Istituto MEME: Psicologia - Alchimia e Individuazione · 2011-01-17 · che lo studio alchemico...

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PSICOLOGIA Alchimia e Individuazione Roberto Salati

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PSICOLOGIA Alchimia e Individuazione

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2Scuole di Specializzazione Triennali in: Scienze Criminologiche, Counselling Scolastico, Musicoterapia, Arti Terapie

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Psicologia – Alchimia e Individuazione

La psicologia del profondo ed il pensiero alchemico

La seguente lettura dei testi, prevalentemente di Jung che segue ha come fondo un’ipotesi forte cioè

che lo studio alchemico chiarisca e metaforizzi in Jung la sua teoria psicologica: l’essenza è la

congiunzione degli opposti. Come nell’alchimia la coniunctio è nella e della materia, in psicologia è il

rapporto tra coscienza e inconscio. In questo senso l’opera psicologica diventa l’estrazione del Sé dalla

materia prima dell’inconscio. Proseguendo concettualmente su questa linea consideriamo

l’individuazione come frutto della congiunzione degli opposti psichici come la congiunzione tra Sole e

Luna è la dinamica osservabile nell’alchimia. Arriviamo così alla dimensione simbolica dove risiede la

congiunzione degli opposti, si apre un’eccedenza di senso e si diviene ciò che si è.

Brevi cenni sull’Alchimia e suo significato per Jung

Le origini dell’alchimia sono oscure. Già il termine ha un’etimologia ambigua: da una parte la radice

“chemia”, di origine greco-bizantina, rimanda all’azione di fondere, ma altri fanno derivare il termine

da kmt, terra nera, cioè l’Egitto (Plutarco: De Iside et Osiride in riferimento ai depositi di limo del

Nilo).

In Eliade (Arti del metallo e alchimia. Cosmologia ed alchimia dei babilonesi) si ritrova la tesi che per

i primitivi i metalli erano embrioni nel ventre della terra e la loro perfezione dipendeva dal grado di

maturità raggiunto. L’argento e l’oro erano considerati formati, per gli altri era il fonditore che li

poteva portare a perfezione con la propria opera. Comunque sia i testi antichi dell’alchimia risalgono

al periodo compreso tra II e VIII secolo d.c. e sono greco-egizi. In seguito furono i bizantini e gli arabi

a conservare e a sviluppare elementi di conoscenza alchemica che già era contaminata da elementi

ermetici e gnostici. Il Morienus (testamento di Morieno) ha poi segnato la diffusione dell’alchimia nel

medioevo. Da un nucleo originario, secondo Pereira, si sono differenziati tre filoni: dei metalli

(perfezione dell’oro), del corpo umano (la ricerca dell’elisir) e la salvezza spirituale. La ricerca di Jung

portò a considerare l’alchimia che atteneva la spiritualità. Pur in questa ultima accezione, il mito

originario, comune agli altri filoni, è un’idea di perfezione che si esplica nel raggiungere all’essenza

segreta delle cose. In modo esplicito si trattava di estrarre dalla materia la divinità. Si intenda bene

però che questo non si assimila ad un’idea panteistica dove la divinità si esprime nella materia, ma

comunque la trascende.

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Il confronto con la materia diventa in sé percorso di passione e di incertezza: è confronto con il basso e

l’oscuro, il luciferino (Jung Lo spirito Mercurio XIII OC pag. 272; Interpretazione psicologica del

dogma della Trinità, XI OC pag.170; Psicologia e religione pag. 83; Risposta a Giobbe pag. 373 e

380).

In Psicologia e Alchimia (pag. 297-306) si afferma chiaramente un primo ribaltamento rispetto al

cristianesimo: l’adepto non è redento, ma redime. Egli ripete l’opera della creazione:” Per gli

alchimisti il processo di individuazione rappresentato dall’opus è un’analogia dell’origine del mondo e

l’opus stesso è visto come un’analogia dell’opera creatrice divina” (Empiria del processo di

individuazione pag. 299). Al tempo stesso però Jung, che pone così al centro l’uomo di fronte a Dio

(come fu per Giobbe) non ne sottolinea la superiorità: l’opera si compie solo concedente Deo (Il

simbolo della trasformazione nella Messa pag. 282). Su questa linea di pensiero la von Franz afferma:”

L’opus è il luogo in cui l’uomo ha una certa libertà e dove perciò risiede la relazione forse più intima

tra la chimica e l’Io dell’uomo empirico” (M.L. von Franza: Psiche e materia pp. 133-134). La stessa

von Franz (Alchimia pag. 8-28) e altri studiosi Samuel A.; Grinell R.) hanno proprio inteso l’alchimia

come una forma di immaginazione attiva sulla materia. E’ il mondo immaginale di Corbin quello in

cui l’adepto opera, è quel sottile strato tra corpo e spirito.

La tesi centrale di Jung è che l’alchimia sia un movimento di compensazione dell’Ombra della

religione e della filosofia occidentale. Ad esempio il simbolo trinitario appare ai suoi occhi unilaterale

perché privilegia l’elevazione spirituale nei confronti della materia, del femminile e del male:” Qui tra

le cifre dispari del dogmatismo cristiano si inseriscono le cifre pari che denotano l’elemento

femminile, la terra, l’elemento sotterraneo, il male stesso. La loro personificazione è il serpens

mercurii, il drago che genera se stesso e distrugge se stesso e che rappresenta la prima materia. Questo

pensiero fondamentale dell’alchimia ricorda la Tehom coi suoi attributi di drago e quindi quel mondo

primordiale patriarcale che, nella teomachia del mito di Marduk, fu vinta dal mondo maschile paterno.

L’universale evoluzione storica della coscienza in senso maschile è compensata anzitutto

dall’elemento ctonio-femminile dell’inconscio” (Psicologia e Alchimia XII pag. 27-28).

Quindi la quaternità è simbolo dell’integrazione della componente materiale, di ciò che è opposto.

L’archetipo dell’unità psicologica e quello della divinità sono concepiti come superamento

dell’opposizione dei contrari (Psicologia e alchimia pag. 29). Il lavoro alchemico diventa una

redenzione della materia ovvero una riabilitazione del male privato di sostanzialità nell’accezione di

privatio boni di agostiniana memoria e accettata dal pensiero cristiano. Allo stesso modo il processo di

individuazione ha a che fare con la riabilitazione dell’inconscio.

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“Il loro lavoro con la materia era, è vero, un serio tentativo di penetrare nell’essenza delle

trasformazioni chimiche; però era anche, e spesso in misura preponderante, la rappresentazione di un

processo psichico a decorso parallelo, che poteva con tanta maggior facilità venire proiettato nella

chimica sconosciuta della materia in quanto si trattava di un processo naturale inconscio, proprio come

la misteriosa trasformazione della materia stessa. E’ appunto la problematica che abbiamo descritto,

del processo del divenire della personalità, il cosiddetto processo di individuazione quello che trova

espressione nel simbolismo alchemico” (Psicologia e alchimia XII pag. 37-38). Gli alchimisti

all’opera, lavorando sulla materia, per il principio oggettivante proiettivo, era come se operassero sulla

loro anima (Samuels A.: Jung e i neo-junghiani pag. 291).

Di nuovo scrive il Nostro: ”Alla base dell’alchimia sta un autentico mistero che a partire del XVII

secolo venne inteso in maniera inequivocabile in senso psichico… Non pretendo però che

l’interpretazione psicologica di un mistero debba necessariamente costituire l’ultima parola…

Dobbiamo perciò attenderci che in un tempo futuro il nostro tentativo venga considerato metaforico e

simbolico, allo stesso modo in cui abbiamo fatto per l’alchimia (Mysterium coniunctionis pag. 165-

166).

L’Opera e i suoi materiali

Affinché l’opera si sviluppi sono necessari alcuni aspetti: la materia prima, lo spirito mercuriale, il

lapis e il vas alchemico, oltre all’attività dell’artefice.

Materia Prima

Jung segnala come la materia dell’opus fosse connotata in molti modi e con molti nomi (Psicologia e

Alchimia pag.307-310; Psicologia della traslazione pag. 309). Così essa poteva essere mercurio o

argento, ma anche regina, venere, tutto, piombo, sale, lapis, aria, fuoco ecc. Si tratta in effetti di una

serie di terminologie che tentano di descrivere gli opposti racchiusi in uno stato indistinto, un iniziale

caos. Questo stesso stato caotico è la materia prima del cosmo, l’anima mundi, quello che Paracelo

definisce Dea Mater che si contrappone , pur racchiudendolo, al principio spirituale (Psicologia e

Alchimia pag. 310-313). E’ un fondo femminile passivo che contiene germi sia di spiritualità che di

moto ascensionale.

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Mercurio

Lo spirito mercurio (1943/48). La presenza di Mercurio significa che l’opera ha inizio. Egli è il

mediatore tra la materia prima ed il lapis. Il passaggio dalla materia prima al lapis consta

nell’accoppiamento tra sostanza informe e spirito. Esso è un punto in cui gli opposti sono tenuti

assieme in tutta la loro tensione (pp. 262-263). Egli è sia giovane divinità alata che vecchio saggio, è il

generatore dei suoi genitori, Sole e Luna. E’ spirito aereo, è anima nel senso di principio vitale (pag.

243-248). Alcuni lo identificano come lapis, come Cristo, addirittura può rappresentare un

corrispondente conio della trinità (pag. 251-254). E’ un’esplicita dualità indicata come unità (pag.

263), agente simbolico di congiunzione e di trasformazione, “l’immagine riflessa di un’esperienza

mistica dell’artifex coincidente con l’opus alchemico” pag. 264). Egli trasforma l’inferiore nel

superiore e viceversa, è il Sé ed è processo di individuazione.

Il Lapis

Jung asserisce:” se il Lapis fosse stato soltanto oro gli alchimisti sarebbero stati dei ricconi, se fosse

stato la panacea avrebbero avuto un rimedio contro ogni malattia; se fosse stato l’elisir di lunga vita

sarebbero vissuti mille anni e forse più. Ma tutto questo non avrebbe reso necessario parlare del Lapis

in termini religiosi. Se infatti quest’ultimo venne celebrato come il secondo avvento del Messia, allora

bisogna supporre che gli alchimisti intendessero proprio qualcosa di questo genere” (XIV 327-328).

Esso, il Lapis, era espressione sintetica della totalità attraverso le coppie di opposti, (47-48), spesso

rappresentato da una quaternità di elementi (pag. 279).

La prima materia, mercurio e lapis, sono quindi tre modi per esprimere lo stesso mistero della

congiunzione e della trasformazione della materia. La prima materia, in modo latente, è già lapis e

pure racchiude in sé un fuoco occulto, è quindi anche Mercurio che pure è già in sé lapis.

Vas

Il vaso alchemico è definito da Jung come “un’idea mistica, un simbolo vero e proprio” (XII pag. 235).

Spesso veniva identificato con la materia contenuta o con il fine ultimo della trasformazione:” Benché

sia uno strumento è stranamente connesso con la materia prima quanto col Lapis; non è dunque un

semplice apparecchio” (XII pag.232).

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“Per l’alchimista il vaso è qualcosa di assolutamente meraviglioso… è assolutamente necessario che

sia rotondo affinché imiti il cosmo sferico, in quanto in esso le influenze astrali devono contribuire al

successo dell’operazione che si sta svolgendo” (pag. 232-234).

I passaggi dell’opera

Classicamente, pur nell’ambiguità e diversità dei testi venivano distinti quattro passaggi dell’opera:

melanosi (annerimento), leucomi (imbiancamento), xantosi (ingiallimento) e iosi (arrossamento). A

queste quattro fasi venivano a corrispondere i quattro elementi, le quattro qualità, il ciclo delle

stagioni, le operazioni sui metalli (solutio, ablutio, coagulatio e fixatio) e i 3 metalli (che sono poi

quattro vista la doppia natura di mercurio). Dal XV-XVI secolo cadde in disuso la citrinitas e Jung

introdusse un’altra fase: la cauda pavonis (XII pag. 227-230).

Nigredo: l’immagine è l’annegamento del sole nel mare mercuriale e il sopraggiungere delle tenebre.

Nello stato di annerimento esercita il potere l’anima mundi. Questa avvolge la sfera del sole nel suo

abbraccio (XIV pag. 512). La nigredo è una dolorosa esperienza di morte e separazione: si ottiene

mediante la separazione delle quattro radices o elementi (XIII pag. 86-87) e si raggiunge lo stato di

caos come principio dell’opera (XIV pag. 188). “La nigredo significa mortificatio, putrefaccio, solutio,

separatio, divisio etc. dunque lo stato di dissoluzione e decomposizione che precede la sintesi” (XIV

pag. 506-507).

L’esperienza della nigredo è paragonabile alla sepoltura o alla discesa sottoterra (ibid. pag. 65).

Nel Rosarium la morte della coppia alchemica è descritta dalla separazione dell’anima dal corpo. In

essa non c’è soltanto uno stato di materia nero, ma è anche uno stato mentale dell’artefice, è umor

nero. “Nel mito dell’eroe questo stato corrisponde all’ingoiamento nel ventre della balena (o del

drago), dove regna, di solito, un colore tale che l’eroe perde i capelli, rinasce calvo, glabro, simile ad

un lattante. Questo calore è l’ignis gehennalis, l’inferno nel quale è disceso anche Cristo per trionfare

della morte, ciò che fa parte della sua opera. Il filosofo fa il suo viaggio agli inferi come “redentore”. Il

“fuoco occulto” è l’interno contrario dell’umidità fredda del mare. Nella visio c’è un inconfondibile

calore di incubazione, che corrisponde allo stato di autoincubazione della meditatio” (XII pag. 325-

328). E’ il momento di confronto con l’Ombra, il momento di disorientamento e dell’abbassement du

niveau mental (XVI pag 272). Nel processo terapeutico “ è il risultato del colloquio preliminare e

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introduttivo, nel quale a un certo momento, che si fa attendere a lungo, l’inconscio è sfiorato e si

stabilisce l’identità inconscia fra terapeuta e paziente” (XVI pag. 193-194).

“E’ palese l’analogia con uno stato schizofrenico, e questo è un fatto che va preso sul serio, perché è

proprio in quel momento, quando cioè avviene la presa di coscienza dell’inconscio collettivo, del non-

Io psichico, che possono diventare acute le psicosi latenti. Questo periodo, spesso lungo, di possibile

dissoluzione e disorientamento della coscienza appartiene ai passaggi più difficili del trattamento

analitico e mette spesso a durissima prova la pazienza, il coraggio e la fede sia del terapeuta che del

paziente” (Ibid. pag. 270).

Nella Visio Arislei questo passaggio è descritto come lo smembramento e il divoramento del vecchio

re il cui paese era divenuto sterile. La coscienza, in altri termini, viene divorata dall’inconscio per

rinascere a nuova vita (XVII pag. 400).

La calcinazione della materia prima dava vapori velenosi (mercurio e piombo) o potevano esservi

esplosioni. Parallela è la pericolosità psicologica di questo stadio. Questa pericolosità era anche

espressa da figure femminili minacciose: Melusina, ad esempio, la donna serpente (Paracelo come

fenomeno spirituale XIII pag. 213-220) o altre figure che rappresentano l’aspetto minaccioso

dell’anima (XII pag. 56-58).

Quindi la prima parte del processo è il confronto con l’Ombra (IX Gli archetipi dell’inconscio

collettivo pag. 19 e seg). L’Ombra è il rovescio oscuro e negativo che la coscienza dell’Io proietta

all’esterno di sé:” Il confronto dialettico durante il processo del trattamento psichico porta

conseguentemente il paziente a confrontarsi con la sua Ombra, con quella parte osura dell’anima della

quale ci si sbarazza di volta in volta mediante proiezioni: sia che si addossi al proprio vicino in senso

più o meno lato il peso di tutti i vizi che evidentemente possediamo noi stessi, sia che si rimettano i

propri peccati mediante la contritio oppure, in forma più mite, mediante la attritio a un mediatore

divino” (XII pag. 33).

Il ritiro delle proiezioni è una vera e propria morte dell’Io: “L’integrazione di contenuti psichici che

erano sempre stati inconsci e proiettati implica una grave lesione dell’Io” (XVI Psicologia della

traslazione pag. 248).

Se questo ritiro delle proiezioni prevede un’integrazione sarà dunque la nigredo uno stato gravido di

trasformazione? Nel Rosarium:” Benedetta natura e benedetto il tuo operato, perché dall’imperfetto fai

nascere il perfetto attraverso la vera putrefazione, che è nera e oscura” (XVI Psicologia della

traslazione pag. 275-275).

“Gli alchimisti e con loro anche Paracelo, si trovavano certo molte volte- nell’intento della loro opera-

a confronto con il buio abisso della non-conoscenza e dell’impotenza ragion per cui- per loro stessa

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ammissione - non potevano fare a meno di una rivelazione o illuminazione o di un sogno capace di

aiutarli” (XII pag. 216).

Cauda pavonis: In Empiria del processo di individuazione Jung analizza il fenomeno del lampo dal

punto di vista psicologico (pag.286 e se.). Esso può rappresentare l’intuizione (pag.295). In altri scritti

egli si riferisce al firmamento interiore descritto da Paracelo:” Il cielo stellato è infatti il libro aperto

della proiezione cosmica, del riflesso dei mitologemi, degli archetipi appunto. In questa visione

astrologia e alchimia, le due antiche rappresentanti della psicologia dll’inconscio collettivo, si danno la

mano” (VIII pag. 213). “Le luminosità multiple si possono interpretare come piccoli fenomeni di una

coscienza frammentata sorta dall’inconscio, ci troviamo di fronte alla coscienza degli archetipi

dell’inconscio collettivo mentre se la luminosità appare monodica assume forma di mandala e va

interpretata come Sé” (V pag. 217). Altrettanto frequente del motivo delle scintille è quello degli occhi

di pesce (VIII pag. 214-217).

Sulla materia nera si formano bollicine simili a occhi. Così come i molti occhi di Argo

l’onniveggente, nel mito, sono trasferiti da Hera sulla coda del pavone: Questo è l’uccello di Giunone

e Giunonia è uno dei nomi di Iride (XIV pag. 303).

“In ogni caso la prima parte dell’opera è compiuta quando le molteplicità delle varie componenti

separate dal caos della massa confusa è stata ricondotta all’unità dell’albedo e quando dai molti è nato

l’Uno. Dal punto di vista morale ciò significa, al tempo stesso, che la pluralità psichica che deriva

dallo stato originario di disunione con se stessi, il caos interiore di compinenti psichiche in collisione

reciproca, le greggi di Origene, diventano il vir unus, l’uomo unificato” (XIV pag. 298).

