiamento e non sarà un compito facile tentare di reinventare l’università del futuro. Non ci si deve, però, dimenticare che il core dell’università è la scoperta, l’innovazione e la capacità di sperimentare nuove tecnologie. È una pia illusione pensare che studenti born digital, born mobile accettino di continuare ad avere lo stesso modello di insegnamento che hanno avuto i loro coetanei per centinaia d’anni”. È una realtà di cui si deve essere consapevoli e riconoscere il potenziale delle nuove tecnologie. Inoltre, si sta delineando nella comunità scientifica l’assunto che un uso sensato delle tecnologie promuove un apprendimento laboratoriale e attivo. Gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che lavorare su schermi interattivi eserciti sia il pensiero induttivo sia il ragionamento ipotetico deduttivo. La maggior parte delle università e datori di lavoro ritiene tuttora i corsi on line come qualcosa di aggiuntivo ai corsi tradizionali di laurea, piuttosto che una sostituzione. Di certo le università tradizionali hanno qualche carta vincente in tasca: gli studenti imparano a dibattere face-to-face con i docenti, acquisiscono una dialettica e un pensiero critico maggiore, creano rapporti umani con i professori e compagni di corso, i territori dove sono ubicate le università traggono benefici economici dalla presenza e dal movimento di persone. In alternativa, i corsi MOOC (Massive Open On line Courses) offrono agli studenti la stessa possibilità di ascoltare lezioni di professori star di alto livello, di ottenere una laurea e una certificazione con abbattimento di costi e indebitamento, annullamento delle categorie spazio-tempo - puoi studiare dove e quando vuoi -, permettono a un vasto pubblico del pianeta di accedere ai percorsi universitari. L’esperienza digitale potrebbe combinare i due aspetti: tradizione e rinnovamento in un sistema di blended learning già attivo in alcune università americane e italiane. È pur vero, però, che la povertà informativa, il digital divide, scava tuttora un divario profondo in termini culturali e scientifici fra cittadini web del pianeta e non, che deve essere colmato. Concludendo, l’innovazione distruttiva è meno controllabile di quanto i wizard di Silicon Valley sperino e più inquietante e sconvolgente di quanto si pensi per le evidenti ripercussioni nel tessuto democratico e socio-economico.

Luisa Lavelli

Pagina 3 IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016

Pavia, come molte città

italiane, è profondamente

segnata dalla crisi che ha

determinato il blocco di

tutti i processi di

riqualificazione.

Servirebbero quindi delle

visioni del futuro su cui la

città, nel suo insieme, possa

riconoscersi per impostare

un percorso di

rigenerazione. Questo processo di sintesi è

difficoltoso perché molti sono gli

ostacoli; siano essi di carattere

economico o, più spesso,

psicologico. Come architetti, si

riconosce che dialogare con la

situazione che si è concretizzata

in questi anni richiede una

revisione del ruolo del

progettista. Tale revisione deve

partire sia dagli strumenti, in

modo da analizzare il presente,

sia dalla necessità di ridefinire il

campo di azione professionale.

La sfida proposta è saper

guardare alla città che crediamo

di conoscere bene, per

individuare nuovi modi per

interpretarla e nuove strategie per

rigenerarla.

Le passeggiate urbanistiche sono

espedienti per cercare di vedere

la città sotto una luce diversa e

immaginare nuove possibilità e

nuove soluzioni. Ai relatori

verrà chiesto di esplorare Pavia

con l’aiuto di alcuni colleghi

della commissione Urbanistica.

Sulla base della loro

esplorazione, delle

considerazioni dei nostri colleghi

e della loro esperienza

professionale, i relatori ci

proporranno la loro visione della

città.

Questa iniziativa è utile per tutti i

cittadini che sono curiosi di

guardare alla città e alle sue

caratteristiche sulla scorta del

racconto di un gruppo di studiosi

che la vedono per la prima volta

e la descrivono alla luce delle

loro esperienze professionali,

inoltre essere la vetrina per

potersi esprimere e dar vita a

idee illuminate. Daremo quattro

input su cui riflettere per

valorizzare la città e trovare

nuova linfa vitale.

La crisi di risorse determina

scelte obbligate di riduzione,

accorpamento e alienazione delle

strutture pubbliche: è

fondamentale ripensare

complessivamente al sistema del

welfare urbano e al complesso

ruolo che esso svolge nella città.

La gestione dei servizi pubblici

richiede infatti un ingente

investimento di risorse ma

genera a sua volta un’economia

che va molto al di là degli addetti

impiegati nelle varie attività e

spesso determina in maniera

sensibile la capacità attrattiva di

un sistema urbano. Il rapporto di

Pavia con i suoi servizi -

l’Università, il Policlinico San

Matteo e gli altri poli sanitari -

sono da sempre un’eccellenza

della città e un forte elemento di

attrazione; si dovrebbe pensare a

una ulteriore valorizzazione in

grado di stimolare la nascita di

nuove iniziative economiche:

questo è il punto di partenza

della prima conferenza

“L’economia del welfare”, a cura

di Luca Imberti e Aldo Lorini.

Riflettendo sulla situazione

attuale dello stato di

manutenzione della nostra città si

deduce che la sfida dei prossimi

anni riguarderà il recupero di un

numero consistente di manufatti

di qualità eterogenea, per i quali

dovranno essere messi a punto

nuovi criteri di ristrutturazione e

anche nuove strategie per

garantire la sostenibilità degli

interventi. Potrebbe essere

prezioso ristudiare come è stata

costruita la città storica dove il

recupero e il riuso dei materiali e

delle strutture era la norma, e

immaginare che la sostenibilità

economica degli interventi possa

essere raggiunta trovando il

modo di sostituire, almeno

parzialmente, i valori della

rendita con i risparmi derivanti

dalla riqualificazione energetica.

La classe professionale dovrebbe

essere consapevole che la

rigenerazione a scala urbana

implica la capacità sia di

allargare le proprie competenze

agli aspetti energetici degli

edifici, sia di rielaborare nuove

metodologie per la

riqualificazione dell’esistente: su

queste riflessioni Marco Tosca e

Corrado Longa introdurranno la

seconda conferenza su Pavia con

argomento “Le energie della

città”.

Pavia è un sistema che andrebbe

analizzato a più scale e da più

punti di vista, sia come sistema

urbano a misura d’uomo che

come ecosistema nel rapporto

uomo-natura. Michele Brunello e

Massimo Giuliani valuteranno e

presenteranno “La città e servizi

ecosistemici”: la città è sorgente

di pressioni, che superano spesso

i confini urbani e generano

impatti sia al suo interno che sul

territorio. Il sistema ambientale,

inteso come la rete di ambiti non

edificati (parchi, aree ad uso

agricolo), diventa quindi il filtro

delle pressioni antropiche e di

fatto assume sempre maggior

valore nel benessere della città,

fornendo importanti apporti di

servizio alla collettività. Diventa

quindi importante individuare e

quantificare, in termini fisici ed

economici, “servizi ecosistemici”

che l’ambiente è in grado di

offrire e mettere a punto strategie

per migliorarne l’efficienza.

