Il vizio oscuro dell'occidente

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Dello stesso autore negli «Specchi» Il denaro. «Sterco del demonio» Di[zion]ario erotico Nietzsche nei «Tascabili» Elogio della guerra Massimo Fini II vizio oscuro dell'Occidente Manifesto dell'Antimodernità Marsilio

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L'11 settembre ha inaugurato una nuova era, quella del "terrorismo globale", conseguenza logica, e prevedibile, della pretesa dell'Occidente di ridurre a sé l'intero esistente. Ma il "migliore dei mondi possibili" si rivela un modello paranoico, basato sull'ossessiva proiezione nel futuro, dove l'individuo non può mai raggiungere un punto di equilibrio e di pace. Nella ricerca inesausta del Bene, anzi del Meglio, l'uomo occidentale si è creato il meccanismo perfetto e infallibile dell'infelicità. E lo sta esportando ovunque. Il "terrorismo globale" non farà che confermare e rafforzare il delirio occidentale dell'unico modello mondiale.

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Dello stesso autorenegli «Specchi»

Il denaro. «Sterco del demonio»Di[zion]ario eroticoNietzsche

nei «Tascabili»Elogio della guerra

Massimo FiniII vizio oscuro dell'Occidente

Manifesto dell'Antimodernità

Marsilio

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© 2002 by Marsilio Editori s . p . a in Venezia

Prima edizione: ottobre 2002Quarta edizione: dicembre 2002

ISBN 88-317-8175-8

www.marsilioeditori.it

Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione,anche parziale o a uso interno didattico,con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia

Indice

IL VIZIO OSCURO DELL'OCCIDENTE

9 Bene e Terrore14 La globalizzazione economica28 Il Mondialismo43 L'Orrore: il mullah Omar49 Il modello paranoico

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Bene e Terrore

L'11 settembre inaugura una nuova eradella storia del mondo, quella del «terrori-smo globale». «Illimitato», come scrive Lu-dovico Incisa di Camerana sulla rivista «Palo-mar», «nei bersagli, nei campi di battaglia, il-limitato persino negli armamenti, dai più pri-mitivi, i temperini dei dirottatori, al possibileimpiego di ordigni sofisticati, chimici, biolo-gici, nucleari1 . E una conseguenza logica, edirei anche prevedibile, di un movimento diglobalizzazione e di mondializzazione la cuitendenza di fondo è quella di arrivare a unoStato unico mondiale, a un unico governomondiale, a un'unica polizia mondiale, a ununico mercato mondiale e a un unico tipo diindividuo: il Grande Consumatore. Se lo Sta-to è unico ne consegue che gli scontri violen-

1 L. Incisa di Camerana, La globalizzazione della guerra o laguerra della globalizzazione, «Palomar», febbraio 2002, p. 37.

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ti al suo interno non possono più essere - operlomeno tendono a non essere più - quelliinterstatuali delle guerre tradizionali, ma as-sumono necessariamente le forme del terrori-smo.

Questo Stato unico mondiale non si èrealizzato, per ora, in un modo compiuto,giuridicamente precisato né tantomeno de-mocratico - questa è l'utopia dell'ONU, cheproprio dall'11 settembre ha ricevuto il suocolpo definitivo e mortale - ma si è venutoformando di fatto, sia pur in modo ancoraparziale. C'è una potenza che ha l'egemoniaassoluta, gli Stati Uniti, una superpolizia co-stituita dalle forze militari americane e, quan-do occorre, dalla NATO, un Tribunale (chenon è quello internazionale penale e perma-nente dell'ONU che, boicottato dagli USA, con-ta meno di nulla), che si costituisce di voltain volta come Tribunale speciale in modo chei vincitori siano legittimati a processare econdannare i vinti, e c'è un modello econo-mico pervasivo, che è quello occidentale, cui,oltre agli Stati Uniti, partecipano l'Europa, ilGiappone, la Russia, presto la Cina e ognipaese industrializzato: di fronte a un bloccodi potere di questa portata, inattaccabile di-rettamente e frontalmente, l'unica rispostapossibile, per chi voglia contrastarlo con learmi, non è più, come un tempo, la guerra,

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ma il terrorismo. Osama Bin Laden non èche «l'ombra» dell'Occidente, è una rispostafondamentalista, integralista, totalitaria a unsistema che, nonostante si definisca, in buo-na fede, democratico e liberale, è fondamen-talista, integralista, totalitario. Perché nonconcepisce e non tollera «l'altro da sé» che,in un modo o nell'altro, con le buone o conle cattive, per ragioni che di volta in voltasono economiche o etiche o umanitarie, deveessere omologato al modello egemone che siconsidera, per dirla con il Candide di Vol-taire, «il migliore dei mondi possibili». Se ilnostro modello è il migliore perché nonesportarlo e, quando è il caso, imporlo ancheagli altri, andando a salvare Safia e tutte lepossibili Safia del mondo, anzi del TerzoMondo? Il destino dell'Occidente sembraquello di essere condannato a capovolgere,in un doloroso contrappasso, la battuta cheGoethe nel Faust mette in bocca a Mefistofe-le: «Io sono lo spirito che vuole eternamenteil male e opera eternamente il bene». Il para-dosso dell'Occidente è credersi il Bene, divolere eternamente il Bene e di operare eter-namente, in una sorta di eterogenesi dei fini,il Male. E il vizio di fondo sta proprio inquesta distinzione manichea fra Bene e Malee nella pretesa prometeica di aumentare con-tinuamente il Bene a spese del Male, cancel-

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landolo dalla faccia della terra, mentre nellarealtà Bene e Male sono due facce della stes-sa medaglia e concrescono insieme, tanto piùgrande è il Bene, tanto più grande sarà ilMale.

La tabe totalitaria dell'Occidente, questovizio oscuro e inconfessato che segna quasitutta la sua storia, parte da lontano ed è an-ch'essa paradossale perché fu proprio il pen-siero greco, che è all'origine della nostra ci-viltà, il primo a riconoscere il diritto di esi-stenza e la dignità dell'«altro da sé». Partedall'evangelizzazione, cioè dall'urgenza nonsolo di annunciare la «buona novella» alprossimo ma di convertirlo ad essa. C'è quigià, sia pure in nuce, l'ambizione della reduc-tio ad unum, dell'omologazione a sé, dell'in-tero esistente, che passerà poi per l'eurocen-trismo, per il colonialismo, che si basa sulladistinzione fra culture «superiori» e «inferio-ri» e il dovere delle prime di portare la civil-tà, laica e religiosa, alle seconde, per l'Illu-minismo, con l'assolutizzazione della Dea Ra-gione e la concezione, prettamente globalista,dell'uomo come «cittadino del mondo», perl'internazionalismo proletario di derivazionemarxista, e che trova infine la sua più com-piuta realizzazione nel modello di sviluppoeconomico e industriale attualmente egemo-ne, di cui gli Stati Uniti sono la punta di lan-

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cia. A questo modello è riuscito, o sta riu-scendo, quello che il cristianesimo, il colo-nialismo classico, il marxismo-leninismo, ave-vano solo tentato: l'occupazione dell'interopianeta. Dio è stato sostituito dalla ruspa.Oggi siamo tutti battezzati in un mare dicherosene.

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La globalizzazione economica

Il movimento ha inizio con la Rivoluzioneindustriale, che decolla a metà del xviii seco-lo in Inghilterra.

C'è una differenza sostanziale, di qualità,fra il vecchio «capitalismo commerciale»,come lo chiamava Marx e l'industrialismoche l'ha sostituito. Il primo opera sull'esisten-te, su una domanda che c'è già. Si limita atrasferire beni e risorse già esistenti da unluogo all'altro e quindi poco cambia. L'indu-strialismo prima dilata enormemente l'offertadi beni esistenti - per esempio tessuti - pro-ducendo su scala e a minor prezzo ciò che inprecedenza era fatto artigianalmente. In unsecondo tempo, col progredire della scienzatecnologicamente applicata, produce beninuovi, stimola e inventa bisogni che primanessuno sapeva di avere e di cui, per la veritànon aveva mai sentito il bisogno. L'industria-lismo, a differenza del «capitalismo commer-

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ciale» non si limita a trasferire beni, li crea. Euna volta che li ha creati ha la necessità dismerciarli. Deve quindi conquistare semprenuovi mercati, sia verticalmente, con nuoviprodotti, sia orizzontalmente, geograficamen-te, allargandosi progressivamente intorno alcentro da cui è partito. L'industrialismo di-mostra, quindi, fin dall'inizio, uno straordi-nario dinamismo, sconosciuto all'era e alleere che l'hanno preceduto.

Alla fine del Settecento Inghilterra e Fran-cia hanno già virtualmente un unico mercatonazionale, a economia monetaria, che ha as-sorbito e fuso i vari mercati regionali. E l'ini-zio della globalizzazione economica. Nel1870 tutti i più importanti paesi dell'Europacontinentale e gli Stati Uniti hanno portato atermine la transizione a un sistema economi-co di tipo moderno, industriale, di liberomercato, monetario. Ed è in questi anni e fraqueste economie integrate e omogenee cheha inizio il grande balzo in avanti del com-mercio internazionale.

