Intellettuali Stranieri a Roma dal Grand Tour al XIX Secolo - 1a parte

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ITINERARIO DA PIAZZA DEL POPOLO A PIAZZA BARBERINI INTELLETTUALI STRANIERI A ROMA DAL GRAND TOUR AL XIX° SECOLO

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ITINERARIO DA PIAZZA DEL POPOLO A PIAZZA BARBERINI

INTELLETTUALI STRANIERI A ROMA DAL GRAND TOUR AL XIX° SECOLO

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Questa passeggiata intende essere un’occasione per raccontare il “Grand Tour” ed i soggiorni di artisti e let-terati stranieri nella Roma del XVIII e XIX secolo.

Ogni tappa, ogni “numero civico” sarà una occasione per i conoscere i personaggi storici che li hanno fre-quentati, tradizioni, movimenti artistici.

Oltre alla ben nota rappresentanza inglese, francese e tedesca, ci soffermeremo sulla folta, importante, ma meno conosciuta comunità russa.

Queste note, non sono un lavoro “originale”, ma un brogliaccio che ho usato come traccia per condurre il gruppo durante la passeggiata, realizzato compilando varie fonti on line e off line.

Mi riferisco alla passeggiata del 19 Febbraio, organizzata dal Club del Territorio di Roma del Touring Club.

PREMESSA

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1.Il grand Tour2.I Russi e roma3.Tappa 1 Piazza del Popolo4.Tappa 2 Dimora Vlaceslav Ivanov5.Tappa 3 Hotel de Russie6.Tappa 4 Casa Goethe7.Tappa 5 Studio Aleksandr Ivanov8.Tappa 6 Rivendita di Giovanni Volpato9.Tappa 7 Atelier Canova Tadolini10.Tappa 8 Carolina e Franz (Liszt)11.Tappa 9 Palazzo Raffaelli e Saulini12. Tappa 10 Atelier Thorvaldsen13.Tappa 11 Piazza di Spagna14.Tappa 12 Caffè Greco15.Tappa 13 Palazzo Maruzzelli Lepri16.Tappa 14 Locanda Franz17.Tappa 15 Atelier Pompeo Batoni18.Tappa 16 Dimora Goldoni19.Tappa 17 Hotel d’Inghilterra20.Tappa 18 Trinità dei Monti21.Tappa 19 Via Gregoriana22.Tappa 20 Residenza Gregorovius23.Tappa 21 Verso via Sistina24.Tappa 22 Casa Buti Via Sistina25.Tappa 23 Verso il Quartiere Russo26.Tappa 24 Via Sant’Isidoro27.Tappa 25 Piazza Barberini

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INDICE

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L’ITINERARIO E LE SUE TAPPE

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CRONOLOGIE DI RIFERIMENTO

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IL GRAND TOUR

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Emil Brack, Planning The Grand Tour

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Chiariamo innanzitutto I termini: Grand Tour è termine france-se ripreso poi nella cultura inglese; venne usata per la prima volta nel 1636 per il viaggio in Francia di Lord Granborne. La si trova quindi nel Voyage of Italy: or a Compleat Journey Through Italy (1670, Richard Lassels, prete cattolico tutore di molti nobili rampolli, che viaggiato 5 volte per l’Italia). Da allo-ra sino alla fine del Settecento designò il viaggio di formazio-ne intrapreso da aristocratici e intellettuali europei – in partico-lare inglesi, francesi e tedeschi – attraverso la Francia e, so-prattutto, l’Italia.

In tedesco Bildungreise, viaggio di formazione è il perno della cultura illuminista. Chi non lo faceva era considerato un mero topo da biblioteca (stubengelehrter - stanza o Schreibtishge-lehrter – scrivania). Nel 1737 l’università di Gottingen apre per prima allo studio della letteratura di viaggio.

Diverso il Kavaliersour del 500 e 600 in cui benestanti nobili parivano insieme al loro tutor per presentarsi presso le corti europee.

Altra forma di viaggio era per gli studenti e professori la “pere-grinatio academica” fra le varie università.

Importanti nel diffonderee e radicare la tradizione del “viaggio di formazione” furono i concetti di Francesco Bacone, che ve-de il viaggio e la scoperta per esperienza diretta come una parte integrante del percorso educativo.

“TRAVEL, in the younger sort, is a part of education, in the elder, a part of experience”.(Viaggiare per i giovani fa parte dell’istruzione, per gli adulti dell’esperienza)Francis Bacon, of Travel, 1625

Anche John Locke esprime concetti analoghi (1693, Some thoughts concerning education).

Varie fasi del Grand Tour

Il concetto e le caratteristiche del Grand Tour evolvono nel tempo.

Dal Medioevo l’Italia è stata meta di pellegrinaggi. Cristiani di tutta Europa (i «romei») confluivano a Roma per visitare i luoghi sacri. Schiere di scolari varcavano le Alpi per studiare negli atenei di Bologna, di Padova o Pavia. Il pellegrinaggio poteva avere motivazioni diverse:

- Peregrinatio Pro Voto- Peregrinatio Ex Poenitentia- Per delega

Dal 500 i luoghi sacri restano tappe ineludibili del viaggio, ma

vengono guardati con un altro occhio, critico se non scientifi-co (quasi etnologico); e accanto a questi si stagliano con sem-pre maggior nitidezza altre mirabilia: l’arena di Verona, le rovi-ne di Roma antica, ma anche la Villa d’Este di Tivoli, gli edifici palladiani di Vicenza e di Venezia, i grandi palazzi fiorentini e romani, le collezioni d’arte e le biblioteche. Per un’élite aristo-cratica di colti, il viaggio in Italia diventa laico ed erudito.

La fine del Settecento registra il momento di massima simbio-si tra l’intellighenzia europea d’Antico Regime e l’Italia intesa e presa nella sua complessa realtà politica, sociale, economi-ca, culturale, linguistica.

Erano circa 40 mila le presenze annuali straniere tra Francia e Italia a metà  del secolo dei Lumi (il settecento), ed in cresci-ta nel tempo. La maggior parte erano molto giovani, dai 18 ai 22 anni, ma anche minorenni.

Sono gli albori del moderno turismo giovanile di massa. La minuziosa programmazione, e l’utilizzo, a fianco della lettera-tura di viaggio, della prima “guida turistica” (Richard Lassels, The Voyage of Italy) sembra anticipare i viaggi del «tutto com-preso» con il tour pianificato minuto per minuto.

Il 'secolo d'oro', su basi dunque seicentesche, non fece che ampliare a dismisura il fenomeno, così che fra 1760 e 1780 crebbero le lamentele degli stranieri assediati dai compatrioti non solo nelle città maggiori ma anche in quelle minori (tra cui Lucca e Siena). Crebbe a dismisura anche lo stuolo degli ac-compagnatori, sempre proporzionato al grado e alle facoltà del viaggiatore: medico, cuoco, valletto, pittore, musicista cor-riere, spesso, a loro volta, divenuti esperti relatori. Cominciaro-no inoltre a comparire nella comunità viaggiante le donne, pre-corritrici delle grandi viaggiatrici di epoca romantica.

Importante spartiacque nella storia italiana del viaggio sono gli anni Quaranta del secolo, quando le nuove straordinarie scoperte archeologiche di Ercolano (1738) e Pompei (1748) determinarono nuove coordinate negli itinerari italiani.

Fino ad allora era stato possibile riconoscere i viaggiatori dal-la loro provenienza e si parlava, a buon diritto, di viaggiatori inglesi piuttosto che francesi identificabili nel fatto che gli uni prediligevano Venezia, gli altri Roma, fin dai tempi di Rabe-lais. Intorno alla metà del Settecento si assiste, invece, a quel-la che è stata chiamata la 'internazionalizzazione' del Grand Tour (De Seta, 1982) che unifica gli itinerari (da nord a sud) incardinandosi intorno all'epicentro costituito dalle due città. L''internazionalizzazione' costituisce il risvolto materiale di un concetto sopranazionale dell'Europa, concetto tipicamente settecentesco, segno della cultura cosmopolitica che si sta affermando. Contestualmente la durata del viaggio comincia ad assottigliarsi, segno di una minore disponibilità economica

IL GRAND TOUR

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e mentale.

Il Grand Tour propriamente inteso, finisce con il tramonto della forma di vita aristocratica, ai primi dell’800.

Dopo Napoleone e dopo il Congresso di Vienna l’Italia non sarà più il locus amoenus nel cui alveo un ceto vario ma ri-stretto di nobili e di ricchi borghesi percorreva le tappe di un itinerario iniziatico, obbedendo a una spinta interiore: al richia-mo dell’arte, dell’archeologia, della musica, della natura. Il viaggio moderno, organizzato o meno, si qualifica ormai come viaggio d’evasione, di vacanza, orientato verso mete circoscrit-te e avulse da un più ampio contesto culturale.

Dopo il Congresso di Vienna, infatti, l'Italia romantica fu ogget-to di nuovi miti e il viaggio, con la modernizzazione della socie-tà, acquistò nuovi ritmi e incarnò nuovi valori. Le aspirazioni culturali si impoverirono, facendo prevalere quelle di pura eva-sione. La scoperta del viaggio è sempre meno personale e sempre più sintonizzata sulle informazioni predisposte dalla 'guida', il nuovo strumento del viaggiatore, che non organizza più in proprio ma viene condotto dalla nuova figura dell'orga-nizzatore di viaggi; questi, grazie alla geniale intuizione di Tho-mas Cook e complice la nuova viabilità ferroviaria, si annette le possibilità conoscitive del viaggio determinandole in base ad esigenze piuttosto economiche che culturali. Si crea ades-so perciò il fenomeno, tuttora vitale, del turismo organizzato e di massa. La filosofia turistica che vi viene impartita, diretta ad un pubblico accresciuto e massificato ad un tempo, è più ac-cessibile e rudimentale di quella maggiormente consapevole e pretenziosa dei secoli precedenti, quando la schiera dei grandtourists solcava le strade italiane a bordo di carrozze ben equipaggiate.

Ma proprio allo scadere dell’epopea napoleonica, vennero al-la luce alcune tra le maggiori testimonianze di quell’irripetibile stagione, prima fra tutte la Italienische Reise di Goethe (1816-17), come a fissare nella memoria europea un patrimonio per-duto per sempre.Un po’ come la transumanza che D’Annunzio cantò (Settem-bre andiamo…) quando ormai era un fenomeno tramontato.

Finisce così la tradizione del Grand Tour, che prosegue per tutto l’800 come fenomeno borghese, prima di essere volgariz-zata e commercializzata, ormai nel Novecento, dai tour opera-tor di tutto il mondo.

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Il Perchè Di Un Amore

I RUSSI E ROMA

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N. Gogol Ritratto Da Fodor Moller, 1840 Ca.

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L’Italia fu sempre per i russi quasi una seconda patria. Erano attratti dal clima mite, dalla varietà dei panorami dalle Alpi, dai laghi e dalle rivier. In Italia sbarcavano artisti, diplomatici, poli-tici, rivoluzionari russi. Se una parte dei russi partì per l’Italia per curare il «mal sottile» visitando le riviere dal Mar ligure al Mar Tirreno, passando per il golfo partenopeo, fino alla Sicilia, l’altra parte veniva guidata dalle loro idee politiche: dagli an-ni ’50 del XIX secolo in Italia vengono Herzen, Mecnikov, Ba-kunin, che nelle file del movimento democratico europeo dan-no contributo - e non solo di parole - alla causa dell’indipen-denza e del progresso sociale degli italiani.

I rapporti culturali, tuttavia, tra la Russia e l'Italia anticiparo-no gli scambi diplomatici fra i due paesi, i quali diventarono regolari solamente alla fine del XVIII secolo, cioè nell’epoca di Caterina II (1729-1796). È noto che a partire dal XV secolo in Russia lavoravano pittori, architetti, musicisti italiani, che proprio qui crearono molti dei capolavori che ora fanno parte del patrimonio artistico europeo e mondiale.

Contemporaneamente, dal XVIII secolo in poi, in Italia regolar-mente arrivarono, usando termini moderni, a fare uno stage, giovani russi pittori, scultori, architetti, molti dei quali do-po aver concluso gli studi, sponsorizzati dall’Accademia del-le Belli Arti di San Pietroburgo e dalla Società di incoraggia-mento degli artisti, rimanevano nel bel paese, che diventò quindi non solo una scuola, ma la terra dove tanti di loro rag-giunsero l’apoteosi artistica creativa.

I viaggi italiani degli scrittori russi da Fonvizin a Zukovskij e Gogol, a Dostoevskij, Cechov, Blok, Pasternak e tanti altri, altrettanto contribuirono allo sviluppo dei legami spirituali e culturali tra Russia e Italia. Essi dedicarono all’Italia ricerche erudite e versi romantici, cronache, diari e lettere a famigliari, tutori o insegnanti in cui davano conto dei loro viaggi e sog-giorni nelle città e regioni che li avevano attratti di più.

Un’immagine che è spesso presente in queste opere è quella di Roma antica e moderna. Le antichità erano la meta prin-cipale dei viaggiatori russi. Essi, per la maggior parte grandi amatori dell’arte e della musica, della storia e della letteratu-ra, arrivando in Italia si trovarono dinanzi alle importanti vesti-gia della civiltà romana e rinascimentale, ai tanti capolavori di pittura e scultura, di cui erano ricchi musei, gallerie d’arte, castelli, palazzi, chiese, cattedrali, monasteri. Eppure possia-

mo osservare nei russi qualcosa di più profondo del sempli-ce interesse turistico per i resti romani.