Come sullo sfondo di Melanconia I di Dhurer si profila l’arcobaleno. Iride annuncia la nascita del

filius regius.

Albedo: L’imbiancamento è assimilato al sorgere del sole (Psicologia della traslazione XIV pag. 277 e

seg.), alla purificazione della terra nel fuoco del purgatorio (XIV pag. 188).

“La mundificatio significa, come abbiamo visto, l’eliminazione del superfluo inerente ai prodotti

meramente naturali e presente in particolar modo anche in quei contenuti simbolici inconsci che per

l’alchimista si proiettano sulla materia” (XVI pag. 280).

L’albedo è il ritiro finale delle proiezioni in seguito al confronto con l’Ombra. E’ l’atteggiamento

conseguente, razionale e distaccato, è l’essenza aerea della comprensione concettuale (XVI pag.28 e

seg.).

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“Alla natura è contrapposta l’anima… il processo giunge alle cose semplici che in virtù delle loro

genuinità (cioè per il fatto di non essere mescolate) sono incorruttibili, eterne e quindi affini alle idee

platoniche, infine si trova l’ascesa della mensa alla ratio, all’anima rationalis, cioè alla forma suprema

dell’anima” (XII pag. 258-259).

Il confronto con l’Ombra quindi porta l’individuo a confrontarsi con l’inconscio collettivo: ”L’uomo

naturale non è un Sé, ma massa e particelle della massa, qualcosa di collettivo al punto di non essere

sicuro nemmeno del proprio Io” (XII pag. 84). Tuttavia la sua coscienza non dovrà identificarsi con

questi aspetti:” Per questo ha bisogno fin dai tempi più antichi dei misteri della trasformazione che lo

fanno diventare qualcosa e che in questo modo lo strappano alla psiche collettiva, animale, che è pura

e semplice pluralità. Se però questa pluralità insignificante dell’uomo dato è ripudiata, respinta, anche

la sua integrazione, il suo divenire un Sé diventano impossibili: E ciò significa la morte spirituale”

(XII pag. 84).

Ci troviamo di fronte alla dialettica tra isolamento e relazione. Si entra in contatto con la vita dello

Spirito e nella sua qualità peculiare: la riflessione. “Riflessione non è da intendersi come un semplice

atto mentale, bensì piuttosto come un comportamento. Riflessione è una riserva della libertà umana di

fronte alle costrizioni delle leggi naturali. Come dice la parola reflexio, cioè ripiegamento, nella

riflessione si tratta di un atto spirituale contrario al corso della natura, cioè un fermarsi, un

riconoscersi, un proiettare immagine, un intimo riferimento e una spiegazione con l’oggetto

contemplato. Riflessione si deve quindi intendere come un atto del divenire cosciente” (Interpretazione

psicologica del dogma della Trinità pag. 157 nota 9).

L’attività individuante opera nella suddetta riflessione. “L’uomo dotato di ragione che vive in questo

mondo deve differenziarsi dall’uomo che potremmo definire eterno. In quanto individuo unico,

singolo, egli rappresenta anche l’uomo tout court e partecipa di tutto ciò che è mosso dall’inconscio

collettivo. In altri termini: le verità eterne, quando reprimono l’Io singolo dell’individuo e vivono a sue

spese e a suo danno si trasformano in pericolosi fattori di turbamento. Se la nostra psicologia è

costretta dalle condizioni particolari del suo materiale empirico a sottolineare l’importanza

dell’inconscio, ciò non significa affatto che sia posta in sottordine l’importanza della coscienza. Si

tratta soltanto di limitarne l’unilateralità e la tendenza a sopravvalutarla, facendo uso di una certa

relativizzazione. La relativizzazione non deve però spingersi al punto che il fascino emanante dalle

verità archetipiche sopraffaccia l’Io. L’Io vive nello spazio e nel tempo e se vuol vivere deve adeguarsi

alle loro leggi. Ma se viene assimilato all’inconscio al punto che ogni decisione è lasciata a

quest’ultimo, allora l’Io è soffocato e non c’è più nulla in cui l’inconscio possa essere integrato o

realizzato. La distinzione tra l’Io empirico e l’uomo eterno e universale è perciò di importanza

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assolutamente vitale, specie ai nostri giorni, in cui la massificazione della personalità sta compiendo

minacciosi progressi” Psicologia della traslazione XVI pag. 293-294).

Nell’albedo si può scrutare liberamente nell’Ombra, essa è già “un ampliamento della coscienza

tramite l’integrazione di componenti della personalità rimaste inconsce fino a quel momento” (XIV

pag. 241).

Rubedo: “Sia la comprensione intellettuale sia l’estetismo creano una sensazione ingannevole,

seducente, di liberazione e superiorità, sensazione che minaccia però di frantumarsi appena interviene

il sentimento. Il sentimento denota infatti un certo legame con l’esistenza e con il significato dei

contenuti simbolici, i quali a loro volta obbligano a un comportamento etico del quale estetismo ed

intellettualismo vorrebbero troppo volentieri affrancarsi2 (XVI pag. 282).

“Gli alchimisti pensavano… che l’Opus esigesse non solo il lavoro di laboratorio, la lettura dei libri, la

meditazione, la pazienza, ma anche l’amore” (pag. 283).

Il fuoco dell’amore conduce l’artefice alla quarta fase, all’intuizione sintetica della totalità (pag. 284).

Il confronto con l’inconscio porta gli opposti a fondersi e produrre una sintesi, cioè si ha la rubedo

dove si formano le nozze dell’uomo rosso con la donna bianca, del Sole e della Luna (XIV pag. 218-

219). Questo è di nuovo il processo psicologico d’individuazione (XII pag. 374).

L’archetipo del vecchio saggio che incarna le qualità del sapere e della benevolenza è l’ultima figura

di questo processo (Fenomenologia dello spirito della fiaba pag. 211). E’ figura dotata di intuizione, è

l’Ermete tre volte grande, è chi indica la via nel circolare processo di individuazione del Sé e della sua

realizzazione nell’atto di individuarlo. La pietra filosofale si propaga come un incendio sulle cose vili

del mondo e le trasforma in oro (XVI Psicologia della traslazione pag. 307 e seg.).

Le figure che si esprimono da questo processo sono fondamentalmente due: il mandala e l’ouroboros.

“Le asserzioni relative alla pietra, se considerate da un punto di vista psicologico, descrivono

l’archetipo del Sé, la cui fenomenologia è esemplificata nel simbolismo del mandala. Quest’ultimo

descrive il Sé come una struttura concentrica, spesso nella forma della quadratura del cerchio. Gli è

associato ogni tipo di simbolo secondario che esprima in generale la natura degli opposti da unire. La

struttura è invariabilmente avvertita come la rappresentazione di uno stato centrale o di un centro della

personalità sostanzialmente diverso dall’Io” (Mysterium coniunctionis XIV pag. 343).

Nella quadratura del cerchio il rapporto tra l’inizio e la fine dell’opera è espresso sincronicamente

dalle figure concentriche quadrato e triangolo in cui quest’ultimo funge da spirito mediatore (XII pag.

127-135).

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Altra figura è l’ouroboros. Jung intende il processo d’individuazione come via dell’uno all’uno. In

fondo egli immagina una dinamica dove la coscienza nasca da un’unità caotica e indivisa.

Dall’indifferenziazione essa pone in essere delle scissioni e delle divisioni fino al ritorno allo stato

originario. “E’ il pensiero fondamentale dell’alchimia che tutto provenga dall’uno… che questo uno si

scinda in quattro elementi e che a partire da questi quattro si ricomponga in unità” (XII pag. 430).

Psicologia della traslazione

Il testo che, in modo più organico tratta del processo psicologico dell’alchimia è il saggio Psicologia

della traslazione che fu pubblicato nel 1946 ed è una descrizione del fenomeno del transfert fortemente

connesso e parallelo alla simbologia alchemica. Sono utilizzate, infatti, le tavole del Rosarium

philosophorum, testo alchemico del 1550. In esso è rappresentato un complesso circolo di

congiunzione degli opposti. “Il problema dell’unificazione dei contrari, che nella sua formulazione

sessualistica era latente da secoli, dovette attendere che l’illuminismo e l’oggettività scientifica fossero

tanto progrediti da poter accogliere la sessualità nel discorso scientifico” (Psicologia della traslazione

XVI pag. 316). Però, in polemica con Freud forse, al di là dell’incontestabile carattere sessuale del

Rosarium così come del transfert “non è sempre l’unico, né quello essenziale” (XVI pag. 184). Si

tratta di una dimensione simbolica dove l’amore è agente di trasformazione, è il fondamento di

congiunzione degli opposti. Così il terapeuta, come l’alchimista, produce l’unità da un iniziale stato di

separazione e di conflitto. Come l’alchimista “non sa più se egli è colui che fonde nel crogiolo la

sostanza arcana metallica, oppure se è lui stesso ad ardere nel fuoco come la salamandra. L’inevitabile

induzione psichica fa sì che medico e paziente siano coinvolti e trasformati entrambi nella

trasmutazione del terzo e che il solo sapere del terapeuta illumini, sia pure con luce fioca e tremante,

l’oscura profondità del processo” (Psicologia della traslazione pag. 208-209).

La dimensione complessa della relazione terapeutica vede due coscienze e due inconsci che entrano in

dialogo. Quando sopraggiunge questo legame (e sottolinea Jung che non è sempre il caso) si ha il

fondamento dell’Opera. I contenuti inconsci sia del medico che del paziente si attivano portando ad un

rapporto “fondato su una comune incoscienza” (pag. 187).

Nella relazione ci si può individuare: ”L’uomo senza relazioni non possiede totalità perché la totalità è

raggiungibile soltanto attraverso l’anima, la quale dal canto suo non può esistere senza la controparte,

che ritrova sempre nel tu. La totalità consiste nella combinazione Io Tu, che appaiono come parti di

un’unità trascendente la cui essenza non può essere afferrata simbolicamente , per esempio, mediante

il simbolo del rotundum, della rosa, della ruota o della coniunctio Solis et Lunae” (Psicologia della

traslazione XVI pag. 250).

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Psicologia – Alchimia e Individuazione

Ugualmente il paziente dovrà prendere coscienza dell’altro se stesso, del proprio conflitto per iniziare

il processo terapeutico. Quando comincerà a ritirare la sua ombra proiettata sul terapeuta riconoscerà

in sé i contrari (il due) e inizierà il processo entrando nella nigredo. Si avrà l’autentico dialogo tra

paziente e terapeuta, portando ad un reciproco processo di trasformazione, già mirabilmente e

metaforicamente descritto dal Rosarium. Una complicazione ulteriore è data, dice Jung, dal fatto che si

ha un rapporto tra coscienza del soggetto e la parte di personalità proiettata di sesso opposto. Re e

Regina sono frutto di proiezioni e rappresentano il lato inconscio di sesso opposto di adepto e soror.

Facciamo nostra, a questo punto, l’ipotesi di Ellenberger secondo cui Jung aveva già un’intuizione

della psicologia del profondo che si è arricchita e confrontata con la concezione dell’inconscio di

Freud, ma nella sua maturazione ha prodotto una visione della psiche umana e della sua evoluzione

che né è distante e agli antipodi.

In Jung, infatti, la visione di un inconscio inteso come femminile e come madre (Madera R. Jung pag.

34-35) pone la dinamica dell’incesto come punto fondamentale. Seguiamo l’eroe che rinuncia

consapevolmente alla relativa ed apparente autonomia dell’Io e regredisce nell’inconscio materno.

L’incesto è il luogo di costituzione del simbolo e il suo compimento è il cardine teorico presente in

Jung (Montefoschi S. Jung un pensiero in divenire pag. 203-209).

“Così il tabù dell’incesto, che nasce a salvaguardia della coscienza, finirebbe con l’arrestarne il

divenire se non si osasse mai infrangerla. La nuova conoscenza nasce solamente quando nell’uomo il

soggetto torna ad unirsi all’oggettualità, da cui si era separato, quando il maschile torna ad abbracciare

il proprio femminile, quando si compie l’incesto infrangendo il tabù che lo vieta” (Montefoschi S.

Jung un pensiero in divenire pag. 215). Il compimento simbolico dell’incesto (archetipo della

coniunctio) è condizione necessaria per la creatività dell’uomo, è il fondamento del processo di

individuazione (Montefoschi S. Jung un pensiero in divenire pag. 219).

Così nel Rosarium possiamo intendere il soddisfacimento della pulsione che il tabù dell’incesto vieta

nel rapporto e nell’immanenza della materia.

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Psicologia – Alchimia e Individuazione

PERCORSI DI INDIVIDUAZIONE

“Uso il termine “individuazione” per designare quel processo che produce un individuo psicologico,

vale a dire una unità separata, indivisibile, un tutto (Jung 1939, p. 267).

L’individuazione va intesa come un ideale di massima complessità e ricchezza della vita psichica e si

fonda sul presupposto che ciò che caratterizza il singolo individuo non sia quanto rimane in lui

costante ed identico, ma ciò che progressivamente lo differenzia dal suo stato originario. Il processo di

individuazione riguarda dunque la formazione sempre più ampia e complessa di una composita

unitarietà emergente dalla molteplicità dei nuclei psichici complessuali e presuppone un movimento di

differenziazione dell’unità ed identità appartenente alla condizione originaria della psiche.

Nella sua essenza come dissociabile, la psiche tende a dissociarsi sotto la pressione di stimoli

importanti o a causa di fattori o caratteristiche costituzionali. Oltrepassando così la sua apparente

unitarietà mostra la sua struttura più profonda, quella formata da una contraddittoria molteplicità di

complessi di rappresentazioni.

“Differenziazione significa sviluppo di differenze, separazioni di parti da un tutto. In questo lavoro

uso il concetto di differenziazione soprattutto in relazione alle funzioni psicologiche. Fin tanto che una

funzione è ancora fusa con un’altra o con altre funzioni, ad esempio pensiero e sentimento, o

sentimento e sensazione ecc., in misura tale da non potersi affatto manifestare di per sé sola, essa si

trova in uno stato arcaico, non è differenziata, cioè non è separata dal tutto come una parte speciale

che, in quanto tale, sussiste di per sé… Di regola la funzione non differenziata è caratterizzata anche

dal fatto che essa possiede la qualità dell’ambivalenza e dell’ambitendenza: ogni posizione cioè porta

con sé visibilmente la propria negazione ” (Jung 1921, p. 436).

M. Fordham s’inscrive in questo discorso in modo rilevante, sviluppando le idee di Jung a partire dallo

studio del Sé nell’infanzia e dell’esordio della sua attività, ponendo come assunto la natura continua

del processo di individuazione. Fordham postula la natura primaria del Sé, per cui ipotizza la presenza

di un Sé arcaico indifferenziato ed integrato.

Affinché il neonato entri in relazione con la madre, è necessario che si avvii un processo di

deintegrazione del Sé, a partire dunque da una condizione d’identità primitiva, da cui il bambino

progressivamente emerge nel corso della maturazione e dello sviluppo dell’Io, reintegrando i

deintegrati nel registro del simbolico.

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Psicologia – Alchimia e Individuazione

Un simbolo infatti si impone perché è venuta a configurarsi una situazione antinomica, una tensione

degli opposti che, in quanto tale non può essere accettata dalla coscienza, che funziona secondo il

principio della non contraddizione e che pertanto spinge ad una composizione, ad una sintesi

superiore, alla ricerca di un senso che possa allontanare il pericolo della lacerazione e della persistenza

del conflitto al proprio interno. Consentendo al flusso psichico di procedere, di “trascendere” da uno

stato all’altro, la funzione del simbolo diventa allora proprio quella di evitare il blocco, la fissazione,

l’arresto del processo di individuazione.

Jung a proposito dice “Quando l’espressione inconscia rimane così intatta, essa costituisce una materia

prima che non va risolta ma plasmata in modo da divenire oggetto comune di tesi ed antitesi. In tal

maniera essa diventa un contenuto nuovo che domina l’intero atteggiamento, annulla la scissione e

incanala a forza le tendenze in contrasto in un alveo comune. Con ciò la stasi delle forze vitali ha

termine, e la vita può progredire scorrendo con rinnovato vigore verso nuove mete.

Al processo ora descritto ho dato il nome di funzione trascendente, volendo intendere con “funzione”

non una delle funzioni fondamentali, bensì una funzione complessa composta di altre funzioni e con

“trascendente” non un carattere metafisico, ma il fatto che mercè questa funzione si crea il passaggio

da un atteggiamento ad un altro. La materia prima, elaborata da tesi ed antitesi e che nel suo processo

di formazione unifica gli opposti, è il simbolo vivo. Nella materia prima del simbolo, che resta a lungo

refrattaria ad ogni tentativo di risoluzione, sta la sua ricchezza di presentimenti, e nella figurazione che

la sua materia prima riceve ad opera degli opposti, si radica l’influsso che esso esercita su tutte le

funzioni psichiche” (Ibidem p. 490/91).

Se dunque l’azione antinomica si configura come naturalmente necessaria alla costituzione della vita

psichica dell’uomo, è nello stesso tempo anche alla base dei suoi conflitti.

In tipi psicologici la “via trascendentale“ non va già interpretata come una sorta di ragionamento di

tipo critico-gnoseologico, quanto piuttosto come simbolo di quella strada che l’uomo finisce sempre

col percorrere, dopo essersi imbattuto in un ostacolo, in un problema provvisoriamente insolubile e che

in un primo momento non può superare con la sua ragione. Ma per poter trovare e percorrere questa

via è necessario ch’egli prima si soffermi per qualche tempo su quegli opposti, in corrispondenza dei

quali la via percorsa sino ad allora si era biforcata. Il flusso della sua vita ristagna di fronte

all’ostacolo. Ogniqualvolta si produce un ristagno della libido, anche gli opposti prima uniti nel

costante fluire della vita si disgregano e si ergono l’uno contro l’altro come avversari bramosi di

venire a contesa. In una lotta protratta nel tempo, la cui durata e il cui esito non è dato di prevedere, gli

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opposti finiscono con l’esaurirsi, e dall’energia che essi hanno perduto si forma quel terzo elemento

che è poi appunto il principio della nuova via” (Jung 1921, p. 98).

