CAPITOLO 7 LA MOTIVAZIONE 1. Introduzione · 4. l’aggressività (in forma positiva-costruttiva o...
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CAPITOLO 7
LA MOTIVAZIONE
1. Introduzione
Lo sport, specie quando è svolto a livello di attività primaria, richiede un tale impegno da
rendere evidente la presenza di una motivazione specifica e dominante (De Marco, 2003).
Come afferma Reuchlin (1957), con il termine “motivazione” si può intendere “l’insieme
dei fattori che promuovono l’attività del soggetto, orientandola verso certe mete e
conseguendole di prolungarsi qualora tali mete non vengano raggiunte immediatamente,
per poi fermarla al conseguimento dell’obiettivo”.
Per il professor Andrea Mismetti (2003), con il termine “motivazione” si indica, in
psicologia, “l’agente fisiologico, emotivo e cognitivo, che organizza il comportamento
individuale verso uno scopo”. Per Tamorri (1999), per motivazione si può intendere “la
causa di un comportamento, ossia ciò che può determinare il manifestarsi, la forza, la
direzione e la persistenza”. La motivazione può essere definita anche “un fattore dinamico
del comportamento animale e umano al fine di attivare e dirigere un organismo verso una
meta” (Dalla Volta, 1974).
Secondo F. Celata, bisogna inoltre sottolineare che esiste una notevole differenza tra
“motivazione” e “interesse”. L’interesse, a differenza della motivazione, non sfocia
necessariamente in un comportamento concreto, ma può rimanere astratto: possiamo
interessarci di pittura senza dipingere, possiamo interessarci ad uno sport senza essere
abbastanza “motivati” da praticarlo davvero e con una certa costanza.
E’ esperienza comune notare come molti ragazzi si avvicinano ad uno sport, ne sono
incuriositi, provano per un certo periodo, ma non sono, alla fine, disposti a certi ritmi di
allenamento, a certi sacrifici, a un certo tipo di impegno. Questo non significa che non
abbiano alcun reale interesse, piuttosto che, fatta una valutazione, quella esperienza
sportiva si rivela essere un modo non ottimale per rispondere alle loro esigenze, e la
ricerca si rivolge altrove. Non sempre, dunque, l’iniziale interesse si trasforma in
motivazione.
In questo processo dinamico l’organismo e la personalità sono fattori che danno origine al
comportamento motivato. La personalità guida tale condotta, sulla base di una precedente
e successiva interazione selettiva con l’ambiente.
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Il termine motivazione si accompagna a parole come bisogno, desiderio, pulsione,
interesse, rispettivamente riferite a segmenti organici, energetici, affettivi, cognitivi, che
concorrono alla formazione della motivazione.
In quest’ottica, appare evidente che esistono molteplici motivazioni all’attività sportiva e
si può affermare che la motivazione si riferisce all’interazione dinamica tra i bisogni
dell’individuo e gli stimoli offerti dall’ambiente (Giovannini e Savoia, 2002). Carron
(1984b), ad esempio, sostiene che il concetto di motivazione rende conto della selettività,
dell’intensità e della persistenza del comportamento: il termine “motivazione” rappresenta
le ragioni per cui determinate azioni sono preferite ad altre, sono messe in atto con energia
ed entusiasmo e portate avanti con impegno (Carron).
Sulle motivazioni sono state sviluppate moltissime teorie, che spaziano dall’idea freudiana
degli istinti inconsci che determinano ogni azione, alla negazione di tutto ciò che non è
osservabile osservata dal comportamentismo, fino ai più recenti approcci volti alla
comprensione dei legami fra motivazione e cognizione, come l’interessante contributo di
Higgins e Kruglanski (2000). Un approccio di lettura, quest’ultimo, delle prospettive
sociali e di personalità della “scienza della motivazione”, interessato allo studio della
natura e della funzione dei bisogni e della loro relazione con ciò che si conosce, con ciò
che si prova a livello di sentimenti ed emozioni e ciò che si fa.
1.1 Alcune teorie sulla motivazione
1.1.1 Le scuole psicologiche
Data la sua importanza nella comprensione del comportamento umano, la motivazione è
stata studiata da numerose scuole psicologiche, che ne hanno dato diverse interpretazioni.
a) L’interpretazione istintivista sostiene che il comportamento umano sia determinato da
un numero notevole di istinti differenziali (James) o dalla loro modificazione secondaria
per mezzo dell’esperienza, della tradizione, della riflessione, in modo da essere trasformati
in tendenze a finalità personali, familiari, sociali; l’azione sarebbe il risultato
dell’associazione o del conflitto di un gran numero di tendenze (Guillaume). Monakov
preferisce parlare di “manifestazioni” (dell’istinto parentale, conservativo, sessuale e
sociale) a carattere rudimentale e primitivo o a carattere più evoluto e teleologicamente
orientate; attività regolate da una coscienza biologica, che insieme al neologismo spirituale
armonizzerebbe ogni azione verso scopi superiori.
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b) L’interpretazione biologica considera la motivazione come la conseguenza di uno stato
organico di bisogno, che preme per essere soddisfatto, allo scopo di ristabilire
un’omeostasi di base. (Cannon, Hull, Miller).
c) L’interpretazione etologica riconosce nei processi motivanti dei fattori istintivi, nel
quadro di una Gestalt ambientale, in grado di innescare i meccanismi attivanti o inibenti
l’azione istintiva (Lorenz e Tinbergen).
d) L’interpretazione organistica suppone che l’individuo sia motivato da un impulso
sovrano, piuttosto che da una molteplicità d’impulsi, cioè l’impulso dell’autorealizzazione,
che costituirebbe, per l’appunto, il movente primario dell’organismo, teso a raggiungere le
massime possibilità si sviluppo psico-biologico (Goldstein).
e) Il behaviorismo e la reflessologia (Watson e Pavlov) rifiutano il concetto di
motivazione, in quanto non è un dato deducibile dal comportamento e non è
empiricamente osservabile. Non è un fatto, ma solo una supposizione.
f) L’interpretazione di Lewin della motivazione, anche se non esplicitata, è presente nel
suo concetto di spazio di vita, che viene definito come la somma di tutti i fatti che
determinano il comportamento di una persona in un dato momento. Nello spazio di vita,
l’autore include solamente i fatti contemporanei, poiché tutti gli eventi passati agiscono
solo attraverso i loro rappresentanti nel presente (Baldwin).
g) L’interpretazione di Allport è la seguente: ogni motivo ha un punto definito di origine,
che può essere localizzato in un istinto, o, più facilmente, in una tensione organica
dell’infanzia. Dal punto di vista cronologico, tutti i motivi adulti possono essere ricondotti
a queste forme germinali dell’infanzia, ma, quando l’individuo matura, il legame è
spezzato: la connessione che rimane è storica, non funzionale.
h) L’interpretazione di Miller e Dollard, pur partendo dall’utilizzazione delle teorie dello
stimolo-risposta di Pavlov e del behaviorismo, può essere considerata di tipo eclettico, in
quanto integrata dai dati tratti dalla sociologia e dalla psicoanalisi. L’individuo parte con
un corredo innato di riflessi specifici e pulsioni primarie che, attraverso l’apprendimento e
la ricompensa, rafforzano il tipo di condotta. La motivazione deriverebbe, quindi, da un
processo di acquisizioni culturali interiorizzate, che si installerebbero sui meccanismi
ontogenetici primitivi di stimolo-risposta.
i) L’interpretazione psicodinamica è quella che, più delle altre, ha avvertito l’esigenza di
comprendere i meccanismi motivanti piuttosto che descriverli, attribuendo alla loro
conoscenza la via per costruire una teoria unitaria sul comportamento umano.
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• Freud ha individuato gli istinti di vita e di morte come impulsi motori del
comportamento, che vengono diretti dal principio della costanza. La motivazione nel suo
orientamento successivo sarebbe determinata dall’insieme dei vissuti, delle esperienze e
dei conflitti dell’ontogenesi.
• Jung ritiene che le spinte presenti nel comportamento umano siano al servizio
dell’autorealizzazione finalistica. Ne consegue che il comportamento debba essere
compreso non soltanto sulla base del passato, ma anche guardando al futuro. Le mete sono
rappresentate dal passaggio ad una consapevolezza spirituale sempre più vasta.
• Adler fonda la sua psicologia sulla forza della motivazione, che è presente
nell’uomo sotto forma di volontà di potenza e sentimento della comunità. Questi
sentimenti sono dominati da una ricerca, più o meno intensa, di compensazione a
sentimenti di inferiorità infantili.
• Fromm e Sullivan (indirizzi psicosociali) considerano l’individuo un’entità
ipotetica, i cui atti motivati possono essere compresi soltanto se collocati nelle situazioni
interpersonali. Sono queste ultime che trasformano il sistema energetico delle entità
umane in comportamenti che coinvolgono gli individui in azioni finalizzate in senso
conformistico, affiliativo, d’identificazione, rassicurativo, ecc.
• Murray attribuisce grande importanza alla motivazione inconscia e ai
determinanti evolutivi. I bisogni che muovono l’uomo si configurano nell’unità tematica
che fin dall’infanzia, spinge l’individuo a seconda del tipo di complesso che vi ha
predominato.
j) L’interpretazione atropo-sociologica afferma la priorità degli schemi di
comportamento normativi e di valore che sono appresi durante la socializzazione. Questi
schemi di comportamento costituiscono i determinanti dell’azione umana. Cioè, l’uomo
esiste in una situazione di decondizionamento biologico, in cui egli rinuncia alla
soddisfazione istintiva per ricercare altri motivi di appagamento, attraverso i mezzi forniti
dalla società e dalla cultura (Kardiner, Benedict, Mead, Parsons).
1.1.2 Gli psicologi
Come appena visto, molti psicologi hanno tentato di definire cosa spinge l’uomo ad
esprimersi attraverso un’attività sportiva.
Tra le teorie più note e diffuse, si possono elencare le seguenti:
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a) quella del russo Roudik, che suddivide le motivazioni in dirette (che consistono nel
piacere e nella soddisfazione estetica che procura il movimento; nell’attuazione di
situazioni nuove; nel desiderio di dominare la paura ed il gusto della competizione nel
piacere di guadagnare e di realizzare delle performances di livello superiore) ed indirette
(che sono costituite dal desiderio di acquistare salute; di prepararsi al lavoro; di
raggiungere degli obbiettivi attraverso un’attività sociale);
b) quella di Antonelli e Salvini, che fa riferimento a due gruppi di motivazioni: quelle
primarie e quelle secondarie. Agiscono, inoltre, una serie di fattori: fattori di tipo psico-
biologico relativi ai processi di crescita e all’equilibrio psicodinamico), fattori di tipo
psicologico (rappresentati dalle esperienze dell’infanzia e dell’adolescenza che
interagiscono con l’ambiente ed influenzano le scelte di vita di ognuno), fattori di tipo
socio-culturale (quelle esigenze sociali determinate relativamente al contesto sociale. Ad
esempio, il desiderio di approvazione sociale) e fattori di tipo psico-patologico (il
desiderio di compensare presunti o reali sentimenti di inferiorità);
c) quella del francese Bouet, definita “teoria dei bisogni”, che può essere ricondotta a
due gruppi di vettori motivazionali: la lotta contro l’avversario (è più evidenziabile il
desiderio di guadagnare, la promozione sociale, il bisogno di mettersi alla prova, la ricerca
del successo) e la lotta contro la natura (legata agli sport all’aria aperta, l’amore per la
natura ed il bisogno di evadere dall’ambiente urbano). Inoltre, lo psicologo considera
cinque esigenze proprie dell’uomo:
1. il bisogno di movimento (esigenza di esprimere energia organica, non solo biologica,
ma anche in rapporto alla soddisfazione derivante dal movimento stesso, dal ritmo, dal
vissuto del corpo nello spazio);
2. l’affermazione di sé (tendenza a sviluppare e potenziare se stesso e la propria
personalità; desiderio di prestigio e bisogno di dominare gli altri);
3. la compensazione (lo sport diventa momento di compensazione di eventuali handicap
psicofisici o soddisfazione che è negata in altri campi d’azione);
4. l’aggressività (in forma positiva-costruttiva o negativa-distruttiva);
5. l’affiliazione sociale (ricerca di contatto con gli altri e desiderio di entrare a far parte del
gruppo);
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d) quella di P. Bonaiuto e G. Batoli Bonaiuto, per i quali le motivazioni allo sport sono:
Socialità: E’ l’attività ed il bisogno di instaurare rapporti sociali positivi, che può essere
soddisfatta solo quando viene vissuta una coesione di sé con gli altri individui.
Tale coesione dovrà essere positiva, altrimenti può creare disagi e condizioni di conflitto.
Il bambino instaura con la madre la sua prima relazione sociale e vive una fusione totale
col suo corpo, ritenendolo parte di sé, oggetto privilegiato del proprio soddisfacimento.