I riferimenti al mondo romano antico si possono notare nella cultura russa molto prima del periodo in esame. Ancora nel-l’epoca precedente a quello di Pietro il Grande, la principale fonte delle nozioni sul mondo antico erano i libri dell’epoca: cronache, novelle, ma soprattutto raccolte di proverbi e mas-sime dei padri della chiesa e degli autori antichi e le vite dei santi (la lettura preferita dei russi), ambedue contenenti nume-rosi riferimenti alla romanità. La figura centrale di queste fon-ti, ereditata dalla tradizione bizantina, era Omero quale anda-va diventando anche nelle terre russe simbolo dell’erudizione e delle lettere in generale.

I “saggi ellenici” penetrarono anche nello spazio della chie-sa. A partire da metà del XVI secolo esse venivano ornate – a modello delle chiese bizantine e bulgare – con le immagini delle dodici sibille o dei “profeti ellenici”: Omero, Euripide, Platone, Diogene, Plutarco, ecc. Si possono ammirare ancora negli affreschi delle chiese di Murom (le sibille) e del Cremli-no di Mosca: Dalla chiesa di Karelskoe seltso della provincia di Tver provengono singolari affreschi raffiguranti “Dij” ovvero Dio Zeus e un’altra figura antica prediletta dalla cristianità - quella di Virgilio tenente in mano un manoscritto con la profe-zia dell’arrivo di Cristo Salvatore. Le raffigurazioni della chie-sa di Tver risalgono agli anni venti del Settecento. Il raccon-to sull’inizio della storia di Roma, sui re Tarquini e sugli impe-ratori romani fino all’arrivo dei barbari si poteva trovare nel Cronografo russo “Le cronache ellenica e romana” del XIII-XV secoli che circolava in varie trascrizioni fino al XVIII seco-lo. L’antichità era ancora accentrata attorno alla tradizione bizantina e subordinata alle esigenze della chiesa ortodossa nonché del governo degli zar che ne doveva garantire una solida giustificazione. Tra l’altro il contatto con gli antichi da-va al monarca russo l’areola dell’antichità, della grandezza e della continuazione culturale, ne faceva il protagonista della storia europea. Basti pensare alla teoria di Mosca co-me Terza Roma, creata dal monaco Filofej di Pskov, poi – al periodo del governo di Pietro il Grande: l’introduzione del calendario Giuliano (nel 1700), la denominazione della nuova capitale in onore di San Pietro (qua appare, possiamo dire, la «Quarta Roma», 1703), l’introduzione del nuovo titolo del monarca come «l’imperatore» (1721) e «padre della patria» (1724).

I RUSSI E ROMA

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Il fenomeno «antico romano» non può essere ridotto però solamente a questo tipo di atti dimostrativi da parte dei politi-ci e del governo. Le immagini e le idee legate al mondo anti-co sempre di più penetravano nella vita della società russa, nella cultura e nell’arte. Nel XVIII secolo lo sviluppo della stampa, l’edizione del primo giornale, la fondazione delle prime scuole secolari, dell’Accademia delle scienze di San Pietroburgo e delle prime università, tutto questo contribuiva alla diffusione delle nozioni tra i russi sul mondo della romani-tà classica. Cresceva il numero delle traduzioni dei libri prove-nienti dall’estero aventi ad oggetto le antichità. Allo stesso tempo, le nuove pubblicazioni come “Symbola et emblema-ta” (1705) con gli elementi della mitologia antica, e contempo-raneamente l’assenza ancora della debita educazione “stori-ca” secolare, contribuivano alla radicazione ancora più pro-fonda della percezione “iconologica” dell’antichità.

Nel Settecento e alle soglie dell’Ottocento le immagini dei romani antichi non erano solamente tratti del classicismo e poi del neoclassicismo e romanticismo, ma andavano diven-tando una parte integrale della cultura quotidiana. Le virtù degli antichi eroi - il senso della responsabilità, l’essere supe-riori alla quotidianità e agli interessi propri, il continuo para-gonare la propria vita con l’ideale sacrale, civile ed etico – venivano inculcati anche attraverso il sistema educativo e diventavano ora dei principi secondo i quali costruire la pro-pria vita. Si intendono, soprattutto, i decabristi e il loro mo-dus vivendi, fenomeno russo che può essere paragonato a quello del «repubblicanesimo classico» francese dell’epo-ca della Grande Rivoluzione.

Il cuore dei russi in quell’epoca, dunque, è animato da una passione per Roma e storia romana, da una profonda co-noscenza dei classici e dal desiderio di visitare la patria di quegli antichi allo studio dei quali avevano dedicato la prima parte della loro vita.

Gli anni settanta – ottanta è un periodo di elaborazioni di nuo-vi modelli nella cultura russa nonché il periodo dei primi lun-ghi viaggi in Europa dovuti prima di tutto all’abolizione del servizio obbligatorio per i nobili nel 1762, ma anche ai fe-nomeni come l’aumento delle pubblicazioni, comprese le tra-duzioni delle opere straniere. L’educazione, la lettura traccia-vano quindi gli orizzonti culturali e intellettuali dei russi. Negli anni venti-trenta dell’Ottocento l’ascesa al trono di un nuovo imperatore (Nicola I), la tragica avventura dei decabristi e la loro condanna ebbero le conseguenze anche nella vita cultu-rale. Cambiava l’atteggiamento del governo verso la pratica del viaggio all’estero che ora veniva visto come un’impresa

negativa e perniciosa. Secondo la legge del 1831 “Sull’edu-cazione della gioventù russa” il viaggio poteva essere com-piuto solo da giovani che avevano raggiunto diciotto anni di età, altrimenti ci voleva il permesso dello stesso imperatore. Con il decreto del 1834 la durata del viaggio era stata delimi-tata a cinque anni. Per chi invece viaggiava, cambiavano le priorità determinate ora dalla nuova cultura del romantici-smo.

Pietro I (Il grande) aveva assunto le antichità come uno stru-mento efficace della costruzione della sua immagine dell’inno-vatore ed europeo. Dall’epoca di Pietro il monarca russo si riferiva all’immagine dell’Impero romano in quanto governo ideale. Alle riforme, venivano accostate i modelli tratti dalla storia romana. La stessa fondazione della città di San Pietro-burgo era stata consacrata con le parole di Augusto riportate da Svetonio: “..che giustamente si vantò di lasciare di marmo una città che aveva ricevuto di mattoni”. Augusto, che si glo-riava d’aver trovato Roma laterizia e di lasciarla marmorea, fece stupire gli uomini e questo merito dell’imperatore diven-ne proverbiale. Il detto non sarebbe stato sufficiente per de-scrivere le imprese dell’imperatore russo. Si diceva, infatti, che Pietro: “Ereditò la Russia di legno e ne fece una d’oro”.

Allo stesso tempo, a partire dalle riforme di Pietro, vediamo nella cultura russa gareggiare due tradizioni che andavano poi fondendosi: antica romana che a sua volta si sovrappo-neva su quella, ancora più vecchia e solida, greco-bizanti-na. Così i simboli romani recuperati dal primo imperatore rus-so venivano collocati accanto a quelli convenzionali greco-bi-zantini: accanto al romano “Augusto” vediamo usare il greci-smo “Cristo” nel senso “l’Unto del Signore” che si accostava al nome degli zar.

Le antichità venivano sfruttate anche per sottolineare la po-tenza militare dello stato. In particolare, a partire dal periodo di Pietro, i festeggiamenti della vittoria si trasformavano nei trionfi romani con le relative arche trionfali, oggetti e simboli. L’imperatore si trasformava in Ulisse, Perseo, Eracle. La pro-cessione trionfale dedicata alla vittoria di Azov del 1696 era accompagnata dalla lettura degli oppositi versi contenenti anche il famoso detto di Cesare: “Venni, vidi, vinsi”. Come annotava “il prefetto” dell’Accademia slavo-greco-romana, solo “i riti romani” erano adatti a cantare la vittoria del “popo-lo politico”. I trionfi militari si percepivano attraverso i testi de-gli autori antichi: Esopo, Ovidio, Virgilio, Tucidide, Tito Livio. Una parte integrale dei festeggiamenti erano illuminazioni e sceneggiature i cui protagonisti erano Nettuno, Fortuna, Sa-turno, Giano, Mercurio, Giove, Marte. Particolarmente amato e usato era il mito del Giano Bifronte e del suo tempio roma-no aperto durante le guerre e chiuso durante periodi di pace.

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I tempietti dedicati a Giano erano costruiti per le occasioni delle vittorie militari: il 22 ottobre 1721 a San Pietroburgo e il 22 gennaio 1722 a Mosca. Queste immagini erano attuali an-che nell’Ottocento tant’è che quando fu firmato il trattato di pace di Tilsit del 7 luglio 1807, i festeggiamenti avrebbero presentato una bizzarra fusione tra la tradizione cristiana, or-todossa, e gli elementi secolari dal colorito romano.

Nell’Ottocento, tra gli adepti dell’antico mito militare si spicca-va in particolare la figura di Aleksej Petrovic Ermolov (1777-1861), generale dell’esercito russo nonché membro onorario dell’Accademia delle scienze (1818), un simpatiz-zante dei decabristi. Anch’egli, come Suvorov, leggeva gli antichi durante le campagne militari, da giovane aveva tra-dotto Tacito, e secondo una testimonianza “nel suo modo di parlare si faceva notare il latino”. È noto un suo ordine al-l’esercito, quando chiamò i soldati “compagni” (tovarisc) traducendo probabilmente “Commilitones” di Cesare. Chiamato un giorno a presentarsi davanti agli ufficiali di San Pietroburgo e dubbioso dell’esito positivo della visita, diceva, ironizzando, che si sarebbe presentato con la corazza a ma-glia sotto la toga come lo avevano fatto gli imperatori romani. Questa retorica trovava riscontro nei suoi contemporanei che apprezzandone i talenti militari e le virtù civiche lo battezzaro-no “proconsole”.

Già dal periodo di Pietro I tra le pubblicazioni cresceva il nu-mero delle traduzioni dei libri provenienti dall’estero. Una di queste era “Symbola et emblemata” pubblicata nel 1705 che conteneva 840 raffigurazioni allegoriche delle virtù e dei vizi spesso in veste dei personaggi dell’antica mitologia e storia con le relative annotazioni in varie lingue: latino, france-se, italiano, spagnolo, tedesco, inglese.

In Russia erano amate sia le opere sulla storia ricche di riferimenti all’antichità, sia le opere aventi ad oggetto pro-priamente la storia romana. Quanto furono richieste le ope-re sulla storia romana si può giudicare sia dalle testimonian-ze dei memorialisti, sia anche dalla quantità delle pubblica-zioni di certe edizioni. Erano molto richiesti i libri di Jan Pier Claris de Florian, pubblicati nei dodici anni dal 1788 al 1800 ben diciotto volte. Il suo libro sul secondo leggendario re di Roma “Numa Pompilius” (1786) fu pubblicato tre volte: due volte nel 1788 e una volta nel 1799. “Vita di Marco Aurelio An-tonino cesare romano” fu tradotto in russo dal tedesco ( 1727 di Johann Hoffman) e fu pubblicata cinque volte. Nel XVIII secolo furono pubblicate anche: “Fabio e Catone” di Galler; “La breve storia romana fino ai giorni di Valente e Valentinia-no” di Eutropio, conosciuta sotto il titolo latino “Breviarium ab urbe condita”, la sua traduzione dal latino fu pubblicata due volte presso la tipografia dell’Università di Mosca, nel 1759 e

1779, che grazie al chiaro e semplice stile, fu accessibile a tutti e, infatti, fu usata non solo come il testo di iniziazione al latino nelle scuole, ma suscitò l’interesse nei lettori comuni (compare nella biblioteca dell’editore A.F. Smirdin). Dal 1773 al 1780 venivano pubblicati sei capitoli di “Reloj de príncipes o libro aureo del emperador Marco Aurelio, 1529” di Antonio de Guevara, vescovo e cronista di corte di Carlo V, tradotta dal latino in russo da Andrej Lvov. L’immagine di Marco Aure-lio, “il governatore ideale”, avrebbe dovuto servire da “riferi-mento” a contemporanei. 93 Negli anni 1781-1782 fu pubbli-cata nuovamente.

A questi si aggiunge poi la cosiddetta letteratura di viaggi in Italia. Il periodo in esame, cioè fine del Settecento – inizio dell’Ottocento, è esattamente il periodo in cui lettore europeo scopre la maggior parte di queste opere letterarie. Il “classi-cissimo e citatissimo” Viaggio in Italia di Montaigne appar-ve solo nel 1774, mentre la descrizione del viaggio del presi-dente De Brosses effettuato nel 1739-40, era andata alle stampe nel 1799. Il viaggio di Goethe era del 1786-1788, mentre le sue prime edizioni risalgono al 1817-18. Tra le guide “turistiche” che suscitarono un vivo interesse tra i lettori della Russia si possono nominare le Lettere sull’Italia nel 1785 di Dupaty, andate alle stampe nel 1788 e pubblicate interamente in russo solo nel 1800-1801. Anche in questo genere letterario si notava non di rado un aspetto educatore e moralista. Descrivendo monumenti e opere d’arte di Roma l’autore inculcava nei lettori quella venerazione per gli anti-chi che un lettore russo sarebbe stato pronto ad accogliere e assimilare. Dupaty, per esempio, come autore settecentesco mirava all’educazione del lettore. Egli scriveva tra l’altro che le immagini di Bruto, Catone, Cicerone che si potevano ammi-rare in Italia avrebbero dovuto innalzare lo spirito civico della gente (Lettera LXXXV) e presentava altresì al lettore la città di Roma come teatro di storia di virtù e vizi , la patria degli eroi come Bruto, che innalzò l’Italia, e come Nerone che la fece sprofondare nel buio, o Marco Aurelio che la fece rialzarsi (XLV).