L’obiettivo della valutazione è

restituire una mappatura delle

diverse funzioni che il sistema

non urbanizzato svolge allo stato

di fatto, individuando le

eventuali criticità e le

opportunità che potranno essere

valorizzate all’interno di un

progetto urbano complessivo.

Spesso città e ambiente si sono

evoluti in forme integrate,

creando veri e propri sistemi

ecotecnologici, come ad esempio

le marcite, i sistemi irrigui, i

canali artificiali quali i navigli

che, creati dall’uomo, sono

altamente adattati ai sistemi

naturali.

I nuovi piani, che hanno come

strategia di fondo l’aumento

della sostenibilità ambientale,

non possono fare a meno di

studiare questi grandi sistemi

ereditati dal passato pre-

industriale che possono svolgere,

ancora oggi, una funzione

ambientale strategica per

garantire la sostenibilità degli

insediamenti.

La lettura della mappa di un

piano regolatore inoltre

trasferisce inevitabilmente

un’idea funzionalista della città:

la città della residenza, la città

della produzione, la città del

commercio, la città dei servizi.

Forme, luoghi e abitanti sono

indagati, ma sempre in forma

analitica. Manca però l’analisi

dell’interazione tra forme, luoghi

e abitanti. A volte perché viene

considerata una problematica

esterna alla disciplina, spesso

perché viene classificata tra gli

elementi da approfondire durante

le fasi di attuazione del Piano.

Gli strumenti urbanistici ci

danno quindi molte informazioni

nell’analisi delle singole parti,

ma ci dicono poco o nulla delle

interazioni che si generano tra

forme, luoghi e abitanti.

Questo tipo di cecità poteva

essere considerato un peccato

veniale quando ci si occupava

dell’espansione della città, ma

diventa una grave mancanza per i

Piani che hanno come obiettivo

la rigenerazione urbana.

Il rischio è che la scala di valori

che gli architetti condividono in

tema di qualità dei luoghi, valori

formali e spaziali, sia molto poco

universale. Di tutto ciò ci

parleranno il pedagogista

Amilcare Acerbi e l’architetto

Roberto Alessio nella quarta

conferenza intitolata “Forme,

luoghi, abitanti”.

Questo percorso, che si

dislocherà fisicamente in più

punti della città e

ideologicamente all’interno e

all’esterno di essa, ci condurrà a

una conversazione finale

condotta dall’architetto Stefano

Boeri in interazione con i

relatori che l’hanno preceduto, al

fine di trovare strategie e

politiche per la rigenerazione

urbana sostenibile che ci

mostreranno una possibile

“Prossima Città”.

Un percorso per scoprire

le potenzialità della città.

Un ciclo

di conferenze e dibattiti

pensate come

VOLARE

CON I PIEDI

A TERRA

Arch. Patrizia Cucco Commissione Urbanistica e Giovani

Ordine degli architetti pianificatori paesaggisti e conservatori della provincia di pavia

È attivo il sito www.passeggiateurbanistiche.eu

su cui verranno inseriti

tutti gli eventi e i

documenti legati

all’iniziativa e dove sono

indicati gli eventuali

contatti per ricevere

informazioni.

IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016 Pagina 4

In occasione del 90° dell’inaugurazione della prima linea aerea commerciale italiana TS-VE-PV-TO e dell’idroscalo di Pavia, avvenuta il 1° aprile del 1926 a Pavia, il Club Vogatori Pavesi decise, alla fine dello scorso anno, di ricordare l’evento pubblicando una strenna natalizia dedicata all’argomento. Il libro è un nuovo esempio di storia aeronautica locale di grande interesse, che offre piccoli ma importanti contributi in vari settori. La storia dell’aviazione a Pavia è raccontata partendo dal più leggero dell’aria e dai tanti voli pionieristici che si sono svolti sul territorio provinciale. Seguono i capitoli dedicati alla Grande Guerra con la biografia dell’asso pavese Alessandro Buzio e il racconto dell’avventura vissuta dagli universitari pavesi dell’ASUP e il loro ruolo nella nascita del volo a vela in Italia. Nelle pagine successive altre biografie di piloti locali e la cronaca di numerosi eventi aviatori accaduti tra le due guerre completano questa prima trattazione. La parte finale e più lunga del libro è dedicata alla prima linea aerea commerciale italiana TS-VE-PV-TO, inaugurata il 1° aprile 1926 a Pavia, e agli idrovolanti della SISA che ammaravano sul Ticino avendo come base l’idroscalo di Pavia. Ed è con la storia di questo fabbricato, ancora esistente ma degradato, che si chiude il libro. Tra il 14 e il 17 aprile 2016, a novant’anni dall’apertura della linea, il Club Vogatori Pavesi presenterà alla cittadinanza la seconda fase della rievocazione storica con un programma che in questi giorni è in via di definizione. Fondamentale sarà il ruolo dell’Aero Club di Como, curatore dell’omonimo Idroscalo internazionale, che con i suoi idrovolanti sarà presente a Pavia durante la giornata conclusiva.

LA FINE DEL DIRIGIBILE F.1

A PAVIA L’ing. Enrico Forlanini aveva manifestato da tempo il desiderio di guidare il suo dirigibile F.1 (Leonardo da Vinci) a Pavia, forse

solo per rendere omaggio all’illustre fratello medico Carlo. Questa storia inizia alle ore 13:15 di martedì 1° febbraio 1910, quando il dirigibile Leonardo da Vinci uscì dall’hangar di Crescenzago con la prua rivolta

verso Pavia. Quando il dirigibile fu alle porte di Pavia l’orologio segnava pochi minuti dopo le 14:00. All’altezza delle prime case del rione di San Giuseppe improvvisamente si vide il dirigibile arrestare la sua corsa,

dondolare placidamente e poi scendere lento e maestoso in un

campo. I primi a giungere sul posto ebbero subito la notizia dell’irreparabile: un motorino secondario si era

improvvisamente guastato, il dirigibile era diventato ingovernabile, ecco il perché del forzato atterraggio. Sfortuna volle che durante questa manovra, mentre il dirigibile si stava adagiando sul campo, un

improvviso colpo di vento lo fece ondeggiare mandandolo a urtare contro i rami spogli di un albero. La parte superiore dell’involucro di seta si lacerò per un buon palmo e l’idrogeno cominciò a sfuggire dall’ovale. L’intenzione

dell’ing. Enrico Forlanini era quella di riparare i guasti al motore e tamponare la falla all’involucro per poi riprendere nella stessa serata il viaggio. Sarebbe bastata una scala

qualsiasi per raggiungere lo strappo e turare la falla, ma quando la scala giunse dopo due ore, già 1500 metri cubi d’idrogeno erano sfuggiti dall’involucro. La perdita del gas spinse Forlanini a prendere la

decisione estrema: smontare il dirigibile e trasportarlo in treno a Crescenzago. Occorsero due buone giornate di lavoro per smontare il dirigibile che non avrebbe più volato … mentre già

si stava pensando al ben più

grande successore, l’F. 2, battezzato poi Città di Milano.