Fatto uno il valore medio del commerciomondiale nel 1720, è 1.9 nel 1750, 2.2 nel1780, 2.3 nel 1800, 3.1 nel 1820, 5.4 nel1840, ma diventa 23.8 nel 1870, 46 nel 1895,100 nel 1913, 113 nel 1930, 486.7 nel 19712.

2 M. Fini, il denaro. «Sterco del demonio», Venezia, Marsi-lio, 1998, p. 175.

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Se in cent'anni, dal 1720 al 1820, si è triplica-to, nei successivi centocinquanta, e con inmezzo due guerre mondiali, si è più che cen-tuplicato.

Nel 1971 il definitivo sganciamento deldollaro dall'oro, deciso, peraltro con un attodi chiarezza, dal presidente Nixon, ha datoun'ulteriore, formidabile, accelerazione allacircolazione del denaro, e quindi delle merci.Oggi col crollo dell'Unione Sovietica e l'aper-tura della Cina al libero mercato, il processodi omologazione economica può dirsi virtual-mente concluso.

Anche i paesi del Terzo Mondo, i cosid-detti paesi «in via di sviluppo» sono, comedice la parola stessa, inseriti in questa logicadi mercato globale integrato. Ma con conse-guenze per loro devastanti, molto più diquelle che aveva provocato il colonialismoclassico. Questo si limitava infatti a conqui-stare territori e a rapinare materie prime dicui spesso gli indigeni non sapevano che far-si, ma poiché le comunità dei colonizzatori edei colonizzati rimanevano separate e divisepoco cambiava per questi ultimi che conti-nuavano a vivere secondo le proprie tradizio-ni, storia, costumi, socialità, economia. Il co-lonialismo economico, invece, non conquistaterritori ma mercati - e ne ha una urgenzaassoluta perché, per quanto il mondo indu-

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strializzato continui a produrre sempre nuo-ve e meravigliose inutilità, i suoi sono sostan-zialmente saturi - e per farlo deve omologaregli abitanti del Terzo Mondo alla nostra wayof life, ai nostri costumi, ai nostri consumi epossibilmente anche alle nostre istituzioni.

Gli abitanti del Terzo Mondo diventano -oltre che, spesso, dei morti di fame perché leloro esportazioni non riescono a compensareil deficit alimentare che si è creato con l'ab-bandono delle economie di sussistenza su cuiavevano vissuto, e a volte prosperato, per se-coli e millenni - degli sradicati, eccentrici ri-spetto alla propria stessa cultura che è finitain un angolo, e scontano una pesantissimaperdita di identità. Si aggrappano quindi al-l'unico valore ancora rimasto che possa dar-gliela e confermargliela, quello religioso, eper reazione tendono a declinarlo in sensointegralista, fondamentalista, fanatico, estre-mista ed eventualmente terrorista.

Ciò che sta succedendo nel mondo islami-co e musulmano è esattamente questo. Nel-l'Africa centrale, invece, nessuna reazione èstata possibile, perché i neri avevano culturebelle e affascinanti ma leggere, religioni al-trettanto belle e affascinanti, panteiste equindi estremamente tolleranti, ma proprioper questo inermi e l'Africa si è perciò lascia-ta affondare senza resistenze dal modello in-

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dustriale e occidentale. Oggi non è più peri-colosa per l'Occidente di quanto lo sia un ci-mitero in putrefazione (che comunque unasua qualche pericolosità la conserva perchéc'è sempre il rischio che ci attacchi la can-crena).

Lo sradicamento delle popolazioni delTerzo Mondo produce il fenomeno, inevita-bile, delle migrazioni bibliche. Privati dellaloro storia, delle loro tradizioni, della loroeconomia, della loro socialità, di quel tessutodi solidarietà, familiare, clanica, tribale, cheera il loro modo di soprawivenza e che ilmodello industriale ha lacerato irrimediabil-mente, ridotti a vivere in desolate periferiedell'Impero e con i suoi materiali di risulta,questi uomini e queste donne cercano di rag-giungerne il centro. Ma i paesi industrializza-ti si oppongono ferocemente a questa immi-grazione quando non sia funzionale ai lorointeressi, quando gli immigrati non venganoa sostituire gli autoctoni in lavori che questinon vogliono più fare. La concezione occi-dentale della globalizzazione è questa: liberacircolazione dei capitali e delle merci ma nondegli uomini. Cioè il capitale può andare acercare la propria collocazione geografica làdove è meglio remunerato, gli uomini, chespesso proprio da quel capitale sono statiresi dei miserabili, no, non avrebbero questo

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diritto. Lasciamo pur perdere ogni conside-razione etica su questa impostazione, restache l'Occidente industriale si è cacciato inuna fourchette irrisolvibile, che esso stesso hacreato. Se, infatti, apre indiscriminatamenteall'immigrazione rischia di esserne corrosodall'interno, ma se non lo fa creerà semprepiù masse di disperati che premeranno allefrontiere e che saranno facile preda delle lu-singhe del terrorismo. Né la situazione si puòrisolvere mandando «aiuti» alle popolazionidel Terzo Mondo, cercando di integrarlemaggiormente, perché è proprio questa inte-grazione, come dimostra la storia degli ultimitrent'anni, che le fa ammalare ed esplodere.

L'Africa, per esempio, stava molto meglioquando si aiutava da sola. Ai primi del Nove-cento era alimentarmente autosufficiente. Loera ancora, in buona sostanza (al 98 per cen-to) nel 1961. Ma da quando ha cominciatoad essere aggredita dalla integrazione econo-mica - prima era considerata un mercato deltutto marginale e poco interessante - le cosesono precipitate. L'autosufficienza è scesaall'89 per cento nel 1971, al 78 per cento nel19783. Per sapere quel che è successo dopo

' P.N. Bradley, Produzione e distribuzione degli alimenti: lafame nel mondo, in Geografia di un mondo in crisi, Milano, Fran-co Angeli, 1992, p. 117.

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non sono necessarie statistiche: basta guarda-re le immagini che ci vengono dal ContinenteNero. Non si tratta più di povertà, ma dibrutale fame. Eppure in questo stesso perio-do la produzione mondiale dei cereali dibase, riso grano e mais, è aumentata rispetti-vamente del 30, 40 e 50 per cento e una cre-scita, sia pur modesta, della produzione ditali alimenti c'è stata anche in Africa. Ma gliafricani, come tanta altra gente del TerzoMondo, muoiono di fame lo stesso. Perché inun'economia mondiale integrata, di mercatoe monetaria, il cibo non va dove ce n'è biso-gno, va dove c'è il denaro per acquistarlo. Vaai maiali dei ricchi americani e, in generale,al bestiame dei paesi industrializzati se è veroche il 66 per cento della produzione mondia-le dei cereali è destinato alla alimentazionedegli animali dei paesi ricchi4. I poveri delTerzo Mondo sono costretti a vendere allebestie occidentali il cibo che potrebbe sfa-marli. E la legge del mercato e del denaro(agli albori di questa storia, quando i primicolonizzatori europei arrivarono nel Conti-nente Nero, gli agricoltori africani, che vive-vano di autoconsumo e di baratto, non vole-vano saperne di entrare nell'economia mone-taria, volevano continuare a vivere come ave-

4 Dato FAO.

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vano sempre vissuto. Allora i conquistatorimisero una tassa in contanti su ogni capannacostringendoli cosi a entrare nel gioco deldenaro, il loro gioco5. Del resto è lo stessosistema con cui, a suo tempo, furono fregati,dalle élites economiche, i contadini europei).

Naturalmente in Occidente si sostiene chela fame in Africa e nel Terzo Mondo è dovu-ta alla sovrappopolazione e si auspicano dra-stiche politiche di contenimento della natali-tà, da ottenersi con le buone o con le cattive,anche perché i poveri del Terzo Mondo - loscrive per esempio, in Italia, fra gli altri, esenza vergognarsi, Giovanni Sartori - sareb-bero degli intollerabili inquinatori. Curioso,visto che il mondo industrializzato, che rap-presenta circa un sesto della popolazionemondiale, consuma i quattro quinti delle ri-sorse globali. Ma la tesi di Sartori, e di tutti iSartori, è più o meno la seguente. Che cosasi fa se in una stanza ci sono sei persone euna sporca quanto le altre cinque messe in-sieme? Si eliminano queste cinque cosi quel-l'uno può continuare a fare i propri comodi.Elementare.

