Intellettuali Stranieri a Roma dal Grand Tour al XIX Secolo - 3a parte

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LARGO GOLDONI 47 Tappa 16 DIMORA GOLDONI 18 Dimora Di Goldoni A Roma, Con Affaccio Sul Carnevale 101

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LARGO GOLDONI 47

Tappa 16DIMORA GOLDONI

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Dimora Di Goldoni A Roma, Con Affaccio Sul Carnevale

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Al civico 47 la casa dove soggiornò Goldoni da novembre 1758 ad agosto 1759, per seguire la rappresentazione delle sue opera al Capranica. Compose “Gli Innamorati”, protagonisti Fulgenzio e Eugenia. Nella commedia mise anche Fabrizio, carica-ture del padrone di casa.

Interessante che un veneziano apprezzasse il carnevale romano, in particolare la corsa dei berberi.

Il Carnevale Romano

Nato nel Medioevo, il Carnevale Romano ha la sua massima esplosione dopo l’elezione di Papa Paolo II (1464-71), il quale, concentra nel centro storico ed in particolare nella Via Lata (attuale Via del Corso), la maggior parte dei festeggiamenti carna-scialeschi. La Commedia dell’arte, le sfilate in maschera, i Giochi Agonali, i carri allegorici, tornei e giostre, le attesissime cor-se dei cavalli berberi e la festa dei moccoletti coinvolgevano tutta la popolazione. Con l’avvento dei Savoia a Roma nel 1870, inizia il tramonto del Carnevale, soprattutto a causa dei molti incidenti che avvenivano durante i giochi e che mietevano diver-se vittime tra il pubblico presente, in particolare le corse di persone e animali.

Piazza del Popolo era, appunto, il punto di partenza, “la “Mossa”, per una sfrenata corsa nelle vie della città dei cavalli di origi-ne nord-africana, i berberi. Dall’altro lato, dopo Piazza Venezia, nell’attuale Pza S. Marco c’era, e rimane il nome in una via, la “ripresa dei berberi” dove i cavalli venivano fermati e “ripresi”, anche con reti e lenzuoli stesi di traverso.

La corsa, che si è svolta fino al 1883 quando un incidente mortale portò alla sua abolizione, si disputava secondo un’altra fonte, lungo il tratto compreso tra lo scomparso Arco di Portogallo (all'altezza di via della Vite) fino a piazza Venezia, e ha portato all'affermazione del nome di via del "Corso". Forse la confusione deriva dalle diverse gare, che si svolgevano secon-

IL CARNEVALE ROMANO

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do un preciso calendario: il lunedì gli ebrei che partivano dal-l’Arco di Portogallo, il giorno successivo i ragazzi con parten-za da San Marcello, il giorno dopo gli uomini di nuovo dall’Ar-co di Portogallo, il sabato correva il palio degli asini ed infine il martedì i bufali.

L’avvenimento era vissuto come uno spettacolo di irresistibile fascino dai viaggiatori stranieri in visita nella città e dagli arti-sti, che lo descriveranno con entusiasmo nelle pagine dei loro libri e nei loro dipinti. Malgrado lo stesso Goethe sottoli-neasse la difficoltà di descrivere a parole la magnificenza e il brio di quei giorni festosi, poiché “una così grande e vivace massa di fenomeni sensibili dovrebbe essere percepita diret-tamente dall’occhio e osservata e afferrata da ciascuno a pro-pria guisa”, diversi autori (tra cui Goldoni, Belli, Gogol, Ander-sen, Dickens e tanti altri) si cimentarono nel tentativo di resti-tuire il clima di euforia collettiva che si respirava a Roma du-rante il Carnevale.

Involontari protagonisti delle corse erano in primo luogo gli ebrei, costretti a correre tra le ingiurie (palio dei giudei).

2 febbraio 1838 Gogol alla madre Maria Ivanovna

“è tempo di carnevale: Roma fa baldoria senza ritegno. Il car-nevale è un fenomeno straordinario in Italia, e soprattutto a Roma: tutti senza eccezione scendono in strada, tutti senza eccezione sono in maschera. Chi poi non ha la possibilità di travestirsi rivolta il pellicciotto o si impiastriccia il muso di fu-liggine. Per le strade viaggiano alberi e intere aiuole, spesso si fa largo un carro tutto foglie e ghirlande, con le ruote deco-rate di foglie e rami che, girando, fanno un effetto straordina-

rio, e nel carro è seduto un gruppo nello stile delle antiche festività di Cerere o di un quadro dipinto da Roberti. Sul Cor-so per la farina sembra nevicato. Avevo sentito parlare dei confetti, ma non credevo proprio che fosse cosi bello. Figura-ti che puoi gettare in faccia alla piú carina, foss'anche una Borghese, un intero sacchetto di farina e lei non si arrabbie-rà, ma ti ripagherà della stessa moneta. Bellimbusti e genti-luomini spendono diverse centinaia di scudi solo per la fari-na. Le carrozze sono tutte, dalla prima all'ultima, mascherate. Servitori, vetturini, tutti sono in maschera. Dalle altre parti so-lo il popolo gozzoviglia e si traveste. Qui tutto si rimescola. Una libertà straordinaria, della quale tu saresti senza dubbio entusiasta. Puoi parlare e offrire fiori assolutamente a qualsia-si donna. Puoi addirittura salire in carrozza e sederti fra loro. Le carrozze vanno tutte al passo. E per questo spesso delle birbe, arrampicati sui balconi, possono gettare per interi quar-

ti d'ora palline di farina a manciate e a secchi a chi è seduto in carrozza, il piú delle volte sulle signore, che si fanno male ma ridono, e si limitano a coprirsi molto graziosamente gli occhi con la mano e a pulir-si il viso.”

Caffè NuovoPalazzo RuspoliVia del Corso 418

Nella prima metà dell’Ottocento ospitò al pianterre-no il “Caffè Nuovo”, il più elegante della città. 

Il nucleo originario di Palazzo Ruspoli risale alla me-tà del XVIsecolo, come residenza della famiglia Ja-cobbili. Nel 1583  fu venduto, non ancora finito, alla famiglia Rucellai, che incaricò Bartolomeo Amman-nati (1511-1592) di completare l’edificio.

Nel 1629 fu acquistato dai Caetani. Nel 1776 l’edifi-

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cio passò ai Ruspoli, che ne sono ancora oggi in parte pro-prietari. Tra gli ospiti illustri del palazzo è da annoverare Na-poleone III.

Nel primo Ottocento, scrive il letterato danese Christian Fre-derik Hillerup, Roma era piena di caffè, "che rimpiazzano i nostri clubs ... Di solito aprono all'alba ... ma tre caffè in piaz-za Colonna non chiudono neppure di notte; ciò fa comodo a coloro che tornano tardi dai teatri o dalle conversazioni roma-ne, sazi soltanto di musica e di tabacco da fiuto. La gente beve caffè, cioccolato, o il cosiddetto mischio di ambedue le bevande. La vita nei caffè culmina di sera, soprattutto nel son-tuoso Caffè Nuovo, luogo dei rendez-vous mondani. Il più am-pio Kaffeehaus a Roma, e forse in Europa, occupa il pianter-reno del palazzo Ruspoli al Corso; esso ha 18 (diciassette) finestre verso la strada, nella grande sala pendono cinque lampadari; di lì si accede al giardino. Sotto una profumata pergola di agrumi siedono gli ospiti che preferiscono consu-mare i loro rinfreschi all'aperto. Il ministro dietro il banco... distribuisce la nera bevanda araba in lucide tazzine, servite ai clienti da svelti camerieri".

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Palazzo Ruspoli nelle diverse epoche

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VIA BOCCA DI LEONE 14

Tappa 17HOTEL D’INGHILTERRA

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Hotel D’inghilterra

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Via Bocca di Leone è situata nei pressi dipiazza di Spagna, centro di grande movimento anche anticamente, luogo di arri-vo e di sosta delle carrozze che provenivano dal nord e che portavano forestieri. Infatti questa via crebbe proprio con l'in-tento di fornire i servizi alla stazione della piazza: alberghi, botteghe, facocchi (ossia, le officine per la riparazione delle carrozze) e locande di ogni categoria, dei quali oggi non vi è più traccia, se si esclude l'Albergo d'Inghilterra ricco di me-morie storiche.

L’Albergo d’Inghilterra è testimone di fatti importanti della sto-ria di Roma come il discorso che il filosofo e politico Vincen-zo Gioberti tenne dalle finestre delle attuali stanze 130 e 131, nel 1848 incitando la popolazione romana a battersi per la propria indipendenza; ma è anche l’albergo che Du-mas sceglie per il soggiorno romano del Conte di Montecri-sto

Nel 1855 qui venne papa Pio IX per rendere visita a Sua Mae-stà don Pedro, re di Portogallo; Edoardo Fabbri fece qui le consegne di Presidente del Consiglio dei Ministri nel settem-bre 1848 a Pellegrino Rossi.

Nell’Ottocento è stata la meta preferita di Liszt, By-ron, Keats e Shelley e, nel Novecento, la residenza romana di Ezra Pound,Giuseppe Ungaretti, Mark Twain, Ben Gaz-zara, Gore Vidal, Ernest Hemingway, Liz Taylor,Gregory Peck.

Citiamo ancora Turgenev.

L’hotel è stato restaurato con cura nel 2012 ed ha ora 88 ca-mere, tutte diverse, ed una suite presidenziale all’ultimo pia-no da cui si gode un panorama mozzafiato.

L'albergo fu costruito sulla foresteria del vicino palazzo Nu-nez Torlonia, i quali, banchieri di fiducia degli inglesi di pas-saggio a Roma, cambiavano loro in scudi romani le sterline, con notevoli guadagni, evidentemente

Palazzo Torlonia Nunez realizzato fra il 1658 e il 1660. Nel-l’Ottocento fu acquistato dai Torlonia che lo ristrutturarono. La Foresteria fu poi adibita a sede dell’Albergo d’Inghilterra.

