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Istituto MEME associato a
Université Européenne Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
IL TEMA DELLA PERICOLOSITA’ SOCIALE NEL PAZIENTE PSICHIATRICO AUTORE DI
REATO
Scuola di Specializzazione: Scienze Criminologiche Relatore: Dr.ssa Roberta Frison
Collaboratori: Dr.ssa Elisabetta Cloch - psicologa Contesto di Project Work: Centro di Salute Mentale
Tesista Specializzando: Angelo Denaro Anno di corso: Secondo
Modena: 12/06/2010 Anno Accademico: 2009 - 2010
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES Angelo Denaro – Scuola di Specializzazione Triennale in Scienze Criminologiche (Terzo anno) A.A. 2009/2010
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Indice dei Contenuti
1. Introduzione .....................................................................................................3 2. Il fatto reato…………………………………………………………………..4 3. Anamnesi familiare remota e prossima……………………………………..5 4. Le conseguenze giuridiche del reato: il processo…………..……………...10 5. La pericolosità sociale……………………………………………………….13
5.1. Il profilo giuridico…………………………………………………………………………….14
5.2 L'accertamento nel giudizio di pericolosità sociale…………………………………………...16
5.3 La valutazione della pericolosità sociale negli orientamenti della psichiatria………………...19
5.4 Indicatori di pericolosità sociale secondo Fornari e Fonti…………………………………….26
6. La perizia psichiatrica…………………………………………….………...28
6.1 Normativa di riferimento, natura dell’istituto e suo possibile oggetto………………………..28
6.2 Scelta del perito, cause di incapacità ed incompatibilità, ipotesi di astensione e ricusazione...29
6.3 Attività del perito ed atti consultabili………………………………………………………….33 6.4 Tutela del contraddittorio nelle operazioni peritali: comunicazioni alle parti e conseguenze
della loro inosservanza…………………………………………………………………………… 36
6.5 Il rapporto tra oralità e scrittura nella perizia dibattimentale………………………………….37
7. Il soggiorno in comunità: diario di bordo………………………………….39 8. Cronogramma del percorso………………………………………………...51 9. Genogramma…………………………………………………………….......54 10. Bibliografia…………………………………………………………………55 12. Sitografia...………………………………………………………………....55
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1. Introduzione
Questo lavoro nasce dall’idea di una di noi di approfondire il tema della
pericolosità sociale in relazione alla possibilità di trattamento dei soggetti con
riconosciuta incapacità di intendere e di volere, parziale o totale, e per i quali
viene emessa una misura di sicurezza alternativa alla detenzione in carcere.
Il riscontro del fenomeno e la recidiva sono sempre più frequenti negli ultimi
anni. E a nostro parere, a causa di un aumento dei disturbi di personalità in forma
grave, dal momento che dal punto di vista epidemiologico non si registra un
aumento dei disturbi psichici dello spettro schizofrenico.
Il caso che abbiamo scelto di rappresentare per affrontare la questione della
pericolosità sociale è solo un pretesto per fare un’analisi dei molteplici aspetti
che convergono nel comportamento criminale. E nel caso specifico non ci è
sembrato di riscontrare un contesto di vita particolarmente criminogenetico.
Le caratteristiche di personalità rappresentano il principale fattore di rischio
all’origine del comportamento crimanale1.
Nel caso del reato contro la persona, come nel caso in ispecie, il fatto acquista
una risonanza sociale di allarme ponendo innanzitutto questioni di carattere
giuridico e poi sanitario.
Il presente lavoro è strutturato in modo tale da affrontare il reato, la pericolosità
sociale e la perizia criminologica, attraverso la quale si è giunti al giudizio di
pericolosità. Infine è stato tratteggiato il percorso terapeutico del soggetto
sottoposto a misura di sicurezza.
Consapevoli della parzialità della presente trattazione, abbiamo gettato le basi per
uno sviluppo futuro del lavoro nel quale un’analisi critica dei disturbi di
personalità e i meccanismi psicodinamici correlati, il consumo di sostanze
stupefacenti, la reazione sociale associata al fenomeno “pericolosità sociale”
insieme con le sua dimensione epidemiologica abbiano una rilevanza tale da
avere un quadro più ampio e completo possibile. Al momento proveremo a
1 G. Ponti, I. Merzagora Betsos, Compendio di criminologia, Raffaello Cortina Editore, 2008.
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rispondere alle domande: perché un individuo inizia una carriera criminale?
perché un individuo continua in una carriera criminale?
2. Il fatto reato
Per avere un’idea del contesto in cui si svolge la vicenda che in seguito
acquisterà risvolti giudiziari, occorre fare una breve premessa che avrà un
approfondimento nel capitolo successivo.
Nick è figlio unico. Dopo il fallimento di diversi tentativi di studi universitari
torna nel proprio paese ripiegando su ciò che gli offre la famiglia: lavorare nel
negozio di ottico del padre. Non dovrà occuparsi del rapporto con i clienti, non
ne sembra capace. Lavorerà in laboratorio. Non vive con i genitori: il padre gli ha
messo a disposizione un appartamento dove conduce un’esistenza appartata ma
non autonoma: è la famiglia che soddisfa i suoi bisogni in termini di
sostentamento. Fra l’altro il suo contributo al lavoro è assai modesto e altalenante
e i conflitti con il padre sono frequenti e clamorosi.
Un giorno, è il 9 maggio del 2006, Nick aveva telefonato al padre chiedendogli
di richiamarlo sulla sua utenza mobile, non aveva credito sulla sua scheda
telefonica, come succede spesso agli adolescenti. Ma il suo telefono non aveva
squillato e Nick era montato su tutte le furie.
Uscito di casa con un coltello, aveva raggiunto il genitore al negozio
minacciandolo di morte. Nella lite fra i due era intervenuto un agente di polizia
municipale cui Nick aveva intimato di allontanarsi, ché altrimenti avrebbe
ammazzato pure lui. Ai fatti era presente un altro testimone.
L’agente aveva presentato denuncia dell’accaduto all’Autorità Giudiziaria.
Il fatto in sé è molto banale e avvenimenti di questo genere erano frequenti fra i
due, senza che il genitore fosse in grado di arginare le continue esplosioni di
collera del figlio.
Questa volta però le cose vanno diversamente dal solito, il suo comportamento di
diventa notizia di reato che, aggiungendosi a tutte le altre denunce accumulate
negli anni, attira su di sé l’attenzione della Procura e l’Ufficio per le Indagini
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Preliminari: il reato e la sua reiterazione valgono una sanzione.
Nell’immediato Nick viene ricoverato nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura
di zona e qualche settimana più tardi, su disposizione del Tribunale viene
trasferito nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario dei Reggio Emilia fino a quando
non viene trovata una struttura comunitaria disposta accoglierlo.
3. Anamnesi familiare remota e prossima
La raccolta delle informazioni anamnestiche è stata un’impresa assai difficile.
Le poche volte che si è avuto modo di incontrare i genitori del paziente per
chiarire le dinamiche familiari, avere notizie sulle vicende importanti della loro
esistenza e sostenerli nel lavoro terapeutico ci si è trovati di fronte ad un
atteggiamento di chiusura e reticenza.
La madre di Nick è di origine slava, arrivata in Italia quando aveva poco più di
tre anni insieme con la madre e una sorella. Ne nascerà una terza pochi mesi
dopo. Fa l’insegnante di italiano alle superiori e continuerà il suo lavoro fino a
poco tempo dopo la nascita del figlio. Non sono noti i motivi per cui la famiglia
materna è emigrata in Italia. Nick chiarisce invece che la madre era stata costretta
dal padre a lasciare il suo lavoro ed a rimanere a casa per occuparsi di lui. Dal
materiale clinico del paziente si ha notizia che la donna, già nel 1986, si era
rivolta al servizio di salute mentale locale per problemi depressivi. Dal figlio
viene descritta come una persona molto fragile succube dei modi autoritari e
aggressivi del padre.
Quello che si conosce di quest’ultimo lo si ricava indirettamente quando Nick
parla di sé stesso o della madre in relazione al padre. Le rare volte che lo si sente
articolare qualcosa è per lamentarsi di dovere espiare chissà quale peccato per
avere avuto un figlio come Nick. Oppure per sottolineare che lui è il miglior
ottico del paese e possiede l’esercizio più prestigioso. E ancora quando dice al
figlio che con la buona volontà si supera tutto e che i suoi problemi di salute non
sono le vere difficoltà della vita.
Nick è figlio unico e nasce l’1 gennaio del 1974. Non ricorda molto della sua
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infanzia: esce molto poco di casa da solo, l’unica persona che frequenta è un
cugino, suo coetaneo che va a trovare la sera dopo cena insieme al padre. In
quelle occasioni i grandi vanno al bar a giocare a carte e nell’attesa loro giocano
in auto.
Neanche durante il periodo delle scuola Nick ha molti amici e nel tempo libero,
dalla scuola e dai compiti, frequenta lezioni di pianoforte, consapevole che
intanto i suoi coetanei sono fuori a giocare a calcio.
Il pianoforte lo annoia a morte, ma i genitori presto glie ne comprano uno con la
speranza che il figlio diventi un prodigio. Aspettativa frustrata perché il ragazzo
abbandona dopo pochi mesi.
Lo sci sembra un’altra di quelle attività per la quale il padre ha grandi speranze.
Ma accompagna il figlio nei campi di sci vicino al paese e lo abbandona
chiedendo ad altri genitori di ricondurlo a casa.
Nick vede sé bambino spesso solo, lontano da coloro che avrebbe voluto che
fossero i suoi compagni di gioco. Anche la frequenza dei cugini non è di grande
compagnia: litigano spesso ed egli inforca la sua bicicletta e ripercorre a ritroso i
sei chilometri che lo separano da casa.
Tra i suoi ricordi emergono solo quelli dolorosi.
Un giorno al rientro delle vacanze dal mare con la madre scopre che uno dei
criceti ha divorato il compagno. Scopre anche che il padre si è scordato di dar
loro da mangiare. Nick si arrabbia tanto da decide di punire il sopravvissuto: lo fa
morire di fame. Nel suo gioco con gli animalo uno dei criceti era il cane di Big
Jim.
Intanto le liti fra la madre e il padre sono sempre più frequenti. Un giorno con
essa si ritrova davanti ad un giudice minorile che gli chiede a quale dei due
potrebbe rinunciare se questi si separassero. E naturalmente la risposta di Nick è
che preferisce stare con entrambi. Ciò fa desistere la madre dall’intento. Tuttavia
la minaccia della separazione rimane sospesa, fluttuante, onnipresente, con il suo
potere terrifico su quel bambino che spesso si rappresenta l’unico collante nella
coppia. Racconta, infatti, che durante le passeggiate fuori porta il padre è sempre
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cinquanta metri avanti rispetto alla moglie, e lui continua a correre avanti e
indietro fra l’uno e l’altra come e una sorta di elastico, deformato.
A quattordici anni comincia la sua abitudine al fumo di sigarette e durante la
frequenza alle scuole superiori entra in contatto con un gruppo di coetanei che gli
propongo di fumare insieme canne. Ma se ne discosta, prendendo una posizione
molto critica verso di loro e la loro abitudine.
A diciassette anni, a causa del suo insuccesso scolastico, i genitori lo iscrivono in
una scuola parificata a Salò. Nella cittadina possiedono una casa, ma collocano il
figlio in un convitto, allontanandolo di un centinaio di chilometri da casa.
Lontano dal controllo e dal contenimento familiare si ripresenta ancora una volta
l’occasione di fumare hashish. Durante un’uscita, un amico gli propone di fumare
uno spinello e da quel momento l’uso di cannabis diventa frequente e abituale: si
giustificherà dicendo che voleva entrare a far parte di un gruppo. Ma l’uso della
sostanza lo accompagna per tutto il tempo fino al momento del suo ingresso in
comunità e si presume che abbia inibito, in una personalità devastata dai conflitti
dei genitori e da una solitudine inquietante, l’evoluzione di un modo di pensare
magico e delirante e che abbia favorito molti dei suoi scompensi psicotici e tanti
dei ricoveri in ambiente psichiatrico.
Così la sua infanzia e la sua adolescenza trascorrono in totale solitudine e in una
tristezza sconfortante.
Dopo la maturità Nick, condizionato dal padre, si iscrive alla facoltà di economia
dell’università di Brescia. Ma i risultati sono deludenti. Durante il terzo anno ha
uno scompenso psicotico e viene ricoverato in una clinica psichiatrica per circa
un mese. Durante la degenza conosce un ragazza, Lara. In quell’anno, siamo
ancora nel 1996, viene fermato e trattenuto dalle forze dell’ordine per furto
d’auto. Per sfuggire alle conseguenze (familiari e giudiziarie?) progetta di fuggire
ad Amsterdam - città che evoca il paese dei balocchi in quanti usano sostanze
stupefacenti per disinfettare le ferite inferte loro dalla vita -, ma la madre e lo zio
paterno lo scoraggiano dall’attuare tale proposito. Così, con il consenso dei
genitori e la disponibilità dello zio, va a vivere a casa di quest’ultimo. Trascorre
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molto tempo da solo e si stordisce fumando hashish tutto il giorno.
Senza alcuna riflessione sul perché del fallimento lascia l’università di Brescia e
si inscrive a Trento nella facoltà di giurisprudenza. Ancora una volta la scelta è
fortemente condizionata dal volere del padre ma rappresenta l’occasione per
allontanarsi da casa, dalle responsabilità cui il genitore vorrebbe inchiodarlo. Ma
ancora una volta l’impegno e il profitto sono molto scarsi e il progetto di
raggiungere l’agognata laurea naufraga. Così, come avrebbe desiderato fin
dapprincipio, si iscrive alla facoltà di scienze nautiche trasferendosi a Napoli.