La fortuna di alcuni personaggi del mondo classico era dovu-ta anche al teatro la cui influenza rendeva certe immagini più comprensibili. Ancora nei tempi di Pietro il Grande 1/5 del repertorio teatrale costituivano le opere drammatiche aventi ad oggetto personaggi dell’ antichità come l’impe-ratore Giulio Cesare, Scipione Africano, ecc. Del repertorio teatrale facevano parte le opere come “Due città nelle quali prima persona fu Giulio Cesare”; “Scipione Africano, lo strate-ga romano e la sconfitta della regina di Numidia”, “Papinia-nus costante”, dedicata al legislatore romano Emilio Papinia-no; “La stirpe di Ercole, dove la prima persona fu Giove”. Il teatro, dai tempi di Pietro I, era, dunque, anche uno strumen-

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to di propaganda politica. Esso esercitava la funzione didatti-ca, spiegava la politica del governo, chiariva l’importanza delle vittorie militari. L’imperatore stesso veniva spesso rappresentato in veste di Marte, mentre l’imperatrice – Caterina II – in veste di Minerva. Allo stesso tempo, le figu-re allegoriche spesso si accostavano ai personaggi biblici. Gli dei romani avevano il significato simbolico: Giove era l’al-legoria del potere e della forza; Minerva rappresentava la saggezza e il generoso sostegno alle scienze; Ercole incarna-va il coraggio e la forza; Marte era la potenza militare.

Il classicismo, come possiamo vedere da esempi succitati, nel suo senso più elevato avrebbe significato due cose: la dignità dell’uomo e la patria fatta principio e fine di ogni virtù. Nelle “Lettere di Emilio”, l’opera di Michail Muraviev che face-va parte anche del programma scolastico dei grandi prìncipi, il desiderio più sospirato del protagonista, infatti, era “vivere o morire per la patria”. C’era fra i russi chi specificava: “…vi-vere come Orazio o morire come Catone”.

In Russia, una solida influenza della corrente anticheggiante, alimentata dalla cultura europea occidentale, specie quella francese, dove nel corso del Settecento si sono svolte delle importanti discussioni tra cui quella sulla tirannia e del despo-tismo era legata al nome di Montesquieu (1689-1755). Que-sta particolarità risalente alla tradizione ereditata da Plutarco che utilizzava i classici per stabilire paralleli tra antichi e moderni, era assai forte in Russia. Gli autori francesi propo-nevano di riflettere sulle esperienze politiche antiche e sulle istituzioni moderne, sulla morale e la politica in generale. Nel pensiero di Montesquieu l’antico occupava un posto partico-lare, a cui dedicò le sue Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e la loro decadenza del 1734, e so-prattutto neL’esprit de Lois del 1748. Come si sa l’imperatrice Caterina II proponendo di creare un nuovo indice legislativo più liberale, si era basata molto sulle sue opere.

L’altra tradizione, legata all’antico, era invece quella che di-sputava di morale e virtù. Alle corruzioni delle monarchie anti-che e moderne si opponeva la virtù repubblicana, quale la virtù politica. Da esempio, doveva servire, a parte la Sparta di Licurgo, la Roma dei primi consoli. Questa idea la ritro-veremo in Rousseau, Mably, Helvetius, Enciclopedisti, anche se differenti in analisi da Montesquieu. Il loro scopo principa-le non era quello di studiare la storia romana bensì di conver-tire l’esperienza politica romana in un modello decontestualiz-zato che autorizzasse riflessioni sulla istituzione senza che ci si appellasse al presente.

A partire dagli anni 80 del 700, per contrastare il “conta-gio” rivoluzionrio venivano sequestrati i libri che effettiva-

mente riguardavano la questione di fede, ma anche i libri ri-guardanti la storia romana, come “Vita di Marco Aurelio Anto-nino cesare romano” (confiscate 9 copie). Nel 1783 furono confiscate 1041 copie dell’ “Abbecedario italiano: dotato di dizionario e guida di conversazione, ed alcune regole morali dell’uso delle nozioni d’italiano” (tipografia di Novikov N., 1783).

Tuttavia, nonostante queste peripezie politiche della romani-tà, essa continuava a vivere nel gusto per le antichità colti-vato nell’arte e architettura. Con le statue antiche o anti-cheggianti venivano ornati parchi e ville. Ninfe, Flore e Narcis-si avevano già adornato Peterhoff e giardino d’Estate. Piazza-tovi un cavallo di marmo doveva ricordare quello di Marco Aurelio di Campidoglio. Ancora nel 1716 nel giardino d’Esta-te per la prima volta era esposta l’autentica statua di Venere, acquistata su ordinazione di Pietro I nel Vaticano. Si poteva-no vedere anche le copie delle statue antiche fatte sempre su ordinazione della corte russa da vari scultori venezia-ni. Il labirinto con le annesse fontane riproduceva immagini tratte dalle fiabe di Esopo (ce n’erano più di trenta), Pietro il Grande ordinò di mettere accanto a ogni fontana una colon-na con un relativo testo di fiaba in lingua russa con i commen-ti. Venivano costruiti padiglioni e palazzi, come quelli del Pa-lazzo d’Inverno (1725), che riportavano immagini di Marte e Venere. I soffitti del Palazzo d’Estate erano invece decorati con il “Trionfo di Minerva”, “Il trionfo di Morfeo”; sui soffitti del palazzo di Mon plaisir si annoveravano Apollo, Giunone, Net-tuno, Vulcano, Bacco. Le figure mitologiche accerchiavano gli imperatori sui ritratti e abbellivano i libri. Cupidi numerosi si affacciavano dalle porte e dai cornicioni delle finestre.

L’Urbe rimaneva il centro d’attrazione per gli spiriti settecente-schi in cerca del mito dell’antica civiltà. Si cercava di realizza-re il mito della città ideale, caput mundi nei progetti di nuove capitali russe: prima di Mosca di Ivan III, e poi di San Pietro-burgo. Si voleva che la capitale del Nord assomigliasse a Ro-ma ancora di più di Mosca. Il suo aspetto romano San Pietro-burgo lo deve ad architetti di Caterina II, Paolo I e Alessan-dro I: Vincenzo Brenna, Giacomo Quarenghi, e forse, ancora di più allo scozzese Charls Cameron.

Quest’ultimo sarebbe arrivato a Roma ancora molto giovane e, ammiratore delle opere di Andrea Palladio, si sarebbe oc-cupato delle terme romane di cui nel 1772 pubblicava un trat-tato. Il destino vorrà che realizzasse i suoi progetti in Russia (dal 1780 in poi). Sulle paludi del nord pianterà i parchi roma-ni, abbellendoli con “le terme fredde”, “giardini pensili”, “stan-ze di agata” a Carskoje selo (1783-86). Al progetto del palaz-zo di Pavlovsk lavorerà anche Vincenzo Brenna. Al giardino di Pavlosvk lavorerà anche Pietro Gonzaga, pittore e sceno-

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grafo italiano. Nel 1782 l’erede al trono Paolo Petrovic con la consorte saranno nel viaggio in Italia, a Roma, da dove porte-ranno via una infinita quantità di oggetti per decorazioni del palazzo. Sempre nel viaggio conosceranno anche Bren-na invitandolo a lavorare in Russia.

Paolo I, preserverà il gusto per l’antico per buona parte ali-mentato dal suo soggiorno romano. Già l’imperatore acquiste-rà a Venezia una collezione Frascati costituita sia da copie sia da statue anticheggianti moderne. Costruendo e decoran-do la nuova residenza presso il Palazzo Michajlovskij, vi rac-coglierà un vasto numero di opere di scultura antiche e mo-derne, portandoli da Carskoje Selo (dove aveva creato le sue collezioni Caterina II). Non avendo la possibilità di portare gli originali antichi, ne ordinerà le copie eseguite per la mag-gior parte presso l’atelier di un maestro carrarese Paolo Andrea Triscornia.

Sintomatica sarà la costruzione del Duomo Kazanskij (1801-1811) progettato da A. N. Voronichin e ideato come un pant-heon e simbolo della gloria militare. Ad ornare il duomo sono le sculture eseguite da Stepan Pimenov e Vasilij Demut-Mali-novskij, quest’ultimo aveva studiato nello studio di Antonio Canova a Roma. Con la partecipazione di questi autori sarà creato il decoro scultoreo di quasi tutta la città. In seguito si potrà ammirare anche l’Ammiragliato (1806-1823) di Andrej Zacharov dove egli esprimerà il massimo del pathos civico.

Gli eroi della storia e mitologia romane, arche trionfali, profili di antichi templi si potranno ammirare nella città che verrà per questo chiamata anche la Palmira settentrio-nale. Più di cento anni dopo, Osip Mandelstam, trasferitosi a San Pietroburgo all’età di sei anni, potrà dire, infatti “Sono na-to a Roma…”.

All’inizio dell’Ottocento di moda erano anche oggetti al-l’antico: opere d’arte, mobili, porcellana. Famosa è la cita-zione del memorialista Filipp Vighel: “Dappertutto si vedeva-no i vasi di alabastro decorate con immagini mitologiche, e tavolini fatti come i tripodi, selle curuli, lunghe ottomane sedu-tisi sulle quali si poggiavano le braccia su aquile, grifoni e sfingi… tutto questo ci è pervenuto non prima del 1805 e non si sarebbe potuta immaginare una cosa migliore. Avevano potuto immaginarsi gli abitanti della vicinanza di Vesuvio che tra un migliaio e mezzo d’anni, tutti loro oggetti d’uso si sareb-bero trasferiti dalle loro tombe nelle terre di Iperborea?”. An-che le pareti di casa venivano decorate con raffigurazioni di paesaggi e delle finestre disegnate – motivo presente anche nei Pompei.

Così l’antico penetrava anche nella vita quotidiana, la-sciando traccia persino sull’aspetto fisico delle persone. An-

che se non vi erano dei giovanotti “con la clava alla ercole”, fino al 1812 andava di moda un particolare taglio di capelli à la Titus: i capelli, arricciolati e sollevati davanti, dietro veniva-no tagliati corti. Era una moda francese che risaliva all’imita-zione dei busti del Tito, al gusto “Impero” dell’epoca. Dopo il 1812, per ovvi motivi, il taglio francese cedette il posto a quel-lo inglese alla dandy.

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La Porta Di Accesso Alla Città

Tappa 1PIAZZA DEL POPOLO

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Piazza Del Popolo, Le Chiese “gemelle”

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Siamo all’ingresso nord della città. Punto di passaggio obbligato per tutti coloro che arrivano a Roma. Qui turisti in arrivo ven-gono accolti da una folla di fattorini, vetturini, intermediari di alloggi etc.

Anticamente questo sito era conosciuto come Piazza Flaminia. Successivamente fu chiamato Piazza del Popolo dovuto alla quantità di Pioppi (“populi” in latino) del Mausoleo di Augusto che si estendevano fino a questa zona. Tutta la zona che giace-va dal Tevere da una parte e dalla collina del Pincio dall’altra, anticamente fu chiamata Campo Marzio dovuto al fatto che que-sta estesa pianura fu dedicate da Romolo a Marte, Dio della Guerra. In questo piazzale enorme, la gioventù romana si esercitò nell’arte militare, mentre i meno giovani usarono questo sito per tenere comizi per l’elezione dei Magistrati e dei Senatori roma-ni.

Da notare che, probabilmente per via delle periodiche inondazioni, originariamente non fu concesso costruire abitazioni, per quanto fu permessa la costruzione di fabbriche pubbliche, teatri, archi trionfali, templi, portici, e fu permesso il posizionamento di statue di senatori illustri e di divinità.

Tutto comincia nel 1655 con l’arrivo in città della regina Cristina di Svezia la quale, unica reale convertitasi al cattolicesimo in mezzo ad un’eresia dilagante, decise di trasferirsi a Roma per occuparsi della difesa della cristianità assieme al papa. Ovvia-mente, venendo da nord, la regale dama sarebbe dovuta entrare per la porta settentrionale della città e di qui passare per la piazza del Popolo. Un grande corteo avrebbe poi dovuto accoglierla e accompagnarla e, a tal proposito, fu chiamato Gian Lo-renzo Bernini che senza troppi complimenti abbellì la vicina chiesa di Santa Maria del Popolo, riqualificò l’antico accesso nelle mura romane con le enormi effigi papali (tutt’oggi visibili) e allestì una serie di strutture mobili che celebrassero il felice ingres-so. Frattanto che accedeva tutto questo però, il papa Alessandro VII, Fabio Chigi, si accorse che le testate edilizie della spina del tridente romano erano non solo irrisolte ma ormai indegne di rappresentare l’accesso nord della città, sempre molto fre-

EVOLUZIONE DELLA PIAZZA

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quentato dai numerosi pellegrini che da sempre vi giungevano per la via Flaminia. Così il pontefice commissionò a Carlo Rai-naldi, architetto influenzato dalle nuove esperienze barocche ma sempre molto autonomo nelle sue scelte, di costruire due chiese che degnamente onorassero coloro che giungevano a Roma, sia che si trattasse di regali ospiti come di comuni vian-danti.

Al tempo del Pontefice Sisto V, la lunga Piazza del Popolo era semplicemente il punto di partenza di tre strade, ma l’obelisco egiziano messo al centro di quello spiazzo nel 1589 da Francesco Fontana trasformò quel luogo, rendendolo un vero centro urbano. Verso la metà del XVII secolo fu trasformato in una piazza barocca, come mostrato dal dipinto del Vanvitelli (Gaspar van Wittel) del 1679.