Quella della sovrappopolazione è natural-mente una scusa. A parte Bangladesh, Giava,Egitto e alcune regioni dell'India, il Terzo

5 J. Reader, Africa, Milano, Mondadori, 2001, p. 243.

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Mondo non è sovrappopolato e potrebbetranquillamente mantenersi alimentarmenteicon le coltivazioni tradizionali, non mecca-nizzate, se potesse tornare all'autoconsumo6.Si dice allora che la causa della fame in Afri-ca e nel Terzo Mondo starebbe nella inade-guatezza delle reti di comunicazione che nonriuscirebbero a far arrivare il cibo agli affa-mati. E vero che i trasporti nel Terzo Mondosono parecchio sgangherati, ma nemmenoquesta è una buona spiegazione. Scrive sarca-sticamente Phil Bradley in Geografia di unmondo in crisi: «A quanto pare le materieprime riescono sempre a trovare il modo diarrivare al mare e i manufatti di raggiungerele regioni più isolate. Pile elettriche, fiammi-feri e Coca-Cola si trovano anche nei piùmiserabili negozi dell'interno: con che corag-gio si può sostenere che il cibo non può arri-varci?»7

L'Africa è anche un buon esempio di qualidevastazioni culturali e sociali, oltre che eco-nomiche, abbia provocato la contaminazionecol nostro modello. Tutti hanno visto in tele-visione le raccapriccianti immagini dellaguerra del 1994 in Ruanda fra Tutsi e Hutu.Cose cosi feroci, bestiali che i pii occidentali

6 Bradley, Produzione e distribuzione, cit., p.1217 Ibid., p. 122.

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hanno pensato di allestire il solito «Tribunalespeciale per i crimini di guerra in Ruanda».Bene. Una trentina di anni fa assistetti aNairobi a una Convention sulla guerra inAfrica cui partecipavano i rappresentanti dimoltissime etnie. E quel che veniva fuori èche la guerra in Africa, fino ad allora, erastata una cosa ridicola, non solo rispetto aquello che abbiamo combinato noi in Euro-pa e in Nord America, ma in assoluto. Ad uncerto punto parlò il capo di non mi ricordoquale piccola tribù e raccontò questa storia:«Anche da noi, una volta, c'è stata una guer-ra. Una cosa tremenda, terribile, proprio ter-ribile. Poi un giorno, vicino a un pozzo, c'èscappato il morto ed è subito finito tutto». Eun caso limite che però illustra bene la situa-zione.

L'antropologia conferma che i neri africanisono stati maestri nel creare istituti per ren-dere innocua e canalizzare l'aggressività digruppo, come la festa orgiastica, la guerra ri-tualizzata, cioè finta (chiamata rotana pressoi Bambara e altre tribù del Continente Nero)o la guerra fatta togliendo le alette alle freccein modo da rendere il tiro impreciso e farepochi danni8. Tutta la storia dell'Africa e

8 M. Fini, Elogio della guerra (i ed. Milano, Mondadori,1989), Venezia, Marsilio, 1999, p. 41.

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delle sue mille etnie è una storia in cui siricercano gli accordi più che i conflitti. E sal-vo le eccezioni owie in una vicenda millena-ria, vale per l'intera Africa ciò che l'antropo-logo inglese John Reader scrive per le popo-lazioni del delta del Niger:

Il rischio di conflitti era altissimo: in terminiantropologici il delta interno del Niger avrebbedovuto essere un «focolaio di ostilità interetni-ca». Eppure ciò che distingue la regione durantei 1600 anni di storia documentata non è la fre-quenza dei conflitti, quanto la stabilità di pacifi-che relazioni reciproche. Con ciò non si vuoldire che non vi siano mai stati contrasti fra igruppi, ma solo che quando scontro vi fu, non siconcluse con la sottomissione dei vinti [...]. IImessaggio che ne consegue è di tipo adattativo[...] il modello prevalente è quello dell'accordointeretnico. Nei racconti la vittoria non era ilvalore supremo e i vincitori assumevano talvoltal'identità dei vinti [...]. Essi trasformano i poten-ziali conflitti fra gruppi in attese di accomoda-mento appropriato, comportamento che a suavolta definisce l'identità etnica in termini di ob-blighi verso gli altri. La gente sa come compor-tarsi perché è consapevole delle differenze e ilreciproco rispetto consente alla tribù di prospe-rare e ai simboli materiali dell'identità di gruppo(acconciature, scarnificazioni, abbigliamento,ecc.) di svilupparsi9.

9 Reader, Africa, cit., p. 197.

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Insomma, profondo senso della propriaidentità, che passa però per il rispetto diquella degli altri. Questa è l'Africa, la «civiltàinferiore» alla quale, con i nostri missionari, inostri filosofi, i nostri cannoni, le nostre fab-brichette, il nostro denaro, siamo andati adar lezioni di moralità e di buone maniere. EReader aggiunge a proposito di tutta l'Africa:«L'identità etnica, che è diventata un elemen-to separatore gravido di conseguenze nellasocietà moderna, è stata spesso in passato unfattore unificante [...]. I bisogni di un'economia comune tenevano unita quella gente. Igruppi si aggregavano per scelta»10.

Il nero, è un istintivo, un «bambinone» -come si poteva chiamarlo prima che le élitesafricane educate a Oxford, oltre a prenderetutti i vizi, compresi quelli ideologici, deglioccidentali e a perdere tutte le buone qualitàdei neri, se ne risentissero - non un violento.Siamo noi che lo abbiamo reso com'è oggi,in Ruanda e altrove.

Ma la globalizzazione non ha disgregatosolo le popolazioni africane e terzomondiste,comincia ad attaccare gravemente anche pae-

Ibid., p. 198.

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si ben più strutturati, come Argentina, Brasi-le, Venezuela, Messico. E altri ancora, se ilmodello globalizzante continua a marciarecon l'attuale spietatezza e incoscienza pen-sando di poter rispondere alle questioni sol-levate dall'11 settembre solo con la forza e laviolenza delle armi potrebbero presto essereinghiottiti dal gorgo. La crisi della Fiat, che siriverbera fatalmente sull'intero sistema-paese,ci dice che anche l'Italia sta entrando nellarumba e che, nella globalizzazione mondiale,sta passando dal ruolo del profittatore aquello della vittima.

Per cui si rischia che si avveri a livelloplanetario la profezia che Marx aveva fallitoper un solo paese. Marx diceva che col si-stema capitalistico i ricchi sarebbero diven-tati sempre più ricchi ma anche sempremeno numerosi, per cui alla fine per cacciarlinon sarebbe stata necessaria alcuna rivolu-zione, sarebbero bastate delle pedate nelsedere. Questa ipotesi nell'Occidente indu-strializzato non si è verificata, sia perché si ècreato un consistente ceto medio (che peral-tro oggi è anch'esso messo in crisi dalla glo-balizzazione, tanto nel reddito che nel wel-fare), sia perché noi abbiamo potuto scarica-re le nostre tensioni economiche sul resto delmondo ritagliandoci ogni sorta di rendite diposizione. Ma adesso, con la competizione

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globale, si rischia che i paesi ricchi si ridu-cano a un pugno, circondati da un mare dimiseria.

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Il Mondialismo

Quella di cui abbiamo parlato finora è laglobalizzazione economica. Che non va con-fusa con il mondialismo, vale a dire con lasua istituzionalizzazione, giuridica e militare,un tema un tempo caro alla Destra italianache se lo è fatto ora scippare dalla Sinistra laquale però, a sua volta, non si rende contoche nell'anti-globalismo c'è un intimo e pro-fondo antimodernismo in diametrale antitesicol suo progressismo e le sue stesse radici.

Globalizzazione e mondializzazione nonsono andate di pari passo. Solo all'indomanidella prima guerra mondiale il presidenteamericano Wilson tratteggiò i primi linea-menti di una «democrazia universale», ma laseconda prowide a distruggere questa illu-sione. Dalla fine degli anni Quaranta la guer-ra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovieticaha impedito qualsiasi ipotesi che vedesse ununico centro di potere mondiale. Anche se,

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da un altro punto di vista, le ideologie cheerano alle loro spalle, il liberalismo e ilmarxismo, sono solo due facce della stessamedaglia. Entrambi sono un parto della Ri-voluzione industriale, sono illuministi, positi-visti, progressisti, ottimisti, modernisti, eco-nomicisti, entrambi hanno il mito del lavoro(per Marx è «l'essenza del valore», per i li-berali e i liberisti è esattamente quel fattoreche, combinato col capitale, dà il famosoplusvalore), sono entrambi industrialismi chepensano che l'industria e la tecnica creeran-no una tale cornucopia di beni da dare lafelicità a tutti (Marx) o, più realisticamenteper i liberali, al maggior numero di uominipossibile. Si dividono solo sul modo di pro-durre e distribuire questa ricchezza e possia-mo dire che il marxismo è semplicemente unindustrialismo inefficiente.

Dopo il crollo dell'URSS l'America, con lacollaborazione, a volte obtorto collo, deglieuropei ha fatto alcuni passi decisivi sullastrada della mondializzazione, travolgendo ildiritto internazionale esistente.

Si è cominciato a metà degli anni Novantain Bosnia. Qui si è stabilito il principio, deltutto nuovo e inaudito, che i popoli non ave-vano più il diritto di farsi la guerra in santapace per risolvere le loro controversie. Laguerra in Bosnia aveva infatti le sue buone

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ragioni d'essere, non diverse da altre guerreche l'hanno preceduta e in particolare quelledi indipendenza su cui si sono fondati moltiStati europei.