Nella città partenopea trova la Amsterdam che sognava: è molto lontano dai
genitori e dal loro controllo.
Ma il profilo di studente rimane molto basso e in un’occasione di una visita dei
genitori, Nick ha un violento litigio con la madre cui segue uno scompenso
psicotico e un nuovo ricovero in ospedale. Al momento della dimissione viene
ospitato in un convento, dal quale però si allontana presto. Anche dagli studi
universitari e in modo definitivo. Qualche tempo dopo, di nuovo viene
denunciato per il tentato furto di un automobile. Spiegherà che non aveva alcuna
intenzione di rubarla e che vi è entrato per proteggersi dal demonio. Segue un
altro ricovero in una clinica psichiatrica privata di Verona e al momento della
dimissione torna a casa.
Si convince che non è in grado di avere un’autonomia e, soprattutto, sente di non
avere la concentrazione necessaria per portare avanti un progetto di studi.
Accetta di lavorare nel negozio del padre che lo relega alla sola attività di
laboratorio. Non gli sembra adeguato al contatto con i clienti.
La collaborazione fra i due entra subito crisi, i problemi relazionali sono
all’ordine del giorno, la mancanza di regole, di un patto chiaro da parte del padre
datore di lavoro nei confronti del figlio impiegato, generano solo confusione.
Nick svolge il lavoro seguendo orari non in linea con quelli dell’apertura del
negozio, mantiene ritmi stravaganti. Dopo un lavoro si riposa a tempo
indeterminato, decide “in autonomia” quali compiti svolgere, indipendentemente
dalle esigenze di consegna delle ordinazioni.
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Qualche tempo dopo, sollecitato dal genitore, che non ha rinunciato al suo ideale
di figlio, inizia un corso per ottico nella città di Verona dove andrà a vivere in un
convitto. Il suo stile di vita è caotico e disordinato: va a dormire molto tardi,
trascorre molto tempo a letto durante il giorno, frequenta le lezioni al
pomeriggio. Vaga spesso per la città finendo nel solito parco, dove acquista il suo
pezzo di fumo e lo consuma, qualche volta in compagnia di altri avventori.
In uno dei suoi giri per la città accetta di farsi leggere la mano. La chiromante gli
predice che troverà la donna della sua vita. Poi sale su un autobus, vede due
donne di colore e dice a sé stesso: “Mary per sempre”. Intuisce che la sua futura
compagna si chiamerà Mary e che l’incontro avverrà in seguito ad un incidente
stradale. Per accelerare i tempi ne provoca uno, schiantandosi contro la macchina
che lo precede, convinto che alla guida ci sia la sua Mary.
Durante un fine settimana compie un tentativo di suicidio con ingestione di
farmaci in seguito all’ennesimo conflitto con i suoi. In pronto soccorso gli fanno
una lavanda gastrica e viene nuovamente ricoverato nell’SPDC di zona.
Finiti gli studi torna al suo paese dove va a lavorare “stabilmente” in negozio con
il padre. Ma i problemi relazionali non sono né sopiti né estinti.
Nel 2003 il padre rifiuta una chiamata a suo carico da parte del figlio. Nick è
infuriato, ha una crisi pantoclastia, distrugge la casa e si ferisce. Sporco di sangue
corre in negozio per fargliela pagare al padre. Lo insulta, gli grida contro, lo
minaccia. Interviene la polizia municipale per sedare gli animi. L’episodio
culmina in un nuovo ricovero in SPDC e in una denuncia. Di episodi analoghi
con notizia di reato ve ne sono almeno due prima di quello che culminerà in un
nuovo ricovero e nell’adozione di misure di sicurezza nei suoi confronti.
Nei colloqui con la psicologa in comunità dice che se avesse avuto un colloquio
con il suo terapeuta e un cambio di terapia farmacologica le cose sarebbero
andate diversamente: “erano più giorni che provavo a contattare il terapeuta ma
lui non aveva un momento per me. Se mi avesse preso, se mi avesse cambiato la
terapia farmacologia non sarebbe successo”.
Nel corso della sua esperienza di patentato il permesso gli è stato ritirato cinque o
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sei volte.
4. Le conseguenze giuridiche del reato: il processo
Accogliendo la richiesta del PM, che sulla base del giudizio di pericolosità
sociale emerso dalla consulenza tecnica di parte richiesta dal suo ufficio, aveva
chiesto l’applicazione di misure cautelari, il G.I.P. aveva disposto l’obbligo di
trasferimento per l’infermo dal SPDC, dov’egli era stato inizialmente ricoverato,
presso l’OPG di Reggio Emilia in data ...06.2006. Successivamente, in data
...11.2006, su richiesta della difesa e accolta dal Tribunale – ufficio del G.I.P. - la
misura del ricovero in OPG era stata modificata con quella degli arresti
domiciliari presso la comunità terapeutica dove egli è al momento del processo.
Per i fatti contestatigli, a seguito della denuncia del 6 maggio 2006 egli, infatti,
viene rinviato a giudizio per rispondere:
1) del reato p. e p. dall’art. 612, comma 2 c.p. perché aveva minacciato il padre
con l’uso di un coltello;
2) del reato p. e p. dall’art. 337 c.p. perché aveva minacciato con un coltello
l’agente di polizia municipale che era intervenuto nella lite tra Nick e il padre,
dicendogli che l’avrebbe ammazzato se non si fosse allontanato;
3) del reato p. e p. dall’art. 4 l. 110/19752 perché, senza giustificato motivo,
portava fuori dalla propria abitazione un coltello, chiaramente utilizzabile per le
circostanze di tempo e luogo per l’offesa alla persona.
Il processo viene celebrato in assenza dell’imputato, rinunciante a comparire.
Durante l’istruttoria il Giudice aveva disposto una perizia – ex art. 508 c.p.p.3 –
per l’accertamento della capacità di intendere e di volere del soggetto al
momento del fatto, nonché dell’eventuale sua pericolosità sociale.
Le testimonianze dell’agente di Polizia Municipale e dell’altro testimone -
infermiere nel locale ospedale - nonché del padre dell’imputato, avevano
consentito di acquisire elementi di prova incontestabili in ordine alla
2 http://www.fmj.it/manorme/110_75.htm 3 http://www.brocardi.it/codice-di-procedura.../art508.html
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commissione dei fatti addebitati a Nick ai soli capi 2 e 3. Egli infatti era stato
assolto dalla contestazione del capo 1 perché il padre aveva negato di essere stato
minacciato.
Il perito psichiatra nominato d’ufficio aveva confermato nella relazione peritale
le risultanze cui era pervenuto il consulente tecnico del PM nella fase delle
indagini preliminari in ordine alla capacità del soggetto e della relativa
pericolosità. Precisando che l’imputato, in conseguenza della patologia
psichiatrica – schizofrenia paranoide (F20.0 – ICD-10) – da cui risulta affetto da
tempo, non era capace di intendere e di volere ed era ed è persona socialmente
pericolosa. Il perito aggiungeva inoltre che la patologia di cui soffre il soggetto è,
a suo dire, “tra le più frequentemente implicate nel concetto di pericolosità
sociale e… i fatti commessi e le riflessioni da lui effettuate non lasciano
intravedere riduzione della pericolosità se non con un lungo processo di presa in
carico farmacologica e socio-ergo-terapica quale solo un regime di contenimento
in comunità può garantire”, rimandando ad una verifica dopo almeno un anno dal
suddetto trattamento.
Il Giudice proseguiva sostenendo che in base alle conclusioni cui erano pervenuti
gli esperti, la pericolosità sociale dell’imputato, tenuto conto dell’aggressività
accertata, andasse intesa come probabilità che lo stesso, in conseguenza della
patologia descritta, potesse commettere nel futuro nuovi comportamenti
aggressivi analoghi a quelli per i quali si procedeva. Aggiungeva che, dovendosi
condividere le conclusioni del perito in ordine alla totale incapacità di intendere e
di volere dell’interessato al momento dei fatti, andava dichiarata la non punibilità
dello stesso in relazione ai reati di cui al secondo e terzo capo di imputazione, per
vizio totale di mente al momento della commissione dei fatti.
Pertanto la condizione di soggetto socialmente pericoloso dell’imputato,
accertata nel corso del giudizio, imponeva l’applicazione, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 202, 203, 222 e 228 c.p.4 per la durata di anni due della
misura di sicurezza specificata in dispositivo, misura che, stante la richiesta del
4 http://www.wikisource.org/wiki/Codice_penale/Libro.../Titolo_VIII
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PM, andava applicata anche in via provvisoria, ai sensi degli art. 206, 222 c.p. e
313 c.p.p., in via sostitutiva rispetto a quella in atto.
Quindi, a fronte della sentenza della Corte Costituzionale 253 del 18 luglio 2003
– che dichiarava illegittimo l’art. 222 c.p. nella parte in cui non consentiva al
Giudice di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario,
una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare
adeguate cure all’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale – si
era ritenuto di far ricadere la scelta della misura di sicurezza della libertà vigilata,
con obbligo dell’interessato di dimorare presso una specifica comunità, previo
consenso della stessa struttura, ritenuta idonea – come precisato dal perito
d’ufficio della relazione – a contenere la pericolosità sociale del soggetto.
Per questi motivi il Giudice, visti gli artt. 88 c.p5. e 530 c.p.p6., dichiarava
l’imputato non punibile in relazione ai reati di cui al secondo e terzo capo a lui
ascritti, per vizio totale di mente al momento della commissione dei fatti7.
Visto l’art. 530 c.p.p. lo assolveva dall’imputazione di cui al primo capo perché il
fatto non sussisteva.
Visti gli artt. 202, 203, 222, e 228 c.p. applicava al giudicato la misura di
sicurezza della libertà vigilata per la durata di due anni, e in base alle seguenti
prescrizioni l’interessato veniva obbligato a:
dimorare presso la comunità terapeutica, disponibile all’accoglimento,
autorizzando Nick ad uscire dalla suddetta comunità per le attività solo
accompagnato dagli operatori; non accompagnarsi a pregiudicati; non frequentare
luoghi di mescita di bevande alcoliche; non partecipare senza il permesso
dell’autorità giudiziaria a pubblici spettacoli o cerimonie.
Disponeva, inoltre, che la struttura desse comunicazione all’autorità giudiziaria
con 72 ore di anticipo qualora sorgesse l’impossibilità di trattenere presso di sé
l’imputato. Affidava la sorveglianza della persona in stato di libertà vigilata
all’autorità di pubblica sicurezza con l’incarico di effettuare gli opportuni
5 http://www.brocardi.it/codice-penale/libro-primo/.../art88.html 6 http://www.uonna.it/530-2-codice-procedura-penale.htm 7 Tribunale di Sorveglianza di Trento, ordinanza n. 2008/79.
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controlli.
Infine, visti gli artt. 206, 222 c. p. e 313 c.p.p.8 sostituiva la misura in atto con
quella della libertà vigilata, autorizzando il trasferimento dell’imputato presso la
comunità terapeutica, disponendo che venissero comunicate all’autorità
giudiziaria le dimissioni di Nick9.
Nel giugno del 2008, ritenendo che la “struttura del paziente” come da relazione
dello psichiatra del servizio pubblico, il Tribunale di Sorveglianza disponeva la
prosecuzione del lavoro terapeutico10.
5. La pericolosità sociale
Secondo l’art. 203 del c.p. la persona che ha commesso un reato è socialmente
pericolosa, anche se non imputabile o non punibile, quando è probabile che
commetta nuovi reati. La pericolosità sociale viene valutata secondo le
circostanze indicate nell’art. 133 c.p., utilizzate anche per la valutazione della
gravità del reato e dunque ai fini della graduazione della pena11. L’area di
competenza del perito psichiatra è limitata alle condizioni di pericolosità sociale,
sotto il profilo psichiatrico. La “pericolosità sociale psichiatrica” è, dunque,
subordinata alla presenza di patologia psichiatrica. E’importante ricordare che la
pericolosità è riferita al momento dell’indagine peritale non al momento del reato
per cui si procede12.
La metodologia usata per valutare la pericolosità sociale è di tipo
clinico/criminologico: a tale scopo sono impiegati test proiettivi di personalità e
questionari. In Italia è stato standardizzato per la psicopatia il PPI-R (Psychopatic
personality Inventory – Rivised). Ma in generale gli strumenti di valutazione
oggettiva sono ancora molto poco utilizzati.
L'accertamento della pericolosità sociale psichiatrica rimane dunque compito del
perito, il quale per assolvere tale obbligo deve tener presenti una serie di
8 http://www.brocardi.it/codice-di-procedura.../art313.html 9 Tribunale di Trento, Sent. N 30055/07. 10 Ufficio di Sorveglianza di Trento n. 38/08. 11 G. Gulotta, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Giuffrè 2002. 12 http://www.crimepsy.org/.../pericolosita_sociale/
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indicatori interni ed esterni.
5.1. Il profilo giuridico13
La nozione di 'pericolosità sociale' fa ingresso nell'ordinamento giuridico italiano
con il codice del 1930. Tale nozione presenta un vasto e complesso retroterra
storico-ideologico, essendo stata al centro della polemica che, tra la fine dell''800
e la prima metà del '900, animò il dibattito fra la Scuola positiva e la Scuola
classica del diritto penale.
La Scuola positiva muoveva dalla premessa che il reato dovesse essere
considerato fenomeno naturale determinato da fattori criminogenetici e non da
una scelta individuale suscettibile di un giudizio di responsabilità morale.