“Quando noi urtiamo contro un ostacolo, qualunque esso sia purchè particolarmente duro, il contrasto

fra la nostra intenzione e l’oggetto che si oppone diventa ben presto un conflitto interiore. Infatti,

mentre io mi sforzo di subordinare alla mia volontà l’oggetto che mi si oppone, tutto il mio essere si

mette a poco a poco in rapporto con esso, in corrispondenza della forte carica libidica che attrae, per

così dire, una parte del mio essere nell’oggetto. Ne risulta un’identificazione parziale di determinati

elementi affini della mia personalità con l’essenza dell’oggetto. Appena attuata questa identificazione

il conflitto si trasferisce nella mia propria anima. Questa “introiezione” del conflitto con l’oggetto mi

rende discorde con me stesso, cagiona così un’impotenza nei confronti dell’oggetto e suscita

perturbazioni affettive che sono sempre sintomo di un dissidio interiore. Le perturbazioni affettive

però fanno sì che io percepisca me stesso e che sia messo perciò in grado – a meno che non sia cieco-

di rivolgere la mia attenzione su di me e di seguire in me il giuoco delle forze in contrasto ” (Ibidem p.

98/9).

Il luogo psichico in cui l’antinomia si trasforma in conflitto è riservato da Jung alla coscienza.

Ma dove non c’è coscienza, dove regna incontrastato l’elemento istintuale inconscio non c’è

riflessione, non c’è disaccordo. Dice Jung ”Sarebbe quindi vano assegnare alla coscienza il compito di

decidere del conflitto tra gli istinti. Una decisione cosciente sarebbe puro arbitrio e non potrebbe

perciò fornire alla volontà quel contenuto simbolico che solo è in grado di mediare sul piano

irrazionale un’antitesi logica. A questo scopo è necessario andare più a fondo, discendere alle basi

stesse della coscienza, che ancora conservano la loro originaria istintualità, ossia nell’Inconscio, ove

tutte le funzioni psichiche confluiscono indistintamente nell’attività originaria e fondamentale della

psiche” (Ibidem. p. 121).

La volontà della coscienza quindi non può risolvere il conflitto senza basarsi su uno stato che le

fornisca un contenuto simbolico.

Ciò detto con le parole di Jung “Affinché questa cooperazione di stati opposti fra loro sia

semplicemente possibile essi devono coesistere entrambi coscientemente in completa

contrapposizione. Questo stato deve comportare un violentissimo dissidio con se stessi, tale che tesi ed

antitesi si neghino a vicenda, mentre l’Io è costretto ad ammettere la sua incondizionata adesione tanto

all’una quanto all’altra. Quando invece sussista una qualche inferiorità di una delle due parti, il

simbolo sarà prevalentemente il prodotto dell’altra e sarà anche nella stessa misura più un sintomo che

un simbolo, il sintomo cioè di un’antitesi soppressa.

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Psicologia – Alchimia e Individuazione

Ma nella misura nella quale un simbolo è soltanto un sintomo, esso viene anche a perdere ogni

efficacia liberatrice, giacchè non esprime più il completo diritto all’esistenza di tutte le parti della

psiche, ma testimonia la soppressione dell’ antitesi, anche nel caso che la coscienza non dovesse

rendersene conto.

Poiché la vita non sopporta mai un arresto, ne nasce una congestione dell’energia vitale, che

condurrebbe a uno stato di cose insopportabile se dalla tensione degli opposti non sorgesse una nuova

funzione unificatrice che conduce oltre gli opposti”. (Ibidem p. 488/9).

Quando però la struttura del complesso dell’Io si presenta solida e stabile in maniera tale da poter

sopportare l’assalto dei contenuti inconsci senza che si verifichino fratture irreparabili, è allora che si

realizza un’assimilazione: sia i contenuti inconsci che l’Io vengono modificati.

l’Io conserva la sua struttura, ma nello stesso tempo viene spinto e messo da parte, in una posizione

non più centrale rispetto a quella precedentemente occupata. Questo nuovo status comporta

necessariamente l’indebolimento del suo dominio è arricchita e animata da quel flusso di contenuti

inconsci che progressivamente dà forma ad una nuova figura totalitaria che supera l’Io stesso per

ampiezza e forza, che Jung ha definito col nome di Sé.

In questa situazione si può certamente correre il rischio di subire la tentazione, che può essere

fortissima, esercitata dall’istinto di potenza, ad identificare l’Io con il Sé, per lasciare intatta e

preservare così l’illusione di un Io forte e potente.

Il Sé ha un senso funzionale, dice Jung, solo se può operare in termini di “compensazione” rispetto alla

coscienza dell’Io. Se, al contrario, l’Io viene smembrato dall’atto di identificazione col Sé, il prodotto

è quello di “una specie di nebuloso superuomo con un Io gonfiato ed un Sé svuotato cui manca la

scintilla dell’anima”(Jung 1947/1954. p. 242).

”La totalità cosciente consiste in un’unificazione riuscita tra Io e Sé, nella quale entrambi conservano

le loro peculiarità essenziali. Se invece non c’è unificazione e il Sé prevale sull’io, neanche il Sé

raggiunge la forma che dovrebbe avere ma si arresta a un livello primitivo e può allora essere espresso

solo mediante simboli arcaici” (Jung 1947/1954, p. 241, nota a margine).

Dunque il divenire cosciente dell’Io e la realizzazione del Sè, ossia l’individuazione, non vanno

confusi.

“ Il Sé racchiude in sé infinitamente di più che un Io soltanto, come dimostra da tempo immemorabile

la simbologia: esso è l’altro o gli altri esattamente come l’Io. L’individuazione non esclude ma include

il mondo” (Ibidem. p. 243), in quanto “La realizzazione cosciente dell’unificazione interiore implica

come condizione irrinunciabile il rapporto umano, perché senza il consapevole riconoscimento e

l’accettazione di ciò che ci lega al prossimo non si dà sintesi della personalità” (Jung 1946, p. 240).

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In altre parole si deve ammettere una necessaria interdipendenza nella relazione tra l’Io ed il Sé dove

la supremazia del Sè rispetto all’Io si confronta con il destino dell’Io che è quello di metterla

continuamente in dubbio.

E. Neumann che è, con M. Klein, M. Fordham, D. Winnicott, tra gli autori che postulano, già dalla

nascita, l’inizio del processo di costruzione dell’Io, ha concettualizzato il sistema asse Io/Sé, un

particolare rapporto tra l’Io ed il Sé che si sviluppa a partire dalla dissoluzione della relazione unitaria

con la madre.

Nel procedere dello sviluppo l’esperienza esterna con la madre e le sue funzioni di accudimento, di

cura e con le sue capacità di comprensione empatica onde impedire intollerabili frustrazioni, si

trasforma nel bambino in un rapporto con il proprio Sé ed il Sé “incarnato” nella madre come un “Tu”

che si muove verso il bambino. Egli si rapporterà alla madre come l’Io si rapporta al Sé. Si stabilisce

così un asse psichico che collega l’Io con il Sé. La stabilità di questo asse determinerà nel bambino le

condizioni per lo sviluppo di quei sentimenti di fiducia da cui potrà in seguito svilupparsi il senso della

sua identità personale.

“Intellettualmente il Sé non è altro che un concetto psicologico, una costruzione, che deve esprimere

un ente per noi inconoscibile, che non possiamo afferrare come tale, perché per definizione esso

trascende la nostra capacità di comprensione. Esso potrebbe parimenti venir definito come “il Dio in

noi”. Gli inizi di tutta la nostra vita psichica sembrano scaturire, inestricabili, da questo punto, e tutte

le mete ultime e supreme sembrano convergervi. Questo paradosso è inevitabile, come avviene

ogniqualvolta cerchiamo di definire qualcosa che supera la capacità del nostro intelletto” (Jung 1928 p.

233).

In altri scritti il Sé sembra rappresentare il centro dinamico dell’inconscio, inteso in senso molto più

ampio rispetto al rimosso, che organizza dinamicamente i processi psichici e corporei. In un’altra

accezione il Sé appare come il risultato finale del processo d’individuazione “Il Sé è la più perfetta

espressione della combinazione fatale che si chiama individuo, e non solo del singolo uomo, ma di un

intero gruppo, nel quale l’uno integra l’altro per costituire l’immagine completa. Quando si riesce a

“sentire” (perché così definisco il carattere percettivo della relazione tra l’Io e il Sé) il Sé come un

irrazionale, come un ente indefinibile, al quale l’Io non è né contrapposto, né sottoposto, ma pertinente

solo allora la meta dell’individuazione è raggiunta” (Ibidem p. 235).

In ultima analisi si può dire che “L’individuazione si configura sia come principium – termine che

deriva da prius, quel che era prima – sia come divenire insito nella processualità.

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Psicologia – Alchimia e Individuazione

E’ principio in divenire e divenire del principio, poiché quanto in origine è dato trova la possibilità di

svelarsi e rivelarsi nella realtà. In questo senso il percorso individuativo è il paradigma della

dimensione prospettica, è il progetto di una autorealizzazione che, Deo concedente, si rende possibile

nel confronto con la propria interiorità e con il mondo”( Sassone 1992, p. 266).

Nel saggio Psicologia dell’inconscio del 1917, Jung parla del processo d’individuazione come

“processo naturale” e “modello del metodo di trattamento” e pone come naturale premessa il fatto che

l’uomo sia in grado di realizzare la sua totalità e quindi di perseguire la sua guarigione. Nell’ambito di

quel processo l’archetipo del Sé occupa una posizione centrale con funzione pilota, luogo elettivo dove

gli opposti trovano la loro integrazione. L’inconscio rispetto alla coscienza compensa e corregge la sua

tendenza all’unilateralità onde consentire all’energia psichica di procedere senza ingorghi e blocchi di

varia natura. Alla coscienza spetta la funzione d’integrazione degli elementi inconsci, di mantenere

viva la critica, la capacità di scelta e di decisione.

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c o r t e x 4 6 ( 2 0 1 0 ) 6 6 8 – 6 7 7

ava i lab le a t www.sc iencedi rec t .com

journa l homepage : www.e lsev ie r . com/ loca te /cor tex

Research report

The role of the orbitofrontal cortex in affective theoryof mind deficits in criminal offenders withpsychopathic tendencies

Simone G. Shamay-Tsoorya,*, Hagai Hararib, Judith Aharon-Peretzc and Yechiel Levkovitzb

aDepartment of Psychology, University of Haifa, IsraelbEmotion-Cognition Research Center, The Shalvata Mental Health Care Center, Hod-Hasharon, IsraelcRambam Medical Center, Haifa, Israel

a r t i c l e i n f o

Article history:

Received 1 September 2008

Reviewed 24 November 2008

Revised 24 December 2008

Accepted 13 April 2009

Action editor Jordan Grafman

Published online 18 May 2009

Keywords:

Psychopathy

Social cognition

Theory of mind

Orbitofrontal cortex

* Corresponding author. Department of PsycE-mail address: [email protected]

0010-9452/$ – see front matter ª 2009 Elsevidoi:10.1016/j.cortex.2009.04.008

a b s t r a c t

Individuals with psychopathy show impaired emotional and social behavior, such as lack

of emotional responsiveness to others and deficient empathy. However, there are

controversies regarding these individuals theory of mind (ToM) abilities and the neuro-

anatomical basis of their aberrant social behavior. The present study tested the hypothesis

that impairment in the emotional aspects of ToM (affective ToM) rather than general ToM

abilities may account for the impaired social behavior observed in psychopathy and that

this pattern of performance may be associated with orbitofrontal cortex (OFC) dysfunction.

To assess the emotional and cognitive aspects of ToM we used a task that examines

affective versus cognitive ToM processing in separate conditions. ToM abilities of criminal

offender diagnosed with antisocial personality disorder with high psychopathy features

were compared to that of participants with localized lesions in the OFC or dorsolateral,

participants with non-frontal lesions, and healthy control subjects. Individuals with

psychopathy and those with OFC lesions were impaired on the ‘affective ToM’ conditions

but not in cognitive ToM conditions, compared to the control groups. It was concluded that

the pattern of mentalizing impairments in psychopathy resembles remarkably that seen in

participants with lesions of the frontal lobe, particularly with OFC damage, providing

support for the notion of amygdala–OFC dysfunction in psychopathy.

ª 2009 Elsevier Srl. All rights reserved.

1. Introduction 1989; Frick et al., 1994). It has been shown that psychopathy is

Psychopathy is a developmental disorder characterized in

part by callousness, diminished capacity for remorse, impul-

sivity, and poor behavioral controls (Hare, 1991). The defini-

tion of psychopathy involves two core components –

emotional dysfunction and antisocial behavior (Harpur et al.,

hology, University of Haif(S.G. Shamay-Tsoory).er Srl. All rights reserved

an extreme form of antisocial personality disorder (APD) and

that approximately 25% of individuals classified with APD will

show psychopathic tendencies (Hart and Hare, 1989).

Different cognitive models were proposed in an attempt to

explain psychopaths’ violation of social rules and the disre-

gard for other people’s emotions. One explanation is that

a, Aba Hushi, Carmel Mountain 31905, Haifa, Israel.

.

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c o r t e x 4 6 ( 2 0 1 0 ) 6 6 8 – 6 7 7 669

psychopaths have impaired theory of mind (ToM) abilities.

ToM refers to the capacity to make inferences regarding

others’ mental states: their knowledge, needs, intentions and

beliefs (Premack and Woodruff, 1978). It was suggested that

since psychopathic individuals are deficient in their ToM

abilities, they are less likely to empathize with the other, and

are thus less likely to inhibit antisocial behaviors (Richell et al.,

2003). However, inconsistent with this account is the fact that

psychopaths are extremely good manipulators and deceivers,

which indicates that they are actually quite good at making

inferences regarding other people’s mental states. Indeed,

numerous studies report no impairment in the ability to

represent mental states of others in psychopathy (Widom,

1978; Blair et al., 1995; Richell et al., 2003; Dolan and Fullam,

2004).

If so, what can be the source of the social and moral devi-

ations observed in psychopathy?

It has been recently suggested that ToM is not a monolithic

process and that it comprised cognitive (cognitive ToM) as

well as emotional aspects (affective ToM). The concept of

‘affective ToM’ is quite similar to that of empathy (Shamay-

Tsoory et al., 2005) which has been reported to be deficient in

psychopathy (Blair, 1995). Currently there is a lack of a clear

distinction between empathy and ToM concept leading some

researchers to use these terms interchangeably (Kaland et al.,

2002). As depicted in Fig. 1, it had been suggested that cogni-

tive ToM is a pre-requisite for affective ToM and is roughly

equivalent to the purely cognitive aspects of empathy (Sha-

may-Tsoory et al., 2008).

Our basic theoretical framework assumes that while

‘‘cognitive ToM’’ refers to our ability to make inference

regarding other people’s beliefs, ‘‘affective ToM’’ refers to

inference one makes regarding others’ emotions. The process

of affective ToM may require integration of emotional and

cognitive aspects of empathy (see Fig. 1). Thus, ‘‘affective

ToM’’ is related to cognitive empathy but also to emotional

empathy to some extent. It appears that the centrality of

emotion distinguishes between the affective and cognitive

aspects of empathy and ToM. There is another aspect of

empathy, not examined or discussed in the current study

involving emotional contagion, a system thought to support

Fig. 1 – A model of the relationship between empathy and

ToM. As depicted in the model ‘‘affective ToM’’ involves

cognitive aspects of empathy (e.g., ‘‘I understand how you

feel’’) and interacts with emotional empathy. ‘‘Cognitive

ToM’’ is a pre-requisite for affective ToM.

our ability to simulate the other emotional states (Preston and

de Waal’s, 2002).

Since cognitive ToM abilities appear to be intact in

psychopathy, it may be speculated that impaired ‘affective

ToM’ rather than a general ToM deficit may account for the

aberrant behavior observed in psychopathy. In line with this

notion, we have recently reported that participants with

damage involving the ventromedial prefrontal cortex show

impaired affective ToM while presenting with intact cognitive

ToM (Shamay-Tsoory and Aharon-Peretz, 2007). Interestingly,

one area in the ventromedial prefrontal cortex, namely the

orbitofrontal cortex (OFC) has been consistently implicated as

dysfunctional in psychopathy (Blair et al., 2006).

There is ample evidence that the OFC mediates affective

information, emotional stimuli and social behavior. For

example, it has been found that lesions in the OFC result,

among other things, in impaired empathy (Eslinger, 1998;

Shamay-Tsoory et al., 2004) deficits in complex ToM abilities

(Stone et al., 1998) and even in ‘acquired sociopathy’ (Blair and

Cipolotti, 2000; Tranel et al., 2002), a term denoting aberrant

behavior, high levels of aggression and a callous disregard for

others following OFC lesions. In line with this term is a case

study of a 50-year-old male patient (MGS) with a right frontal

ventromedial lesion who showed preserved general cognitive,

abstract thinking and problem-solving abilities, in contrast to

remarkable impairment in his social competence, social

decision making and social conduct (Dimitrov et al., 1999).

Nonetheless, regardless of the similarities between acquired

frontal lesions and developmental psychopathy, comparison

between groups should be treated with caution as important

differences exist between these individuals. For example,

while both groups of patients may demonstrate reactive

aggression, instrumental aggression which is typically repor-

ted in developmental psychopathy is rarely reported after OFC

damage (Mitchell et al., 2006a, 2006b).

An additional line of evidence for the involvement of the

OFC in psychopathy is found in brain lesion studies which

point to comparable performance of psychopaths and indi-

viduals with OFC damage in various tasks. For example, it has

been found that psychopaths – both clinical (Blair et al., 2001a;

Mitchell et al., 2002) and sub-clinical (Van Honk et al., 2002) are

impaired in the Iowa Gambling Task, which was found

sensitive to lesions to ventral and OFC cortices (Van Honk and

Schutter, 2006). Furthermore, it was found that adult

psychopaths present with impaired performance in tasks that

involve reversal learning (Newman et al., 1987; Mitchell et al.,

2002), which is a well established measure of OFC dysfunction

(Rolls, 1996). Nonetheless, although abnormal function or

activation in psychopathy has been demonstrated in the OFC

(Kiehl et al., 2001; Vollm et al., 2004; Birbaumer et al., 2005;

Rilling et al., 2006), there is limited evidence of anatomical

pathology of this brain area in these individuals (Blair, 2007).

Taken together, it appears that a dysfunction in the OFC

may underlie impaired social behavior in psychopathy. While

studies to date have examined general ToM abilities in

psychopaths (Blair et al., 1995; Richell et al., 2003; Dolan and

Fullam, 2004), their affective ToM abilities as compared to

their cognitive ToM abilities have never been examined

before. Furthermore, no previous study has directly compared

these individuals’ performance on ToM tasks to that of

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c o r t e x 4 6 ( 2 0 1 0 ) 6 6 8 – 6 7 7670

participants with OFC lesions. Characterizing ToM abilities in

participants with APD with psychopathic tendencies and

those with brain lesions may contribute to disentangling the

neuroanatomical basis underlying impaired social behavior in

psychopathy.