Saliamo la scalinata di Piazza di Spagna.In que-sta zona, da qui fino a Piazza Barberini, si con-centravano le residenze degli intellettuali russi.

HOTEL D’INGHILTERRA

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PALAZZO ZUCCARI E STROGANOFF

Tappa 18TRINITÀ DEI MONTI

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Palazzo Zuccari Con Scalinata Di Trinità Dei Monti, Metà 800

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Di fronte Hotel de la Ville questo complesso di tre edifici, progressivamente integrati in un’unica struttura fra via Sistina e via Gregoriana, con in-gressi spesso su entrambe le strade, cosa che rende spesso problematico riconciliare le testi-monianze storiche (diari, citazioni, etc.).

Palazzo ZuccariVia Gregoriana 28La costruzione del Palazzo Zuccari fu iniziata nel 1590 dal pittore Federico Zuccari alle pendici del Pincio. Negli ambienti del pianoterra si trova-no gli affreschi realizzati da Zuccari e, sempre dello stesso artista, è il progetto del famoso Ma-scherone sulla via Gregoriana dove anticamen-te si trovava l’accesso al giardino del Palazzo. Lo stemma della famiglia, un cartoccio per lo zucchero, è ancora oggi l’emblema dell’istituto di ricerca. Nel suo testamento l’artista dispose che gli ambienti dell’edificio venissero utilizzati per le riunioni dell’Accademia dei pittori, degli scultori e degli architetti, e servissero come allog-gio per giovani artisti e soprattutto per coloro che

PALAZZO ZUCCARI

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provenivano dalle regioni a nord delle Alpi. Dato che l’arti-sta lasciò alla sua morte, oltre ad ingenti debiti, anche un edificio non completato, le disposizioni testamentarie non poterono essere esaudite e, una volta terminata la costruzio-ne, gli eredi affittarono il palazzo a diverse personalità illustri.

Dal 1703 al 1714 vi abitò Maria Casimira, vedova del re polacco Jan Sobieski, che incaricò l’architetto Filippo Ju-

varra di progettare quinte sceniche nel salone delle feste, do-ve era possibile assistere alle opere di Alessandro e Domeni-co Scarlatti.

Maria Casimira fece sistemare la “testa” del complesso con la veranda e fece costruire un cavalcavia in legno, “Arco del-la Regina”, per arrivare da via Sistina a Villa Malta che fu de-molito nel 1799.

Fu nel Palazzo Zuccari che Johann Joachim Winckelmann scrisse nel 1755 il famoso testo sull’Apollo del Belvedere. Nel 1786 Johann Wolfgang von Goethe fece visita all’antiqua-rio e agente d’arte Johann Friedrich Reiffenstein che allora

viveva nel Palazzo Zuccari. Nel XIX secolo i Nazareni Frie-drich Overbeck, Peter Cornelius, Wilhelm Schadow e Philipp Veit dipinsero su incarico di Jakob Salomon Bartholdy, conso-le generale della Prussia residente nel Palazzo, il famoso ci-clo monumentale di affreschi, oggi conservati alla Alte Natio-nalgalerie a Berlino.

Gabriele D’Annunzio cita il Palazzo nel romanzo Il Piacere (vi si trasferisce Demetrio Pianelli)

Fra i residenti il pittore danese Hansen, che mostra in un suo quadro la propria “camera con vista, via Sistina 64.

Palazzo Stroganoff

Via Sistina 73

Anche il Palazzo Stroganoff fu un luogo molto amato dagli artisti che soggiornavano a Roma. Dal 1649 quest’area, edifi-cata sin dal 1581, fu di proprietà del pittore Salvator Rosa. Dopo la sua morte, la famiglia affittò l’edificio per i successivi secoli a diversi artisti tra i quali Thomas Jones, Anton Raphael Mengs e Auguste Dominique Ingres, e vi soggiornò anche lo scrittore Stendhal (scriverà di poter «ammirare tre quarti di Roma; mentre, di fronte a me, dall’altro lato della cit-tà, s’innalza maestosamente la cupola di San Pietro»)

L’edificio deve il suo nome al nobiluomo russo conte Gregor Stroganoff che lo acquistò nel 1881 e lo trasformò in un pa-lazzo di rappresentanza destinato tuttavia meno a scopi mon-dani, quanto più all’esposizione e collocazione della sua grande collezione d’arte, facendo diventare la sua casa qua-si un museo (Kieven, 2013). Nel 1963 il Palazzo Stroganoff venne acquistato grazie a un finanziamento della Fondazione

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Volkswagen per farne l’attuale sede dell’amministrazione del-la biblioteca.

Villino Stroganoff

Quasi contemporaneamente all’acquisto del Palazzo, il conte Gregor Stroganoff acquistò nel 1883 anche il Casino di Mi-gnanelli che si trovava dall’altra parte della via Gregoriana e che portava il nome dei suoi primi proprietari. Il più famoso degli inquilini fu lo storico dell’arte francese Jean Baptiste Louis Georges Seroux d’Agincourt; egli visse in questa ca-sa fino 1814, anno della sua morte. Stroganoff fece ristrutturare il Villino, ma ad oggi rimane incer-ta la sua destinazione. Nel dicembre del 1906, il conte ven-dette l’edificio all’americana Marion Kemp che ne fece un luogo di incontro per l’alta società romana. Nel 1980 il Villino fu acquistato dalla Società Max Planck per la Bibliotheca Hertziana.

Nuovo edificio Bibliotheca

Nel 2001 si decise di demolire l’edificio costruito da Silvio Ga-lizia nel giardino del Palazzo Zuccari negli anni ‘60 e di co-struire un nuovo edificio per custodire i 250.000 volumi della biblioteca oltre a realizzare delle sale di lettura. Il progetto è stato affidato a Juan Navarro Baldeweg e il nuovo edificio è stato inaugurato nel gennaio del 2013. La biblioteca di Bald-weg costituisce il nuovo centro della Hertziana e unisce i due edifici adiacenti, il Palazzo Zuccari e il Palazzo Stroganoff. Per accedere alla Bibliotheca Hertziana si attraversa il cosid-detto Mascherone, l’antico accesso al giardino di Federico Zuccari.

Nuove tecnologie costruttive su un suolo antico

Già durante i lavori di ristrutturazione del Palazzo Zuccari nel 1910 furono ritrovati resti della villa di Lucio Lucinio Lucullo costruita intorno al 60 a.C. Il famoso condottiero, un uomo di mondo, un buongustaio e un raffinato collezionista di libri e di oggetti d’arte possedeva sullo sperone meridionale del Monte Pincio dei meravigliosi giardini terrazzati ammirati da tutti per la loro straordinaria bellezza. Per poter conservare al meglio questi ritrovamenti nel sotto-suolo e renderli accessibili pur realizzando un nuovo edificio per la biblioteca, è stata sviluppata una costruzione statica-mente ardita: un basamento scatolare di cemento armato alto tre metri poggia, simile a un ponte, su 170 micropali sottili di acciaio infilati nel terreno ad una profondità di 50 metri lungo le vie Sistina e Gregoriana. In questo modo il ponte sotterra-neo sovrasta tutta l’area archeologica senza comprometterla e sorregge l’enorme peso del nuovo edificio.

Durante gli scavi eseguiti dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, gli archeologi hanno portato alla luce una parete terrazzata della villa di Lucullo che, intorno al 47 d.C., era sta-ta trasformata dal nuovo proprietario, Valerio Asiatico, in un ninfeo – una fonte sacra – decorato con bellissimi mosaici. Sono stati inoltre ritrovati circa quaranta vasi interrati con fos-sili di piante, tra le quali radici di rose, e anche la testa di una Venere.

Collis Hortulorum, il colle dei giardini, fu l’antico nome del Monte Pincio, chiamato in questo modo per la presenza delle grandi ville e dei giardini di Lucullo e di altre personalità in-fluenti di Roma. Gli edifici antichi erano ormai in rovina quan-do il pittore Federico Zuccari acquistò nel 1590 un appezza-mento di terreno sulla nuova via Sistina, allo scopo di erigervi una casa e un atelier, e farne un’accademia per pittori, sculto-ri e architetti. L’idea di Henriette Hertz si avvicinò molto a quella di Zuccari quando decise di acquistare ben 300 anni più tardi il Palazzo per rinnovarlo completamente e per farne prima il suo salotto e più tardi la Bibliotheca Hertziana.

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Salvator Rosa (Napoli 1615 - Roma 1673 ) è stato un pittore, incisore e poeta ita-liano di epoca barocca. Na-to a Napoli, attivo a Roma e Firenze, fu un personaggio eterodosso e ribelle dalla vita movimentata, con atteg-giamenti quasi pre-romantici

Inizialmente ignorato o addi-rittura disprezzato, a causa della sua avversione al ba-rocco beniniano e alla pittu-ra realista napoletana, Salva-tor Rosa ritrovò il favore dei critici e del pubblico nel-la stagione neoclassica, soprattutto grazie al giudizio dell'architetto paesaggista William Kent, secondo cui i giardini inglesi dovevano essere irregolari, burrascosi,

«degni della matita di Salvator Rosa» (fit for the pen-cil of Salvator Rosa).

Grigorij Sergeevič Stroganoff (1829-1910),

Grigorij Sergeevič Stroganov, S. Pietroburgo 1829 – Parigi, 1910, era il figlio di Sergej Grigor'evič Stroga-nov (1794-1882) Dal 1883 al 1902 fu Consigliere di Stato, ed è stato Ministro della Pubblica Istruzione. Sposò, il 22 settembre 1856, la contessa Marija Bo-leslavovna Potocki (1839-1882). Nella sua tenuta a Nemyriv nell'Oblast' di Vinnycja, possedeva un nu-mero significativo di opere d'arte. Dopo la rivoluzio-ne, la collezione venne portata a Kiev e a Vinnycja. Morì a Parigi, nel 1910.