UN AEREO SORVOLA

PER LA PRIMA VOLTA PAVIA La scarsa conoscenza del territorio italiano da parte del pilota svizzero Enrico Cobioni e l’incognita della nebbia suggerirono a Gianni Caproni e agli organizzatori del raid aereo

Vizzola Ticino-Aviano di modificare il piano di volo. Il corso del fiume Ticino fino alla confluenza con il Po sarebbe stato la rotta da seguire a bassa quota. Il Grande fiume avrebbe poi condotto il pilota sino al delta.

Raggiunto il mare, il nuovo monomotore Ca.12 con motore Anzani da 50 CV avrebbe seguito la costa dell’Adriatico per poi risalire il corso del Tagliamento

fino a Pordenone e quindi raggiungere Aviano. Grazie a questo cambiamento di rotta,

Pavia fu sorvolata per la prima volta da un aeroplano. La mattina del 16 aprile 1912 il pilota Cobioni decollò puntuale alle ore 5:40 dall’aeroporto di Vizzola Ticino. Come previsto dal piano di volo, l’aviatore seguì meticolosamente

il corso del Ticino, ansa dopo ansa, per transitare nel cielo di Pavia alle ore 6:30 a una altezza di circa 300 metri. I testimoni raccontarono di aver udito distintamente il rombo del motore

e di aver veduto il monoplano sorvolare Pavia solo per pochi attimi. Il commissario locale del Touring Club Italiano, avv. Giacomo Franchi, telegrafò alla Scuola Caproni confermando il passaggio del velivolo da Pavia e

così tutti gli altri osservatori dislocati nei vari punti di controllo posti lungo il Po a Casalmaggiore, Guastalla, Borgoforte, Ostiglia, Revere, Ficarolo, Ferrara e Adria. In quest’ultima località alle ore 9:40, dopo aver percorso 449

km. alla velocità media di 112 km/h, il pilota fu costretto ad atterrare in mezzo ai campi a causa di un eccessivo consumo del carburante, dovuto probabilmente al maltempo. Il

raid si rivelò comunque il volo più lungo senza tappe mai effettuato in Italia.

IL GRAN PREMIO DEI LAGHI

FA TAPPA A PAVIA Nei primi giorni dell’ottobre 1913 sui muri della nostra città comparvero dei manifesti che annunciavano il passaggio da

Pavia di una gara internazionale di idroaeroplani: Il Gran Premio

dei Laghi. La gara si basava essenzialmente su prove di abilità e destrezza da compiersi sul lago di Como, mentre un circuito di 370 km avrebbe messo a dura prova la resistenza degli aerei. Due le tappe previste. La prima il

6 ottobre: Como, Villa d’Este, Cadenabbia, Lecco, Lodi, Pizzighettone, Piacenza, Pavia (220 km circa); la seconda tappa il 7 ottobre: Pavia, Pallanza, Varese, Como (140 km circa).

Erano circa le dieci del 6 ottobre 1913 quando a Pavia, annunciati da un lontano ronzio, si avvistarono dei punti neri. Gli spettatori erano tutti con il naso all’insù, strizzavano gli occhi per focalizzare meglio le sagome,

spuntavano centinaia di indici per indicare le macchine volanti. Prima appena percettibile, dopo pochi attimi si poteva distinguere chiaramente la sagoma degli apparecchi che si inseguivano a qualche centinaio di metri l’uno

dall’altro. A poca distanza dal Confluente, il primo (il francese Chemet su monoplano Borel) si abbassò sfiorando l’acqua, infine si posò come una farfalla scivolando delicatamente sopra la

superficie argentea del fiume.

Dopo alcuni minuti l’attenzione si spostò sul secondo (il tedesco

Hirth su monoplano Albatros) e il terzo

apparecchio (il francese Morane su monoplano di sua costruzione), che ammararono felicemente uno dopo l’altro. Gli idrovolanti furono prontamente

rimorchiati dai pontoni del Genio nell’ampio bacino d’acqua alla confluenza del Naviglio Pavese con il Ticino. Dopo un’attesa di quasi un’ora apparve il quarto

e, purtroppo, ultimo concorrente dei quindici previsti. Era Fischer su biplano Farman (ore 11 e 10 minuti), che fece passare agli spettatori

qualche istante di

angoscia.

NASCE LA SEZIONE

VOLO A VELA

DELL’A.S.U.P. Forse un pizzico di follia ispirò alcuni universitari pavesi appartenenti all’A.S.U.P. (Associazione Studenti

Universitari Pavesi) che nel 1923 costituirono in città il gruppo volovelista. I giovani ticinesi avevano già dimostrato un certo interesse e qualche

passione per il volo a vela, ma la circostanza che determinò la costituzione del nucleo fu la pubblicazione del bando per la partecipazione al

Concorso internazionale di volo senza motore, che si sarebbe svolto nell’estate 1924, organizzato dalla Lega Aerea Nazionale in collaborazione

con la Gazzetta dello Sport. I giovani studenti dell’Ateneo pavese, in particolare i piloti Franco Segré, Ettore Cattaneo, Emanuele Cambilargiu furono sì i pionieri del volo a vela, ma

soprattutto i primi italiani che

conquistarono alcuni primati in

questa disciplina sportiva con gli alianti Goliardia e Febo Paglierini prima e con il G.P. 1 (dedicato a Giovanni Pirelli) poi. Gli studenti,

più che altro laureandi o neolaureati in medicina, erano dotati di grande entusiasmo, buona volontà e tanta voglia di

fare, ma non possedevano alcuna

esperienza nel settore del volo a vela

ALCUNI PILOTI PAVESI ...

I FRATELLI OPPIZZI, DUE PIONIERI

DELL’AERONAUTICA La città di Pavia può vantare tra i

suoi cittadini - caso più unico che raro - due fratelli pionieri dell’

Aeronautica: Piero e Edoardo Oppizzi. In Italia sono

considerati pionieri dell’Aeronautica coloro

che hanno acquisito il Brevetto di volo entro il 2 agosto 1914. I due giovani appartenenti a una facoltosa famiglia di avvocati e notai,

erano i figli dell’avvocato Giovanni, Segretario Generale del San Matteo. Frequentarono da giovanissimi

l’Accademia militare di Modena per poi essere entrambi destinati al 4° Reggimento Bersaglieri con il grado di sottotenenti.

La passione per il volo

li coinvolse non ancora trentenni e, come tanti altri militari di fanteria, chiesero di essere destinati al

Battaglione Aviatori. Sino al conseguimento del Brevetto di volo, la loro vita militare fu pressoché la medesima, poi le esigenze di servizio li

separarono. Dopo la prima esperienza aviatoria, solo Piero intraprese la carriera militare nell’Aeronautica,

mentre Edoardo trascorse un’esistenza più tranquilla, sempre in ambito militare.