Nella progettazione del Rainaldi, le due chiese barocche divennero il “focus” dell’intera composizione architettonica e urbani-stica. Il Fontana, partendo dall’obelisco, constatò che gli assi delle tre strade esistenti formavano fra di loro degli angoli di 22 o 23 gradi. La configurazione di queste tre strade fece sì che i loro assi centrali potessero essere estesi e congiunti visivamente verso il centro dell’obelisco. Questo fu un puro caso fortuito. Le tre strade, ad un angolo complessivo di circa 45 o 50 gradi, erano certamente entro la capacità dell’angolo della visione umana. Di conseguenza, le tre strade poterono essere abbraccia-te con una visuale unica. Questo tipo di progettazione fu chiamata “piede d’oca” in Italia, “patte d’oie” in Francia e “goose foot” in Inghilterra. Da notare che in Francia questa soluzione fu adottata per la progettazione della “Place d”Armes” a Versail-les, e in Italia fu usata dall’architetto Carlo Rainaldi per modificare e creare una piazza più simmetrica di quella precedente.

Il 15 Marzo 1662 furono iniziate le fondazioni per la chiesa di Santa Maria di Monte Santo e nel 1675 furono iniziate le fondazio-ni di Santa Maria dei Miracoli, entrambe progettate da Carlo Rainaldi ma completate dal Bernini con la collaborazione di Carlo Fontana. La chiesa di Santa Maria di Monte Santo fu costruita sulla sinistra della piazza e la chiesa di Santa Maria dei Miracoli, sulla destra, guardando verso il Sud dalla porta del Popolo.

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Le due chiese furono simmetri-camente piazza-te sui due siti formatisi fra le tre strade radian-ti del Tridente. Per quanto i due siti fossero di grandezze diverse, le due chie-se apparvero simmetriche e, di conseguenza, quasi come un’ ingresso monumentale verso la Città Santa, entrando dalla Via Flaminia. Il visitatore che entrò nella città si trovò di fronte le due chiese barocche e venne casualmente intro-dotto ai tesori nascosti della città.

L’invitante Tridente, in questo caso, fu trasformato in uno strumento di carattere e di persuasione barocca.

Le tre strade radianti della Piazza del Popolo invitarono lo sviluppo di una simmetria monumentale cara all’età e allo stile barocco; e cosa poteva essere più appropriata alla Cit-tà Santa che la costruzione di due chiese, oltre a quella già esistente nella piazza, Santa Maria del Popolo?

Ma in quel momento una difficoltà quasi insuperabile dovet-te essere superata per la progettazione delle due chiese,

chiesa sul sito più stretto (San-ta Maria del Mon-te Santo) con una forma ovale, (anche questa

soluzione dovuta all’invenzione dell’ellisse da parte di Michelangelo per il Campidoglio), egli mosse la chiesa più all’indietro sul sito fino a che il raggio minore dell’ellisse diventò uguale al dia-metro del cerchio della chiesa di Santa Maria dei Miracoli. Viste dalla Porta del Popolo, le due chiese apparvero simi-li,nonostante la loro differenza geometrica e la loro posizioni attuali rispetto ai due siti.

Si capisce, così, che equivalenza architettonica non signifi-ca necessariamente similarità fisica.

Le due chiese del Rainaldi, inoltre, crearono una transizione di notevole successo fra il blocco delle case al di là della piazza, poiché esse avevano dei portici molto profondi, pro-trudendo nello spazio urbano in fronte ad esse.

Da notare che alcuni anni prima della costruzione delle due chiese, il Bernini modificò la Porta del Popolo in occasione

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TOBIAS SMOLLETT, Travels through France and Italy (1766)

Viaggi attraverso la Francia e l’Italia (pubblicato nel 1766)

LETTERA XXIX  Nizza, 20 Febbraio 1765

Dopo aver dato i nostri nomi al’ingresso della porta, ci siamo di-retti verso la dogana  per prendere i nostri bauli; e qui siamo sta-ti circondati da un certo numero di “servitori di  piazza”(in italiano nel testo), che ci hanno offerto i loro servizi, importunan-doci sgradevolmente senza tregua . Anche se ho detto loro più volte che non ne avevo bisogno, tre di loro hanno preso posses-so della mia carrozza, uno è montato davanti e due  dietro e insie-me siamo partiti verso Piazza d'Espagna, dove vive la persona alla cui casa sono diretto. 

Da Viaggio in Italia di Ippolito Taine, 1866:

“Allo sbarco un chiasso di vetture, un gridio di cocchieri, di con-duttori, di guide che si appropriano il vostro bagaglio e la vostra persona a viva forza, un onda di figure eroclite, inglesi tedeschi americani francesi che s’urtano, si pigiano, si informano con tutti gli accenti, in tutte le lingue”

Da Annekov, Gogol a Roma estate 1841

“La nostra antiquata carrozza era stata notata da tutti I portaba-gagli, facchini ciceroni che si aggirano davanti alle tavern, spes-so molesti e insopportabili come mosche”

Roma, Nicolai Gogol

«Ed ecco finalmente il Ponte Molle, le porte della città, ecco la bella delle piazze romane, piazza del Popolo, che lo riprende tra le sue braccia, mentre lo sguardo corre sul Monte Pincio con le sue terrazze, le scalee, le statue e la gente che vi passeggia in cima, Signore! come gli batté il cuore! Il vetturale si incamminò a gran trotto per il Corso»

CITAZIONI

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Agli inizi del XVI secolo Roma aveva dei problemi piuttosto seri dovuti all’enorme crescita della popolazione ed anche alle con-dizioni deteriorate e degradate della città, completamente in rovina dopo la distruzione dei templi dell’antichità.

Inoltre, a causa dei problemi della circolazione, della difesa della città, degli acquedotti, e degli impianti di fognatura che ver-savano in condizioni piuttosto disastrose, Papa Sisto V (1585 - 1590) decise di intraprendere diversi progetti civici per il miglio-ramento della città.

Il Pontefice comprese che soltanto i miglioramenti artistici, architettonici e civili di chiese, basiliche, come San Pietro, ed altri edifici secolari, come il Campidoglio, non fossero sufficienti. Il collegamento tra quei siti e quei monumenti della storia romana era così importante quanto i monumenti stessi e le varie opere architettoniche.

Quindi, per poter collegare queste opere civiche e i vari monumenti della cristianità, il Pontefice assegnò il compito dello stu-dio urbanistico della città a Domenico Fontana, nato nel 1543 e morto nel 1607, un architetto relativamente famoso a quei tempi, piuttosto “arido” e totalmente privo di immaginazione come architetto, ma abbastanza brillante come urbanista. Poiché il Fontana era un osservatore e aveva con un’immaginazione piuttosto fervida, immediatamente comprese che il caos delle col-line romane con tutti i suoi antichi templi, ormai quasi completamente distrutti, aveva bisogno di un sistema visivo molto forte e accentuato.

In generale il piano per la rete stradale proposta dal Fontana apparve piuttosto schematico e alquanto difficile da poter essere eseguito rispetto alla topografia dei vari colli e valli dell’antica Roma. Da notare che queste difficoltà avrebbero potuto essere risolte livellando i colli o riempiendo le valli con i materiali di riporto, riducendo questi siti a delle pianure. Questa era, infatti, una delle caratteristiche topografiche essenziali del periodo Barocco: necessità di aree completamente pianeggianti.

ROMA PRIMA DEL MOVIMENTO BAROCCO

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Ad ogni modo, la rete stradale schematica proposta dal Fon-tana non rappresentò un’innovazione fondamentale, derivava dall’interesse generale nel movimento tipico dell’architettura del “Manierismo”. In molti casi questo interesse significava un contatto più attivo fra gli edifici di per se stessi ed i vari siti.

Un dipinto nel Vaticano mostra chiaramente il concetto gene-rale proposto da Francesco Fontana per l’urbanizzazione del-la città di Roma.

Il Fontana segnò e puntualizzò i luoghi chiave della città di Roma con “obelischi” rimasti dai tempi dell’impero romano e dalle conquiste di Roma nel mondo conosciuto fino ad allora. Egli piazzò gli obelischi esattamente nella loro posizione fina-le nella città affinché tutti potessero vederli ed ammirarli. In questo modo egli introdusse l’idea che le nuove strade della città non solo collegassero i luoghi più importanti di Roma, ma le strade stesse potessero essere accentuate e visualizza-te, in modo da dimostrare un piano generale di urbanizzazio-ne.

Naturalmente, gli antichi obelischi offrirono una risposta im-mediata e a portata di mano.

Ugualmente importante in questa progettazione di massima fu il fatto che il Fontana aveva a sua disposizione una limitata quantità di risorse economiche. Infatti, durante il periodo di Sisto V, che fu pontefice per soli cinque anni, esattamente dal 1585 al 1590, il Fontana poté eseguire soltanto la parte preli-minare del suo laborioso piano, cioè il piazzamento degli antichi obelischi nei punti chiave della città. La fortuna volle che questo fosse il primo passo e la decisione più importante del suo piano di urbanizzazione. Gli obelischi funzionarono da guida futura per il piano urbanistico di tutta la città, nonché formarono una scala di grandezza o un punto di riferi-mento per tutti i successivi progettisti e urbanisti. Da notare che anche i pontefici, come tanti altri prelati, non erano esenti da gelosie. In genere, i papi successori non erano molto an-siosi di portare a termine i progetti non completati dai loro predecessori, preferendo intraprendere nuovi progetti per onorare e immortalare il loro papato.

I risultati conseguiti da Sisto V furono assolutamente perfetti per queste circostanze. Egli stabilì ed ebbe successo in en-trambi i casi: fu l’artefice di un progetto generale per l’urba-nizzazione di tutta città e fece creare una serie di opportunità di progettazione che i pontefici successive poterono esegui-re, pur mantenendo il loro “ego” soddisfatti.

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l piano urbanistico generale del Fontana richiese la progetta-zione di molteplici architetti e urbanisti, lavorando in siti diver-si e con differenti requisiti per i secoli seguenti.

Sisto V fece collocare la rete di obelischi progettata dal Fonta-na in tutta la città e, da allora in poi, tutti i centri, le piazze e i monumenti principali furono collocati da altri architetti, urbani-sti e scultori intorno a queste strutture dell’antichità.

I principi della loro progettazione avevano le loro radici ben piantate nell’architettura dell’antica Roma e nei nuovi concetti del Rinascimento, soprattutto per merito di Michelangelo, del Bramante, del Palladio e di moltissimi altri geni.

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Piazza Del Popolo 18

Tappa 2DIMORA DI VACLESLAV IVANOV

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Carta Di Identità Di Vlaceslav Ivanov

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Abitò qui nel soggiorno dal 1912 al 1913, prima del ritorno in Russia.

“Potevamo vedere i pini I cipressi e I lecci che ram-mentavano a mio padre le tele di Claude Lorrain, uno di suoi pittori prediletti” (Dmitri, figlio)

Nel soggiorno del 1892-93 aveva preso casa in via Castelfidardo, zona Termini.

Tornati nel 1924, definitivamente, si sistemarono pri-ma nella pensione Rubens in via Belsiana, poi in via Quattro Fontane, 172, a pochi passi dalla casa che era stata di Gogol. Nei pressi, palazzo Tittoni, via Rasella 155, preso in affitto da Mussolini come resi-denza privata che potevano vedere dall’alto dei bal-cony (Mussolini era anche lui all’ultimo piano).

ll viaggio di esilio vide la famiglia dividere lo scom-partimento del treno con una nana, messa a dormire sulla rete portabagagli, ed un cane S. Bernardo, par-te di una troupe circense.

Quando Vlaceslav iniziò a insegnare a Pavia, collegio Borro-meo, la famiglia si trasferì in via Bocca di Leone 50, angolo via della Croce.

Negli anni cambiarono molte residenze, più d 10 contate quando dovettero elencarle per avere la cittadinanza italiana. Fra le più belle la moglie cita una pensione sul Corso, dov I clienti erano molti podestà delle città del sud, ma ci abitava-no in realtà le loro amichette.

Forse la stessa pensione cui accenna Dumas ne “il Conte di Montecristo”

«Bertuccio», disse il conte, «vi siete incaricato, come ordinai ieri, di trovarmi una finestra sulla piazza del Popolo?» «Sì, Eccellenza», rispose l’intendente, «ma era troppo tardi.» «Come», disse il conte, aggrottando il sopracciglio, «vi ave-vo ordinato di trovarne una!» «E Vostra Eccellenza l’avrà; è una finestra che era stata data in affitto al principe Lobanieff; ma sono stato costretto a pa-garla cento…»

….

I due aiutanti del boia avevano trascinato il condannato sul palco e, malgrado i suoi sforzi, i suoi morsi, le sue urla, l'ave-vano costretto a mettersi in ginocchio. Il boia si era messo da un fianco con la mazza in alto. A un suo cenno gli aiutanti si scostarono. Il condannato volle rialzarsi, ma prima che ne avesse avuto il tempo la mazza si abbattè sulla tempia sini-stra. Si udì un rumore sordo e cupo; il paziente cadde come un bue con la faccia a terra e poi, per il contraccolpo, si diste-se supino. Allora il boia lasciò cadere la mazza, estrasse il coltello dalla cintura, gli squarciò la gola con un solo colpo e, saltandogli sul ventre, cominciò a calpestarlo. A ogni pressio-ne dal collo del condannato sprizzava un fiotto di sangue. Questa volta Franz non riuscí a resistere; si ritrasse e cadde su una poltrona mezzo svenuto. Albert, a occhi chiusi, rimase in piedi, ma aggrappato alle tende della finestra. Il conte era in piedi e trionfante come l'angelo malvagio."

