Intellettuali Stranieri a Roma dal Grand Tour al XIX Secolo - 2a parte

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VIA DE L BABUINO 150 Tappa 7 ATELIER CANOVA-TADOLINI 9 Bar Canova Tadolini 50

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VIA DE L BABUINO 150

Tappa 7

ATELIER CANOVA-TADOLINI

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Bar Canova Tadolini

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Busti di papi accigliati o benedicenti, simulacri di atletici dèi, bassorilievi di nobildonne pallide e meditabonde, modelli anato-mici di ali smarrite da una Nike o da un arcangelo in volo si sporgono dalle pareti o grandeggiano su piedistalli nella confusio-ne tipica  della bottega d’arte.

Lo scultore Antonio Canova, massimo esponente del neoclassicismo italiano, fece di queste sale il suo studio, lasciandolo poi in eredità nel 1818 al suo allievo prediletto, Adamo Tadolini, che a sua volta lo affidò ai propri discendenti, anche loro scultori di vaglia, cui appartenne fino al 1967.

I modelli preparatori qui custoditi insieme agli strumenti di lavoro raccontano infatti due secoli di scultura, così che grazia neo-classica, impeto romantico e intimismo borghese si mischiano e convivono felicemente in un ambiente organizzato anche co-me caffetteria e ristorante.

Nel 1803 acquisì un immobile nel Campo Marzio, vicino al Porto di Ripetta, in via delle Colonnette 26/a/27 angolo via Canova), dove organizzò un ampio studio. L'edificio ospitava anche reperti archeologici da studio, giunti in vario modo nella disponibili-tà dello scultore, e che figurano oggi in parte murati nelle pareti anche esterne dell'edificio. Alla morte dell'artista l'immobile, come testimonia la lapide affissa in facciata sull'attuale via Canova nel 1822, fu lasciato in eredità - insieme all'attrezzatura - ad Antonio D'Este, scultore e collaboratore del Canova stesso, e a suo figlio Alessandro.

ATELIER CANOVA

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BAR CANOVA TADOLINI, INTERNO

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L'edificio è privato, ma vincolato dallo Stato per il suo interes-se storico-artistico nel 1953. Dal 1978 è stato trasformato in una galleria d'arte. Oggi è la casa-studio dell'Artista Luigi On-tani e sede dello Studio di Architettura loft Canova e del-l'Agenzia di Comunicazione Pixell.

Canova è uno dei protagonisti del neoclassicismo italiano, di cui Roma divenne la capitale e fu un ruolo centrale che con-servò fino allo scoppio della Rivoluzione Francese.

In Italia vennero infatti effettuate le maggiori scoperte archeo-logiche del secolo: Ercolano, Pompei, Paestum, Tivoli, che si aggiunsero alle già imponenti collezioni di arte romana che, dal Cinquecento in poi, si erano costituite un po' ovunque. A Roma operarono i maggiori protagonisti di questa fase stori-ca. Oltre a Canova: Winckelmann, Mengs, Thorvaldsen. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi che, con le sue stampe, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. Un gusto, che presto suggestionò soprattutto gli spiriti romantici che nella "rovina" rintracciavano un sentimento che andava al di là della testimonianza archeologica.

Alla fine del 700, Roma cede la sua centralità a Parigi e, nel contempo, un'altra città italiana divenne importante nella vi-cenda del neoclassicismo: Milano. Nel capoluogo lombardo il centro della vita artistica divenne l'Accademia di Brera, fon-data nel 1776.

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Canova (Possagno,1757 – Venezia, 1822)è il maestro della scultura neoclassica e soprannominato per questo «il nuovo Fidia».

Figlio di Pietro, scalpellino di professione, Canova svolse il suo apprendistato a Venezia, dove scolpì le sue prime opere. Nel 1779 si trasferì a Roma, e qui risiedette per il resto della sua vita: malgrado viaggiò spesso, principalmente per sog-giorni all'estero o per ritornare nei luoghi natii, l'Urbe per lui rappresentò sempre un imprescindibile punto di riferimento.

Intimamente vicino alle teorie neoclassiche di Winckelmann e Mengs, Canova ebbe prestigiosi committenti, dagli Asburgo ai Borbone, dalla corte pontificia a Napoleone, sino ad arriva-re alla nobiltà veneta, romana e russa. Tra le sue opere più note si ricordano Amore e Psiche, Teseo sul Minotauro, Ado-ne e Venere, Ebe, Le tre Grazie, il Monumento funerario a Ma-ria Cristina d'Austria e Paolina Borghese.

Il primo soggiorno romano, durato sino al 1780, si rivelerà molto proficuo non solo sotto il profilo artistico, ma anche sot-to quello culturale e umano.

Grazie all'intercessione del Falier, il suo primissimo mecenate, appena giunto nell'Urbe Canova venne calo-rosamente accolto da Gerolamo Zulian, ambasciatore veneto presso la Santa Sede, che gli assegnò uno studio e un alloggio presso palazzo Venezia. Grazie ai puntuali diari che ci ha lasciato sappiamo che Cano-va visse intensamente le sue giorna-te capitoline, trascorse sin dall'arri-vo a visitare - per usare una defini-zione di Quatremère de Quincy - il «museo di Roma», fatto «di statue, di colossi, di templi, di terme, di cir-chi, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi». Gli vennero aperte le porte delle maggiori collezioni roma-ne, come quella raccolta nei musei Vaticani (dove guardò con molto interesse all'Apollo del Belvedere)

ed ebbe modo di frequentare la scuola di nudo all'Accade-mia di Francia e di recarsi assiduamente a teatro, mosso dal suo amore per lo spettacolo della danza. Lavorò inoltre per il pittore Pompeo Batoni, del quale apprezzò il «disegnare tene-ro, grandioso, di belle forme», e per un certo periodo giovò anche della docenza dell'abate Foschi, messogli a disposizio-ne da Zulian, con il quale poté colmare le proprie lacune cul-turali imparando l'italiano, l'inglese, il francese, leggendo i classici greci e latini, apprendendo la mitologia classica.

Grazie al sodalizio con il Zulian e i Rezzonico, nipoti del de-funto Clemente XIII, Canova poté entrare in amicizia sia con il cospicuo nucleo di artisti veneti insediatosi a Roma che con i vari artisti stranieri: fra quest'ultimi spiccava in particola-re il boemo romanizzato Anton Raphael Mengs, il pittore-filo-sofo che, nella sua proposta di imitare i grandi maestri classi-ci, realizzò quadri che erano delle vere e proprie illustrazioni delle teorie espresse dal tedesco Johann Joachim Winckel-mann. Anche Canova fu galvanizzato dall'ideale neoclassico promosso da Winckelmann, il quale fu anche un deciso as-sertore della superiorità della civiltà greca, da lui ritenuta l'uni-ca ad aver raggiunto la purezza e la virtù nell'arte. In effetti,

ANTONIO CANOVA

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lo scultore Canova si sarebbe rivelato l'interprete più puntua-le e coerente delle teorie espresse da Winckelmann e

Mengs, in maniera analoga a come proprio in quegli anni il francese Jacques-Louis David era in pittura. Pur essendo ani-mata da un tale fervore d'idee, tuttavia, la scena artistica ro-mana non fu priva di rivalità profonde: anche Canova ne rima-se invischiato, tanto che nei primi anni i critici di Roma lo tac-ciarono di superbia, ritenendolo un denigratore delle opere dell'antichità. Canova, in realtà, si scagliava contro la pedis-sequa imitazione dall'antico, e preferiva produrre opere origi-nali, in modo creativo, pur ispirandosi ai principi che regola-vano l'arte greca classica.

Tra il 22 gennaio e il 28 febbraio 1780 Canova fu a Napoli do-ve, oltre a visitare la collezione Farnese (ospitata nell'erigen-da reggia di Capodimonte), visitò la cappella Sansevero: ri-masto estasiato dal virtuosismo del Cristo velato ivi esposto (provò addirittura ad acquistarlo, osservò con molta attenzio-ne anche la statua della Pudicizia, scolpita dal conterraneo Antonio Corradini, scultore veneto assai celebrato per le sue figure velate.

In Campania, inoltre, Canova ebbe l'opportunità di scoprire l'immenso patrimonio archeologico rinvenuto presso i siti di Pompei, Ercolano e Paestum. Davanti allo spettacolo delle antichità del passato palesò non solo entusiasmo ed adesio-ne, ma anche il desiderio di studiare più approfonditamente

la classicità, maturando così un'apertura sempre più consa-pevole verso le istanze neoclassiche.

Tornato a Roma, nel giugno 1780 Canova si fece spedire il gesso del Dedalo e Icaro, la scultura che sancì il suo definitivo decollo artistico. L'opera, tuttavia, venne accolta assai freddamente dagli accademici romani: tra i pochi ammiratori vi era Gavin Hamilton, un pittore e antiquario scozzese con il quale Canova si legherà di un'amicizia destinata a rivelarsi vincente e a durare per tutta la vita. Intanto, lo Zulian si era ormai convinto che il suo protégé avreb-be dato il meglio di sé solo se si fosse insediato stabilmente a Ro-ma: sollecitato da quest'ultimo, Canova il 22 giugno 1780 partì per Venezia, così da chiudere lo studio lagunare e ultimare alcuni lavori, tra cui la statua del Poleni per il Prato della Valle di Padova.

Ritornato a Roma a dicembre, Canova eseguì un Apollo che s'incorona su commissione del senatore Abbondio Rezzonico, nipote del papa, che prediles-se l'opera canoviana rispetto alla Minerva pacifica del concor-rente Giuseppe Angelini; nello stesso periodo ottenne dalla Serenissima la pensione triennale di 300 ducati in argento annui. Intanto, su suggerimento di Gavin Hamilton, Canova iniziò a lavorare al grande gruppo marmoreo raffigurante Te-seo vincente sul Minotauro, che concepì come un vero e pro-prio manifesto della propria arte. L'opera fu terminata nel 1783, ed ebbe sin da subito uno smagliante successo sia in Italia che all'estero: con grande virtuosismo tecnico, infatti, Canova seppe infondere nella figura di Teseo quella «nobile semplicità e quieta grandezza» che Winckelmann considera-va essere le qualità supreme dell'arte greca. Tra gli estimatori più convinti vi fu lo studioso francese Quatremère de Quincy, con il quale Canova strinse una rapida intesa culturale e un'amicizia destinata a durare per tutta la vita. L'idillio di que-sti anni venne spezzato solo dalla delusione amorosa con Domenica Volpato, una donna della quale si era invaghito («una che è una bellezza», per usare le parole dello stesso scultore) che però si dichiarò innamorata dell'incisore napole-tano Raffaello Morghen, malgrado i due stessero già proget-tando di sposarsi.

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Sempre nel 1783 Canova ricevette la commissione del monu-mento funerario a Clemente XIV, da porre nella basilica dei Santi XII Apostoli. Complice la delusione amorosa con la Vol-pato, Canova si dedicò con piena e totale dedizione di sé all'esecuzione del sepolcro, che completò nell'aprile del 1787 nel nuovo studio a via San Giacomo, dove si era trasferi-to terminata la pensione della Serenissima. L'opera, oltre a fruttargli diecimila scudi, lo consacrò quale massimo scultore del suo secolo: erano ormai chiare a tutti le potenzialità del Canova, che in quegli anni godette di un prestigio pari a quel-lo di un Bernini o di un Michelangelo. Intanto, per cercare ri-poso dalle intense fatiche di scultore, soggiornò per un mese a Napoli, dove il colonnello inglese John Campbell gli com-missionò un gruppo di marmo raffigurante Amore e Psiche.