UN TRAGICO DESTINO

PER ENRICO PETRELLA Nel settembre 1920 giunse a Mogadiscio il primo nucleo

distaccato dall’Aviazione dell’Eritrea al comando del

tenente pilota pavese Enrico Petrella: ne faceva parte dodici militari di truppa con il materiale per allestire i primi ricoveri. Il giovane, come tanti altri ragazzi della sua età, aveva concepito la

guerra e l’azione militare come

una grande avventura. Dopo un breve periodo di inattività a causa di una ferita di guerra, agli inizi del 1918 si arruolò nel Battaglione Scuola Aviatori e

frequentò il corso di pilotaggio sul campo di San Giusto a Pisa. In

alcune sue lettere Enrico racconta con grande semplicità, quasi con l’entusiasmo di un fanciullo, i suoi safari africani e la curiosità che destava tra le popolazioni indigene mentre volava con il suo apparecchio. Pare che lo

chiamassero tenente uccello. Erano più che altro voli di ricognizione quelli richiesti agli aviatori, nessun duello epico con il nemico, ma quasi esclusivamente monotoni sorvoli degli ondulati territori somali e

poi tante esercitazioni… Fu proprio nel corso di un’esercitazione aerea che Enrico Petrella perse la vita insieme al motorista civile Francesco Anselmo di Trapani,

probabilmente a causa di un

guasto al motore.

L’ASSO DELL’AERONAUTICA

ALESSANDRO BUZIO Statura 1,66 metri, capelli biondi e lisci, occhi celesti, colorito roseo, lentiggini sul viso: così sul foglio matricolare viene descritto Alessandro Buzio, l’unico pavese che può fregiarsi del titolo di asso dell’aviazione della Grande guerra

con cinque aerei abbattuti. Dei cinque aerei abbattuti da Buzio, uno non fu possibile identificarlo, tre erano dei Brandenburg C.1, mentre l’ultimo fu un Aviatik D.I. Diplomato in ragioneria, appassionato di nuoto, ciclismo e

moto, nel 1913 frequentò il corso allievi ufficiali di complemento nel 1° Reggimento Genio per poi essere assegnato nel 1914 al 5° Reggimento Genio come sottotenente. Nel mese di maggio

1915 Alessandro chiese di essere trasferito alla Direzione Tecnica dell’Aviazione e dal mese successivo fece parte come allievo del Battaglione Scuole Aviatori. Il 7 dicembre 1915 gli fu conferito il brevetto di pilota

militare, al quale fece seguito una breve esperienza come istruttore di volo. Il 24 aprile 1916 il biondo pavese fu assegnato alla neo costituita 75a Squadriglia dotata di velivoli Nieuport 11 di stanza a

Verona.

LA LINEA AEREA

TRIESTE-VENEZIA-PAVIA-TORINO L’esercizio della linea fu concesso alla S.I.S.A. (Società Italiana

Servizi Aerei) per la durata di dieci anni. La frequenza dei

viaggi, prima trisettimanale, diventò ben presto giornaliera. La copertura dell’intero tragitto di 575 chilometri era calcolata in 3 ore e 45 minuti di volo effettivo (senza scalo), ma il tempo impiegato in rifornimenti, sbarco

e imbarco dei passeggeri durante le soste intermedie di Venezia e Pavia portava il tempo totale a 4 ore e 30 minuti. Numeri degni della massima considerazione, perché la ferrovia impiegava un tempo tre volte maggiore per

compiere l’identico percorso. A Torino e a Pavia le stazioni di ricovero apparecchi erano sopraelevate sul pelo dell’acqua del fiume (mediante robusti piloni in cemento armato) e dotate di

scivolo con rotaie.

Oggi il fatiscente capannone su palafitta che sorge all’estremità orientale del Lungo Ticino Sforza di Pavia è sconosciuto a buona parte dei pavesi e con il trascorrere degli anni è diventato uno dei tanti misteri della nostra città. Questo edificio, quasi un sito di archeologia industriale, è ormai abbandonato da tempo e versa in stato di evidente degrado. Esso costituiva lo scalo dalla linea aerea per accogliere idrovolanti e passeggeri in transito, da cui il nome di idroscalo, anche se a Pavia è ancora chiamato semplicemente l’aeroporto.

GLI IDROVOLANTI

IN SERVIZIO SULLA LINEA

TRIESTE-TORINO A Pavia gli apparecchi ammaravano a valle del Ponte coperto, mentre passeggeri, merci e carico postale diretti a

Milano erano trasportati via terra con automezzi della compagnia aerea. Agli idrovolanti Cant. 10 ter e Cant. 22 fu affidato il compito di garantire il trasporto dei passeggeri e delle merci sulla linea aerea Trieste-Torino. Nel

corso dei primi due anni di esercizio delle linee commerciali SISA furono impiegati solo i Cant. 10 ter. Si trattava di un idrovolante civile biplano a scafo centrale monomotore: lo scafo centrale garantiva il

sostentamento idrostatico, mentre sotto le ali inferiori vi

erano dei piccoli galleggianti per la stabilità trasversale. Contava due persone di equipaggio e poteva trasportare quattro passeggeri. Dal 1928 furono messi in linea anche i più generosi Cant. 22, che

condivisero con i più piccoli predecessori l’attività della compagnia aerea di Trieste. Per i non addetti ai lavori, questo esemplare d’idrovolante era facilmente riconoscibile dal Cant. 10 ter prima di tutto per la mole e

poi per i tre motori interamente carenati disposti sui rispettivi castelli tra le ali. Il Cant. 22 era definito un idrovolante biplano trimotore a scafo centrale. Poteva trasportare nove-dieci passeggeri.

L’INAUGURAZIONE Nei primi mesi del 1926 la frequenza dei sorvoli sul Ticino era aumentata e le manovre di avvicinamento degli idrovolanti a

Pavia s’intensificarono. Spesso, tra lo stupore e la meraviglia dei passanti, i Cant. 10 si abbassavano con cautela (non era ancora in funzione la sirena di avviso per le imbarcazioni) e ammaravano delicatamente

contro corrente con la prua rivolta verso il Ponte coperto. Si capiva da questo intensificarsi dei voli di prova che l’inaugurazione era ormai imminente. Effettuato il collaudo definitivo del 27 marzo 1926, giunse la notizia tanto

attesa: giovedì 1° aprile 1926 sarebbe stato il giorno inaugurale della Trieste-Venezia-Pavia-Torino. Una decisione non esente da critiche e battute ironiche sulla data scelta per la manifestazione,

proprio quella che la tradizione vuole dedicata alle burle e agli scherzi. Tanto è vero che quando giunse la notizia dell’imminente visita di Benito Mussolini, in un primo tempo gli organizzatori dubitarono dell’autenticità della

notizia considerandola un “pesce d’aprile”! L’inaugurazione era stata così organizzata: due idrovolanti Cant. 10 ter verniciati color argento sarebbero partiti da

Trieste e altri due da Torino. Le due coppie, provenienti da

direzioni opposte, avrebbero fatto scalo a Pavia, dove si sarebbe svolta la cerimonia ufficiale alla presenza del Capo del Governo.