Più tardi, l’ambivalenza della figura materna che, oltre a gratificare è capace di frustrare,
non essendo sempre disponibile, viene ad essere determinante, perché il bambino
discrimini sé stesso dal mondo circostante, e gli dà la misura di una realtà non totalmente
controllabile, oggettiva, con delle regole proprie.
L’esperienza scolastica, poi, consente l’abbandono del narcisismo primario e
l’acquisizione delle norme che regolano la vita del gruppo scolastico. L’attività sportiva si
configura come una sorta di gioco collaborativi, attraverso il quale il bambino apprende
valori e norme, mutuati dal mondo adulto, attraverso la strutturazione di gerarchie e di
ruoli. Pertanto, risulta evidente l’importanza fondamentale rivestita dal nucleo sociale
allenatore-allievo. Il processo di socializzazione, si rende evidente anche attraverso il
gioco che implica un rapporto sociale ed una cooperazione
Sessualità: Per sessualità si intende quella particolare energia psichica, che è solo un
aspetto dell’atto sessuale (e quindi non identificabile solo con esso), originariamente priva
di finalità, ma capace di esprimersi sotto forme diverse e plastiche riscontrabili in qualsiasi
attività umana. Il concetto di sessualità, è, quindi, da estendersi alla ricerca del piacere
attraverso il vissuto del movimento e della vita attiva di tutto il corpo. Caratteristiche di
tale motivazione sono le tendenze ad instaurare un rapporto di intimità e di vicinanza
fisica ed il desiderio di piacere specifico, relativo a sé stessi e agli altri. Nell’ambito
dell’attività sportiva, la sessualità può essere soddisfatta in maniera parziale, contenuta e
simbolica, attraverso un recupero ed un reinvestimento delle spinte sessuali, in modo
accettabile ed utile.
Si verifica una certa soddisfazione sessuale, quindi, attraverso il rapporto narcisistico ed
autoerotico con la propria persona: da qui, l’interesse per il proprio corpo e la propria
immagine pubblica. Inoltre, il bisogno profondo ed inconscio di soddisfazione
omosessuale, in forma mascherata e simbolica, può trovare la sua soddisfazione nel
rapporto di esibizione reciproca verso i compagni e gli avversari delle proprie potenzialità,
tanto fisiche quanto estetiche. Infine, il contenuto eterosessuale e la sua soddisfazione
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possono essere tradotti, a livello del gergo sportivo, con frasi del tipo: “infliggere subire
una sconfitta”, “ha dominato la gara o l’avversario”, “ha violato la porta avversaria”.
Nutrizione: L’oggetto-meta di questa esigenza è costituito da un insieme di aspetti che
riguardano il mantenimento e lo sviluppo delle forze e delle forme plastiche della persona.
L’attività sportiva, opportunamente guidata, produce, in prevalenza, effetti favorevoli ed
un miglioramento dei bisogni di alimentazione, respirazione, riposo.
Alla base dell’assunzione del cibo c’è sempre un’esperienza interpersonale, infatti, nei
primi mesi di vita, per essere nutrito, il bambino ha bisogno di un’altra persona: ciò
produce un’interazione psicologica. Nell’atleta, il ruolo-guida della madre-nutrice viene
simbolicamente assunto dall’allenatore, che ricostruisce, in un certo senso, un rapporto di
dipendenza.
Aggressione: È il bisogno e l’esigenza del degradare aspetti della realtà, percepiti come
minaccianti ed esterni al proprio sé. In tal modo, la struttura aggredita viene banalizzata ed
il suo valore diminuisce.
E’ una spinta indispensabile, che consente all’individuo di porsi come elemento attivo di
fronte al reale, e si può esprimere in due modi: in senso espansivo (dà alla persona
l’energia necessaria per sperimentare sé stessa e per superare gli ostacoli nella propria
realizzazione) ed in senso difensivo (diventa tale se occorre difendere la propria identità
minacciata da un pericolo). La condotta aggressiva non è da intendersi solo come atto, ma
anche come aspetto della espressività verbale: canzonatura, ironia, satira, violenza verbale
con anch’essi aspetti e forme che sottendono una motivazione aggressiva.
Nel campo dello sport l’aggressività, quando viene incanalata in forme socialmente
accettabili, si costituisce come molla insostituibile dell’organismo. Il comportamento
agonistico, infatti, è da considerarsi psicologicamente il risultato di un compromesso fra le
sequenze di aggressività ed affermazione di sé, da un lato, ed esigenze di contatti sociali
positivi, dall’altro. Lo sport è stato definito da Lorenz e Storr “il combattimento
ritualizzato per eccellenza”, in quanto l’uomo possiede un impulso aggressivo, inteso
come una carica energetica istintuale (e non come atto dell’aggressione), spontaneo e
soggetto a processi di apprendimento relativi a modelli di condotta socialmente positivi e
all’inazione dell’ambiente esterno. Da ciò, Fromm sostiene come l’aggressività non sia
sinonimo di distruttività: in quanto la prima è neutra e volta all’affermazione positiva
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dell’individuo e della collettività, la seconda, invece, è una deformazione stimolata da
processi culturali patologici.
Affermazione: questa esigenza fondamentale porta l’individuo a ricercare il successo e
comporta il desiderio di emergere e di affermare il proprio sé.
La motivazione all’affermazione passa attraverso l’agonismo: esigenza spontanea di
misurarsi con la natura, con il prossimo e con sé stesso, che si estrinseca nella ricerca di
situazioni di esame, il cui superamento acquista un significato rassicurante e procura un
attestato di valore. L’ansia influisce sulla realizzazione del compito, come un fatto
inibente l’apprendimento della giusta esecuzione del movimento richiesto. Al contrario, il
successo dà gioia ed è estremamente motivante, ma le possibilità di ottenerlo sono
inversamente proporzionali ad un livello d’ansia elevato.
Avventura: e’ l’esigenza di fare esperienza di novità con rischio, accettando e ricercando
situazioni che comportino elevati livelli di emotività, dimostrando ed esibendo capacità di
prestazione, impegno sforzo. Nel bambino, il rischio e l’avventura vengono sperimentati
in un primo tempo da un punto di vista egocentrico, poi, quando comincia a vivere con più
intensità la realtà esterna come oggetto altro da sé. Egli riesce ad affrontare il rischio
analizzando con realismo gli eventi e ad avere un contatto più realistico con la paura. Le
regole stesse proprie del gioco sono un limite, un qualcosa da verificare e Goffman ne ha
messe in evidenza il fascino e il piacere insiti in essi. Il verificare il limite delle proprie
possibilità, oltre ad essere una sfida fisica, è una sfida psicologica e, tramite questa, il
bambino accresce la conoscenza del gruppo. Le funzioni conoscitive comprendono sia la
percezione che l’immaginazione. L’esplorazione e la fantasia sono una diretta derivazione
di queste esigenze, ma anche l’espressione di motivazioni specifiche a sé stanti.
L’esplorazione comporta l’intervento di funzioni sia percettive che immaginative, centrate
su oggetti, ambienti o eventi percepiti come precostituiti, dati dall’esterno. Questo stimola
l’esigenza di conoscere, raccogliere informazioni ed inserirle in schemi classificatori. Ciò,
facendo leva sull’esistenza di una situazione conflittuale, problematica che porta al
dominio e al possesso dell’oggetto ignoto ed alla sua conoscenza che elimina il sentimento
di conflitto e lo inserisce nei propri schemi classificatori di conoscenza.
La fantasia, invece, è centrata sulla produzione di oggetti, ambienti o eventi neocostituiti
elaborati dal soggetto, di conseguenza irreali e soggettivi. Con l’età, questa acquista il
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concetto di socialità e diventa un modo per superare la banalità del quotidiano ed
arricchire l’esperienza del reale.
Conoscenza: nell’ambito dei bisogni di conoscenza, ad esempio quello di esplorazione,
viene riconosciuto da vari autori (D.W. Fiske, S.R. Maddi, 1961; H. Fowler, 1965; D.E.
Berline, 1966). Tale esigenza esplorativa richiede l’intervento e l’esercizio di funzioni sia
percettive, sia immaginative, centrate particolarmente su oggetti, eventi, ambienti, colti
come precostituiti, come dati in qualche modo dall’esterno, meritevoli di attenzione, di
acquisizione, di comprensione. In ciascuna attività sportiva viene assicurata una grande
abbondanza di apporti percettive mnestici. Mentre l’enorme apporto di informazioni
complica notevolmente il campo conoscitivo dell’atleta, altri aspetti della pratica sportiva
consentono regolarità e semplificazioni dell’esperienza: specialmente la polarizzazione
“convergente”, che il campo stesso assume in rapporto alla necessità dell’allenamento e
della competizione, il delinearsi di scopi precisi, ecc…, costituiscono aspetti dotati di un
loro risultato, anche positivo, nell’ambito delle esigenze cognitive: le quali sono esigenze
di ordine, oltre che di complessità. Accanto a quella esplorativa, nel quadro della
motivazione alla conoscenza, può convenire il riscontro di una collaterale esigenza per
attività di fantasia. La meta adeguata è costituita, in tal caso, dall’elaborazione di
immagini molto personali il cui ottenimento comporta un piacere funzionale sui generis,
da non misconoscere ai fini della comprensione psicologica dell’atleta e del gruppo
sportivo.
Movimento: è l’attività e l’esigenza di controllare, mantenere e mutare attivamente la
posizione di sé nello spazio. Tramite questo, il bambino conosce e sperimenta la realtà
esterna e il proprio corpo, passando da una postura a carponi, più orizzontale, difensiva e
poco equilibrata, alla postura eretta, equilibrata, autoaffermativa.
Il movimento riveste fondamentale importanza in quanto, oltre ad essere un insostituibile
momento formativo, evolutivo e conoscitivo, diventa uno strumento di affermazione del
sé. Questo quando è basato su un equilibrio psico-fisico, sulla strutturazione dello schema
corporeo e su una motilità armonica e completa.
Lo sport può essere inteso, oggi, come una delle poche attività umane capaci di superare
questa parcellizzazione e di ristabilire un equilibrio tra le funzioni della mente e quella del
corpo, in continuo rapporto di interdipendenza l’uno dall’altro. L’atto motorio, infatti, non
è una mera successione di impulsi fisiologici nello spazio e nel tempo, ma diviene un
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momento socializzante e di relazione cosciente dell’individuo con l’ambiente, nel quale si
viene a proiettare l’immagine del proprio IO.
Considerando il concetto di motivazione, non si può dimenticare la sua controparte, cioè la
demotivazione. A tale proposito, è utile riflettere sul fenomeno della fatica come ulteriore
elemento determinante la crescita o il decadimento dalla motivazione allo sport. Infatti, il
vissuto dalla fatica varia a seconda di quanto e come l’individuo sia coinvolto
emotivamente nell’azione. Alcuni autori sostengono che la fatica non deriva unicamente
da un fenomeno fisiologico di natura biochimica. Infatti, sesso, età, costituzione, salute,
allenamento, agiscono accanto a fattori quali l’estrazione sociale, la noia, il profilo della
personalità, sulla sensazione della fatica, e sulla capacità di sopportarla. La soglia di
affaticamento, cioè il livello massimo di sopportazione della fatica è strettamente
condizionata dall’interesse per l’azione che deve soddisfare i desideri del soggetto ed
essere piacevole, altrimenti lo sport si configura, per l’atleta, come una fonte di
frustrazione, cosa che provoca il decadimento della motivazione e dell’interesse. Per
ovviare alla noia e alla monotonia, legati alla ripetizione esasperata del gesto motorio,
l’allenamento dovrà variare il setting di apprendimento e al gesto analitico contrapporre
quello globale.
Antonelli e Salvini individuano alcune condizioni psicologiche particolari, che possono
determinare un livello elevato di vissuto di fatica: “il decadimento della speranza di poter
raggiungere una meta ambigua”; “la sensazione percepita dall’atleta che l’allenamento
sia una imposizione e non un interesse reale”.
E’ importante, quindi, alla luce di quanto detto, che l’allenatore consenta ad ogni bambino
di ottenere un piccolo successo personale, relativo alle capacità individuali e che mantenga
il desiderio di imparare (reale e non costruito né imposto da fattori esterni), ad un giusto
livello di esperienza piacevole, gratificante e quindi ricercata.
Un ulteriore elemento, che sostiene la spinta motivazionale all’interno della situazione
didattica, è l’aspetto ludico della stessa. Il gioco, erroneamente relegato dalla comune
convinzione tra le attività infantili, è una esigenza fondamentale e comune a tutti gli
uomini, di qualsiasi età, cultura ed epoca. Esso è una delle attività che maggiormente
gratificano quello che Huizinga definisce “homo ludens”.
Il gioco è una attività motivante per chi pratica lo sport, esiste in ogni essere umano,
poiché è caratterizzato da finalità agonistiche e legate al loro bisogno di affermazione e di
autorealizzazione, condizioni necessarie per acquisire identità e stabilità psicologica.