La fama raggiunse Canova in fretta e in modo potente, tanto che a detta del Quatremère anche a Parigi «negli fogli publici

s'è reso conto del suo ultimo modello». Ne conseguirono le numerose commissioni di rilevante importanza che gli venne-ro offerte in questo periodo: nel 1789 eseguì due statue di Amorini, uno per la principessa Lubomirska e uno per il colon-nello Campbell, e dello stesso anno è la commissione di una Psiche fanciulla, ultimata nel 1792. Nel 1793, invece, portò finalmente a compimento l'Amore e Psiche: l'opera ebbe va-stissima eco e fu universalmente apprezzata, trovando gli estimatori più appassionati nel poeta inglese John Keats, au-tore di una Ode to Psyche, e in John Flaxman, con il quale Canova si strinse in affettuosa amicizia.

L'intensa attività scultorea, tuttavia, aveva fiaccato notevol-mente la salute del Canova, che iniziò ad accusare feroci do-lori allo stomaco. Pertanto, per ristorare le proprie energie fisiche, nel maggio del 1792 prese la decisione di fare ritorno

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a Possagno per rimettersi, prima di tornare a Roma dopo qualche mese.

Dal punto di vista politico, tuttavia, questi era-no anni assai turbolenti. Napoleone Bonaparte aveva già concluso vittoriosamente la prima campagna d'Italia, e il 19 febbraio 1797 fu fir-mato tra il generale corso e Pio VI il trattato di Tolentino, con il quale il pontefice si impegnò a cedere al vincitore opere d'arte e preziosi manoscritti, oltre che Avignone, il Contado Ve-nassino e le Legazioni. Vi furono aspre polemi-che, accese soprattutto da Quatremère de Quincy che a tal proposito scrisse una Lettres sur le projet d'enlever les monuments de l'Ita-lie: ciò malgrado, il convoglio con le opere d'arte (fra cui il Laocoonte e l'Apollo del Belve-dere) partì da Roma il 9 maggio 1797.

Anche Canova fece le spese di questa instabi-lità geopolitica, tanto che nella primavera del 1797 la sua pensione vitalizia venne sospesa e, nonostante le enfatiche rassicurazioni del Bonaparte (egli stesso contattò il Canova infor-mandogli che aveva «un droit particulier à la protection de l'Armée d'Italie»), non gli venne mai più ripristinata. Giudicando pericoloso ri-manere a Roma, nel 1798 fece ritorno a Possagno, e si spin-se addirittura in Austria, dove fu accolto assai calorosamente dalla corte di Francesco II d'Asburgo-Lorena, che si offrì di confermargli la pensione vitalizia: Canova tuttavia rifiutò, non volendo precludersi la possibilità di tornare a Roma. Accettò, invece, di eseguire il grande deposito funebre per Maria Cri-stina d'Austria nella chiesa viennese di Sant'Agostino, su commissione del duca Alberto di Sassonia-Teschen, marito della defunta. L'opera, assai rappresentativa del clima tardo-settecentesco della poesia sepolcrale, venne poi completata da Canova nel 1805.[1]

Lasciata Vienna, Canova si recò a Praga, a Dresda, Berlino e Monaco, per poi fare ritorno nella natia Possagno e, infine, a Roma, che ritenne alla fine l'unica città congeniale al suo vir-tuosismo artistico. Il 5 gennaio 1800, superando le solite gelo-sie dei colleghi, Canova venne perfino nominato accademico di San Luca, di cui diventò presidente nel 1810 e presidente perpetuo nel 1814. Si trattò di un ulteriore successo nella fa-ma del Canova, che iniziò a essere richiesto nelle corti di tut-ta Europa: anche Napoleone, nel 1803, volle un ritratto che recasse la sua firma. Canova inizialmente si dimostrò assai riluttante a mettere la propria arte a servizio di colui che era stato il carnefice della Repubblica Veneta, ceduta all'Austria

in seguito alla stipula del trattato di Campoformio: sollecitato da Pio VII (il quale era a sua volta mosso da motivi di opportu-nismo politico), tuttavia, Canova partì per Parigi, dove giunse il 6 ottobre 1801.

Ospitato nel palazzo del nunzio pontificio Caprara, Canova a Parigi divenne l'artista ufficiale del regime napoleonico. La prima opera che eseguì in Francia fu un colossale ritratto del Bonaparte nelle sembianze di Marte pacificatore, in cui il ge-neralissimo era raffigurato nudo con clamide su una spalla, una vittoria in una mano e lancia nell'altra. Canova pensava di aver realizzato un'opera destinata a rimanere celebre: ciò non accadde, poiché Napoleone, nel vedersi completamente svestito, temette i giudizi dei Parigini e ordinò di riporre la sta-tua nei depositi del Louvre e di ricoprirla con un velo. Malgra-do si fosse inserito con successo nella cosmopolita scena artistica parigina, avendo contatti anche con Jacques-Louis David, in questo periodo Canova fu profondamente amareg-giato, sia per l'inglorioso destino toccato alla sua scultura, ma soprattutto per l'infausta sorte di Venezia e per la conti-nua emorragia di opere d'arte italiane, asportate in Francia con le spietate spoliazioni napoleoniche. Pertanto, nonostan-te le insistenze di Napoleone perché si fermasse stabilmente a Parigi, Canova decise di ritornare in Italia.

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Atelier Canova via delle Colonnette angolo via Canova (ex. S Giacomo)

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Ritornato a Roma, Canova fu accolto assai calorosamente: Angelica Kauffmann, addirittura, gli offrì un pranzo presso la propria dimora, in cui gli venne fatto dono di varie raffigurazio-ni di Vincenzo Camuccini dove egli è ritratto mentre viene in-coronato da una personificazione del Tevere.

Ad accrescere maggiormente il suo prestigio fu l'esecuzione del ritratto di Paolina Bonaparte Borghese nelle sem-bianze di una Venere vincitrice: l'opera, ter-minata nel 1808, raffi-gura la so-rella di Na-poleone adagiata su un divano, con in ma-no il pomo della vitto-ria, con un virtuosismo tale da far assurgere la donna a dignità della dea. Sempre in questo periodo strinse amicizia con Leopoldo Cicognara, il conte ferrarese che gli affidò la protezione di un giovane Francesco Hayez (futuro caposcuo-la della scuola romantica italiana).

Ancora stavolta, tuttavia, le vicissitudini belliche operate sotto l'egida di Napoleone turbarono profondamente Canova, che visse «giorni tristissimi» (come attesta un'incisione sulla Dan-zatrice col dito al mento) assistendo silenziosamente all'occu-pazione di Roma da parte dei Francesi (1808) e alla conse-guente unione degli Stati Pontifici all'Impero Francese. Ciò malgrado, nel 1810 accettò comunque di recarsi a Parigi su invito del generale Duroc, che gli commissionò la statua del-l'Imperatrice Maria Luisa: dopo una brevissima sosta a Firen-ze, effettuata per attendere all'inaugurazione del monumento a Vittorio Alfieri a Santa Croce, Canova partì immediatamente dopo alla volta della Francia. Giunto a Fontainebleau l'11 otto-bre 1810, già il 29 ottobre poté mostrare al committente il mo-dello in creta della statua. Canova, tuttavia, si intrattenne po-co in Francia, tanto che dopo aver ottenuto notevoli benefici

e donazioni per l'Accademia di San Luca (della quale diven-ne principe prima della partenza), si incamminò sulla via del ritorno, nonostante le lusinghe di Napoleone. Sostò a Milano, Bologna e Firenze,

Dopo aver reso esecutivi i benefici concessi da Napoleone all'Accademia di San Luca, Canova viaggiò a Bologna (dove

incontrò Piero Gior-dani) e a Firenze, dove nella primavera 1812 fece conoscen-za di Minet-te de Ber-gue, in se-guito diven-tata baro-nessa de Armenda-riz. La sim-patia si tra-sformò ben presto in intimità, e tra i due si formò un legame amoroso

talmente forte che perfino il barone Armendariz (il promesso sposo della donna) si dichiarò disposto ad abbandonare il tetto coniugale.Non se ne fece tuttavia nulla, anche se vi furo-no altre due fanciulle che infiammarono il cuore di Canova in questi anni: la prima era Delphine de Custine, una fiorentina con la quale lo scultore intrattenne un carteggio densissimo di sentimenti, e la seconda era Juliette Récamier, considerata dal Canova bella «comme une statue grecque que la France rendait au Musée Vaticain» (come ci riferisce Chateau-briand). Così come fece la Volpato, tuttavia, anche la Réca-mier concesse la propria mano a un altro uomo, in questo caso Benjamin Constant, lasciando il Canova in preda alla delusione.

Nonostante le difficoltà incontrate con il gentil sesso, questo si rivelò un periodo artistico assai fecondo per il Canova. Nel 1814 gli venne commissionata da Giuseppina di Beauhar-nais, prima moglie di Napoleone, il gruppo scultoreo delle Tre Grazie, che verrà riprodotto una seconda volta in un gruppo stavolta destinato John Russell, sesto duca di Bedford. L'ope-

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Francesco Chiarottini, Lo Studio di Canova in via San giacomo a Roma

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ra, una delle più famose di Canova, traduce nel marmo il con-cetto squisitamente neoclassico dell'eternità della bellezza serenatrice, ben rappresentato nei volti delle tre fanciulle; tra gli estimatori più entusiasti delle Grazie vi troviamo il poeta italiano Ugo Foscolo, autore del poema omonimo delle Gra-zie.

Quando ormai, dopo Lipsia, la fortuna di Napoleone volgeva al tramonto, il Canova, che fu sempre critico verso le spolia-zioni artistiche perpetrate da quest'ultimo, venne incaricato di recarsi a Parigi per recuperare tutte le opere d'arte rubate in forza del trattato di Tolentino. Non senza difficoltà (la situa-zione a Parigi era a dire lo scultore «disperata», e Francesi e Russi si opponevano categoricamente a un'eventuale ricon-segna), grazie all'intervento di Klemens von Metternich Cano-va riuscì a ottenere la restituzione delle opere d'arte. Termina-to questo sgradito compito, il 1º novembre si recò a Londra, dove lord Elgin stava esibendo i marmi del Partenone: gli pro-curarono un'intensa ammirazione, come attestato da uno de-gli ospiti del ricevimento di lady Holland («Canova è quanto mai entusiasta degli Elgin Marbles che afferma meritare da soli un viaggio in Inghilterra») e dal Canova stesso, il quale comunicò a lord Elgin l'entusiasmo che provò guardando quei «preziosi marmi... recati qui dalla Grecia... onde gran-d'obbligo e riconoscenza dovranno a voi, o Milord, gli amato-ri e gli artisti per aver trasportato vicino a noi queste memora-bili e stupende sculture»

Ritornato a Roma la sera del 3 gennaio 1816, Canova fu pron-tamente ricevuto dal pontefice che, in segno di ringraziamen-to per aver recuperato le opere d'arte italiane trafugate in Francia, lo insignì del titolo di «marchese d'Ischia» e lo ascris-se nel libro d'Oro del Campidoglio: come stemma del mar-chesato Canova scelse la lira e la serpe (simboli rispettiva-mente di Orfeo ed Euridice) «in memoria delle mie prime Sta-tue... dalle quali... devo riconoscere il principio della mia esi-stenza civile», come leggiamo in una lettera indirizzata al Fa-lier.