(La Mazzolata, Conte di Montecristo)

Ultima mazzolatura semplice (non con squartamento) nel 1826 (tale Forconi, reo di aver ucciso un prete)

IVANOV A ROMA

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Poeta e drammaturgo, nato a Mosca (1866) Ivanov si diplo-mò al Primo Ginnasio di Mosca con una medaglia d'oro ed entrò nell'Università di Mosca dove studiò storia e filosofia. Nel 1886 si reca in Germania dove studia per oltre quattro anni storia antica con Th. Mommsen e O. Hirschfeld all'Uni-versità di Berlino e scrive una tesi sul sistema fiscale romano, pubblicata in latino con il titolo De societatibus vectigalium publicorum populi romani(SPb. 1910). Indugiò molto prima di venire a Roma, in quanto non si sentiva pronto. Uno degli incontri più importanti di questi anni è la successiva lunga amicizia con lo storico Ivan Grevs, che - come Ivanov ricorde-rà in seguito - "mi ordinò imperiosamente di recarmi a Roma, per la quale non mi sentivo abbastanza preparato; gli sono ancora oggi grato per aver vinto la mia caparbia resistenza, derivata da un eccessivo sentimento di venerazione per la Città Eterna, spiegandomi tutto quello che lì avrebbe dovuto essermi rivelato. Sono state incomparabili le impressioni che ho ricevuto da questo viaggio primaverile in Italia attraverso la valle del Rodano, Arles, Nimes e Orange con le loro anti-che rovine, attraverso Marsiglia, Mentone e Genova. Dopo un primo breve soggiorno a Roma ci siamo avventurati oltre fino a Napoli, abbiamo fatto il giro della Sicilia, dopodiché siamo rimasti a lungo a Roma vivendo con un'umile famiglia italia-na, cosicché dopo tre anni di questa vita ci sentivamo in un

certo senso romani. Io frequentavo l'Istituto Archeologico te-desco, partecipavo insieme agli allievi (i ‘ragazzi capitolini') alle passeggiate archeologiche, pensavo solo alla filologia e all'archeologia mentre lentamente rielaboravo, approfondivo e ampliavo la mia tesi, anche se per lungo tempo ero rimasto senza forze a causa della malaria. La vita a Roma mi ha por-tato a fare la conoscenza di molti studiosi (ricordo come era-no all'epoca i professori Ajnalov, Krašeninikov, M. N. Spe-ranskij, M. I. Rostovcev, i defunti Kirpičnikov, Modestov, Re-din, Krumbacher, il grande Giovan Battista De Rossi) e di arti-sti: i fratelli Svedomskie, Rizzoni, Nesterov, l'asceta delle cata-combe Rejman.

Tra i poeti del secolo d'argento Ivanov è quello maggiormen-te legato all'Italia: dei 43 anni vissuti all'estero circa 30 li ha trascorsi in Italia. Ribadisce nel 1892, quando giunge per la prima volta nella Città Eterna: "Sono fedele alla mia patria, ma venero Roma come una nuova patria", confessando in una poesia del 1944: "Te per tutta la vita ho glorificato / che per me sei divenuta patria".

Lascia definitivamente la Russia nel 1924, salutato da una fila immensa di estimatori, fra cui Pasternak. Era l’epoca delle “navi dei filosofi”, intellettuali espulsi con la normalizzazione del regime.

Dal 1926 al 1934 Ivanov occupa il ruolo di docente-lettore di lingue straniere al Collegio Borromeo di Pavia e contempora-neamente tiene dei corsi di letteratura russa all'università di Pavia. Qui entra a far parte della cerchia lombarda di Pietro Treves, Stefano Jacini, Antonio Casati e del duca Tommaso Gallarati-Scotti. Fanno visita a Ivanov al Collegio Borromeo Martin Buber, Fedor Zelinskij, Alessandro Pellegrini e nel mar-zo 1934 Benedetto Croce. L'incontro con il filosofo alla pre-senza degli amici lombardi si trasforma in un "dialogo dram-matico, doloroso e a momenti - anche se contenuto dalla cor-rettezza - violento

Del simbolismo russo Ivanov fu creativamente uno dei mag-giori rappresentanti accanto a Blok e a Belyj. Come pensato-re religioso scrisse nel 1904 Etlinskaja religija stradajuscego boga e poi nel 1905 Religija Dionisa, lavoro ripreso nel 1923 col titolo Dionis i pradionisijstvo. Il mondo greco ebbe in lui anche un interprete poetico con traduzioni da Pindaro, Alceo, Saffo, Bacchilide ed Eschilo.

VACLASLAV IVANOV

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Vyacheslav Ivanov e Lydia Zinovieva-Annibal

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Via Del Babuino 9

Tappa 3HOTEL DE RUSSIE

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Hotel De Russie, Giardino Interno

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Già Hotel des Iles Britanniques, poi Hotel de Russie

E’ stato progettato all'inizio del XIX secolo (1818) dal famoso architetto Giuseppe Valadier, che ha ridisegnato la vicina Piazza del Popolo e le vie adiacenti. Anche la piazzetta inter-na, fra il giardino segreto e gli alberi antichi, fu progettata (tra il 1814 e il 1816) dal Valadier.

Vi soggiorna Annekov, Gogol nel 1842, insieme a Nikolaj Mi-chailovic e, nel 1879, Tchaikovsky e, spesso, i Romanoff. Il 30.1.1844 Charles Dickens entra a Roma da Porta del Popo-lo, e travolto dalla confusione del “Carnevale”, riposa all’Ho-tel des Iles Britanniques

“Siamo arrivati a Roma alle sei del mattino, incattivii di pessi-mo umore. Come mi è pparsa sporca, rumorosa, cupa, lugu-bre” (lettera al fratello Modest)

“A eccezione dei luoghi di interesse storico e artistico, Roma con le sue vie angus sudicie non offre attrative particolari e non capisco cm sia possibile (dopo la vastità degli spazi del-la Russia) vivere qui una esistenza intra come fanno alcuni russi”

(Tchaikovsky maggio 1874, Lettera al fratello Anatolij)

Era molto frustrato da Roma. L’ufficio postale avva perso il plico con al 4° Sinfonia, che gli era stata inviata da Clarens, dove aveva soggiornato. Dopo insistenze e ricerche il plico fu trovato. (lo scrive nel novembre 1877 alla sua mecenate von Meck). “A Roma e a Napoli è impossibile lavorare” (pri-ma di andare a Venezia).

Tchaikovsky trovava il De Russie “disagevole e caro” e per questo, nel natale1879, si trasferì al Costanzi, in via Nicola di Tolentino. Anche qui si irritava: “A tavola si è costretti a soste-nere banalissime insopportabili conversazioni, ed in più ci si imbatte a ogni piè sospinto nelle scandalose idee che gli stra-nieri nutrono sulla Russia ed i russi.”

A febbraio 1890 affitta un balcone su via del Corso per guar-dare il carnevale. “Non mi piace affatto tutta questa frenesia, ma sono comunque contento di averlo veduto”

I Romanoff, in particolare l’ultimo zar, Nicola II, pagavano il soggiorno romano in anticipo di un anno, per prenotare per il

Carnevale in cui il signor “Checco” organizzava feste e balli sempre nuovi. Da qui il nome De Russie e lo stemma dell’Ho-tel.

Oltre alla casa imperiale russa, fra gli ospiti il principe Girola-mo Napoleone, nipote di Napoleone I, (che visse al de Rus-sie e vi morì, nel 1891), il re Gustavo di Svezia, Ferdinando e Boris di Bulgaria…tante teste coronate da far guadagnare al de Russie la definizione di “Albergo dei Re“.

Cocteau fu qui con Picasso, responsabile di scenografie e costumi, nel loro viaggio in Italia dal 17 al 20 febbraio 1917, per la produzione de PARADE, della compagnia dei Balletti Russi, al teatro Costanzi, oggi dell’Opera. Alloggiarono nelle stanze 95 e 96.

Si spostarono qui, dopo una sosta iniziale in altro hotel vicino a Termini. Picasso si innamorò di Olga Koklova, figlia di un colonnello dell' esercito imperiale russo, che faceva parte dei Balletti Russi e aveva dieci anni meno di lui.

Picasso sposò la sua russa nel luglio del 1918, testimoni Apollinaire, Max Jacob (pittore e scrittore) e Cocteau, presen-ti Matisse, Gertrude Stein e Alice B. Toklas (scrittrice, cuoca, amante della Stein), Diaghilev, Massine (coreografo), Vollard

HOTEL DE RUSSIE

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Ingresso de Russie da via del Babuino

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(mercante d'arte di importanti artisti come: Paul Cézanne, Aristide Maillol, Pablo Picasso, Georges Rouault, Paul Gau-guin e Vincent Van Gogh e Marc Chagal)

Il Costanzi aveva già ospitato i Balletti Russi nel 1911, con scarso successo nonostante la presenza di Nijinsky. Anche in quel caso la compagnia fu ospitata al De Russie, dove og-gi esiste la Suite Nijinsky, di 200 mq e 6000 Euro al giorno.

Non partecipò a quella tournè Anna Pavlova, che tuttavia ven-ne poi a Roma nel 1928 con la propria compagnia, risieden-do presumibilmente al De Russie.

Tra gli ospiti anche Stavinskij, insieme ai balletti russi.

Nella primavera del 1911 Stravinskij è a Roma dove compo-ne le musiche per il balletto Petruška (1911), destinato ad

andare in scena qualche mese più tardi a Parigi. Indelebile è il ricordo del suo primo viaggio nella capitale italiana:

“Ricordo sempre, con un piacere particolare, quella primave-ra a Roma, città che io vedevo per la prima volta. Nonostante il mio assiduo lavoro all'Albergo Italia dove abitavo con Be-nois e il pittore russo Serov, al quale fui legato da un sincero affetto, trovammo il tempo per fare delle passeggiate molto istruttive per me. Istruttive perché – in compagnia di Benois, eruditissimo, conoscitore d'arte e di storia e capace di evoca-re le epoche trascorse nel modo più vivo – queste passeggia-te erano per me una vera scuola che mi appassionava gran-demente”(Strawinsky 1947, p. 73).

A quell’epoca risiedeva all’Albergo Italia, via Quattro Fontane 12 (oggi Hotel Anglo Americano)

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Torna a Roma nella primavera del 1913. In quell'occasione Marinetti conduce i due artisti russi nello studio di Carrà a via della Pace. Djagilev vuole chiedere a Carrà di dipingere alcu-ni bozzetti per la stagione successiva. A Petruška segue  La sagra della primavera, la cui prima pari-gina il 29 maggio 1913 suscita scalpore e meraviglia per il linguaggio musicale radicalmente innovativo e per la rottura con la tradizione, sia sul piano musicale che su quello coreo-grafico.

Torna a Roma nel gennaio 1915, "nei giorni del terribile terre-moto di Avezzano" (Strawinsky 1947, p. 100), alloggia nel-l'appartamento di Djagilev e incontra lì anche Sergej Pro-kof'ev che Djagilev aveva invitato direttamente dalla Russia. Il 14 febbraio al Costanzi assiste alla prima italiana diPe-truška per la direzione musicale di Alfredo Casella. L'Italia acquista significato anche per il legame d'amicizia che Stravinskij stringe con i futuristi italiani, da lui ritenuti "as-surdi, ma in modo simpatico": Giacomo Balla, Umberto Boc-cioni e Filippo Tommaso Marinetti, "una vera balalajka" – ricor-derà poi affettuosamente – "un chiacchierone instancabile, ma anche il più gentile degli uomini" (Stravinsky 1977, p. 65).

Ospiti illustri della struttura sono stati, tra gli altri, anche Fer-mi, Marconi, Puccini.

Durante la sua storia, l'edificio è stato protagonista di molti avvenimenti. È stato anche sede della RAI (radio)

Ci spostiamo ora verso via del Corso

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La compagnia dei balletti russi era itinerante ma aveva sede principale a Parigi e a Monte Carlo (qui fino al 1929, anno della morte di Dijaghilev), avendo l’obiettivo iniziale di espor-tare in Europa occidentale il tecnicismo e l’arte russa.

Sbarcò nella capitale francese nel 1910 portando in scena una serie di spettacoli culminati con il “Sacre du primtemps” del 1913, “Pulcinella” nel 1920 e “Les noces” del 1923, solo per dirne alcuni.

La compagnia dei balletti russi si sviluppò realizzando una meravigliosa fusione tra artisti italiani, francesi, spagnoli, rus-si e la genialità e creatività di Dijaghilev, Impresario

“…poi guardavamo con le facce assenti la grazia innaturale di Nijinsky.E poi di lui si innamorò perdutamente il suo impresario e dei balletti russi.”

(Battiato, Prospettiva Nevsky)

Del progetto facevano quindi parte pittori, musicisti, coreogra-fi, grandi ballerini: tutti uniti nella realizzazione di un nuovo stile di balletto che combinava l’arte teatrale, pittorica e musicale fornendo allo spettatore l’esperienza di un teatro completo.

I BALLETTI RUSSI

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I balletti russi erano balli brevi eseguiti su basi musicali com-poste appositamente o comunque mai ascoltate precedente-mente e decorati da pittori che realizzavano scene e costumi in un’unità visiva mai avuta prima nella tradizione ottocente-sca.

I balletti russi, pur sopravvissuti solo fino al 1929, sono stati una delle più importanti compagnie di balletto del XX secolo ed hanno influenzato per oltre vent’anni il pubblico parigino ed europeo in generale determinando moda, costu-me e tendenze del primo Novecento.

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Via Del Corso 18

Tappa 4CASA GOETHE

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Casa Museo Goethe

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"In questa casa immaginò e scrisse cose immortali Volfango Goethe", si legge in una targa commemorativa sulla destra del palazzetto dal prospetto settecentesco dove Goethe soggiornò tra il 1786 e il 1788.

Johann Wolfgang von Goethe, poeta, statista, scienziato, aveva trentasette anni quando decise di realizzare il sogno della sua vita: il Viaggio in Italia, perché "troppo era maturata la sete di vedere questo paese..."