Infatti, è dall’esperienza del confronto con gli altri e con la realtà che dipende la valida
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strutturazione di una identità sociale, del concetto di sé e della sicurezza interiore nelle
proprie capacità.
Quindi, l’esperienza ludica è un momento fondamentale e privilegiato, su cui si possono
fondare, in maniera produttiva, le basi di qualsiasi processo di apprendimento che voglia
essere di più che una semplice attività addestrativa.
1.1.3 La motivazione alla riuscita
Nel modello formulato da Murray, McClelland e Atkinson, la motivazione è definita in
termini di motivazione alla riuscita e motivazione a evitare l’insuccesso.
In particolare, la prima deriva dall’interazione di tre fattori:
1) la forza dell’orientamento individuale al successo,
2) la probabilità percepita di avere successo,
3) il valore incentivante del successo.
La motivazione a evitare l’insuccesso deriva anch’essa dall’interazione di tre fattori, che
sono però di segno opposto rispetto a quello appena riportati:
1) la forza dell’orientamento individuale a evitare o ritardare l’entrata in compiti di
riuscita,
2) la probabilità percepita d’insuccesso,
3) il significato attribuito all’insuccesso.
Inoltre, questi autori ritenevano che questi stati motivazionali interagissero con gli stimoli
ambientali, favorendo l’espressione degli stati affettivi d’orgoglio o di vergogna
dell’individuo, che, a loro volta, determinano comportamenti di approccio o di esitamento
(Thill, 1989).
Sulla base di questa teoria, sono state condotte diverse indagini. I risultati ottenuti
mostrano che, quando si è voluto verificare se gli atleti si differenziassero dai non atleti
per un livello più elevato di motivazione alla riuscita, fra questi due gruppi non emersero
differenze significative (Alderman, 1974).
Risultati più coerenti con questo modello sono stati trovati quando, all’interno di gruppi di
atleti, si è studiata l’interazione fra motivazione alla riuscita e desiderio di evitare
l’insuccesso. È stato, infatti, evidenziato che gli sportivi di sesso maschile che manifestano
un elevato desiderio di successo e una scarsa paura dell’insuccesso, presentano un livello
di abilità più elevato durante la competizione. Al contrario, gli atleti che esprimono una
limitata tendenza al successo e una forte paura dell’insuccesso, realizzano le loro
prestazioni migliori in allenamento. Inoltre, risultati coerenti con questi ultimi sono stati
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evidenziati per mezzo l’analisi congiunta delle motivazioni a evitare l’insuccesso e a
ricercare il successo.
Altri dati hanno mostrato come l’associazione di un livello intenso di paura
dell’insuccesso con un desiderio elevato di successo può favorire prestazioni positive.
In generale, l’approccio proposto da McClelland e Atkinson ha messo in evidenza che gli
atleti con un elevato desiderio di successo forniscono prestazioni migliori rispetto a coloro
che mostrano una bassa attesa di successo.
Questo approccio allo studio della motivazione è stato criticato per l’eccessiva enfasi
attribuita all’importanza della personalità, che viene intesa come forza relativamente
stabile determinante le caratteristiche motivazionali.
1.1.4 I nuovi modelli motivazionali
La psicologia cognitiva, invece, sostiene che le variazioni comportamentali nello sport e
nell’attività fisica sono meglio spiegate da modelli che contengono le cognizioni e le
credenze dell’individuo.
Un contributo significativo allo studio della motivazione è quello teorizzato da quegli
autori (Dweck, 1986; Maehr, 1989; Nicholls, 1992) che hanno analizzato come la
motivazione alla riuscita vari non solo in funzione delle caratteristiche individuali, ma
anche di quelle situazionali. Infatti, la motivazione non può dipendere soltanto dalla
personalità del soggetto, in quanto anche altri fattori intervengono nell’influenzarla.
Questo approccio cognitivo-sociale postula l’esistenza di due tipi di obiettivi che operano
in un contesto di riuscita.
Nicholls suggerisce che questi obiettivi formino due dimensioni indipendenti e siano
messi in relazione a come un individuo costruisce il suo livello di competenza in una
determinata situazione. L’autore ha identificato due orientamenti motivazionali specifici,
definibili in termini di orientamento al compito e di orientamento al Sé. Quando il
comportamento di un giovane è orientato al compito, mostra un certo grado di competenza
o di padronanza. In questa condizione, è per lui prioritario il confronto con se stesso e la
percezione che il soggetto ha della sua competenza sportiva dipende dai progressi
realizzati in quell’attività. Un atleta orientato al Sé, invece, è impegnato nel dimostrare il
suo livello di abilità in relazione agli altri e ciò avviene per mezzo del confronto sociale. Il
sentimento di riuscita si manifesta solo se per lui è favorevole il confronto con gli altri e la
competizione sportiva costituisce l’occasione per poter effettuare questo confronto.
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Servendosi dello stesso approccio, Ames (1984) ha studiato il ruolo del contesto sociale
nel favorire l’emergere di un determinato orientamento motivazionale.
Anche questo autore distingue fra due orientamenti motivazionali:
- obiettivi di padronanza
- obiettivi di abilità.
Il primo tipo di obiettivi è riferito al desiderio di sentirsi valutati come competenti e
l’individuo si impegna nel fornire ottime prestazioni, nel superare gli altri e nell’avere
successo con il minimo sforzo. Nel secondo caso, l’obiettivo consiste nello sviluppare e
migliorare delle specifiche abilità e il suo raggiungimento deriva dalla qualità e dalla
quantità dell’impegno. Il lavoro di Ames si è focalizzato su come il contesto sociale
influenzi l’autovalutazione e la scelta di un tipo di obiettivo rispetto a un altro.
In ogni caso, la rilevanza del contesto sociale è riconosciuta da tutti questi autori, i quali
hanno rilevato come l’orientamento motivazionale sia determinato dall’interazione tra
fattori situazionali e la disposizione individuale a scegliere fra i differenti tipi di
orientamento.
Infatti, la motivazione del giovane è influenzata non solo dai rinforzi forniti dagli adulti,
ma anche dal modo in cui l’ambiente è strutturato.
1.1.5 La motivazione alla competenza
La teoria di Harter (1978, 1985) studia come le valutazioni individuali sul personale
livello di competenza influenzano le prestazioni.
L’autore, esaminando tre livelli di successo (elevato, medio e basso) e tre tipi di rinforzo
verbale (incoraggiamento, svalutazione e assenza di commento), ha studiato gli effetti di
questi e della loro combinazione sulla valutazione del bambino. Harter sostiene la tesi
secondo cui i bambini diventano capaci di interiorizzare dei sistemi critici di valutazione
se hanno ricevuto, sin dalla prima infanzia, rinforzi positivi dagli adulti tali da stimolarli
nel proseguire nei loro tentativi di padronanza a di ampliamento dl loro raggio d’azione.
Diverse ricerche hanno studiato in che misura i feedback forniti dagli allenatori
influenzano la percezione di abilità e la prestazione sportiva degli atleti adolescenti. Dai
risultati è emerso che:
a) i giovani preferiscono ricevere rinforzi che li incoraggino e che forniscano istruzioni
tecniche su come migliorare,
137
b) i messaggi di questo tipo stimolano la percezione di competenza. Al contrario, al
termine di azioni positive, rinforzi positivi di carattere generale e non specifici, così come
l’assenza di rinforzi, stimolano l’affermarsi di una ridotta percezione di competenza.
Queste indagini dimostrano che i giovani non desiderano solo ricevere rinforzi positivi
generali, ma richiedono all’allenatore informazioni specifiche sulle loro azioni.
L’età rappresenta un’altra variabile che influenza il modo in cui i giovani percepiscono il
loro livello di competenza. È stato evidenziato che i giovani fra i 10 e i 14 anni, che si
attribuiscono elevati livelli di competenza e di controllo interno delle proprie prestazioni,
utilizzano, come fonte preferita d’informazione, il confronto con gli altri compagni e
criteri personali. Al contrario, coloro che si attribuiscono uno scarso livello di competenza
e che presentano un levato controllo esterno, per valutare la loro prestazione si servono di
criteri esterni, come ad esempio i feedback dell’allenatore e quelli dei genitori.
Un’ulteriore conferma di questo rapporto positivo fra percezione di competenza e
interiorizzazione dei parametri interni di riuscita è fornita da altre indagini, condotte da
Weiss e colleghi (1990).
È risultato che i giovani sportivi che hanno un elevato livello di percezione e di
competenza, attribuivano la loro competenza fisica e il successo interpersonale a
dimensioni interne, stabili e con un elevato gradiente di controllo personale, rispetto a
coloro con un più basso livello di percezione di competenza.
È stato evidenziato come gli atleti che praticano regolarmente l’attività sportiva si
percepiscono più competenti dal punto di vista fisico rispetto ai praticanti occasionali.
Infine, il tipo di competenza percepita (fisica o sociale) sembra essere influenzato dalle
motivazioni che determinano il coinvolgimento sportivo.
1.2 Le motivazioni alla base dell’attività sportiva
Le motivazioni rappresentano il vero “carburante” per uno sportivo; possono essere di
diverso tipo, anche se, fondamentalmente, possono identificarsi nell’interesse nato per una
disciplina sportiva, in una decisione presa dai genitori per il figlio, la ricerca di nuovi
amici e opportunità di scambi sociali attraverso lo sport, un consiglio da parte del medico
al proprio assistito per curare una patologia, la volontà di stare in compagnia di amici e
familiari che già fanno sport, ecc.
Possono essere definite come “stimoli interiori che si sviluppano dalla volontà di
raggiungere un obiettivo che può essere di diversa natura: le motivazioni e gli interessi
138
cambiano con l’avanzare dell’età, e hanno intensità e momenti di sviluppo che bisogna
rispettare” (Prunelli, 2002).
Può però capitare che, come ricorda Prunelli, chi non bada ai momenti di sviluppo del
bambino e dell’adolescente, pretenda di avere davanti un “esecutore” che “renda” subito,
senza badare alle conseguenze che possano verificarsi nel soggetto. In questo caso, è quasi
sempre la figura dell’allenatore ad essere chiamata in causa. Quasi ogni allenatore
vorrebbe trasmettere le motivazioni ai suoi allievi. Spesso, però, cerca semplicemente di
imporre i propri desideri, o le proprie motivazioni, e finisce per soffocare e rendere magari
ostili quelle che il giovane ha per sua natura, quelle che lo hanno spinto ad intraprendere
questa strada e che, spesso, hanno solo bisogno di essere curate e liberate. Per esempio,
l’impulso a risolvere i naturali sentimenti di inferiorità rispetto ai coetanei, a superare la
propria impreparazione o timidezza nei confronti degli altri e il desiderio di annullare le
barriere che lo separano dagli adulti. Il bisogno di scoprire, utilizzare e verificare i mezzi
di cui dispone, e dunque di costruirsi la sicurezza e la padronanza della realtà, fino a
raggiungere l’autonomia.
Oppure, ancora, il bisogno di essere accettato dall’ambiente e di condividerne i modi e le
scelte, compresi il rispetto di uguali doveri e l’esigenza di sentirsi riconosciuti gli stessi
diritti, che non viene mai soddisfatta, perché da una parte ci deve essere l’allenatore che
pensa, decide ed ordina, e dall’altra l’allievo che ubbidisce ed esegue (Prunelli, 2002).
Il professor Andrea Mismetti (2003) classifica le motivazioni in tre categorie:
1) Psicofisiologiche
2) Psicodinamiche
3) Psicosociali
Le motivazioni psicofisiologiche, a loro volta, possono essere distinte in:
(a) motivazioni fondamentali, dipendenti da esigenze biologiche: la fame, la sete, il sonno,
la pulsione sessuale;
(b) motivazioni proprie dell’organizzazione nervosa antropomorfa: il bisogno di attività, di
manipolazione, di esplorazione percettiva, riassumibili nella ricerca attiva di stimoli da
parte dell’organismo. A questo proposito, va detto che oggi gli studiosi tendono a porre
sempre più l'accento sull'attività spontanea del sistema nervoso (centrale e periferico).
Contrariamente a quel che si pensava fino a diversi anni fa, la cellula nervosa non ha
bisogno, per essere attiva, di una stimolazione che venga dall'esterno; essa non è
fisiologicamente inerte, e la sua attività naturale costituisce un sistema automotivazionale.
139
Per quel che riguarda le motivazioni psicodinamiche, l’autore precisa che la loro natura
affettiva è la traduzione, a livello dei vissuto personale, delle pulsioni sessuali e
aggressive. Queste pulsioni sono presenti fin dalla nascita e, successivamente, vengono
colorite e plasmate dalle particolari e diverse esperienze di relazione con la madre, il padre
e le altre figure parentali.