Intanto, dopo aver ultimato nel 1816 la statua della Musa Po-limnia, nel 1818 Canova fu esortato dai suoi compaesani di Possagno ad intervenire in una vecchia chiesa parrocchiale del paese: lo scultore, tuttavia, prese «la risoluzione di farne edificare una nuova, a mie spese», erigendo un tempio con pianta circolare con un pronao a colonne doriche, su esem-pio del Pantheon di Roma e del Partenone di Atene. Sceglien-do di collocare la chiesa ai piedi del del monte dominante la Val Cavasia, Canova partì prontamente per Possagno così da assistere personalmente alla posa della prima pietra della fabbrica, celebrata l'11 luglio 1818 in una festosa cerimonia: lo scultore non assistette mai all'ultimazione del proprio tem-

pio, che verrà completato solo nel 1830, dieci anni dopo la sua morte che lo colse la mattina del 13 ottobre 1822 a Vene-zia, nella casa del vecchio amico Florian, nei pressi di piazza San Marco.

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VIA DEL BABUINO 89/VICOLO ALIBERT

Tappa 8CAROLINA E FRANZ (LISZT)

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Fantasia Di Franz Liszt Al Piano, Dettaglio (1840), Di Danhauser, Commissionato Da Conrad Graf.

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Qui al terzo piano del numero 89, nella stessa casa dove aveva vissuto ed era morto Valadier, abitò Carolina, amante di Franz Liszt. sposata col principe di Wittgenstein. Perse la testa per Liszt che, fino al 1849, fu il concertista più ammirato, più discus-so, più retribuito d'Europa, con successi paragonabili a quelli ottenuti, nel decennio precedente, da Paganini. Uomo d'amori chiacchierati con donne molto in vista, Liszt aveva scritto la prima pagina di quello che definì «il mio album irresistibile», ruban-do la moglie al conte d'Agoult, dalla quale ebbe tre figli (Cosima sposò Wagner).

La prima volta che venne a Roma (nel 1838) Liszt era giovanissimo. Tornò nel 1861, più che celebre, ma a Roma lo aveva pre-ceduto - e vi risiedeva da due anni – Carolina.

Polacca e cattolica, di stirpe nobilissima, a 17 anni, bella, colta, spiritosa, aveva sposato il principe Nicola Wittgenstein, aiutan-te di campo dello zar. La diversità dei temperamenti e la disuguaglianza dell'età fecero sì che dopo un periodo non lungo, i coniugi di comune accordo si separarono.

NOTA: la Polonia era una provincia dell’impero Russo. Quella parte della Polonia è oggi Ukraina.

Essa ormai viveva sola con la figlia quando, nel 1847, Franz Liszt nell'abbagliante fulgore dei trionfi e della gioventù capitò a Kiew, ove risiedeva Carolina, per eseguire nella "città santa" una serie di concerti. L'incontro fu fatale. La donna fu preda di una passione che, come fuoco inestinguibile, dalle rive del Dniester, l'accompagnò alle rive del Tevere e non terminò che con la morte.

Cominciò con l'invitare il musicista nelle sue proprietà site nei dintorni di Kiew, dove il maestro avrebbe potuto attendere con tutta calma alle sue composizioni.

RESIDENZA CAROLINA WITTGENSTEIN

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Via Del Babuino 89, Angolo Vicolo Aliberti

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Quando poi Liszt decise di stabilirsi a Weimar, la principes-sa non esitò a realizzare i suoi interessi, a vendere i beni im-mobili, a lasciare per sempre la Russia e a seguire Liszt in Germania.

La figliola di Carolina, Maria, si maritò nel 1859 divenendo principessa Hohenlohe. La madre era ancora assai giova-ne, e, libera da ogni ingerenza materna, s'abbandonò con rinnovato fervore al suo sogno più caro: sposare Liszt.

Ma tanto lei quanto il musicista erano rigidi cattolici e tra lo-ro non era possibile altro che un matrimonio secondo i riti di Santa Chiesa. Si poteva però tentare che il primo matrimo-nio venisse dichiarato canonicamente nullo. Si iniziò la pro-cedura ai tribunali ecclesiastici e a perorare la causa, la prin-cipessa venne sollecitamente a Roma. Ciò che chiedeva non era assurdo, né illogico: il principe Wittgenstein era pro-testante e per conto suo aveva già ottenuto il sospirato divor-zio.

Giunse a Roma e prese alloggio in via del Babuino. La nobil-tà e la società romana fecero una calda accoglienza a que-sta straniera romantica, fantastica, espansiva, vivace e coltis-sima (scrisse libri a iosa). A nessuno era ignoto il motivo del-la sua venuta a Roma. Si seguivano i suoi passi presso la Cu-ria, si commentava il suo amore per il Liszt e tutto questo la rendeva interessante.

Fra il 1861 e il 1864 Liszt capitò parecchie volte a Roma sen-za prendervi stabile dimora e, per stare più vicino alla princi-pessa, alloggiava all'albergo Alibert.

Venne finalmente il giorno in cui dopo le lunghe soste, dopo la faticosa procedura giudiziaria, la principessa ebbe la gioia di sapere che la domanda era stata accolta, che il matrimo-nio era annullato, che essa aveva recuperato la sua libertà. Nulla si frapponeva all'esaudimento del voto tanto atteso e subito con alacrità andò apprestando ogni cosa per la ceri-monia.

Dopo un lungo soggiorno a Parigi, Liszt arrivò a Roma il 21 ottobre 1863. Il giorno appresso segnava il cinquantesimo anniversario per Liszt e appunto in quel giorno il matrimonio doveva essere celebrato di buon mattino nella chiesa di San Carlo al Corso, appositamente parata con sfarzoso lusso. Tut-ta Roma parlava dell'avvenimento...

Ma stranezza del destino! la cerimonia non avvenne!

Furono proprio i preparativi solenni a richiamare l'attenzione di alcuni parenti della principessa che soggiornavano a Ro-ma. Quella esibizione di mondanità urtò la loro suscettibilità e

con sollecitudine fecero passi presso il papa con lo scopo di ritardare il matrimonio. E ci riuscirono! La sera del 21 ottobre, il cardinale Antonelli mandò alla principessa, a significarle l'ordine sovrano di rinvio del matrimonio giacché il papa inten-deva rivedere personalmente il processo.

Passò qualche tempo. Il 10 marzo 1864 il principe Wittgen-stein venne a morte.

Ormai nessun impedimento giuridico, nessuno scrupolo reli-gioso impediva la celebrazione del matrimonio.

Con un vero e proprio colpo di scena, Liszt che aveva sogna-to di legare la sua esistenza a quella della donna amata, quando ogni impedimento fu tolto, paventò di perdere la ma-gnifica libertà della sua vita d'artista e quindi, quando ogni cosa era di nuovo pronta per la cerimonia, sparì dalla vista di tutti. Invano lo si attese, invano lo si cercò.

Invece non si era affatto allontanato da Roma! Era corso a chiudersi, come in una cittadella sicura, nel Vaticano e in luo-go di celebrare le nozze, di lì a poco, la mattina del 25 aprile 1865, nella cappella di mons. Hohenlohe (il futuro cardinale) nel Vaticano medesimo, prendeva gli ordini minori...

«Stavo per sposare Carolina - annotò Liszt -; il Papa mi ha salvato, basta con le donne, voglio provare con Dio». Facen-dosi stampare biglietti da visita intestati all'Abbé Liszt, en Vatican. La principessa Carolina si trincerò in casa e trascor-se il resto dei suoi giorni con le finestre sbarrate, al lume di candela, scrivendo ossessivamente, sul retro dei bigliettini: «Ti aspetto. Ti aspetto».

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Morì nel 1887, pochi mesi dopo la scomparsa di Liszt. Scris-se sull'ultimo biglietto: «Mi è dolce morire perché finalmente raggiungerò Franz»

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Liszt ammetteva di possedere in sè un' anima di zigano ed una di francescano. E il senso mistico della vita sembra lo avesse ereditato ancor ragazzo dalla madre. Il suo primo amore nasce, dopo la scomparsa del padre Adam, da una storia con una sua allieva, Caroline de Saint Cricq, un senti-mento corrisposto ma interrotto dal padre nobile di lei per pre-giudizi su matrimoni tra persone di diverso ceto sociale con sconforto del non ancora ventenne pianista. Molti gli aneddo-ti che raccontano del suo fascino. Una contessa russa re-spinta sembra lo abbia minacciato con la pistola e Liszt l'avrebbe disarmata con la sola parola: «Fuoco!». La contes-sa Olga Janina tentò il suicidio per lui.

Ben note alle cronache dell'epoca sono le vicende dell' amo-re con Marie de Flavigny contessa d'Agoult, sposata e ma-dre di due figlie, iniziato nel 1833 nella casa di George Sand, androgina amante di Chopin, e durato una decina d'anni. Marie, di sei anni più grande, non aveva solo dalla sua l'avvenenza e il prestigio sociale, ma anche una invidiabi-le cultura apprezzata persino da Balzac che la ritrasse nel romanzo "Béatrix". L'abbandono del tetto coniugale da par-te di Marie, che raggiunge Franz a Basilea, fa gridare allo scandalo il bigotto milieu parigino. Forse per questo i due decidono di ritirarsi nella meno chiassosa Ginevra. E lì nasce Blandine che Liszt riconosce come figlia naturale. Una se-conda figlia, Cosima che poi sposerà Bulow ma poi lo lasce-rà per Wagner, nasce poi nel 1837 a Como. E Marie lo segue spesso nelle tournées italiane: a Roma nasce nel 1839 il ter-zo figlio Daniel destinato a morire precocemente a soli venti anni. La fine della relazione, su cui forse pesò la infatuazione per Liszt di Lola Montez, è raccontata da Marie con calunnio-sa dovizia di particolari nell'mpietoso romanzo "Nélida, hi-stoire à clef" (1849) in cui la protagonista è sedotta da un pittore di basso rango. Ma è la principessa Carolina di Sayn - Wittgenstein lascerà il segno negli anni della maturità e vec-chiaia.

FRANZ LISZT

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Il conte Giacomo d’Alibert, figlio di un intendente del duca Gastone d’Orleans, venne a Roma in qualità di segretario di Cristi-na di Svevia nel 1656. Avendogli la moglie portato in dote una casa in questa località, egli acquistò altre case vicine e, demoli-tele, costruì un gioco di pallacorda.

Il d’Alibert era in Roma una specie di impresario, sempre in angustie, ma da Cristina di Svezia fu nominato ambasciatore per trattare della questione sollevata dall'ambasciatore Crequi per l'uccisione di un suo servo, da parte dei Corsi, per cui Luigi XIV[ aveva fatto occupare la papale Avignone. Firmata a Pisa la pace, nel 1664, il conte seguitò la sua attività che fu continua-ta ed ampliata dal figlio Antonio.