2. Methods

2.1. Participants

A total number of 64 subjects participated in the study. Ethical

approval was granted by both hospitals (Rambam Medical

Center and Shalvata Mental Health Care Center) Ethics

Committees. All subjects signed informed consent forms after

receiving a complete description of the study. The Similarities

subscale (Wechsler Adult Intelligence Scale-Revised – WAIS-R)

was used in all groups to obtain an estimate of verbal intel-

lectual functioning and match between the different groups.

2.2. Psychopathy group

Twenty-five criminal offenders enrolled from the Israel Prison

Service, screened to fulfill Diagnostic and Statistical Manual

IV – Text Revised (DSM-IV TR) criteria for APD by at least two

senior psychiatrics who suspected that they show psycho-

pathic tendency, were originally referred to the study. The final

sample consisted of 17 participants (16 right handed), whose

diagnosis of psychopathy was further confirmed indepen-

dently by another senior psychiatrist as well as the Levenson

Self-Report Scale:Version III (LSRP III) and by Hare’s (1991) Self-

Report Psychopathy (SRP-II) scale. The SRP-II is a 60-item self-

report version of the Psychopathy ChecklistdRevised (PCLdR)

(Hare, 2003). Nine items from the latter measure form a scale

measuring the personality characteristics associated with the

disorder (Factor 1; internal consistency¼ .47, M¼ 34.4, stan-

dard deviation – SD¼ 6.72), and 13 items comprise a scale that

indexes the behavioral tendencies in psychopathy (Factor 2;

internal consistency¼ .77, M¼ 40.1, SD¼ 12.4). The SRP-II has

the advantage of a close theoretical association with the Hare’s

PCLdR; it is designed to assess the same constructs and has

been shown to be comparable with other self-report measures

of psychopathy. Each item on the SRP-II is scored from 1

(strongly disagree) to 7 (strongly agree). The mean scores of the

LSRP III were 57.65 (SD¼ 6.43) and the mean scores of the SRP-II

were 171.7 (SD¼ 27.75). It should be noted here that as the SRP-

II and the LSRP measures were originally developed to measure

developmental psychopathy and that much less research has

been conducted with these tools with normal populations or

with patients with acquired brain lesions. Thus, these tools

were used only in the psychopathy group.

Finally after careful screening, participants were assessed

by a trained senior psychiatric to rule out axis I disorder

previous head trauma involving loss of consciousness, other

neurological conditions and prior drug abuse. Hamilton

Depression Rating Scale was employed to exclude an active

major depressive episode. Subjects were not currently abusing

recreational drugs, as assessed by a self-report scale. All

participants were unmedicated and did not use any drugs.

Subjects suffering from other neurological problems, a major

physical illness, alcohol or substance abuse were excluded

from the study.

2.3. Lesion groups

The data of the lesion group included the same participants

described in Shamay-Tsoory and Aharon-Peretz (2007) except

that we selected only data of male participants to match the

psychopathy group. Additionally, from the group of patients

with ventromedial lesions only those involving mainly the

OFC lesions were included in the present study.

Male participants with acquired localized, well-defined

brain lesions of various etiologies, referred to the Cognitive

Neurology Unit for cognitive assessment, were recruited for

participation in the present study. Etiologies included head

injury (participants with diffuse axonal injury were excluded),

meningioma, and cerebrovascular accident (CVA). Testing was

conducted at the chronic phase of recovery. For patients with

meningioma we recruited patients at least one year following

the resection of the meningiomas, when they were in a stable

neurological condition, leading a relatively independent life.

Inclusion criteria included post-operative imaging and

behavioral changes only. In addition we did not include

patients who underwent herniation or were stuporous prior to

surgery and assume therefore that the tumor did not have an

irreversible impact on distal brain structure. Patients with

head injury and strokes were recruited at least six months post

trauma. Etiologies included stroke (three participants),

meningioma (seven participants) and head injury (seventeen).

A neurologist who was blind to the study’s hypotheses and the

neuropsychological data carried out anatomical classification

based on acute and recent computerized tomography (CTs) or

magnetic resonance imaging (MRIs). For participants with

head injury, both the acute neuroradiological studies and the

chronic-recent scans were examined. Lesions included cases

with gray and white matter damage. Localization of lesions

was determined using standard atlases (Damasio, 2005) and

was further transcribed from CT and MRI images to the

appropriate slices of the MRIcro program (Rorden, University

of Nottingham, UK). Twenty-five patients were right handed

and two were left handed. Subjects were divided into three

groups (Fig. 2): [1] OFC group (N¼ 8), if damage principally

involved orbitofrontal and/or the ventral portion of the medial

wall of the frontal lobe (Brodmann area mesial 10, 11, 12, 13 and

47); [2] dorsolateral (dorsolateral prefrontal cortex – dlPFC)

group (N¼ 9), if damage principally involved superior frontal

gyrus and dorsal parts of the middle frontal gyrus, the Pars

opercularis and the Pars triangularis (Brodmann areas 8, 9 and

44, 45, 46); and [3] non-frontal lesions (the non-frontal – NF

group, N¼ 10), involving damage outside the frontal lobes.

The volume of lesions ranged from .90 cm3 to 85.063 cm3

(mean¼ 29.43 cm3, SD¼ 25.99 cm3). To test differences in lesion

size among groups, one-way analysis of variance (ANOVA) was

conducted. This analysis did not show any significant differ-

ences among the three lesion groups [F(2,24)¼ .589, ns], indi-

cating that lesion sizes were not different between groups.

The healthy control group consisted of twenty male indi-

viduals (mean age 27.70, range 20–56), with no known

psychiatric disorders (as measured by the Mini International

Neuropsychiatric Interview), who responded to an

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Fig. 2 – Location and overlap of brain lesions. Panel (a) lesions of the 8 subjects with OFC damage, panel (b) lesions of the 9

subjects with dlPFC damage and (c) lesions of 10 subjects with damage outside the frontal lobes (NF). Lesions are projected

on four axial slices and one sagittal view of the standard Montreal Neurological Institute brain, oriented according to

radiological convention (i.e., left is right). Areas damaged in one subject are shown in pink; brighter shades denote the

degree to which lesions involve the same structures in 2 or more individuals, as indicated in the legend.

c o r t e x 4 6 ( 2 0 1 0 ) 6 6 8 – 6 7 7 671

advertisement and signed an informed consent form. Subjects

with neurological problems, major physical illness, alcohol or

substance abuse were excluded from the control group.

2.4. Assessment of first- and second-order cognitiveand affective ToM

For extended description of the task please see Shamay-Tsoory

and Aharon-Peretz (2007) In short, the task consists of 64 trials,

each showing a cartoon outline of a face (named ‘‘Yoni’’) and

four colored pictures of objects belonging to a single category

(e.g., fruits, chairs) or faces, one in each corner of the computer

screen. The subject’s task is to point to the correct answer (the

image to which Yoni is referring), based on a sentence that

appears at the top of the screen and available cues, such as

Yoni’s eye gaze, Yoni’s facial expression or the eye gaze and

facial expression of the face to which Yoni is referring (see

Fig. 3). There are three main conditions: ‘‘cognitive’’, ‘‘affec-

tive’’ and ‘‘physical’’ conditions. The cognitive, affective and

physical conditions required either a first- or a second-order

inference. As shown in Fig. 3a, in the cognitive conditions, both

Yoni’s facial expression and the verbal cue are emotionally

neutral, whereas in the affective conditions, both cues provide

affective information. On the other hand in the second-order

condition (Fig. 2a: Cog2, Aff2, Phy2), the four stimuli consist of

face images and the choice of the correct response requires

understanding of the interaction between each of these figures

and Yoni’s mental state. Another condition was added, in

which Yoni’s gaze was directed straight ahead. This was done

following a pilot study which demonstrated that some

individuals responded automatically to the stimuli to which

Yoni’s gaze was directed and avoided reading the sentences.

We have previously reported that there were no differences in

participants with lesions performance between the directed

and straight ahead conditions.

2.4.1. Assessment of empathyTo assess empathy multi-dimensionally, we administered the

Interpersonal Reactivity Index (IRI). The IRI (Davis, 1983), is

a 28-item self-report questionnaire that measures both

components of empathy. To date, it is the only published

measure that allows a multi-dimensional assessment of

empathy. The questionnaire contains four 7-item scales (two

cognitive scales and two affective scales). The two cognitive

scales are: (a) the perspective taking (PT) scale which

measures the reported tendency to adopt spontaneously the

psychological point of view of others (‘‘I sometimes try to

understand my friends better by imagining how things looks

from their perspective.’’); (b) the fantasy scale (FS), measuring

the tendency to imaginatively transpose oneself into fictional

situations (‘‘When I am reading an interesting story or novel I

imagine how I would feel if the events in the story were

happening to me’’).

The two affective scales are the empathic concern (EC)

scale and the personal distress (PD) scale. The EC scale taps

the respondents’ feelings of warmth, compassion, and

concern for others (e.g., ‘‘ I often have tender, concerned

feelings for people less fortunate than me’’). The PD scale

assesses self-oriented feelings of anxiety and discomfort

resulting from tense interpersonal settings (e.g., ‘‘being in

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Fig. 3 – Sample of items: (a) presents the first order cognitive and affective ToM conditions as well as the physical conditions.

The correct answers are marked by a circle. (b) presents the second-order cognitive, affective and physical conditions. The

correct answers are marked by a circle.

c o r t e x 4 6 ( 2 0 1 0 ) 6 6 8 – 6 7 7672

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c o r t e x 4 6 ( 2 0 1 0 ) 6 6 8 – 6 7 7 673

a tense emotional situation scares me’’). Individual scores are

calculated for each subscale.

3. Results

As shown in Table 1 the groups did not differ from each other

in terms of estimated intellectual abilities [t(4,59)¼ .908, NS] as

measured by the Similarities subscale. However, significant

differences between groups were observed in overall age

[F(4,59)¼ 3.390, p¼ .015]. Post-hoc analysis (Duncan) indicated

that the healthy controls (HC) and the psychopathy group

were significantly younger than the NF group ( p< .05). The

rest of the groups did not differ from each other. Therefore,

the age variable was later used as a covariate.

3.1. Affective and cognitive ToM

As presented above, the task involved 3 main conditions:

‘cognitive’ ‘affective’ and ‘physical’. Therefore, the primary

variable of interest was the type of judgment (cognitive,

affective and physical). In order to obtain measures of the

trends and interactions over the different types of judgment,

a repeated measures analysis of variance was conducted, with

the type as the within-subjects factor and group as the

between-subjects factor.

3.1.1. First-order judgment (Cog1, Aff1, Phy1)This analysis revealed a non-significant type effect

[F(2,58)¼ .452, ns]. A non-significant group by type (interac-

tion) effect [F(2,114)¼ 1.271, ns] indicated that the pattern of

accuracy of types (cognitive, affective, physical) did not differ

between groups in the first-order conditions.

To rule out the possibility of a ceiling effect in the 1st order

condition a One sample T-test which examined whether the

mean of the Aff1, Cog1 and Phy1 variables differs from 100%

was conducted. This analysis revealed that scores in the Aff1

(t(53)¼�3.605, p¼ .001), Cog1 (t(53)¼�3.095, p¼ .003) as well

as the Phy1 (t(53)¼�2.894, p¼ .006) conditions significantly

differed from 100%.

3.1.2. Second-order judgment (Cog2, Aff2, Phy2)A repeated measures analysis revealed a significant type

effect [F(2,58)¼ 31.168, p¼ .0001], indicating significant

differences in accuracy between types (cognitive, affective,

Table 1 – Mean and SD demographic variables and accuracy in

Psychopathy OFC

Age 29.82 (10.09) 39.22 (14.87)

Intellectual abilities 11.55 (6.43) 9.56 (1.13)

Cog1 98.06 (4.69) 92.75 (9.42)

Aff1 97.12 (6.49) 96.00 (4.27)

Phy1 88.29 (24.79) 95.50 (6.21)

Cog2 74.06 (13.76) 63.50 (14.59)

Aff2 73.94 (10.15)a 68.75 (13.09)a

Phy2 98.82 (4.85) 92.50 (10.35)

a Significantly different than the HC group.

b Significantly different from the HC and the psychopathy group.

physical) with significantly higher accuracy in the Phy2 as

compared to the Cog2 and the Aff2 conditions ( p< .05). A

significant group by type interaction [F(8,114)¼ 3.060, p¼ .004]

indicated that the pattern of accuracy of types (cognitive,

affective, physical) was significantly different between

groups.

To examine the specific differences between groups in

affective ToM, follow-up ANOVAs were conducted with post-

hoc comparisons (Duncan). This analysis indicated

significant group differences in accuracy in the Aff2 condition

[F(4,59)¼ 2.951, p¼ .027] and in the Phy2 condition

[F(4,59)¼ 3.188, p¼ .019] but not in the Cog2 con-

dition[F(4,59)¼ 2.091, ns]. Post-hoc analysis revealed that the

in the Aff2 condition only the OFC and the psychopathy

groups had significantly lower accuracy scores in comparison

to the HC ( p< .05), suggesting that individuals in the OFC and

psychopathy groups were more impaired on the affective task

(Aff2) than the HC. The OFC group was also significantly

different from the NF group ( p< .05) and the psychopathy

group was marginally different from the NF group ( p¼ .08). On

the other hand, post-hoc analysis indicated that in the Phy2

conditions only the NF group was significantly different than

the psychopathy group suggesting that NF participants had

significantly lower accuracy scores in the control condition

than the psychopathy group (see Table 1).

As age was found as significantly different between groups

we reanalyzed the repeated ANOVA with the age variable as

a covariate. This analysis revealed a significant type effect

[F(2,57)¼ 3.188, p¼ .049], indicating significant differences in

accuracy between types (cognitive, affective, physical). A

significant group by type (interaction) effect [F(8,112)¼ 2.896,

p¼ .006] indicated that the pattern of accuracy of types

(cognitive, affective, physical) remained significantly different

between groups while taking into account the age variable.

Fig. 4 shows the relative performance of the different

groups in the Aff2, Cog2 and Phy2 conditions. As it clearly

demonstrated, the OFC and the psychopathy groups show

a similar pattern of performance, which is quite different from

all other groups, indicating that the emotional ToM impair-

ments observed in the OFC and the psychopathy groups are

similar across conditions.

3.1.3. Asymmetry of the lesionThe effect of lesion asymmetry on ToM was examined by

dividing the prefrontal and the NF patients into unilateral

affective and cognitive ToM and physical conditions.

dlPFC NF HC

35.55 (8.56) 40.50 (17.89)b 27.70 (8.36)

11.17 (1.94) 10.75 (1.81) 12.88 (4.96)

99.11 (2.67) 100.00 (0) 92.50 (15.98)

96.33 (8.42) 99.20 (2.53) 90.45 (16.84)

97.33 (5.29) 96.40 (5.79) 96.55(8.83)

84.33 (18.78) 79.20 (14.98) 76.70 (23.00)

80.78 (18.14) 80.10 (16.71) 87.15 (16.52)

97.78 (6.67) 86.00 (16.47)a 95.00 (8.88)

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Fig. 4 – The relative performance of the different groups in

the Aff2, Cog2 and Phy2 conditions.

Fig. 5 – Performance on the affective ToM conditions was

negatively correlated with the SRP scores (r [ L.490,

p [ .023).

c o r t e x 4 6 ( 2 0 1 0 ) 6 6 8 – 6 7 7674

subgroups (Rt PFC, Lt PFC, Rt NF, Lt NF and the bilateral PFC

group), according to the asymmetry of the lesion. Due to the

small number of patients in each group, it was impossible to

further divide these groups according to specific locations

within the PFC and NF. To test differences between groups in

specific types and levels (Cog1, Cog2, Aff1, Aff2, Phy1, Phy2),

one-way ANOVAs were conducted. Results indicated signifi-

cant group differences in accuracy only in the Aff2 condition

[F(6,57)¼ 4.414, p¼ .001] and Phy2 condition [F(6,57)¼ 4.525,

p¼ .001]. Post-hoc analysis (Duncan) of the Aff2 condition

revealed that the Lt PFC (mean¼ .59, SD¼ .12) had significantly

lower accuracy scores in comparison to the Rt PFC (mean¼ .85,

SD¼ .14), bilateral PFC (mean¼ .77, SD¼ .05), Lt NF (mean¼ .88,

SD¼ .14) and HC (mean¼ .87, SD¼ .17) but not from the

psychopathy group (mean¼ .74, SD¼ .10). The psychopathy

group was not significantly different from the rest of the

groups. Additionally, post-hoc analysis of the Phy2 condition

revealed that the Lt NF group was significantly impaired

(mean¼ .76, SD¼ .17) compared to the rest of the groups.

3.1.4. Empathic abilitiesA multivariate-ANOVA of cognitive and emotional empathy

scores as measured by the IRI, with age as a covariate, indi-

cated a significant difference between groups [F(8,104)¼ 3.816,

p¼ .001] in empathy. Tests of between-subjects effect indi-

cated that the groups were significantly different from each

other in cognitive empathy [F(4,60)¼ 4.772, p¼ .002] but not in

emotional empathy [F(4,60)¼ .769, ns]. Post-hoc analysis

indicated that patients with lesions in the OFC had signifi-

cantly lower scores than the HC ( p< .05). The psychopathy

group differed marginally significantly from the HC group

(p¼ .07) but was not different from the OFC group. The rest of

the groups did not differ from each other.

According to our model presented in Fig. 1, we further

speculated that cognitive empathic ability would be positively

correlated with affective ToM. Indeed, correlation analysis

indicated that the cognitive empathy scores significantly

correlated (r¼ .350, p¼ .007) with the second-order affective

ToM condition (Aff2).

3.2. The relationship between symptoms of psychopathyand impaired ToM

Correlation analysis between levels of psychopathy and the

ToM task revealed a clear relation between performance on

the total affective ToM conditions and total score in the SRP

symptoms scale. As shown in Fig. 5, performance on the

affective ToM conditions was negatively correlated with the

SRP-II scores (r¼�.490, p¼ .023), indicating that severe

psychopathy symptoms are associated with lower accuracy in

the affective ToM conditions. On the other hand, the cognitive

condition did not significantly correlate with SRP scores

(r¼�.114, ns).