Durante lo sviluppo affettivo, queste pulsioni vanno incontro a innumerevoli vicissitudini
tipo:
a) l’interiorizzazione degli oggetti su cui sono state proiettate;
b) il conflitto di fronte alle norme morali interne;
c) l’adeguamento alle regole e ai divieti dei principio della realtà; la rimozione parziale e
la loro trasformazione in desideri socialmente accettabili.
La motivazione sarebbe, quindi, il risultato di un compromesso tra la scarica pulsionale
originaria e la mediazione con la realtà da parte della personalità e delle sue istanze. Gran
parte della vera natura della motivazione sarebbe inconscia: aspetto emergente di desideri
e conflitti rimossi, da qui la sua somiglianza o vicinanza al concetto di “nevrosi segreta”.
Infine, parlando delle motivazioni psicosociale, Mismetti sostiene che queste siano il
riflesso interiorizzato (secondo alcuni autori appreso consapevolmente) dei modelli di
comportamento, dei valori, degli atteggiamenti e opinioni, che l’individuo assorbirebbe
durante il lungo processo di socializzazione primaria (famiglia, coetanei) e secondaria
(scuola, lavoro, mass-media).
La cultura, il sistema sociale, le istituzioni educative concorrono a sedimentare
nell’individuo le norme, le conoscenze e i valori-guida. L’insieme di prescrizioni
comportamentali, elaborate soggettivamente da ogni individuo, danno luogo a gusti,
bisogni, interessi, orientamenti e, quindi, a delle motivazioni.
Le motivazioni psicosociali sono, per l’autore, le più importanti, sia perché mediano gli
altri due tipi di motivazioni, sia perché permeano tutto il comportamento umano.
Inoltre, rivestono grande importanza per l’educatore, data la loro plasticità e la facilità con
cui possono essere modellate e dirette.
L’orientamento psicologico cognitivista, pur non contestando l’importanza dei fattori
inconsci nei processi di apprendimento, rileva che le variabili cognitive (sensazione,
percezione, immaginazione, memoria, pensiero, linguaggio, intelligenza) interagiscono
significativamente con il processo motivazionale, e che il comportamento umano è in gran
parte motivato da intenzioni esplicite, programmi e aspettative coscienti. Il percepito, il
ricordato, il pensato tendono a ricondurre le motivazioni umane a ciò che il soggetto vede,
140
ricorda, immagina. Tutto ciò che l’individuo conosce risulta mediato, non solo dagli
organi di senso, ma anche da quel complesso sistema che interpreta e reinterpreta
l'informazione sensoriale.
L’indirizzo transizionale della psicologia, invece, pone l’accento sul fatto che, nei processi
di percezione della realtà, la strutturazione del campo percettivo è in larga parte
condizionata da elementi motivazionali, cioè da fattori affettivi presenti nel soggetto
percipiente (bisogni, attese, timori, ecc.) e indotti dal contesto socio-culturale nel quale
l’individuo vive. Il contenuto di ogni singola percezione sarebbe, quindi, in un certo senso,
il risultato di una transazione, ossia di un rapporto di reciproca influenza tra organismo e
ambiente.
Il problema della motivazione, di per sé complesso e articolato, chiama, dunque, in causa
non solo scuole e indirizzi psicologici diversi, ma anche modalità di approccio che
tengano conto della pluralità di aspetti che il concetto di motivazione sottende.
Nella situazione concreta, il processo motivazionale, che ha luogo nell’individuo, non è
facilmente percepibile da un osservatore esterno, e talora neppure dall’individuo stesso. Il
medesimo motivo può essere espresso da una grande varietà di comportamenti, a volte
contrastanti tra loro (ad es., si può essere aggressivi sia attaccando che ignorando
l’avversario, oppure addirittura colmandolo di doni come fanno alcune tribù indiane della
Columbia Britannica).
Molte motivazioni, tra loro eterogenee, sono frequentemente espresse dal medesimo
comportamento (un ragazzo gioca a pallone in una squadra, sia perché così può muoversi e
divertirsi, sia perché pensa di diventare ricco e famoso).
Spesso, inoltre, le motivazioni, anziché manifestarsi direttamente per quello che sono,
assumono travestimenti e comportamenti opposti (un giovane insicuro si iscrive a un corso
di paracadutismo per dimostrare a sé stesso e agli altri un coraggio che teme di non avere).
L’operatore sportivo deve saper trovare motivazioni valide e adatte alle singole
personalità, riconoscendo a ognuna di esse una specificità in ordine all’età, al sesso, alla
classe sociale, alla biografia personale, al patrimonio di esperienze e di cultura.
In riferimento allo specifico contesto sportivo, Terreni e Occhini (1997), sottolineano che
lo sport è, innanzitutto, “un’attività praticata per libera scelta” che si articola in tre
momenti:
1) la scelta, che prevede che l’individuo passi attraverso una valutazione degli elementi
favorevoli e contrari alla pratica sportiva e prenda in considerazione tutte le alternative
possibili, dal punto di vista sia oggettivo che soggettivo;
141
2) la decisione di praticare sport come risultato di questa valutazione;
3) l’attuazione, ossia l’atto concreto della pratica sportiva come conseguenza della
scelta e della decisione presa.
Alcuni motivi sono innati, connessi ai bisogni fisiologici fondamentali dell’uomo: si tratta
dei cosiddetti bisogni primari, contrapposti a quelli secondari, che sono invece il prodotto
di apprendimento e/o condizionamento, come l’influenzamento culturale (Tamorri, 1999).
I termini primario e secondario trasmettono l’idea di una gerarchia relativa ai bisogni e ai
motivi, che possono, quindi, essere messi in sequenza e ordinati, come nella gerarchia
proposta da Maslow (1954), tenendo conto del fatto che i bisogni più evoluti non possono
emergere, se prima non sono stati soddisfatti i bisogni più primitivi.
Alla base ci sono i bisogni fisiologici (fame, sete, sesso, ecc.), la cui soddisfazione
garantisce la sopravvivenza dell’individuo, seguiti dai bisogni di sicurezza (come il
bisogno di protezione, di esitamento del pericolo), sui quali si innestano i bisogni di
appartenenza (bisogno di amore, di affiliazione, di accettazione). La soddisfazione di
questi bisogni fa emergere i bisogni di stima (bisogno di approvazione, di essere
considerati, di autoapprezzamento, di successo), seguiti dai bisogni di autorealizzazione o
metabisogni (come il senso di giustizia e di bontà, le qualità spirituali, la bellezza, la
realizzazione di tutte le aspettative e potenzialità).
Secondo Maslow, mentre i bisogni alla base della piramide, una volta soddisfatti,
scompaiono (sono i bisogni di carenza), quelli al vertice continuano a svilupparsi anche
quando vengono soddisfatti (in quanto bisogni di crescita). In questo modello, le
motivazioni a soddisfare i vari bisogni che possono presentarsi contemporaneamente, non
operano separatamente sugli individui, ma li spingono ad agire a seconda del posto che i
bisogni occupano all’interno della scala gerarchica (Tamorri, 1999; Giovannini e Savoia,
2002).
1.2.1 Motivazioni primarie allo sport
Secondo Antonelli e Salvini (1987), lo sport è un gioco con finalità agonistiche, per cui,
secondo tutta la letteratura, in campo sportivo, le motivazioni primarie si riducono
essenzialmente, a due elementi, che sono tra le attività maggiormente gratificanti per
l’uomo (Tamorri, 1999):
- gioco
- agonismo.
142
1.2.1.1 Il gioco
Il gioco è un’attività fondamentale ed è comune a tutti gli individui. Pur essendo fine a se
stessa, l’attività ludica persegue anche finalità biologiche, aiutando a ripristinare
l’equilibrio neurodinamico mediante una scarica motoria, risultando come un’attività
libera e piacevole, che stimola lo sviluppo di tutte le componenti psicofisiologiche
dell’uomo (Antonelli e Salvini, 1987).
Nell’individuo adulto, la disponibilità a giocare non viene meno, come si crede
comunemente. Basti pensare che lo sport è un gioco, e per di più un gioco
istituzionalizzato, in cui si rintracciano espressioni ludiche ritualizzate, organizzate
culturalmente, finalizzate socialmente, alimentate da profondi vissuti affettivi e da espliciti
bisogni conoscitivi (Mismetti, 2003).
Il gioco si presenta come un’attività dalle caratteristiche complesse, sempre più
organizzate simbolicamente man mano che si va verso l’età adulta. I caratteri dei gioco
sono dati da:
a) elementi d’incertezza parzialmente controllabili, in cui l’emozione possa far leva
sull’aleatorietà della situazione e sulla possibilità di vivere la situazione stessa in termini
di piacevole ansietà e di rischio misurato;
b) una normativa semplice e da tutti accettata, temporalmente e spazialmente stabilita che
possa essere inventata, abbandonata, ricostruita, senza che da questa derivino ruoli stabili
o penalità irrevocabili;
c) una condizione in cui l’individuo possa edificare in termini simbolici (culturali ed
emotivi) una realtà fittizia, capace di massimalizzare la realizzazione di bisogni soggettivi.
Il gioco fantastico dei bambino, a occhi aperti o nella completa possibilità di utilizzare la
realtà per proiezioni allucinatorie, è l’espressione classica e originaria di ogni forma di
gioco.
E’ evidente come questi caratteri di “gioco” siano rintracciabili in molte situazioni
sportive. Ci sono giochi a prevalente contenuto motorio, simbolico, normativo e creativo,
e quindi giochi più o meno idonei ad assorbire ed esprimere bisogni biopsichici piuttosto
che socioemotivi o viceversa.
Il piacere che un bambino può trarre da una attività di animazione sportiva (sedute di
ginnastica ludica preparatoria) è da collegarsi a una situazione di gioco, nella quale
vengano soddisfatti i bisogni di movimento (biopsichici), e di relazione (psicosociali)
(Mismetti, 2003).
143
• La motivazione psicobiologica al gioco
Il gioco è anche un’attività biologica finalizzata e utilizzata dall’individuo per ripristinare
l’equilibrio neurodinamico mediante una scarica motoria (principio omeostatico in cui si
libera un surplus energetico).
Questa motivazione è ritenuta importante - anche se oggi ridimensionata - perché a essa si
collegherebbero i primi apprendimenti motori complessi, i rudimenti iniziali dei gioco e il
piacere motivante al gioco stesso. Studi più recenti sono concordi nel ritenere che
l’organismo non tende solamente a ridurre gli impulsi interni o a raggiungere uno stato di
quiete, quanto a cercare attivamente nuovi stimoli.
E’ noto, a questo proposito, l’esperimento, secondo il quale, ponendo dei soggetti in una
situazione di deprivazione sensoriale (eliminazione controllata di qualsiasi tipo di stimolo
percettivo-motorio) si verifica l’accentuarsi delle fantasie di: movimento, della fame di
stimoli sensoriali, al punto di provocare allucinazioni compensative. Esistono, quindi,
delle buone ragioni per integrare la teoria dei meccanismi omeostatici con quella
dell’attivazione nervosa, riconoscendo che parte della motivazione al movimento e al
gioco deriva dalla necessità dell’individuo di mantenere un livello ottimale di attivazione
nervosa. Nei soggetti in età evolutiva, tale livello è sempre in equilibrio precario.
L’aumento, o l’abbassamento, di questa condizione ottimale provocano nell’individuo
l’immediata ricerca di stimoli atti a rendere nuovamente costante il livello dell’attivazione
nervosa: il gioco in quanto attività polimorfa, flessibile, regolabile a piacimento, si presta
efficacemente a questo scopo. Ogni cultura ha elaborato un’infinità di momenti ludici più
o meno organizzati e istituzionali, per consentire l’estrinsecazione di questo bisogno
primario. Un ragazzo annoiato, che riceve una minore quantità di stimoli, è portato alla
ricerca di situazioni ludiche competitive nuove, che, in qualche modo, gli sono offerte
standardizzate sotto forma di intrattenimenti, giochi, sport, dalla società o anche dal
gruppo di coetanei.
Accade che taluni dispositivi culturali per controllare la “fame” di stimoli e il livello
ottimale di attivazione nervosa possono farsi reciproca concorrenza. Esempio tipico è
quello dei bambini di oggi, che, catturato dalla forte sollecitazione sensoriale percettiva
del messaggio televisivo, tende a perdere l’orientamento esplorativo, l'iniziativa motoria e
la curiosità sensoriale.
144
• La motivazione cognitiva al gioco
La motivazione cognitiva può essere definita come ricerca attiva delle condizioni che
consentono all’individuo la comprensione, il controllo e la modificazione delle situazioni
di vita rispetto all’adattamento all’ambiente e alla risoluzione dei problemi che questo
processo comporta.