Il 3 settembre 1786 lasciò segretamente e nottetempo Karlsbad ed il 30 ottobre 1786, un giorno dopo il suo arrivo a Roma, "fi-nalmente placato... pacificato per tutta la vita", si trasferì in un appartamento al Corso dove viveva in affitto il pittore Tischbein. "E’ una fortuna per me — scriveva - che Tischbein abbia un bell’appartamento in cui vive insieme ad altri pittori. Abito presso di lui e mi sono bene inserito nella vita della loro casa, e così godo la quiete e la pace domestica, pur trovandomi in terra straniera. I padroni di casa sono un’onesta coppia di anziani che provvede a tutto e si cura di noi come di figli".

A Roma, nella comunità degli artisti di via del Corso, dà impulso a un nuovo approccio con l’arte e la vita, trascorrendo un pe-riodo che più tardi definirà il più felice della sua esistenza. Goethe, libero da tutti gli obblighi sociali, personali e di lavoro che lo turbavano a Weimar, nell’anonimità di Roma ritrovò finalmente la concentrazione e la tranquillità per scrivere, dipingere, mo-dellare con rinnovata vena e una libertà fino allora sconosciuta.

Lavorava e viveva spensieratamente grazie anche alla generosità del suo lontano protettore, il duca di Weimar, che provvede-va alle sue esigenze versandogli ugualmente il lauto stipendio attribuito all’espletamento della carica ricoperta.Dopo il lungo rapporto platonico con Charlotte von Stein, che aveva quasi quarant’anni, provò a Roma, per la prima volta, le "vere" gioie del sesso e dell’erotismo, per merito di Faustina.

GOETHE

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L’incontro con Faustina, dalle sue proprie parole:

Avea la mensa nostra corona d’amici tedeschi;

ella cercò di fronte, presso la madre, un posto.

Smosse più volte il banco, e far lo dovette con arte,

poiché mezzo il suo volto e il collo io guadagnai.

Ella parlava forte, ben più che romana non soglia;

mescea, volta a guardarmi; sgarrò, cadde il bicchiere.

Scórse sul desco il vino, ed ella col dito sottile

Segnò sul ligneo piano umidi cerchi intorno.

Intrecciò poi col mio il nome suo dolce; lì fiso

Io quel ditin seguìa, e bene ella m’intese.

Svelta compose alfine il segno d’un cinque romano,

posevi un’asta innanzi; tosto, com’io lo vidi,

cerchi tracciò su cerchi a sperdere lettere e cifre.

Ma il prezioso quattro mi restò qui negli occhi.

I dettagli, ma anche la verità storica non è accertata. Si trova-no indicazioni divergenti.

Faustina, di cui qualcuno dubita perfino che sia esistita, era una popolana (dall’atteggiamento disinibito, di direbbe).

Brevemene Goethe si invaghi di Costanza, figlia dell’oste Giu-seppe Roesler Franz, come vedremo.

Nella Città Eterna ricercò il contatto con l’antichità classica per verificare il suo pensiero sull’arte e l’architettura antiche, influenzato dalle opere di Winckelmann, conosciute grazie a Oeser, suo maestro di disegno a Lipsia.

Assisté dalla finestra della sua casa romana alle follie dei nu-merosi eventi carnevaleschi: le maschere, il lancio dei confet-ti, i pulcinella per la strada con le loro improvvisate comme-die, la ressa sul Corso, i moccoletti. Ne rimane colpito, descri-vendo con precisione lo svolgimento. "Il carnevale di Ro-ma — annotava — non è precisamente una festa che il popo-lo offre a se stesso. Lo stato non si occupa gran che di prepa-rativi, né fa grandi feste. La serie dei divertimenti si svolge automaticamente; e la polizia non fa che dirigerla con mano non troppo pesante".

Goethe quasi due anni dopo tornò profondamente cambiato a Weimar, per il rinnovamento spirituale acquisito che lo in-dusse a dire : "io considero un mio secondo compleanno, una vera rinascita, il giorno in cui sono arrivato a Roma".

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Il Viaggio in Italia costituì indubbiamente un capitolo della sua vita di importanza determinante, la ricerca di una nuova dimensione, un itinerario spirituale, che ripeté nel 1791-94 Importante sottolineare il lato scientifico di Goethe, sia come geologo che per la sua teoria dei colori.

In questa casa dimorò anche Aleksandr Herzen, che da qui scrisse le famose “Lettere da via del Corso”.

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Aleksandr Herzen nacque a Mosca il 6 aprile 1812, era figlio naturale del ricco aristocratico Ivan Jakovlev fu una delle figu-re piu’ eminenti della vita intellettuale russa, esprimendo nelle sue opere, articoli o racconti, i propri ideali progressisti. Nel 1847, alla morte del padre, ricevette una considerevole eredi-ta’ che gli consenti’ di lasciare la Russia per vivere in Occi-dente. Reputava gli italiani un popolo amante della liberta’, di quella liberta’, individuale e collettiva, in nome della quale aveva abbandonato la patria. Per questo motivo, dopo esse-re stato espulso dalla Francia, si risolse ad andare in Italia.

Aleksandr Herzen, con moglie e figli, arrivo’ a Roma il 28 no-vembre 1847, sistemandosi in questo grande appartamento in via del Corso. La prima cosa che lo colpi’ di Roma fu il cli-ma: nonostante si fosse in autunno inoltrato l’aria era tiepida e si potevano indossare vestiti leggeri. Herzen si senti’ rigene-rato e, in un ambiente come l’Italia, cosi’ ricco di fermenti rivo-luzionari,  riacquisto’ la fede in se stesso e negli altri. Il mo-mento, inoltre, era particolarmente promettente perche’ era stato eletto il nuovo papa, Pio IX, dal quale ci si aspettava un nuovo corso storico.

Visse a Genova, Nizza, Ginevra e infine Londra, ultima capita-le liberale rimasta. Fu in contatto con in massimi attori del ri-sorgimento (Mazzini, Carlo Pisacane, Felice Orsini, Aureelio Saffi, Giuseppee Garibaldi)

Non posso pero' dire che Roma, fin dalla prima volta, mi ab-bia fatto un'impressione particolarmente piacevole. A Roma bisogna vivere, bisogna studiarla per scoprire i lati buoni. Nel suo aspetto esteriore c'e' qualcosa di senile, di sopravvissu-to, di deserto e caduco; le sue vie cupe, i suoi palazzi enormi e le sue case non belle sono tristi, in essa tutto e' annerito, tutto e' come dopo che c'e' stato un morto, tutto odora di chiuso, cosi' come a Berlino e Pietroburgo tutto e' luccicante, tutto e' nuovo, tutto odora di calce, di umido, di non ancora abitato. Ma piu' di tutto sorprende, nella vecchiaia di Roma, la mancanza di solennita', di ampiezza, concetti che siamo abituati ad unire alla parola "Roma" e che effettivamente sono rimasti in alcuni monumenti e si sono conservati nel carattere popolare. La nuova Roma e' meschina e sporca, priva di commercio e di ogni comodita'. In Italia non c'e' confort in nessun posto, ma non c'e' volgarita', le citta' italiane sono sporche, ma mirabilmente belle nella loro trascuratezza; sono scomode, ma solenni, non ci si sente stretti, nulla vi e' di vul-gar; gli stracci italiani sono drappeggi: Roma fa eccezione.

Vi prego, non accusatemi di mancanza di rispetto, e lasciate-mi spiegare di quale Roma io parlo. Io parlo della Roma attua-le. E non delle due Rome del passato, e ancor meno di quel-la che nasce; io parlo della Roma presente, come e' uscita dalle mani dell'ultimo rappresentante della morte e del torpo-re, in un anno e mezzo e' impossibile rinascere.

La citta' eterna ha cambiato alcune volte la sua corazza - le tracce delle diverse vesti sono rimaste e in base ad esse si puo' giudicare quale fu la sua vita.

Roma e' il piu' solenne cimitero del mondo; qui, come in un teatro anatomico, si puo' studiare la morte in tutte le sue fasi; qui si puo' imparare a capire la vita che fu, in base alle ossa, alla colonna vertebrale. E la prima cosa che colpisce chi non s'e' lasciato sviare da una teoria preconcetta, sono le tracce della vita limitata, selvaggia, repellente, esclusiva, arruffata, che hanno preso il posto della larga, elegante vita dell'antica Roma; in essa non c'e' la piu' piccola comprensione dell'arte, il piu' piccolo sentimento del bello - le colonne e i portici che si trovano murati nei nuovi muri sono eterni testimoni della mancanza di gusto del triste mondo che ha preso il posto del Passato e del Colosseo.

L'antica Roma e' caduta come un possente gladiatore, la sua colossale carcassa incute rispetto e timore, essa, anche adesso, superbamente e solennemente lotta contro la distru-zione, il tempo non ha potuto spezzare le sue ossa; i suoi avanzi, sprofondati nella terra, rovinati e coperti di muschio e d'erbe sono piu' solenni e nobili di tutti i templi del Bramante e di Bernini. Come dovette essere grande quello spirito che si impresse su quelle colonne di pietra! - uno spirito a tal pun-to capace di correggere la morte che la sua impronta semi-cancellata basta a schiacciare due, tre Rome costruite li ac-canto e i secoli che le hanno costruite. Quando per la prima volta uscii dietro il Campidoglio, e non conoscendo Roma, ad un tratto inaspettatamente mi trovai davanti il Foro, mi si fer-mo' il respiro e mi arrestai turbato e commosso - eccola la carcassa del grande attore, io riconobbi i suoi tratti che nel gigantesco scheletro conservavano l'espressione regale. Il Forum Romanum e' la grande reliquia laica di un mondo pura-mente laico.

ALEKSANDR HERZEN

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Nel 1854 Garibaldi arrivò dall’America a Londra al coman-do di una nave mercantile. Herzen, accompagnato da due immigrati italiani, si recò prontamente al porto di Londra dove era ormeggiata la nave. Nel suo libro “Byloe i dumi” (“Passa-to e pensieri”) egli descrive l’incontro con Garibaldi.  I suoi modi semplici e bonari, le sue maniere gentili, scevre d’affettazione, la sua cordialità suscitarono subito la no-stra simpatia. “Garibaldi ci invitò a fare colazione nella sua cabina dove ci furono offerti ostriche sud-americane, prepara-te in modo particolare, frutti secchi, vino di Porto. Intanto nel-la sua maniera di parlare, semplice e senza cerimonie, a po-co a poco cominciava a manifestarsi la sua forza interiore di autentico capopopolo”. 

Proseguiamo brevemente lungo via del Corso

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Herzen con Garibaldi

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Tappa 5STUDIO DI ALEKSANDR IVANOV

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Aleksandr Ivanov, Ritratto Da Sergey Petrovich Postnikov

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Via Del Vantaggio 5

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Aleksandr Ivanov, nato in una famiglia di pittori, grazie all'in-tervento di un'associazione di mecenati, ebbe la possibilità di continuare a studiare all'estero; nel1830 partì per la Germa-nia (Dresda e Monaco) e successivamente raggiunse l'Italia, dove svolse in gran parte la sua attività pur continuando a mantenere sempre stretti contatti con la patria.

Nel 1757, infatti, per iniziativa di Ivan Šuvalov era stata fonda-ta a Pietroburgo l'Accademia delle Belle Arti, che ben presto strinse rapporti di collaborazione con altre istituzioni europee analoghe, tra cui l'Accademia di San Luca, con lo scopo tra l'altro di favorire la possibilita' di viaggi di studio all'estero, in particolare in Francia e in Italia, dei giovani artisti russi. Dal momento che l'Accademia non disponeva di grandi mezzi, all'inizio degli anni venti «era stata fondata da facoltosi mece-nati la Societa' di Incoraggiamento degli Artisti, un'istituzione benemerita che si assunse l'onere dell'invio e del controllo dell'attivita' dei giovani talenti. La Societa' preparava per ogni borsista un programma di lavoro, in cui dava dettagliate istru-zioni sulle citta' da visitare, i capolavori da ammirare, le ope-re da ricopiare, i soggetti su cui verificare la propria abilita'». Con l'avvento al trono di Nicola I nel 1825, dopo la repressio-ne della rivolta decabrista, il manipolo di borsisti ando' infol-tendosi, vuoi per la maggiore apertura dell'arte russa alle cor-renti occidentali, vuoi per le opinioni personali dello zar, che nutriva una particolare avversione per la Francia e preferiva che i giovani artisti si formassero in Italia. Nel 1834 Giuseppe Brancadoro elenca 17 pittori, 4 architetti e un mosaicista russi operanti a Roma. Tre anni dopo Gogol' in una delle sue prime lettere da Roma scrive con tagliente sincerita': «Fossi un pittore, anche pessimo, vivrei agiatamente: qui a Roma ci sono una quindicina di nostri pittori inviati di recente dall'accademia, alcuni dei quali dipingono peggio di me e ricevono tutti tremila rubli l'anno». Questa cattiva fama dove-va essere abbastanza diffusa e negativamente 'condivisa' anche dagli altri artisti stranieri residenti a Roma se sulla rivi-sta «Il Pirata. Giornale di letteratura, belle arti, varieta' e tea-tri», in data 24 novembre 1837, possiamo leggere in un artico-lo dal titolo Artisti stranieri a Roma, delle simili descrizioni: «Quando v'aggirate per le strade di Roma, o per quelle famo-se ruine, e v'abbattete in certe strane figure con certe capel-lature scomunicate, con certi vestiti in tutto originali, dite pu-re, senza tema di errare, quegli sono artisti... e sono stranieri. (...) E cosa dite di questo profumato damerino che legge i

giornali? Sono giornali di belle arti. Oh! Se lo sentiste con quanta erudizione egli parla di filosofia delle belle arti, della loro destinazione, della loro influenza sulla societa', special-mente quando pranza nell'Albergo della Lepre. Ma e i suoi lavori?». In una lettera di Gogol' a Aleksandr Danilevskij, data-ta "Roma, Anno 2558 dalla fondazione della citta'. 13 maggio [1838]", si legge: «Cosa fanno i pittori russi lo sai anche da solo. Alle 12 e alle 2 da Lepre, poi il caffe' Greco, poi al Mon-te Pincio, poi al Bon Gout, poi di nuovo da Lepre, poi al biliar-do. Quest'inverno avevano tentato di introdurre il te' e le car-te alla russa, ma per fortuna l'uno e le altre sono state abban-donate. (...) I nostri artisti, soprattutto quelli che tornano una seconda volta, sono una cosa.... Che educazione insopporta-bile c'e' oggi da noi! Insolentire e giudicare tutto e tutti, que-sta e' diventata da noi la parola d'ordine di ogni persona me-diamente educata, e di persone cosi' adesso ce n'e' una gran quantita'. E trinciare giudizi e commenti sulla letteratura e' considerato indispensabile, la patente di una persona istruita. Tu lo sai bene quali possono essere i giudizi di lettera-ti che hanno completato la loro educazione all'Accademia di Belle Arti». Commenta Alpatov: «Non avendo dapprincipio in Roma né conoscenze né relazioni, Gogol' prese a comparire di sovente nella societa' degli artisti russi. La sua prima im-pressione fu sfavorevole: la maggior parte dei pittori russi, com'egli li chiamava ironicamente in italiano, si alienarono le sue simpatie per l'assenza di sviluppo intellettuale, la volgari-ta' dei costumi, il basso livello dei loro interessi artistici e la scasezza del profitto. Gogol' soffriva allora di cronica penuria di denaro ed era preoccupato della sua sorte futura. Al con-trario il piu' mediocre dei "pensionati" aveva l'esistenza assi-curata piu' brillantemente dello scrittore»