Stabilitosi a Roma in una data imprecisata, aveva fatto costruire il palazzo in via Sistina per raccogliere la sua eclettica collezione, che comprendeva opere d’arte di numerose epoche e ambiti, dall’antico Egit-to all’età contemporanea, e di diverse tipologie (pittu-ra, scultura, arti cosiddette minori) nonché una bi-blioteca di 30.000 volumi.

Nell’estate del 1910 il conte Gregorio Stroganoff mo-rì senza lasciare un testamento e la sua intera colle-zione rimase, tranne che per poche opere, nelle ma-ni degli eredi, una figlia e i nipoti che vivevano a San

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Pietroburgo. Alcune opere vennero certamente vendute, ma il grosso della collezione rimase nella dimora romana. Il 1917, però, fu un anno drammatico per i russi e il loro paese: scoppiarono le rivoluzioni e gli eredi diretti del conte vennero tutti uccisi. Si salvò solo la moglie di un suo nipote, la vedova Elena Scherbatoff, che riuscì ad arrivare, dopo diverse tap-pe, a Roma verso la fine del 1920, assieme alle due figlie mi-nori Olga e Maria. Qui la vedova cominciò a liquidare poco alla volta le opere appartenenti al nonno di suo marito: «non hanno altri mezzi di sussistenza che gli oggetti d’arte raccolti dal proprio avo […]»

Il filetto Stroganoff o manzo Stroganov è composto da pez-zi di manzo saltati in una salsa di smetana (panna acida).

Alcuni riportano che sia stato preparato per la prima volta da uno chef francese, cuoco del conte russo Pavel Stroganoff (1772–1817) che aggiunse la panna acida al classico manzo in fricassea per renderlo più adatto ai gusti del conte. Altri invece riportano che Stroganoff fosse il nome del medico, appunto, alle dipendenze della zarina Maria di Russia (1853-1920)) Strogonoff esercitava la sua professione tra i cacciato-ri di balene e si narra che durante una battuta di caccia ci fu un’intossicazione da aringhe polari per l’ intero seguito imperiale di San Pietroburgo. A quel punto Strogonoff som-ministrò all’ intero equipaggio una dieta molto rigida a base di riso e carne di mucca precedentemente fermentata nella panna e succo di cipolle. Da qui divenne di gran moda alla corte moscovita e al Caffè Puskin, sulle sponde della Neva.

La rivoluzione del 1917 disperse la nobiltà russa con le sue usanze da un capo all’altro del mondo. Cuochi cinesi presero in prestito la ricetta del manzo alla Stroganoff dalla comunità dei russi bianchi di Harbin (Manciuria). Levarono la panna per aggiungervi le spezie e servirlo su un letto di riso. Da lì, negli anni Quaranta, la ricetta venne esportata negli Stati Uni-ti dai militari, dove divenne un piatto forte della cucina locale, declinato in molteplici versioni. .

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RESIDENZA JEAN AUGUST INGRES E CALCOGRAFIA PIRANESI

Tappa 19VIA GREGORIANA

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Lapide Commemorativa Al 34 Di Via Gregoriana

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Via Gregoriana 34Residenza Jean August Dominique Ingres(Palazzo Stroganoff ex Salvator Rosa)

Da nuovo borsista, Jean-Auguste-Dominique Ingres, arrivò all' Accademia di Francia nell' autunno del 1806. Aveva 26 anni. Figlio di un decoratore e miniaturista, nato e cresciuto nella provinciale Montauban, si era trasferito adolescente nella capi-tale, dove aveva frequentato lo studio del celebre David. Era convinto di poter soppiantare il "padre" artistico e diventare il primo pittore di Francia. Al Salon del 1806, tuttavia, le sue opere erano state stroncate come gotiche, barbare, primitive. La partenza per Roma gli consentì di mettere una distanza sufficiente fra la sua delusione e le sue ambizioni. Si conside-rava in esilio, ma non avrebbe mai immaginato chea Roma avrebbe finito per trascorrere ventidue anni della sua vita. Quando nel dicembre del 1810 il suo soggiorno spesato a Vil-la Medici si concluse, decise di restare. Si trasferì nella zona limitrofa, dove per tradizione si raccoglieva la comunità artisti-ca straniera di Roma - e dove passarono Winckelmann, Ange-lica Kaufman, Mengs e Thorvaldsen. Inizialmente allestì l' ate-lier nel convento di Trinità dei Monti, poi a via Sistina 46, al secondo piano di Casa Buti, sopra l' appartamento dove era stato lo studio di Piranesi. Il palazzo, appartenuto a un architetto, era stato trasformato in una pensione dalla sua ve-

dova in difficoltà economiche, ed era diventato il cuore della comunità dei tedeschi di Roma. I pensionanti stranieri venuti da ogni parte d' Europa si parlavano in italiano. Tra loro c' era Laura, figlia del celebre archeologo danese Zoëga. Il pitto-re e la ragazza si frequentarono, "fecero all' amore" - onesta-mente pare - per qualche tempo, e nel 1812 Ingres si convin-se a chiederla in moglie: invano. A quel punto un' amica gli suggerì di sposare la cugina, Madeleine, che viveva a Guéret facendo la modista e che Ingres non aveva mai visto. Un ma-trimonio alla cieca, insomma: ma il pittore accettò. Fu l' unico azzardo di una vita controllatissima e razionale. Madeleine arrivò a Roma e dopo poche settimane, il 4 dicembre del 1813, i due si sposarono nella chiesa di san Martino ai Monti. Persero subito un bambino, nato morto, e non ebbero altri fi-gli, ma il loro fu un matrimonio felice. Poco dopo si trasferiro-no a via Gregoriana 34. Sulla facciata ocra di questo palaz-zetto oggi la targa apposta dal Comune ricorda il primo sog-giorno romano del pittore e sottolinea che vi dipinse le opere che gli avrebbero dato la gloria. Ingres trovò i suoi committen-ti tra gli alti funzionari dell' Impero - conti, duchi, marescialli. Dipingeva quadri aneddotici, in cui rievocava la vita di Raffael-lo e Tintoretto, oppure quadri ossianici. Dipinse per il palazzo del Quirinale e per Carolina Murat. Ma quando nel 1815 l' Im-pero napoleonico crollò, i suoi protettori lasciarono la città. An-cora una volta, Ingres scelse Roma e rimase. Divenuto im-

VIA GREGORIANA

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provvisamente povero, si mantenne disegnando ritratti. Volti, corpi e abiti di uomini e donne di ogni ceto sociale, musicisti, banchieri, scultori, turisti aristocratici: una galleria paragona-bile alla Comédie Humaine di Balzac. Sospeso tra due mon-di, Ingres non riusciva ad affermarsi né in uno né nell' altro: era un pittore troppo francese per Roma e troppo romano per Parigi. Ma dimostrando scaltro opportunismo politico, Mon-sieur Ingres seppe riposizionarsi nel nuovo mondo della Re-staurazione. Grazie al sostegno di Auguste de Forbin, nuovo direttore dei Musei, riuscì a ottenere importanti commissioni dallo Stato - dai ministeri e anche dal re.

Possiamo vedere il suo atelier di via Gregoriana 34 in un qua-dro del 1818 di Jean Alaux, oggi al Musée Ingres di Montau-ban: ci sono la dolce Madeleine, i quadri che tappezzano le pareti, e lui, signore felice del suo regno. Le sue condizioni economiche miglioraro-no, tanto che l' anno dopo poté trasferir-si in un appartamento più grande, al nu-mero 40 della stessa strada.

Ma nello stesso periodo, quando i suoi quadri furono finalmente di nuovo espo-sti a Parigi, ricevette recensioni ancora più insultanti di tredici anni prima. Mon-sieur Ingres era un artista - e un uomo - difficile. Aveva un carattere scontroso, intollerante, risentito. Era geloso, invidio-so, rancoroso. Lo definirono un "genio lento" e un "mostro freddo". Perfezioni-sta, lavorava con stento, correggendo molto e rifacendo spesso la stessa ope-ra. La sua ossessione per la purezza del disegno, le sue figure livide e cadaveri-che, i suoi colori sobri e smorti, suscita-vano perplessità e scherno. Delacroix osservò che rubava i suoi colori alla Mor-gue. Lo accusavano di non avere imma-ginazione, di copiare dalle stampe, di essere un gelido pasticheur, un impoten-te che citava spudoratamente Raffaello e tentava di resuscitare formule artisti-

che estenuate e defunte. Ma Ingres rimase fedele al suo stile: lavorava appartato, divorato da un sogno. Tornarea Parigi in trionfo. Poco tempo dopo, si trasferì a Firenze e nel 1824 rien-trò - acclamato - a Parigi. Roma, però, avrebbe ancora rappre-sentato per lui l' oasi nei giorni dello scontento. Nel 1834, do-po l' ennesimo fiasco al Salon, si candidò come direttore dell' Accademia e ottenne la nomina. A Roma, circondato da una corte di giovani allievi e ammiratori, sempre più pingue e intol-lerante, Monsier Ingres finì col diventare l' apostolo della bel-lezza, un oracolo rispettato e temuto, in guerra col suo tem-po e ostile a tutto ciò che produceva il presente, un' epoca che reputava ignorante, stupida e brutale (in un alterco con Stendhal definì "da parrucchiere" la musica di Rossini e nel 1848 avrebbe esultato per i massacri di giugno, godendo della morte dei "cannibali rivoluzionari").