4. Discussion

In the present study we assessed cognitive and affective ToM

capacities in criminal offenders diagnosed with APD with high

psychopathy and participants with localized lesions in either

the OFC, dlPFC and non-frontal cortices. We speculated that

the ability to understand particularly affective ToM, is related

to a broader OFC dysfunction and would be therefore impaired

in participants with psychopathy and participants with OFC

lesions but would be preserved in participants with other

frontal or non-frontal lesions. Our basic model suggests that

affective ToM is part of the cognitive empathy system. We

therefore speculated that ‘‘affective ToM’’ is impaired in

psychopathy. Our results support this hypothesis by showing

selective impairment in affective but not in cognitive second-

order ToM or physical conditions in participants with OFC

lesions and participants with psychopathy. The psychopathy

and OFC groups exhibited a similar pattern of performance in

the ToM task further highlighting the role of the OFC

dysfunction in psychopathy. Although the psychopathy

participants did not show impaired performance on basic

first-order ToM tasks based on eye gaze, it was shown that

participants in the OFC and the psychopathy groups did show

impaired second-order affective ToM abilities. This difference

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c o r t e x 4 6 ( 2 0 1 0 ) 6 6 8 – 6 7 7 675

between the results of the first and the second-order condi-

tions indicates that the affective ToM impairment of the OFC

and the psychopathy groups is subtle and could be observed

only in more complex emotional conditions.

In accordance with our previous study (Shamay-Tsoory

et al., 2003) patients with OFC damage were impaired in

cognitive empathy. Interestingly, the psychopathy group was

not different from the OFC group in cognitive empathy.

In addition, patients with left PFC damage showed impaired

performance compared to the other unilateral subgroups

(expect of the right non-frontal – rt NF) in the affective ToM

condition. This finding confirms imaging studies which

suggest that the ability to reason about others’ mental states

may rely particularly on left medial and ventral frontal regions

(Fletcher et al., 1995; Goel et al., 1995; Sabbagh, 2004).

It is important to acknowledge that it is not trivial to

compare patients with acquired lesions with patients with

developmental disorders though our findings accord with the

other recorded instances of behavioral similarities between

patients with psychopathy and patients with OFC lesions

(Mitchell et al., 2006a, 2006b).

One fundamental difference between developmental and

acquired pathologies is that developmental pathologies

involve lifelong behavior dysfunctions and aberrant develop-

ment which may involve different brain development

whereas it is assumed that acquired lesions in adulthood

imply normal brain development. In this regard, Anderson

et al. (1999) investigated long-term consequences of early

prefrontal cortex lesions as compared with PFC damage that

occurred in adulthood. Interestingly, the authors report that

the behavioral defects were more severe in early-onset

patients and that they showed more symptoms of antisocial

behavior, which indicates that the OFC is particularly impor-

tant in acquisition of social knowledge. The authors

concluded that early-onset OFC damage resembles psychop-

athy more than brain damage during adulthood.

Thus, although the OFC demonstrated impaired empathic

abilities as measured by the IRI and impaired affective ToM,

comparing the OFC and the psychopathy groups should be

treated with caution.

Nonetheless, we believe that the significant correlation

between levels of psychopathic symptoms and performance

in the affective ToM conditions may indicate that the results

of our criminal sample could be generalized to the spectrum of

psychopathy. This suggests that individuals with psychop-

athy may demonstrate impaired affective ToM and that this

impairment could be accounted for OFC dysfunction.

4.1. ToM deficits in psychopathy

Previous studies have demonstrated that individuals with

psychopathy do not present with gross impairments in first-

and second-order false belief tasks (Widom, 1978; Blair et al.,

1995; Richell et al., 2003; Dolan and Fullam, 2004). However, in

more complex tasks involving detection of social faux pas and

recognition of emotions in social situations it has been

reported that psychopathic individuals may show some

impaired performance (Dolan and Fullam, 2004).

One possible explanation for the discrepant findings

between studies may reflect the difference in tasks demand

utilized in these studies. The primary difference between the

tasks utilized in the above mentioned studies suggests that

these tasks involve different processes. For example, whereas

performance of the second-order false belief task requires

cognitive understanding of the difference between the

speaker’s knowledge and that of the listener, identification of

social faux pas requires in addition an empathic appreciation

of the listener’s emotional state (Baron-Cohen et al., 1999).

Indeed, there is ample of evidence that psychopaths exhibit

deficits in nonverbal emotional processing (Blair et al., 2001b;

Montagne et al., 2005; Dolan and Fullam, 2006). Thus, it is

possible that like participants with OFC lesions (Stone et al.,

1998) the ToM difficulties observed in individuals with

psychopathy are limited to affective ToM. It may be that it is

this key connection – the interplay between cognition and

emotion, and hence utilizing integration of emotional infor-

mation with mindreading processes – that is particularly

problematic for psychopathic individuals. As the present

results demonstrate this integration between emotion and

ToM may take place in the OFC, which reinforce our basic

model and theoretical framework.

4.2. The OFC and psychopathy

Despite the abundance of evidence linking emotional pro-

cessing to frontal lobe dysfunction, evidence for underlying

OFC deficits in psychopathy is limited. In a first recent report,

gray matter reductions were observed (using voxel-based

morphometry) in the frontopolar and OFC regions of partici-

pants with psychopathy (de Oliveira-Souza et al., 2008).

Furthermore, the similarities observed in the present study

between the psychopathy and OFC groups are consistent with

other reports of comparable performance on reversal task

between participants with psychopathy and participants with

OFC lesions (Mitchell et al., 2006a, 2006b).

Blair (2007) has recently argued that the integrated func-

tioning of the medial OFC as well as amygdala underlies the

impairments in socialization and appropriate decision

making seen in psychopathy. Indeed, the resemblance

between the OFC and the psychopathy groups may point to

a dysfunction in the frontolimbic circuitry in psychopathy.

It appears that the unique function of the OFC may

underlie affective ToM abilities. The intimate connections of

the OFC to the anterior insula, temporal pole, inferior parietal

lobe, and amygdala place it in a position to evaluate and

regulate information from limbic system that can be used to

inhibit behavior, regulate emotions thus to understand their

emotional mental states.

It has been suggested that the OFC is involved particularly

in emotion-related learning. The learning deficits associated

with damage to the OFC include impaired extinction and

impaired visual discrimination reversal, leading to inappro-

priate emotional and social behavior (Newman et al., 1987).

Similarly, it was suggested that the medial parts of the OFC

participate in integrating mental representations with affec-

tive value. According to Damasio’s (1994) ‘somatic marker

hypothesis’ emotional learning is established by somatic or

bodily feelings that serve to ‘mark’ behaviors that have

a negative or positive outcome for the individual (Van Honk

and Schutter, 2006). It appears that affective ToM involves

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c o r t e x 4 6 ( 2 0 1 0 ) 6 6 8 – 6 7 7676

a joint participation of basic ToM as well as emotional pro-

cessing. Therefore, OFC dysfunction would result in a split

between representations of mental states and their affective

value, leading to intact cognitive ToM on one hand and

impaired affective ToM on the other hand.

Collectively, it can be concluded that individuals with

psychopathy do not suffer from a general impairment in ToM,

rather, it seems plausible that psychopaths exhibit affective

ToM deficits. It appears that this pattern of ToM deficit char-

acterizes OFC dysfunctions which points to a possible OFC

deficits in psychopathy.

There are several limitations that need to be acknowledged

and addressed regarding the present study. The first limitation

concerns the various etiologies of lesions. Most of the patients

in this study sustained a closed head injury. Although cases of

apparent diffuse axonal injury were excluded and the propor-

tion of patients with head injury was matched between the

different groups, it is impossible to completely rule out the

possibility that in some patients lesions were more diffuse.

Finally, it should be noted that the performance within each

group supports our conclusions to a lesser extent. Neverthe-

less, the fact that the entire pattern of performance in the

cognitive, affective and physical conditions as reflected in Fig. 4

resembled between the psychopathy and OFC groups and that

both groups showed impaired affective ToM, demonstrate the

similarities between the OFC and the psychopathy groups.

r e f e r e n c e s

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Mundus Imaginalis, o l'Immaginario e l'Immaginale (Henry Corbin)

Offrendo le due parole latine mundus imaginalis come titolo di questa discussione, intendo provare a definire un ordine di realtà che corrisponda a un certo tipo di percezione, poiché la terminologia latina ha il vantaggio di fornire un punto di riferimento tecnico preciso, con cui confrontare i più o meno idonei equivalenti dei linguaggi moderni occidentali.

Ma farò subito un’ammissione. La scelta di queste due parole mi si impose qualche tempo fa, poiché non mi era possibile, per quello che traducevo o dicevo, essere soddisfatto dal termine ‘immaginario’. Non si tratta in nessun modo di una critica verso chi adopera per necessità questa parola, se cerchiamo insieme di giungere ad una sua positiva rivalutazione. A prescindere dai nostri sforzi, però, non possiamo evitare che il termine ‘immaginario’, nell’uso corrente e non deliberato, sia l’equivalente di non-reale, qualcosa che indica ciò che rimane estraneo all’essere e all’esistente – in breve, utopistico. Perciò ero assolutamente obbligato a trovare un altro termine se non volevo confondere i lettori occidentali.

Se indichiamo solitamente l’immaginario come irreale, utopistico, questo deve essere sintomo di qualche cosa. Di contro a questo sintomo, possiamo esaminare brevemente insieme l’ordine di realtà che io ho designato come ‘mundus imaginalis’ e cosa i teosofi islamici indicano come ‘ottavo clima’; esamineremo poi l’organo che percepisce questa realtà, precisamente, la coscienza immaginativa, l’Immaginazione cognitiva; e infine presenteremo alcuni esempi, tra i tanti altri ovviamente, che tratteggino la topografia di questi intramondi, così come sono stati osservati da coloro che realmente sono stati lì.

Ho appena nominato l’utopia. E’ strano, ma anche un esempio decisivo, che i nostri autori usino un termine persiano che sembra esserne l’esatto calco linguistico: Na-kojd-Abad, la “Terra di Nessundove”. Eppure si tratta di qualcosa di totalmente differente da un’utopia.

Leggiamo quindi i bellissimi racconti persiani – insieme fiabe visionarie e temi di iniziazione – di Sohravardi, il giovane Shaykh che, nel dodicesimo secolo fu il “restauratore della teosofia dell’antica Persia” nell’Iran islamico. All’inizio di ogni storia, il visionario si trova alla presenza di una figura soprannaturale di straordinaria bellezza, a cui il visionario chiede chi sia e da dove venga. Questi racconti narrano essenzialmente l’esperienza dello gnostico, vissuta come la personale vicenda dello Straniero, il prigioniero che aspira a ritornare a casa.

Al principio della storia che Sohravardi intitola “L’Angelo Rosso” il prigioniero, sfuggito alla sorveglianza dei suoi aguzzini, ovvero temporaneamente lasciato il mondo dell’esperienza sensoriale, si trova nel deserto alla presenza di un essere al quale domanda, poiché vede in lui il fascino dell’adolescente: “Oh giovane! da dove vieni?” e riceve la risposta “Cosa dici? Io sono il primo nato tra i figli del Creatore [in termini gnostici il Protoktistos, il Primo-Creato] e tu mi chiami giovane?”. Questa è l’origine del colore rosso dei suoi abiti: l’apparire di un essere di pura Luce il cui splendore è ridotto, dal mondo sensoriale, nel rosso del crepuscolo. “Provengo da oltre il monte di Qaf… Là eri in origine, e lì ritornerai quando infine ti libererai dai tuoi legami”

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La montagna di Qaf è la montagna cosmica costituita, di vetta in vetta, di valle in valle, dalle Sfere celesti che sono racchiuse una nell’altra. Qual è, dunque, la strada che porta al di fuori di essa? Quanto è lunga? “Non importa quanto a lungo camminerai” è detto “arriverai di nuovo al punto di partenza” come la mina del compasso che ritorna allo stesso punto. Ciò implica abbandonare se stessi al fine di conquistare se stessi? Non esattamente. Tra i due, c’è un evento che cambia tutto; il sé stessi che si trova là è quello al di là del monte di Qaf, un sé superiore, un sé “in seconda persona”. Sarà necessario, come Khezr (o Khadir il profeta misterioso, l’eterno viandante) bagnarsi alla Sorgente della Vita. “Colui che ha trovato il significato della Vera Realtà è arrivato alla Sorgente. Quando emerge dalla Sorgente, ha conquistato l’Attitudine che lo rende come un balsamo, di cui se verserai una sola goccia nel cavo della mano, tenendola rivolta al sole, ed essa passerà sul dorso della mano. Se sei Khezr, passerai anche senza difficoltà attraverso la montagna di Qaf.

Altri due racconti mistici danno un nome a ciò che “al di là delle montagna di Qaf, è il nome che segna la trasformazione dalla montagna cosmica alla montagna psicocosmica, la transizione del cosmo fisico in ciò che costituisce il primo livello dell’universo spirituale. Nel racconto intitolato ‘Il frullo delle ali di Gabriele’ appare nuovamente la figura che Avicenna chiama Hayy ibn Yaqzan (“il Vivente, figlio del Guardiano”) e che, in questo caso, è detta l’Arcangelo Rosso. La domanda d’obbligo viene perciò rivolta e la risposta è la seguente: “Provengo da Na-koja-Abad”. Infine nel racconto intitolato “Vademecum del Fedele d’Amore” (Mu'nis al-'oshshaq), in cui è rappresentata una triade cosmogonia le cui dramatis personae sono, rispettivamente, Bellezza, Amore e Tristezza, la Tristezza appare a Ya'qab piangendo per Giuseppe nella terra di Canaan. Alla domanda: “Quale orizzonte hai attraversato per giungere qui?” viene data la stessa risposta: “Io vengo da Na-koja-Abad”

Na-koja-Abad è uno strano termine. Non si trova in alcun dizionario di persiano e fu coniato, per quanto ne so, dallo stesso Sohravardi, attingendo dal più puro retaggio linguistico persiano. Letteralmente, come ho detto, significa la città, la regione o il territorio (abad) di Nessun-dove (Na-koja). Siamo perciò di fronte ad un termine che, a prima vista, ci appare come l’esatto equivalente del termine ou-topia che, a sua volta, non si trova nei dizionari di greco classico, e fu coniato da Thomas More come nome astratto per designare l’assenza di localizzazione, di qualsiasi sito nello spazio esperibile e verificabile mediante i nostri sensi. Etimologicamente e letteralmente si potrebbe tradurre esattamente Na-koja-Abad con outopia, utopia, eppure rispetto al concetto, all’intenzione e al vero significato io ritengo che sarebbe una traduzione scorretta. Mi sembra, perciò, che sia di fondamentale importanza tentare, almeno, di determinare perché si tratterebbe di una cattiva traduzione.

Si tratta di una precisazione indispensabile, se vogliamo comprendere il significato e le reali implicazioni delle molteplici informazioni sulla topografia esplorata nello stato di visione, lo stato intermedio tra la veglia e il sonno – informazioni che per esempio, tra gli spiritualisti dell’Islam Sciita, riguardano la “terra dell’Imam nascosto”. Precisazione che, portando la nostra attenzione a differenziare una intera regione dell’anima, e quindi un’intera cultura spirituale, ci porta a chiedere: quali condizioni rendono possibile ciò che chiamiamo solitamente utopia e, di conseguenza, l’uomo utopico? Come e perché fa la sua apparizione? Mi domando, infatti, se forme equivalenti si trovino e dove, tra le forme tradizionali del pensiero islamico. Non credo, ad esempio, che quando Farabi, nel decimo secolo, descrive la “Città Perfetta”, o il filosofo Andaluso Ibn Bajja (Avempace), nel dodicesimo secolo, riprende lo stesso tema ne “La Regola del Solitario” – non credo che nessuno di loro contemplasse ciò che oggi chiamiamo un’utopia sociale o politica. Leggerli in questo senso sarebbe, io temo, distoglierli dai propri presupposti e prospettive allo

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scopo di imporre i nostri, le nostre dimensioni; soprattutto, temo implicherebbe cadere nella confusione tra Città Spirituale e Città immaginaria.

La parola Na-koja-Abad non indica qualcosa di inesistente, privo di dimensione spaziale. La parola persiana abad significa di sicuro una città, una terra coltivata e popolata, dunque qualcosa che possiede un’estensione. Quello che intende Sohravardi con l’essere “al di là del monte Qaf” è quello che per lui e per l’intera tradizione teosofica dell’Islam rappresenta l’insieme delle tre città mistiche di Jabalqa, Jabarsa e Hurqalya. Come indicazione topografica, si afferma precisamente che questa regione inizia “sulla superficie convessa” della Nona Sfera, la Sfera delle Sfere, ovvero la Sfera che include l’intero cosmo. Questo significa che ha inizio nell’esatto momento in cui ci si eleva oltre la Sfera suprema, che definisce tutte le possibili direzioni sul nostro mondo, la “Sfera” cui si riferiscono i punti cardinali del cielo. E’ evidente che quando si è superato il vincolo spaziale, la domanda “dove?” (ubi, koja) perde di significato, quantomeno rispetto alla domanda di orientamento nello spazio sensoriale. Ecco dunque il nome Na-koja-Abad: un luogo al di fuori dello spazio, non “luogo” non contenuto in un luogo, in un topos che permetta di rispondere con un gesto della mano alla domanda “dove?”. Ma quando diciamo “Partire da dove” cosa intendiamo?

Di sicuro non si tratta di un cambiamento della posizione nello spazio, del trasferimento da un luogo a un altro, poiché ciò implica dei luoghi contenuti in un unico spazio omogeneo. Come suggerito dal finale della novella di Sohravardi, con il simbolo della goccia di balsamo esposta al sole sul cavo della mano, si tratta di entrare, passando all’interno e, passando all’interno, ritrovarsi, paradossalmente al di fuori, o nel linguaggio dell’autore, “sulla superficie convessa” della Nona sfera – in altre parole, “al di là del Monte Qaf”. La relazione di cui si parla è essenzialmente quella tra l’esterno, il visibile, l’essoterico (in arabo, zhair), e l’interno, l’invisibile, l’esoterico (in arabo, batin), ovvero il mondo naturale e il mondo spirituale. Partire dal ‘dove’, dall’ubi, è abbandonare l’apparenza esterna o naturale che racchiude le realtà interiori o nascoste, come la mandorla è nascosta nel guscio. Questo passaggio avviene affinché lo Straniero, lo gnostico, ritorni a ‘casa’ – o quantomeno si diriga verso quel ritorno.