A Roma i suoi primi lavori furono ispirati alla pittura michelan-giolesca che poté ammirare nella Cappella Sistina e creò già da allora una serie di schizzi su vari soggetti biblici. Accosta-tosi al gruppo dei Nazareni, allora operanti a Roma, dipinse il suo capolavoro L'apparizione del Messia al popolo, per il quale impiegò venti anni (1836-1857).[1]

Nel 1858 decise di far ritorno in Russia e portò con sé a Pie-troburgo anche quel quadro. La mostra delle sue opere, orga-nizzata in uno dei saloni dell'Accademia d'Arte, ebbe un grandissimo successo e produsse una forte impressione nel-l'intellighenzia della Capitale. A causa di un'epidemia di cole-ra Ivanov perì quello stesso anno, al culmine della fama.

ALEKSANDR IVANOV

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Nel 1839 l’erede al trono Alexandr Nicolaevic (futuro impera-tore Alessandro II) aveva visitato il suo atelier e quello di altri pittori russi, che per l’occasione dovettero tagliarsi barba e capelli e vestirsi decentemente.

13 Dicembre 1845 – Nicola I

“Alle ore 10 ant. dei 16 dicembre (Nicolò I) usci' da palazzo (...) e si porto' alla pubblica esposizione de' quadri alla piaz-za del Popolo. (...) Si porto' quindi allo studio dello scultore Wicar al Vicolo del Vantaggio ed uscendone, a piedi, fece la nuova passeggiata di Ripetta, visitando altro studio di un rus-so. Visitati altri studi di scultura, si diresse alla basilica di S. Paolo sulla via Ostiense»(Cronaca di Roma di Nicola Roncal-li)

Come testimonia anche la corrispondenza di Gogol', forse proprio in questa occasione lo zar ebbe modo di incontrare anche il pittore Aleksandr Ivanov, che all'epoca stava lavoran-do alla sua opera piu' famosa dal titolo L'apparizione di Cri-sto al popolo, e il cui studio si trovava in una soffitta di Palaz-zo Borghese. Questo studio e' raffigurato dallo stesso Ivanov in un disegno della fine degli anni trenta e ce ne ha lasciato una colorita descrizione lo storico e pubblicista Michail Pogo-din che proprio Gogol' aveva portato in visita dal pittore nel 1839. 

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Come per le altre sue opere, l’artista ci lavorò sopra per ben 20 anni. Nel 1838 il futuro zar Alessando II aveva visto l’inizio dei lavori e aveva desiderato di comprare il quadro per la sua collezione privata.

Nel 1858 Ivanov aveva finalmente finito il lavoro e arrivò il momento di portarlo a San Pietroburgo. La tela, della misura di 5,4 x 7,5 metri, non entrava in una stiva della nave. IvAnov ricordava cosí questo viaggio: "Con grande difficoltà sono riuscito a trovare un accordo con il capitano per mettere il mio quadro sul ponte della nave". Il viaggio fu molto stressante per l'autore. Per sfortuna, talvolta l’acqua di mare copriva il ponte e per tutto il viaggio il pittore pregò Dio di salvare il lavoro di tutta la sua vita. Avventurosamente la nave arrivò a Marsiglia. Da Marsiglia l’opera proseguí in treno verso Parigi, poi Berlino, poi Amburgo e finalmente venne imbarcata su una seconda nave per San Pietroburgo.

Nel 1858, però c’erano nuove tendenze nella pittura russa, invece 'L'apparizione del Cristo al popolo" era dipinto in modo accademico. Quando lo zar vide il quadro rimase deluso. Poco dopo tuttavia Alessandro II comperò il quadro e conferì l’onorificenza di Santo Vladimiro al pittore. Ma Aleksandr

APPARIZIONE DI CRISTO AL POPOLO

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Apparizione Di Cristo Al Popolo, Museo Russo Di San Pietroburgo (tela Preparatoria)

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Apparizione di Cristo al popolo, Galleria Tret'jakov di Mosca

Ivanov non lo seppe mai perché era morto poco prima per colpa del colera che imperversava a San Pietroburgo.

Il quadro era stato presentato a San Pietroburgo presso l'Accademia d'Arte. Nel 1861 arrivò a Mosca e lo zar regalò la tela al primo Museo Pubblico di Mosca.

L'artista si basò sul ben noto soggetto evangelico dell'avvento del messia, e precisamente colse il momento in cui S. Giovanni Battista, scorgendo Cristo che gli viene incontro, lo presenta alle genti co-me il messia divino. Il pittore vede questo soggetto come l'incontro tra le genti e il Bene Universale e la guistizia. La tela acquista cosi un valore morale-filosofico e non per caso dunque ebbe notevole risonanza nella vita sociale russa alla vigilia del crollo della servitù della gleba. Ci sono voluti ben 25 anni per dipingere questo quadro e 600 schizzi preparatori. Nella sala sono esposti anche bozzetti di composizione che meglio illustrano il processo di creazione della tela. Questi schizzi di studio pos-seggono un loro valore autonomo. La tela esposta al Museo Russo è una versione preparatoria, la più vicina all'originale, conservato alla Galleria Tret'jakov di Mosca.

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VIA DEI GRECI/VIA DEL BABUINO

Tappa 6RIVENDITA GIOVANNI VOLPATO

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Giovanni Volpato, Galata Morente, 1786-1789 Biscuit Collezione Privata

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Il Grand Tour ha dato il via ad una vera industria di “repliche”, dipinti, modelli, sculture in vario materiale, presi come “souve-nir”. I più ricchi tornavano con casse di reperti e oggetti di antiquariato, dipinti e sculture “originali”. Con il tempo, con la cresci-ta della domanda, si sviluppa un mercato per “riproduzioni” dei classici, in tutti i campi.

La domanda di statue antiche era nettamente superiore alla disponibilità del mercato e siccome non c' era inglese che non volesse sfoggiare nel proprio giardino una statua classica, esaurite le costose copie d' autore (Giacomo Zoffoli ne produceva di pregiate in bronzetti da tavolo mentre Giovanni Volpato stampò cataloghi che illustravano la gamma dei soggetti da ordinare a scelta, dal Galata morente al Fauno Barberini, tutti realizzati nella più economica porcellana bianca), ci si affidava ai falsi, venduti a caro prezzo per renderli credibili.

Nella pittura fra 600 e 700 si diffonde il tema architettonico e dozzine di artisti producono un grande volume di quadri con iden-tico tema: antiche rovine con vedute realistiche (vedute essate) e immaginarie (vedute ideate), dette anche capricci.

Il più famoso pittore architetturale è Gian Paolo Panini (1691 – 1765), il Canova di questo genere, spesso combinando i due generi, unendo rovine “reali” con paesaggi immaginari. Panini unisce fianco a fianco anch monumenti in realtà molto lontani.

Alla fine del 700 i turisti possono portare a casa anche modelli architetturali in 3D dei principali monumenti della città. All’inizio erano realizzati in sughero, o in pietre preziose e marmi, con rifiniture in bronzo. I marmi sono spesso pezzi di marmi “esotici”

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Giovanni Volpato, Trionfo di Bacco

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portati a Roma durante l’età imperiale. All’inizio dell’800 co-minciano ad essere disponibili souvenir meno costosi in bron-zo, gesso ed altri materiali.

Dopo il 700 diventano disponibili anche incisioni ed altri lavo-ri su carta, di nuovo con soggetto architettonico e vedute di rovine romane, realizzati da artisti quali Guiseppe Vasi (1710 – 1782), Marco Ricci (1676 – 1729), e più tardi, Hubert Ro-bert (1733-1808). Nessuno raggiunte tuttavia il talento, la pro-lificità la notorietà di Giovanni Battista Piranesi (1720 – 1778) Negli oltre 40 anni di lavoro Piranesi ha prodotto 1600 vedute di Roma, “vere” e immaginarie. Le incisioni di Piranesi erano meno care dei dipinti a olio e dei modelli di bronzo o marmo e alla portata della crescente “massa” di turisti di me-tà ottocento, di estrazione meno aristocratica e facoltosa del-la precedente.

Piranesi aprì una sua sede di vendita presso Palazzo Manci-ni, via del corso 270, allora sede dell’accademia di Francia dal 1737 fino al 1804 in cui fu permutata con Villa Medici.

Oggetti e opere che ricordano questo Grand Tour andranno ad arricchire le wunderkammer dei ricchi signori: molto getto-nate le miniature dei fori imperiali, gli obelischi, le colonne traiane, le guache e incisioni con vedute più o meno fantasti-che di monumenti romani o delle spettacolari eruzioni del Ve-suvio; cammei, bronzi, templi in scala ridotta ottenuti utilizzan-do un’incredibile varietà di marmi pregiati: dal porfido rosso

al giallo di Siena, dalla lumachella alle tante brecce toscane. Spesso tessere marmoree erano assemblate nei piani di tavo-li destinati all’esportazione. Anche i bronzetti: ispirati alla sta-tuaria classica, erano souvenir appetibili e i soggetti più ricor-renti erano la Venere Callipigia, il Toro Farnese, l’Apollo Belve-dere. Per i souvenir più a buon mercato e meno voluminosi, invece, c' erano già ventagli e servizi da tavola le cui superfi-ci diventavano veicolo di rappresentazione delle vedute roma-ne più popolari.

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Il governo papale da tempo tentava di governare il fenome-no: continua così l’obbligo di richiedere la licenza d’estrazio-ne per chiunque volesse portare pezzi antichi fuori dallo Sta-to, e nel 1802, regnante Pio VII, arriverà il divieto di vendita all’estero. I papi non si limitano però a vietare: un’epoca di dispersioni di grandi raccolte (negli anni settanta

quella Este a Tivoli, e poi Altieri, Capponi, Lante, Negroni) viene trasformata dai pontefici nell’occasione per ampliare le raccolte statali, portando a compimento un processo iniziato più di due secoli prima. Ma è più quello che si comprano i visitatori stranieri: emblematico è il caso degli acquisti di Gu-stavo III di Svezia durante il suo soggiorno romano del 1783-1784. Uno dei suoi fornitori sarà Giovan-ni Volpato che gli venderà, tra mol-to altro, delle versioni di Apollo e le Muse ricomposte da vari fram-menti in maniera da avvicinarsi il più possibile ai marmi conservati nel Museo Pio Clementino tanto ammirato dal sovrano svedese. Insieme al resto, confluiranno nel Museo delle Antichità di Stoccol-ma voluto dal fratello Carlo (e reg-gente per il figlio del re assassina-to, Gustavo IV Adolfo) nel 17942: quelle sale, recentemente riallesti-te così come le dipinse Peter Hille-ström nel 1795, restano a esem-pio dell’amore portato da quegli uomini del Nord al mondo classi-co. È in questa Roma che giunge nel 1771 Giovanni Trevisan detto Volpato.

Giovanni Trevisan era nato ad An-garano probabilmente intorno al 1735, e aveva svolto il suo apprendistato in quella che era la più grande stamperia italia-na del tempo, la Remondini di Bassano. Nel 1762 si trasferi-sce a Venezia, nello studio di Francesco Bartolozzi: qui co-mincia a intrecciare rapporti che dureranno tutta la vita, con-solidando, primo tra tutti, quello con gli antichi principali bas-sanesi. La sua fama di incisore nel periodo veneziano si ac-cresce anche grazie a collaborazioni di prestigio: con il cele-bre Bodoni lavora nel 1769 alla realizzazione del volume cele-brativo per le nozze del duca Ferdinando di Parma. Ormai noto e apprezzato, Giovanni Volpato (ha assunto il cognome della nonna materna) decide di trasferirsi a Roma. Nei tren-t’anni successivi, unirà a una felice attività d’incisore quella ancor più redditizia di antiquario e mediatore di antichità.