L’esperienza psicomotoria presente nei giochi e di converso nello sport soddisfa le
motivazioni cognitive dell’individuo; questi si esplicano in condotte che vanno dalla pura
esplorazione dell’ambiente all’attività immaginativa di tipo ideo-motorio, ossia alla
manipolazione reale o fantastica degli oggetti e al padroneggiamento del corpo, delle
situazioni e dello spazio fisico. Tale esigenza esplorativa coinvolge le funzioni
sensopercettive e intellettive che trovano la prima verifica e il primo sviluppo
nell’esperienza psicomotoria.
Le prime esperienze sensomotorie sono alla base di tutti i successivi stadi di
apprendimento e di sviluppo dell’intelligenza.
Il bambino, fin dalla nascita, sviluppa le proprie facoltà psichiche, passando attraverso
varie fasi, tra loro strettamente connesse. Da una prima fase di motricità pura, globale,
sottocorticale, tipica delle prime settimane di vita, il bambino passa, nei primi mesi di vita,
a una capacità di ricezione delle stimolazioni sensoriali e, per mezzo di queste, alla
regolazione degli atti motori. Verso la metà del primo anno di vita, sollecitato da
'motivazioni elementari di tipo cognitivo -consentite gradualmente dalla progressiva
maturazione neuropsicologica- comincia a spostarsi verso gli oggetti, a manipolarli, ad
attuare giochi embrionali d'esercizio. Successivamente, il movimento stesso stimola nel
bambino l’arricchimento delle esperienze sensoriali, il padroneggiamento della realtà e la
realizzazione di ulteriori rinforzi, tendenti a orientare sempre di più questo processo di
adattamento attivo all’ambiente. La conquista di una padronanza sensomotoria della realtà
ha come punto di partenza la continua interazione tra il corpo come scienza immediata di
se stessi e l’ambiente come proiezione della propria intenzionalità conoscitiva.
In ciascuna attività sportiva è assicurata una grande abbondanza di apporti percettivi e di
memoria: visivi, uditivi e tattili e, in particolare, cinestesici (relativi alla percezione de
proprio corpo in movimento),così da impegnare l’individuo in modo ampio e dettagliato
nella propriocezione e nella esterocezione (percezione interna ed esterna): ciò soddisferà
sia l’esigenza di ricevere stimoli che quella di verificare la capacità di esplorazione del
proprio corpo nell’ambiente.
145
La spinta interiore che sollecita l’interesse del bambino verso le cose, le situazioni nuove e
la sperimentazione motoria, è, in fondo, la stessa che compare in taluni giochi e, in
maniera talvolta esemplare o velata, in molte discipline sportive. Accanto all’esplorazione
e all'arricchimento dell’esperienza conoscitiva, l’individuo, mediante il gioco, cerca di
sperimentare in maniera simulata, in parte controllata e anche ripetitiva, situazioni e
vissuti, apprendimenti e atti cognitivi legati all’immaginazione e alla risoluzione di
problemi .
Il gioco, sotto questo aspetto, consente di scoprire nuove possibilità, di provare l’attrattiva
del rischio, di darsi in balia all’illusione, di esprimersi, di raggiungere un risultata nuovo e
originale. In questo senso lo sport fa sua l’esigenza cognitiva attraverso la continua
invenzione di discipline, di tecniche, di mutamenti, di opportunità, in cui compare
l’elemento creativo, sia come bisogno dominante (si pensi alla pallacanestro o
all'alpinismo, o alla pesca subacquea), sia come esigenza secondaria meno percepibile
(come nel canottaggio o nelle corse di fondo, dove l’elemento di sperimentazione creativa
avviene più sul piano tattico e di attività di controllo interiore e psico-fisico). L’istruttore
sportivo o l’animatore dovrebbero sapere che il gioco e l’attività fisica del ragazzo sono
sottomessi al bisogno dell’immaginazione e della fantasia. L’espressione ludica,
soprattutto se lasciata libera (ma anche se organizzata), risulta sempre ricca di potenzialità
creative individuali, in quanto il ragazzo deve inventare, attraverso la gestualità e l’uso di
schemi motori nuovi, dei comportamenti capaci di stabilire una continua modificazione
dell’azione in rapporto al mondo circostante. Per questo, talune discipline sportive, in cui
l’elemento della noia e dell’automatica ripetitività del gesto è particolarmente presente,
mentre è assente quello creativo-cognitivo, sono abbandonate con tanta frequenza dagli
adolescenti.
Il ragazzo che cerca di far rimbalzare sull’acqua una pietra o che tenta di saltare un fosso,
non fa altro che porsi dinanzi a precisi problemi psico-motori, in cui è fortemente
impegnato sul piano cognitivo. In questa prospettiva lo sport, quando è intriso di situazioni
di gioco, non rappresenta affatto una serie di inutili espressioni motorie, bensì un’attività
di riflessione, di scelta, di reinvenzione. In particolare, durante la preadolescenza la pratica
sportiva deve essere organizzata, proposta e arricchita di elementi di gioco a carattere
cognitivo, altrimenti rischia di saturare rapidamente l’interesse dei ragazzo e di far
diminuire altrettanto rapidamente la motivazione.
I giochi dei preadolescenti (soprattutto della fascia d'età da 9 a 13 anni) si orientano verso
attività psicomotorie, in cui l’impegno esplorativo e ideativo è particolarmente presente e
146
sentito. In essi si fa ricorso ampiamente alle attività intellettive (memoria, valutazione,
espressività), ai contenuti ideativi (figurativi, simbolici, semantici, comportamentali) e alle
operazioni mentali (unione, relazione, trasformazione, seriazione). In genere, molte attività
sportive contengono, seppur in maniera non esplicita, tutti questi fattori cognitivi: si pensi,
ad esempio, alla semplice partita di pallone, alla ginnastica attrezzistica, ecc. Esistono
sport i cui contenuti di gioco sono più o meno saturi di fattori cognitivi adatti a tutti quei
giovani, per i quali l’elemento ludico della pratica sportiva serve a realizzare un’attività
prevalentemente cognitiva; mentre negli altri soggetti l’elemento ludico motivante può
essere più di natura squisitamente affettiva, caratterizzato da dinamiche emotive. Si pensi,
ad esempio, a quelle attività sportive, in cui l’elemento di gioco è dato dall'alternanza di
emozioni, di imprevisti, di rischi calcolati. Le scorribande de ragazzi in campagna, al
mare, nei quartieri cittadini; i giochi tra ruderi antichi e le battaglie simulate sono il
corrispettivo della escursione alpina, della partita di calcio, della speleologia sportiva o
della pesca subacquea.
• La motivazione affettiva al gioco
Nell’infanzia accade che la scelta o l’abbandono di un particolare gioco sembrano
obbedire a finalità diverse: soprattutto quando l’attività ludica ricostruisce simbolicamente
all’esterno i bisogni e i vissuti corrispondenti alla realtà interiore. Indubbiamente, senza il
meccanismo della proiezione e del transfert affettívo, l’attività ludica perderebbe per
l’individuo ogni fascino.
Il gioco, contrariamente all’opinione comune, non è una attività relegabile all’infanzia e
incapace di sopravvivere nella maturità. L’adulto, per tollerare la presenza del gioco nella
propria realtà, ha dovuto relegarlo alle finzioni ritualizzate del tempo libero e inventare
teorie capaci di dimostrarne l’utilità per il bambino. La pratica sportiva che accoglie,
nazionalizzandole, le pulsioni emotive più propriamente libidiche fa sì che il gioco possa
perdurare in un’attività seria, nascondendo le sue profonde implicazioni affettive.
Le caratteristiche psicodinamiche dell’attività di gioco ne fanno uno spazio sia privato sia
pubblico, in parte fantastico in parte immesso nel reale, dipendente dalle leggi logico-
formali che costituiscono la cornice ai fatti affettivi. Sotto tale aspetto, il gioco è di per sé
un’attività fittizia, accompagnata, cioè, da una coscienza specifica della propria realtà
secondaria o della propria completa irrealtà rispetto alla vita quotidiana e al senso comune.
In relazione ai meccanismi psicodinamici che inducono l’individuo, in particolare il
giovane, a trovare nella situazione ludica momenti di profonda gratificazione affettiva, è
147
necessario riflettere sul fatto che essi permangono anche nello sport, seppure amalgamati
all’agonismo e nascosti dal senso razionale e realistico dell’attività sportiva.
Si può considerare, per esempio, un giovane di 15 anni, che pratica con passione e da poco
tempo la pallacanestro. Molto probabilmente questo giovane, se fosse intervistato, non
saprebbe dire cosa lo spinge a praticare questo sport e cosa in particolare lo diverte. Gran
parte delle motivazioni rimangono oscure al soggetto stesso, legate come sono ai
dinamismi affettivi più profondi che, pur esercitando un importante ruolo nell’orientare il
comportamento, rimangono estranei alla sua coscienza. Per questo giovane, il gioco della
pallacanestro avrà, tra l’altro, una funzione rassicurante, in quanto gli consente di liberare
notevoli cariche emotive attraverso la fantasia e l’attività motoria. Queste fantasie sono, in
primo luogo, rappresentative di pulsioni libidiche e aggressive. Lo sport gli consente di
drammatizzare simbolicamente situazioni interpersonali passate, di risolvere tensioni con
le figure parentali, di trovare e superare sentimenti di dipendenza, d’insicurezza, di
affermazione dell’Io, di provarsi e di sperimentarsi sul piano delle proprie capacità, di
riconoscersi come individuo portatore di una trasformata corporeità rispetto all’infanzia.
Il gioco, soprattutto sportivo, comporta anche l’avventura: questa è intesa come
perseguimento di situazioni ansiogene da dominare.
In passato, per varie ragioni, sia in sede clinica sia in sede più generale, l’ansia veniva
presentata soprattutto nei suoi aspetti negativi, per cui era necessario ricorrere a
meccanismi di riduzione e di difesa.
Ciò contrasta, peraltro, con l’esperienza genuina del gioco, dello sport e di molteplici
situazioni di vita attivamente ricercate dal soggetto adulto o dal bambino, pur ben adattati,
i quali rifuggono dalla piattezza e dall’unilateralità emotiva di una distensione protratta.
Oggi, si tende sempre di più ad attribuire un valore positivo alla condizione di eccitazione
emotiva, quando si trovino sistemi di gratificazione e di sfogo. Quando il gioco o
l’agonismo consentono situazioni nelle quali il rischio e l’incertezza, la novità e la paura
possono essere vissute come operazioni controfobiche, allora il controllo del tasso e della
portata delle situazioni ansiogene consente di esorcizzare la paura latente degli imprevisti
della vita quotidiana. L’adolescente, confessando la propria debolezza e incertezza di
fronte al rischio del gioco, lo supera e da ciò trae un’esperienza di maggiore conoscenza di
sé. La drammatizzazione del rischio, unita al controllo dell’ansia e all’autoaffermazíone
attraverso la prova, rappresenta il meccanismo psicologico che spiega le valenze emotive
che spingono verso gli sport ad alto tasso ansiogeno.
148
1.2.1.2 L’agonismo
L’agonismo risponde all’esigenza di misurarsi con la natura, con se stessi e con gli altri. In
ogni caso, lo sport non può prescindere dall’elemento agonistico e il confronto appena
citato è un’esigenza spontanea dell’uomo (Giovannini e Savoia, 2002). Antonelli e Salvini
(1987) precisano che, alla base dell’agonismo, si colloca l’aggressività. Secondo Tirreni e
Occhini (1997), quest’ultima affermazione rischia di essere fraintesa: affermare che
l’agonismo comporta sempre aggressività non significa, infatti, “accusare lo sport di
sostenere e incentivare il comportamento aggressivo nei bambini e negli adolescenti che
praticano attività sportiva a livello agonistico”.
Al contrario, lo sport può costituire uno degli strumenti preventivi del disagio giovanile.
Lo sport, infatti, può costituire un valido strumento per indirizzare la pulsione aggressiva
in modo innocuo (Giovannini e Savoia, 2002).
La psicologia dello sport tende a definire l’agonismo come un comportamento razionale,
specifico, intenzionale e culturalizzato del dinamismo aggressivo.
L’aggressività si manifesta nell’individuo come il risultato di un complicato processo
d’integrazione fra una disposizione generica all’atto aggressivo e i modelli di
comportamento, introiettati durante la socializzazione primaria e secondaria; modelli che
determinano o inibiscono la stessa socializzazione a seconda delle circostanze e delle
norme fornite dall’ambiente (Mismetti, 2003). L’aggressività del pugile, del lottatore, in
fondo, è il risultato di questa integrazione, in cui l’azione agonistica non fa che
conformarsi al modello più generale di condotta (ruolo di pugile e situazione: il
combattimento o l'allenamento) e a quello più particolare della personalità dell’atleta.