Accade però qualcosa di strano: una volta compita la transizione, la realtà che prima era nascosta o interna si rivela d’ora in avanti essere l’involucro, che circonda e contiene ciò che prima era esterno e visibile, poiché con l’interiorizzazione si abbandonata quella realtà esteriore. D’ora in avanti è la realtà spirituale ad avvolgere, circondare e contenere la realtà cosiddetta materiale. Ecco perché la realtà spirituale non è in un ‘dove’. Il ‘dove’ si trova al suo interno. Oppure, meglio, è essa stessa il ‘dove’ di tutte le cose; non può trovarsi perciò in un luogo, non può ricadere sotto la domanda ‘dove?’ – l’ubi riferibile ad un luogo nello spazio sensoriale. Il suo luogo (il suo abad) in relazione a questo è il Na-koja (nessun-dove), perché l’ubi che le appartiene nello spazio sensoriale è l’ubiquo (ovunque). Se abbiamo compreso questo, abbiamo compreso l’essenziale per seguire la topografia delle esperienze visionarie, distinguere i loro significati (cioè direzione e significato, simultaneamente) e un altro aspetto fondamentale, cioè ciò che distingue la percezione spirituale degli individui spirituali (Sohravardi e molti altri) da tutto quello che il vocabolario moderno sussume sotto il senso peggiorativo di creazione, immaginazione, fino a follia utopistica.

Dobbiamo incominciare a distruggere, con tutte le nostre forze, anche a costo di combattere ogni giorno, quello che si chiama il “riflesso agnostico” dell’uomo occidentale, perché ha permesso il divorzio tra pensiero ed essere. Molte recenti teorie traggono origine da questo riflesso, grazie al quale speriamo di sfuggire all’altra realtà - prima che certune

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esperienze ed evidenze ci portino in essa – e di sfuggirla nel caso in cui segretamente siamo stati soggiogati dalla sua attrazione, per mezzo delle più ingenue spiegazioni, tranne una: quella che permetterebbe di attribuirle un significato vero alla sua esistenza. Perché ci restituisca questo significato dobbiamo, in ogni caso, avere a disposizione una cosmologia che superi le più stupefacenti informazioni a disposizione delle scienze moderne sull’universo fisico, abbandonandole ad un livello inferiore. Poiché, fintanto che si tratta di questo genere di informazioni, rimaniamo vincolati a “Questo lato del monte Qaf”. Il tratto distintivo della cosmologia tradizionale dei teosofi dell’Islam, per esempio, è che essa si dipana laddove i mondi e gli intramondi “al di là del monte Qaf”, cioè al di là dell’universo fisico, sono collocati su livelli intelligibili di esistenza solo in ragione di un atto d’essere conforme con la propria presenza in quei mondi e, per reciprocità, è per l’armonia con il proprio atto d’essere che quei mondi sono presenti. Quale dimensione, quindi, deve avere questo atto d’essere per essere, o per divenire nel corso delle sue nascite future, il luogo di questi mondi che si trovano fuori dal nostro spazio naturale? E prima di tutto, cosa sono questi mondi?

Posso fare riferimento a pochi testi. Un certo numero di essi si possono trovare tradotti e raccolti nel libro che ho intitolato “Corpo spirituale e terra celeste”. Nel “Libro delle Conversazioni” Sohravardi scrive: “Quando hai imparato dai trattati degli antichi saggi che esiste un mondo dotato di dimensioni e di estensione, diverso dal pleroma delle Intelligenze (cioè, al di sotto di quello delle pure Intelligenze angeliche), e diverso dal mondo governato dagli Spiriti delle Sfere (cioè, un mondo che, pur avendo dimensioni ed estensione, è diverso dal mondo dei fenomeni sensoriali, e superiore ad esso, che include l’universo siderale, i pianeti e le “stelle fisse”), un mondo in cui vi sono innumerevoli città, città tra le quali il Profeta citò Jabalqa e Jabarsa, non precipitarti a definirlo una menzogna, poiché i pellegrini dello spirito possono contemplare quel mondo e trovarvi tutto ciò che si può desiderare”.

Queste poche righe ci mostrano uno schema su cui tutti i nostri filosofi concordano, uno schema che si compone di tre universi, ovvero, di tre categorie di universi. Vi è il nostro mondo fisico sensoriale, che include sia il mondo terreno (governato dalle anime umane) e il mondo siderale (governato dalle Anime delle Sfere); questo è il mondo sensoriale, il mondo dei fenomeni (molk). Vi è il mondo soprasensibile governato dall’Anima o dalle Anime Angeliche, Malakut, in cui si trovano le città mistiche nominate e che incomincia “sulla superficie convessa della Nona Sfera”. Vi è l’universo delle pure Intelligenze Arcangeliche. A questi tre universi corrispondono i tre organi della conoscenza: i sensi, l’immaginazione e l’intelletto, triade a cui corrisponde la triade antropologica: corpo, anima, spirito - triade che regola la triplice evoluzione dell’uomo, da questo mondo alla resurrezione negli altri mondi.

Osserviamo subito che non si riduce il dilemma di pensiero ed estensione all’interno di uno schema cosmologico e gnoseologico limitato al mondo materiale e della comprensione astratta. Nel mezzo dei due si trova un mondo intermedio, che i nostri autori chiamano 'alam al-mithal, il mondo dell’Immagine, mundus imaginalis: un mondo ontologicamente reale come il mondo dei sensi e dell’intelletto, un mondo che richiede una specifica facoltà percettiva, facoltà che è una funzione cognitiva, un valore noetico, pienamente reale come le facoltà della percezione sensoria o dell’intuizione intellettiva. Tale facoltà è il potere immaginativo, quello che dobbiamo evitare di confondere con l’immaginazione che i moderni identificano con la “fantasia” e che, secondo questo parere, produce semplice “immaginario”. A questo punto siamo contemporaneamente al cuore della nostra ricerca e del nostro problema di terminologia.

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Cos’è il mondo intermedio? E quello di cui abbiamo parlato poco fa, chiamandolo “ottavo clima” [nota: Corbin usa “clima” nell’accezione antica. Dizionario De Mauro, Clima: ciascuna delle sette zone in cui i geografi antichi dividevano l’emisfero boreale: il sole illuminò ciascun clima del nostro emisperio (Boccaccio) | regione, paese: fia ne l’Ausonio clima | collocata nel numer de le Dive (Ariosto)]. Per i nostri filosofi, infatti, il mondo dell’estensione percepibile include i setti climi della loro geografia tradizionale. Ma esiste anche un altro clima, rappresentato da quel mondo che, pur possedendo estensione e dimensioni, forme e colori, essi non sono percepibili ai sensi, a differenza di quanto accade nei corpi fisici. No, queste dimensioni, forme e colori sono oggetto della percezione immaginativa o dei “sensi psico-spirituali”; e quel mondo, pienamente oggettivo e reale, dove ogni oggetto del mondo sensoriale ha un analogo, non percepibile dai sensi, è il mondo detto ottavo clima. Il termine è abbastanza eloquente di per sé, indicando un clima che si trova al di fuori dei climi, un luogo fuori dallo spazio, fuori dal dove (Na-koja-Abad!).

Il termine arabo con cui si indica, tecnicamente, 'alam a mithal, si può tradurre probabilmente anche con mundus archetypus, evitando ogni ambiguità. Infatti questa è la stessa parola che viene usata in arabo per indicare le Idee platoniche (che Sohravardi interpreterà nei termini del’angelologia zoroastriana). Comunque quando il termine è riferito alle Idee platoniche è quasi sempre accompagnato con la precisazione mothol (plurale di mithal) aflatuniya nuraniya, “gli archetipi platonici della luce”. Quando la parola si riferisce all’ottavo clima invece indica, tecnicamente, le Immagini Archetipe di cose individuali e singolari; in questo caso si riferisce alla regione orientale dell’ottevao clima, la città di Jabalqa, dove queste immagini preesistono e si ordinano prima di essere nel mondo sensoriale. Il termine indica anche la regione occidentale, la città di Jabarsa, il mondo o intermondo in cui si trovano le Anime dopo aver trascorso il loro passaggio nel mondo terrestre naturale e il mondo in cui si trovano le forme di tutte le opere compiute, le forme dei nostri pensieri e desideri, dei presentimenti e dei comportamenti. Questa composizione costituisce l’ 'alam al-mithal, il mundus imaginalis.

Tecnicamente, inoltre, i nostri filosofi lo designarono come il mondo delle “Immagini sospese” (mothol mo'allaqa). Sohravardi e la sua scuola intesero questo un modo proprio delle realtà di questo mondo intermedio, che noi designiamo come Imaginalia. La precisa natura di tale stato ontologico proviene dalla visione e dall’esperienza spirituale, cui Sohravardi ci chiede di basarci completamente, proprio come in astronomia sulle osservazioni di Ipparco o Tolomeo. Si deve riconoscere che le forme e le conformazioni del mundus imaginalis non sussistono allo stesso modo delle realtà empiriche del mondo fisico; altrimenti chiunque potrebbe percepirle. Si deve notare che non possono sussistere nel mondo puramente intelligibile, poiché possiedono estensione e dimensione, una materialità “immateriale”, certamente, in relazione a quella del mondo sensoriale, ma, di fatto, una propria “corporeità” e spazialità (si può pensare qui all’espressione usata da Henry More, un platonico di Cambridge, spissitudo spiritualis, espressione che si ritrova esattamente nell’opera di of Sadra Shirazi, platonico persiano). Per la stessa ragione, si deve escludere che esse abbiano solo il nostro pensiero come substrato, perché sarebbero allora irreali, nulla; d’altra parte, non possiamo discernerle, classificarle in gerarchie, o formulare giudizi su di esse. L’esistenza di questo mondo intermedio, mundus imaginalis, appare dunque metafisicamente necessaria; le funzioni cognitive dell’Immaginazione sono ordinate su di esso; si tratta di un mondo il cui livello ontologico è al di sopra di quello del mondo sensibile e al di sotto di quello intelligibile; è più immateriale del primo e meno immateriale dell’ultimo. In esso vi è sempre stato qualcosa di fondamentale importanza per tutti i nostri pensatori teosofi. Da questo dipende, secondo loro, la validità della testimonianza visionaria che percepisce e relaziona gli “eventi del Cielo” e la validità dei

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sogni, dei riti simbolici, dei luoghi creati nella meditazione intensa, la realtà delle visioni immaginative, delle cosmogonie e delle teogonie, e quindi, soprattutto, la verità del senso spirituale percepito dell'istruzione spirituale della rivelazione profetica.

In breve, quello è il mondo dei “corpi sottili” idea che si dimostra indispensabile per dimostrare il collegamento tra il puro spirito e il corpo materiale. Ciò si riferisce alla designazione dell’essere “in sospeso”, cioè quel modo d’essere di tale Immagine o Forma, in quanto sua propria “materia”, è indipendente da ogni sostrato per cui si troverebbe nell’immanenza come un accidente. Questo significa che non può sussistere alla stessa maniere in cui, ad esempio, il colore nero sussiste grazie agli oggetti neri cui è immanente. Il confronto cui i nostri autori sono ricorsi regolarmente è il modo dell’apparenza e della sussistenza delle Immagini “in sospeso” nello specchio. La sostanza materiale dello specchio, metallica o minerale, non è la sostanza dell’immagine, sostanza di cui l’immagine è un accidente. E’ semplicemente il “luogo dell’apparenza”. Questo porta ad una teoria generale dei luoghi epifanici e delle loro forme (mazhar, plurale mazahir) caratteristica della Teosofia Orientale di Sohravardi.

L’Immaginazione attiva è lo specchio eccellente, il luogo epifanico delle Immagini del mondo archetipale; per questo motivo la teoria del mundus imaginalis è legata alla teoria della conoscenza immaginativa e della funzione immaginativa - funzione propriamente centrale e mediatrice, grazie alla posizione mediana e mediatrice del mundus imaginalis. E’ la funzione che permette a tutti gli universi di simbolizzarsi l’uno con l’altro (ovvero esistere in relazione simbolica l’uno con l’altro) e che ci porta a riconocere, sperimentalmente, che le stesse realtà sostanziali assumono forme in relazione a ciascun universo (per esempio, Jabalqa e Jabarsa corrispondono nel mondo sottile agli Elementi del mondo fisico, mentre Hurqalya corrisponde nel mondo sottile al Cielo). E’ la funzione cognitiva dell’Immaginazione che permette di stabilire una rigorosa conoscenza analogica, superando il dilemma del razionalismo, che lascia soltanto la scelta tra i due termini di un dualismo banale: “materia” o “spirito”, un dilemma che la “socializzazione” della coscienza risolve sostituendolo con una scelta non meno fatale: “storia” o “mito”.

Questo genere di dilemma non ha mai tratto in inganno coloro che sono familiari con l’”ottavo clima”, il regno dei “corpi sottili”, soglia del Malakut o mondo dell’Anima. Sappiamo che quando essi dicono che il mondo di Hurqalya inizia “sulla superficie convessa della Sfera suprema” vogliono indicare simbolicamente che quel mondo si trova sul confine in cui si verifica l’inversione della relazione di interiorità espressa dalle preposizioni “in” e “all’interno di”. I corpi spirituali o le entità spirituali non sono più in un mondo, nemmeno nel loro mondo, nel modo in cui un corpo occupa lo spazio, o è contenuto in un altro corpo. Il loro mondo è in essi. Perciò la Teologia attribuita ad Aristotele, la versione araba delle Enneadi di Plotino, che fu annotata da Avvicenna e che tutti i nostri filosofi hanno letto e meditato, spiega che ciascuna entità spirituale si trova nella “totalità della sua sfera Celeste”; ciascuna sussiste, certamente, indipendentemente dalle altre, ma tutte sono simultanee e ciascuna è all’interno di ogni altra. Sarebbe completamente falso descrivere l’altro mondo come un paradiso informale e indifferenziato. Vi è, ovviamente, molteplicità, ma le relazioni nello spazio spirituale differiscono dalle relazioni dello spazio compreso sotto la volta stellata, come il fatto di essere in un corpo differisce dall’essere “nella totalità della propria sfera Celeste”. Ecco perché si può dire: “al di là di questo mondo vi è un cielo, una terra, un oceano, animali, piante e uomini celesti; ma ogni essere là è celestiale; quelle entità spirituali corrispondono a questi esseri umani, ma non vi si trova nulla di terrestre.”

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La formulazione più esatta di tutto questo, nella tradizione teosofica occidentale, si trova probabilmente in Swedenborg. Non si può che restare sorpresi della concordanza o convergenza tra le affermazioni del grande visionario svedese e quelle di Sohravardi, Ibn 'Arabi, o Sadra Shirazi. Swedenborg dice che “tutte le cose in Paradiso appaiono, come nel mondo, avere luogo e dimensione, ma gli angeli non hanno alcuna nozione di luogo e dimensione”. Questo perché “tutti i cambiamenti di spazio nel mondo spirituale sono effetti di variazioni di stato interiori, cioè ogni cambiamento di luogo è in realtà un cambiamento di stato… Si trovano vicini gli uni agli altri quelli che sono simili in stato e sono distanti quelli che sono in stati differenti; e gli spazi del cielo sono semplicemente condizioni esteriori corrispondenti a stati interiori. Per la stessa ragione i cieli sono distinti gli uni dagli altri... Quando qualcuno si sposta da un luogo all’altro... arriva velocemente dove desidera ardentemente andare, e con minore rapidità dove non lo desidera, poiché la via si allunga e si accorcia a seconda del desiderio. Questo ho visto di frequente con mia sorpresa. Tutto ciò esprime come le distanze, e quindi lo spazio, siano pienamente in accordo con gli stati interiori degli angeli; dunque, non vi è idea di spazio nei loro pensieri, sebbene lo spazio esista in loro quanto nel mondo.” [Emmanuel Swedenborg “Heaven and its Wonders and Hell”]

Una tale descrizione è del tutto appropriata al Na-koja-Abad e alle sue misteriose città. In breve, ne segue che esiste un luogo spirituale e un luogo corporeo. Il trasferimento dall’uno all’altro non si svolge affatto in accordo con le leggi del nostro spazio fisico omogeneo. In relazione al luogo corporeo, il luogo spirituale è un Non-dove, e per colui che raggiunga il Na-koja-Abad tutto avviene all’inverso di quanto accade nei fatti della coscienza ordinaria, che rimane orientata all’interno del nostro spazio. Perciò da qui in avanti è il dove, il luogo, a trovarsi dentro l’anima; è la sostanza corporea a risiedere nella sostanza spirituale; è l’anima a racchiudere e trasportare i corpo. Ecco perché non è possibile stabilire dove si situa il luogo dello spirito; non è situato, piuttosto è situante. E’ l’ubi e l’ubiquo. Certamente ci possono essere corrispondenze topografiche tra il mondo sensoriale e il mundus imaginalis, con legami simbolici reciproci. Comunque non vi è passaggio dall’uno all’altro senza una frattura.

Molte testimonianze ce lo dimostrano. Ad un certo momento, si ha una rottura nelle coordinate geografiche che si possono rintracciare sulle nostre mappe. Ma il “viaggiatore” non è conscio del momento esatto; non potrà realizzarlo chiaramente, se non dopo. Se fosse cosciente di quanto gli accade, potrebbe decidere di mutare il suo cammino, o potrebbe indicarlo ad altri. Invece potrà solo riferire dove è stato; non può mostrare la via a nessun altro.

II. L’IMMAGINAZIONE SPIRITUALE

Ora toccheremo un punto decisivo cui tutto il precedente discorso ci ha preparati, precisamente della facoltà che permette l'ingresso nel mundus imaginalis, la migrazione all’ “ottavo clima”. Qual è la facoltà per la quale avviene la migrazione – migrazione che segna il ritorno ab extra ad intra (dall’esterno all’interno), l’inversione topologica (intussuscezione)? Non si tratta dei sensi e nemmeno delle membra dell’organismo fisico, né del puro intelletto, ma del potere intermedio la cui funzione sembra essere di mediatore preminente: l’Immaginazione attiva. Cerchiamo di essere molto chiari nel parlare di questo. Si tratta della facoltà che permette la trasformazione degli stati spirituali interiori in stati esteriori, in visioni-eventi che simbolizzano quegli stati interni. Per mezzo di questa trasmutazione si completano tutte le forme di evoluzione nello spazio spirituale, ovvero, questa trasmutazione è ciò che spazializza lo spazio, che causa lo spazio, la prossimità la distanza e la lontananza che vi si riscontreranno.

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Primo postulato è che l’immaginazione è una pura facoltà spirituale, indipendente dall’organismo fisico e, di conseguenza, capace di sussistere dopo la sua scomparsa. Sadra Shirazi, tra gli altri, si è espresso ripetutamente su questo punto con particolare intensità. Egli afferma che così come l’anima è indipendente dal corpo fisico materiale nel percepire le cose intelligibili, secondo il suo potere intellettuale, l’anima è egualmente indipendente riguardo il suo potere immaginativo e alle operazioni immaginative. Inoltre, quando l'anima è separata da questo mondo, poiché continua ad avere la propria immaginazione attiva al suo servizio, può percepire da sé, per mezzo della sua essenza e di tale facoltà, le cose concrete la cui parvenza, così come realizzata nella sua coscienza e immaginazione, costituisce eo ipso la vera forma dell’esistenza concreta di tali cose (in altre parole, la coscienza e i suoi oggetti sono ontologicamente inseparabili). Tutti questi poteri sono riuniti e concentrati in una singola facoltà, l’Immaginazione attiva. Siccome non è più distratta dai cinque sensi corporei, e non è più sollecitata dalle preoccupazioni del corpo fisico, che è preda delle vicissitudini del mondo esteriore, la percezione immaginativa può finalmente dimostrare la sua essenziale superiorità sulle percezioni sensoriali.