Quando, dopo il collasso dell'URSS, Slove-nia e Croazia reclamarono il proprio dirittoall'indipendenza dalla Jugoslavia, sacrosantoin base al principio dell'autodeterminazionedei popoli sancito a Helsinki nel 1975, la co-munità internazionale, soprattutto sotto laspinta della Germania e del Vaticano, fu pre-sta a riconoscerglielo. Allora i serbi di Bosniareclamarono a loro volta il diritto di secedereo di riunirsi alla madrepatria di Belgrado.Una Bosnia multietnica - che oltretutto nonera mai stata uno Stato sovrano a differenzadella Jugoslavia da cui erano uscite Croazia eSlovenia - a guida musulmana, aveva infattisenso solo all'interno di una Jugoslavia mul-tietnica che non c'era più. Ma la Comunitàinternazionale negò ai serbi ciò che aveva ac-cordato a croati e sloveni. E i serbi di Bosniascesero in guerra e dopo sei anni di dure esanguinose battaglie con croati e musulmanibosniaci la stavano vincendo. Ma gli StatiUniti, che pur non potevano vantare la difesadi alcun interesse, né geopolitico, né strategi-co, né economico, in quella regione lontanadiecimila chilometri dal loro territorio e privadi petrolio e altre risorse interessanti, inter-

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vennero, peraltro sobillati dagli europei, af-fermando che bisognava interrompere quelmassacro (se si fosse ragionato a questomodo un secolo e mezzo fa l'Italia nonavrebbe mai potuto farsi unita attraverso leguerre d'indipendenza). In realtà agli StatiUniti interessava insinuare un cuneo di mu-sulmanesimo non integralista - Albania piùBosnia più, in seguito, Kosovo - in Europa afavore del loro più importante alleato nellaregione, la Turchia. Il verdetto del campo dibattaglia fu ribaltato e i serbi da vincitori siritrovarono vinti. Il risultato è che oggi la Bo-snia è uno Stato fittizio, tenuto insieme conlo sputo, una pentola pronta ad esplodereappena si toglie il coperchio della cosiddetta«forza multinazionale di pace», perché è unacostruzione forzata che non rispetta la realtàdei rapporti di forze della regione che inveceera stata esattamente definita dalla guerra.

Le guerre è meglio che non ci siano, ma sevengono fatte è bene rispettarne il verdetto,perché anch'esse hanno una loro logica e unaloro ecologia e andare ad alterarle significaquasi sempre creare guai peggiori di quelliche si volevano evitare11. Un esempio para-digmatico è la guerra Iraq-Iran in cui pur gli

11 Fini, Elogio della guerra, cit.

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Stati Uniti si intromisero pesantemente. Nel1980 l'Iraq di Saddam Hussein aveva aggre-dito l'Iran contando che il cambio di regime,dallo Scià filoccidentale all'integralismo diKhomeini, lo avesse indebolito. In linea dimassima si dovrebbe simpatizzare con l'ag-gredito, non con l'aggressore. I paesi occi-dentali non mossero orecchia, si limitarono ariempire di armi entrambi i combattenti perfare dei bei quattrini sul sangue di iraniani eiracheni. Non olet.

Nel 1985, dopo cinque anni di battaglieche erano costate a entrambe le parti, com-plessivamente, mezzo milione di morti, l'eser-cito iraniano, fatto di straccioni, di ragazzini edi basij', contrapposti al ben più moderno etecnologico esercito iracheno, aveva fatto, aspese del proprio sangue e di quello altrui, ilmiracolo: era davanti a Bassora e stava perprenderla, mettendo cosi fine alla guerra espazzando via il regime iracheno. Ma gli ame-ricani dissero che la presa di Bassora avrebbecomportato un'immane carneficina, che permotivi umanitari non si poteva permetterla ecominciarono a rimpinzare di armi Saddam ea mandare navi nel Golfo per cercare l'inci-dente che legittimasse il loro aiuto12, inciden-

12 L'ambasciatore iraniano all'ONU Korassani, disse: «Man-

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te che alla fine avvenne: un naviglio USA fuaffondato e benché il missile fosse iracheno edi fabbricazione francese l'incidente venneaddebitato lo stesso agli iraniani. Ciò permiseagli americani una serie di sanguinose rappre-saglie durante una delle quali abbatterono unAirbus iraniano, scambiato per un F14 - unavera impresa - con un bilancio di 289 vittimecivili (fra cui 63 bambini), più di quante neavesse fatte, fino ad allora, il terrorismo inter-nazionale.

Risultato dell'intervento «umanitario». Laguerra che si sarebbe conclusa nel 1985 conun bilancio di mezzo milione di morti e lacacciata di Saddam durò tre anni ancora, conun milione e mezzo di morti e con Saddamnon solo in sella ma letteralmente imbottitodi armi.

Cosa fa una rana con un grattacielo d'armisul groppone? Lo rovescia sul primo postoche le capita a tiro, in quel caso il Kuwait.Si dovette quindi fare un'altra guerra, al-l'Iraq questa volta, che provocò la morte di160 mila civili iracheni (fra cui 32.195 bam-bini che non sono meno bambini dei no-

dare delle navi nel Golfo in questo momento e pretendere dinon essere colpiti sarebbe come sdraiarsi su un'autostrada epretendere di non essere investiti». M. Fini, Il conformista, Mi-lano, Mondadori, 1989, p. 227.

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stri)13, ma con la bella trovata di lasciare alsuo posto il principale responsabile, Saddam,in funzione antisciita e anticurda. Per cui do-dici anni dopo il problema Saddam si ri-propone e gli Stati Uniti suonano il cornoper chiamare a raccolta gli alleati e fargli laguerra.

Comunque, per tornare là da dove erava-mo partiti, l'intervento militare americano inBosnia aveva sancito il principio che i popolifuori dall'area occidentale avevano perso ildiritto di fare la guerra e di filarsi da sé laloro storia e che solo le guerre dell'Occidenteerano «giuste», purché le si chiamasse «ope-razioni di polizia internazionale» o, meglioancora, operazioni di peace keeping. Comequella, grottesca, in Somalia: lo sbarco deimarines americani con gli occhiali a raggi in-frarossi per vederci al buio, sotto i riflettori a8.000 watt delle televisioni, scatenate, di tut-to il mondo e dove ammazzammo più somalidi quanti ne avessero fatti fuori i cosiddetti

13 Dati del Pentagono. «La Stampa», 7 marzo 1992. Per laprecisione i morti civili furono: 86.164 uomini, 39.612 donne e32.195 bambini. Come «effetto collaterale» di quell'appoggio aSaddam si possono aggiungere anche i 5.000 curdi gasati adHalabaya dal rais di Baghdad (l'«impresario del crimine» comelo definiva l'ayatollah Khomeini), eccidio passato sotto silenziodalla stampa occidentale, sempre cosi attenta alle questioni'umanitarie', per motivi di opportunità.

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«signori della guerra» (anche questo stereoti-po, «signori della guerra», usato dalla stampaoccidentale per delle bande di straccioni ar-mati di qualche kalashnikov, è significativo,forse i «signori della guerra» vanno cercatialtrove).

II secondo passo è stato la guerra alla Jugo-slavia per il Kosovo. In Kosovo, una regionegrande quanto la metà del Piemonte, stazio-navano ventimila guerriglieri dell'ucK benearmati ed equipaggiati (in parte dagli StatiUniti), che facevano uso sistematico del terro-rismo, com'è sempre nelle guerre partigiane,contrapposti all'esercito e alle milizie parami-litari serbe. C'erano delle buone ragioni dauna parte e dall'altra. Quelle dell'indipenden-tismo per i kosovari albanesi, il diritto di di-fendere un territorio che era loro da secoli,storicamente e giuridicamente, per i serbi.Una questione che, fatte salve le pressioni di-plomatiche, sempre possibili e legittime,avrebbe dovuto essere risolta dalle forze incampo e all'interno dello Stato jugoslavo. Masaltò fuori una categoria giuridica nuova dizecca: quella dei «diritti umani». In un annoe mezzo di guerra e di guerriglia in Kosovoc'erano stati, da parte delle forze paramilitariserbe, due eccidi di civili per un totale di 205vittime (diventeranno 2.000 ma solo dopol'intervento della NATO, dati forniti dai cin-

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quecento osservatori internazionali colà invia-ti). E sempre che fossero tutti civili perché ciòche vediamo ogni giorno in Palestina ci dicecome in una guerra partigiana non sia faciledistinguere un militante da chi non lo è. Co-munque la CNN, questa centrale della disinfor-matja occidentale, cominciò a trasmettere os-sessivamente le immagini di quegli eccidi, maogni volta come se si riferisse a episodi diversie nuovi, creando insieme alle altre TV america-ne ed europee il clima opportuno. La NATO,autoproclamatasi forza di polizia internazio-nale, attaccò la Jugoslavia senza avere l'avallodell'oNu, bombardandola per una settantinadi giorni e uccidendo 5.000 civili, di cui 500albanesi («danni collaterali» naturalmente) econsegnando il Kosovo all'ucK.