L'intervento penale quindi non poteva orientarsi alla retribuzione dell'illecito
commesso, né avere esclusivamente una finalità repressiva, ma traeva il proprio
fondamento dalla necessità della prevenzione finalizzata alla difesa sociale
contro il delitto. La sanzione penale doveva essere adeguata al rischio che
l'autore del reato rappresenta per la società e tendere esclusivamente ad
impedirne la recidiva.
La proposta della Scuola Positiva venne così ad incentrarsi sul problema della
pericolosità del reo, per la prima volta individuata, nei suoi fattori costituenti
essenziali, come giudizio prognostico sulla capacità dell'individuo di commettere
nuovi reati, nonché come centro di imputazione di un giudizio non fondato sul
rimprovero per la colpevolezza dell'azione, ma sulla necessità di prevenire la
commissione di ulteriori reati.
Come osserva Tullio Padovani, in tale prospettiva il reato perde il suo significato
'reale' (ovvero di illecito caratterizzato da un preciso disvalore obbiettivo e
soggettivo al quale si riporta la pena), ed acquista una rilevanza 'sintomatica' nel
complesso delle caratteristiche psicologiche, antropologiche e sociali del reo, al
fine di valutarne la pericolosità.
13 http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/law-ways/dorati/cap3.htm
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Il concetto di pericolosità sociale sul quale si fondava l’ideologia della Scuola
Positiva comportò, secondo Franco Tagliarini, delle profonde contraddizioni e
discrepanze nel nuovo sistema penale proposto, poiché venivano chiamati in
gioco sia la funzione del nuovo concetto di pericolosità, sia la sua operativa
compatibilità con le garanzie dei diritti di libertà del cittadino, sicuramente
affermati dalla tradizione classica del diritto penale. Sotto il primo profilo era
necessario definire il presupposto di fondo di tutto il sistema, e cioè se il giudizio
di pericolosità potesse prescindere dall'effettiva commissione di un reato, ovvero
dovesse sempre avere per necessario presupposto la presenza di una compiuta
azione delittuosa. Sotto il secondo profilo, si apriva la prospettiva di poter
prescindere dal rapporto di proporzionalità fra misura della pena e misura della
colpevolezza, onde poter commisurare l'efficacia preventiva della sanzione alle
concrete possibilità di reinserimento del reo, giungendo alla configurazione di
una sanzione indeterminata nella sua durata.
Molte delle critiche avanzate dagli autori della Scuola classica rimasero senza
risposta. Tuttavia nell'ambito della disputa tra positivisti e classicisti sorsero e si
affermarono nuovi indirizzi che cercarono una sintesi dei due opposti,
riconoscendo l'utilità dei principi enunciati dalla Scuola positiva anche se
contemperati dall'esperienza della Scuola classica.
Su tali premesse il legislatore del '30 mutò sostanzialmente l'assetto classico del
codice penale Zanardelli, codificando il concetto di pericolosità sociale,
attraverso l'introduzione del cosiddetto sistema del 'doppio binario'.
In sostanza la pericolosità sociale introdotta dal codice Rocco, fu simile ma non
coincidente con la pericolosità propugnata dai positivisti, essendo a differenza di
quest'ultima:
a. una caratteristica non necessaria ma eventuale dell'autore di reato;
b. un presupposto per l'applicazione delle misure di sicurezza e non della
pena;
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c. una caratteristica non permanente dell'autore di reato, essendo previsto
il riesame della pericolosità (art. 208 c.p.)14.
Con l'introduzione del sistema del doppio binario, da un lato si mantenne
immutato il criterio della imputabilità e della pena retributiva, collegate alla
colpevolezza dell'agente e, dall'altro lato, si accettò e codificò il principio della
pericolosità quale presupposto per l'applicazione delle misure di sicurezza, aventi
funzione di prevenzione speciale, ed applicabili ai soggetti imputabili e non.
Il sistema del 'doppio binario', costruito sulle coppie 'responsabilità-pena' e
'pericolosità-misura di sicurezza', trova la sua ratio nella diversità di funzioni che
sono assegnate rispettivamente alla pena e alla misura di sicurezza.
Per Padovani, la pena è dominata da un'idea di prevenzione generale mediante
intimidazione, la misura di sicurezza ha una specifica finalità di prevenzione
speciale, mediante riabilitazione o neutralizzazione a seconda delle caratteristiche
personologiche del delinquente. La riabilitazione emerge dall'esigenza di
adottare, nel trattamento esecutivo di tali soggetti, "un particolare regime
educativo o curativo e di lavoro, avuto riguardo alle tendenze e alle abitudini
criminose della persona, ed in genere, al pericolo sociale che da essa deriva" (art.
213 c.p. comma 3)15.
5.2 L'accertamento nel giudizio di pericolosità sociale16
Affinché sia possibile una prognosi di futura condotta criminale, il delitto si pone
come condizione necessaria ai fini del giudizio di pericolosità, ma non
sufficiente, dovendo la sua valutazione essere integrata con l'esame di tutti gli
elementi attinenti alla personalità, all'ambiente ed al comportamento del reo.
L'art. 203 comma 2 c.p., stabilisce che "la qualità di persona socialmente
pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell'art. 133 c.p.". Di conseguenza
l'accertamento della pericolosità deve essere compiuto attraverso l'integrale 14 http://www.studiocelentano.it/codice-penale-dei-reati-in-generale-2 15 http://www.brocardi.it/codice-penale/libro...i/.../art213.html 16 http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/law-ways/dorati/cap3.htm
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ricognizione di tutti i fattori che riguardano non solo la gravità del reato, ma
anche la capacità a delinquere del reo. I criteri individuati dal legislatore sono
dunque i medesimi previsti per la determinazione della pena. Tuttavia, è chiaro
che i fattori che riguardano la capacità a delinquere del reo, visti in chiave
prognostica, possono presentare un significato diverso da quello assumibile in
chiave retributiva, in funzione del fatto che il reato commesso viene in rilievo
non come tale, ma come sintomo di probabile futura recidiva.
Gli elementi indizianti di pericolosità, rilevanti ai fini della capacità a delinquere
del reo, sono, ai sensi dell'art. 133 c.p.: i motivi a delinquere ed il carattere del
reo; i precedenti penali e giudiziari e in genere la condotta e la vita del reo
antecedenti al reato; la condotta contemporanea o susseguente al reato; le
condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
Il codice penale del 1930 nella sua formulazione originaria, prevedeva due forme
di pericolosità:
a. la pericolosità accertata di volta in volta dal giudice (art. 204 comma 1,
c.p.);
b. la pericolosità presunta dalla legge (art. 204 comma 2, c.p.).
Nel primo caso il giudizio di pericolosità viene integralmente rimesso alla
valutazione discrezionale del giudice, pur guidato dai criteri cardine dell'art. 133
c.p. L'accertamento giudiziale si articola nelle due fasi dell'accertamento delle
qualità indizianti da cui dedurre la probabile commissione di reati e della
prognosi criminale, ossia il giudizio sul futuro criminale del soggetto, effettuato
sulla base di tali qualità. Va inoltre precisato che, al fine di evitare di disporre
l'applicazione di una misura di sicurezza a chi, pericoloso al momento del fatto,
cessi di esserlo prima della conclusione del giudizio, la pericolosità va accertata
con riferimento non solo al momento della commissione del fatto, ma anche al
momento in cui il giudice ordina la misura di sicurezza.
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Il nodo problematico sul quale si gioca la stessa legittimazione sostanziale delle
misure di sicurezza, è rappresentato dal giudizio di pericolosità e dai criteri
utilizzati per il suo accertamento.
Padovani afferma che sul piano strutturale esso differisce profondamente dal
giudizio di responsabilità. Quest'ultimo è infatti di tipo diagnostico, nel senso che
si basa interamente sull'accertamento e sulla valutazione di dati noti o comunque
conoscibili. Il giudizio di pericolosità invece è di tipo prognostico, nel senso che,
mentre l'accertamento si riferisce a determinati elementi che assumono valore
indiziante, la loro valutazione è orientata prospetticamente in funzione di un dato
sconosciuto, costituito dalla condotta futura del reo.
La fondatezza del giudizio di pericolosità, secondo il Padovani, dipende pertanto
da due fattori: a) dalla rilevanza dei fattori indizianti; b) dai criteri utilizzati nel
procedimento di inferenza probabilistica.
Come già in precedenza riportato, nell'accertamento del giudizio di pericolosità,
oltre al reato commesso, entra in gioco una serie di elementi indizianti, che si
distinguono in elementi sintomatici reali ed elementi sintomatici personali.
I primi gravitano intorno al reato, o perché ne implicano la reiterazione (come si
verifica nella abitualità o nella professionalità, artt. 102 e 105 c.p.)17, o perché ne
suppongono una particolare gravità (in astratto, come accade nell'art. 222,
comma 1 e 2 c.p.), per il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario.
Gli elementi sintomatici personali sono invece connessi alle peculiarità del
soggetto, considerato in rapporto a dati caratteriali (come ad esempio l'essere
'dedito al delitto' ai fini della abitualità ritenuta dal giudice ex art. 103 c.p.), a
condizioni incidenti sull'imputabilità (come ad esempio nelle ipotesi dell'art. 222
c.p., per quanto riguarda l'infermità psichica, e dell'art. 224 c.p., per quanto
17 http://www.wikisource.org/wiki/Codice_penale/Libro_I/Titolo_VI
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concerne l'età), o alla condotta di vita (come nel caso dell'ubriaco abituale o della
persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti, art. 221 c.p.)18.
L’accentuata propensione ad affermare il primato di valutazioni puramente legali
nelle fattispecie sintomatiche di pericolosità deve considerarsi positiva in
rapporto al fatto che gli elementi indizianti reali servono a circoscrivere le
situazioni tipo in presenza delle quali il giudice deve poi procedere all'ulteriore
accertamento della pericolosità in concreto. L'unico rischio è che attraverso una
troppo rigida predeterminazione di limiti normativi astratti, finiscano con l'essere
sottratti al vaglio di pericolosità soggetti in effetti pericolosi. È un rischio che
consiste in sostanza nella formazione implicita di presunzioni di 'non
pericolosità'. Basti pensare in proposito alla ipotesi del prosciolto per infermità
psichica da una contravvenzione, da un delitto colposo o da un altro delitto
punibile con la sola pena pecuniaria o con la reclusione non superiore ai due anni
(art. 222 comma 1 c.p., per il quale è in pratica preclusa ogni forma di intervento
preventivo, anche se il reato commesso, pur nella sua ridotta gravità legale,
consenta di evidenziare in rapporto alla infermità che lo ha determinato, una
pericolosità molto elevata).
5.3 La valutazione della pericolosità sociale negli orientamenti della
psichiatria19
Da più parti, nella dottrina psichiatrico-forense, si è negata scientificità alla
nozione di pericolosità. Il concetto di pericolosità inteso come concetto medico,
cioè 'dipendente' dall'infermità di mente, è quello su cui maggiormente si sono
appuntate le critiche degli autori di formazione criminologica e psichiatrico-
forense, sia per la scarsa correlazione riscontrata tra malattia mentale e
pericolosità, sia perché si è potuto dimostrare che il malato di mente pone in atto
il più delle volte reati di modesto allarme sociale, e non reati contro la persona,
sia perché infine, statisticamente, la delittuosità dei malati di mente non è 18 http://www.wikisource.org/wiki/Codice_penale/Libro.../Titolo_VIII 19 http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/law-ways/dorati/cap3.htm
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superiore a quella della rimanente parte della popolazione definita normale.
Molti infatti sono gli autori che ritengono che l'accertamento della pericolosità
non possa essere un atto di pertinenza psichiatrica.
Secondo quanto affermato da Ponti, il concetto di pericolosità e la qualificazione
di delinquente pericoloso sono principi quanto mai relativi, poiché sono accettati
o rifiutati a seconda del grado di colpevolezza morale e di allarme, che nei vari
momenti storici, viene attribuito a certe tipologie di delitti. Da ciò Ponti,
sottolinea come l'identificazione di soggetti percepiti come pericolosi muti con il
mutare dell'etica pubblica e soprattutto con il mutare della fenomenologia del
crimine20. Così, il concetto di pericolosità è stato definito nozione non scientifica,
ma giudizio di valore che ha come scopo precipuo quello di rafforzare il
controllo sociale e come unico supporto il sentimento di minaccia (Debuyst).
Si è già visto che, nella nostra legislazione, per pericolosità si intende "la
probabilità della commissione di nuovi reati". In una sua relazione al Consiglio
d'Europa, Bernheim, citato da Francesco Bruno, definisce la pericolosità come 'la
probabilità stimata troppo grave'. Egli inoltre distingue tra pericolosità e
predizione clinica di pericolosità, affermando che quest'ultima può essere precisa
se a breve termine, ed è condizionata dagli antecedenti, dalla situazione
personale, dallo stato mentale e dall'ambiente ben definito, nonché dalla
possibilità e realizzazione di un trattamento e dalla collaborazione del paziente.
Secondo Shah, la pericolosità si riferisce alla "propensione (un'aumentata
probabilità rispetto ad altri) ad instaurare comportamenti pericolosi, nel senso di
atti caratterizzati dall'applicazione di aperta minaccia di forza e che possono
sfociare in lesioni ad altre persone”.
Stando all'opinione di Bruno, si può affermare che il concetto di pericolosità sia
costituito da almeno tre fattori: il primo è dato dalla probabilità che un
determinato evento si verifichi, il secondo riguarda la gradazione di tale
probabilità, che deve essere elevata, il terzo infine è dato dalla dannosità
20 G. Ponti, I. Merzagora Betsos, Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina Editore, 2008.
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dell'evento, che pertanto sarà temuto, e che consiste nella realizzazione di un
comportamento violento.