Alcune ricerche hanno rilevato che:
a) la percentuale dei bambini mediamente aggressivi, aggressivi e molto aggressivi,
cresce via via che si passa dalle famiglie, con educazione autorevole a quelle autoritarie,
permissive e incoerenti;
b) i bambini non aggressivi sono del tutto assenti nelle famiglie che impartiscono
un’educazione permissiva e incoerente;
c) la scelta da parte della famiglia di uno stile pedagogico non è casuale; essa è legata non
solo alla storia personale dei genitori, ma anche ai valori propri della cultura in cui essi
vivono;
d) i meccanismi di inibizione dell’aggressività si fondano (e, in questo caso, etologia e
psicanalisi sono d’accordo) sulla capacità di identificazione del soggetto con l’altro. La
motivazione che confluisce nell’agonismo è, come si è detto, intessuta di elementi
149
psicologici e dinamici di natura aggressiva, anche se l’agonismo, a una più attenta
considerazione, non può essere totalmente identificato con l’aggressività (Mismetti,
2003).
Lo sport, com’è noto, è un dispositivo sociale che consente di istituzionalizzare, in forma
simbolica e ritualizzata, il modello comportamentale competitivo proprio della nostra
cultura e civiltà.
Tale modello competitivo attinge in parte da quella che Andrea Mismetti chiama
“disposizione all’atto aggressivo”. Ricorrendo a un’analogia, può essere formulato un
parziale modello di rappresentazione della dinamica aggressiva: una cascata le cui acque
(potenziale aggressivo-biologico) sono state:
1-sbarrate da una diga (inibizioni interiorizzate e divieti sociali);
2-lasciate defluire entro condutture (comportamenti culturalmente appresi e
personalità);
3- utilizzate da una centrale elettrica ( aspettative sociali, situazioni, ruoli e risorse
emotive).
L’agonismo è, quindi, “la manifestazione matura, costruttiva e creativa dell’aggressività,
utilizzata culturalmente per l’autorealizzazione di un individuo, in grado sia di
contrastare le tendenze regressive interiori, sia di superare le difficoltà e le minacce dei
mondo esterno”. I meccanismi intrapsichici che rendono possibile il passaggio
dall’aggressività all’agonismo sono:
1) la rimozione, ossia la censura emotiva volta a respingere nell’inconscio quanto
moralmente non accettabile dall'individuo (ad es., sentimenti di colpa e di responsabilità);
2) la sublimazione, ossia la capacità di trasformare questo impulso in motivazioni
socialmente accettate;
3) la ritualizzazione, cioè il soddisfacimento catartico e stereotipato del surplus
aggressivo;
4) l’inibizione per identificazione, ossia la possibilità di trasformare l’impulso
dell’aggressione in un ostacolo emotivo e di avviare, quindi, l’ostilità verso forme di
condotta reattive (protezione, affetto, gioco, ecc. ).
Nella condotta sportiva, al di là della prescrizione normativa e dei modelli di condotta
competitivi, si ritrovano (sul versante squisitamente psicologico in particolare) la
ritualizzazione dell’aggressività e la sua sublimazione.
L’agonismo, in definitiva, è un compromesso, in cui le variabili psicologiche sono
ulteriormente guidate entro i valori e le norme che regolano le diverse forme di
150
competitività sportiva. La motivazione agonistica, pertanto, subisce non solo il
condizionamento delle variabili di personalità individuale, ma anche le variazioni etico-
normative dei diversi contesti sportivi. Fatto, questo, che acquista una particolare
importanza sotto il profilo psicopedagogico, là dove si voglia fare dello sport un momento
fondamentale di valorizzazione delle dinamiche che lo rendono possibile, quali
l’atteggiamento ludico e l’atteggiamento agonistico (Giovannini, Savoia, 2002).
Esistono due orientamenti pedagogici riguardo all’opportunità di rinforzare o meno le
motivazioni agonistiche presenti nei valori della prestazione sportiva. Il primo punto di
vista sostiene che l’agonismo tende a fare dello sport una forma di gioco deformata in
senso produttivistico, in cui viene ulteriormente confermata la condizione umana fondata
sull’ineliminabile diseguaglianza sociale, che riserva la ricompensa esclusivamente ai più
importanti e ai più forti.
Da qui, derivano l’enfasi sulla competizione, sullo spettacolo sportivo, sul risultato e il
rischio di dilatare il ruolo dell’agonismo e di deformarlo per fini meramente strumentali,
che niente hanno a che vedere con i bisogni e le motivazioni di fondo dell’atleta; tutto ciò
tende ad accentuare risposte aggressive, soprattutto quando il modello comportamentale
dell'agonismo non garantisce un minimo di difesa dalle frustrazioni e dall’imperativo
della vittoria e del risultato positivo.
Il secondo orientamento pedagogico sostiene che l’aggressività è, nell’individuo, un dato
primario, non sopprimibile ricorrendo a semplici decreti moralistici. Lo sport deve
consentire, attraverso opportune mediazioni normative, la libera espressione
dell’aggressività, poiché la sua negazione o la sua rimozione può causare turbamenti
nevrotici o autodistruttivi. Lo sport si rivela, quindi, una delle poche attività umane in cui
la pulsione aggressiva può essere liberata completamente e può manifestarsi in maniera
non repressa e deformata.
Dal punto di vista della socioanalisi, lo sport è ritenuto una garanzia di sicurezza: i grandi
riti collettivi realizzati negli stadi rappresenterebbero un sistema difensivo dalle ansie
paranoiche e depressive. Lo sport sarebbe quindi motivato, in termini personali e
collettivi, dalla necessità di creare situazioni istituzionali adatte a liberare profonde ansie,
quali appunto quella persecutoria e quella depressiva. L’atleta ,manifesta il nucleo
aggressivo dell’agonismo contro i seguenti fattori:
a) la natura, intesa come difficoltà insite nella specialità sportiva (ad es., una montagna da
scalare, un peso da sollevare, un attrezzo su cui destreggiarsi, ecc.) e il superamento delle
difficoltà permette all’atleta la propria affermazione;
151
b) se stesso, tramite duri sacrifici, fatti di intensi allenamenti e indirizzati a una meta
rigorosa, in cui l’elemento competitivo si instaura tra il se reale e quello ideale;
c) l’avversario, in quanto persona reale o immagine fantasmatica, considerata più come
mezzo che come obiettivo: elemento da emulare e da superare più che da annichilire.
Alcuni studiosi hanno riscontrato che talune situazioni competitive ad alto livello
accentuano l’aggressività: agendo in un circuito chiuso di frustrazioni, proiezioni delle
proprie tendenze ostili sul rivale, percezione dei competitore come malvagio e pericoloso,
viene ad accentuarsi la motivazione aggressiva.
1.2.2 Le motivazioni secondarie dello sport
Accanto ai due fattori primari, si riscontrano delle motivazioni secondarie, il cui peso e
significato variano in base alla personalità dell’atleta (Tamorri, 1999).
Le motivazioni secondarie allo sport sono raggruppate in quattro categorie da Antonelli e
Salvini (1987):
1) Fattori psico-biologici, che hanno origine dalla costituzione dell’individuo, ossia dalle
sue funzioni psicovegetative e sono divisi in:
a) omeostatici, o finalizzati al ripristino dell’equilibrio neuro-dinamico grazie alla scarica
motoria realizzata dal movimento;
b) autoplastici o finalizzati ai processi di crescita somatica e/o di maturazione nervosa.
2) Fattori psicologici, determinati dal carattere dell’atleta che cerca di colmare, attraverso
la pratica sportiva, esigenze di vario tipo:
a) affettive;
b) di comunicazione;
c) di emulazione di modelli;
d) di individuazione e conferma della propria identità personale;
e) proiettive di situazioni diverse che si creano contemporaneamente all’interno del
gruppo sportivo;
f) catartiche o di liberazione di pulsioni libidiche e aggressive;
g) etiche ed estetiche di tendenza alla perfezione.
3) Fattori socio-culturali, che esprimono:
a) il bisogno di affiliazione, di appartenere ad un gruppo sociale e di partecipare
alle attività comuni;
b) il bisogno di approvazione sociale, di sentirsi gratificati e accettati;
c) l’achievement o bisogno i affermazione e autorealizzazione;
152
d) il desiderio di raggiungere lo status socioeconomico rappresentato dalla
remunerazione dell’atleta professionista;
e) la possibilità di elevazione attraverso lo sport e la mobilità sociale che ne deriva.
4) Fattori psico-patologici, che possono essere prevenuti o curati grazie allo sport; si tratta:
a) del sentimento di inferiorità che lo sport può contribuire a ridurre;
b) del narcisismo;
c) del desiderio di potenza che lo sport può assecondare e/o ridimensionare grazie
al confronto continuo con avversari e all’alternarsi di vittorie e sconfitte.
Per altri autori, come Martens e Bump (1988), esistono, in ambito sportivo, ulteriori
componenti essenziali della motivazione:
a) Motivazione intrinseca ed estrinseca: i soggetti motivati intrinsecamente tendono ad
essere competenti e autodeterminati nel gestire ed esplicare con successo le proprie
capacità; un rinforzo esterno negativo o positivo, comporta l’incremento del livello
motivazionale in modo estrinseco;
b) Motivazione diretta e indiretta: i metodi usati per motivare direttamente un atleta sono il
consenso, l’identificazione e l’interiorizzazione; indirettamente, l’atleta può essere
motivato attraverso l’alterazione dell’ambiente fisico o psicologico.
c) Localizzazione del controllo: la tendenza ad attribuire alla causalità ciò che avviene,
orienta l’atleta verso una definizione di locus of control di tipo external, mentre chi
considera gli eventi come dipendenti dal proprio comportamento, si attribuisce un
controllo di tipo internal. Gli atleti “interni” avrebbero maggiore capacità di correzioni
degli errori rispetto agli “esterni”, in quanto dotati di buone capacità di procrastinare
gratificazioni e ricompense:
d) Bisogni dell’atleta: un bisogno da soddisfare diventa una meta. I bisogni principali
comprendono la ricerca di stimoli, di affiliazione e di affermazione.
È dimostrabile che una parte importante della pratica sportiva è principalmente in funzione
della motivazione interiore e che quest’ultima risulta favorita da condizioni che stimolano
l’autonomia o l’autodeterminazione (Frederick e Ryan, 1995). Allo scopo di definire
soggettivamente il successo o la motivazione intrinseca in ambito sportivo (Duda et al.,
1995), è stata rilevata l’interdipendenza teorica ed empirica tra la prospettiva degli
obiettivi, o modi, per giudicare la competenza di ognuno. Obiettivi orientati al compito
incrementano la motivazione intrinseca, mentre obiettivi ego-orientati stimolano una
riduzione della motivazione estrinseca.
153
1.2.3 Equilibrio e conflitto motivazionale
Alla base delle nostre azioni non c’è mai una singola motivazione, ma sempre un intreccio
molteplice e complesso tra vari aspetti (Celata, 2003). Normalmente, le motivazioni
trovano un equilibrio, per cui la persona è in grado di gestire le diverse spinte che la
muovono: ad esempio, si è in grado di comporre la spinta al successo con il senso di
giustizia, la spinta a stare in gruppo con l’altrettanto importante esigenza di distinguersi, la
voglia di divertirsi con il senso del dovere ecc. Le azioni e le scelte di una persona sono il
risultato degli intrecci che si vengono a creare, di volta in volta. Ma, altrettanto naturale, è
il fatto che le diverse motivazioni entrino in conflitto tra loro, per cui una parte di noi ci
spinge in una direzione, e un’altra in direzione diversa se non addirittura opposta. Il
conflitto motivazionale è pertanto un’esperienza di tutti i giorni, che facciamo ogni qual
volta dobbiamo decidere a che cosa dare la preminenza nelle nostre scelte (Celata, 2003).
E’ importante capire che il conflitto motivazionale non è qualcosa di negativo. Anzi, è la
possibilità di scegliere, cambiare, migliorare le scelte passate, rivedere le posizioni
personali alla luce di una motivazione più matura.
1.2.4 Motivazione e fasce d’età
Nella pratica, è utile considerare anche le differenze che intercorrono tra età diverse
rispetto alla questione delle motivazioni, per evitare che presunzioni sbagliate possano
risultare demotivanti proprio mentre si cerca di motivare l’atleta.
In età infantile, ad esempio, tutte le componenti motivazionali si riassumono nel gioco.
Nel gioco, il bambino trova risposte alle sue esigenze, che difficilmente potrebbe trovare
con un tipo di attività sportiva non ludica. Chiaramente, ogni proposta dell’allenatore ha
sempre obiettivi che vanno al di là del semplice “giocare” spontaneo di tutti i bambini: si
tratta pur sempre di sport. Ma è importante che il modo in cui le esercitazioni vengono
proposte sia di tipo ludico: non è quindi un problema di contenuti, ma di metodi.
Contenuti belli e interessanti, ma posti in forma diversa dal gioco, risultano stressanti,
noiosi e indisponenti per un bambino, che arriva a chiedersi perché mai deve essere
costretto a sottoporsi a tali esercizi e ubbidire all’allenatore, anziché essere stimolato dalla
voglia di scoprire cosa potrà fare oggi in palestra (Bal Filoramo, 2003).