Seguono alcuni brani e-stratti dal libro

Ali e motori nei cieli pavesi,

il loro testo è stato

adattato e ridotto per questa particolare

circostanza. Le immagini pubblicate

provengono dalla collezione privata

di Pietro Ferrari, dalla collezione privata

Morani Erba, dall’Archivio Fotografico

IPSREC, dall’Archivio dell’Aero Club di Como,

dall’Archivio personale di Giovanni Oppizzi,

dall’Archivio Ufficio

Storico Stato Maggiore Aeronautica di Roma.

cm 21x25 - pp. 256 - Prezzo di copertina: € 20,00 In vendita presso Librerie di Pavia: Delfino, De Bernardi e CLU

Librerie di Voghera: Ticinum e Bottazzi - Editrice PIME

Il Leonardo da Vinci (F.1) sorvola il

ponte della ferrovia sul Naviglio Pavese a nord di Pavia, 1910

Un aeroplano sorvola Pavia per la prima volta. È il monoplano Caproni Ca 12 di Enrico Cobioni, 1912

Il pontone del Reggimento Genio di Pavia si avvicina

all’idroplano di Morone per rimorchiarlo a riva mentre un altro apparecchio ammara sul Ticino, 1913

Il volto sorridente dell’aviatore pavese Edoardo Oppizzi

L’aviatore pavese Piero Oppizzi accanto al re d’Italia Vittorio Emanuele III, 1917

Il sottotenente aviatore Enrico

Petrella del 12° Reggimento Bersaglieri, 1916

Pagina 5 IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016

VIA DARSENA, SERGIO MAGGI (PISY)

In occasione del 90° dell’inaugurazione della prima linea aerea commerciale italiana TS-VE-PV-TO e dell’idroscalo di Pavia, avvenuta il 1° aprile del 1926 a Pavia, il Club Vogatori Pavesi decise, alla fine dello scorso anno, di ricordare l’evento pubblicando una strenna natalizia dedicata all’argomento. Il libro è un nuovo esempio di storia aeronautica locale di grande interesse, che offre piccoli ma importanti contributi in vari settori. La storia dell’aviazione a Pavia è raccontata partendo dal più leggero dell’aria e dai tanti voli pionieristici che si sono svolti sul territorio provinciale. Seguono i capitoli dedicati alla Grande Guerra con la biografia dell’asso pavese Alessandro Buzio e il racconto dell’avventura vissuta dagli universitari pavesi dell’ASUP e il loro ruolo nella nascita del volo a vela in Italia. Nelle pagine successive altre biografie di piloti locali e la cronaca di numerosi eventi aviatori accaduti tra le due guerre completano questa prima trattazione. La parte finale e più lunga del libro è dedicata alla prima linea aerea commerciale italiana TS-VE-PV-TO, inaugurata il 1° aprile 1926 a Pavia, e agli idrovolanti della SISA che ammaravano sul Ticino avendo come base l’idroscalo di Pavia. Ed è con la storia di questo fabbricato, ancora esistente ma degradato, che si chiude il libro. Tra il 14 e il 17 aprile 2016, a novant’anni dall’apertura della linea, il Club Vogatori Pavesi presenterà alla cittadinanza la seconda fase della rievocazione storica con un programma che in questi giorni è in via di definizione. Fondamentale sarà il ruolo dell’Aero Club di Como, curatore dell’omonimo Idroscalo internazionale, che con i suoi idrovolanti sarà presente a Pavia durante la giornata conclusiva.

LA FINE DEL DIRIGIBILE F.1

A PAVIA L’ing. Enrico Forlanini aveva manifestato da tempo il desiderio di guidare il suo dirigibile F.1 (Leonardo da Vinci) a Pavia, forse

solo per rendere omaggio all’illustre fratello medico Carlo. Questa storia inizia alle ore 13:15 di martedì 1° febbraio 1910, quando il dirigibile Leonardo da Vinci uscì dall’hangar di Crescenzago con la prua rivolta

verso Pavia. Quando il dirigibile fu alle porte di Pavia l’orologio segnava pochi minuti dopo le 14:00. All’altezza delle prime case del rione di San Giuseppe improvvisamente si vide il dirigibile arrestare la sua corsa,

dondolare placidamente e poi scendere lento e maestoso in un

campo. I primi a giungere sul posto ebbero subito la notizia dell’irreparabile: un motorino secondario si era

improvvisamente guastato, il dirigibile era diventato ingovernabile, ecco il perché del forzato atterraggio. Sfortuna volle che durante questa manovra, mentre il dirigibile si stava adagiando sul campo, un

improvviso colpo di vento lo fece ondeggiare mandandolo a urtare contro i rami spogli di un albero. La parte superiore dell’involucro di seta si lacerò per un buon palmo e l’idrogeno cominciò a sfuggire dall’ovale. L’intenzione

dell’ing. Enrico Forlanini era quella di riparare i guasti al motore e tamponare la falla all’involucro per poi riprendere nella stessa serata il viaggio. Sarebbe bastata una scala

qualsiasi per raggiungere lo strappo e turare la falla, ma quando la scala giunse dopo due ore, già 1500 metri cubi d’idrogeno erano sfuggiti dall’involucro. La perdita del gas spinse Forlanini a prendere la

decisione estrema: smontare il dirigibile e trasportarlo in treno a Crescenzago. Occorsero due buone giornate di lavoro per smontare il dirigibile che non avrebbe più volato … mentre già

si stava pensando al ben più

grande successore, l’F. 2, battezzato poi Città di Milano.

UN AEREO SORVOLA

PER LA PRIMA VOLTA PAVIA La scarsa conoscenza del territorio italiano da parte del pilota svizzero Enrico Cobioni e l’incognita della nebbia suggerirono a Gianni Caproni e agli organizzatori del raid aereo

Vizzola Ticino-Aviano di modificare il piano di volo. Il corso del fiume Ticino fino alla confluenza con il Po sarebbe stato la rotta da seguire a bassa quota. Il Grande fiume avrebbe poi condotto il pilota sino al delta.

Raggiunto il mare, il nuovo monomotore Ca.12 con motore Anzani da 50 CV avrebbe seguito la costa dell’Adriatico per poi risalire il corso del Tagliamento

fino a Pordenone e quindi raggiungere Aviano. Grazie a questo cambiamento di rotta,

Pavia fu sorvolata per la prima volta da un aeroplano. La mattina del 16 aprile 1912 il pilota Cobioni decollò puntuale alle ore 5:40 dall’aeroporto di Vizzola Ticino. Come previsto dal piano di volo, l’aviatore seguì meticolosamente

il corso del Ticino, ansa dopo ansa, per transitare nel cielo di Pavia alle ore 6:30 a una altezza di circa 300 metri. I testimoni raccontarono di aver udito distintamente il rombo del motore

e di aver veduto il monoplano sorvolare Pavia solo per pochi attimi. Il commissario locale del Touring Club Italiano, avv. Giacomo Franchi, telegrafò alla Scuola Caproni confermando il passaggio del velivolo da Pavia e

così tutti gli altri osservatori dislocati nei vari punti di controllo posti lungo il Po a Casalmaggiore, Guastalla, Borgoforte, Ostiglia, Revere, Ficarolo, Ferrara e Adria. In quest’ultima località alle ore 9:40, dopo aver percorso 449

km. alla velocità media di 112 km/h, il pilota fu costretto ad atterrare in mezzo ai campi a causa di un eccessivo consumo del carburante, dovuto probabilmente al maltempo. Il

raid si rivelò comunque il volo più lungo senza tappe mai effettuato in Italia.