La probabilità in senso filosofico è la misura delle possibilità di occorrenza di un
evento relativamente ad una classe data di alternative. Mentre la possibilità può
esprimersi solo in termini di esistenza o inesistenza, la probabilità può esistere in
infinite gradazioni, e la misura o gradazione della probabilità che un evento si
verifichi o meno è possibile attraverso l'utilizzazione di metodi matematici e
scientifici solo con un certo grado di approssimazione, che dipende dalla
numerosità e quindi dalla controllabilità delle variabili in gioco e dalla
numerosità e complessità delle alternative esistenti. In questo senso anche le
variabili del comportamento umano sono numerosissime e non tutte controllabili,
e ciò riduce in modo netto, la possibilità di valutarne la predizione applicando gli
strumenti scientifici a disposizione.
In ambito forense, due sono le operazioni che in fase di giudizio vengono
effettuate ai fini della dichiarazione di pericolosità: la diagnosi di pericolosità, e
la prognosi.
La diagnosi implica la valutazione delle probabilità che il soggetto metta in atto
nuovi comportamenti violenti, ma non richiede il giudizio sul grado di tale
probabilità, se non in termini fortemente grossolani. Tale diagnosi dunque
presuppone già di per sé il fatto di cogliere nel soggetto una particolare attitudine,
più o meno spiccata, a compiere atti violenti, non rintracciabile nella persona
valutata normale. Tale operazione si pone allora, secondo Bruno, non come atto
di natura medica, ma come atto normativo, il cui fine è rappresentato dalla
salvaguardia della società. In tal caso, le misure che la società mette in opera
sono misure di carattere preventivo generale e non interventi specifici e mirati,
volti alla salvaguardia di un evento attuale.
La seconda operazione consiste nella prognosi di pericolosità, ovvero nella
predizione specifica del grado effettivo di probabilità secondo il quale l'evento
dannoso può prodursi. Un'operazione di questo genere implica una approfondita
valutazione clinica del soggetto, ma soprattutto la valutazione e la misurazione di
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tutte le variabili rilevanti che possono influenzare positivamente o negativamente
l'accadimento.
I metodi di prognosi criminale si riducono fondamentalmente a tre: il metodo
intuitivo, il metodo clinico, il metodo statistico. Il metodo intuitivo non
costituisce un metodo scientifico, essendo basato sul comune modo di pensare e
sull'esperienza professionale e di vita maturata dal giudice, e quindi su
atteggiamenti personali largamente variabili, suscettibili di influenze emotive e
pertanto sottratti ad un procedimento di verificabilità. Il metodo clinico fonda "la
decisione prognostica su basi empiriche, attraverso l'esame della vita prima della
commissione del reato da parte del soggetto, delle sue relazioni familiari, di
lavoro e di tempo libero e, inoltre, mediante la metodica esplorazione e l'uso di
test psico-diagnostici" (Kaiser, 1985). Il metodo statistico consiste infine nel
determinare la prognosi ricorrendo a 'tavole predittive', composte di punti
sintomatici desunti dalla generalizzazione delle caratteristiche di singoli gruppi
delinquenziali. Valutando il soggetto da esaminare sulla scorta di tali tavole si
perviene ad un punteggio complessivo che indica il livello di possibilità della
recidiva (Kaiser, 1985).
Nel nostro ordinamento lo spazio della discrezionalità giudiziale in tema di
giudizio di pericolosità resta per ora interamente coperto dal metodo intuitivo.
L'art. 314, comma 2 c.p.p., in merito all'oggetto della perizia, vieta espressamente
"le perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a
delinquere, il carattere e la personalità dell'imputato ed in genere le qualità
psichiche indipendenti da cause patologiche". Soltanto in caso di perizia
psichiatrica "il giudice chiede al perito se l'imputato è persona socialmente
pericolosa", tutte le volte che tale accertamento è prescritto dalla legge per
l'applicazione di una misura di sicurezza (art. 318, comma 1 c.p.p.).
In pratica dunque il ricorso al metodo clinico o al metodo statistico può aver
luogo soltanto nei ristrettissimi limiti in cui la legge autorizza un'indagine
peritale sulla personalità del soggetto. Attualmente è operante il principio per cui
la decisione sullo svolgimento di una indagine peritale, d'ufficio o su richiesta
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delle parti processuali, è affidata al potere discrezionale del giudice di merito, il
quale può pervenire ad una decisione negativa in relazione alla ritenuta
irrilevanza, ai fini processuali, della circostanza sulla quale la perizia tende a far
chiarezza ovvero alla assoluta superfluità di "particolari cognizioni di
determinate scienze o arti", per condurre l'indagine.
In realtà la formulazione dell'art. 314 c.p.p. prevede che il giudice
'necessariamente' e non più 'facoltativamente' disponga perizia ove l'indagine
richieda cognizioni specifiche, ma tale innovazione ha assunto un significato
formale e non sostanziale in seguito alla elaborazione giurisprudenziale. La Corte
di Cassazione ha infatti affermato che rientra pur sempre nel potere discrezionale
del giudice di merito stabilire se ricorra o meno la necessità di disporre perizia in
presenza di una indagine che richieda cognizioni specifiche.
Persiste dunque, in molti psichiatri forensi, la difficoltà di conciliare l'aleatorietà,
lo scetticismo sulle capacità predittive della psichiatria con la necessità, che è
propria del diritto, di risposte 'certe'.
Fornari, sostiene che dalle ricerche in tema di predizione della recidiva è emerso
che:
non esistono rapporti di equivalenza tra malattia mentale e pericolosità
sociale;
gli strumenti clinici finora utilizzati per predire il comportamento del
malato di mente autore di reato si sono rivelati imprecisi ed inadeguati;
il perito specie nei casi di delitti efferati e gravi che suscitino una intensa
riprovazione, deve affrontare, oltre al compito clinico e valutativo, il
problema della richiesta di retribuzione da parte del contesto giudiziario e
sociale. Può così rischiare di identificarsi ed allearsi con chi deve
giudicare e reprimere;
spesso la predizione della recidiva si basa sulla considerazione delle sole
caratteristiche psicopatologiche individuali. Non si tiene sufficientemente
conto delle componenti sociali, ambientali, culturali e transazionali, che si
trovano sempre alle radici di uno scompenso comportamentale;
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spesso viene sottovalutato od ignorato l'aspetto dinamico evolutivo della
patologia mentale, per privilegiarne caratteristiche di staticità e
permanenza;
troppo poco si tiene conto delle modificazioni cui può andare incontro il
quadro psicopatologico, se sullo stesso si interviene tempestivamente con
tecniche adeguate;
sovente ci si pronuncia sulla pericolosità psichiatrica in base al
comportamento attuato dal soggetto, trascurando la connessione con la
malattia, formulando così un giudizio di competenza del magistrato, non
dello psichiatra;
ultimo elemento che vanifica la prognosi di pericolosità sociale
psichiatrica, è un dato che appartiene all'esperienza di molti psichiatri
forensi: la possibilità di ottime remissioni di disturbi psichici anche gravi,
durante il periodo della carcerazione preventiva o in un tempo
relativamente breve, purché sia possibile mettere in atto interventi
adeguati.
Allo stato dunque, secondo Fornari, è impossibile dare un contenuto scientifico
alla risposta al quesito circa la pericolosità sociale psichiatrica, dato che la
nozione stessa comporta una commistione di istanze "terapeutiche" e di
"neutralizzazione" particolarmente infelice, che trova espressione concreta nella
struttura dell'ospedale psichiatrico giudiziario.
È infatti opportuno sottolineare il netto contrasto tra quanto previsto nel codice
penale e quanto stabilito con la legge 13 maggio 1978 nº180. Con l'entrata in
vigore di quest'ultima si è creato uno scollamento tra psichiatria clinica e
psichiatria forense, nel senso che la prima privilegia esigenze di cura, la seconda
quelle di controllo, con evidente sperequazione tra malato di mente autore di
reato, che in tal modo esce dal circuito terapeutico del territorio, e malato di
mente non delinquente, che può beneficiare dell'assistenza prevista dalla legge.
L'accertamento della pericolosità sociale psichiatrica rimane dunque compito del
perito, il quale per assolvere tale obbligo deve tener presenti una serie di
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indicatori che secondo Fornari possono essere interni ed esterni, mentre secondo
Fonti sono distinti in psichici, individuali, familiari sociali, economici e
criminologici. Il perito non dovrà attribuire peso determinante agli uni o agli altri
indicatori singolarmente e separatamente considerati21.
Risulta chiaro, secondo Fornari, che un paziente è più o meno 'ad alto rischio',
non solo perché portatore di disturbi patologici e psichici, ma spesso per la
povertà di risorse del contesto sociale.
21 U. Fornari, Trattato di psichiatria forense, UTET 2008.
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INDICATORI DI PERICOLOSITÀ SOCIALE SECONDO FORNARI22
Indicatori interni
Persistenza di una sintomatologia psicotica florida Consapevolezza di malattia assente o gravemente compromessa rifiuto delle terapie prescritte o risposta insufficiente a quelle praticate
(anche se adeguate sotto il profilo qualitativo e del range terapeutico) Deterioramento o destrutturazione psicotica della personalità che
impedisca un compenso in tempi ragionevoli, ad esempio disorganizzazione cognitiva, impoverimento ideo-affettivo e psico-motorio
eventuale progressione o gravità delle condotte di scompenso e dei disturbi psicopatologici
Indicatori esterni
Caratteristiche dell’ambiente familiare e sociale di appartenenza Esistenza ed adeguatezza dei servizi psichiatrici di zona Possibilità di (re)inserimento lavorativo o soluzioni alternative Tipo, livello e grado di accettazione del rientro del soggetto nell’ambiente
in cui viveva prima del fatto reato Opportunità alternative di sistemazione logistica
INDICATORI DI PERICOLOSITÀ SOCIALE SECONDO FONTI23
Indicatori psichici
Assenza di presa in carico presso un servizio pubblico o privato Assenza di assunzione di psicofarmaci Assenza di trattamento psicoterapeutico Presenza di un disturbo psicotico non compensato o sintomatologia
psicotica positiva Presenza di un disturbo della personalità grave Assenza di insight (consapevolezza) Assenza di disturbi dell’umore e d’ansia Presenza di un disturbo da uso di sostanze
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Compliance alla psicofarmaco terapia Compliance alle visite programmate Compliance alle sedute di psicoterapia Presenza di Trattamenti Sanitari Obbligatori Numero di ricoveri volontari in divisione di Psichiatria superiore a 2 Incapacità di gestire lo stress
Indicatori individuali
Basso livello di istruzione Assenza di un lavoro stabile Assenza di relazioni amicali stabili Assenza di una relazione affettiva stabile Precedenti attività lavorative occasionali o assenti (non costanti) Isolamento relazionale
Indicatori familiari
Assenza della famiglia d’origine Presenza della famiglia d’origine ma in forte conflitto con la persona Assenza di una famiglia o una situazione di coppia stabile Crescita del soggetto in un ambiente violento o maltrattante
Indicatori sociali
Assenza di servizi di assistenza sociale Assenza di servizi psichiatrici Assenza di organi di volontariato in zona Impossibilità di inserimento o reinserimento lavorativo Assenza di opportunità di alternative sistemazioni logistiche
Indicatori economici
Status socio-economico basso Ambiente di vita degradato
Indicatori criminologici
Precedenti per arresto Precedenti per reati
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6. La perizia psichiatrica
Nel processo penale l’esperto nominato dal giudice si chiama perito, mentre nel
processo civile si chiama consulente tecnico d’ufficio (C.T.U.). In entrambi i tipi
di processo gli esperti nominati dalle parti si chiamano consulenti tecnici di parte
(C.T.P.). Nel processo civile i consulenti tecnici di parte possono intervenire solo
dopo che il giudice abbia disposto una perizia, mentre il processo penale svincola
la partecipazione del consulente tecnico dalla preventiva ammissione della
perizia24. L’art. 233 c.p.p. prevede infatti che anche se “non è stata disposta
perizia, ciascuna parte può nominare, in numero non superiore a due (due per
ogni specifica materia), propri consulenti tecnici; questi possono esporre al
giudice al proprio parere…”.
6.1 Normativa di riferimento, natura dell’istituto e suo possibile oggetto25.
La disciplina della perizia nel processo penale è contenuta negli articoli da 22026
a 232 e 508 c.p.p..
La sua formale collocazione tra i “mezzi di prova” consente di ritenere superata
la vecchia questione, dibattuta in dottrina e giurisprudenza, circa la sua
qualificazione processuale quale “prova”, “mezzo di prova” o “mezzo di
valutazione della prova”.
Al di là della scelta operata dal legislatore, la perizia si rivela essere un mezzo di
prova per sua natura neutro, non classificabile né “a carico” né “a discarico”
dell’imputato, sottratto al potere dispositivo delle parti e affidato essenzialmente
al potere discrezionale del giudice. In sostanza, anche in presenza di pareri
tecnici prodotti dalle parti, è il giudicante che ne decide l’ammissione.
L’oggetto della perizia è disciplinato dall’art. 220, co.1, c.p.p., norma che
stabilisce che l’accertamento peritale è ammesso quando “occorre svolgere
24 G. Gulotta e coll., Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Giuffrè, 2002.
25 http://www.no.archiworld.it/200205/ordine/.../relazione11marzo2006
26 http://www.psicologiagiuridica.com/...
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indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze
tecniche, scientifiche o artistiche”. Il suo scopo è quello di esprimere un parere
tecnico attraverso la ricostruzione dello svolgimento dei fatti mediante la
riproduzione fenomenica. Che non può essere una descrizione statica e oggettiva.