Inoltre, è bene tener presente che in età infantile sono molto forti le componenti
estrinseche, derivanti dal modello genitoriale. A questa età, le regole e i modelli di
comportamento dati dai genitori sono sentiti molto fortemente, così come la necessità di
fare quello che i genitori dicono e ricevere così le dovute gratificazioni. Situazioni in cui si
154
crei esplicitamente un conflitto tra allenatore e genitori sono quasi sempre perdenti, perché
se viene posto davanti ad una scelta il bambino preferirà il parere del genitore e perderà
motivazione. Meglio sarebbe cercare, comunque, accordo e collaborazione, pur senza
rinunciare al proprio ruolo. Ciò significa che l’allenatore è motivante quando riesce a porsi
come adulto significativo, non in competizione col genitore perché diverso, né inferiore né
superiore ma in accordo con lui (AAVV, 1999).
Le motivazioni di un bambino, infine, non hanno la stessa stabilità e continuità di quelle di
un adulto, perché il bambino è alla scoperta di se stesso e cambia ogni giorno. Non è
strano, quindi, se ogni anno il bambino è attratto da sport diversi, se in un certo periodo
perde interesse e poi lo ritrova; anzi, dare per scontato che il bambino sia sempre motivato
al massimo per lunghi periodi significa contribuire a demotivarlo non accettando le sue
naturali trasformazioni (Celata, 2003).
In età adolescenziale si verificano, invece, alcuni mutamenti per quel che riguarda le
motivazioni. Perdono peso i dettami e gli insegnamenti dei genitori, che vengono anzi
contestati; al contrario, quello che dice l’allenatore può essere preso da modello principale,
come adulto in contrapposizione ai genitori. Questo significa, da una parte, essere
consapevoli dell’importanza particolare che l’allenatore assume come educatore,
dall’altra, l’allenatore deve evitare la tentazione di sostituirsi al genitore stesso. In questa
età, infatti, è importante che le motivazioni diventino il più possibile intrinseche, proprie
dell’individuo e del suo modo di essere, non dettate dall’esterno. Non a caso, molti
abbandoni si verificano proprio in questo momento, dopo che l’allenatore ha dedicato anni
a quell’atleta e proprio quando si cominciava a raccogliere qualche successo. Al di là della
frustrazione personale dell’allenatore, che deve essere tenuta sotto controllo, è naturale che
nel momento in cui perdono peso le spinte degli adulti e del gioco, gli interessi siano
messi davvero alla prova: se solo di interessi si trattava, lo sport può essere sostituito, se
invece si riscoprono motivazioni reali, questo passaggio è decisivo verso un impegno
sempre più serio e responsabile, assunto dall’atleta in prima persona. Non è utile, quindi,
che la figura dell’adulto-genitore sia semplicemente sostituita da quella dell’adulto-
allenatore; molto meglio è sviluppare motivazioni intrinseche e personali.
Non si tratta di un processo interamente controllabile e preordinabile. Entrano in gioco
aspetti ambientali, sociali, familiari, esperienze passate e presenti che
l’allenatore,ovviamente, non può controllare del tutto. Però, è utile sapere che alcune
condizioni per un passaggio verso l’attività sportiva veramente motivata potevano essere
create già in precedenza:
155
- se in età infantile l’allenatore si è posto sullo stesso piano del genitore, adesso questo
gioca a suo sfavore: è anche lui visto come un adulto che non capisce, che vuole solo
comandare ecc.;
- se, già dall’infanzia, il risultato e la prestazione sono stati messi al centro di tutto,
adesso è difficile che emergano motivazioni più profonde: se si è cresciuti con l’idea che
fare sport serve a vincere, a questo punto può darsi che vincere interessi poco, meglio
divertirsi con gli amici in cortile che faticare in palestra;
- se, da bambini, si è avuta la considerazione dell’allenatore solo se e quando
facevamo bene, adesso si avverte il bisogno di altre cose (essere ascoltati, fare confidenze,
esporre problemi e riflessioni, cercare confronti…) e la palestra non è il luogo dove questo
si può ottenere;
- se, fin da bambini, si è stati abituati all’idea che lo sport “serve a qualcosa” di
diverso dal piacere di fare sport in sé e per sé, è inutile stupirsi se adesso l’adolescente
cerca qualcosa anche in altre direzioni.
Ecco perché “motivare” non può mai essere ridotto al “trovare un motivo per far stare in
palestra” i ragazzi. Invece, a lunga scadenza, è più importante riuscire a creare vere
motivazioni intrinseche che interessi superficiali e poco duraturi. Ciò significa anche che
la qualità del lavoro svolto in età infantile può risultare decisiva in un secondo momento e
che le energie spese a creare un ambiente e un insieme di relazioni che favoriscono la
crescita della persona non sono mai spese invano (Celata, 2003).
1.3 Le ricerche sulla motivazione
Secondo le più recenti indagini psicologiche, le motivazioni più frequenti che spingono gli
atleti all’attività agonistica sono le seguenti :
• l’aspetto socializzante della pratica sportiva e, quindi, la necessità di far parte di un
gruppo
• ricerca del benessere fisico e cura del proprio aspetto a
• bisogno di muoversi e di stare in attività
• attrazione verso l’agonismo e quindi il desiderio di competere
• frequentazione di un ambiente diverso da quello scolastico e familiare
• ricerca di divertimento e spirito di avventura
• realizzazione di sé attraverso il successo sportivo
• pressioni familiari (i genitori ambiscono al successo del figlio in ambito sportivo)
• stare con gli amici e desiderio di emergere nella società
156
1.3.1 La ricerca del Coni del 1993
Un’importante ricerca condotta in Italia, dalla Scuola dello Sport del CONI (Buonamano
et al., 1993a, 1993b), su 2589 giovani di età compresa fra i 9 e i 18 anni, impegnati in
sport di squadra e individuali, suddivisi in modo rappresentativo sull’intero territorio
nazionale, ha permesso di evidenziare interessanti differenze motivazionali in relazione
all’età, al genere, allo sport praticato, al livello socioeconomico e culturale delle famiglie e
all’area geografica di residenza. I fattori motivazionali emersi sono:
- Successo/Status: motivazioni strettamente legate alla competizione, che comprende le
seguenti nove ragioni: “mi piace sentirmi importante”, “voglio essere popolare”, “voglio
arrivare ai più alti livelli”, “mi piace vincere”, “voglio che gli altri mi notino”, “mi piace
ricevere premi e medaglie”, “mi piacciono le sfide”, “mi piace gareggiare”, “mi piace fare
qualcosa in cui sono bravo”.
- Forma fisica/abilità: desiderio soggettivo di sentirsi in forma e desiderio di migliorare le
proprie abilità, è correlato a cinque ragioni: “voglio essere fisicamente in forma”, “voglio
stare in forma”, “voglio migliorare le mie abilità”, “mi piace fare esercizio” e “voglio
imparare nuove abilità”.
- Rinforzi estrinseci: motivazione legata all’influenza esercitata dall’ambiente sociale, con
particolare riferimento alle persone affettivamente più vicine, è composto da quattro
ragioni: “i miei genitori vogliono che faccia sport”, “i miei migliori amici vogliono che
faccia sport”, “mi piace utilizzare il materiale sportivo”, e “mi piace l’allenatore”.
- Squadra: desiderio di collaborare con gli altri per raggiungere una meta, è costituito da
tre ragioni: “mi piace lo spirito di squadra”, “mi piace il lavoro di squadra” e “mi piace far
parte di una squadra”.
- Amici/divertimento: desiderio di socializzazione e divertimento in un ambiente diverso
da quello familiare, è correlato a quattro ragioni: “voglio stare con gli amici”, “mi piace
divertirmi”, “mi piace incontrare nuovi amici” e “mi piace stare fuori casa”.
- Scaricare energia: motivazione che descrive il bisogno di eccitamento che qualsiasi
attività deve soddisfare; la noia e l’ansia sono l’opposto negativo, che viene combattuto
tramite tale motivazione, è costituito da cinque ragioni: “voglio scaricare il nervosismo”,
“mi piace scaricare energia”, “mi piace avere qualcosa da fare”, “mi piace l’azione” e “mi
piace entusiasmarmi”.
Mentre la dimensione successo/status è comune a tutto il campione, gli altri fattori si
presentano in modo diverso in funzione del genere e dell’età, dell’area territoriale di
residenza, del livello culturale della famiglia, dello sport praticato. Infatti, tra i più giovani
157
(9-11 anni) prevale la dimensione affiliativa (fare sport con gli amici, incontrare nuovi
amici e divertirsi), nelle fasce d’età successive emergono maggiormente il desiderio di
eccitamento e di entusiasmarsi (12-14 anni) e raggiungere la migliore forma fisica e
competenza sportiva (14-18 anni). Tra le ragazze, invece, sono rilevanti la forma
fisica/abilità tra le più giovani, i rinforzi estrinseci nell’età successiva e, tra le più grandi,
la forma fisica e il piacere tratto dall’azione.
Il fattore successo/status è più forte nei ragazzi, in particolare nei più giovani, che vivono
in nuclei familiari con maggiori difficoltà socioeconomiche (vivono al Sud dell’Italia,
hanno fratelli e i genitori sono di estrazione socioculturale medio-bassa). Lo sport,
pertanto, verrebbe vissuto come mezzo per ottenere un riconoscimento di status più
elevato.
Rispetto alle relazioni individuate sul tema dell’affiliazione, è stato evidenziato che i
tennisti, chi pratica pesi, lotta, judo e altri sport di combattimento, sono coloro che vivono
il loro rapporto con lo sport più per avere successo che per socializzare. Al contrario, i
pallavolisti e i cestisti sono più orientati alla socializzazione.
Un ulteriore risultato è stato riassunto nell’individuazione di cinque tipologie di
atteggiamento verso lo sport che sono:
1. gli entusiasti: ritengono che lo sport porti al successo e alla fama, ma non discriminano
sufficientemente tra le diverse ragioni, provengono da famiglie con livello culturale
medio-basso, e vivono al Sud;
2. i bisognosi di socializzazione: in prevalenza sono legati ai giochi di squadra, vengono
da famiglie con livello culturale medio-alto che vivono al Centro-Nord;
3. i competitivi: vedono l’agonismo e la vittoria nell’ottica dell’autorganizzazione, solo in
secondo piano per il conseguimento del successo e di un diverso status, si tratta di una
tipologia trasversale, indipendente da tutte le variabili strutturali;
4. gli individualisti: non sono interessati alla socializzazione, ma ricercano nello sport una
soddisfazione rispetto a obiettivi personali (migliorare il fisico, migliorare le abilità e
scaricare energia);
5. gli anti-competitivi: rispondono in negativo, anche se mostrano bisogno di rinforzi
estrinseci diretti (principalmente le ragazze) mediati dalla squadra (principalmente i
ragazzi), si evidenzia la reazione ad un difficile inserimento nel mondo dello sport,
provengono da famiglie con un livello culturale medio-alto e vivono principalmente al
Nord.
158
1.3.2 La ricerca del CONI del 2002
Nell’indagine che è stata effettuata nella provincia di Bologna dal CONI (2002), si osserva
che la motivazione principale che porta i giovani ad intraprendere la pratica di una
disciplina sportiva è la “passione”. L’importanza di tale motivazione è confermata anche
dai dati ISTAT, che mettono la passione al primo posto fra le motivazioni della pratica
sportiva, con il 63% dei consensi. Anche gli amici e i genitori rivestono un ruolo molto
importante. I primi svolgono una funzione importante nella fase di coinvolgimento del
giovane, che così facendo trova la possibilità di trascorrere più tempo con i suoi amici, e
quindi di divertirsi. In questo caso, l’avvicinamento allo sport è quasi sempre voluto dal
ragazzo, mai imposto. I genitori sono coloro che, in genere, provvedono ad accostare i
bambini allo sport quando sono ancora in tenera età, per una serie di motivi che vanno
dalla coscienza sull’utilità dello sport per una loro corretta crescita, alla necessità di tenerli
comunque impegnati nelle ore pomeridiane, al desiderio di vederli primeggiare nelle
competizioni, alla mancanza di tempo per accudire i piccoli. La loro influenza è molto
forte, naturalmente, nei bambini, ma diventa sempre minore man mano che il bambino si
avvicina all’adolescenza. Nel momento in cui si entra in questa fase, i fattori che
classicamente entrano in gioco sono la passione e gli amici (AAVV, 2002).