“Tutte le facoltà dell’anima” scrive sadra Shirazi, “sono diventate una singola facoltà, il potere di configurare e rappresentare (taswir e tamthil); la sua immaginazione è diventata come una percezione sensoriale del soprasensibile; la sua visione immaginativa è anch’essa come la vista sensoriale. Similmente, i sensi dell’udito, dell’olfatto e del tatto e del gusto – tutti nella forma di sensi immaginativi – funzionano come facoltà sensoriali, ma regolate al soprasensibile.

Se esteriormente le facoltà sensoriali sono cinque, ciascuna con un proprio organo corrispondente nel corpo, internamente, invece, costituiscono tutte insieme una sola sinestesia (hiss moshtarik). “L’Immaginazione è perciò il currus subtilis (in Greco okhema, veicolo, o [in Proclo, Giamblico, etc.] corpo spirituale) dell’anima, per cui abbiamo una intera fisiologia del “corpo sottile” e quindi del “corpo della resurrezione”, che Sadra Shirazi discute in questo contesto. Per questa ragione rimprovera anche Avicenna per avere identificato gli atti della percezione immaginativa postuma con quanto accade in questa vita durante il sonno, poiché qui, e anche durante il sonno, il potere immaginativo è disturbato dalle operazioni organiche che riguardano il corpo. Occorre molto di più per raggiungere la massima perfezione di attività, libertà e purezza. Altrimenti, il semplice sonno sarebbe un risveglio nell’altro mondo. Non è a questo che allude il detto attribuito da alcuni al Profeta o talvolta al Primo Imam degli Sciiti: “Gli uomini dormono. Solo quando muoiono si risvegliano”.

Un secondo postulato è che l’Immaginazione è una facoltà cognitiva, evidenza che si deve riconoscere. La percezione immaginativa e la coscienza immaginativa possiedono una propria funzione noetica (cognitiva) e un proprio valore in relazione al mondo che gli è proprio – un mondo, abbiamo detto, che è l’ 'alam al-mithal, mundus imaginalis, il mondo delle città mistiche quali Hurqalya, in cui il tempo è reversibile e lo spazio è una funzione del desiderio, perché è solo l’aspetto esterno dello stato interiore.

L’Immaginazione è dunque saldamente in equilibrio tra due altre funzioni cognitive: il suo mondo simbolizza quello cui le due altre facoltà (conoscenza sensoriale e intellettiva) rispettivamente registrano. Vi è di conseguenza una forma di controllo che impedisce all’Immaginazione di vagare e disperdersi, e che le permette di assumere le sue piene funzioni: ad esempio, produrre l’accadimento degli eventi narrati nei racconti visionari di Sohravardi e altri analoghi, perché ogni approccio all’ottavo clima si compie mediante il cammino immaginativo. Si può dire che questa è la ragione della straordinaria solennità dei poemi mistico-epici scritti in Persiano (da 'Attar a jami e a Nur 'Ali1-Shah), che

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costantemente amplificano i medesimi archetipi in nuove forme simboliche. Al fine di riportare l’Immaginazione a vagare e disperdersi, e quindi ad abbandonare le sue funzioni, che sono quelle di percepire o generare i simboli diretti al senso interno, è necessario che il mundus imaginalis, il dominio di Malakut, il mondo dell’Anima - scompaia. Probabilmente si deve datare l’inizio di questa decadenza, in Occidente, al tempo in cui l’Averroismo rigettò la cosmologia Avvicenniana, con le sue gerarchie angeliche intermedie dell’ Animae o Angeli caelestes. Gli Angeli caelestes (una gerarchia inferiore a quella degli Angeli intellectuales) avevano il privilegio del potere immaginativo allo stato puro. Quando l’universo dell’Anima scomparve, fu la funzione immaginativa a essere sbilanciata e svalutata. E’ facile comprendere, quindi, il consiglio dato successivamente da Paracelso di guardarsi da ogni confusione tra l’ Imaginatio vera, come la chiamavano gli alchimisti, e la fantasia “pietra angolare del folle”.

Per questa ragione non possiamo evitare ancora il problema della terminologia. Come mai non abbiamo in lingua francese (o inglese) un termine comune e soddisfacente per esprimere l’idea dell’'alam al-mithal? Ho proposto il latino mundus imaginalis per questa ragione, perchè dobbiamo evitare ogni confusione tra ciò che qui è l’oggetto della percezione immaginativa o immaginante, e ciò che di solito si chiama immaginario. E’ così perché l’attitudine corrente è di contrapporre il reale all’immaginario, come irreale, utopico e di confondere il simbolo con l’allegoria, confondere l’esegesi del senso spirituale con un’interpretazione allegorica. Ora, ogni interpretazione allegorica è innocua; l’allegoria è una copertura, o piuttosto un mascherare qualcosa che è già noto o conoscibile in altro modo, mentre l’apparizione di un’Immagine che abbia la qualità di simbolo è un fenomeno primario (Urphanomen), incondizionato e irriducibile, l’apparizione di qualcosa che non può manifestarsi altrimenti nel mondo.

Né i racconti di Sohravardi, né i racconti della tradizione Sciita, che narrano il raggiungimento della “Terra dell’Imam Nascosto” sono immaginari, irreali o allegorici, precisamente perché l’ottavo clima o la “Terra di Nessun-dove” non è ciò che comunemente chiamiamo utopia. Si tratta certamente di una mondo che rimane al di là della verifica empirica delle nostre scienze. Eppure, chiunque può trovarne l’accesso e l’indicazione. E’ un mondo soprasensibile, in quanto non percepibile tranne dalla percezione immaginativa, e poiché gli eventi che vi accadono possono essere sperimentati solo dalla coscienza immaginativa o immaginante. Dobbiamo essere sicuri di aver compreso, ancora una volta, che non si tratta di ciò che il linguaggio del nostro tempo chiama un’immaginazione, una di una visione che è Imaginatio vera. A questa Imaginatio vera dobbiamo attribuire pieno valore noetico o cognitivo. Se non siamo più capaci di parlare dell’immaginario, eccetto che come “fantasia”, se non possiamo utilizzarlo o tollerarlo che così, abbiamo probabilmente dimenticato le regole e le norme e l’”ordine assiale” che sono responsabili della funzione cognitiva o immaginativa.

Il mondo in cui i nostri testimoni sono penetrati – e incontreremo due o tre di questi testimoni nella sezione finale di questo studio – è un mondo perfettamente reale, persino più evidente e coerente, nella sua realtà, del mondo reale empirico percepito dai sensi. I testimoni erano perfettamente coscienti di essere stati “altrove”; non erano schizofrenici. Si tratta di un mondo nascosto dall’azione dei sensi, che dobbiamo trovare sotto l’apparente certezza oggettiva delle percezioni. Ecco perché non possiamo positivamente definirlo immaginario, nel senso corrente di irreale, inesistente. Così come la parola latina origo ci ha dato la derivata “originale”, io credo che la parola imago ci possa offrire, oltre ad immaginario, per regolare derivazione, il termine immaginale. Avremo quindi il mondo immaginale a fungere da intermediario tra il mondo sensoriale e il mondo intelligibile. Quando incontriamo il termine arabo jism mithali a designare il “corpo

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sottile” che penetra l’”ottavo clima” o il “corpo di resurrezione” possiamo di tradurlo in corpo immaginale, non certo come corpo immaginario. Forse incontreremo, così, minori difficoltà a collocare le figure che non appartengono al “mito” e nemmeno alla “storia”, e forse avremo con noi una sorta di lasciapassare sulla via del “continente perduto”.

Al fine di incoraggiarci in questo cammino, dobbiamo domandare a noi stessi: cosa costituisce il nostro reale, cosa è reale per noi, e se lo lasciassimo, troveremmo qualcosa in più del semplice immaginario, dell’utopia? E che cos’è il reale per i nostri filosofi tradizionali d’Oriente, che potevano accedere all’ “ottavo clima”, il Na-koja-Abad, lasciando lo spazio sensorio senza lasciare la realtà, o meglio, arrivando esattamente alla realtà? Tutto questo presuppone una gradazione dell’essere con molti più livelli della nostra. Dunque non cadiamo in errore. Non basta ammettere che i nostri predecessori, in Occidente, avevano un concetto dell’Immaginazione troppo razionalistico e troppo intellettualizzato. Se non possediamo una cosmologia il cui schema includa, come quello dei nostri filosofi tradizionali, la pluralità degli universi in ordine ascensionale, la nostra Immaginazione rimarrà sbilanciata, e il suo ricorrente ritorno alla volontà di potere sarà una infinita causa di orrori. Dovremo cercare costantemente una nuova disciplina per l’Immaginazione, e avremo grandi difficoltà a trovarla finché vedremo in essa un modo di prendere le distanze da ciò che chiamiamo reale, o di esercitare una influenza sulla realtà. Ora, il reale ci appare arbitrariamente limitato, se lo paragoniamo alla realtà che i teosofi tradizionali hanno visto, e questa limitazione degrada la realtà di per sé. Inoltre, la parola fantasia compare sovente come scusa: fantasia letteraria, ad esempio, o se preferiamo, nello stile e nel gusto di oggi, fantasia sociale.

Ma è impossibile evitare di domandarsi se il mundus imaginalis, nel vero significato del termine, sia necessariamente perduto e lasci spazio unicamente all’immaginario, se non sia stato qualcosa come la secolarizzazione dell’Immaginale nell’immaginario a far trionfare il fantastico, l’orribile, il mostruoso, il macabro, il miserabile e l’assurdo. Dall’altra parte, l’arte e l’immaginazione della cultura islamica nelle forme tradizionali sono caratterizzate dallo ieratico e dal profondo, da solennità, stilizzazione e significato. Non le nostre utopie, non la nostra fantascienza, non il sinistro "omega point"- niente di questo genere accade lasciando questo mondo o giungendo in Na-koja-Abad. Coloro che conobbero l’”ottavo clima” non hanno inventato utopie, né il pensiero ultimo dello Sciismo è una fantasia politica o sociale, ma un’escatologia, poiché si tratta della speranza della reale Presenza, qui e ora, in un altro mondo, e la testimonianza di quell’altro mondo.

III. TOPOGRAFIE DELL’ “OTTAVO CLIMA”

Dobbiamo esaminare ora la teoria generale dei testimoni dell’altro mondo. Dobbiamo domandare a quei mistici che, nell’Islam, ripeterono l’esperienza visionaria dell’assunzione al cielo del Profeta Maometto (mi'raj), che presenta diverse analogie con quella, narrata in un antico libro gnostico, delle visioni celesti del profeta Isaia. Qui, l’attività della percezione immaginativa assume l’aspetto di ierognosi, alta conoscenza sacra. Per completare la nostra discussione, mi limiterò a descrivere alcuni tipici aspetti raccolti dalla letteratura Sciita, perchè il mondo in cui essa ci premetterà di entrare sembra , a prima vista, ancora il nostro mondo, mentre in realtà gli eventi si verificano nell’ottavo clima. Non nell’immaginario, ma nel mondo immaginale, il mondo le cui coordinate non possono essere ricavante dalle nostre mappe, dove il Dodicesimo Imam, l’ “Imam Nascosto” vive una vita segreta, circondato dai suoi compagni, anch’essi velati dallo stesso mistero dell’Imam. Un tipico racconto di questo genere è la storia del viaggio all’ “Isola Verde situata nel Mare Bianco”.

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E’ impossibile descrivere qui, persino a grandi linee, cosa costituisca l’essenza dell’Islam Sciita in relazione a quello che si definisce giustamente ortodossia Sunnita. E’ necessario che si conosca, anche in termini vaghi, il tema predominante dell’orizzonte dei teosofi mistici Sciiti, e precisamente “l’Eterna Realtà Profetica” (Haqiqat mohammadiya), designata come “Logos Musulmano” o “Luce Musulmana” e composta da quattordici entità di luce: il Profeta, sua figlia Fatima, e i dodici Imam. Questo è il pleroma dei “Quattordici Perfetti” per mezzo dei quali si compie la continuazione del mistero della teofania eterna, da mondo a mondo. Lo Sciismo ha dato dunque alla profetologia islamica la sua fondazione metafisica e ha dato, contemporaneamente, l’imamologia come complemento assolutamente necessario. Questo significa che il senso della Rivelazione Divina non è limitato alla lettera, all’essoterico che fa da contesto e contenitore, e che fu enunciata dal Profeta; il senso vero è quello nascosto all’interno, l’esoterico, simbolizzato dalla superficie e che spetta agli Imam rivelare ai loro seguaci. Ecco perché la teosofia Sciita possiede eminentemente il senso dei simboli.

Inoltre, il gruppo ristretto o la dinastia dei dodici Imam non è una dinastia politica in competizione terrena con altre dinastie politiche; si proietta su di loro, in un certo senso, come la dinastia dei guardiani del Graal, nella tradizione Occidentale, si proietta sulla gerarchia ufficiale della Chiesa. L’effimera apparenza terrena dei dodici Imam si è conclusa col dodicesimo che, giovanissimo, si occultò da questo mondo, ma la cui parousia fu annunciata dallo stesso Profeta, la Manifestazione alla fine del nostro Eone, quando avrebbe rivelato il significato nascosto della rivelazione Divina e riempito la terra di pace e giustizia, così come fino a quel momento era stata colma di violenza e tirannia. Presente simultaneamente nel passato e nel presente, il Dodicesimo Imam, l’Imam Nascosto, è stato per dieci secoli la storia della coscienza sciita, una storia su cui, ovviamente, la critica storica non può ragionare, poiché gli eventi, sebbene reali, non di meno non possiedono la realtà degli eventi del nostro clima, ma quella che appartiene all’”ottavo clima”, agli eventi dell’anima, alle visioni. Il suo occultamento avvenne in due periodi differenti: l’occultamento minore (260/873) e l’occultamento maggiore (330/942). Fino a questo punto, l’Imam Nascosto si trova nella stessa posizione di quelli che furono rimossi dal mondo visibile, senza attraversare la morte: Enoch, Elia e Cristo, secondo l’insegnamento del Corano. Egli è l’Imam “nascosto ai sensi, ma presente nel cuore dei suoi seguaci” nella parole della formula consacrata, egli rimane il polo mistico (qotb) di questo mondo, il polo dei poli, senza la cui esistenza questo mondo non continuerebbe ad esistere. Vi è un’intera letteratura sciita su coloro ai quali l’Imam ha manifestato se stesso, o coloro che l’hanno incontrato senza vederlo, durante il periodo del Grande Occultamento.

Naturalmente, la comprensione di queste tesi presuppone alcune premesse che le analisi che abbiamo svolto in precedenza ci permettono di accettare. Il primo punto è che l’Imam vive in un luogo misterioso che non si trova tra quelli verificabili con la geografia empirica; non si situa nelle nostre mappe. Questo luogo è “fuori dallo spazio” ma, non di meno, ha una propria topografia. Il secondo punto è che la vita non è limitata alle condizioni del mondo materiale visibile e alle leggi biologiche che conosciamo. In questo senso si situano eventi della vita dell’Imam Nascosto, come la descrizione dei suoi cinque figli, governatori di misteriose città. Il terzo punto è nell’ultima lettera ai suoi ultimi rappresentanti visibili, con cui l’Imam ammonisce contro l’impostura di coloro che affermano di citare le sue parole, di averlo visto, al fine di pretendere un ruolo pubblico o politico nel suo nome. Ma l’Imam mai escluse di potersi manifestare in aiuto di qualcuno in difficoltà materiali o morali - un viaggiatore smarrito, ad esempio, o un credente preso dallo sconforto.

Tali manifestazioni, però, accadono solo per iniziativa dell’Imam; e se il più delle volte egli appare nei panni di un giovane uomo dalla bellezza soprannaturale, quasi sempre, tranne

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eccezioni, colui che ha ottenuto il privilegio di vederlo sarà cosciente solo in seguito, tempo dopo, di chi sia colui che ha incontrato. Queste manifestazioni avvengono strettamente in incognito; per questo motivo tale evento religioso non può mai essere socializzato. Lo stesso incognito ricopre i compagni dell’Imam, quella elite dell’elite composta da giovani al suo servizio. Essi formano una gerarchia esoterica di numero strettamente limitato, che rimane permanente grazie alla sua sostituzione generazione dopo generazione. L’ordine mistico di cavalieri che circonda l’Imam Nascosto è soggetto alla stessa segretezza assoluta dei cavalieri del Graal, per cui a nessuno è concesso di raggiungerli. Ma qualcuno vi è stato convocato ed è penetrato per un momento nell’ottavo clima; per un attimo questi è stato “nella totalità dei Cieli della sua anima”.

Questa fu l’esperienza del giovane Shaykh iraniano 'Ali ibn Fazel Mazandarani, verso la fine del tredicesimo secolo, esperienza ricordata nel “Racconto delle cose strane e meravigliose che contemplò e vide con i suoi occhi sull’Isola Verde situata nel Mare Bianco”. Qui descriverò soltanto un breve riassunto del racconto, senza entrare nei dettagli. Il narratore si intrattiene a lungo sugli anni e le circostanze della sua vita, precedenti l’evento; ci troviamo di fronte a una personalità intellettuale e spirituale che ha entrambi i piedi ben piantati a terra. Ci racconta come emigrò, di come a Damasco seguì gli insegnamenti di uno shaykh andaluso, e di come era affezionato al suo shaykh; e che quando questi andò in Egitto, il protagonista e altri discepoli decisero di accompagnarlo. Dal Cairo lo seguirono in Andalusia, dove lo shaykh era stato richiamato da una lettera del padre morente. Il nostro narratore era appena arrivato in Andalusia quando lo colse una febbre che durò tre giorni. Una volta ristabilito, arrivò in un villaggio dove vide uno strano gruppo di uomini provenienti da una regione vicina alla terra dei Berberi, non lontana dalla “penisola degli Sciiti”. Gli dissero che il viaggio richiedeva venticinque giorni e l’attraversamento di un vasto deserto. Decise di unirsi al gruppo. Fino a questo punto, siamo più o meno entro le carte geografiche.