Alcune indicazioni circa gli accertamenti peritali esperibili nel processo penale
sono ricavabili dalle seguenti norme:
art. 67 disp. att. c.p.p. che dispone che nell’albo dei periti costituito presso
ogni tribunale siano sempre iscritte le categorie degli esperti in medicina
legale, psichiatria, contabilità, ingegneria, infortunistica del traffico e della
circolazione stradale, balistica, chimica, analisi e comparazione della grafia;
art. 72 c.p.p. gli accertamenti periodici sullo stato di mente dell’imputato
devono essere disposti nelle forme e con le garanzie tipiche della perizia;
art. 16 L. 15.02.1996 n. 66, in base al quale l’imputato per i delitti di cui agli
artt. 609 bis, 609 ter, 609 quater e 609 octies c.p. (illeciti di violenza sessuale)
è sottoposto, con le forme della perizia, ad accertamenti per l’individuazione
di patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalità del fatto possano
prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime.
Vi è invece un generale divieto di perizia psicologica e criminologica (art. 220,
co.2, c.p.p.) sia per la obbiettiva difficoltà di una osservazione scientifica della
personalità, sia soprattutto per il rischio dell’effetto sfavorevole che può
esercitare sull’accertamento della colpevolezza. Infatti il risultato dell’indagine di
personalità potrebbe assumere valenza di movente del reato e quindi costituire
motivo di convincimento per il giudice.
Un’eccezione al generale divieto delle perizie psicologiche è contenuto nello
stesso secondo comma dell’art. 220 c.p.p., in relazione alla fase di esecuzione
della pena o della misura di sicurezza, propriamente deputate alla determinazione
in concreto del trattamento penale.
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6.2 Scelta del perito, cause di incapacità ed incompatibilità, ipotesi di
astensione e ricusazione27.
A fronte della disciplina ampiamente discrezionale prevista nell’art. 341, co.4,
c.p.p. 1930, che attribuiva al giudice il potere di scegliere e nominare il perito tra
le persone che egli reputava idonee, il combinato disposto degli artt. 221 del
nuovo cod. proc. pen. e 67 disp. att., in parte riproponendo la normativa vigente
per il processo civile, è orientato nel senso di garantire la competenza del perito,
essendo ancorato ad un elemento oggettivo quale è l’iscrizione negli appositi albi
istituiti presso ogni Tribunale.
L’iscrizione negli albi permette di attuare un controllo sulla competenza specifica
e sulla professionalità degli iscritti, non solo nella fase di ammissione, ma anche
nelle fasi successive e a scadenze periodiche (si ricordi che l’art. 68 disp. att.
c.p.p. prevede che il comitato preposto alla formazione dell’albo provvede ogni
due anni alla sua revisione per cancellare gli iscritti per i quali è venuto meno
uno dei requisiti di cui all’art. 69 o è sorto un impedimento ad esercitare l’ufficio
di perito).
L’art. 69 disp. att. configura quali cause ostative per l’iscrizione:
a) l’essere stati condannati con sentenza irrevocabile alla pena della reclusione
per delitto non colposo, salvo che sia intervenuta riabilitazione;
b) la sussistenza di una delle situazione di incapacità previste dall’art. 222, co.1,
lett. a), b) e c) (che esamineremo tra poco);
c) l’essere stati cancellati o radiati dal rispettivo albo professionale a seguito di
provvedimenti disciplinare definitivo.
Al Giudice è lasciata l’alternativa di scegliere il perito tra persone fornite di
particolare competenza nella specifica disciplina, dovendo peraltro in tale caso
nominarsi, nei limiti del possibile, chi eserciti la propria attività professionale
presso un Ente Pubblico.
E’ altresì prevista la possibilità di affidare l’espletamento della perizia a più
persone quando le indagini e le valutazioni risultino di notevole complessità o
27 http://www.no.archiworld.it/200205/ordine/.../relazione11marzo2006
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richiedano distinte conoscenze in differenti discipline (art. 221, co.2, c.p.p.).
Va comunque precisato che, secondo l’orientamento giurisprudenziale
prevalente, il provvedimento di nomina del perito non è impugnabile dalle parti.
Il codice vigente prevede, poi, l’obbligatorietà dell’assunzione dell’incarico:
unica eccezione espressamente prevista è quella della sussistenza in capo al
soggetto officiato di ragioni di astensione ex art. 36 c.p.p., ossia delle medesime
ragioni che determinano l’obbligo di astensione per il giudice.
Ne consegue che il rifiuto ingiustificato di adempiere alle funzioni di perito, che
può essere desunto anche dalla intenzionale mancata presentazione al giudice,
integra il reato di cui all’art. 366 c.p. (rifiuto di ufficio legalmente dovuto)28.
L’art. 222 c.p.p. codifica le cause di incapacità ed incompatibilità del perito, da
considerarsi tassative.
Quanto alla incapacità, è usualmente definita come l’effetto della mancanza dei
requisiti soggettivi prescritti dalla legge per l’acquisizione della qualità di perito,
e consegue: alla minore età, all’interdizione, all’inabilitazione, all’infermità di
mente, alla attuale sottoposizione a misure di sicurezza personali o di
prevenzione.
Quanto all’incompatibilità, essa è determinata dall’inconciliabilità di un cumulo
di funzioni, quali: a) la prestazione dell’ufficio di testimone o di interprete nel
medesimo procedimento; b) la sussistenza di condizioni personali che
impediscono o limitano l’obbligo della testimonianza (artt. 197 e 199 c.p.p.); c)
la pregressa assunzione della qualità di consulente tecnico nel medesimo
procedimento o in procedimento connesso.
Relativamente a tale ultima ipotesi, occorre precisare che la giurisprudenza di
legittimità ha escluso che dall’art. 222 c.p.p. possa ricavarsi il divieto di
assumere la veste di perito da parte di chi, essendo già stato nominato tale nel
medesimo procedimento, si veda nuovamente conferire l’incarico da parte di un
giudice diverso (caso di rinnovo della perizia già espletata in seguito a modifica
nella composizione del Collegio giudicante – Cass. sent. 5386/94).
28 http://www.wikisource.org/wiki/Codice_penale/Libro.../Titolo_III
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A colui che viene chiamato all’ufficio di perito è fatto obbligo di dichiarare la
sussistenza di una causa di incompatibilità; obbligo tanto più fondamentale
laddove si consideri che, in caso di espletamento dell’incarico da parte di
soggetto incompatibile, la perizia è nulla (nullità relativa sanabile ex art. 181
c.p.p. ed eccepibile nei termini stabiliti nell’art. 182 c.p.p.).
Passando ai motivi di astensione e ricusazione del perito, si tratta dei medesimi
che concernono il giudice e la cui disciplina è contenuta nell’art. 36 c.p.p., con la
sola eccezione della sussistenza di gravi ragioni di convenienza (art. 36, co.1,
lett. h), che legittimano la dichiarazione di astensione ma non quella di
ricusazione.
Le fattispecie delineate dal codice sono le seguenti:
1) se il perito ha interesse nel procedimento o se alcuna delle parti private o un
difensore è creditore o debitore di lui, del coniuge o dei figli (art. 36 lett a)
c.p.p.). E’ stato ritenuto che il termine “interesse” deve essere inteso anche in
senso indiretto, quale relazione, fondata su dati obbiettivi, tra l’attività del
perito nel processo e la prospettiva di un vantaggio o di un pregiudizio
patrimoniale o anche soltanto morale che egli possa trarne;
2) se il perito è tutore, curatore, procuratore o datore di lavoro di una delle parti
private ovvero se il difensore, procuratore o curatore di una di dette parti è
prossimo congiunto di lui o del coniuge (art. 36 lett. b) c.p.p.);
La fattispecie non presenta problemi interpretativi, salva la precisazione che la
nozione di “prossimo congiunto” va ricavata dall’art. 307, co.4, c.p.
3) se il perito ha dato consigli o manifestato il suo parere sull’oggetto del
procedimento (art. 36 lett. c) c.p.p.). circostanza che si può configurare sia nel
caso in cui il perito abbia suggerito ad una delle pari il comportamento
processuale da tenere sia nel caso in cui il perito stesso è o è stato terapeuta
dell’imputato;
4) se vi è inimicizia grave fra lui o un suo prossimo congiunto e una delle parti
private (art. 36 lett. d) c.p.p.).
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Costituisce causa di astensione o ricusazione solo l’inimicizia che trae origine da
rapporti interpersonali di carattere privato, estranei al processo, e si deve altresì
trattare di un sentimento reciproco. Si è quindi chiarito che non basta che contro
il perito siano stati presentati esposti o denunce.
5) se alcuno dei prossimi congiunti di lui o del coniuge è offeso o danneggiato
dal reato o parte privata (art. 36 lett. e) c.p.p.);
6) se un prossimo congiunto di lui o del coniuge svolge o ha svolto le funzioni di
Pubblico Ministero (art. 36 lett. f) c.p.p.);
7) se si trova in una delle situazioni di incompatibilità previste dagli artt. 35 e 35
Ord. G. (abrogati dall’art. 30 D.L.vo 19.02.1998 n. 51 recante l’istituzione del
giudice unico).
Sussistendo uno di tali motivi, il perito ha l’obbligo di dichiararlo.
La dichiarazione di astensione o di ricusazione può essere presentata sino a che
non siano esaurite le formalità di conferimento dell’incarico o, qualora si tratti di
motivi sopravvenuti o conosciuti successivamente, prima che il perito abbia
manifestato il suo parere.
La decisione è affidata al giudice che ha disposto la perizia il quale, ove accolga
la dichiarazione, deve provvedere alla sostituzione del perito ed indicare se e
quali atti da lui precedentemente compiuti conservino efficacia.
6.3 Attività del perito ed atti consultabili.
Dopo aver prestato giuramento ed aver ricevuto l’incarico, il perito procede
autonomamente alle operazioni necessarie per il risponde al quesito formulato
(art. 228 co. 1 c.p.p.).
Per quanto attiene alla categoria degli atti dei quali il perito può essere
autorizzato a prendere visione, due sono i fattori che determinano tale possibilità:
si deve trattare di atti (o documenti o cose) che sono a disposizione del Giudice
che ha disposto la perizia e che devono poter confluire nel fascicolo del
dibattimento secondo l’indicazione fornita dall’art. 431 c.p.p..
Va peraltro precisato che, con il consenso di tutte le parti processuali,
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l’autorizzazione alla visione può riguardare anche atti e documenti che di per sé
non rientrerebbero nel novero di quelli elencati all’art. 431 c.p.p..
Secondo quanto previsto dall’art. 76 disp. att. c.p.p. quando lo ritiene necessario
il Giudice può disporre la consegna al perito di documenti in originale o di altri
oggetti, previa redazione di apposito verbale a cura del funzionario di cancelleria.
Il perito può altresì essere autorizzato dal giudice ad assistere all’esame delle
parti e all’assunzione delle prove.
La seconda parte del secondo comma dell’art. 228 c.p.p. risolve legislativamente
la vecchia questione dibattuta sotto la previgente normativa se il perito possa, con
o senza autorizzazione, servirsi di altri tecnici specializzati: con l’attuale
disciplina per l’esplicazione di tali attività ausiliarie è necessaria l’autorizzazione
del giudice.
Tale soluzione appare sostanzialmente corretta, perché altrimenti verrebbe
inserito nelle operazioni peritali un soggetto estraneo al procedimento, svincolato
dall’impegno formale di bene adempiere all’ufficio, non vincolato all’obbligo del
segreto e non ricusabile.
Quanto all’opera dei collaboratori del perito, la giurisprudenza è concorde nel
ritenere che debba essere limitata ad adempimenti materiali non implicanti
apprezzamenti e valutazioni e ad analisi di laboratorio (ad es. l’effettuazione di
calcoli matematici utilizzati per una perizia balistica – cfr. Cass. sent.
31523/2004; la lettura di un tracciato elettrocardiografico nell’ambito di una
perizia medico-legale – cfr. Cass. sent. 5822/2005).
Dottrina e giurisprudenza hanno poi affrontato il problema delle conseguenze
giuridiche derivanti dall’inosservanza delle formalità relative agli ausiliari, con
particolare riguardo all’assenza dell’autorizzazione del giudice.
In primo luogo si è sottolineato come, in materia di incarico peritale, non sia
prevista alcuna sanzione processuale per il caso in cui il perito ometta di chiedere
al giudice l’autorizzazione ad avvalersi di un ausiliario. Né può ritenersi
applicabile l’art. 191 c.p.p., posto che tale disposizione richiede quale
presupposto della sanzione di inutilizzabilità un esplicito divieto legislativo
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all’acquisizione della prova.
L’inosservanza delle disposizioni in tema di autorizzazioni può allora dar luogo
solo ad una nullità ai sensi degli artt. 177/186 c.p.p. suscettibile di essere fatta
valere nei termini e modi previsti da tali disposizioni (così la Suprema Corte ha
affermato che l’anomalia verificatasi in conseguenza della delega non autorizzata
da parte del perito ad un terzo dell’incarico affidatogli dal GIP per accertare
l’identità di reperti ematici avrebbe dovuto essere eccepita prima del decreto che
dispone il giudizio, ex art. 181, co. 2, c.p.p., trattandosi di nullità relativa
concernente la fase delle indagini preliminari).
La norma contenuta nel terzo comma dell’art. 228 è la più rilevante sul piano
delle novità rispetto al passato.
Essa infatti configura l’ipotesi del perito che, determinandosi autonomamente a
richiedere notizie all’imputato, alla persona offesa e persino a terzi, introduce una
ulteriore attività di indagine, così trasformando il proprio ruolo da colui che
deduce a colui che percepisce.