Ma la gloria, come giustamente ricorda la targa, finì per rag-giungerlo, e le sue favole orientali, le bellissime odalische, An-gelica, Venere, Stratonice, gli concessero la rivincita che ave-va atteso tutta la vita. Il morigerato Monsieur Ingres non ave-va mai visto un bagno turco e non era mai entrato in un ha-rem: dipingeva il suo sogno, e sognava dipingendo. E quando nel 1841 lasciò Roma per sempre, era ormai il più potente pit-tore della sua epoca, grand' ufficiale della Légion d' Honneur, poi perfino senatoree monumento di se stesso. Gli è toccato un destino bizzarro. Spirito reazionario, fieramente anacronisti-co, fautore di una pittura sublime contro quella romantica (che definiva un' estetica del brutto e del caos), lui che sognava di fermare il tempo ed era sempre stato ostile al nuovo, divenne il punto di riferimento di ogni avanguardia - da Manet e Degas a Signac, fino a Picasso e Matisse, imitato e amato dai cubisti e dai fauves. Si può essere pittori rivoluzionari anche senza essere maledetti, vivendo come un borghese felice, con una moglie amata, dipingendo in un confortevole studio al centro di Roma un' enigmatica bagnante nuda.

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Negli oltre 40 anni di lavoro Piranesi ha prodotto 1600 vedute di Roma, “vere” e immaginarie. Le incisioni di Piranesi erano me-no care dei dipinti a olio e dei modelli di bronzo o marmo e alla portata della crescente “massa” di turisti di metà ottocento, di estrazione meno aristocratica e facoltosa della precedente.

Dopo il 700 diventano disponibili anche incisioni ed altri lavori su carta, di nuovo con soggetto architettonico e vedute di rovine romane, realizzati da artisti quali Guiseppe Vasi (1710 – 1782), Marco Ricci (1676 – 1729), e più tardi, Hubert Robert (1733-1808). Nessuno raggiunte tuttavia il talento, la prolificità la notorietà di Giovanni Battista Piranesi (1720 – 1778)

Nel 1941 a New York, Marguerite Yourcenar comprò quattro stampe di Piranesi. Una raffigurava la Cappella di Canopo di Villa Adriana (sopra) e contribuì all’ispirazione per le Memorie di Adriano. Su Piranesi l’autrice scrisse anche due saggi Les Prisons imaginaires de Piranèse(1960) e Le carveau noir de Piranèse (1962).

Giovanni Battista Piranesi  (Mogliano Veneto,  1720 – Roma 1778) è stato un incisore,architetto e teorico dell'architettura italia-no.Venne introdotto allo studio dell'architettura dal padre, esperto tagliapietre e capomastro, e dallo zio materno Matteo Lucchesi, magistrato delle acque della Serenissima e amante dell'antico sui modelli diAndrea Palladio e di Vitruvio; dal colto fratello Ange-lo, frate domenicano, trasse invece una certa padronanza della lingua latina e il duraturo amore per Tito Livio e la storia di Ro-ma.

Nel 1740 Piranesi, divenuto consapevole delle scarse possibilità lavorative che gli avrebbe offerto il capoluogo veneto, decise di lasciare la propria terra patria e di trasferirsi a Roma, partecipando in qualità di disegnatore alla spedizione diplomatica del nuo-

CALCOGRAFIA PIRANESI

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VIA GREGORIANA 41

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vo ambasciatore della Serenissima Francesco Venier. Partito il 9 settembre, arrivò nell'Urbe entro il mese, all'età di soli ven-ti anni, ottenendo un alloggio presso palazzo Venezia. Intorno al 1742 il Piranesi apprese i rudimenti dell'acquaforte sotto la guida di Giuseppe Vasi, titolare di una bottega calcografica che al tempo godeva a Roma di una certa popolarità. Sempre nell'Urbe, inoltre, Piranesi ebbe modo di stringersi in affettuo-sa amicizia con il conterraneo Antonio Corradini, con cui intor-no al 1743 si recò a Napoli per studiare l'arte barocca e visita-re gli scavi archeologici di Ercolano.[1]

Ben presto Piranesi iniziò a palesare un commosso entusia-smo davanti allo spettacolo delle «parlanti ruine» dei Fori Im-periali. Questo interesse per le antichità romane è attestato dall'esecuzione nel 1743 della Prima parte di architetture e prospettive inventate ed incise da Gio. Batta Piranesi architet-to veneziano; per realizzare questa raccolta di dodici tavole, dove già si impone per le sue notevoli capacità tecniche.

Alla fine, il Piranesi decise di dedicarsi al mestiere di incisore e di stabilirsi definitivamente a Roma, aprendo bottega pro-pria a via del Corso, di fronte all'Accademia di Francia:[1] si trattò di un scelta ben meditata, come osservato dallo studio-so Henri Focillon (Piranesi G. B., Parigi, 1963) che commentò: « Abbracciando deliberatamente la professione di incisore, [Piranesi] realizzò di poter coronare le proprie ambizioni di architetto, archeologo e pittore »

All'inizio del suo definitivo insediamento il Piranesi, affascina-to dalle antichità della Città Eterna, iniziò la produzione del-le Vedute di Roma. Si trattava di una raccolta di tavole raffigu-ranti ruderi classici e monumenti antichi, anche esterni alla città (via Appia, Tivoli, Benevento) che gli assicurarono una cospicua remunerazione e anche rinomanza europea, La notorietà di cui già allora il Piranesi godeva venne ulterior-mente accresciuta nel periodo intercorso tra gli anni di pubbli-cazione delle dueCarceri, ovvero il 1745 e il 1761, con il diffon-dersi del grand tour. Importante fu l'amicizia con Thomas Hol-lis, gentiluomo britannico versato nelle arti presente in Italia nel 1751-53, che contribuì a consolidarne la fama e a diffon-derne le opere; in virtù del prestigio raggiunto, e soprattutto grazie all'intercessione di Hollis, nel 1757 Piranesi venne perfi-no eletto membro onorario della Society of Antiquaries di Lon-dra. Tra le amicizie legate al fenomeno di grand tour, comun-que, si ricordano quella con l’architetto Robert Mylne, l'archi-tetto scozzese Robert Adam, a Roma nel 1755-57 (cui Pirane-si dedicò nel 1762 il Campo Marzio dell’antica Roma), l'archi-tetto William Chambers, il pittore Thomas Jones; non mancò di fraternizzare anche con numerosi pittori francesi, fra cui Charles-Louis Clérisseau, Jean-Laurent Legeay, Jacques Gondoin, Charles de Wailly,Pierre-Louis Moreau-Desproux, e Pierre-Adrien Pâris.[1]

Con il papato di Clemente XIII si moltiplicarono per l'artista gli incarichi e i riconoscimenti ufficiali. Fu proprio mentre si occu-pava della chiesa lateranense che Piranesi ricevette la sua commessa architettonica più importante: si trattava della tra-sformazione della piccola chiesa di Santa Maria del Priorato e della piazza antistante, su commissione del cardinale Giovan-ni Battista Rezzonico, nipote del pontefice. Il cantiere si con-cluse nell'ottobre 1766 e restituì alla città di Roma un tempio

caratterizzato da un'austera eleganza neoclassica, squisita-mente settecentesca, misurata nelle strutture e negli ornati.

Giovan Battista Piranesi morì infine il 9 novembre 1778 a Ro-ma, stroncato da una malattia nella sua casa in strada Felice (l'attuale n. 48 di via Sistina).

L'arte di Piranesi, infatti, ha radici profondamente affondate nella tradizione del rococò, del quale egli rappresenta uno de-gli ultimi eredi. Quest'adesione al rococò è riscontrabile non solo nella qualità del disegno, sfatto ed evocatore, ma soprat-tutto nella natura stessa delle sue opere, che si configurano come invenzioni capricciose (come si legge nel frontespizio delle Carceri). Il nucleo del discorso artistico di Piranesi si in-serisce anche all'interno del neoclassicismo. Con la sensibilità neoclassica, infatti, Piranesi condivide l'impegno metodico e teorico e la passione per l'archeologia, maturata dopo la visita degli scavi di Ercolano.

Sul piano teorico, invece, Piranesi si discostò dall'ambiente neoclassico, sostenendo la superiorità della civiltà romana su quella greca. In opposizione alla fazione filoellenica di Johann Joachim Winckelmann, secondo cui la perfezione nell'arte fos-se stata raggiunta solo dalla cultura greca (vista come fonte originaria di quella romana), Piranesi si schierò a favore degli antichi Romani. L'architettura romana, diceva Piranesi, era superiore in virtù delle notevoli capacità tecniche e dell'esube-ranza creativa, opposte alla semplice uniformità di quella gre-ca.Ciò malgrado, risulta impossibile omologare l'opera del Pirane-si al nascente neoclassicismo internazionale. Piranesi, infatti, interpreta l'antichità classica allontanandosi dalla visione di-staccata di Winckelmann: le opere antiche, per l'artista vene-to, non suscitano pertanto una sensazione di quiete e distac-cate riflessioni, bensì provocano forti emozioni.

Una critica gli fu rivolta dall'architetto ingleseRichard Nor-ris che, in visita a Santa Maria del Priorato nell'aprile 1772, annotò sul suo diario che «the Church is in my Opinion very bad, a strange composition of Ornaments that mean nothing– some of which, that is to say some small parts of the Orna-ments, are good, but on the whole is a part of confusion».