La costruzione del Teatro d’Alibert o delle Dame fu dapprima affidata a Matteo Sassi (1716), poi a Francesco Galli Bibbiena (1720), che portò a termine la fabbrica dell’edificio. La platea riusciva a contenere 900 persone e vi erano sette ordini di pal-chi, ciascuno dei quali aveva 32 palchetti, il tutto coronato da un effetto acustico e scenografico assolutamente sperimentale per l’epoca.

La costruzione dovuta a Francesco Bibiena[ (1656-1729) presentava una “curva irreale e scomoda” che venne criticata da mol-ti, come pure la sua architettura con 7 ordini di palchi che sembravano “le caselle di una colombaia”.

Questi palchi erano completamente nudi, costringendo i vari affittuari ad impiegare tappeti ed acquistare sedie per renderli possibili.

TEATRO ALIBERT

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SITO DELL’ANTICO TEATRO ALIBERT

Vicolo Aliberti Angolo Via Margutta

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Ben presto il teatro fu messo all’asta, a causa dei debiti contratti dal proprietario, anche a causa della pausa giubilare, ed acquisito nel 1725 dall’ordine Gerosolimitano di Malta, che, in società con alcuni nobili romani, vi realizzò degli appartamenti da affit-tare di cui sappiamo si dividevano i proventi, conver-tendo così un luogo principalmente destinato a sco-pi ludici anche in una macchina di profitto economi-co abitativo

Venduto al principe Alessandro Torlonia, fu l’architet-to Nicola Carnevali che, a partire dal

1847, iniziò a ristrutturare lo stabile, mantenendo tut-tavia la struttura originaria: ampliò il

numero dei palchi e inserì nuovi ingressi tra cui un cavalcavia (realizzato più tardi rispetto al resto dei lavori a causa di controversie legali) dal quale si ac-cedeva immediatamente alla biglietteria e al guardaroba.

Il 15 febbraio 1863 il teatro fu distrutto da un importante in-cendio doloso.

Al servizio antincendi, provvedevano seralmente 4 pompieri che disponevano di altrettante tinozze d’acqua e di 2 secchi e dovevano ben guardarsi dalle numerose fiaccole di pece, da vari focarelli di carbonella, dall’immancabile focone del botteghino, dalle torce del lampadario centrale, dai lumi a olio, dalle candele dell’orchestra e dai famosi cerini, che si vendevano col libretto dell’opera, al fine di poterlo leggere anche durante la rappresentazione.

Il giornale l’Eptacordo dà così notizia dell’incendio del teatro:

“la sera del sabato vi fu rappresentazione di prosa e di panto-mima che terminò all’una circa dopo mezzanotte, ed alle 8 del mattino più non esisteva, perché era stato già divorato dal fuoco” un altro giornale: "Domenica scorsa arse dalle fon-damenta il teatro Alibert; ciò era bello a vedersi dal pincio”.

Il pubblico di allora è così decritto da un cronista dell’epoca:

“Il teatro Alibert o delle Dame, era eccezionalmente vario: ad esso davano tono di mondanità principi, dignitari e cardinali con tutti i loro inseparabili satelliti. Durante lo spettacolo si pranzava, si sorbivano le bevande e gelati, si giocava, si scambiavano visite nei palchi, intrecciando conversazioni da una loggia all’altra, salvo a fare silenzio per le arie preferite, chiamate appunto “le arie del sorbetto” e non ci si asteneva nemmeno dal compiere operazioni qui s’en suivent”.

A rileggere le note di allora, si ha la prova che il pubblico si abbandonava spesso alla “crudeltà più triviale” e “alla viltà più scortese” tanto che nel 1721 fu necessaria la pubblicazio-ne di un editto col quale si minacciavano “frusta, tratti di cor-da e galera, si per motti e atti sconvenienti, si per disturbo della quiete durante gli spettacoli”.

Ciò che rimaneva dell’edificio fu messo all’asta dal principe Torlonia: l’aggiudicazione in favore di Baldassarre Pescanti diede luogo nel 1872 al progetto dello Stabilimento di Bagni con annesso Albergo Alibert dell’architetto Galanti.

Luogo da sempre amato dagli artisti, l’albergo ebbe ospiti illustri come Franz Liszt e il Caffè, ancora di proprietà del prin-cipe Torlonia, fu sede dell’Associazione Artistica Internaziona-le e, successivamente, continuò ad essere un importante luo-

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go di ritrovo per gli artisti di Roma, dove si organizzavano mostre e feste.

Il palcoscenico era vastissimo ed adatto ai più vari spettaco-li. Il sotto-palcoscenico poi, era di tale ampiezza che vi si po-tevano costruire vie sotterranee per addestrarvi cavalieri e cavalli e carri e quanto poteva occorrere per rappresentazio-ni spettacolari.

Sul luogo del teatro sorse poi un albergo anonimo, che nel 1865 alloggiò Franz Liszt, desideroso di non esser troppo lontano dalla principessa Carolina Sayn de Wittgenstein che abitava al palazzetto Valadier al Babuino

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Rarissima foto dell’Hotel Alibert: fonte Annuario Liszt Foundation

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Palazzetto Raffaelli

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VIA DEL BABUINO 92-93/VICOLO ALIBERT

Tappa 9PALAZZO RAFFAELLI E SAULINI

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Fu costruito, su due preesistenti edifici, su progetto da Giuseppe Valadier nel 1826 per Giacomo Raffaelli, consigliere dello Zar nello Stato Pontificio e proprietario di un laboratorio di mosaico che insediò nell’edificio

Giacomo Raffaelli (1753 – 1836) è il più noto mosaicista del ‘700. A lui si deve la creazione, nel 1775 del mosaico minuto (micromosaico), tecnica con la quale riprodusse L’Ultima Cena di Leonardo (ora a Vienna). Le sue opere sono conservate nei più importanti Musei e Collezioni del mondo. Su richiesta dello zar Nicola I fondò a San Pietroburgo una scuola di mosaico sul modello di quello vaticano.

Il Palazzetto fu poi modificato e rialzato nel 1868. Vi abitò il poeta romanesco Augusto Jandolo.

Come mai questa richiesta di souvenir? Alla schiera di Granturisti si aggiungono anche le donne, che riempiono di disegni eac-quarelli i loro taccuini di viaggio. E si riportano a casa, come ricordo, spille, bracciali, collier, anelli e presse papier decorati a micromosaico. I soggetti sono i più disparati : dalle rovine, il Colosseo, i fori Imperiali a soggetti più aulici e femminili come fe-stoni di fiori e frutta, rappresentazioni di animali (cani, tigri, scimmie, uccelli) alle famose colombe di Plinio ( nel 1737 nella villa di Adriano a Tivoli fu scoperto un mosaico del I secolo raffigurante quattro colombe che si abbeverano al bordo di un cantaro, già citato da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia”).

Il Grand Tour salvò i mosaicisti vaticani dalla disoccupazione. Costoro, infatti, completata la decorazione delle cupole nel 1757 e rimasti senza lavoro, riconvertirono le loro abilità al piccolo formato iniziando una produzione indipendente con tessere minute con cui riproducevano alla perfezione ogni disegno, soprattutto il Colosseo, l' Apollo del Belvedere e la Villa Adriana. Il nuovo genere di mosaico usava per le sue composizioni gli “smalti filati”. Gli inventori furono Giacomo Raffaelli (1753-1836) e Cesare Aguatti (o AGNATTI, seconda metà del 700). Scoprirono che sottoponendo gli smalti di nuovo al calore della fiam-

RAFFAELLI E I MICROMOSAICISTI

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ma, essi si trasformavano in una sostanza malleabile, adatta a essere filata. Tale operazione permetteva di ricavare bac-chette lunghe e sottili, ottima matrice per tessere piccolissime, inferiori addirittura al millimetro, a differenza dei tradizionali smalti tagliati a suon di “martellina”. Una vera rivoluzione! Da quel momento in poi si sarebbero potute realizzare opere di una gentilezza e di un’eleganza che mai il mosaico aveva conosciuto. Un altro maestro del mosaico, Antonio Aguatti ave-va fatto un’ulteriore scoperta: la fabbrica-zione di bacchette in cui si mescolavano più toni di colore e che risultavano varia-mente sfumate. Questi smalti furono chia-mati malmischiati e si rivelarono straordi-nari nella resa dei più sottili trapassi di luce. 

Nel secolo seguente, XIX, protagonisti furono Michelangelo Barbieri e Clemente Ciuli, di cui vedremo poi la casa e botte-ga.

Palazzetto SauliniVia del Babuino 94-97Di proprietà della famiglia Saulini, famosi artigiani, che al terzo piano gestivano un laboratorio d’incisione delle pietre.

Nell’edificio ebbero sede i primi bagni pubblici aperti a Ro-ma nell’Ottocento ed erano forniti anche di una grande pisci-na; furono chiusi ai primi del Novecento

Poco più in là, in Via del Babuino,119 lo studio di Thorvald-sen

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Nel 1805 Giacomo Raffaelli fu esortato a creare a Milano, nella capitale del neoproclamato Regno d’Italia, uno Studio del mo-saico sul modello di quello vaticano nell’ex convento di San Vincenzino e aprire una scuola presso l’Accademia di Brera diretta da Giuseppe Bossi. La commissione di una copia dell’opera leonardiana, che realizzò su cartone pittorico dello stesso Bossi, gli giunse dal viceré Eugenio Napoleone . Giacomo Raffaelli e i suoi collaboratori – tra i quali il figlio Vincenzo-, lavorarono du-ramente per sette anni dal 1810 al 1817 facendo rifluire gli smalti dalla fornace di famiglia a Roma.

A proposito degli smalti scrive: «ivi erano infinita le varietà; tanto delle Carnaggioni delle 13 figure, quanto dei panneggiamen-ti, ed accessori». si deve infatti al padre di aver saputo spogliare «gli antichi processi di tutte le superfluità e superstizioni “Al-chimistiche” semplificando limetodi combinandoli con la possibile economia; e per quanto è possibile in fuochi si intensi, sep-pe ridurre a sistemi, ciò che per lo innanzi si praticava a tentone, e non si ripeteva che dal Caso».

Destinata da Napoleone al Louvre, dopo la caduta napoleonica l’opera fu rivendicata dagli Asburgo. La solenne partenza del mosaico per la capitale dell’Impero l’11 agosto 1818 è descriitta da Vincenzo: «alle ore quattro del mattino è partito per Vienna il quadro il quale è uscito dal Dazio della Porta Orientale con il seguente convoglio, cioè li undici carri i quali erano caricati del-le dodici lastre componenti il quadro ed ogni carro veniva tirato da n. sei di cavalli eccettuato uno con la cassa più piccola che ve ne erano solo quattro, , altre sei carriaggi del treno carichi di foraggio ed altro, ognuno tirati a quattro cavalli. Un ufficiale, un

L’ULTIMA CENA

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Giacomo Raffaelli. Copia Dell'Ultima Cena (mosaico) Chiesa Dei Minoriti, Vienna

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sergente, un caporale, tutti a cavallo, e n. dodici soldati arma-ti a piedi servivano di scorta al detto convoglio».