Nel caso di esito positivo di tale attività, si pone la delicata problematica della
esatta determinazione dei limiti di utilizzabilità degli elementi così acquisiti,
utilizzabilità che la norma genericamente prevede “ai soli fini dell’accertamento
peritale”.
A rigore ne consegue che le eventuali dichiarazioni rese al perito possono
legittimamente influire sul giudizio tecnico da questi formulato, ma non possono
essere valutate autonomamente dal giudice, né possono essere utilizzate dalle
parti per eventuali contestazioni in sede di esame dibattimentale.
Ne consegue un evidente squilibrio dell’assetto processuale, posto che al perito
viene consentita la conoscenza di atti il cui contenuto deve essere invece ignorato
dal giudice.
Squilibrio processuale che risulta ancor più accentuato dal quel filone
giurisprudenziale che tende ad estendere il novero delle fonti alle quali il perito
potrebbe legittimamente attingere.
Il riferimento è alla pronuncia della Corte di Cassazione 13.12.1994, Mustaka (e
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di recente Cass. sent. 752/04), secondo la quale non potrebbe ritenersi interdetta
al perito la visione degli atti redatti dalla Polizia Giudiziaria o dal Pubblico
Ministero che contengano informazioni rese dall’imputato, dalla persona offesa o
da terzi, non rilevando a tali fini il divieto di inserimento di detti atti nel fascicolo
del dibattimento.
A voler seguire tale indirizzo si finirebbe per consentire al Giudicante, per la via
mediata dell’elaborazione peritale, di aggirare il divieto espresso dall’art. 526
c.p.p. e quindi di utilizzare, ai fini della decisione, dati non direttamente acquisiti
in dibattimento.
La rilevata disarmonia del sistema può forse essere superata sostenendosi che, se
all’esito della verifica dibattimentale le informazioni raccolte dal perito non sono
contraddette da alcun altro elemento acquisito in dibattimento, non vi è motivo
per cui non possano essere utilizzate ai fini della decisione; mentre, in caso di
contraddizioni, sarà il giudice a dover valutare gli elementi contrapposti,
motivando sui risultati acquisiti all’esito di tale valutazione e dando conto dei
criteri adottati.
6.4 Tutela del contraddittorio nelle operazioni peritali: comunicazioni alle parti e conseguenze della loro inosservanza.
La norma di cui all’art. 229 c.p.p. regola, per il caso di risposte non contestuali, il
regime delle comunicazioni alle parti idoneo a garantire il contraddittorio
dall’inizio delle operazioni peritali.
L’indicazione da parte del perito, ai sensi dell’art. 229, co.1, c.p.p., del giorno,
dell’ora e del luogo in cui inizierà le operazioni costituisce una garanzia
tassativamente prevista; perciò, qualora intervengano variazioni rispetto alle dette
indicazioni, il perito è tenuto a darne indicazione al difensore, senza che in
contrario possa invocarsi il disposto di cui al secondo comma del citato art. 229,
il quale, nel prevedere la semplice comunicazione, senza formalità, alle parti
presenti, si riferisce alla eventuale “continuazione” delle operazioni peritali già
iniziate e non può quindi trovare applicazione in caso di modifica unilaterale
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decisa dal perito prima che le operazioni abbiano inizio.
L’avviso dato al difensore dell’inizio o della prosecuzione delle operazioni
peritali soddisfa le esigenze di tutela dell’assistenza dell’imputato ex art. 178 lett
c) c.p.p.: conseguentemente, l’omessa analoga comunicazione al consulente di
parte non comporta alcuna nullità.
Al contrario si verte in ipotesi di nullità di ordine generale per lesione del diritto
all’assistenza tecnica dell’imputato tutte le volte in cui il difensore che abbia
svolto formale richiesta di assistere alle operazioni peritali sia stato escluso; e ciò
indipendentemente o meno dalla presenza del consulente di parte.
6.5 Il rapporto tra oralità e scrittura nella perizia dibattimentale.
L’art. 227 c.p.p. stabilisce che, di norma, il parere peritale debba essere espresso
in forma orale, con dichiarazioni raccolte a verbale, e solo eccezionalmente
mediante il deposito di una relazione scritta.
Anche se nella pratica tale seconda modalità di esplicitazione dei risultati
dell’attività peritale costituisce la regola, il deposito della relazione scritta rimane
un elemento accessorio rispetto all’esposizione orale del parere da parte del
perito, che evidentemente non può mancare (Cass. sez. III, 22.04.1999, Pilati).
Ne consegue che in dibattimento la mancata esposizione orale da parte del perito
delle risposte ai quesiti formulati dal Giudice determina una nullità a regime
intermedio per violazione del diritto al contraddittorio ex art. 178 lett c) e 180
c.p.p. (ex plurimis Cass. Sez. III, 22.04.1999 Pilati).
Va altresì sottolineato che, secondo quanto espressamente stabilito dall’art. 508,
comma 3, c.p.p. l’esposizione orale della relazione peritale deve precedere
l’esame del perito ai sensi dell’art. 501 c.p.p., che è solo eventuale.
Sicché mentre la lettura della relazione peritale è disposta solo dopo l’esame del
perito (art. 511, comma 3, c.p.p.), tenuto conto che tale esame può mancare,
appare corretto sostenere che non sussiste obbligo per il Giudice di dare lettura
della relazione scritta presentata dal perito, a meno che, dopo aver proceduto
all’esame del perito, lo stesso giudice non la ritenga necessaria o qualcuna delle
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parti ne faccia richiesta. Ciò in quanto l’obbligo di lettura è prescritto solo per gli
atti originariamente contenuti nel fascicolo formato a norma dell’art. 431 c.p.p., e
pertanto non per la relazione peritale, che non rientra tra gli atti originariamente
contenuti nel fascicolo per il dibattimento (cfr. Cass., Sez. I, 28.09.1999, Raheli).
Nel caso di perizia disposta nel corso di incidente probatorio, resta, invece,
incerto se l’esposizione orale della relazione, già depositata per iscritto, e l’esame
del perito debbano avvenire necessariamente dinanzi al Giudice dello stesso
incidente probatorio (così come ritiene la dottrina- cfr. Cantone R., Esame del
perito e lettura della relazione scritta nella regola dettata dall’art. 511 c.p.p., in
Cass. pen., 1999, p. 518), o se, invece, come asserito dalla giurisprudenza di
legittimità, deve essere tenuta distinta la risposta ai quesiti, data con il deposito
della relazione scritta, dall’esame dello stesso perito, riservata alla fase
dibattimentale, come si evincerebbe anche dalla circostanza che l’art. 468,
comma 5, c.p.p. prescrive la citazione d’ufficio, in ogni caso, del perito nominato
nell’incidente probatorio (cfr. Cass. Sez. I 08.08.1995, Boccuni).
La prevalenza nella perizia del carattere dell’oralità o della scrittura ha rilevanti
effetti nel caso in cui i risultati di un accertamento peritale si vogliano trasferire
in un altro procedimento penale.
Infatti, se in tale mezzo di prova viene privilegiato il carattere della scrittura, la
relazione peritale depositata in un procedimento penale, nel quale tale prova sia
stata disposta nell’incidente probatorio o nel dibattimento, potrebbe essere
acquisita in altro procedimento ai sensi dell’art. 238, comma 1, c.p.p., e cioè
senza la necessità che nel secondo procedimento il perito venga nuovamente
ascoltato ed esaminato dalle parti.
Se, al contrario, viene privilegiato il carattere della oralità, trova applicazione la
disposizione dettata dall’art. 238, comma 2 bis, c.p.p., con la conseguenza che le
dichiarazioni rese dal perito (e la connessa relazione scritta da lui depositata)
sono acquisibili in altro procedimento penale a condizione che l’assunzione della
prova sia avvenuta con la partecipazione, nel primo procedimento, del difensore
dell’imputato del secondo procedimento.
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L’opzione esegetica meno “garantista” è stata in passato preferita dal Supremo
Collegio, per il quale una perizia effettuata in altro procedimento, di cui venga
data lettura in dibattimento, può essere utilizzata anche se non sia stato sentito il
perito, atteso che tale obbligo non è previsto dall’art. 511 bis, relativo alla lettura
di verbali di prove di altri procedimenti; in ogni caso, l’omesso preventivo esame
del perito non potrebbe costituire causa di nullità, non essendo specificamente
sanzionato in tal senso, né risultando inquadrabile in alcuna delle nullità generali
di cui all’art. 178 c.p.p.. D’altro canto, non ricorrerebbe neppure un’ipotesi di
prova illegittimamente acquisita ai sensi degli artt. 191 e 526 c.p.p., in quanto
dette norme fanno riferimento al solo concetto di “acquisizione” e, quindi, ad una
attività che, logicamente e cronologicamente, si distingue, precedendola, da
quella della lettura o indicazione degli atti inseriti nel fascicolo del dibattimento
(cfr. Cass. Sez. IV, 24.05.1996 in Cass. Pen., 1997, p. 2141). Si tratta di una
soluzione interpretativa fortemente censurata dalla dottrina la quale, da un lato,
ha dubitato della correttezza di una esegesi che fa mutare la natura di tale mezzo
di prova per effetto del trasferimento dei relativi risultati da un processo all’altro;
ha rilevato la palese difformità di trattamento tra l’imputato che ha diritto ad
esaminare il dichiarante, nel caso in cui si vogliano acquisire le dichiarazioni (ad
esempio, testimoniali) dallo steso rese in altro procedimento, e l’imputato che
non avrebbe diritto ad esaminare il perito che ha espletato il suo incarico in altro
procedimento, e che ha compiuto un’attività al cui svolgimento quell’imputato e
la sua difesa non hanno avuto neppure la possibilità di partecipare.
7. Il soggiorno in comunità: diario di bordo
Nel presente capitolo sono riportate le relazioni inviate periodicamente al giudice
per la valutazione del percorso clinico del paziente e giungere allo scadere dei
due anni soggiorno previsti dalla sentenza.
Il materiale offre spunti sulla personalità del paziente e sulla possibilità che un
percorso terapeutico possa favorire un miglioramento delle condizioni cliniche di
partenza.
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Relazione del 31.12 2007
Dopo aver trascorso un periodo di 10 mesi circa nella Fase di Accoglienza, Nick
passa in Comunità Terapeutica in data 02.10.2007.
Gli obiettivi che hanno caratterizzato il passaggio si sono incentrati
principalmente a livello operativo, al fine di favorire una maggiore attivazione sia
nel quotidiano sia nella capacità di affrontare eventuali momenti di sofferenza.
Infatti nei mesi precedenti l’inserimento nella fase comunitaria, pur avendo
manifestato buona capacità nel comprendere i compiti e le consegne, non sono
state superate le difficoltà relative alle abilità manuali, alla gestione in autonomia
di compiti semplici e complessi. In generale è emersa la difficoltà a mantenere
nel tempo la responsabilità rispetto alle mansioni insieme con la scarsa
disponibilità a collaborare con gruppo di lavoro. A ciò si è sommata una
vulnerabilità emotiva che ha implicato carenti abilità nel gestire in modo ottimale
lo stress della quotidianità che lo ha condotto a un comportamento apatico e
demotivato e un ritiro dalle attività e dalle relazioni. L’accoglimento dei suoi
disagi e il tentativo da parte degli operatori di aiutare il paziente a far fronte alla
comparsa di elevati livelli di angoscia e di ansia diffusa non hanno comportato un
miglioramento a livello di contenimento. Tale aspetto questo ha indotto l’équipe
a orientarsi sulla necessità di sostenere il Nick nella gestione della quotidianità,
focalizzandosi più su aspetti operativi e lavorativi che semplicemente emotivi.
Tale lavoro ha permesso al paziente di riconoscere come l’operatività sia una
risorsa che gli può essere di aiuto nei momenti di difficoltà e in varie occasioni.
Seppure non senza resistenza, riportare il paziente al suo obiettivo ha permesso di
affrontare il malessere. Si è notata una buona comprensione del compito e una
buona capacità di seguire le indicazioni, soprattutto se di fronte alla
responsabilità di svolgerle da solo. Quando portato a collaborare sono invece
emerse delle carenze: difficile è il rapporto di scambio e l’organizzazione delle
attività, grande è la tendenza a delegare e a non portare avanti i compiti assegnati.
A livello emotivo si nota tutt’ora una grande vulnerabilità e le reazioni emotive
sono sempre condizionate dagli eventi che rappresentano per il paziente una
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fonte di stress rilevante. In tali situazioni l’esame di realtà è compromesso e
spesso si somma a manifestazioni sintomatiche che ancora di più lo allontanano
da un esame di realtà.
Sembra invece migliorata la capacità di riconoscere le fonti di sollecitazione,
seppure permanga il bisogno di un sostegno in tal senso. Al contrario, non
sempre è in grado di riconoscere le reazioni alle fonti di stress, rendendo difficile
l’elaborazione della situazione e dei meccanismi messi in atto. Limitata è la sua
capacità di far fronte ad una realtà diversa da quella immaginata: nell’immediato
si evidenzia una rigidità e un’incapacità di riconoscere sia la sollecitazione
derivante da ciò sia la reazione di chiusura. Solo successivamente si rende
disponibile al confronto e alla collaborazione con gli operatori.
Si registra una limitata capacità di gestire la frustrazione connessa all’impegno e
alla fatica. Tali aspetti inducono nel paziente forti stati emotivi che non sempre
sono di facile contenimento, pur riscontrando dei miglioramenti in tal senso.
Tuttavia si è ancora lontani dal ritenere Nich capace di una buona auto-
osservazione. Al momento l’unica soluzione riconosciuta utile dal paziente per
evitare il ricorso alla chiusura e all’apatia è quella di essere aiutato a individuare
risposte adeguate per fronteggiare le situazioni fonte di sollecitazione di stress.