IL GRAN PREMIO DEI LAGHI

FA TAPPA A PAVIA Nei primi giorni dell’ottobre 1913 sui muri della nostra città comparvero dei manifesti che annunciavano il passaggio da

Pavia di una gara internazionale di idroaeroplani: Il Gran Premio

dei Laghi. La gara si basava essenzialmente su prove di abilità e destrezza da compiersi sul lago di Como, mentre un circuito di 370 km avrebbe messo a dura prova la resistenza degli aerei. Due le tappe previste. La prima il

6 ottobre: Como, Villa d’Este, Cadenabbia, Lecco, Lodi, Pizzighettone, Piacenza, Pavia (220 km circa); la seconda tappa il 7 ottobre: Pavia, Pallanza, Varese, Como (140 km circa).

Erano circa le dieci del 6 ottobre 1913 quando a Pavia, annunciati da un lontano ronzio, si avvistarono dei punti neri. Gli spettatori erano tutti con il naso all’insù, strizzavano gli occhi per focalizzare meglio le sagome,

spuntavano centinaia di indici per indicare le macchine volanti. Prima appena percettibile, dopo pochi attimi si poteva distinguere chiaramente la sagoma degli apparecchi che si inseguivano a qualche centinaio di metri l’uno

dall’altro. A poca distanza dal Confluente, il primo (il francese Chemet su monoplano Borel) si abbassò sfiorando l’acqua, infine si posò come una farfalla scivolando delicatamente sopra la

superficie argentea del fiume.

Dopo alcuni minuti l’attenzione si spostò sul secondo (il tedesco

Hirth su monoplano Albatros) e il terzo

apparecchio (il francese Morane su monoplano di sua costruzione), che ammararono felicemente uno dopo l’altro. Gli idrovolanti furono prontamente

rimorchiati dai pontoni del Genio nell’ampio bacino d’acqua alla confluenza del Naviglio Pavese con il Ticino. Dopo un’attesa di quasi un’ora apparve il quarto

e, purtroppo, ultimo concorrente dei quindici previsti. Era Fischer su biplano Farman (ore 11 e 10 minuti), che fece passare agli spettatori

qualche istante di

angoscia.

NASCE LA SEZIONE

VOLO A VELA

DELL’A.S.U.P. Forse un pizzico di follia ispirò alcuni universitari pavesi appartenenti all’A.S.U.P. (Associazione Studenti

Universitari Pavesi) che nel 1923 costituirono in città il gruppo volovelista. I giovani ticinesi avevano già dimostrato un certo interesse e qualche

passione per il volo a vela, ma la circostanza che determinò la costituzione del nucleo fu la pubblicazione del bando per la partecipazione al

Concorso internazionale di volo senza motore, che si sarebbe svolto nell’estate 1924, organizzato dalla Lega Aerea Nazionale in collaborazione

con la Gazzetta dello Sport. I giovani studenti dell’Ateneo pavese, in particolare i piloti Franco Segré, Ettore Cattaneo, Emanuele Cambilargiu furono sì i pionieri del volo a vela, ma

soprattutto i primi italiani che

conquistarono alcuni primati in

questa disciplina sportiva con gli alianti Goliardia e Febo Paglierini prima e con il G.P. 1 (dedicato a Giovanni Pirelli) poi. Gli studenti,

più che altro laureandi o neolaureati in medicina, erano dotati di grande entusiasmo, buona volontà e tanta voglia di

fare, ma non possedevano alcuna

esperienza nel settore del volo a vela

ALCUNI PILOTI PAVESI ...

I FRATELLI OPPIZZI, DUE PIONIERI

DELL’AERONAUTICA La città di Pavia può vantare tra i

suoi cittadini - caso più unico che raro - due fratelli pionieri dell’

Aeronautica: Piero e Edoardo Oppizzi. In Italia sono

considerati pionieri dell’Aeronautica coloro

che hanno acquisito il Brevetto di volo entro il 2 agosto 1914. I due giovani appartenenti a una facoltosa famiglia di avvocati e notai,

erano i figli dell’avvocato Giovanni, Segretario Generale del San Matteo. Frequentarono da giovanissimi

l’Accademia militare di Modena per poi essere entrambi destinati al 4° Reggimento Bersaglieri con il grado di sottotenenti.

La passione per il volo

li coinvolse non ancora trentenni e, come tanti altri militari di fanteria, chiesero di essere destinati al

Battaglione Aviatori. Sino al conseguimento del Brevetto di volo, la loro vita militare fu pressoché la medesima, poi le esigenze di servizio li

separarono. Dopo la prima esperienza aviatoria, solo Piero intraprese la carriera militare nell’Aeronautica,

mentre Edoardo trascorse un’esistenza più tranquilla, sempre in ambito militare.

UN TRAGICO DESTINO

PER ENRICO PETRELLA Nel settembre 1920 giunse a Mogadiscio il primo nucleo

distaccato dall’Aviazione dell’Eritrea al comando del

tenente pilota pavese Enrico Petrella: ne faceva parte dodici militari di truppa con il materiale per allestire i primi ricoveri. Il giovane, come tanti altri ragazzi della sua età, aveva concepito la

guerra e l’azione militare come

una grande avventura. Dopo un breve periodo di inattività a causa di una ferita di guerra, agli inizi del 1918 si arruolò nel Battaglione Scuola Aviatori e

frequentò il corso di pilotaggio sul campo di San Giusto a Pisa. In

alcune sue lettere Enrico racconta con grande semplicità, quasi con l’entusiasmo di un fanciullo, i suoi safari africani e la curiosità che destava tra le popolazioni indigene mentre volava con il suo apparecchio. Pare che lo

chiamassero tenente uccello. Erano più che altro voli di ricognizione quelli richiesti agli aviatori, nessun duello epico con il nemico, ma quasi esclusivamente monotoni sorvoli degli ondulati territori somali e

poi tante esercitazioni… Fu proprio nel corso di un’esercitazione aerea che Enrico Petrella perse la vita insieme al motorista civile Francesco Anselmo di Trapani,

probabilmente a causa di un

guasto al motore.

L’ASSO DELL’AERONAUTICA

ALESSANDRO BUZIO Statura 1,66 metri, capelli biondi e lisci, occhi celesti, colorito roseo, lentiggini sul viso: così sul foglio matricolare viene descritto Alessandro Buzio, l’unico pavese che può fregiarsi del titolo di asso dell’aviazione della Grande guerra

con cinque aerei abbattuti. Dei cinque aerei abbattuti da Buzio, uno non fu possibile identificarlo, tre erano dei Brandenburg C.1, mentre l’ultimo fu un Aviatik D.I. Diplomato in ragioneria, appassionato di nuoto, ciclismo e

moto, nel 1913 frequentò il corso allievi ufficiali di complemento nel 1° Reggimento Genio per poi essere assegnato nel 1914 al 5° Reggimento Genio come sottotenente. Nel mese di maggio

1915 Alessandro chiese di essere trasferito alla Direzione Tecnica dell’Aviazione e dal mese successivo fece parte come allievo del Battaglione Scuole Aviatori. Il 7 dicembre 1915 gli fu conferito il brevetto di pilota

militare, al quale fece seguito una breve esperienza come istruttore di volo. Il 24 aprile 1916 il biondo pavese fu assegnato alla neo costituita 75a Squadriglia dotata di velivoli Nieuport 11 di stanza a

Verona.