A Vienna il mosaico fu esposto a terra in una delle sale del-l’Ambraser-Sammlung, visibile attraverso una tribuna in legno appositamente realizzata, e successivamente depositato nel-le cantine dello Schloss Belvedere, in quella che era stata la residenza del principe Eugenio di Savoia, e che ora ospitava la Galleria d’Arte Imperiale. Sarà la “nazione” degli italiani a Vienna, che aveva il suo luogo di culto nella Minoritenkirche, a richiedere nel 1921 il mosaico come ornamento di un altare realizzato dall’architetto Federico Stache. L’opera fu definitiva-mente collocata nella sua nuova sistemazione il 26 marzo del 1847 alla presenza dell’Imperatore (notizie sul montaggio e sui costi dell’operazione si trovano nell’Archivio della Congre-gazione Italiana conservato nella chiesa).

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Chiesa dei Minoriti, Vienna

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Oggetti decorati in micromosaico

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Via Del Babuino 115

Tappa 10PRIMO ATELIER THORVALDSEN

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Bertel Thorvaldsen, Ritratto Di Rudolph Suhrlandt, 1810 Dettaglio

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Albert Thorvaldsen inaugurò nel 1797 l'apertura del suo primo studio nella sua abitazione in via del Babuino, che oggi ospita una sede di una compagnia assicurativa. Precedentemente era dello scultore inglese John Flaxman che dal 1787 al 1794 fu a Roma per studiare l'antico.

Nel 1804 si trasferisce in Casa Buti in via Sistina,46 dove oggi troviamo una targa commemorativa a lui dedicata e successiva-mente nel 1822 in Piazza Barberini 18 (dove oggi c’è il cinema). Qui trova gli spazi necessari ad opere di grande dimensione.

Thorvaldsen è rappresentante di rilievo del neoclassico nordico, si confronterà anche con Canova, poco lontano. I due scultori scelsero Roma come seconda patria che fu per entrambi musa creativa.

Gradita e stimolante la frequentazione dello scultore con Felix Mendelssohn che così lo descriveva, “aspetto è simile a quello di un leone [con] occhi così limpidi come se tutto in lui dovesse assumere una forma e un’immagine” (lettera al padre del 10 dicembre 1830)

PIF, presentarore e attore cine telvisivo, è discendente da Thorvaldsen attraverso la figlia Elisa Sophia Carlotta (Roma 1813 - Albano 1870), che lo scultore ebbe da Anna Maria von Uhden (nata Magnani), domestica dell’amico e mentore, l’archeologo Zoega, dove Anna Maria lavorava, ch divenne la sua amante e, nel 1804, lasciò il marito. Thorvaldsen non si sposò mai, ma lgittimò la figlia che contribuì a generare la discendenza rintracciabile ancora oggi sia in Sicilia che negli Stati Uniti.

BERTEL THORVALDSEN

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Atelier pza Barberini, dipinto di Ditlev Martens

Pif Casa Buti, Via Sistina

Venus

Ritratto di Wilhelm von Schadow con il fratello Rudolph e Bertel Thorvaldsen

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Il “Ghetto Degli Inglesi”

Tappa 11PIAZZA DI SPAGNA

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Schiff, John D., De Wael Luca - Sec. XVII - Veduta Di Roma Con

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Arriviamo nel cuore del “Grand Tour” romano. L’area era, come oggi, piena di locande, camere in affitto e alberghi ed era chia-mata “il ghetto degli inglesi” per il gran numero di anglosassoni che alloggiavano o frequentavano la zona.

La zona era densamente popolata da hotel, locande, stanze e appartamenti in affitto. Si può dire che AIRBNB non ha inventa-to nulla, considerando il passaparola, la manualistica e l’attività dei procacciatori nei punti di arrivo dei viaggiatori.

TOBIAS SMOLLETT, Travels through France and Italy (1766)

Viaggi attraverso la Francia e l’Italia (pubblicato nel 1766)

LETTERA XXIX  Nizza, 20 Febbraio 1765

Gli stranieri che vengono a Roma raramente alloggiano in locande pubbliche, ma vanno direttamente in “pensioni”, di cui vi è grande abbondanza in questa zona......

La zona era densamente popolata da hotel, locande, stanze e appartamenti in affitto. Si può dire che AIRBNB non ha inventa-to nulla, considerando il passaparola, la manualistica e l’attività dei procacciatori nei punti di arrivo dei viaggiatori.

Il Grand Tour poteva essere pericoloso, bisognava fare molta attenzione ai tipi di letto che le locande e i posti di ristoro offriva-no al viaggiatore stanco, affamato e alla ricerca di comfort. Il giaciglio poteva essere «abitato» oppure «guernito» e qualche volta si potevano avere entrambe le combinazioni.

PIAZZA DI SPAGNA

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Nel primo caso chi viaggiava andava incontro alla coabitazio-ne con cimici e pulci. Il magistrato ugonotto francese  Maxi-milien Misson, scrisse una vera e propria guida al Grand Tour nel 1668 dal titiolo Nouveau Voyage d'Italie, dove in appendi-ce raccomandava che se non ci si poteva portare dietro una brandina bisognava almeno avere con sè lenzuola o coperte. Poi venne la fortunatissima guida di viaggio dell'inglese Ma-riana Starke, invece, consigliava, a scopo di protezione, un ampio camicione da notte da indossare sopra i vestiti. Lo scrittore francese Stendhal nel suo romanzo più famoso La Certosa di Parma, riferisce di un viaggio di uno storico ingle-se che "non pagava mai niente, nemmeno per la più piccola sciocchezza senza prima guardare il suo prezzo nei viaggi di una certa signora Starke, un libro che ... indica al prudente inglese il costo di un tacchino, una mela, un bicchiere di latte e così via ".

Il letto «guernito», annotava Johann Georg Keyssler in un'al-tra famosa guida secentesca di ben 2200 pagine dal titolo Nuovi viaggi in Germania, Boemia, Ungheria, Svizzera, Italia e Lorena, è quello confortato da una graziosa pollastrella po-teva risultare estremamente gradevole.

Casa MendelssohnPiazza di Spagna 5

(Amburgo, 1809 – Lipsia 1847) compositore, direttore d'or-chestra, pianista e organista tedesco del primo romantici-smo.

Il «romanticismo felice», come fu ben definito quello di Men-delssohn, trova una delle sue più perfette espressioni nella Sinfonia n. 4 in la maggiore op. 90, detta Italiana perché abbozzata durante il soggiorno dell'autore nel nostro paese, soggiorno che da Venezia a Napoli si protrasse fino all'estate 1832.

Nella lettera 8 novembre 1830 indirizzata alla sua famiglia, dove afferma: ” Oggi dovrei scrivervi dei primi otto giorni pas-sati a Roma, di come procede la mia vita … quale impressio-ne sulle prime abbiano suscitato in me questi divini dintorni … provo un senso di tranquillità, di gioia e anche di serenità, che non vi saprei descrivere. Non so neanche dirvi esatta-mente che cosa produca in me questa sensazione. Il terribile Colosseo, il luminoso Vaticano e la dolce aria primaverile vi contribuiscono e così pure l’affabile popolazione … Per farla breve, mi sento diverso: sono felice e in buona salute come mai da lungo tempo, provo una tale gioia e sento una tale energia per quanto concerne il mio lavoro che penso di porta-re a compimento qui molte cose che avevo iniziato, poiché mi sento veramente in forma … Immaginate una piccola casa

con due finestre al n. 5 di piazza di Spagna, che per l’intero giorno è illuminata dai caldi raggi del sole … la mattina me ne sto alla finestra e guardando verso la piazza vedo come ogni cosa alla luce del sole si stagli nitidamente contro il cie-lo azzurro. Quando la mattina presto … appare il sole splen-dente … ciò suscita in me una sensazione infinitamente pia-cevole, poiché invero siamo già in autunno inoltrato e chi da noi potrebbe pretendere ancora il caldo, il cielo sereno, grap-poli d’uva e fiori? Dopo colazione, mi metto a lavorare e suo-no, canto e compongo fino a mezzogiorno. Poi mi rimane l’ob-bligo di godere tutta l’immensa Roma; mi dedico a questo impegno con estrema lentezza e ogni giorno scelgo qualco-sa di diverso in questo patrimonio della storia del mondo. Un giorno vado a passeggio tra le rovine della vecchia città, un altro alla Galleria del principe Borghese o al Campidoglio, oppure a S. Pietro o al Vaticano. Ogni giorno è così indimenti-cabile e, a mano a mano che il tempo passa, ogni impressio-ne si fa più forte e intensa … Quando mi trovo là, non vorrei andarmene via e così ciascuna delle mie impressioni mi pro-cura la gioia più pura e un piacere si sussegue all’altro …”.

Casa Franz Ludwig CatelPiazza di Spagna 9Franz Ludwig Catel (Berlino, 1778 – Roma, 1856) è stato un pittore tedesco attivo a Roma, dove si stabilì nel 1811, fino alla morte.

La famiglia, ugonotta, era originaria di Sedan. A Berlino, do-ve il padre aveva una attività commerciale, si iscrisse alla Ac-cademia d'arte 1797 sia Franz Ludwig come fece il fratello Friedrich.

Franz amava viaggiare, sicché lo si trova iscritto all'École des Beaux-Arts di Parigi per tre anni di seguito, dal 1798 al 1800, presentato da Jean-Antoine Houdon. Nel frattempo svolgeva

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anche l'attività di illustratore e attorno al 1800 avviava insie-me con il fratello una fabbrica di marmo artificiale per mo-saici e oggetti d'arredo. Questa produzione fu apprezzata dal duca di Weimar, che gli commissionò alcune decorazioni del Castello di Belvedere.

Nel 1807 Catel tornava con il fratello a Parigi, restandovi per quattro anni a studiare e perfezionarsi, ma anche a realizzare la decorazione della casa di campagna del governatore di Berlino in Alsazia.

Nel 1811 entrambi i fratelli Catel erano a Roma, forse attirati dal vento neoclassico. Tuttavia, tra i primi interlocutori che trovarono in città furono proprio i "fratelli di San Luca", il grup-po di giovani tedeschi guidato da Friedrich Overbeck, che al convento di Sant'Isidoro stava costituendo il movimento dei Nazareni. Come molti stranieri, anche artisti, Catel aveva preso casa a via Sistina, e con i nazareni collaborò parteci-pando anche, nel 1816, alla decorazione di palazzo Zucca-ri, allora residenza del console generale di Prussia, Bartholdy.

È del 1812 il primo dei numero-si viaggi di Catel al sud, in compagnia dell'archeologo Au-bin-Louis Millin; e la buona ma-no di paesaggista che l'archeo-logo gli riconosce consente in effetti a Catel di entrare e pro-sperare nel giro dei vedutisti romani che trovano il proprio mercato presso i ricchi stranie-ri in grand tour.

Nel 1814 Catel ha evidente-mente scelto di farsi completa-mente romano: abiura il calvini-smo per farsi cattolico, sposa Margherita Prunetti figlia di un letterato, prende casa a piazza di Spagna, fa molta vita di so-cietà, frequentando intensa-mente il mondo di intellettuali, artisti e nobili che popolava la Roma della Restaurazione, e assume anche un ruolo di orga-nizzatore culturale, partecipando e organizzando esposizioni a Roma ma anche in Germania.

Continua a viaggiare molto e dipinge molto en plein air, ma ama anche le scene di genere e memoriali, come il ritratto di "Schinkel a Napoli" o "Il principe ereditario Luigi di Baviera all'osteria spagnola di Ripa Grande". Col tempo e l'età l'ispira-

zione si affievolisce, ma non la vitalità e il ritmo dei suoi viag-gi e delle altre attività sociali, che anzi diventano preminenti.