Era stato cosi abbattuto il principio di di-ritto internazionale, fino allora mai messo indiscussione, dell'intangibilità della sovranitànazionale e del divieto di ingerirsi militar-mente negli affari interni di uno Stato sovra-no. Adesso questo diritto di ingerenza esiste-va e apparteneva agli Stati Uniti e alla NATO,sulla base della difesa dei «diritti umani». Unmonito per tutti. Ma non bastava. Facendoricorso al ricatto economico e minacciando laJugoslavia di bloccare gli aiuti destinati allasua ricostruzione (per la verità questi aiutidovevano essere elargiti da FMI, ma non im-

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porta) gli americani si fecero consegnare l'excapo dello Stato jugoslavo, Slobodan Milose-vic, un autocrate che peraltro aveva vintodue successive elezioni in un paese dove esi-steva una stampa di opposizione, una satiradi opposizione, e un'opposizione (tanto chepoi avrebbe vinto le elezioni post guerra) pertrascinarlo davanti al Tribunale dell'Aja. Ve-niva così sancito il principio, già sinistramen-te evocato a Norimberga, che i vinti non era-no più solo dei vinti ma dei criminali, deiterroristi e che per loro potevano essere co-stituiti dei Tribunali speciali ad hoc ed expost. Una concezione retroattiva e specialedel diritto che ricorda più o meno quella cheaveva Hitler.

E infatti all'Aja ci stanno Milosevic e altricomandanti serbi, ma nessuno si è mai so-gnato di portarvi il presidente croato Tudj-man autore della più grande «pulizia etnica»dei Balcani con la cacciata, in un solo giorno,di 750 mila serbi dalle krajne. Un'altra gran-de «pulizia etnica» è awenuta in Kosovo, maa danno dei serbi che si sono ora ridotti a 60mila dai 300 mila che erano prima dell'inter-vento della NATO e della messa del Kosovosotto il controllo delle «forze internazionalidi pace».

Nella sostanza la colpa della Jugoslavia,accusata nientemeno di voler creare una

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«Grande Serbia», come se ciò fosse di per séun delitto, come se al suo posto non ci fosseoggi una sorta di «Grande Albania» sottopo-sta al protettorato occidentale, era di essererimasto l'ultimo Stato comunista d'Europa. Ecome sa chi ha qualche anno sulle spalle, seun tempo in Europa bastava essere comunistiper avere ragione, almeno fra l'intellighenzia,adesso è sufficiente per avere torto.

Il terzo passo è stato la guerra all'Afghani-stan (e non «in Afghanistan» come ipocrita-mente si dice). Subito dopo l'11 settembre gliamericani accusarono dell'attentato OsamaBin Laden che si trovava in quel momento inAfghanistan e ne chiesero ai Talebani l'imme-diata consegna. Il governo afgano rispose cheera disponibile purché venisse fornita qual-che prova della responsabilità del califfo sau-dita. Gli americani replicarono: «Le prove leabbiamo date ai nostri alleati». Allora il go-verno talebano, come avrebbe fatto qualun-que governo, rifiutò di consegnare senza con-dizioni una persona che si trovava sul suoterritorio (a parte il fatto che in Afghanistanl'ospite è sacro, ma queste romanticherie tra-dizionaliste non interessano gli occidentali at-tenti solo ai propri valori).

La guerra all'Afghanistan, spianato conmigliaia di tonnellate di bombe e con armianche chimiche (perché tali sono gli ordigni

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che tolgono Paria), e con almeno 5.000 mortifra i civili, non è stata fatta per catturare BinLaden che infatti non è stato preso (Per rag-giungere questo scopo sarebbe stato necessa-rio, invece che sparare nel mucchio e alla cie-ca, mandare le truppe sul campo o forse sa-rebbe bastata un'azione di intelligence vera-mente intelligente).

La guerra all'Afghanistan è stata fatta pertogliere di mezzo i Talebani e occupare quelpaese. Ci sono motivi economici. Da anni lastatunitense Unocal, di cui era ed è consulen-te l'attuale capo del governo afgano, il Qui-sling Karzai, era interessata alla costruzionedi un colossale gasdotto che dal Turkmeni-stan raggiungesse il Pakistan e il mare pas-sando, per la maggior parte, sul territorio af-gano. E nel progetto era ed è coinvolta metàdell'attuale dirigenza americana, da DeepCheney a Condoleezza Rice. I Talebani nonerano di principio contrari ma sembravanopreferire l'argentina Bridas diretta dall'italia-no Carlo Bulgheroni e comunque prendeva-no tempo. Inutile dire chi costruirà ora quelgasdotto, chi ne ricaverà i maggiori profitti equali briciole resteranno al popolo afgano.Inoltre l'Afghanistan, ora che, occupato, sioccidentalizza e vi arrivano televisori, video-registratori, radioline, pile, Nike e tuttoquanto, può diventare un discreto mercato.

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Al momento della guerra, i Talebani, ade-rendo alle annose richieste delle Agenzie in-ternazionali, avevano bloccato da un annole coltivazioni del papavero, da cui si ricaval'oppio. Nessun governo afgano c'era mairiuscito, anzi non ci aveva nemmeno maiprovato. Si trattava infatti di una decisionemolto difficile, quasi impossibile, perché suqueste coltivazioni vivono centinaia di mi-gliaia di contadini afgani e nessuno dei go-verni che si erano succeduti dopo la cacciatadei sovietici aveva avuto l'autorità, la forza,il prestigio e soprattutto la voglia di pren-derla, anche perché i «signori della guerra»che sostenevano quei governi, o ne facevanoparte, vivevano a loro volta sul traffico delladroga. Il mullah Omar, guida spirituale deiTalebani, aveva il prestigio, l'autorità, la for-za, dato che controllava il novanta per centodel paese, anche la voglia perché nella suavisione del mondo l'economia non era lacosa principale, più importante era il Cora-no che vieta la produzione e il consumo del-le sostanze stupefacenti. Quindi, benché ilricavato del traffico d'oppio gli servisse percomprare grano dal Pakistan per sfamare lasua gente, Omar già nel 1998 e nel 1999aveva offerto più volte agli Stati Uniti e al-l'ONU di scambiare la fine della coltivazionedel papavero col riconoscimento internazio-

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nale14. Ma gli americani avevano risposto niete lo avevano imposto anche all'oNU. Ciò no-nostante nell'estate del 2000 il mullah Omardecise autonomamente di proibire la coltiva-zione del papavero e ci riusci. Fatto quasi mi-racoloso se si pensa ad altre esperienze, comequella colombiana. Questo torto all'Occiden-te il mullah non lo doveva proprio fare, per-ché guastava l'immagine che da noi ci si erafatta dei Talebani, integralisti, malvagi, cru-deli, criminali e, soprattutto, irragionevoli,gente con cui era inutile discutere. La stampainternazionale cominciò quindi a scrivere cheera vero che i Talebani avevano bloccato lecoltivazioni di papavero, ma lo avevano fattoper aumentare il valore delle loro scorte datoche il prezzo dell'oppio era salito alle stelle.Insomma la dimostrazione dell'efficacia edella serietà del blocco ordinato dal mullahgli veniva addebitata come una colpa o comeun artifizio. «E va bene - borbottò allora unministro talebano che, essendo afgano, e persopramercato ignorante perché aveva studia-to alle scuole coraniche, non conosceva Eso-po e la favola del lupo e dell'agnello - diteciallora che cosa dobbiamo fare?»

Questa storia dell'oppio era particolar-mente seccante per l'Occidente, perché se la

14 A. Rashid, Talebani, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 147. ;

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sua parte visibile e presentabile, cioè Pagen-zia ONU contro la droga, aveva chiesto la finedelle coltivazioni, quella invisibile e impre-sentabile, vale a dire le grandi organizzazionicriminali che godono di forti appoggi e com-plicità nelle classi dirigenti di parecchi e irre-prensibili Stati, ne erano gravemente danneg-giate. Oggi, con sollievo di tutti, nell'Afgha-nistan di Karzai e delle forze di occupazione,variamente mascherate in forze di pace o chedanno la caccia al fantasma di Bin Laden,dove nessuno controlla niente, è ripreso ingrande stile un colossale traffico di droga.Inutile dire, anche qui, chi tragga i maggioribenefici di questi affari, ai contadini afganirimane meno dell'uno per cento.