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Pompei vista da Piranesi

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Tra gli ammiratori più ferventi vi fu lo scrittore inglese Horace Walpole, che consigliò agli studenti inglesi di studiare «i subli-mi sogni del Piranesi», dedicando al maestro italiano anche un lungo paragrafo ove scrisse:« Selvaggio come Salvator Rosa, fiero come Michelangelo, esuberante come Rubens, ha immaginato scene... impensabili perfino nelle Indie. Costruisce palazzi sopra ponti, templi sui palazzi, scala il cielo con montagne di edifici »In effetti, Piranesi fu uno degli iniziatori dell'immaginario goti-co. Si dice, infatti, che le lugubri e vastissime carceri ideate da Piranesi avessero ispirato allo stesso Walpole la stesura de Il castello di Otranto, primo esempio di romanzo gotico, e la costruzione della sua villa di Strawberry Hill. Fu in particola-re a partire dallo Sturm und Drang e dalla ricezione delle pri-me istanze romantiche che il culto di Piranesi si ravvivò: du-rante la stagione del Romanticismo, infatti, furono in molti ad apprezzare ed amare l'opera grafica di Piranesi. Tra gli ammi-ratori più significativi si riportano Samuel Taylor Colerid-ge , Victor Hugo, Charles Baudelaire, Aldous Huxley e Mar-guerite Yourcenar, che dedicò all'artista italiano un'intensa biografia.[10]

L'interesse per Piranesi non scemò neanche nel corso del XX secolo. Notevole fu in questo periodo l'influenza esercitata dalle tavole di Piranesi sulla produzione diMaurits Cornelis Escher (le cui costruzioni impossibili presentano un evidente debito alle Carceri) e sul Surrealismo.

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VIA GREGORIANA 12-14

Tappa 20RESIDENZA GREGOROVIUS

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Lapide Commemorativa In Via Gregoriana 12

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Gregorovius, ultimo di 8 fratelli, nacque da una famiglia di pastori luterani; il padre però era consigliere di giustizia, e per questo ufficio la famiglia viveva nell'antico castello dei Cavalieri Teutonici, che era stato parzialmente restaurato per allocarvi gli uffici giudiziari di Marienburg e la casa del magi-strato.

È facile pensare che questo ambiente primario abbia avuto qualche peso nel destare e fondare emotivamente l'interesse del fanciullo di allora per il Medioevo e l'antichità. Un'altra delle sue passioni, fin dall'infanzia, erano le storie di viaggi e di paesi lontani, e anche questo interesse lo accompagnò sempre - anzi ebbe un peso determinante sulle sue scelte di vita e sulla sua produzione intellettuale.

Per desiderio del padre si iscrisse alla facoltà di teologia del-l'università di Königsberg (dove Kant aveva insegnato fino al 1804) ma si laureò infine in filosofia.

La famiglia non era ricca, comunque, e dopo la laurea il gio-vane Gregorovius si mantenne facendo il precettore.

Intanto era arrivato il 1848: la "Primavera dei popoli" si faceva sentire fortemente nella città universitaria e Gregorovius, natu-ra cosmopolitica e inclinazione democratica, pubblicava "Il concetto della nazione polacca" e "Canti polacchi e magiari". Anche le celebrazioni per il primo centenario della nascita di Goethe, cadute nel bel mezzo di quel periodo di grandi agita-zioni politiche, gli diedero occasione per manifestare questi suoi orientamenti ("Il Wilhelm Meister di Goethe nei suoi ele-menti socialisti", del 1849).

La pubblicazione del saggio su Adriano e del dramma su Ti-berio nel 1851, mettono in luce come ormai i suoi interessi si fossero focalizzati sul mondo latino. D'altra parte, la vita di Königsberg gli andava ormai stretta e nella primavera del 1852 Gregorovius decise di partire per l'Italia.

Il viaggio di Gregorovius verso il sud (che diventerà un sog-giorno più che ventennale, soprattutto a Roma) non ha la na-tura del Grand Tour che da alcuni decenni conduceva i giova-ni ricchi del nord Europa verso il mondo mediterraneo, ma fa piuttosto pensare a quel tipo di "emigrazione intellettuale" che nei secoli precedenti era stata caratteristica degli artisti - so-prattutto figurativi, e generalmente ricchi solo del proprio ge-

nio - che scendevano in Italia per confrontarsi con l'arte clas-sica e farvi fortuna. Poi, certo, c'è Goethe, come modello di attenzione e di sensibilità. Ma la caratteristica tutta propria di Gregorovius è che con lui non arriva un pittore ma uno stori-co, non un giovane da educare, ma un uomo di trent'anni in cerca delle tracce materiali del proprio mito personale e, cer-tamente, della propria "fortuna", intesa in senso latino, cioè del proprio destino, di cui vede ancora solo confusamente la forma, ma percepisce l'urgenza.

In Italia Gregorovius rimase ininterrottamente fino al 1860, e complessivamente per più di vent'anni. Prima ancora di arri-vare a Roma andò ad esplorare la Corsica, allora assoluta-mente selvaggia. Tra il 1852 e il 1853 continuò la propria esplorazione mediterranea con viaggi in Ciociaria, a Napoli e in Sicilia. Da ognuna di queste esperienze - si trattava di veri viaggi, da un mese o due, fitti di curiosità (non solo letterarie e artistiche, ma anche naturalistiche e - diremmo oggi - socio-logiche) e di contatti con le persone del luogo - nascevano scritti e relazioni intellettuali e umane.

I primi anni a Roma furono comunque duri. Lo stesso Grego-rovius annota, il 9 maggio 1854: «Vivo completamente isola-to, debbo lavorar sodo, per mantenermi a fior d'acqua». An-dò poi ad abitare, come molti altri intellettuali stranieri tempo-raneamente residenti a Roma, in una casa al civico 14 di via

GREGOROVIUS

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Gregoriana, dove restò dal 1860 al suo ritorno in Germa-nia nel 1874, come ricorda la targa affissa sulla facciata.

La Storia della città di Roma nel Medioevo - la sua opera più famosa - ha una lunga gestazione: ne concepisce l'intenzio-ne nell'ottobre del 1854, nel luglio successivo gli viene inizial-mente rifiutata dall'editore ma continua a raccogliere materia-li, e inizia la stesura - con la consapevolezza di affrontare un compito immenso («Roma è il demone contro cui lotto. Se vinco la battaglia, se cioè riesco a trasformare questo grandioso essere universale in una visione penetrante e in una trattazione artistica, allora sarò anch'io un trionfa-tore.», annota il 30 aprile 1856). Il 12 novembre inizia la ste-sura, che si concluderà alla fine del 1871. Nel frattempo era però diventato molto popolare, non solo nel mondo degli stu-diosi, tanto che nel 1876 la città di Roma, grata del monumen-to che le aveva edificato, nominò Ferdinand Gregorovius citta-dino onorario e fece pubblicare a sue spese a Venezia una traduzione dell'opera (1872-76).

Nel 1874 Gregorovius lasciò Roma, e con un fratello e una sorella che come lui non erano sposati andò a vivere in Bavie-ra, a Monaco, lavorando per l'università e per l'Accademia bavarese delle scienze. In Italia, e in particolare a Roma, tor-nava a passare l'inverno e la primavera, e continuava co-munque a viaggiare verso sud. Fu in Grecia, in Egitto, in Siria e in Asia Minore, spostando verso il Mediterraneo orientale ed il mondo bizantino il fuoco della propria attenzione scienti-fica e letteraria. Sono, questi, gli anni dell'altra sua principale opera storica, la Storia della città di Atene nel Medioevo.

Morì a Monaco, il 1º maggio 1891.

Anche oggi è difficile collocare correttamente Gregorovius. Infatti è uno storico caratterizzato da un forte stile letterario ma non sembra appartenere ai tipici storici della scuola di Leopold von Ranke e di Mommsen. Ciò perché nei suoi lavori è preponderante l'invenzione letteraria, piuttosto che l'ap-profondimento del fatto storico caratterizzante la storiografia moderna.

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DA VIA GREGORIANA A VIA SISTINA

Tappa 21VERSO VIA SISTINA

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Lapide Commemorativa In Via Sistina 104

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Casa Diesvia Gregoriana 56all’angolo con via Capo le Case (oggi via Crispi)

Due piani affittati dal Conte Sergej Stroganoff con il precettore Fodor Buslaev al suo arrivo a Roma nel 1840.Questa era una casa di Giuseppe Dies. Luigi Dies compare con una locanda anche in via Due Macelli.

Abitazione del pittore Fodor Iordan

via Sistina 104, all’angolo con l’attuale via Francesco Crispi

E’ la stessa casa di Hans Christian Andersen

Iordan era amico di Gogol e Alexandr Ivanov.

“ A Roma formammo un nostro circolo, assoluamente estraneo a quello degli altri pittori russi. A queso circolo appartenavamo Ivanov, Moller ed io. Gogol era l’anima ed il centro di tutto e noi lo rispettavamo l’amavamo.”

DA VIA GREGORIANA A VIA SISTINA

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Qui a Roma, come borsista della Accademia delle Belle Arti di San Pietroburgo, Iordan nella riproduzione della Trasfigurazione di Raffaello. Allora questo era il compito dei borsisti, che sostituivano, con la pittura o, ancor meglio, con le incisioni, le riprodu-zioni fotografiche non ancora disponibili (ma lo saranno da lì a poco, eliminando la necessità di questi lavori).

Casa Hans Christian Andersenvia Sistina 104È proprio vero Roma è la sola città al mondo in cui uno straniero senza famiglia e senza conoscenze riesce a radicarsi salda-mente e a sentirsi come a casa propria (H. C. Andersen, Il bazar di un poeta)

Come tanti altri artisti stranieri prima e dopo di lui, anche Hans Christian Andersen (1805-1875) visse a Roma, in una casa al numero 104 di via Sistina, non lontano dalla casa dove risiedette Gogol. Una targa in marmo ci ricorda il suo soggiorno roma-no. Lo scrittore danese vi rimase un anno, dal 1833 al 1834, e durante quel periodo ebbe l'ispirazione per scrivere il suo primo romanzo "L'improvvisatore", pubblicato nel 1835, in cui si parla di un viaggio in Italia che il protagonista, un giovane ragazzo povero di nome Antonio, che ha diverse analogie con lo scrittore danese, fa visitando Roma, Napoli, Ercolano, Sorrento e diver-se altre mete. Questo libro diede la notorietà internazionale ad Andersen, ancora prima delle sue celebri Fiabe.