Al momento della morte, quasi ottantenne e senza figli, Catel lascia un discreto patrimonio, che conferisce per metà ad una fondazione benefica da lui costituita, a beneficio di tede-schi bisognosi e artisti italiani. La moglie, che gli sopravvive di quasi vent'anni, conferirà poi alla Fondazione il resto del patrimonio. Fu sepolto in Santa Maria del Popolo, dove si può ancora vedere il suo monumento funebre.

Albergo SERNYPiazza di Spagna 3(Oggi 1 Salita di S. Sebastianello)

Complesso rintracciare e concordare i riferimenti alle proprie-tà di questa dinamica famiglia di imprenditori alberghieri.

Antonio Capostipite della famiglia Serny era arrivato a Ro-ma al seguito delle truppe della Repubblica nel 1798, all'età di 32 anni. In pochi anni i Serny divennero proprietari di im-mobili, di alberghi e di locande, ubicati in piazza di Spagna e dintorni.

Nel 1824 Antonio acquistò anche il palazzetto in via della Croce 1-3, in angolo con piazza di Spagna, dove più tardi

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abiterà il celebre pianista Giovanni Sgambati, come ricorda ora una lapide sulla facciata

Si dedicò anche all’attività alberghiera nella stessa piazza di Spagna ai civici 7 e 11, dove in precedenza era stato l'Ho-tel Monte d'Oro, che divenne la Maison Serny.

L’edificio sorse come proprietà dei Minimi di Calabria che avevano il convento annesso alla Chiesa della SS. Trinità dei Monti: lo indicano le finestre decorate con i gigli di Francia, alla quale l’ordine dei minimi era molto legato, grazie alle do-nazioni della casa reale francese

Nell'Hotel Monte d'Oro soggiornò J. Gaspar Goethe, il pa-dre di Wolfgang, nel 1740.

Nel 1827 Antonio acquistò pure tre casette in via San Se-bastianello 1 - 3, rilevando anche la Locanda Ennis che vi veniva gestita e che divenne la Locanda Serny.

Nel 1824 soggiornò il Principe Federico dei Paesi Bassi

Nel 1831 vi soggiorna Sthendal

Oggi Istituto S. Giuseppe De Merode

Morto questo dinamico imprenditore, in data imprecisata do-po il 1845, la gestione delle due locande, che presero il no-me di Locande dei Fratelli Serny, passò al figlio Augusto e ai nipoti Emilio e Guglielmo.

Nel 1867 muore Augusto; l'esercizio di piazza di Spagna 13 (al n. 17 era l'abitazione dei titolari) assunse tra il 1871 e il 1872 la denominazione di Albergo di Londra .

Nel 1867 Guglielmo Serny, fonda una società sporti-va progenitrice del Reale Circolo Canottieri Tevere Remo e il giardino d'inverno dell’Albergo Londra divenne la prima sede del giovane Circolo.

Il 12 maggio 1874 Guglielmo Serny morì prematu-ramente all'età di 31 anni e l'anno successivo Emii-lio, che probabilmente non se la sentiva di prosegui-re da solo, cedette l'azienda ai fratelli Silenzi, men-tre la locanda di via di San Sebastianello finì per diventare la sede del Collegio De Merode, che lo occupa tuttora.

Hôtel de LondresPiazza di Spagna 15

Le prime tracce dell'edificio risalgono al XVI secolo

e riguardano un complesso che nel '700 era adibito ad alber-go. Nell'800 era denominato "Hôtel de Londres" e ospitò viag-giatori famosi (James Adam nel 1761, il nipote del re di Sve-zia nel 1764, il granduca Paolo di Russia – divenuto poi impe-ratore - nel 1782, il re Federico Guglielmo III accompagnato dal futuro imperatore di Germania Guglielmo I nel 1822). Fu evocato da Alexandre Dumas nella sua opera Il conte di Mon-tecristo (Cap. XXXI)

“Verso il principio del 1838 si trovavano a Firenze due giovani che appartenevano alla società più elegante di Parigi: uno era il visconte Alberto de Morcerf, l'altro il barone Franz d'Epi-nay. Avevano stabilito fra loro che sarebbero andati a passar quel carnevale a Roma, ove Franz, che abitava l'Italia da più di quattro anni, avrebbe fatto da cicerone ad Alberto. Ora, siccome non è piccola cosa l'andare di carnevale a Roma, particolarmente quando non si vuole andare a dormire in piazza del Popolo, o al Foro Romano, essi scrissero a Pastrini proprietario dell'albergo Londra in piazza di Spagna per pre-garlo di serbar loro un comodo appartamento. Pastrini rispo-se che non aveva più che due camere ed un locale al secon-do piano, che lo offriva loro mediante la modica spesa di un luigi al giorno

Nel 1914 al posto dell’Albergo Londra sono censiti due Hotel (Princes & Bavaria e La vigne de Paris). L'albergo rimase in attività fino al 1931. In tale anno fu venduto alla Banca Bar-clays che lo tenne fino all'immediato dopoguerra. Nel 1951 l'immobile fu acquistato dalla Banca Commerciale Italiana che lo ristrutturò con lavori che si protrassero fino al 1954. Oggi è sede del Gruppo Mediobanca

Caffé degli InglesiPiazza di Spagna 85 angolo via delle carrozze.

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Il locale, aperto negli anni Sessanta del Settecento, oggi non esiste più. Era situato sul Lato sinistro di Piazza di Spagna per chi scende dalla scalinata di Trinità dei Monti, tra Via Frattina e Via Propaganda Fide. L'interno del Caffé era stato decorato da Gio-vanni Battista Piranesi, con motivi tratti dall'arte egi-zia. A documentare questa decorazione, in sorpren-dente anticipo sul revival egizio di inizio Ottocento, restano due incisioni, pubblicate dallo stesso Pirane-si nella raccolta Diverse maniere di adornare i cami-ni (1769). Era il luogo di incontro più frequentato da-gli artisti e dai turisti britannici a Roma. Al suo posto vi fu prima aperta la storica librería Bocca, che negli anni 90 cedette il posto ad un tour operator ed oggi Chanel

La storica Libreria Bocca apre a Torino nel 1775 coi fratelli Giovanni Antonio Sebastiano e Secondo Boc-ca, nativi di Asti.

Cinque sono state le sedi della libreria in passato: Parigi, Fi-renze, Roma, Torino e Milano, l'unica sopravvissuta. Le sorti dell'azienda per lungo tempo hanno seguito quelle dell'Italia, i Bocca stampavano per Casa Savoia. La cultura nazionale ha un grande debito nei confronti della casa editrice che an-novera tra i suoi autori Gioberti, Pellico, Previati, Segantini, Nietzsche, Kierkegaard, Freud. Opere come Le mie prigioni del 1832 di Pellico e L'interpretazione dei sogni di Freud. Dal 1979 le sorti dell'azienda, passata negli anni dalle mani dei Bocca a quelle dei Dumolard (giunti a Milano dalla Francia già nel 1794, vi aprirono una vivacissima e frequentatissima libreria specializzata nell’importare titoli francesi) dei Calabi (famiglia ebraica che lasciò attività paese all’epoca delle leg-gi razziali), dei Mauri (Messaggerie), sono nelle mani della famiglia Lodetti (che si era fatto le ossa con Messaggerie).

TOBIAS SMOLLETT, Travels through France and Italy (1766)

Viaggi attraverso la Francia e l’Italia (pubblicato nel 1766)

LETTERA XXIX  Nizza, 20 Febbraio 1765

....Per trovare un po' di sollievo,l'unica alternativa consisteva nello scappare al Caffè degli Inglesi : una sudicia stanza a volta con le pareti affrescate con sfingi, obelischi e piramidi, ispirati ai disegni fantastici fi Piranesi,più adatti ad un sepol-cro egizio che a un luogo di conversazione sociale.Qui, sedu-ti intorno a un braciere acceso che avevamo sistemato al cen-tro, cercavamo di stare in allegria per un'ora o due bevendo una tazza di caffè o un bicchiere di punch, per poi cercare a

tentoni la strada di casa, nel Buio, nella Solitudine, nel Silen-zio.

Bottega e Abitazione Aguatti/Agnatti (Micromosaicista, )Piazza di Spagna 96

Bottega e Abitazione Clemente Ciuli (Micromosaicista, )Piazza di Spagna 70/71Nel 1807 Ciuli affitta tre appartamenti ed una bottega, sgno di una attività ben avviata. Vive al terzo piano, affitta gli altri appartamenti, con la vista sulla piazza (locanda de forestie-ri). Produce e vende le sue opere nel centro dello shopping legato al Grand Tour, vicino ad altre botteghe di prestigio. An-tonio Aguatti, altro micromosaicista, probabilmente figlio o fratello di Cesare, era al 96 della piazza. La bottega è definita “di antiquario” il che fornisce indizio di un parallelo commer-cio di antichità.

La moglie, Felice (sic) Mori è sorella di Ferdinando Mori, inci-sore attivo nella riproduzione archeologica.

Dimora di ByronPiazza di Spagna, 66Nel 1817 Byron poeta romantico si trasferì nell'appartamento di via oggi sede dello Shenker Institute of English il quale il 21 Marzo 2007, giornata mondiale della poesia, inaugurò una mostra in tributo del poeta romantico.

George Byron, meglio conosciuto come Lord Byron, partì per il viaggio del Grand Tour nel 1800 fece diverse tappe prima di arrivare nella città eterna nel 1817.

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Keats-Shelley HousePiazza di Spagna, 26E’ stata l’ultima dimora di John Keats, che vi morì nel 1821 a soli venticinque an-ni. L’esterno dell’edificio è simile a com’era quando Keats arrivò a Roma nel vano tentativo di rallentare le ineluttabili conseguenze della tubercolosi. Aperta al pubblico nel 1909, questa casa museo contiene una ricca collezione di quadri, sculture, manoscritti, ogget-ti e prime edizioni delle opere di Keats, Percy By-sshe Shelley e Lord Byron, ovvero i più importanti esponenti della seconda generazione romantica in-glese. Il giovane poeta John Keats,si era trasferito in Italia per curare la sua tubercolosi, con il fraterno amico, il pittore Joseph Severn.

Nella prima metà dell’800 l’Italia - centrale e meridionale – è consigliata come meta di viaggio anche per la cura di molte malattie.

Nelle “Letters from Italy”, poi successivamente nella guida, molto utilizzata, “Travels on the continent” pubblicata nel 1820, la viaggiatrice britannica Mariana Starke suggeriva in modo dettagliato quali luoghi frequentare. Roma, in particola-re era considerata una delle migliori località invernali per la cura delle malattie polmonari.

Sulla guida di Henry Coxe del 1815 è annotato: “L’aria di Ro-ma è considerata buona in inverno per gli asmatici”.

Il tisiologo James Clark svolgeva la sua attività proprio a Ro-ma, consigliando assiduamente il clima invernale romano, in particolare per i tisici nelle prime fasi della malattia. Si soffer-ma poi sulle residenze : “ La piazza di Spagna e le sue stra-de vicine, offrono le migliori residenze”.

La fama terapeutica dell’Italia centrale decadde a partire da-gli anni ’70 quando fu superata da quella della Riviera ligure – esclusa la “malsana” Genova.