LA LINEA AEREA

TRIESTE-VENEZIA-PAVIA-TORINO L’esercizio della linea fu concesso alla S.I.S.A. (Società Italiana

Servizi Aerei) per la durata di dieci anni. La frequenza dei

viaggi, prima trisettimanale, diventò ben presto giornaliera. La copertura dell’intero tragitto di 575 chilometri era calcolata in 3 ore e 45 minuti di volo effettivo (senza scalo), ma il tempo impiegato in rifornimenti, sbarco

e imbarco dei passeggeri durante le soste intermedie di Venezia e Pavia portava il tempo totale a 4 ore e 30 minuti. Numeri degni della massima considerazione, perché la ferrovia impiegava un tempo tre volte maggiore per

compiere l’identico percorso. A Torino e a Pavia le stazioni di ricovero apparecchi erano sopraelevate sul pelo dell’acqua del fiume (mediante robusti piloni in cemento armato) e dotate di

scivolo con rotaie.

Oggi il fatiscente capannone su palafitta che sorge all’estremità orientale del Lungo Ticino Sforza di Pavia è sconosciuto a buona parte dei pavesi e con il trascorrere degli anni è diventato uno dei tanti misteri della nostra città. Questo edificio, quasi un sito di archeologia industriale, è ormai abbandonato da tempo e versa in stato di evidente degrado. Esso costituiva lo scalo dalla linea aerea per accogliere idrovolanti e passeggeri in transito, da cui il nome di idroscalo, anche se a Pavia è ancora chiamato semplicemente l’aeroporto.

GLI IDROVOLANTI

IN SERVIZIO SULLA LINEA

TRIESTE-TORINO A Pavia gli apparecchi ammaravano a valle del Ponte coperto, mentre passeggeri, merci e carico postale diretti a

Milano erano trasportati via terra con automezzi della compagnia aerea. Agli idrovolanti Cant. 10 ter e Cant. 22 fu affidato il compito di garantire il trasporto dei passeggeri e delle merci sulla linea aerea Trieste-Torino. Nel

corso dei primi due anni di esercizio delle linee commerciali SISA furono impiegati solo i Cant. 10 ter. Si trattava di un idrovolante civile biplano a scafo centrale monomotore: lo scafo centrale garantiva il

sostentamento idrostatico, mentre sotto le ali inferiori vi

erano dei piccoli galleggianti per la stabilità trasversale. Contava due persone di equipaggio e poteva trasportare quattro passeggeri. Dal 1928 furono messi in linea anche i più generosi Cant. 22, che

condivisero con i più piccoli predecessori l’attività della compagnia aerea di Trieste. Per i non addetti ai lavori, questo esemplare d’idrovolante era facilmente riconoscibile dal Cant. 10 ter prima di tutto per la mole e

poi per i tre motori interamente carenati disposti sui rispettivi castelli tra le ali. Il Cant. 22 era definito un idrovolante biplano trimotore a scafo centrale. Poteva trasportare nove-dieci passeggeri.

L’INAUGURAZIONE Nei primi mesi del 1926 la frequenza dei sorvoli sul Ticino era aumentata e le manovre di avvicinamento degli idrovolanti a

Pavia s’intensificarono. Spesso, tra lo stupore e la meraviglia dei passanti, i Cant. 10 si abbassavano con cautela (non era ancora in funzione la sirena di avviso per le imbarcazioni) e ammaravano delicatamente

contro corrente con la prua rivolta verso il Ponte coperto. Si capiva da questo intensificarsi dei voli di prova che l’inaugurazione era ormai imminente. Effettuato il collaudo definitivo del 27 marzo 1926, giunse la notizia tanto

attesa: giovedì 1° aprile 1926 sarebbe stato il giorno inaugurale della Trieste-Venezia-Pavia-Torino. Una decisione non esente da critiche e battute ironiche sulla data scelta per la manifestazione,

proprio quella che la tradizione vuole dedicata alle burle e agli scherzi. Tanto è vero che quando giunse la notizia dell’imminente visita di Benito Mussolini, in un primo tempo gli organizzatori dubitarono dell’autenticità della

notizia considerandola un “pesce d’aprile”! L’inaugurazione era stata così organizzata: due idrovolanti Cant. 10 ter verniciati color argento sarebbero partiti da

Trieste e altri due da Torino. Le due coppie, provenienti da

direzioni opposte, avrebbero fatto scalo a Pavia, dove si sarebbe svolta la cerimonia ufficiale alla presenza del Capo del Governo.

cm 21x25 - pp. 256 - Prezzo di copertina: € 20,00 In vendita presso Librerie di Pavia: Delfino, De Bernardi e CLU

Librerie di Voghera: Ticinum e Bottazzi - Editrice PIME

Il pontone del Reggimento Genio di Pavia si avvicina

all’idroplano di Morone per rimorchiarlo a riva mentre un altro apparecchio ammara sul Ticino, 1913

Il biplano Nieuport 11 (matricola Ni 1763) pilotato da Alessandro Buzio, 1916

Cartolina postale

della sezione volo a vela dell’A.S.U.P.

Cartolina postale emessa il giorno dell’inaugurazione della prima linea aerea commerciale italiana, 1926

Il sottotenente aviatore Enrico

Petrella del 12° Reggimento Bersaglieri, 1916

A sinistra Una bella immagine dell’idroscalo di Pavia con due idrovolanti ormeggiati. A sinistra il Cant. 22 I-AAOX San Sebastiano, immatricolato nel luglio 1930 e radiato nel 1937; a destra il Cant. 10 I-OLTA, il primo della serie di questo tipo di velivoli. Immatricolato nell’agosto 1925,

fu radiato nel 1930. La foto è sicuramente del 1930

A destra L’inaugurazione: una imponente e disciplinata folla attende l’arrivo del duce Benito Mussolini, 1926

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ARTE

IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016 Pagina 6

MARCELLO PIRRO

Fu questa la singolare

visione, attraverso le

vetrate di una galleria

d’arte che affacciava

su di un rio, dietro

il Gran Teatro La Fenice,

che mi introdusse (forse

erano i primi anni

Settanta) al multiforme

lavoro di Marcello Pirro. Personaggio, appunto, dalle molte

sfaccettature; pugliese di

Apricena del Gargano, ma

emigrato per amore a Venezia.