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L'Orrore: il mullah Omar

Epperò i motivi economici non sono, unavolta tanto, i principali della guerra all'Af-ghanistan. E che il regime del mullah Omarrappresentava per l'America e l'Occidentel'Orrore allo stato puro. Non per le atrocitàdi cui può essersi macchiato che non sonodiverse né, tantomeno, più gravi, da quellecommesse dall'alleata Arabia Saudita, dovevige la stessa legge coranica imposta dai Tale-bani, o, e ancor più, dall'alleata Turchia doveogni giorno, o quasi, che Dio manda in terrasi levano in volo phantom che vanno a bom-bardare villaggi curdi (ma i curdi, poiché nonsono cristiani né ebrei e nemmeno musulma-ni, ma un antico e fiero popolo tribale, nonhanno santi in paradiso). Né i Talebani pos-sono essere tenuti per responsabili dell'attac-co alle Torri Gemelle e al Pentagono. Nonc'era un solo afgano in quei commando, comenon un solo afgano è stato trovato nei gruppi

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di Al Quaeda (Ci sono arabi sauditi, egiziani,tunisini, marocchini, algerini, giordani, manon afgani e nemmeno iracheni. E i Talebaniche stanno a Guantanamo non sono terrori-sti, ma soldati e ufficiali, prigionieri di guerratrattati come nessuno mai, nemmeno la Ger-mania hitleriana, nemmeno il Giappone aitempi del Mikado, ha mai trattato i prigionie-ri di guerra, in gabbie all'aperto, illuminategiorno e notte. Il solo precedente è ancoraamericano e riguarda il poeta Ezra Pound,accusato di collusione con il fascismo e, so-prattutto, di avere idee economiche pochissi-mo ortodosse, messo in queste condizioni aTombolo, dopo la guerra, ed esposto, comeuna bestia, al ludibrio della folla). Si tratta didue storie, quella dei Talebani e quella di AlQuaeda, diverse anche se hanno corso per uncerto tratto in parallelo per la presenza diBin Laden in Afghanistan.

Il mullah Omar era l'Orrore, più di BinLaden, più di Saddam, più di qualsiasi tiran-no e tirannello mediorientale, col quale sipuò sempre venire, e si venne, a patti. Perchéera veramente l'«altro da sé», l'alieno, il mo-stro. Osava proporre, nell'era della moderni-tà trionfante, avanzante e conquistante, unasorta di «Medioevo sostenibile», cioè una so-cietà regolata sul piano del costume da leggiarcaiche, risalenti al xv secolo arabo-musul-

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mano, non del tutto aliena però dal far pro-prie alcune mirate e limitate conquiste tecno-logiche.

L'ingenuo sogno del mullah Omar è benrappresentato dal dipinto con cui aveva fattodecorare una parete della camera da lettodella sua cosiddetta villa, sette stanze in tut-to: un immenso prato verde attraversato daun'autostrada, con qualche rada ciminierasullo sfondo. Un'Arcadia un po' ritoccata.Perché una cosa il mullah l'aveva capita ointuita: che come certi elementi del modellooccidentale entrano in una società tradizio-nale, come quella afgana, questa ne viene ir-rimediabilmente disgregata, distrutta e ridot-ta alla miseria più nera, materiale e morale.In quest'ottica va vista la distruzione mate-riale degli apparecchi televisivi e il verbotenalla musica occidentale. Utopia? Follia? Deli-rio? Può darsi, ma avrebbero dovuto esseregli afgani a deciderlo, tenendo conto che iTalebani non erano arrivati dalla luna, ma sierano imposti per il loro valore guerriero egodevano del favore di buona parte della po-polazione perché avevano riportato l'ordinein un paese dove i leggendari capi che aveva-no combattuto l'Unione Sovietica, gli Heck-matiar, i Dostum e anche i Massud, a causadella miseria provocata dall'invasione russa edai dieci anni di guerra, si erano trasformati

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in capi mafia che taglieggiavano e vessavanola popolazione, che ammazzavano, rubavanoe stupravano (la carriera di leader del mullahcomincia proprio col salvataggio di due ra-gazze che erano state sequestrate da uno diquesti ladroni e dalla sua banda; il giovanissi-mo Omar, con altri enfants de pays, circondòil luogo in cui erano tenute prigioniere le ra-gazze, le liberò, sconfisse i banditi e ne feceimpiccare il capo all'albero della piazza delsuo paese).

Il mullah rappresentava, agli occhi degliamericani e degli europei l'ideologicamenteintollerabile, uno che poteva diventare anchemolto pericoloso se quella sua visione paupe-rista del mondo, contraria in modo radicalealla modernità, avesse fatto proseliti. Perquesto è stato spazzato via. Era lui l'obbietti-vo, molto più di Osama Bin Laden, un ric-chissimo e ambiguissimo arabo saudita, alcentro di molte manipolazioni.

Se gli americani non fossero stati vittimedell'agghiacciante attacco dell'11 settembreavrebbero dovuto inventarselo. Perché hapermesso loro di spianare e occupare, con unconsenso pressoché unanime, l'Afghanistan epermette ora, in virtù della guerra al «terrori-smo globale», di teorizzare apertamente ciò

che prima dell'11 settembre non era nemme-no pensabile né dicibile, la «guerra preventi-va», oggi contro l'Iraq, domani contro l'Iran,dopodomani chissà (Curiosi, però, gli occi-dentali. Per decenni hanno scomunicato laguerra, diventata il Tabù dei Tabù, bollatacome il Male Assoluto, tanto che sono andatia fermare, con le armi, quelle degli altri -Bosnia, Somalia, Kosovo - e quando la fannonon osano più nemmeno dichiararla, come seil solo nome scottasse loro in bocca, e adesso,improwisamente, abbracciano la più guerra-fondaia di tutte le dottrine, adottata dal piùaggressivo Impero dell'antichità, quello ro-mano: «Si vis pacem, para bellum»). Ma nel-la loro corsa a sconfessare i propri stessiprincipi, gli americani sembrano, in una sortadi inconscio cupio dissolvi, non potersi piùfermare. Ci sono continui aggiornamenti.Adesso dichiarano apertamente che, sconfittoSaddam o magari assassinatolo (e, anche qui,è la prima volta che si teorizza la legittimitàdell'omicidio di un capo di Stato straniero,prima queste cose si facevano, ma di nasco-sto, vergognandosene) instaureranno in Iraqun Protettorato al cui capo metteranno Tom-my Franks, il valoroso generale che, restandoin America, ha spianato l'Afghanistan. Peral-tro protettorati americani di fatto esistonogià in Bosnia e in Kosovo. Un chiarimento,

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dopo tante nobili ed elevate parole spesecontro il colonialismo.

Del resto se ci si cala nelle loro braghe sipuò anche capirli, gli americani. Se loro sonoil Bene - e il popolo americano, se non i suoidirigenti, ma probabilmente anch'essi, lo cre-de in buona fede - diventa un dovere, oltreche un diritto, estirpare il Male.

Purtroppo anche il «terrorismo globale»sta in questa logica. A un mondialismo delBene non può che corrispondere un mondia-lismo del Terrore.

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Il modello paranoico

Tuttavia non è solo dall'esterno che vieneil pericolo per l'Occidente. C'è, più insidio-so, più profondo, un pericolo interno che po-trebbe, prima o poi, saldarsi col primo. Dopol'11 settembre non ci sono state solo folle ter-zomondiste che sono scese in piazza per esul-tare, c'è stata anche una macabra, sotterra-nea, sottaciuta, inconfessata, negata anche difronte a se stessi, soddisfazione nel nostromondo, che va in parallelo, e non in contra-sto, con l'istintivo orrore e la pietà per quellaorrenda carneficina, per quello sventolare difazzoletti bianchi, per quegli uomini che sibuttavano dal centesimo piano. Bisogna purdirlo, una volta, per uscire dalla retorica, fal-sa come tutte le retoriche, del «Siamo tuttiamericani» di «Le Monde» e del «Corrieredella Sera». E l'ha detto anzi l'ha scritto, concrudezza, con lucidità e con coraggio, il filo-sofo francese Jean Baudrillard:

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La condanna morale, l'unione sacra contro ilterrorismo, sono commisurate al giubilo prodi-gioso che nasce dal vedere distruggere la super-potenza mondiale, meglio ancora di vederla au-todistruggersi, suicidarsi in bellezza. Perché è lei,con la sua potenza insopportabile, ad aver fo-mentato questa violenza infusa in tutte le partidel mondo, e quindi anche nell'immaginazioneterroristica che (senza saperlo) ci abita tutti. Chel'abbiamo sognato quell'evento, che tutti senzaeccezioni l'abbiamo sognato - perché nessunopuò non sognare la distruzione di una potenza,una qualsiasi, che sia diventata tanto egemone -è cosa inaccettabile per la coscienza morale del-l'Occidente, eppure è un fatto, un fatto che simisura appunto attraverso la violenza patetica ditutti i discorsi che vorrebbero cancellarlo15.

Non si tratta tanto e solo della meschina evigliacca soddisfazione di vedere raggiuntanel modo più crudele sul suo territorio, perla prima volta nella sua storia, una potenzache da più di mezzo secolo colpisce, contranquilla e spietata coscienza, in quelli al-trui, che ha bombardato a tappeto Lipsia,Dresda, Berlino premeditando di uccideremilioni di civili perché, come dissero i co-mandi politici e militari americani dell'epoca,bisognava «fiaccare la resistenza del popolo

15 J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Milano, RaffaelloCortina, 2002, pp. 8-9.

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tedesco», che ha sganciato una terrificante, eprobabilmente inutile, bomba su Hiroshimae Nagasaki, e che nel dopoguerra ha fattocentinaia di migliaia di vittime innocenti inogni parte del mondo e, da ultimo, in Iraq,in Jugoslavia, in Afghanistan (lo scrittore sta-tunitense Gore Vidal ha contato 250 attacchimilitari che gli americani hanno sferrato sen-za che fossero provocati).