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VIA SISTINA 46-48

Tappa 22CASA BUTI

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Lapide Su Casa Buti, Ricordando Gli Ospiti Piranesi, Thorvaldsen E Canina

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Casa dove visse ed è morto Piranesi

Prima residenza di Ingres, al secondo piano di Casa Buti, sopra l' appartamento dove era stato lo studio di Pirane-si. Il palazzo, appartenuto a un architetto, era stato trasforma-to in una pensione dalla sua vedova in difficoltà economiche, ed era diventato il cuore della comunità dei tedeschi e nordi-ca di Roma.

Abitazione di Thorvaldsen

Di fronte, la prima casa romana del pittore Aleksandr Iva-nov, che abbiamo già incontrato.

Qui nei pressi anche la casa di Grigorij Làpcenko. Làpcenko viaggia a spese del conte Michaìl Voroncòv, rampollo di un

illustre e antico casato. Le notizie sulla vita di Làpcenko sono scarse e spesso con-

traddittorie. Nato nel 1801 in Ucraina, il giovane artista fu am-messo come uditore ai corsi dell'Accademia di Pietroburgo.

I due pittori capitarono ad Albano dove presero in affitto una camera proprio in "casa Caldoni". Vittoria familiarizzò subito con i due giovani russi, più semplici e alla mano dei loro colle-ghi tedeschi. La giovane donna non era già più la timida ado-lescente che ancora nel 1822 nutriva "un'assoluta repulsione ad allacciare nuove conoscenze con i pittori". Vittoria iniziò a posare per entrambi gli artisti ed tutti e due si innamorarono di lei. Vittoria Caldoni, modella di Albano Laziale era stata scoperta da un pittore dilettante, Augusto Kestner. Segretario dell'ambasciata di Hannover a Roma.

Grande importanza andava assumendo Albano agli occhi dei viaggiatori stranieri: Albano divenne anch'essa, come tut-ta l'Italia, meta di un fitto pellegrinaggio artistico, tappa cano-nica del Gran Tour, dove reminiscenze storiche, godimento estetico, colore locale si mescolavano anche a un' ottima cu-cina a prezzi assai modesti. Ad Albano in questo momento erano di casa nobili, sovrani, pittori. Vi si affacciavano volen-tieri i letterati, memori di ciò che ne avevano scritto de Bros-ses, Goethe, Stendhal, Turgenev.

Le precarie condizioni di salute di Grigorij costituirono proba-bilmente la causa per cui il fidanzamento prolungò per anni. Ma i due giovani infine si sposarono il 29 settembre 1839, ma non ad Albano. Il mito della "bella vignaiola" mal si conciliava con un esito così infelice della sua giovinezza: il matrimonio con un artista già finito, a causa della cecità. Gli sposi si tra-sferirono allora in Russia, Làpcenko ottenne il titolo di accade-mico che poteva agevolarlo nel lavoro e nel mantenimento della famiglia. Nell'ottobre 1843 la vista di Làpcenko era un po' migliorata ma non poteva ancora dipingere. Intanto l'ami-co Voroncòv decise di aiutare il suo vecchio pupillo: negli an-ni Quaranta diede a Grigorij, per salvarlo dall'indigenza, l'in-carico di soprintendente in una delle sue tenute. Probabilmen-te i Làpcenko ebbero due bambini, ma ne sopravvisse sola-mente uno: Sergèj Grigòr'evic

Nel 1867 Làpcenko richiese all'Accademia delle Arti un sussi-dio di settantacinque rubli che gli venne accordato l'anno

CASA BUTI

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successivo su decreto del Ministero della Corte Imperiale in considerazione della sua "povertà e malattia". I due intanto avevano deciso di trasferirsi a Dinaburg per raggiungere il figlio che insegnava nel liceo cittadino e che sarebbe rimasto il loro unico sostegno. Vittoria era ancora in vita nel settembre 1872, perché alcune foto la ritraggono in età avanzata: una bella donna anziana, dai lineamenti nobili e fini, la capigliatura ancora scura con la consueta scriminatura centrale. Grigorij Ignat'evic si spense, nel 1876, a Pietroburgo all'età di settantacinque anni, povero, cieco, ma tra gli affetti più cari. Su Vittoria scende il silenzio: umile moglie di un pittore dimenticato e in miseria, piomba nel buio della storia. L'unica cosa certa è che non tornò a mo-rire ad Albano Laziale.

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VIA SISTINA 113 - 126

Tappa 23VERSO IL QUARTIERE RUSSO

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Lapide Commemorativa In Via Sistina 126

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Page 33: Intellettuali Stranieri a Roma dal Grand Tour al XIX Secolo - 3a parte

Casa Lisztvia Sistina 113Franz Liszt elesse la città eterna a testimone di grande parte della sua produzione.

Qui visse dal 1861, appartato e assorto in una Roma appena proclamata capitale d’Italia, tra via del Babuino, via Sistina, Villa d’Este e i conventi di Santa Francesca Romana al Foro e della Madonna del Rosario a Monte Mario, dove si ritirò a seguito di una crisi mistica che lo porterà a ricevere gli ordini minori diventando abate, nel 1865.

Casa Gogolvia Sistina 126 (siamo nella vecchia via Felice)

A Roma il grande scrittore russo soggiorna per ben nove volte, tra il 1837 e il 1847, in cerca di pace e di ispirazione. Soltanto qui riesce a lavorare intensamente alla stesura del romanzo «Le anime morte» ed è qui che sviluppa lo schema grandioso del libro fino a farlo diventare un poema nazionale e l’idea più importante per tutta la letteratura russa successiva: quella della puri-ficazione e della resurrezione dell’uomo e della sua anima.

VERSO IL QUARTIERE RUSSO

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«Niccolò Cocoli», iscritto nel registro delle anime della parroc-chia di Trinità dei Monti nel 1841, residente in via Sistina 126 (che allora si chiamava via Felice), era uno dei massimi geni dell' umanità, Nikolaj Gogol' , che a Roma era arrivato la pri-ma volta nella primavera del 1837 per viverci con qualche interruzione, e separandosene sempre a malincuore, fino al '46. Dieci anni scarsi che valgono tutta una vita. «Della Rus-sia», confesserà lo scrittore, «posso scrivere solo a Roma. Solo là essa mi appare intera, in tutta la sua grandezza».

E’ impossibile non notare una grande targa, in cirillico e in italiano, ornata da una corona d' alloro e da un profilo di Go-gol' in bronzo, incisa nel 1901 a spese della «Comunità russa di Roma». Nel profilo di Gogol' fanno bella mostra di sé i folti mustacchi che appaiono anche in tutti i ritratti ad olio e la ca-pigliatura ondeggiante da autentico romantico. La padrona di casa di Gogol' era una signora di Messina, una certa Anna Rinaldi. Questa palazzina di via Sistina, per inciso, è ormai una delle poche ad aver conservato l' autentico colore rossa-stro dell' intonaco che fino a una trentina d' anni fa era la tinta inconfondibile di tutto il centro storico di Roma.

Il primo soggiorno di Gogol’ nella Città eterna dura tre mesi, dalla fine di marzo al giugno del 1837. Prende alloggio al nu-mero 17 di via Sant’Isidoro (oggi via degli Artisti). Ritorna a metà ottobre e si trasferisce al terzo piano di un appartamen-to in via Felice 126 (oggi via Sistina), dove abiterà anche nei successivi lunghi soggiorni.

Frequenta il salotto della principessa Volkònskaja, dove incontra Gioachino Belli che legge ad alta voce i suoi sonetti.

"Invitato io dalla S.a Principessa Zenaide Volkonski a un pran-zo ov’era commensale il poeta Russo Viasemski, ringraziai, ma recatomivi al levar delle mense fui pregato di far conosce-

re al Principe un saggio del mio stile romanesco. Per lo che cominciai dai versi seguenti." 

Sor’Artezza Zzenavida Vorcoschi,perché llei me vò espone a sti du’ rischi o cche ggnisun cristiano me capischi o mme capischi troppo e mme conoschi?

La mi’ Musa è de casa Miseroschi,dunque come volete che ffinischi?Io ggià lo vedo che ffinissce a ffischisi la scampo dar zugo de li bboschi.

Artezza mia, nojantri romaneschi0nun zapemo addoprà tter-mini truschi,com’e llei per esempio e ’r zor Viaseschi.

Bbasta, coraggio! e nnaschi quer che nnaschi. Sia che sse sia, s’abbuschi o nnun z’abbuschi, finarmente poi semo ommini maschi.

Partecipa al carnevale e ne parla con entusiasmo nelle lette-re, colpito dalla gioiosa anarchia e dal ribaltamento dei ruoli sociali, disegna scorci urbani e quadretti di genere, si gode la cucina. Le trattorie preferite sono «Lepre» in via dei Con-dotti e «Il Falcone », vicino al Pantheon, dove ordina soprat-tutto i maccheroni e l’abbacchio, innaffiati da vino bianco. Continua a cucinare maccheroni, rigorosamente al dente, ogni sabato per pochi amici, anche quando è costretto a tor-nare a Mosca. L’ultima lunga permanenza è, da ottobre 1845 a maggio 1846, al terzo piano di palazzo Poniatwoski, in via della Croce 81. I tre soggiorni successivi sono solo tappe di viaggi verso altre mete.