Poeta amico di poeti. Artista

poliedrico amico di artisti, ma

soprattutto di artigiani. Con i

quali, da pari a pari, democratica-

mente collaborava per la

realizzazione delle sue opere. Con

i falegnami dello squero (il

cantiere delle gondole), con i

fabbri (Calle dei Fabbri è dietro la

casa che abitò nei pressi di Cà

Foscari), con i doratori e con i

laccatori, depositari delle antiche

abilità della Venezia dei Dogi.

Con gli stampatori (Fiorenzo

Fallani fra tutti, che Marcello mi

presentò un giorno mentre era

intento a numerare e firmare una

tiratura di acqueforti, contempora-

neamente a una seconda di strane

serigrafie vellutate). Con i

tipografi che componevano a

caratteri bodoniani le sue liriche,

a fianco del testo manoscritto

spesso illustrato dai suoi uccelli

del paradiso in volo o da

fantasiosi personaggi. Un piccolo

uomo vulcanico, massiccio di

corporatura («sono figlio di

contadini e cavapietre»), con la

risata contagiosa dei malinconici

e il viso rubizzo. Non solo per la

bora della laguna o il vento di

maestrale abituali tra campi e

campielli; anche per una

piacevole ma insistita

frequentazione di bacari e

hostarie, sempre pronto tra una

sigaretta e l’altra (tabacco giallo

francese delle Gauloises) a offrire

cicchetti di prosecco o di spritz

triestini, abitudine del lungo

soggiorno sotto il Castello di San

Giusto durante il tempo della

naia.

(a pagina 7)

Giorgio Forni

Coleottero Formicone Mantide

Cigno

Caro Pablo Gru In amore

(laccato e dorato)

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Pagina 7 IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016

Da Trieste portò nel cuore le

liriche di Slataper, il profumo e

spesso la lingua dei versi di Saba

e Pasolini e la memoria di Svevo.

Insomma un crogiuolo ribollente

di sangue terrone e di pensiero

mitteleuropeo.

A Venezia trovò Fabia, bionda e

dolcissima, con cui ebbe due figli

che conobbi tenerelli, prima che il

matrimonio naufragasse. La cosa

aumentò il tasso alcolico di

Marcello, ma non fermò la sua

creatività. Tra Spilimbergo e

Ravenna a fare mosaici e a tenere

corsi alle accademie; a Bologna

con Pagliarani e Dalla, di cui

divenne una quasi già invecchiata

controfigura.

A Milano con Raboni e

Morandini. Tavolo fisso al

Giamaica di Brera, già “in grana”

nei primi sessanta per una abilità

grafica sorprendente messa a

frutto con il nascente new

advertising.

Dissipatore del suo denaro per

progetti tanto ambiziosi quanto

elitari. Riviste di arti visive e

letteratura (che chiudevano dopo

pochi numeri, “La Città” che

Pirro diresse e compilò dal

febbraio al dicembre ‘64), ma

illustrate da lavori originali di

“colleghi” quali Vedova e Guidi,

Cadorin e Tancredi, Romagnoni e

Dova, Manzoni e Pascali, figure

iconiche del realismo esistenziale

e della nascente arte concettuale.

Trasversale nelle amicizie e nelle

correnti artistiche, pensiero libero

donchisciottesco, ovviamente

senza rapporti stabili e strutturati

con galleristi. E di riflesso con il

mercato. Vita da bohème e da

maudit nei tempi di magra, da

mecenate sostenitore di colleghi

in difficoltà in quelle di vacche

grasse. Sempre generoso di sé e di

quanto avesse.

Un bel personaggio insomma,

difficile da inquadrare, con scarso

controllo, ma capace di costruire

relazioni come mai altri io abbia

visto. Sempre sopra le righe e

costantemente, negli ultimi anni

in particolare, sempre più deluso

(o disilluso) nelle sue battaglie

con i mulini a vento.

Meglio di me lo potranno

descrivere i testi di Giovanni

Raboni (in alto, la riproduzione),

Luciano Morandini e Felice

Chilanti, tratti da un prezioso

libro giornale del 1977.

Vogliamo però ricordarlo come

storici amici e sostenitori del suo

lavoro artistico, ricordandolo

proprio con le immagini di quel

bestiario-pollaio-bacheca

antropologica e zoo domestico

fatto di forche e badili, zappe e

vomeri contadini.

Saldati a costruire coleotteri

ingigantiti dai colori più

splendenti di quelli in natura, con

le antenne e le elitre

pericolosamente appuntite perché

terminali di forconi da fieno.

(da pagina 6)

(a pagina 8)

… Il mistero di quel ragazzo

così legato alla sua terra ...

e nello stesso tempo così europeo ...

Carlo Marx Il suicidio del cigno

Il mio cuore per gli altri

Il riccio. Omaggio a Tancredi

Viva l’Italia Luna rossa

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IL GIORNALE DI SOCRATE AL CAFFÈ numero 111 - MARZO 2016 Pagina 8

Anche con la serie dei “Narcisi”,

fantastici ovali in tondino di ferro

a incorniciare personaggi surreali

e metafisici. Pirro fu anche

intrigato dal teatro e dal balletto,

forse… per le colazioni con

Picasso ai tavoli della trattoria

veneziana “La Colomba”, o “alla

Madonna” o “da Montin”,

all’angolo di casa sua. Molte di

queste opere sono custodite ed

esposte in alcune sale del castello

di Sartirana. Bozzetti per il

“Lago dei cigni” preparati con

badili dorati capovolti a simulare

il dorso del cigno con il collo

formato dal dolfin (ferro di prua

rastremato delle gondole

veneziane), ma anche solidi

geometrici, ruotanti in cornici

simili a quelle dei narcisi, con

all’interno sfere metalliche.

Proposti per un balletto di

Maurice Bejart dedicato ai

tamburi da pioggia thailandesi. I

ballerini danzando sulla scena

avrebbero provocato,

muovendoli, rumori ad evocare

le prime gocce monsoniche.

Vibrazioni e “rumori” tipici della

musica sperimentale degli anni

sessanta. Nono, Cage,

Stockhausen: tutti personaggi che

a Venezia erano di casa e… suoi

conoscenti.

Dagli anni Ottanta felicemente

organizzammo mostre di

Marcello Pirro ai Musei Civici di

Pavia e ai collegi universitari

Castiglioni e Cairoli, ai castelli di

Vigevano e di Abbiategrasso. In

permanenza, come dicevamo, a

Sartirana.

Una cosa mi preme ancora

ricordare. Lo splendido e

sconosciuto grande mosaico

(particolare in foto) realizzato

con i sassi del Ticino che Pirro,

durante il suo soggiorno a Pavia,

donò alla città. Costruito (e

imprigionato perché troppo

grande) nella sala del Consiglio

di Quartiere di San Pietro.

A quasi otto anni dalla

scomparsa lo vogliamo ricordare

con le immagini di molti suoi

lavori che ci apprestiamo a

portare alla Farnesina negli spazi

per l’arte contemporanea del

Ministero Affari Esteri e in

autunno al Museo Etnografico di

Lubiana.

Giorgio Forni

(da pagina 7)

Mostre a Pavia, Vigevano, Abbiategrasso

La permanente a Sartirana

Presto alla Farnesina; in autunno a Lubiana