Ma non siamo più certi di essere ancora tra queste quando il nostro viaggiatore raggiunge la penisola degli Sciiti, una penisola circondata da quattro mura con alte torri imponenti; il limite esterno della cinta toccava il mare. Chiese di essere condotto alla moschea principale. Lì, per la prima volta, ascoltò, durante la chiamata alla preghiera del muezzin, risuonare dal minareto della moschea l’invocazione Sciita che chiede “Giunga la gioia!”, la gioia, cioè, per la futura apparizione dell’Imam, che ora è nascosto. Per comprendere la sua emozione e le sue lacrime, è necessario pensare alla feroce persecuzione che, nel corso di vari secoli e in vaste aree del territorio dell’Islam, costrinse gli Sciiti, i seguaci dell’Imam, allo stato di segretezza. Il riconoscimento tra Sciiti avviene in base all’osservanza, tipica, dei costumi della “disciplina dell’arcano”.

Il nostro pellegrino si è stabilito con i suoi compagni, quando nota durante le sue passeggiate che non ci sono campi coltivati nella zona. Come si approvvigionano di cibo gli abitanti? Apprende che il cibo arriva loro dalla “Isola Verde situata nel Mare Bianco”, che è una delle isole che appartengono ai figli dell’Imam Nascosto. Due volte l’anno, una flotta di sette navi porta il cibo. Per l’anno in corso il primo viaggio si è già concluso; e si dovranno aspettare dei mesi perché giunga il prossimo. Il racconto descrive il pellegrino trascorrere i suoi giorni circondato dalla gentilezza degli abitanti, ma tormentato dall’attesa dell’arrivo delle navi, camminare instancabile sulla spiaggia guardando il mare, verso ovest. Potremmo essere tentati a credere di trovarci sulla costa atlantica dell’Africa, e che l’Isola Verde appartenga, forse, alle Canarie o alle “Isole Fortunate”. I dettagli che seguono saranno sufficienti a disilluderci. Altre tradizioni situano l’Isola Verde altrove – nel Mar Caspio, ad esempio – proprio per indicare che non esistono coordinate geografiche adatte in questo mondo.

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Infine, siccome per la legge dell’”ottavo clima” l’ardente desiderio accorcia le distanze, le sette navi arrivano in anticipo e fanno il loro ingresso nel porto. Dalla nave più grande discende uno shaykh dall’aspetto nobile e autorevole, bel viso e abiti magnifici. Iniziano a conversare e il nostro pellegrino realizza sbigottito che lo shaykh conosce già tutto di lui, il suo nome e le sue origini. Lo shaykh è il suo Compagno e gli rivela di essere venuto a cercarlo: insieme partiranno per l’Isola Verde. Questo episodio riporta il carattere peculiare del sentimento gnostico di sempre: l’esilio, la separazione dalla propria gente, di cui a malapena si ricorda, e la vaga idea che in qualche modo si debba ritornare presso di loro. Un giorno, però, arriva un messaggero mandato da questi, come nel “Canto della Perla”, negli Atti di Tommaso, o nel “Racconto dell’Esilio Occidentale” di Sohravardi. In questo caso, è qualcosa di meglio di un messaggero: è uno dei compagni dell’Imam in persona. Il nostro narratore esclama commosso: “come ho udito queste parole, sono stato sopraffatto dalla felicità. Qualcuno si ricorda di me, il mio nome gli è noto!” Il suo esilio è terminato? Da qui in avanti, egli è sicuro che l’itinerario non potrà essere riportato sulle nostre mappe.

La traversata dura sedici giorni, al termine dei quali la nave entra in una porzione di mare completamente bianca; l’Isola Verde si profila all’orizzonte. Il nostro pellegrino apprende dal suo Compagno che il Mare Bianco forma un’impenetrabile zona di protezione attorno all’isola; nessuna nave manovrata dai nemici dell’Imam può avventurarsi là senza che le onde la sommergano. I nostro viaggiatori attraccano all’Isola Verde. Vi è una città sulle sponde del mare; sette muri turriti proteggono i precinti (questo è il piano simbolico dominante). La vegetazione è lussureggiante e i torrenti abbondanti. Gli edifici sono costruiti con marmo diafano. Tutti gli abitanti hanno volti giovani e bellissimi e indossano magnifici abiti. Il nostro shaykh iraniano ha il cuore colmo di gioia e da questo punto, per tutta la seconda parte, il suo racconto prenderà il ritmo e il significato di un racconto iniziatico, in cui possiamo distinguere tre fasi. Una serie iniziale di conversazioni con un nobile personaggio, che altri non è che il nipote del dodicesimo Imam (figlio di uno dei suoi cinque figli) e che governa l’Isola Verde: Sayyed Shamsoddin. Queste conversazioni compongono una prima iniziazione al segreto dell’Imam Nascosto; a volte si svolgono nell’ombra di una moschea, a volte nelle serenità di giardini colmi di ogni specie di alberi odorosi. Poi avviene la visita a un misterioso santuario situato nel cuore della montagna più alta dell’isola. In fine, una serie conclusiva di conversazioni decisive sulla possibilità di accedere alla visione diretta dell’Imam.

Sto riassumendo nel modo più breve e devo tacere i dettagli del paesaggio e dell’animata drammaturgia, così da arrivare all’episodio centrale. Sulla cima o nel cuore della montagna, che si trova al centro dell’Isola Verde, si trova un piccolo tempio, con la cupola, dove è possibile comunicare con l’Imam, poiché accade che egli vi lasci un messaggio personale, ma a nessuno è permesso salire al tempio, tranne a Sayyed Shamsoddin e a quelli come lui. Questo piccolo tempio si trova all’ombra di un albero Tuba; sappiamo che questo è il nome dell’albero che ombreggia il Paradiso; è l’Albero dell’Essere. Il tempio è posto sulla sponda di una sorgente che, sgorgando alla base dell’Albero del Paradiso, può essere soltanto la Sorgente della Vita. Per confermarcelo, il nostro pellegrino incontra il custode del tempio, nel quale riconosce il misterioso profeta Khezr (Khadir). Là, nel cuore dell’essere, all’ombra dell’Albero e sulla rive della Sorgente, vi si trova il santuario in cui è possibile avvicinare l’Imam Nascosto. Abbiamo qui una intera costellazione di simboli archetipi facilmente riconoscibili.

Abbiamo imparato, tra le altre cose, che l’accesso al piccolo tempio mistico era permesso soltanto a colui che, avendo raggiunto il livello spirituale in cui l’Imam è divenuto la sua Guida interiore, abbia ottenuto uno stato “simile” a quello dei discendenti diretti

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dell’Imam. Ecco perché l’idea dell’adeguamento interiore è effettivamente al centro del discorso iniziatico, ed è ciò che permette al pellegrino di apprendere i restanti segreti dell’Isola Verde: ad esempio, il simbolismo di un rito particolarmente eloquente. Nel calendario liturgico Sciita, il venerdì è il giorno dedicato specialmente al Dodicesimo Imam. Inoltre, nel calendario lunare, la metà del mese segna il punto mediano del ciclo lunare, e la metà del mese di Sha’ban è l’anniversario della nascita del Dodicesimo Imam in questo mondo. Un venerdì, quindi, quando il nostro pellegrino iraniano sta pregando nella moschea, sente un grande trambusto provenire dall’esterno. Il suo iniziatore, Sayyed, lo informa che ogni volta che la metà del mese cadde di venerdì, i capi di una misteriosa milizia che circonda l’Imam si riuniscono nell’ “Attesa della Gioia”, un termine sacro dedicato, per quanto ne sappiamo, a indicare l’attesa della Manifestazione dell’Imam in questo mondo. Lasciando la moschea, incontra un raduno di cavalieri dai quali proviene un clamore trionfale. Sono i 313 capi dell’ordine soprannaturale dei cavalieri, sempre presenti in incognito nel nostro mondo, al servizio dell’Imam. Questo episodio ci conduce gradualmente alla scena finale che precede l’addio. Come un ritornello, ritorna incessantemente il desiderio di vedere l’Imam. Il nostro pellegrino comprenderà allora di essere stato due volte in presenza dell’Imam nel corso della propria vita: era perso nel deserto e l’Imam venne in suo soccorso. Ma come è regola, non ne ebbe coscienza, allora; lo può comprendere adesso che è stato sull’Isola Verde. Purtroppo, deve lasciare quest’isola; l’ordine non può essere disatteso; la flotta lo attende, la stessa con cui è arrivato. Ma ancor più che il viaggio esteriore, è impossibile per noi delineare l’itinerario che riconduce dall’”ottavo clima” a questo mondo. Il nostro viaggiatore cancella le sue tracce, ma riporterà alcune prove materiali del suo soggiorno: le pagine di appunti presi nel corso delle conversazioni con il nipote dell’Imam, e il regalo di commiato che questi gli diede al momento dell’addio.

La testimonianza dell’Isola Verde ci permette di ricavare un’abbondante raccolta di simboli. Si tratta di una delle isole che appartengono al figlio del Dodicesimo Imam. Quell’isola, dove sgorga la Sorgente della Vita, all’ombra dell’Albero del Paradiso, assicura il sostentamento dei seguaci dell’Imam che vivono lontani, sostentamento che è cibo “soprasostanziale”. Si trova ad occidente, come la città di Jabarsa si trova ad occidente del Mundus Imaginalis, ed offre perciò una curiosa analogia con il paradiso Buddista di Amitabha ; così come la figura del Dodicesimo Imam suggerisce l’immagine di Maitreya, il futuro Buddha; vi troviamo anche un’analogia con Tir-na'n-Og, uno dei mondi dell’aldilà dei Celti, la terra d’Occidente e dell’eterna giovinezza. Come il regno del Graal, si tratta di un intramondo autosufficiente. E’ protetto e immune da qualsiasi attacco esterno. Solo coloro che sono chiamati espressamente trovano la via per raggiungerlo. Una montagna sorge nel centro, e abbiamo osservato quale simbolo rappresenta. Come il Mont Salvat, l’inviolabile Isola Verde è il luogo dove i ricercatori incontrano il polo mistico del mondo, l’Imam Nascosto, che regna invisibilmente su questa era – il cuore della fede Sciita.

Questo racconto è completato da altri, poiché, come abbiamo detto, non sappiamo nulla finora delle isole che sono governate dalle straordinarie figure dei cinque figli dell’Imam Nascosto (omologhi a quelli che lo Sciismo designa come “i Cinque del Mantello” e probabilmente anche a coloro che il Manicheismo chiama “i Cinque Figli dello Spirito Vivente”). Una storia più antica (è della metà del dodicesimo secolo e il narratore è un cristiano) ci fornisce informazioni topografiche complementari. Ancora sono coinvolti dei viaggiatori che improvvisamente scoprono che le proprie navi sono entrate in una zona completamente sconosciuta. Attraccano sulla prima isola, al Mobaraka, la Città Benedetta. Alcune difficoltà, dovute alla presenza tra di essi di un musulmano Sunnita, li obbligano a viaggiare ancora. Ma il loro capitano si rifiuta; ha paura di navigare in quella regione sconosciuta. Devono procurarsi un nuovo equipaggio. In ordine di successione,

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apprendiamo i nomi delle cinque isole e i nomi dei rispettivi governatori: al-Zahera, la Città dei Fiori in Boccio; al Ra'yeqa, la Città Limpida; al-Safiya, la Città Serena, ecc. Chi riesca esservi ammesso entra nella gioia perenne. Cinque isole, cinque città, cinque figli dell’Imam, dodici mesi di viaggio attraverso le isole (due mesi per ciascuna delle prime quattro, quattro mesi per la quinta), questi numeri possiedono un significato simbolico. Anche qui, la storia si risolve in un racconto iniziatico; tutti i viaggiatori infine abbracciano la fede Sciita.

Poiché non esistono regole senza eccezioni, concluderò citando brevemente una storia che illustra un caso di manifestazione dell’Imam in persona. Il racconto risale al decimo secolo. Un iraniano di Hamadan fece il pellegrinaggio alla Mecca. Sulla via del ritorno, che si percorreva di giorno dalla Mecca (più di duemila chilometri fa Hamadan), aveva imprudentemente preso a girovagare durante la notte e aveva perciò smarrito i suoi compagni di viaggio. Al mattino stava vagando da solo nel deserto e confidava in Dio. Improvvisamente vide un giardino di cui né lui né nessun altro aveva mai sentito parlare. Vi entrò. Alla porta del padiglione, due giovani paggi vestiti di bianco lo aspettavano e lo condussero presso un giovane uomo di soprannaturale bellezza. Dal proprio stupore timoroso e soggiogato, comprese di trovarsi alla presenza del Dodicesimo Imam. Questi gli parlò della sua futura Apparizione e infine, chiamandolo per nome, gli chiese se volesse far ritorno alla propria casa e alla famiglia. Certamente, lo voleva. L’Imam fece segno ad uno dei suoi paggi, che diede al viaggiatore una borsa di monete e lo accompagnò guidandolo per il giardino. Viaggiarono insieme finché il viaggiatore vide un gruppo di case, una moschea e profili di alberi che gli sembravano famigliari. Sorridendo, il paggio gli chiese: “Conosci questo luogo?” “Vicino a dove abito in Hamadan'” rispose, “c’è una zona chiamata Asadabad, che ricorda esattamente questo posto”. E il paggio disse: “Ma tu sei ad Asadabad”. Stupito, il viaggiatore si accorse di essere davvero vicino a casa sua. Si girò, e il paggio non c’era più ed era rimasto solo, ma ancora aveva tra le mani il viatico che gli era stato donato. Non abbiamo detto poco sopra che il dove, l’ubi dell’ “ottavo clima” è l’ubiquità ?

Sono consapevole che questo racconto si possa commentare in molti modi, a seconda che siamo metafisici, tradizionalisti o no, o se siamo psicologi. Ma come conclusione provvisoria, preferisco limitarmi a porre tre brevi quesiti:

Non apparteniamo più a una cultura tradizionale; viviamo in una civiltà scientifica che sta estendendo il suo controllo, si dice, alle immagini. E’ un luogo comune, oggi, parlare di “civiltà dell’immagine” (pensando ai nostri giornali, cinema e televisioni). Ma ci si chiede se, come tutti i luoghi comuni, anche questo non nasconda un radicale equivoco, un errore completo. Poiché invece che elevare l’immagine al livello di un mondo che le sarebbe proprio, invece che investirla di una funzione simbolica, rivolta al senso interiore, abbiamo soprattutto la riduzione dell’immagine al livello della percezione sensoria pura e semplice, e quindi la definitiva degradazione dell’immagine. Non dovremmo dire, dunque, che maggiore successo ottiene questa riduzione, più si perde il senso dell’immaginale, e più ci si condanna a produrre soltanto dell’immaginario?

In secondo luogo, la prospettiva scenica di una storia come il viaggio all’Isola Verde, o l’incontro improvviso con l’Imam in un’oasi sconosciuta - sarebbero possibili senza il fatto iniziale (Urphanomen) oggettivo, assolutamente primario e irriducibile, dell'esistenza di un mondo di immagini-archetipi, o immagini-sorgente, la cui origine è non razionale e la cui incursione nel nostro mondo è imprevedibile, ma di cui è necessario riconoscere il presupposto?

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In terzo luogo, non è esattamente il presupposto dell’obiettività del mondo immaginale che ci viene suggerita, o imposta, da talune forme o emblemi simbolici (ermetici, cabalistici o mandala) che hanno la capacità di creare la proiezione magica delle immagini mentali, così che assumano una realtà oggettiva?

Per indicare in che senso sia possibile rispondere alle domande sull’obiettiva realtà delle figure soprannaturali e degli incontri con esse, citerò soltanto un testo straordinario, in cui Villiers de L'Isle-Adam racconta del volto dell’imperscrutabile Messaggero dagli occhi di creta: “non si può percepire che con lo spirito”. Le creature sperimentano solo le influenze che appartengono alle entità arcangeliche. “Gli angeli” scrive “non esistono, in sostanza, che nella libera sublimità del Cielo assoluto, dove la realtà è unita all’ideale… Essi si esternano solo nell’estasi che provocano e che è parte di loro.”

Le ultime parole, un’estasi.. che è parte di loro, mi sembrano possedere una chiarezza profetica, poiché essi possono penetrare anche il granito del dubbio, paralizzare il “riflesso agnostico”, nel senso di spezzare l’isolamento reciproco della coscienza e del suo oggetto, di pensiero ed essere; la fenomenologia diventa ontologia. Senza dubbio, questo è il postulato implicito nell’insegnamento dei nostri autori a proposito dell’immaginale. Poiché non vi è alcun criterio esterno per la manifestazione dell’Angelo, che la sua stessa manifestazione. L’Angelo è di per sé ekstasis, il “dislocamento” o la partenza da noi stessi che è un “cambiamento di stato” rispetto al nostro stato di coscienza. Ecco perché queste parole ci suggeriscono anche il segreto dell’essere soprannaturale dell’ “Imam Nascosto” e della sua Apparizione nella coscienza Sciita: l’Imam è l’ ekstasis di quella coscienza. Chi non si trova nel suo stesso stato di coscienza non può vederlo.

A questo allude Sohravardi nel suo racconto “L’Arcangelo Cremisi” con le parole che abbiamo citato all’inizio: “Se sei Khezr, puoi passare senza difficoltà anche attraverso la montagna di Qaf”.

Marzo 1964

Henry Corbin (1903-1978), orientalista e filosofo, è uno dei più grandi pensatori del XX secolo. Allievo di Etienne Gilson e di Louis Massignon, a cui succede alla cattedra di Studi dell’Islam dell’Ecole Pratique des Hautes Etudes della Sorbonne, fu anche uno dei pilastri fondamentali, con, tra gli altri, C. G. Jung e M. Elide, del circolo Eranos dal 1949 al 1977, direttore del Dipartimento di Iranologia dell’Istituto Franco-Iraniano di Teheran dal 1946 al 1970, professore per più di trent’anni all’Università di Teheran e membro fondatore dell’Université de Saint-Jean de Jerusalem.

Henry Corbin ha rivelato all’occidente l’esistenza di un modo fino ad allora completamente sconosciuto: la profonda spiritualità dei grandi mistici sciiti e la filosofia sviluppata nell’oriente musulmano, in particolare in Iran, dopo la morte di Averroé. La sua opera, centrata sulla conoscenza e la spiritualità islamica, ma sviluppata nel contesto delle tre grandi religioni del monoteismo, comprende un numero considerabile di studi sui riti, così come sulle traduzioni e le edizioni degli antichi testi inediti, arabi e persiani, che recuperò egli stesso, pazientemente, nelle biblioteche di Turchia e dell’Iran.

 

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