Casa dei BorgognoniPiazza di Spagna 31

Nel 1766 la casa divenne sede della Locanda di Pietro Gau-denzi e del caffettiere Antonio Delfini e allora vi soggiorno un gruppo di pittori svizzeri .

Nel 1848 la casa divenne sede del Casino degli Inglesi, cir-colo letterario trasferito in seguito a Palazzo Lepri in Via Con-dotti

Edificio originario del 600, ma successivamente modificato. Al pianterreno una porta di bottega ad arco ribassato e un elegante portale con lo stemma di Jacques Courtois (italianiz-zato Cortese), detto il Borgognone, pittore seicentesco di bat-taglie. Insieme al fratello Guglielmo. Venuti in Italia insieme nel 1636 al padre , pittore di immagini sacre. Divennero fa-mosi fra le famiglie nobili romane, committenti di numerosi lavori

La loro casa fu un centro di vita artistica tra il 600 e il 700, punto di appoggio per numerosi turisti stranieri come ospiti.

Ci avviamo verso via Condotti, ricca di altri locali

Via Condotti

Una romantica leggenda narra che i soldati di Agrippa, esau-sti ed assetati, furono “condotti” dalla mano di una vergine

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fino alla sorgente che alimenta la Fontana di Trevi. Sarebbe nato così il nome "via dei Condotti".

In realtà la strada, prima denominata via Trinitatis, assume l’attuale nome a seguito delle tubatura di condotti che Grego-rio XIII fece costruire per portare l’Acqua Vergine fino al rio-ne di Campo Marzio.

La strada fa parte del lungo rettilineo formato da via del Clementino, via di Fontanella Borghese e via Condotti che “chiudeva” il Tridente.

E’ noto anche come “Tridente Mediceo”, perché furono due papi de’ Medici (Leone X e Clemente VII) nel 1500 ad avviare la serie di opere pubbliche che hanno dato il volto a questa zona. Leone X realizzò la via Leonina, oggi via di Ripetta. Il Tridente fu poi completato con la costruzione di via Clementi-na, futura via del Babuino, sotto il pontificato di Clemente VII. Al centro, fra le due vie, c’era già l’antica via Lata - via Flami-nia, attuale via del Corso.

L’Acquedotto Vergine attraversava il Pincio (sotto Villa Medi-ci) che percorreva lungo la falda rivolta al Campo Marzio (pa-rallelo a Via Margutta). Alle pendici del colle (presso gliHorti Luculliani) si trovava la piscina limaria (dalla quale deriva il nome di Vicolo del Bottino). Sbucava quindi finalmente e defi-nitivamente a cielo aperto verso la metà dell'attuale Via due Macelli, da dove, mediante una serie ininterrotta di arcate, attraversava l'attuale Via del Nazareno (dove si conservano parzialmente interrate tre arcate in bloc-chi bugnati di travertino con l'iscrizione che ricorda il rifacimento di Claudio), pas-sava quindi per la zona della Fontana di Trevi e l'area oggi occupata da Palazzo Sciar-ra (nei cui sotterranei si trovano gli avanzi di al-tre due arca-te, pure in

blocchi di travertinodel restauro di Claudio, con una luce di 3,15 metri ), scavalcava la Via Lata (oggi Via del Corso), con un'arcata trasformata in seguito in arco trionfale in onore di Claudio per celebrare la conquista della Britannia, prosegui-va lungo la Via del Caravita, Piazza S. Ignazio e Via del Semi-nario, all'inizio della quale doveva trovarsi il castellum termi-

nale. Qui ter-minava, "da-vanti alla fon-te dei Saep-ta", come scri-ve Frontino, in prossimità del Pantheon e delle adia-centi Terme di Agrippa.

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VIA CONDOTTI 86

Tappa 12CAFFÈ GRECO

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Ingresso Del Caffè Greco

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E’ il più antico caffè di Roma, in Italia solo il Florian di Venezia è più antico. Il nome del locale deriva dal fatto che Nicola della Maddalena, il caffettiere che lo ha fondato nel 1760, era greco.

All'inizio del XIX secolo il Caffè Greco divenne il ritrovo preferito di artisti e intellettuali tedeschi che si trovavano a operare in Ita-lia. A documentazione del fatto, vi sono tra gli altri gli schizzi e ritratti a matita eseguiti da Carl Philipp Fohr in preparazione di un quadro mai realizzato a causa della morte dell'artista, annegato nel Tevere. Gli schizzi, conservati a Heidelberg e a Francoforte, sono ambientati nel Caffè Greco.

Da allora, il Caffè divenne in generale un punto di incontro per personalità intellettuali e politiche: Gioacchino Pecci, futuro papa Leone XIII, fu un assiduo frequentatore del Caffè, così come lo fu Silvio Pellico.

Nella sala Omnibus del Caffè Greco sono esposti i medaglioni, le placchette in gesso e le miniature raffiguranti gli artisti, poeti, musicisti, che nel corso degli anni hanno frequentato il locale.

La caffetteria è famosa anche per le importanti personalità che lo hanno frequentato nel corso degli anni come Massimo D’Aze-glio, Luigi di Baviera, Buffalo Bill, Ennio Flaiano, Aldo Palazzeschi, Cesare Pascarella, Richard Wagner, Orson Welles, Edvard Grieg, Johann Wolfgang von Goethe e molti altri ancora.

Si racconta un aneddoto riguardante un famoso cliente occasionale della caffetteria : Henry Beyle più noto con lo pseudonimo di Stendhal che varcò la soglia dell’Antico Caffè Greco per cercarvi il suo sosia. Precedentemente lo scrittore francese a Terni era stato scambiato per il pittore Stefano Forby e per tale motivo era stato trattato con grandissima cortesia. Stendhal aveva cer-cato di chiarire l’equivoco ma non vi era riuscito tanto era somigliante al Forby. Giunto a Roma lo scrittore aveva saputo che il suo sosia era un frequentatore della famosa caffetteria e vi si era recato, curioso di incontrarlo. Il vederlo però gli aveva provoca-to una grande delusione in quanto il pittore era molto brutto.

IL CAFFÈ GRECO

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Tra i noti personaggi che furono clienti del locale, ci fu Giacomo Casanova: giovane aba-te al servizio del cardi-nale Acquaviva, trovan-dosi a passeggiare per la Strada Condotta, co-me si chiamava prece-dentemente via dei Con-dotti, dove fu chiamato dal cardinale Gama che, seduto ad un tavo-lo del caffè con altri aba-ti, lo invitò a fare loro compagnia. Sembra che si intrattennero scambiandosi storie e racconti lontani dall’au-sterità consona al loro abito.

In questa occasione Casanova scambiò per una donna vestita da uomo Giuseppe Riccia-relli anche conosciuto come Beppino della Mammana. Lo disse al Gama il quale ridendo affermò che Beppino era un famoso castrato dopodiché glielo presentò raccontando, l’equivoco in cui Casa-nova era caduto. A questo punto pare che il nuovo arrivato abbia proposto a Casanova di passare una notte con lui pro-mettendogli di ricoprire sia il ruolo di ragazza che quello di ra-gazzo.

Su un tavolino del Caffè Greco Gogol’ scrisse gran parte delle Anime Morte. Nello stesso locale si recava spesso anche Schopenhauer portando sempre con sé un barboncino bianco che chiamava Atma ( anima del mondo ). Nella caffetteria ri-schiò di essere aggredito da un gruppo di pittori tedeschi detti i Nazareni, per avere insultato la Germania: per lui era la na-zione più stupida della Terra, l’unica superiorità che le ricono-sceva era quella di poter fare a meno della religione.

Tra i famosi clienti dell’Antico Caffè Greco vi fu anche Liszt che veniva a Roma tutti gli anni ed era ospite nei migliori salot-ti.

"Né la grandezza né il deco-ro distinguono questo caffè, bensì il pubblico che lo fre-quenta; ogni sera vi s'incon-trano artisti da tutti i Paesi civili d'Europa, tra i quali la Turchia non conta..." (Chri-stian Frederik Hillerup, 1793-1861)

Nel 1830 Felix Mendels-sohn dichiara al padre la sua avversione nei confron-ti dei suoi connazionali pit-tori, i cosiddetti Nazareni, che affollano il Caffè Gre-co: “Essi siedono intorno ai banchi con larghi cappelli in testa, con accanto grossi mastini e il collo, le guan-ce, tutto il viso coperti di capelli; fanno un fumo orri-bile e si dicono reciproca-mente volgarità; i cani, poi, provvedono alla diffusione dei parassiti; una cravatta o un frac parrebbero eccen-tricità. La parte del viso che è lasciata libera dalla barba è coperta dagli oc-chiali e in questo modo be-

vono caffè e parlano di Tizia-no e di Pordenone come se anche questi sedessero accanto a loro e portassero barbe e cappelli da marinaio. Così dipin-gono madonne malaticce, santi malandati, eroi imberbi, tanto che verrebbe voglia di prenderli a schiaffi”

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Pamphlet di 4 pagine del 1910 e una delle sue foto

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VIA CONDOTTI 9 -11

Tappa 13PALAZZO MARUSCELLLI LEPRI

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Palazzo Maruscelli Lepri

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In pieno Ottocento dentro a Palazzo Lepri, dove nel 1937 mo-rira' Guglielmo Marconi, si mangia a La Lepre, la piu' ricerca-ta trattoria di Roma.

Frequentatori Hermann Melville (1857) e Nicolaj Gogol

Famosa fra scrittori e artisti ai primi dell' Ottocento. Un indiriz-zo da passaparola, tramandato attraverso i taccuini di viag-gio. Ci pranzava tutti i giorni Herman Melville, che appuntava sul quaderno il prezzo del pasto completo, 19 cents. Nikolaj Gogol usava ordinare minestra e un piatto di carne, finché non confidò a un amico: «Non pranzo più alla Lepre, dove non sempre si trovano materie di qualità. Meglio il Falcone,

vicino al Pantheon, dove i montoni fanno concorrenza a quelli del Caucaso». Pare che Gogol fosse particolarmente esigen-te, e che spesso chiedesse al cameriere di cambiare un piat-to non di completo suo gusto (lo ricorda Pavel Annekov).

“Mi portò alla famosa storica osteria con l'insegna della Le-pre7, dove su lunghe tavole, camminando su un pavimento sudicio e accomodandosi su delle semplici panche, affluiva all'ora di cena il pubblico più svariato: artisti, stranieri, abati, cittadini, fattori, principi, tutti mescolati in un unico chiacchie-rio e pronti a consumare quello stesso cibo che la lunga pe- rizia dei cuochi aveva in effetti preparato in modo impeccabi-le. Era sempre lo stesso: riso, agnello, pollo; cambiava soltan-

to la verdura di stagione. Era sempre più evidente qui quella semplicità del convivere che in Italia si era fatta presentire anche in tutte le altre sfere della vita. Gogol' mi stupì molto, tuttavia, per il suo modo capriccioso, esigente di trattare con i servitori. Due volte si fece cambiare il piatto di riso, trovando-lo ora troppo cotto, ora troppo crudo, e il cameriere glielo cambiò ogni volta con quel sorriso bonario di un uomo già avvezzo alle stranezze di quello strano forestiero che lui chia-mava signor Nicolò. Quando alla fine arrivò il piatto di riso di suo gusto, Gogol' vi si accostò con una avidità incredibile, chinandosi tanto che i suoi lunghi capelli finirono nel piatto, e ingoiò un cucchiaio dopo l'altro con quella rapidità e passio-ne che, dicono, hanno di solito a tavola le persone inclini alla ipocondria.”