Una attività mercantile che non poteva ignorare la ricerca di-retta dei reperti antichi: così il nostro finanzia tutta una serie di scavi, nel 1779 alle Terme di Caracalla, a Santa Balbina, e ai Camaldoli di Frascati. L’anno dopo all’Arco di Tito, con Ha-milton, a piazza San Marco, a piazza Venezia e al Quadraro fuori porta San Giovanni.

Volpato stesso non esita a riconoscere l’importanza di questa attività, resa possibile, in primo luogo, dagli stretti rapporti con il pontefice. Oltre che essere vicino alla Corte, Volpato conta a Roma solide e affettuose amicizie. I nomi sono quelli di Angelica Kauffman (1741-1807) e del marito Zucchi, dello

scozzese Gavin Hamilton (1723-1798), del mondano diploma-tico tedesco Johann Friedrich Rieffenstein (1719-1793), di Thomas Jenkins (1722-1798), dello scultore e restauratore Carlo Albacini (1735-1813?), solo per citarne alcuni: il circolo che sarà quello di Goethe durante il suo soggiorno italiano del 1786-1788. Volpato è anche accolto in uno dei più influen-ti salotti della città, quello riunito da Girolamo Zulian, amba-sciatore di Venezia a Roma dal 1779 al 17837. Nei saloni del palazzo Venezia, in fondo al Corso, il veneziano raccoglie artisti e intellettuali, tutti d’accordo nel guardare all’antico co-me unica via per una auspicata rinascita delle arti.

L’ambasciatore veneziano ascolta e approva, e intanto è ben attento a sfruttare le possibilità offerte dall’intreccio tutto roma-no tra mondanità e commercio antiquario.

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Zulian resta l’archetipo del collezionista di vaglia: le sue prefe-renze sono vaste, e in questo egli si avvicina al suo omologo inglese sir William Hamilton (1730-1803) residente d’Inghilter-ra a Napoli, e spaziano dai vasi greci a quelli etruschi, ai mar-mi, ai bronzi e ai cammei. Celebre era quello di sua proprietà detto di Giove Egioco: ed egli non manca di commissionare esemplari moderni ai migliori artefici del tempo. Si assumerà anche l’incarico di introdurre Antonio Canova nella vita artisti-ca e mondana della città, aiutato anche dalle sue ottime rela-zioni, in particolare con il principe Abbondio Rezzonico, sena-

tore di Roma dal 1776 e nipote di papa Clemente XIII: i due veneziani protessero gli stessi artisti, spesso di origine vene-ta. Così era avvenuto per Giovan Battista Piranesi, che per il senatore aveva a lungo lavorato.

A Canova l’ambasciatore, lo si è detto, commissiona due lavo-ri: nel 1781, Teseo e il Minotauro e, nel 1793, una Psiche. Il Teseo è per noi opera nodale perché, se da

un lato costituisce un punto di rottura con la scultura prece-dente, qui ci interessa poiché è l’unico marmo canoviano di cui si conosca una versione in biscuit di Volpato. A lungo si è pensato che Zulian avesse in seguito ordinato a Giovanni Vol-pato il sontuoso centrotavola in biscuit conservato a Bassa-no. Oggi sappiamo che il vero committente, nel 1788, fu un suo successore (dal 1786 al 1791) nella sede romana, Piero Donà: ma l’idea di un insieme che riunisse modelli ispirati a prototipi che vanno dall’antichità classica all’arte contempora-nea, passando per Raffaello e Petitot, assomiglia molto al gu-sto dominante nella città e nella cerchia di palazzo Venezia, e certo sarebbe piaciuta a Zulian.

Una parte importante del commercio legato ai collezionisti e ai visitatori stranieri riguardava, oltre la lucrosa attività di ven-dita, falsificazione e restauro dei marmi antichi, anche la pro-

duzione di copie: anch’esse considerate segni certi di cultu-ra e gusto da esibire una volta tornati in patria. Le medesime immagini sembrano passare da un artefice all’altro in una mol-tiplicazione infinita, declinata in una quantità di dimensioni e materiali, dai bronzi fino agli intagli o ai gessi realizzati in una miriade di botteghe meno note. Abile uomo d’affari, Volpato assume la veste di ceramista per poter fornire ai clienti, insie-me alle riproduzioni a stampa, copie di capolavori in piccole dimensioni modellate in candido biscuit, destinate a essere disposte sui caminetti delle biblioteche e, soprattutto, sulle mense. Ceramiche che univano alla grande eleganza il pre-gio, tutt’altro che trascurabile in tempi che vanno diventando bui, di costare assai meno degli oggetti simili usciti dalle bot-teghe dei bronzisti. La nuova iniziativa prende avvio nel 1785, quando Volpato fonda la

sua manifattura nei pressi della chiesa di Santa Pudenziana. La scelta del biscuit apparirà ovvia quando si pensi alle teo-rie dell’influente Winckelmann, fautore di una visione dell’anti-co di abbacinante candore. Il tedesco non ignora certo come il bianco sia tutt’altro che dominante nell’arte classica: ma lo considera il colore che maggiormente esalta la bellezza delle forme.

Se quello era il colore ideale, pochi materiali come il biscuit, porcellana non verniciata e

dall’aspetto simile al marmo, potevano richiamare la maestà dell’arte antica. Volpato non fatica a ottenere una privativa per quindici anni da Pio VI, privilegio reso possibile dalla re-voca di quello a suo tempo concesso alla ormai estinta mani-fattura del Coccumos. L’attenzione alla commerciabilità delle sue porcellane è sin da subito evidente: in un promemoria al papa, Volpato ricorda come “[…] Conosce Giovanni Volpato essere ben conveniente la misura delle statue in Porcellana assegnate da Sua Santità; […] ma siccome le commissioni sin ora avute sono per statue più picciole, per uso principal-mente di Dessert di spesa, la medesima Santità Sua non vor-rà Includergli nel Breve di Privativa la detta misura affine di potergli supplicare a tutte le commissioni, che gli sieno avan-zate; in questo modo rimettersi dalle spese fatte; o continua-re ad impiegare diversi giovani scultori che da ciò ritraggano la Loro sussistenza […]”. Il documento permette di affermare che a un anno dalla nascita, e nonostante qualche difficoltà iniziale che traspare dalle lettere di Volpato, la fabbrica è fun-zionante e in grado di ricevere commissioni: se ne parla co-me di una realtà degna di nota già in un bollettino pubblicato nel settembre del 1786 a Faenza, mentre quasi contempora-neamente ne danno notizia gli agenti lucchesi a Roma in un dispaccio del 23 novembre dello stesso anno. Persi i docu-menti di fabbrica, poco ci è rimasto per conoscere la storia della manifattura e la sua organizzazione interna: qualche

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notizia ci giunge dagli inventari del 1803-1804 redatti dopo la morte di Volpato e del figlio Giuseppe, di più, come vedremo, dai cataloghi di vendita.

Al vertice della produzione pare certo vi fosse il capo model-latore Francesco Tinucci, che avrà non solo governato alme-no una ventina di lavoranti (compresi forse gli artigiani utiliz-zati per i montaggi delle figure), ma anche svolto un più spe-cifico ruolo di coordinamento dell’attività di modellazione. Sappiamo che vi era un negozio di vendita, in via dei Gre-ci31, dove i clienti potevano acquistare anche elementi singo-li utili a combinare in più forme i dessert, e anche quanto fos-se utile per la loro disposizione su plateau o piccoli piedistal-li. Un ordine a noi noto, quello di Ennio Quirino Visconti del 1791 per un centrotavola destinato a Sigismondo Chigi, pre-vede infatti anche la fornitura di sostegni realizzati apposita-mente.

Uno degli aspetti più interessanti dell’attività ceramica di Vol-pato è costituito dagli stretti rapporti tra quest’ultimo e l’am-biente culturale della Roma del tempo. Il ruolo di consigliere artistico rivestito da Volpato nella società contemporanea si riflette in modo evidente nella produzione della quell’impatto decorativo tanto apprezzato dalla clientela. Quanto si fa nella manifattura romana ci è noto soprattutto grazie a due docu-menti: il primo è la Nota de’ pezzi di Porcellana in Biscuit che si fabbricano da Gio:Volpato a Roma, un elenco manoscritto in italiano, di data incerta (ma certo ante 1789) e relativo alla fornitura, mai perfezionata, per un dessert destinato al re di Polonia Stanislao Poniatowsky. Il secondo è il catalogo a stampa (ante 1795 e in lingua francese) dei prodotti della fab-brica, quasi uguale alla lista precedente, intitolato Catalogue des Statues Antiques, Groupes et dessert de Porcellaine en biscuit, de la Fabrique Jean Volpato à Rome. Il foglio fu spedi-to a Londra nel 1795 da Charles Heathecote Tatham all’archi-

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tetto Henry Holland su suggerimento dell’amica di Volpato, Angelica Kauffmann: fornisce non solo gli elenchi dei sogget-ti riprodotti (quasi sovrapponibile a quelli dei bronzisti più noti dell’epoca), ma specifica, cosa non da poco, che le fornaci erano in grado di realizzare anche modelli su richiesta.

In questi elenchi non mancano richiami agli artisti amici di Volpato: per esempio nel Trionfo di Bacco e Arianna, gruppo vicino al soffitto di Newby Hall dipinto intorno al 1770 dall’ami-co Antonio Zucchi su commissione di Robert Adam, incarica-to della ristrutturazione della residenza di William Weddell, appena tornato da Roma. In altri casi Volpato si rifà diretta-mente alle proprie esperienze artistiche. Alcuni elementi da dessert oggi a Bassano si ispirano (e in un caso li riprendono fedelmente) ai vasi disegnati da Petitot e realizzati in marmo da Boudard nel 1759- 1760 per il Parco Ducale di Parma, uno dei quali appare nella tavola con il Boschetto d’Arcadia con le rovine del Tempio che Volpato stesso aveva inciso per il volume dedicato alle nozze del duca Ferdinando. A volte, poi, si elabora una riuscita sintesi tra moderno e antico, inse-rendo così queste opere in miniatura nelle mode più aggior-nate del tempo. È questo il caso della doppia erma di Josè Nicolàs de Azara e Anton Raphael Mengs, ancora due amici, derivata da tutta una serie di prototipi antichi, a cominciare

dal marmo con Epicuro e Metrodoro delle raccolte capitoline. Ma se si pensa all’antica, ci si ispira all’oggi, e i due ritratti hanno, come è stato giustamente osservato,stretti rapporti, con quelli di medesimo soggetto realizzati dall’inglese, a Ro-ma dal 1771, Christopher Heweston rispettivamente nel 1775 e nel 1781.

Ma più di queste divagazioni che chiameremo moderne, è l’antico che costituisce il centro della produzione della mani-fattura (che realizzò solo plastiche, e pochi elementi per la decorazione delle mense). Concentrata sulla realizzazione di dessert, i grandi insiemi che decoravano le tavole nella fase finale dei pranzi formali durante il pieno Settecento, la produ-zione è infatti un vero campionario di cultura archeologica, che Giovanni Volpato conosceva bene: una delle più belle serie prodotte dalla fabbrica, Apollo e le nove Muse, riprende quegli stessi marmi vaticani dei quali, come si è detto, nel 1784 egli forniva a re Gustavo III di Svezia una copia. Si è già sottolineata la quasi sovrapposizione tra i cataloghi dei vari bronzisti – e di altri artigiani attivi a Roma in questo scorcio di secolo – e quello di Volpato, sia essa dovuta al gusto impe-rante o, come sembra probabile, anche allo scambio di fonti e materiali tra i vari artefici.

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Giovanni Volpato muore nel 1803, seguito a pochi mesi di di-stanza dal figlio Giuseppe, al quale la ricerca più recente ri-serva un ruolo importante, forse centrale, nella gestione del-l’attività ceramica. Sembra infatti che il giovane Volpato sia stato particolarmente coinvolto nella gestione della manifattu-ra ceramica, soprattutto negli ultimi anni. Morto anche Giu-seppe, le attività di famiglia passano in mano alla vedova, Maddalena Riggi, e al suo secondo marito, Tinucci, che reg-ge la fabbrica fino alla morte, avvenuta nel 1818: ma è quasi certo che ormai di biscuit non se ne fabbricano più, per le mutate condizioni del mercato e forse già per decisione di Giovanni e Giuseppe. Così la datazione dei biscuit romani andrà chiusa nei pochi anni che vanno dal 1786 al 1800 cir-ca: anche se in qualche caso è possibile esser più precisi, come nel caso del centrotavola bassanese (databile su base documentaria al 1786-1788), di quello già Chigi (circa 1791), o del Menandro e Posidippo, detti nell’inventario in italiano “abbusivamente chiamati Mario e Silla di Villa

Negroni” con una localizzazione persa nel 1789, quando Tho-mas Jenkins li vende a Pio VI per il museo Pio Clementino.

A più lunga vita è destinata l’altra azienda ceramica dei Vol-pato, quella delle terraglie crema, o all’inglese, e delle maioli-che, iniziata probabilmente già nel 1785 e che nel 1796 realiz-zava una produzione articolata di vasellame e figure, come documentano i cataloghi di fabbrica. Terraglie e maioliche, che venivano realizzate a fianco dei biscuit, avranno costitui-to certo un importante polmone finanziario per tutta l’impresa. I quantitativi dovevano infatti essere importanti, anche se si nota una accentuata differenza qualitativa tra i vari esemplari oggi rintracciati. La manifattura di maioliche e terraglie reste-rà nelle mani dei discendenti di Giovanni anche dopo il trasfe-rimento a Civita Castellana nel 1826, per chiudere definitiva-mente negli anni trenta dell’Ottocento. (Luca Melegati)

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