Gli piacevano il parmigiano, i maccheroni, i ravioli, i broccoli romani, l’abbacchio, il marsala, il caffè con la panna, il latte di capra mescolato con il rum, bevanda che egli aveva scher-zosamente ribattezzato “gogol’-mogol’”, lo zucchero e i dolci in tutte le forme. Se la spassava, insomma. Ma quietamente, romanamente, ben lontano dalla frenesia, più simile a un lavo-ro, che durante il periodo passato a Parigi (la tappa del suo viaggio europeo immediatamente precedente a Roma, che lui chiamava “la Babele francese”), lo aveva del tutto sfinito e irritato. A casa della principessa russa Zinaida Volkonskaja, a Palazzo Poli, Gogol’ conobbe il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli. Nei suoi sonetti, raccontava Gogol’ sempre in una lettera alla Balabina, “c’è tanto sale e tanta arguzia completamente inaspettata, la vita dei trasteverini di oggi è riflessa con tale verità, che Lei riderà, e la nuvola grave che spesso copre la sua testa volerà via…”

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Come Gogol vedeva gli italiani? Così li dscrive in risposta agli amici francesi «Gli italiani sognavano il risorgere della perduta gloria e guardavano indignati l' odiosa uniforme bian-ca del soldato austriaco. Ma la natura italiana, amante delle gioie serene, non divampò in un' insurrezione». «Tutto si risol-se» Gogol aggiunge, «in un indefinito desiderio di andare a vivere Oltralpe, nella vera Europa»

«No, Roma è meglio. Qui c’è afa, polvere, sporcizia. Roma sembra Parigi in confronto a Napoli, sembra elegantissima. Gli italiani qui non si riconoscono, bisogna ricorrere al basto-ne – peggio che da noi in Russia»

Un’infinità di forestieri, russi inglersi francesi, ci vorrebbe una scopa per cacciarli via tutti. Ch noia. Roma ricorda adesso una casa dove abbiamo trascorso l’epoca migliore della no-stra vita, e in cui si torna per scoprire che è stata venduta.; dall finestre ci spiano gli stupidi volti dei nuovi padroni…in brv è una tristezza”

(Lettera alla Bilabina, tornando a Roma dopo essere andato da Napoli a Parigi, Lione Nizza e Genova, a fine 1838.

«Che dirti in generale dell’Italia? L’impressione che ho è di essere capitato da possidenti ucraini di vecchio stampo», scriverà il 15 aprile all’amico Aleksandr Danilevskij, osservan-do come le porte decrepite delle case, i candelabri polverosi e i cibi cucinati all’antica che l’avevano accolto nella città eterna contrastassero decisamente con il «quadro di cambia-menti» della modernità che lo aveva colpito fino ad allora, a Parigi e altrove. A Roma invece la sensazione che tutto si fos-se «fermato in un punto» e non riuscisse più ad andare avan-ti, l’aveva riportato inaspettatamente a casa.

«Io son nato qui. Mi sono di nuovo risvegliato in patria», Una sorta di variazione sul tema codificato da Lord Byron con l’apostrofe «Oh Rome! My country! City of the soul!» nel Chil-de Harold’s Pilgrimage, che dimostra la natura innanzitutto letteraria dell’esperienza vissuta da Gogol’

In poco tempo, Gogol' diventerà anche un perfetto Cicerone, molto apprezzato dai connazionali in visita a Roma. Tra le car-te dello scrittore è stato ritrovato un prezioso itinerario prepa-rato per un' amica in visita a Roma nel 1843, l' aristocratica Aleksandra Osipovna Smirnova. Otto giorni fitti di visite a mo-numenti, ville, musei che stupiscono per la raffinatezza delle scelte, sapientemente variate, e per un gusto artistico davve-ro di prim' ordine, che consente a Gogol' di identificare, nelle varie gallerie e nelle chiese inserite nell' itinerario, le opere sulle quali soffermarsi con attenzione. Tra i grandi scrittori vis-

suti a Roma, si può dire che solo Stendhal può competere con Gogol' in fatto di conoscenza minuziosa del patrimonio artistico romano. Ma in Gogol' , a differenza che in Stendhal, riscontriamo anche una caratteristica di gusto davvero più unica che rara per i suoi tempi e precorritrice della nostra sensibilità e della nostra maniera di vedere Roma: un vivo amore per le chiese barocche, come il Gesù e Sant' Igna-zio, generalmente snobbate dalle guide e dai visitatori stranieri, apprezzate sia per le monumentali architetture che per le ingegnose decorazioni pittoriche dei soffitti.

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I RUSSI E I NAZARENI

Tappa 24VIA SANT’ISIDORO

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Il Convento Di Sant’isidoro, In Cima Alla Scalinata

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Inizia, seminascosta dai tavolini dei bar, da una rientranza di via Veneto ed è quasi per intero occupata da una rampa di scalini. Era qui (forse nella stessa palazzina dove oggi si trova il ristorante «La Scala») la «Lo-canda Massucci», che ospitava abitualmente molti artisti stranieri. Nell' indimenticabile primavera del 1837, quando Gogol' sperimenta la prima volta la gioia di vivere a Roma, sfidando anche i rischi di una grave epi-demia di colera, la prospettiva offerta dalla stradina era identica a quella di oggi, dominata dalla candida facciata barocca del convento france-scano di Sant' Isidoro, con le statue dei due santi (l' altro è san Patrizio) che osservano i passanti dall' alto delle loro nicchie.

Al civico 18, da Giovanni Masucci, soggiornò precedentemente Ki-prenskij che spianò la strada per viaggiatori, borsisti, scrittori e artisti russi che, dopo di lui, avrebbero inondato Roma nel corso dell’Ottocen-to. Per loro aveva scoperto tutti i locali e i caffè da frequentare, imparan-do a trattare con i romani e individuando le più belle viste della città.

L`artista, nato nel governatorato di San Pietrogurgo nel 1782, terminò l’Accademia di Belle Arti con Medaglia d’Oro e nel 1816 si trasferì in Ita-lia con una borsa di studio. Prima di arrivare a Roma soggiornò a Mila-no, Parma, Modena e Genova. “Slanciato, agghindato e persino imbellet-tato per piacere alle donne”, dalla descrizione dell’amico e scultore Sa-muil Gal’berg.

VIA SANT’ISIDORO

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La sua reputazione in Italia crebbe rapidamente. Nel 1819, in occasione della visita dell’imperatore austriaco Francesco I, capeggiò una mostra dei pittori stranieri a Palazzo Caffarelli, sul colle del Quirinale. Dopo accettò incredulo una commis-sione per gli Uffizi, un onore che pensava fosse riservato solo ai pittori europei. Ma la gloria non durò a lungo e alla fine del 1821 accadde una disgrazia: una modella morì arsa viva in un incendio nella sua bottega. La colpa era del suo domesti-co, ma Kiprenskij si assunse tutta la responsabilità. Depresso e senza ispirazione si trasferì a Firenze, poi a Parigi e da lì in terra natia dove la sua fama aveva raggiunto vette celesti.

Lì, a San Pietroburgo, fra le memorie tormentate dipinse il quadro che contribuì a immortalare il suo nome nella letteratu-ra russa: il ritratto di Aleksandr Puskin. Come ringraziamen-to il grande poeta dedicò dei versi a Kiprenskij: “Mi vedo co-me nello specchio/Ma questo specchio mi lusinga…” Il pitto-re, invece, delle lusinghe non ne aveva bisogno. Aveva biso-gno di qualcosa vero, vivace, caloroso: l’Italia.

Nel 1828 tornò a Roma, ma appena arrivato partì per Napoli, dove eseguì il famoso Lettori delle riviste a Napoli. Quattro anni dopo si stabilì definitivamente nella Città Eterna e si con-sacrò a deificarla con il suo brioso ed elegante pennello. Nel 1836 sposò Anna Maria Falcucci, che aveva salvato da una

famiglia dissoluta e affidato al cardinal Consalvi prima di la-sciare Roma quattordici anni prima. Qualche mese più tardi si ammalò di polmonite e si spense. E’ Sepolto nella chiesa romana di Sant’Andrea delle Fratte.

Nel convento di Sant’Isidoro, abbandonato con l’arrivo dei francesi, avevano creato la loro base, a metà fra una comune hippy ed un centro sociale, il gruppo dei “Nazareni”.

I Nazareni

Il termine Nazareni designa, inizialmente con intenzione deri-soria, un gruppo di artisti allievi dell'Accademia di Vienna, tra i quali i principali sono Peter Cornelius, Joseph Anton Koch, Franz Pforr e Johann Friedrich Overbeck (1789-1869), il più autorevole rappresentante di quella che nel luglio del 1809 diviene la confraternita di San Luca.Siamo all'inizio dell' '800, nel pieno del convenzionalismo ac-cademico di un'arte spesso manieristica ed emotivamente svuotata che genererà per reazione il Romanticismo europeo (1800-1850), ed i Nazareni si volgono agli antichi maestri, Giotto, Beato Angelico, Luca Signorelli, Filippo Lippi, il Perugi-no, Dürer e soprattutto Raffaello, sulla scorta della lezione classicista di Winckelmann, per recuperare il senso religioso, il sentimento del divino che animava quei grandi e che anche per loro rappresenta l'unico modo di ridare all'arte il potere di esprimere significati, valori ed emozioni.Tacciato da alcuni pensatori (fra cui Schopenhauer) di bigotti-smo, il movimento ha la sua radice nel romanticismo tedesco di Caspar David Friedrich, Karl Blechen, Moritz von Schwind, Carl Spitzweg ed in una tradizione religiosa a forte compo-nente conservatrice che si riallaccia al fanatismo medioevale

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venato dell'ascetismo religioso-patriottico di una cultura an-cor oggi di matrice sostanzialmente gotica. Nel 1810 il gruppo dei Nazareni si trasferisce a Roma, grazie al favore del principe Luigi di Baviera, prendendo sede nel-l'ex-convento di Sant'Isidoro al Pincio (via degli Artisti), non dopo qualche mese presso Villa Malta, adottando rego-le di vita monastiche ed assumendo atteggiamenti esteriori eccentrici, con lunghe chiome fluenti, ampi mantelli, divenen-do oggetto di curiosità per un pubblico piuttosto vasto di esti-matori delle loro opere, consistenti soprattutto negli affreschi di Villa Giustiniani, di casa Bartholdy, della villa del principe Massimo presso il Laterano, eseguiti collettivamente in un arco di circa vent'anni di attività (il gruppo si scioglierà alla fine del 1830).