A livello comportamentale vi è un rapporto equilibrato col cibo e una buona
adesione alla terapia farmacologia prescritta. La cura di sé e dei propri spazi sono
abbastanza buone. Per quanto riguarda il rispetto delle regole, si nota il verificarsi
di trasgressioni di lieve entità.
A fronte di una buona capacità comunicativa e dialettica si osservano elementi sia
di insofferenza che di rigidità e chiusura, che lo portano a creare situazioni
collusive. Vi è una certa instabilità nel porsi all’interno delle relazioni: oscilla
infatti tra aspetti narcisistici e aspetti autosvalutativi. Nei rapporti si pone in
termini principalmente manipolatori al fine di raggiungere i suoi scopi e i suoi
bisogni, senza considerare il contesto e le persone con le quali interagisce. Quella
che instaura è principalmente una relazione di tipo duale, che non riesce a
utilizzare in termini di sostegno e di aiuto, ma che lo conduce a comportamenti di
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complicità e simbiosi. Difficile è il coinvolgimento col gruppo degli altri utenti,
con i quali si evidenziano scambi limitati e difficili soprattutto da imputare
all’atteggiamento spesso apatico da un lato e ipercritico dall’altro. Buono è il
riconoscimento dei ruoli e la capacità ascolto, almeno nei casi in cui la
sollecitazione è di un’intensità tollerabile.
A fronte di buone risorse intellettive si evidenzia una grande difficoltà di
integrazione con la realtà: è spinto ad agire senza valutare adeguatamente
l’appropriatezza delle proprie azioni e con delle difficoltà ad apprendere
dall’esperienza passata. Solo se aiutato riesce almeno in parte a valutare
correttamente la ricaduta di certi atteggiamenti e comportamenti.
In accordo con il servizio di salute mentale inviante vi sono colloqui individuali
con lo psichiatra e incontri a cadenza mensile con i genitori. Durante questi
ultimi, iniziati col mese di novembre 2007, sono emerse grosse difficoltà
comunicative interne al nucleo familiare, che hanno avuto e che hanno tutt’ora
una grande influenza negativa sullo stesso paziente. Ancora lontana è però una
reale consapevolezza da parte dell’intera famiglia della problematicità insita nel
loro rapporto. Inoltre due volte al mese Nick ha contatti telefonici con la
compagna.
Durante la permanenza nella fase comunitaria non si sono verificati episodi di
forte aggressività anche di fronte a situazioni stressanti, ma alcune reazioni di
irritabilità. Sicuramente ciò può dipendere da vari aspetti: la mancanza delle
dinamiche caratteristiche del contesto familiare, il maggiore contenimento e
l’acquisizione, seppure embrionale, da parte di Nick di capacità di gestione delle
sollecitazioni. A fronte di quanto riportato, si ritiene necessario un proseguimento
del percorso che preveda un accompagnamento e un aiuto a modulare le
emozioni che molto spesso vengono esasperate sia in senso positivo che
negativo, cercando di favorire una più ampia lettura della realtà che sia quindi in
grado di prendere in considerazione più aspetti.
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Relazione 22.05.2008
Durante la prima fase si è manifestata una vulnerabilità emotiva attraverso elevati
livelli di angoscia e di ansia diffusa, che hanno determinato agiti talora
difficilmente contenibili. In alcune situazioni l’esame di realtà è stato
significativamente compromesso ed evidente è stata la tendenza al diniego, che
non ha permesso di sviluppare una sufficiente consapevolezza di sé. Buona si è
dimostrata la cura di sé e dei propri spazi seppure si sia registrato come tali
aspetti siano strettamente collegati allo stato emotivo. Spesso sono emersi aspetti
di apatia e in situazioni di scarso controllo da parte dell’èquipe, si sono verificate
trasgressioni di lieve entità e manifestazioni di irritabilità o aggressività nei
confronti del gruppo dei pari. In situazioni di malessere si è riscontrato un ritiro
dalle attività e dalle relazioni interpersonali. Buona è stata la comprensione dei
compiti, ma si è osservata una difficoltà nella gestione in autonomia degli
impegni assegnati. Difficoltà sono emerse per quanto riguarda l’assunzione di
responsabilità e la continuità nello svolgimento dei compiti. Le relazioni sono
state principalmente di natura manipolatoria e dirette al soddisfacimento dei
propri bisogni. Si sono evidenziati sia elementi autosvalutativi sia narcisistici,
che hanno comportato un’instabilità nel modo di porsi all’interno delle relazioni.
Difficoltoso è stato il rapporto con il gruppo, dato soprattutto lo scarso
coinvolgimento nelle attività sia operative sia ricreative. Il pensiero, seppure sia
apparso apparentemente raffinato, è stato connotato da aspetti magici.
Date tali osservazioni si è valutata la possibilità di un passaggio alla fase
comunitaria, ponendo come obiettivi principali la gestione della quotidianità, un
miglioramento nelle abilità di gestione e di autoregolazione delle funzioni
psicofisiologiche coinvolte nella risposta allo stress con la finalità di una
riduzione della vulnerabilità emotiva. Sono stati utilizzati strumenti quali
l’impegno e l’esercizio in attività di tipo lavorativo, partendo comunque
dall’osservazione delle difficoltà nella gestione della frustrazione e della
tolleranza dell’impegno e della fatica.
Nei mesi di permanenza in struttura si è comunque registrata una migliore
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attenzione e capacità di organizzare e portare avanti i compiti, seppure
permangano difficoltà nell’intraprendenza.
Il cambiamento, seppure parziale, ha permesso Nick di cogliere la ricaduta
positiva che tale attivazione ha a livello emotivo e relazionale.
E’ ancora molto marcata un’alternanza tra momenti di euforia e momenti di
tristezza e apatia. I cambiamenti umorali sono molto ravvicinati e spesso non
collegati ad eventi esterni. In tali circostanze egli avanza la pretesa
soddisfacimento immediato dei propri bisogni. Se ciò non avviene si nota
un’incapacità a gestire lo stato d’animo conseguente. Tuttavia sembra aumentata
la disponibilità a far fronte attivamente ai momenti di disagio.
A fronte del disagio Nick chiede comprensione incondizionata sia da parte
dell’équipe sia del gruppo dei pari. Appare lontano da una reale consapevolezza
delle proprie difficoltà e dei propri limiti, non riuscendo a tenere conto né delle
situazioni problematiche legate agli avvenimenti del passato né della propria
condizione. Se chiamato a ragionare sui funzionamenti tuttora osservabili e sul
legame di questi con gli avvenimenti del passato, emerge la tendenza alla
negazione e alla giustificazione (“stavo male”). L’esame di realtà permane
distorto: si nota come nella valutazione della propria condizione, il paziente non
tenga conto dei propri limiti, soprattutto quando è proiettato all’esterno del
contesto comunitario. Al momento attuale la capacità rielaborativa appare nulla e
tuttora è presente un pensiero magico.
A livello relazionale si osservano difficoltà soprattutto per quanto riguarda la
capacità di scambio reciproco: l’interazione è cercata principalmente per il
soddisfacimento dei propri bisogni (emotivi, operativi, materiali). All’interno del
gruppo non ha allacciato relazioni strette e la tendenza è quella ad estraniarsi.
Rimane in relazione fin tanto che l’altro risponde seguendo le sue richieste
(ascolto incondizionato e funzionale ai suoi voleri e alle sue aspettative): se si
trova nella situazione di doversi confrontare con idee e opinioni diverse si nota
un irrigidimento e una chiusura nella comunicazione. All’interno dei gruppi
terapeutici il suo contributo è scarso e comunque non rivolto ad una messa in
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discussione: i suoi interventi sono orientati a razionalizzare e giustificare le sue
azioni piuttosto che valutarle come aspetti problematici.
Per quanto riguarda la sfera comportamentale si nota un adeguamento al contesto
e un’accettazione apparente delle regole. Non sono da segnalare trasgressioni di
particolare rilevanza nel periodo di permanenza nella struttura comunitaria.
Gli incontri con la famiglia e i referenti del Centro Salute Mentale di riferimento
sono proseguiti nell’intento di affrontare le difficoltà relazionali tra i membri. Da
questi è emersa un’incapacità comunicativa e di ascolto reciproci. In varie
occasioni sono emerse situazioni di scontro e insofferenza che hanno messo in
evidenza una forte carenza di autocontenimento da parte del paziente.
Seppure si notino dei miglioramenti per quanto riguarda l’area operativa e quella
emotiva, si osserva come tali siano strettamente collegati all’inserimento in un
contesto protetto, che contiene e aiuta il paziente a far fronte alle situazioni di
disagio. Nelle poche situazioni in cui egli si è trovato di fronte al mancato
soddisfacimento immediato delle proprie aspettative, evidente è stata la sua
incapacità a gestire la frustrazione, evidenziando la messa in atto di modalità
aggressive. Ciò è avvenuto principalmente, ma non esclusivamente, in assenza
dell’operatore. Il migliore funzionamento registrato nell’ultimo periodo è da
collegare principalmente a due fattori: una sua migliore attivazione a livello
operativo e un adeguamento al contesto, che però non deriva da una messa in
discussione e da una motivazione reale al cambiamento.
A fronte di quanto sopra descritto e della vulnerabilità emotiva tuttora presente, si
valuta come Nick necessiti di un contesto che gli permetta sia di avere un
contenimento per la gestione dei propri stati emotivi sia che gli fornisca un
sistema di norme, che autonomamente non è in grado di darsi.
Relazione del 14.10.2008
Nell’ultimo periodo di permanenza del paziente si sono fatte le seguenti
osservazioni: a livello emotivo si notano difficoltà per quanto riguarda il
riconoscimento delle emozioni e la capacità di collegarle alla dinamica esistente
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tra il proprio modo di essere le sollecitazioni esterne. E’ frequente, infatti, il
ricorso a meccanismi di difesa arcaici quali scissione, proiezione, negazione,
rimozione e ritiro con conseguente distorsione della realtà e allontanamento da
essa. Seppure in misura minore e con minore intensità e frequenza si nota
l’alternanza di momenti di euforia e momenti di tristezza. Tuttora presente è una
vulnerabilità emotiva che però appare più facilmente gestibile e contenibile sia
attraverso la relazione con l’équipe sia grazie a una maggiore attivazione da parte
del paziente. Migliore è la gestione della frustrazione, seppure in tal senso egli
vada aiutato e accompagnato.
Evidente è la non reale percezione delle proprie problematiche personali e la
difficoltà, in certe situazioni, ad accettare un rimando in tal senso.
A livello comportamentale si nota un migliore adeguamento al contesto, senza la
messa in atto di trasgressioni neppure di lieve entità. Buona è la cura di sé e degli
spazi personali, come pure l’adesione alla terapia. Per quanto riguarda l’area
operativa di registra una maggiore attivazione e continuità nello svolgimento
delle attività. Migliore è la disponibilità a sperimentarsi e ad apprendere nuove
mansioni. Ciò ha una ricaduta positiva anche a livello emotivo. In situazioni di
malessere, seppure inizialmente vi sia il tentativo di essere dispensato dallo
svolgimento delle mansioni affidategli, se aiutato riconosce in seguito
l’importanza di non restare passivo, ma di attivarsi al fine di non farsi
“sopraffare” dal vissuto emotivo. Riconosce il bisogno di avere indicazioni
chiare per quanto riguarda lo svolgimento delle attività: necessita di schematicità
e regolarità nello svolgimento delle mansioni. A fronte di compiti nuovi evidente
è la necessità di avere accanto una persona che lo sostiene e lo guida
nell’apprendimento. Osservabile è in tal senso una non autonoma attivazione o
ricerca di soluzioni, a meno che questa non venga stimolata dall’operatore.
Solitamente il paziente chiede aiuto ed è disponibile ad accettarlo, ma ciò è
fortemente subordinato al suo stato d’animo. Persiste un atteggiamento di delega.
A livello relazionale permane la tendenza a legarsi a persone che lui ritiene
funzionali al soddisfacimento dei propri bisogni. Egli non ha instaurato relazioni
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privilegiate con nessun paziente della struttura, se non per periodi brevi e con
l’obiettivo di raggiungere il proprio scopo e se vi è un grado incondizionato di
ascolto e comprensione. Con l’équipe la relazione è buona, seppure ciò sia
principalmente collegabile a un adeguamento al contesto e alla situazione
personale e non tanto a una reale consapevolezza delle proprie difficoltà.
A livello cognitivo emergono delle rigidità che soprattutto in situazioni di
sollecitazione non permettono riflessione e rielaborazione di ciò che accade
nonché della ricaduta a livello emotivo.
Relazione per l’udienza del 21.05.2009
L’ulteriore anno di permanenza di Nick all’interno della struttura comunitaria ha
permesso il raggiungimento di alcuni miglioramenti da un lato e dall’altro di
registrare il permanere di alcune criticità.
L’obiettivo principale del lavoro con il paziente è stato incentrato sulla possibilità
dello stesso di gestire in maniera utile e adeguata i momenti di malessere e
frustrazione. Questi, infatti, erano affrontati con modalità poco funzionali a tal
punto che comportavano nel paziente un aggravamento del disagio. Si registrava
la ricerca di isolamento, apatia, ricerca continua di rassicurazioni, vittimismo e
un aumento della preoccupazione somatica. Quest’ultima ha avuto in varie
occasioni la funzione di evitamento delle responsabilità assegnategli, data in
molte occasioni la difficoltà da parte del paziente di tollerare la fatica e
l’impegno. Tali problematicità sono state affrontate accogliendo lo stato di
malessere del paziente, ma allo stesso tempo accompagnandolo nella gestione
della quotidianità e nel mantenimento, seppure con fatica, dei compiti affidatigli.