Definitivo il giudizio dell' americano Orville Horwitz, che la considerava «tra le migliori tavole di Roma, ma probabilmen-te la peggiore d' Europa». Stendhal sedeva invece da Franz, poco più in là, pranzando a menù fisso. Altrimenti alla Giacin-ta o da Armellino al Corso, di fianco a palazzo Sciarra, dove una cena completa valeva 26 baiocchi. Un secolo dopo, sul-la stessa via Condotti, Joyce si lamenta piuttosto di acco-glienza e servizio, ancora oggi note dolenti della ristorazione cittadina: «La prima cosa che cerco in una città è un caffè. Roma ha un solo caffè e quell' uno è peggiore di tutti i miglio-ri a Trieste». E sembra ancora valido, a distanza di settant' anni, anche il consiglio del modenese Paolo Monelli, «Ghiotto-ne errante» per eccellenza: «A Roma non si deve mangiare che dove va il popolo, e se un' osteria vien di moda è conve-niente cercarne una più oscura»

La Lepre era il locale preferito dagli artisti russi. Nikolai Gogol scrisse al suo amico Alexander Danilevsky nella sua lettera del 13 maggio 1838

"Quello che fanno i pittori (sic) russi qui lo sai per esperienza diretta. Fra mezzogiorno e le due sono alla Lepre, poi al caffè Greco, poi al Monte Pincio, poi al caffè del Buongusto, dopo di che di nuovo alla Lepre e per finire al biliardo.

L’attrazione del locale era il vecchio cameriere Orilia, che si diceva fosse stato a Mosca con l’armata di Napoleone.

LOCANDA LEPRI

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Orilia portava al tavolo un menu con oltre 500 piai di cui solo un centinaio erano disponibili.

L’incisore Fyodor Iordan, amico di Gogol ricorda come al Lepre si potesse incontrare

"gente da ogni parte del mondo; ad ogni avolo si parlava una lngua diversa, su cui dominava il russo, battendo tutti per il tono di voce nelle discussioni animate".

Poiché la Lepre era la trattoria più a buon mercato e “democratica”, ed una delle mi-gliori cucine della città, divenne una specie di club per i pittori russi. Lì essi potevano ascoltare, letti ad alta voce, articoli dei gior-nali russi.

Alexander Ivanov scrisse al padre che i pit-tori russi di Roma avevano fatto una collet-ta per abbonarsi ad alcuni giornali e riviste e rimanere così aggiornati su quanto acca-deva in patria.

Dalla politica si passava facilmente al gos-sip. In una dlle lettere a Ivanov, il pittore Fyodor Moller, che era dovuto andar via da Ro-ma per via di una relazione sentimentale, chie-se:

“Se vi capita di avere un minuto libero, per favo-re fatemi sapere che cosa si dice di me in giro per Roma. Cosa dicono su di me i nostri pensio-nanti russi mentre siedono ai tavoli della tratto-ra Lepre. Sono molto curioso”

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L’Atmosfera delle Osterie

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L’Atmosfera delle Osterie

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VIA CONDOTTI 91

Tappa 14LOCANDA FRANZ

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Hotel D’allemagna, Vista Da Piazza Di Spagna, 1880 Ca-

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Nel 1816/17 vi soggiornò Sthendal, nel1827 amici di Sthen-dal (3 agosto)

Forse vi ha soggiornato anche Goethe Ott/Nov 1878 vi sog-giornò Mark Twain Vi soggiornò Winckelmann

TOBIAS SMOLLETT, Travels through France and Italy (1766)

novembre 1776 "...arrivammo a Roma verso le nove.Giornata fredda e umida. Ci dirigemmo subito alla locanda tede-sca, sulla Strada Condotta, dove prendemmo alloggio..

Gothe ebbe una fugace passione per la figlia dell’oste, Co-stanza Roesler - di lei abbiamo anche il ritratto, un disegno di Tischbein conservato fra le carte di Goethe Graziosissima ventunenne, Goethe la conosce nel gennaio del 1787 nell' osteria di via Condotti dove va spesso a mangiare. Ecco la deliziosa letterina che la ragazza (è analfabeta ma si serve di uno scrivano) indirizza al signor Filippo: "Carissimo Amico, Ieri sera mi fu dato un ventaglio alla moda; poi mi fu ritolto, desidero da voi di trovarmene subito un altro per far vedere a questo, che si trovano altri ventagli, e forse più bello di que-sto. Scusate l' ardire e resto Io Costanza Releir” (il nome Ro-esler è storpiato dallo scrivano).

Questo amore però muore sul nascere, dato che la bella Co-stanza ha come unico scopo quello di trovare marito. Goethe si vede costretto a battere in ritirata: profondamente amareg-giato da questa pur breve esperienza dispera di poter trova-re l' amore sognato: prima di partire per Napoli compra per Costanza un anello per uno scudo e 70 baiocchi come rega-lo di addio.

Altra fonte (Alessandro Giardina, L’Europa le vie del Mediter-raneo), vede Costanza come figlia di Vinzenz Roesker, oste di Piazza San Lorenzo in Lucina e Teresa Kronthaler. Stessa identica versione per il resto. In più, dopo il “ritiro” di Goethe, Vinzenz dà in sposa Cosanza al cameriere Antonio Gentile di 40 anni, di Albano. Le nozze avvengono il 20 agosto e Co-stanza va ad abitare in via Borgognona e nel 1788 nasce una bimba, la prima di 5 figli.

Da ricerche credo in un equivoco. Parliamo di Costanza figlia di Vinzenz Roesler,

La famiglia Roesler Franz, che nella capitale ha fondato il ce-lebre hotel d'Allemagne, tra via Condotti e Piazza di Spagna (vi furono ospitati, tra gli altri, Stendhal, Luciano Bonaparte, Thackeray,Wagner, Winckelmann e Goethe) si era poi imparentata con le più antiche famiglie aristocratiche della città e fu persino citata in alcuni sonetti di Giuseppe Gioachi-no Belli.

Ettore Roesler Franz, oltre all'italiano, parlava correntemente l'inglese, il francese e il tedesco. A partire dal 1878, per una ventina d'anni, Ettore Roesler Franz si aggira con pennelli, cavalletti e macchina fotografica (fu uno dei primi pittori al

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HOTEL D’ALLEMAGNE

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mondo a servirsi di questo nuovo mezzo per meglio focaliz-zare tutti i particolari delle sue vedute e ritrarre i suoi perso-naggi quasi sempre nelle loro funzioni più umili) per vicoli e cortili, strade e piazze della capitale, prima che Roma venis-se in gran parte spazzata a raso dai demolitori e costruita a misura dalle immobiliari piemontesi. Tra i suoi maggiori esti-matori annoverò Joseph Severn (1793-1879), pittore e con-sole inglese a Roma (amico devoto di John Keats che assi-stette fino alla morte) e il grande storico tedesco e cittadino onorario di Roma Ferdinand Gregorovius (1821-1891).

L'opera che più gli ha dato notorietà in tutto il mondo è in-dubbiamente la "Roma sparita", o meglio, per dirla con le sue stesse parole, "Roma pittoresca/Memorie di un'era che passa". Si tratta di 120 acquerelli.

Rappresentano vividamente la Roma pittoresca, ma “vec-chia” e decadente, che attirava ed al tempo stesso disgusta-va i visitatori.

Quella Roma che a fine 800 e, ancor di più, con l’avvento del fascismo, si fece di tutto per far scomparire, con i grandi abbattimenti, l’apertura e raddrizzamento delle strade, lo spostamento forzato di migliaia di abitanti verso le borgate della cintura.

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VIA BOCCA DI LEONE 25

Tappa 15ATELIER POMPEO BATONI

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Antico Atelier Pompeo Batoni

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L' indirizzo più esclusivo, per i grandi ricchi, era quello del pittore Pompeo Batoni (1708 – 1787). Nessun principe usciva dal-lo studio del ritrattista romano più in voga nel ' 700 senza un ritratto che avesse sullo sfondo l' immancabile Colosseo, come fanno ancora oggi i turisti quando si immortalano con le loro macchine fotografiche digitali.

Nato a Lucca nel 1708, Pompeo Girolamo Batoni apprese dal padre, un affermato orafo, la tecnica del disegno. A soli dician-nove anni, già bella speranza dell’arte locale, si trasferì a Roma con il preciso scopo di diventare un grande pittore. Ed in effet-ti Batoni divenne famoso e ricchissimo, celebrato come il miglior ritrattista del mondo oltre che come il più richiesto e versatile artista di Roma nella seconda metà del Settecento. Fama questa che si spense poco dopo la sua morte: era appena stato se-polto che venne subito dimenticato. Il gusto era mutato: il rigore formale del Neoclassicismo stava prendendo il sopravvento sugli ultimi sussulti del Barocco e sulle piacevolezze del Rococò. Dotato di abilità pittoriche naturali, Batoni si distinse per una sorprendente padronanza della tecnica ed una magistrale fluidità di tocco. Incontentabile e mai soddisfatto, continuava a rifinire i suoi dipinti completati anche molto tempo dopo, portando i suoi committenti all’esasperazione. La cura nei dettagli e nei particolari, la precisione nelle fisionomie, l’attenzione maniacale nella resa delle vesti, contribuiscono a fare dei ritratti del Batoni delle vere e proprie istantanee di un’epoca: preziose testimo-nianze utili alla storia della moda e del costume.

Ritrattista a volte un po’ troppo compiacente, non disdegnava a corteggiare la vanità dei suoi soggetti dotandoli di fascino e bellezza anche quando ne erano totalmente privi: la vanità non andava delusa, soprattutto se si voleva fare dei buoni affari. E i committenti non lesinavano di certo sul prezzo pagando cifre altissime per avere il privilegio di farsi immortalare da Batoni. Nominato barone da Maria Teresa d’Austria per un ritratto postumo del marito Francesco I, Batoni subì un destino di triste

ATELIER POMPEO BATONI

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oblio, vittima sacrificale di un’intera epoca che venne ritenuta superata ed obsoleta dal Neoclassicismo ottocentesco.

Oggi, seppure non nel nome, tutti conosciamo l’opera di Pom-peo Batoni per una sola immagine che è diventata un’icona: l’effigie del Sacro Cuore. Un’immagine che consideriamo un pò kitsch per la mercificazione a cui è stata sottoposta nel tempo, ma che rappresenta, per i cattolici, il prototipo della raffigurazione del Sacro Cuore di Gesù: il Cristo sostiene con la sinistra un cuore fiammeggiante e con la desta fa un gesto d’invito alla confidenza della sua misericordia.

Quando giunsi a Roma gli artisti italiani del tempo non parla-vano di nient’altro, non guardavano nient’altro che l’opera di Pompeo Batoni, riconosceva l’americano Benjamin West nel 1760. Ora l’eclettica, variegata e pregiata opera del lucchese è ridotta alla memoria di un gadget che possiamo incontrare in qualsiasi luogo della terra, sulla maglietta di un chitarrista americano, nel cruscotto di un camionista polacco, in un bar equivoco di Timor Est , in un negozio di Lisbona, dovunque.

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