In un linguaggio accurato ed elegante, di grande armonia compositiva, quietamente monumentale e di sublime compo-stezza formale, l'ideale perseguito dai Nazareni è un mondo perfetto basato sulla fede, sulla solidarietà fra gli uomini, sul-l'universalità del sentire artistico, in una visione nostalgica del passato e dell'innocenza di una società permeata dal senso religioso che deve essere la base dell'arte moderna: questi principi sono contenuti negli scritti dell'ispiratore del movi-mento, lo scrittore Wilhelm Heinrich Wackenroder ("Her zen-sergiessungen eines kunstliebenden Klosterbruders", 1797), teorico del 'sublime umano' e di un concetto dell'arte come ineffabile dono divino, ponte tra cielo e terra.

I Nazareni sono i diretti ispiratori del purismo italiano, nato a Roma, anch'esso centrato sul primato del sentimento religio-so con decisa preminenza dell'arte sacra: il termine purismo viene usato per la prima volta nel 1833 per indicare un feno-meno che, in anticipo sulla pittura, già coinvolgeva la lettera-tura ed aveva risvegliato l'interesse verso i modelli letterari

del '300 (non a caso lo stesso Overbeck firma il manifesto del purismo, redatto nel 1842 per dare basi organizzative e teoriche al movimento già ampiamente sviluppato e diffuso). All'influenza dei Nazareni si fa risalire anche il movimento dei preraffaelliti, costituitosi ufficialmente nel 1848 in Inghilter-ra, anch'esso sorto come reazione al decadimento delle arti con l'intenzione di recuperare nel mondo classico e nella pit-tura italiana precedente Raffaello, specie di Filippo Lippi e Sandro Botticelli, i significati più profondi, in senso morale ed estetico, dell'operare artistico.

Pur non avendo forse espresso capolavori eccezionali nè per-sonalità straordinarie, i Nazareni hanno il merito di aver inne-scato una riflessione sul significato del fare arte all'interno della loro realtà sociale, come testimonia l'impulso dato alla formazione di nuove correnti, esprimendo così un'interna for-za propulsiva che costituisce il loro merito più importante: an-che se Nazareni, Puristi e Preraffaelliti non hanno segnato in modo decisivo il corso della storia dell'arte post-ottocente-sca, sono comunque espressioni della indomita vivacità dello spirito creativo, della sua continua capacità di mettersi in di-scussione, di reagire alla stagnazione intellettuale, sempre cercando di rinnovarsi e di parlare linguaggi nuovi.

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ATELIER THORVALDSEN

Tappa 25PIAZZA BARBERINI

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Piazza Barberini A Fine Ottocento

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Nei locali dell’attuale cinema, si trovava l’ampio atelier di Thorvaldsen, che qui riceveva i suoi committenti e ammiratori.

Proseguiamo poi fino a via delle 4 Fontane dove troviamo al 172 la residenza di Vjaceslav Ivanov che con la famiglia vi si tra-sferisce dopo breve soggiorno a pensione Rubens (via Belsiana o via Borgognona o via Bocca di Leone). L’appartamento è vicino a Palazzo Sen. Tittoni, residenza privata di Mussolini che si vede dal retro. Di fronte, la residenza dove nel 1842 aveva soggiornato Jacob Burkardt.

Fra i russi residenti nella zona in quegli anni non possiamo non citare Karl Bruillov

Karl Bruillov

Karl Brjullov nacque a San Pietroburgo da una famiglia ugonotta di lontani origini francesi, scappata in Russia a seguito del-l'Editto di Fontainebleau, emesso da Luigi XIV di Francia nel 1685 e con il quale, revocava l'Editto di Nantes e quindi la libertà di culto in Francia. Il suo nome in francese era Charles Brüleau

Egli russificò il cognome francese da Brulleau in Brjullov in quanto solo i cittadini russi potevano ottenere sovvenzioni pubbliche, fra cui la borsa di studio della Accademia di San Pietroburgo.In seguito dopo essersi dedicato all'insegnamen-to, tornò varie volte in Italia in compagnia del fratello Alexandr, architetto e anch'esso pittore.

PIAZZA BARBERINI

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Giunto in Italia nel 1823, compì un lungo itinerario che toccò Venezia, Padova, Verona, Mantova, Bologna e Firenze. Giun-to a Roma, si dedicò al suo primo lavoro, una copia fedele e a grandezza naturale della Scuola di Atene di Raffaello. L'opera fu spedita a San Pietroburgo, dove suscitò notevole ammirazione e gli valse l'aumento della sovvenzione econo-mica e l'onorificenza di San Vladimir.

I fratelli Brjullov presero quindi alloggio nel quartiere degli artisti, sul Quirinale, dove frequentarono altri ex studenti del-l'Accademia di San Pietroburgo in viaggio in Italia.

La città di Roma era diventata dall'inizio degli anni trenta luogo di ritrovo, oltre che di molti pensionnaires, giovani arti-sti russi che, come i fratelli Brjullov, godevano di borse di studio per il perfezionamento all'estero, anche di numerosi rappresentanti dell'intelligencija russa, in cerca di un luogo di soggiorno dove coltivare il libero pensiero ostacolato in patria[8].

Fu così che il Brjullov frequentò e si legò sentimentalmente alla contessa Julija Pàvlovna Samòjlova (1803-1875), nobil-donna russa trapiantata a Milano, adottata dal conte Giulio Renato Litta, al servizio della Russia come militare e diplo-matico e divenuto Ammiraglio dopo la guerra contro la Sve-zia (1788-90).

La Samòjlova teneva a Milano un salotto, definito austriacan-te, frequentato da artisti, scrittori e musicisti nel Palazzo del Borgonuovo, arricchito da una delle più preziose raccolte d'arte della città, fra le quali più avanti compariranno anche i ritratti della contessa eseguiti proprio dal Brjullov.

Un altro personaggio di cui il Brjullov divenne frequentatore fu Anatolij Nikolaevič Demidov (1813-1870), mecenate e col-lezionista d'arte appartenente ad una famiglia di industriali e benefattori russi trapiantati in Italia, tra Roma e Firenze, mari-to della contessa Matilde Bonaparte, figlia di Gerolamo e cu-gina dello Zar Nicola I.

Egli amava cogliere scene di vita quotidiana e momenti di vita reale e fissare per sempre sguardi e caratteri dei tanti personaggi da lui incontrati ed in particolare delle famiglie aristocratiche russe che vivevano in Italia con le quali si in-contrava presso il noto Caffè Greco o nel salotto della princi-pessa Zenaide Volkonskaja che dal 1820 abitava al primo piano di Palazzo Poli a Roma e in estate come si usava , il cenacolo si trasferiva nella sua villa di Frascati.

Era in forte polemica con i Nazareni, di cui realizzò ritratti cari-caricaturali. Spesso discuteva con loro al Caffè Greco e dice di ave dipinto “Mattino Italiano” dopo una serrata polemica

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contro la rigida adesione dei Nazareni al modello di “rifinitu-ra” olandese.

Nell'estate del 1827 il pittore si recò in Campania in compa-gnia del fratello Alexandr, della Samòjlova e del Demidov. Là, il gruppo ebbe modo di visitare gli scavi di Pompei e di Er-colano. Fu in quei luoghi che nacque l'idea per un nuovo di-pinto, Gli ultimi giorni di Pompei: l'opera venne cominciata subito, ma fu portata a termine a Roma, dove il Brjullov era nel frattempo tornato e si era ormai stabilito, solo sei anni più tardi, nel 1833.

Il Pompei, una volta ultimato, riscosse a Roma uno straordina-rio successo, in seguito al quale intraprese con il suo autore una trionfale tournée con tappe a Milano, dove venne messo in mostra all'Accademia di Brera nel 1833, e a Parigi, dove venne esposto al Museo del Louvre, in occasione del Salon di quell'anno (1834). L'opera venne infine inviata in Russia, mentre il Brjullov nel 1835, dopo un breve ritorno a Milano, partì per un viaggio in Grecia e in Turchia al fine di eseguire disegni di paesaggi dei luoghi, che verranno pubblicati nel 1839-40, al suo ritorno a San Pietroburgo.

Terminata anche questa esperienza, il Brjullov tornò in madre-patria. A Mosca conobbe Aleksandr Puškin, mentre a San Pietroburgo si dedicò ai bozzetti per le decorazioni della Cat-tedrale di Sant'Isacco, che tuttavia non riuscì mai a portare a termine. Nella città natale divenne inoltre professore all'Acca-demia di Belle Arti e si dedicò ai ritratti di molti personaggi dell'aristocrazia russa del tempo;

Nonostante la sua salute cominciasse a farsi cagionevole, nell'aprile del 1849 il Brjullov partì per degli ulteriori e impe-gnativi viaggi: in compagnia di alcuni allievi attraversò la Polo-nia, la Prussia, il Belgio, l'Inghilterra. Da lì, raggiunse il Porto-gallo e infine l'isola di Madera, sulla quale soggiornò qualche mese e dove all'ormai costante produzione ritrattistica si af-fiancò quella di paesaggi stilisticamente analoghi a quelli ese-guiti anni prima in Grecia ed in Turchia. Infine, nel 1850 fu in Spagna.

Come si legge nella sua biografia Tittoni ospitò intorno al 1852, prima nell'appartamento romano, e poi nella tranquilla residenza di Manziana,

Il suo ultimo e definitivo viaggio in Italia era stato deciso in seguito al peggioramento delle sue condizioni di salute ag-gravate dalle estenuanti attività che Brujllov era stato chiama-to a svolgere all'interno della Cattedrale di Sant'Isacco a San Pietroburgo. Per vari mesi era rimasto all'interno di tale edifi-cio per affrescarne la cupola posta a oltre 100 metri di altez-za.

L'umidità degli ambienti e l'impegno quotidiano speso dal pittore non è oggi percepibile a chi sollevi lo sguardo per am-mirare un affresco di ben 800 mq intitolato:La vergine in glo-ria.

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