Se cosi fosse saremmo semplicemente nel-l'area dei cattivi sentimenti e si potrebbe pas-sare oltre. Ma c'è qualcosa di più profondo edi più grave. E che gli occidentali, e in parti-colare gli europei, addebitano all'Americauna profondissima frustrazione di cui l'Ame-rica in quanto tale non è più responsabile dialtri, non più di noi stessi. E la frustrazioneche deriva dal fatto di vivere nel «miglioredei mondi possibili» - cosi ci viene sempreripetuto - nel rutilante e fantasmagoricoPaese dei Balocchi, e di non essere né feliciné sereni, ma divorati dall'angoscia, dalla ne-vrosi, dalla depressione, dall'anomia, in mi-sura maggiore del più disperato abitante diun tugurio terzomondista. Perché in questomodello di sviluppo, basato sull'ossessivaproiezione nel futuro, invece che sulla ricer-ca dell'armonia in ciò che già c'è, l'uomonon può mai raggiungere un punto di equili-brio e di pace, ma colto un obbiettivo è co-

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stretto dall'inesorabile dinamismo del sistema- inesorabile e ineludibile perché su esso sifonda - ad inseguirne un altro, fatto un gra-dino a salirne un altro e poi ancora, in un'af-fannosa corsa priva di senso che ha terminesolo con la morte dell'individuo. Come al ci-nodromo i cani levrieri, fra le bestie più stu-pide del Creato, battagliando e mordendosil'un l'altro, inseguono la lepre di stoffa che,per definizione, non possono raggiungere,cosi è l'uomo d'oggi. Ludwig von Mises, unodei più estremi ma anche dei più lucidi teori-ci dell'industrial-capitalismo, dichiara aperta-mente su quale meccanismo, su quale lepreirraggiungibile, si basa «il migliore dei mondipossibili»:

Qualsiasi cosa possa un uomo aver guadagna-to, ciò rappresenta per lo più una mera frazionedi quel che la sua ambizione lo spingeva a con-quistare. Davanti ai suoi occhi c'è sempre genteche ha avuto successo laddove egli ha fallito. Visono persone che lo hanno superato e contro lequali nutre, nel suo subconscio, complessi di in-feriorità. Tale è l'atteggiamento del vagabondoverso l'uomo con un lavoro regolare, dell'operá-io verso il capofficina, del dirigente verso il vicepresidente, dell'uomo che vale trecentomila dol-lari verso il milionario, e cosi via16.

16 L. von Mises, La mentalità anticapitalistica, Roma, Ar-mando, 1988, p. 30.

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Ma benché si renda ben conto che l'interomarchingegno è basato sulla frustrazione el'insoddisfazione, von Mises ne ribadisce ilpresupposto e, capovolgendo venti secoli dipensiero occidentale e orientale, afferma:«Non è bene accontentarsi di ciò che si ha».Ma poiché non si pongono, e non ci sono,limiti a ciò che si può avere la corsa non hamai fine. In termini psichiatrici: una follia.

Confermata dai dati e dalle statistiche.Nell'Europa del 1650 i suicidi erano 2.5 per100 mila abitanti. Nel 1850, un secolo dopoil take off industriale, erano già il 6.8, tripli-cati, verso la fine del xx secolo sono diventatioltre il 20, si sono cioè decuplicati1'. L'alcoli-smo di massa ha inizio con la Rivoluzioneindustriale. Le malattie mentali, depressionee nevrosi, quasi sconosciute nel mondo agri-colo preindustriale, sono diventate un pro-blema sociale nell'Ottocento e nella primametà del Novecento, tanto da dar origine allapsicoanalisi, per esplodere come segno di di-sagio acutissimo, che permea l'intera civiltàoccidentale, nel secondo dopoguerra. NegliStati Uniti 566 americani su mille fanno usoabituale di psicofarmaci. Cioè nel paese gui-da del modello, il più forte, il più potente, il

17 M. Fini, La Ragione aveva Torto?, Firenze, Camunia,1985, pp. 70-71.

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più ricco, quello che gode di straordinarierendite di posizione derivantigli dalla vittorianella seconda guerra mondiale, più di un abi-tante su due non sta bene nella propria pelle,non regge la società in cui vive.

Com'è potuto succedere? Com'è che il Pae-se di Bengodi si è trasformato in un incubo?Vediamo la cosa non dal punto di vista del-l'individuo che lo subisce ma del meccani-smo in cui è inserito. Intorno alla metà delxviii secolo, sempre più o meno in concomi-tanza con la Rivoluzione industriale, si operaun rovesciamento di prospettiva di portatacopernicana. Da una parte, come ha dimo-strato Karl Polanyi (un pensatore, antropolo-go ed economista, al livello dei maggiori mache, per essere tanto anticapitalista che anti-marxista, è sempre stato tenuto sottotono) sipassa da un'epoca nella quale le leggi econo-miche sono in buona misura subordinate alleesigenze e agli scopi della comunità umana, aun'altra nella quale il rapporto si capovolge:le leggi cieche dell'economia prendono il so-pravvento18. Si afferma che le leggi economi-che sono come le leggi della natura e che op-porvisi è quindi stolido: si combinano guaipeggiori di quelli che si volevano evitare. Il

18 K. Polanyi, La grande trasformazione, Torino, Einaudi,1974.

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che è ovvio se al centro di un sistema noimettiamo l'economia, come fanno sia i liberi-sti che i marxisti. Ma ciò vale per qualsiasicosa si prenda come punto di riferimento ese ne faccia un centro e un assoluto. Se iometto al centro del sistema la religione, lenorme etiche diventeranno altrettanto inelu-dibili di quelle naturali, se vi metto uno spil-lo, tutto quanto dovrà in qualche modo girar-vi intorno.

Per quanto possa sembrare oggi strano,per secoli e millenni al centro del sistemanon c'è stata l'economia, che anzi avevaun'importanza cosl marginale da non poternemmeno essere enucleata dalle altre esigen-ze umane (L'economia politica, come disci-plina autonoma, nasce nel xviii secolo, insie-me alla convinzione che le sue siano «legginaturali»). Facciamo un esempio fra gli infi-niti che si potrebbero portare. In un sistemache ha al centro l'economia è basilare il con-cetto di produttività marginale del lavoro, cheè l'accrescimento del prodotto conseguenteall'aumento di un'unità lavorativa. Se questoaccrescimento è insufficiente o nullo, il lavo-ratore, prima o poi, viene espulso e deve cer-carsi un altro posto, se lo trova. In un siste-ma che ha al centro l'economia, e quindi laproduttività, questa è una legge ineludibile,una «legge naturale» perché se l'impresa non

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la rispettasse perderebbe in competitività eprima o poi sarebbe anch'essa espulsa dalmercato insieme ai suoi lavoratori. Che cosasarebbe successo in un'economia tradiziona-le, preindustriale, se su un campo in cui vive-vano dieci persone si fossero accorti che ottoerano sufficienti non solo per mantenere tuttima anche per realizzare un discreto guada-gno sul mercato mentre il lavoro di due era,in pratica, improduttivo? Avrebbero cacciatia pedate nel sedere quei due dicendogli diandarsi a cercare impieghi più produttivi?Nient'affatto. Si sarebbero divisi il lavoro indieci, approfittando del maggior tempo libe-ro per andare all'osteria, a giocare a birilli, acorteggiare la futura sposa. Per quegli uominie quelle donne, una volta assicurato il fabbi-sogno essenziale, erano più importanti i lega-mi affettivi, emotivi, sentimentali, esistenzialiche li univano sulla stessa terra che un even-tuale guadagno da realizzare sul mercato.Perché al centro di quelle società, com'è an-cora oggi nelle realtà del Terzo Mondo noncompletamente devastate dal nostro modello,non c'era l'economia, c'era l'uomo. E infattianche la disoccupazione, questo incubo dellesocietà attuali, è un prodotto della Rivoluzio-ne industriale. Non esisteva nel mondo con-tadino.

Questo da una parte. Dall'altra, sempre

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intorno alla metà del xviii secolo, si ha quella«meccanizzazione della concezione dell'uni-verso», come l'ha definita Dijksterhuis, cheera già dominante nel Seicento a livello di éli-tes filosofiche e che nel Settecento, oltre a di-ventare operativa, si generalizza e finisce, inun lungo processo che ha raggiunto il paros-sismo ai giorni nostri, nel trionfo del princi-pio che «deve essere realizzato tutto ciò chela tecnologia può realizzare».