Altro elemento che si evidenzia in questa ricerca è la scarsa influenza che i campioni dello
sport hanno sui giovani nelle motivazioni che portano alla pratica di una disciplina a
livello agonistico. Tale risultato smentisce alcune teorie che vedono, proprio nelle grandi
figure legate allo sport, uno dei motivi che inducono i giovani a tentare di seguire le orme
di questi campioni. La crisi di alcune discipline, quali il tennis, che ha visto diminuire in
continuazione la base dei propri tesserati giovanili, non può essere imputata
principalmente alla mancanza di campioni. Tutto questo influisce sicuramente sugli indici
di ascolto televisivo, ma non sulla pratica giovanile. In tal caso, le problematiche sono
altre e vanno affrontate e risolte in diversi modi come: la modifica della struttura dei
circoli, l’approccio alla disciplina da ripensare completamente, la creazione di più spazi
per i ragazzi per facilitarne l’inserimento.
In particolare, è stata effettuata, per i tesserati, un’analisi, delle motivazioni che hanno
spinto a praticare sport, al fine di valutare quanto incida una motivazione in relazione ad
un determinato tipo di disciplina (di squadra o individuale).
Dai dati sotto riportati, si evince chiaramente che gli sport di squadra sono preferiti,
soprattutto perché spesso ci sono già gli amici che li praticano, i quali provvedono a
coinvolgere il soggetto nell’attività, ma anche perché, attraverso essi, è possibile
159
conoscere nuove persone, quindi divertirsi, svagarsi e favorire gli scambi sociali. In
sostanza, dentro la pratica sportiva agonistica sembra esserci più un senso di
socializzazione/comunità che di competizione che pure, naturalmente, non manca. Si deve
anche evidenziare che tale elemento socializzante è prediletto in particolare dai maschi,
che preferiscono gli sport di squadra proprio perché c’è la possibilità di “far gruppo”.
Aspetto socializzante, che fa maturare nei giovani una visione dello sport inteso
principalmente come sport di “squadra” che, in genere, è una scelta che dura nel tempo,
dalla giovinezza fino all’età adulta.
L’attività sportiva è anche percepita come un fattore molto importante per la propria vita
quotidiana e quindi molto legata alle proprie passioni.
Queste ultime, assumono un peso leggermente maggiore negli sport individuali (70,4%
contro 66,5% degli sport di squadra), e ciò è spiegabile nel fatto che le discipline
individuali offrono meno motivazioni, rispetto agli sport di squadra, sul piano del
divertimento e dello svago.
Bisogna, però, sottolineare che l’indagine ISTAT viene svolta tra i praticanti e non tra gli
agonisti.
Nella scelta degli sport da praticare, il peso dei genitori è superiore negli sport individuali
(33,3%) rispetto a quelli di squadra (20,9%) dove, invece, l’influenza degli
amici/compagni è largamente superiore.
Si conferma, ancora, la scarsa influenza dei grandi campioni dello sport come motivazione
di inizio dell’attività agonistica sportiva, sia nelle discipline individuali sia nelle discipline
di squadra.
Oggi, se il tempo libero per i giovani si va configurando sempre più come una dimensione
centrale per la propria vita quotidiana, la scelta di praticare sport a livello agonistico è una
delle attività che aiuta a definirne l’identità e rappresenta uno spazio entro cui sviluppare
relazioni sociali. In particolare per i giovani, le discipline sportive e i luoghi entro cui si
svolgono sono divenuti significativi teatri di interazione sociale. Negli sport individuali,
invece, tali motivazioni assumono un peso molto minore, e inizia a trovare spazio la
motivazione del mantenersi in forma.
E’ stata effettuata anche l’analisi tra maschi e femmine, per vedere se le diverse
motivazioni cambiano la loro incidenza al variare del sesso e del tipo di campione in
esame (tesserati ed ex-tesserati). I gruppi che sono stati ricavati confermano la passione
come motivazione principale che ha portato alla pratica sportiva, ma questo fattore diventa
più importante tra le ragazze tesserate, che staccano di 5 punti percentuale i coetanei
160
maschi. Gli amici hanno avuto un’influenza maggiore nell’inizio alla pratica sugli ex-
tesserati, mentre i genitori hanno avuto una grossa influenza sulle ragazze, sia quelle
tesserate, sia quelle che hanno abbandonato.
L’esempio dei grandi campioni dello sport conferma la sua scarsa importanza nelle
motivazioni che inducono i giovani ad iniziare un’attività sportiva, anche se bisogna
sottolineare che si tratta di un fattore che ha maggior influenza nei maschi, sia nel caso dei
tesserati sia in quello degli ex.
Sulla decisione dei giovani di iniziare a praticare una disciplina sportiva a livello
agonistico, l’influenza dei genitori è maggiore nelle donne, sia per i tesserati sia per gli ex.
Per quanto concerne i maschi, essa assume un peso maggiore nei tesserati rispetto agli ex.
1.3.3 La ricerca di Reggio Emilia
Nella fascia di età compresa fra i 9 e i 14 anni, per quanto riguarda le motivazioni della
scelta dello sport indicato, un’alta percentuale (il 43,9 %) degli alunni delle elementari e il
48,2% di quelli delle medie, ha deciso di praticare quel determinato sport essendosene
appassionato guardandolo; il consiglio dei genitori ha più peso tra i bambini delle
elementari che tra i ragazzi delle medie (il 16,7% contro il 9,9%). La scelta della disciplina
sportiva è orientata in modo significativo anche dall’influenza degli amici (13,4 % e
10,4%) e, se in entrambi gli ordini di scuole ha una certa rilevanza la motivazione più
generica di indirizzo verso uno sport (cioè “non c’è un particolare motivo” con oltre l’11%
nei due casi), nelle elementari è particolarmente rilevante che, spesso, la scelta è stata fatta
perché quella era la disciplina già praticata da un familiare (prevalentemente dai fratelli).
Per quel che riguarda, invece, i ragazzi dai 14 ai 16 anni, le motivazioni maggiormente
indicate dai praticanti nella scelta dello sport sono la personale propensione (51,1 %) e il
fatto di aver seguito amici che già praticavano quell’attività (15,6 %); un’8,4 % afferma di
essere stato orientato dai genitori, mentre è da rilevare che l’assenza di altre attività
organizzate cui i ragazzi potessero accedere è stata segnalata da nemmeno un 1% dei
praticanti.
1.3.4 La relazione di Simona Garau
Uno dei temi particolarmente seducente nel mondo della psicologia dello sport è quello
della “Motivazione alla pratica sportiva”. Infatti, non è raro che gli operatori del settore,
dagli allenatori ai dirigenti s’interroghino su determinati comportamenti o, in ogni caso, su
motivazioni che spingono i ragazzi a praticare quella determinata disciplina. La
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motivazione costituisce la chiave d’accesso ai risultati agendo attraverso tutta una serie di
bisogni e di stimoli di varia natura. Ed è proprio partendo dalla motivazione che ci si può
addentrare nello studio di un fenomeno ad essa strettamente collegato: il drop out
(abbandono giovanile) (Garau, 2002).
Una delle chiavi di lettura di questo “problema” è proprio la motivazione scarsa o
insufficiente. Alcuni orientamenti per cercare di dare delle risposte valide si possono
trovare in una ricerca di Sapp & Haubenstricker del 1978, i quali esaminarono nelle stessa
ricerca i motivi che determinavano l’abbandono e la partecipazione sportiva.
Tabella 7.1 - Sapp & Hanbenstricker (1978). 2000 atleti, non atleti e giovani drop out
FATTORI DI MOTIVAZIONE
FATTORI DI ABBANDONO
Acquisizione di competenza *Problemi con l'allenatore e compagni Affiliazione *Eccesso di competizione Forma fisica *Noia Divertimento *Infortuni *Altri interessi Altre attività Lavoro *Fenomeno legato all'età
Emerge che variabili quali l’età e la figura dell’allenatore sono decisivi.
La tabella 7.1 sottolinea l’importanza di aspetti quali l’affiliazione o il divertimento,
aspetti che, se non tenuti nella giusta considerazione, contribuiscono a creare situazioni di
drop out.
Fondamentale, quindi, la posizione dell’allenatore, che dovrebbe tenere sempre alta la
motivazione nei suoi atleti, preparando programmi di allenamento avvincenti, e sempre
diversi in modo tale da suscitare aspettazione ed entusiasmo (Garau, 2002).
Una ricerca del 1995 sull’allenatore ideale (Malignani, Bortoli, Robazza), rivolta ad un
campione di ragazzi dai 10 e 14 anni, ha evidenziato ulteriormente quanto i giovani
apprezzassero l’allenatore che dava importanza non solo al risultato o alla vittoria, ma
anche al divertimento. Ciò dimostra, ancora una volta, come l’allenatore sia una figura
determinante nel rapporto tra disciplina sportiva e atleta, diventando un tramite
fondamentale per ridurre l’abbandono della pratica sportiva. Small e Smith parlano,
addirittura, di una filosofia strategica che l’allenatore dovrebbe attuare con lo scopo di
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ridurre il più possibile le condizioni di disaggio che possono condurre ad un abbandono
precoce.
Alcune di queste strategie sono:
- Vincere non è tutto, è un obiettivo importante ma non l’unico;
- La sconfitta nella competizione non deve essere vista come un fallimento
personale o una minaccia alla propria persona,
- Vittoria e successo non sono sinonimi; spesso anche da una sconfitta si può
ottenere qualcosa di positivo, vista invece come un raggiungimento di altri obiettivi
stabiliti precedentemente;
- Successo non è solo vincere ma soprattutto lottare per vincere.
Queste sono delle strategie che non sempre vengono prese nella giusta considerazione
dagli allenatori e che, invece, sono importantissime per gli atleti.
Altre ricerche (ad es. Alderman & Wood 1976, o di più recente pubblicazione Cei,
Mussino 1994) sulla motivazione dimostrano, soprattutto, che per i giovani sono
fondamentali il divertimento e l’affiliazione soprattutto per bambini e adolescenti. Tali
ricerche sono molte chiare in proposito e rilevano come la scarsa considerazione di tali
elementi induca i ragazzi a trovare altre vie o comunque altri modi di espressione che
soddisfino i loro bisogni.
Tabella 7.2 - Perché si inizia una pratica sportiva. Motivi per l'inizio della pratica
sportiva tra praticanti Ed ex praticanti (Dati percentuali). Fonte: rivista “Sport giovane”
del maggio 1991
Praticanti Ex-praticanti Interesse per la disciplina
72.0 70.1
Decisione dei genitori
20.2 21.0
Praticato da familiari
11.9 6.8
Ricerca nuovi amici
19.7 21.0
Consiglio medico
18.8 26.4
Attratto manifestazione Sportiva dal vivo
10.6 10.8
Attratto manifestazione. sportiva in TV
11.5 7.7
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Consigliato a scuola
4.2 2.1
Praticato dai compagni
15.1 15.2
Pubblicità società sportiva
0.5 2.4
Si evidenzia il fatto che le motivazioni tra praticanti ed ex praticanti siano più o meno
sulle stesse percentuali. La tabella 7.3 propone come spunto di riflessione motivazionale
aspetti che, fino ad ora, non erano stati considerati, come la pubblicità e le manifestazioni
sportive (anche se rappresentate da percentuali basse), che sottolineano uno scarso
interesse alla promozione da parte delle società sportive.
Lo studio riguardante coloro che avevano iniziato un’attività sportiva su consiglio medico,
ha messo in luce lo scarso peso di tale motivazione al proseguo dell’attività sportiva.
Tabella 7.3 - Motivi dell'inizio della pratica sportiva rispetto all’età d’inizio (distribuzioni
percentuali sugli intervistati). Fonte: rivista “Sport giovane” del giugno 1991
Fino a 6
da 6 a 7
da 8 a 10
oltre 10
Interesse per la disciplina
65.0 72.0 73.5 69.8
Decisione dei genitori
38.8 17.1 14.5 23.7
Praticato dai familiari
14.6 10.2 8.7 7.6
Spinta alla socializzazione
25.4 33.0 39.8 40.8
Consiglio medico
18.3 20.7 25.0 17.1
Attratto da manifestazione Sportive dal vivo
8.0 11.4 11.3 11.0
Attratto da manifestazione Sportiva in TV
10.5 12.7 7.8 10.3
Consigliato a scuola
4.0 3.0 3.1 4.8
Pubblicità società sportiva
0.0 1.8 1.4 0.7
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Continuando a vedere quali possano essere i motivi di inizio della pratica sportiva, si può
prendere in considerazione un'altra ricerca, che ha elaborato gli stessi dati motivazionali
della tabella 7.4, ma analizzandoli in base all’età.
I risultati hanno evidenziato l’importanza dell’età, ma, soprattutto, come essa sia
determinante per una pratica duratura nel tempo. Rimane sempre aperto l’interrogativo se
la scelta del bambino sia stata libera o condizionata dai genitori e, se così fosse, è
altrettanto difficile stabilire come mai la scelta cada su uno sport individuale o su uno
sport di squadra. Il ruolo dei genitori resta fondamentale, non sempre però essi tengono
conto dei bisogni del bambino o danno importanza al fatto che la disciplina sia di squadra
o individuale, tenendo conto delle diverse finalità di ciascuno.