Ciò è stato fatto sia in termini di responsabilizzazione sia come apprendimento di
una modalità diversa di fronteggiare il disagio. Ciò ha permesso al paziente di
raggiungere una migliore capacità di gestione dei momenti di difficoltà,
riuscendo anche, a portare a termine i propri compiti a fronte di stati emotivi
negativi. Allo stesso tempo va sottolineato il fatto che in alcune situazioni
permane fondamentale in tal senso la stimolazione del paziente da parte
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dell’operatore.
A livello comportamentale non si sono registrati fenomeni di rilievo se non
trasgressioni alle regole del contesto di lieve entità sostenute dalla ricerca di
soddisfacimento di bisogni/piaceri personali (allontanamento dall’attività
lavorativa per andare a fumare). Si rivela abbastanza adeguato nella cura di sé,
degli spazi personali e nell’assunzione della terapia psicofarmacologica. Più
deficitaria risulta invece la capacità del paziente di seguire indicazioni mediche
che richiedono uno sforzo personale, anche se solo temporaneo: rimane
problematica la gestione della frustrazione.
A livello relazionale si osserva che da parte del paziente non vi è una ricerca
attiva dell’interazione e in tal senso egli non ha instaurato relazioni strette con
nessuno degli utenti presenti. Se si registra un avvicinamento questo è
principalmente mosso dall’obiettivo di soddisfare un bisogno o piacere
personale. Nelle relazioni dove l’altro viene vissuto da parte del paziente come
inferiore, emerge la tendenza ad avere un atteggiamento autoritario, senza
riuscire a tenere conto della reale situazione dell’altro; allo tesso tempo quando
egli si trova a fianco di persone che lui reputa più capaci tende a non interagire.
Quella che instaura è principalmente una relazione duale e praticamente nulla è la
capacità di coinvolgimento all’interno di un contesto allargato. Questo in parte
dipende dalla non intraprendenza del paziente e in parte da un atteggiamento
critico e poco attento verso l’altro, atteggiamento che induce gli altri ad
allontanarlo. Più disponibile appare invece verso l’équipe che ricerca in modo
strumentale nelle situazioni di malessere anche fisico. Ma non sempre accetta i
rimandi, di fronte ai quali tende a chiudersi e irrigidirsi. Il paziente appare in tal
senso autocentrato e poco disponibile a un reale confronto. Ciò accade
principalmente nelle situazioni di intensa sollecitazione, dove la stessa capacità
di ascolto tende a diminuire.
Si registra una migliore capacità di contenimento delle emozioni, seppure in
situazioni di intensa sollecitazione si registra ancora una difficoltà. Questa si
manifesta o con una chiusura e una negazione totale di quanto accaduto o vissuto
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oppure con la tendenza alla disperazione e angoscia.
Nel primo caso la difficoltà sta anche nel riconoscere la semplice ricaduta a
livello emotivo dell’evento, che dal punto di vista comportamentale è osservabile
in termini di alterazione del tono della voce, chiusura a livello interattivo,
tendenza a cambiare argomento e se restituiti non vengono accettati dal paziente.
Nel secondo caso invece vi è la ricerca di aiuto e accoglimento dei vissuti
emotivi. Qui vi è una maggiore apertura e vicinanza, che gli permettono di
affidarsi maggiormente all’operatore. In alcune situazioni si registra ancora una
difficoltà di lettura della realtà, non riesce a integrare vari elementi o si limita a
valutare solo quelli meno emotivamente sollecitanti. In tal senso va aiutato e
guidato, seppure la disponibilità al confronto è discontinua. Operativamente si
registra una maggiore continuità e costanza, seppure evidente è il bisogno
costante della presenza di qualcuno che lo guidi e lo sostenga. Critica è la
capacità di collaborare con l’altro: evidente è la tendenza alla delega nel
momento in cui l’altro viene riconosciuto come più capace e intraprendente.
Quando invece egli sente su di sé la responsabilità del compito si attiva
maggiormente, ma ciò gli richiede un dispendio di energia elevato che solo per
poco tempo è in grado di sostenere. Una volta appreso un compito e acquisita una
certa sicurezza, appare più in grado di portare a termine il compito in autonomia,
ma allo stesso tempo si registra un’incapacità nel gestire eventuali difficoltà o
situazioni non previste nello schema mentale che egli si è formato.
Deficitaria è la capacità di problem-solving.
Nel corso dell’anno sono proseguiti gli incontri mensili presso il CSM di
riferimento con i genitori del paziente, durante i quali si è osservato il permanere
della problematicità relazionale esistente all’interno del nucleo familiare. Sempre
con i genitori vi sono stati degli incontri all’interno del contesto comunitario. Il
paziente da pochi mesi riceve inoltre una telefonata mensile da parte del padre e
una da parte della madre, dopo avere interrotto quella con la compagna.
Alla luce dei miglioramenti che si sono registrati e delle difficoltà che tuttora
permangono, in accordo con il terapeuta si è ipotizzato un proseguimento del
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percorso, che fornisca a Nick spazi di sperimentazione all’interno di un contesto
esterno a quello comunitario.
In tal senso si è ipotizzata la possibilità di sviluppare un progetto che preveda un
inserimento lavorativo protetto, con la presenza di un tutor che possa seguire un
percorso condiviso con il paziente. Tale progetto ha lo scopo sia di riconoscere al
paziente i passaggi fatti nel periodo di permanenza sia d’esporlo a situazioni
nuove all’interno delle quali sperimentarsi. Si ritiene in tal senso utile la messa in
atto di passaggi graduali, data la presenza di elementi di criticità per i quali il
paziente necessita ancora di un accompagnamento. Inoltre Nick avrebbe
l’opportunità di fare esperienza in un contesto nuovo, all’interno del quale lui
difficilmente riesce a immaginarsi, anche per il fatto di aver avuto esperienze
lavorative sempre e solo interne al contesto familiare che non lo hanno aiutato a
sviluppare un senso responsabilità di responsabilità adeguato alla vita autonoma.
Al momento attuale non si ritiene utile un rientro in famiglia, data la non piena
consapevolezza delle sue problematicità e considerata la difficoltà, di affrontare
in maniera adeguata eventuali sollecitazioni.
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8. CRONOGRAMMA DEL PERCORSO…
01.01.1974 1980 1983 1987 1991
Nasce Nick. E’ figlio unico.
Frequenta la scuola elementare e trascorre il suo tempo in un clima di grande solitudine Le liti fra i genitori sono frequenti. La madre, costretta a lasciare il suo lavoro di insegnate nel liceo scientifico locale, medita separarsi dal marito. E un giorno conduce il figlio in tribunale dove il giudice chiede al bambino con quale dei due genitori potrebbe rinunciare. Egli dice che vorrebbe stare con entrambi. La madre desterà dal suo intento. Come tutti i bambini ha qualche tratto sadico verso gli animali. Ma il suo tratto si spinge oltre. Di ritorno dalle vacanze trascorre al mare con la madre, scopre che uno dei suoi due criceti non c’è più. E’ stato divorato dal compagno. Il padre si è scordato di dargli da mangiare. Per punirlo Nick lo lascia morire di fame osservando in modo ossessivo il declino. Comincia la scuola media. Qualche volta frequenta la compagnia dei cugini ma non tollera che essi litighino. Più spesso invece è da solo a casa. Frequenta le scuole superiori nel suo paese. Si presenta l’occasione di essere iniziato all’uso di cannabis. Ma si allontana fisicamente dai compagni che glielo avevano preposto. Dopo circa tre anni il suo profitto cala progressivamente. Si palesa un totale fallimento. Egli è respinto. I genitori decidono che ripari in una scuola parificata. Lo iscrivono in un istituto di Salò dove possiedono un casa che frequentano per villeggiatura. Tuttavia egli viene inserito in un convitto. E’ molto lontano da casa e ancora più solo. Durante un uscita un compagno gli propone di fumare con lui dell’hashish. Stavolta non vuole allontanarsi da chi accetta gli propone amicizia. Fumare e stordirsi diventa l’attività prevalente della sua vita fino al momento dell’ingresso in comunità.
LA STORIA DI NICK
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1993 1996 1997 2000 2001
Condizionato dal padre si iscrive nella facoltà di economia e commercio dell’università di Brescia. Ma i risultati sono assai modesti tanto che non riesce a fare alcun esame. Durante il terzo anno accademico ha uno scompenso psicotico e viene ricoverato in una clinica psichiatrica per circa un mese. In quell’anno, siamo ancora nel 1996, viene fermato e trattenuto dalle forze dell’ordine per furto d’auto. Progetta di fuggire ad Amsterdam, città che evoca il paese dei balocchi per quanti usano le sostanze stupefacenti per disinfettare le ferite inferte loro dalla vita. Ma la madre e lo zio paterno lo scoraggiano dall’attuare tale proposito. Così, con il consenso dei genitori e la disponibilità dello zio, va a vivere a casa di quest’ultimo. Trascorre molto tempo da solo, fuma hashish e si stordisce tutto il giorno. Ancora una volta condizionato dal padre si inscrive a Trento nella facoltà di giurisprudenza. E ancora una volta l’impegno e il profitto sono molto scarsi, il progetto di laurearsi naufraga. Lasciata la città di Trento, come avrebbe desiderato fin dapprincipio, si iscrive alla facoltà di scienze nautiche trasferendosi a Napoli. Nella città partenopea trova la Amsterdam che sognava: è molto lontano dai genitori e dal loro controllo. Ma il profilo di studente rimane molto basso e in occasione di una visita dei genitori, Nick ha un violento litigio con la madre al quale segue uno scompenso psicotico e un nuovo ricovero in ospedale. Si allontana dall’idea di proseguire gli studi universitari e in modo definitivo. Qualche tempo dopo, ancora una volta, viene denunciato per il tentato furto di un automobile. Spiegherà che la sua intenzione ere proteggersi dal demonio. Segue un nuovo ricovero in una clinica psichiatrica privata di Verona e al momento della dimissione torna a casa. Accetta di lavorare nel negozio del padre che lo relega alla sola attività di laboratorio.
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2002 2003 Maggio 2006 Novembre 2006
La collaborazione fra i due entra subito crisi, i problemi relazionali sono all’ordine del giorno. Nick svolge il lavoro seguendo orari e stravaganti. Qualche tempo dopo, sollecitato dal genitore, che non ha rinunciato al suo ideale di figlio, inizia un corso per ottico nella città di Verona dove. Il suo stile di vita è caotico e disordinato e, inoltre, continua a fumare hashish e stordirsi in modo compulsivo. La sua affettiva è molto povera Un giorno accetta di farsi leggere la mano da una chiromante: troverà la donna della sua vita. Poi sale su un autobus, vede due donne di colore e dice a sé stesso: “Mary per sempre”. L’incontro amata avverrà in un incidente stradale. Ne provoca uno, schiantandosi contro la macchina che lo precede, convinto che alla guida ci sia la sua Mary. In uno dei rientri a casa compie un tentativo di suicidio con ingestione di farmaci. In pronto soccorso gli fanno una lavanda gastrica e viene nuovamente ricoverato nell’SPDC di zona. Dopo aver conseguito il diploma di ottico lavorare “stabilmente” nel negozio del padre. Ma i problemi relazionali non sono né sopiti né estinti. Più volte Nick tenta di aggredire il padre venendo denunciato. Come in altre occasioni Nick chiama il padre, ma questi rifiuta la chiamata a suo carico. Nick è infuriato, ha una crisi pantoclastia, distrugge la casa e nella lotta contro il suo fantasma si ferisce. Sporco di sangue corre in negozio e fargliela pagare al padre. Lo insulta, lo minaccia. Interviene la polizia municipale per sedare gli animi. L’episodio culmina in un nuovo ricovero in SPDC e in una denuncia. Qualche settimana dopo su disposizione del Tribunale viene trasferito in OPG e solo dopo alcuni mesi otterrà la misura cautelare alternativa con il passaggio in comunità.
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES Angelo Denaro – Scuola di Specializzazione Triennale in Scienze Criminologiche (Terzo anno) A.A. 2009/2010
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9. Genogramma della coppia genitoriale di Nick
PN MN
N
NP NM
NM
NP
ZM ZN
ZM
ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES Angelo Denaro – Scuola di Specializzazione Triennale in Scienze Criminologiche (Terzo anno) A.A. 2009/2010
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9. Bibliografia
Guglielmo Gullotta e coll., Elementi di psicologia giuridica e di diritto
psicologico, Giuffré Editore, 2002.
Ugo Fornari, Trattato di psichiatria forense, UTET, 2009.
G. Ponti, I. Merzagora Betsos, Compendio di Criminologia, Raffaello
Cortina Editore, 2008.
10. Sitografia:
http://www.no.archiworld.it – febbraio, aprile, maggio 2010
http://www.altrodiritto.unifi.it – febbraio, aprile, maggio 2010
http://www.crimepsy.org – febbraio, aprile, maggio 2010
http://www.fmj.it/manorme/110_75.htm - maggio 2010
http://www.wikisource.org/wiki/Codice_penale/Libro.../Titolo_VIII maggio 2010
http://www.brocardi.it/codice-penale/libro-primo/.../art88.html maggio 2010
http://www.uonna.it/530-2-codice-procedura-penale.htm maggio 2010
http://www.studiocelentano.it/codice-penale-dei-reati-in-generale- maggio 2010
http://www.camera.it/_bicamerali/sis/norme/cpp.htm maggio 2010
http://www.wikisource.org/wiki/Codice_penale/Libro_I/Titolo_VI maggio 2010
http://www.psicologiagiuridica.com/... maggio 2010
http://www.wikisource.org/wiki/Codice_penale/Libro.../Titolo_III maggio 2010