La Rivoluzione industriale, poi raziona-lizzata daU'Illuminismo nelle sue due varian-ti, liberale e marxista, può essere quindi con-siderata come la combinazione di questo du-plice ribaltamento in cui l'uomo viene subor-dinato ad esigenze, economiche e tecnologi-che, che in qualche modo lo trascendono. Illettore avrà sentito dire mille volte da econo-misti, da politici, da sindacalisti: «Bisognastimolare i consumi per aumentare la produ-zione». Se la si guarda bene questa frase èparanoica. Noi non produciamo più per con-sumare, ma consumiamo per produrre. Ilmeccanismo non è al nostro servizio, ma noial suo, siamo i tubi digerenti, i lavandini, iwater attraverso i quali deve passare il piùvelocemente possibile ciò che altrettanto ra-pidamente produciamo. Siamo il terminaleuomo. Anzi, non siamo più nemmeno uomi-ni, ma consumatori. E nemmeno consumatori

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coscienti e volontari, ma ranocchie che, op-portunamente stimolate, devono saltare an-che quando vorrebbero star ferme, per noninceppare l'onnipotente meccanismo che cisovrasta.

Questa non è una degenerazione del mo-dello, è la sua intima essenza. Se ne era giàaccorto Adam Smith che ne La ricchezza dellenazioni scrive:

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tomobili nei giorni festivi, quando potremmousarla per noi, e non in quelli feriali nei qualiè indispensabile al lavoro e quindi ad alimen-tare il meccanismo produttivo).

L'uomo che vive nel «migliore dei mondipossibili» sconta poi una paurosa perdita diidentità. L'omologazione è una conseguenzaowia della globalizzazione e della mondializ-zazione che esigono e presuppongono unaomogeneità, omogeneità di stili di vita, diconsumi, di istituzioni. Ma la perdita di iden-tità non è solo il pedaggio che nella nostraespansione, necessitata dalle esigenze profon-de della nostra economia e legittimata da unpensiero totalitario che si ritiene portatoredel Bene, abbiamo fatto e stiamo facendoscontare a tutto il mondo «altro», distrug-gendo culture, lingue, specificità, territori,ma l'abbiamo pagata anche noi, sulla nostrapelle e per primi, come singoli individui delmondo occidentale.

Il mondo preindustriale era caratterizzatodalle piccole dimensioni e, entro certi limiti,dalla stabilità. Stabilità delle istituzioni, dellafamiglia, dei ruoli, dei rapporti umani, deglioggetti. Stabilità dello stesso paesaggio. Al-l'interno dei luoghi in cui operava, l'uomo diallora conosceva tutti ed era da tutti cono-sciuto. Si sapeva chi fosse e quanto valesse efiniva per saperlo lui stesso.

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Il consumo è unico fine e scopo di ogni pro-duzione; e l'interesse del produttore dovrebbeessere considerato solo nella misura in cui essopuò essere necessario a promuovere l'interessedel consumatore. Questa massima è cosi chiara-mente evidente di per se stessa che sarebbe as-surdo cercare di spiegarla. Ma nel sistema mer-cantile l'interesse del consumatore è quasi co-stantemente sacrificato a quello del produttore; etale sistema sembra considerare la produzione enon il consumo come il fine e lo scopo definitivodi ogni attività e di ogni commercio19.

Ma il paradosso è destinato ad andare an-cora oltre. La tendenza è infatti che noi nonsi consumi nemmeno più per produrre, ma siproduca senza consumare (vedi, per esempio,i recenti limiti posti alla circolazione delle au-

" A. Smith, La ricchezza delle nazioni, Roma, Newton &Compton, 1995, p. 550.

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E un'armonia complessiva, dove ogniuomo, per povero e marginale che fosse, ave-va una parte, un posto, un ruolo e un senso(o credeva di averlo, il che fa lo stesso), nonera semplicemente spettatore, numero, con-sumatore, quella che è stata irrimediabilmen-te spezzata dalla Rivoluzione industriale e dalmodello di vita che su di essa si è costruito, eche nonostante tutti gli ottimismi positivisticiin contrario, liberali e marxisti che siano,non è stata più ricostituita né tantomeno su-perata in uno stadio più avanzato di progres-so.

Per finire questo rapido excursus sulla im-becillità della modernità - e tralasciandonemoltissima parte, fra cui la totale assenza(contrariamente a tutte le civiltà che ci hannopreceduto) di una cultura della morte, proi-bita, scomunicata, dichiarata pornografica,sostituita dalla malattia, da cui, va da sé, lamedicina tecnologica ci guarirà, e, ancor peg-gio, dall'«uomo a rischio», cioè dall'uomomai veramente sano perché dal momento chevive potrebbe anche morire, e questo è inde-cente, poco dignitoso, vietato, non sta nelquadro di Bengodi, di una società che corregioiosamente verso il futuro senza rendersiconto che nel futuro c'è solo e proprio lamorte, dell'individuo e della specie, e che allavelocità cui stiamo andando noi quel futuro

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lo stiamo accorciando - l'Illuminismo, hacompiuto un paio di errori psicologici cosigrossolani che si stenta a credere che genteintelligente - perché, almeno all'inizio, sitrattava di gente intelligente - abbia potutoconcepirli.

Il primo è aver proclamato il diritto al-l'uguaglianza senza in alcun modo poterlagarantire, anzi avendo, di fatto, accentuato ledisparità, sia economiche che sociali. «Pro-clamare il diritto all'uguaglianza in una socie-tà che ha bisogno di una massa di schiavi sa-lariati vuol dire aver perso la testa» ha scrittoverso la fine dell'Ottocento Friedrich Nietz-sche, uno dei primi ad awertire che cosabollisse in pentola. Nelle società industriali ledisuguaglianze economiche non sono dimi-nuite ma aumentate (ci sono le statistiche adimostrarlo)20, esattamente come, a livelloglobale, sono vertiginosamente aumentate ledistanze fra paesi ricchi e paesi poveri (i qua-li sono diventati più poveri non solo in sensorelativo, rispetto a quelli ricchi, ma assoluto,più poveri di quanto non lo siano mai stati).Ma questo sarebbe il meno. Sono aumentateanche le disparità in termini di stile di vita edi considerazione sociale. Oggi una grande

20 Fini, La Ragione, cit., pp. 101-110.

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pop star, un divo della televisione o del cine-ma, un calciatore, è più lontano dall'uomocomune di quanto lo fosse il feudatario ri-spetto al suo servo. E con una differenzafondamentale. Si tratti di Europa medioevaleo di Oriente la società era divisa in ordini ecaste. La disuguaglianza era cioè codificata elegittimata. Ciò poneva gli individui al riparodalla frustrazione, dall'invidia e dall'odio.Non è colpa mia se non sono nato nobile, senon sono nato re. Quelli partecipano a unaltro campionato e non ho l'obbligo di misu-rarmi con loro. Posso accettare la disparitàcon una relativa serenità. Ma in una societàdove esiste un teorico diritto all'uguaglianzaio non posso sopportare la disuguaglianzadell'«uguale». Perché la vivo come un insul-to, un'offesa o una mia colpa. Ma come cispiega ancora von Mises, proprio questa fru-strazione e questa invidia sono gli ingredientiindispensabili alla società liberal-industriali-sta perché innescano quella corsa senza fineverso i simboli di stato, cioè verso l'acquistodi beni, fossero anche i più inutili (come ilrecentissimo water giapponese che misuraautomaticamente il livello degli zuccheri nel-l'urina, è dotato di elettrodi che vellicano lechiappe, riproduce il suono di sei colonnesonore, risplende al buio e, infine, salutal'utente alzando il coperchio), verso un be-

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nessere che devè essere continuamente supe-rato, necessaria a tenere in piedi l'intero am-baradan.

Come se non bastasse il protestantesimo,la dottrina che, con la sua mitizzazione dellavoro e la redenzione attraverso di esso, èstata un propellente fondamentale del decol-lo industriale, e che a tutt'oggi è dominantenei paesi guida dell'attuale modello di svilup-po, come gli Stati Uniti e la Germania, haavuto la dabbenaggine di considerare il po-vero un dannato da Dio, mentre il ricco èinvece l'Eletto. Per cui oggi il povero non èpiù solo povero, è un reietto, colpevole diesserlo, «un nemico di Dio che porta su disé i segni della dannazione eterna»21. Danna-to qui e dannato nell'Aldilà, non ugualenemmeno nella morte. Laddove la moralemedioevale aveva invece metabolizzato congrande sapienza la povertà. Il mendico, comelo scemo del villaggio, è un individuo che inun qualche suo misterioso modo ha un rap-porto diretto, e per certi versi privilegiato,con Dio. In alcuni casi, attraverso gli ordinimendicanti, la povertà era stata addiritturaglorificata e portata a esempio. In questo laChiesa cristiana era stata peraltro preceduta

21 M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo,Firenze, Sansoni, 1977, p. 209.

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dal pensiero greco. Appena fece la sua com-parsa, nel II secolo avanti Cristo, quello cheviene chiamato il «capitalismo antico», leprincipali scuole di filosofia si misero imme-diatamente ad esaltare i penes e la penia, ipoveri e la povertà, avendo ben capito a qua-le mare di infelicità, e a quali pericoli, si an-dasse incontro se si toglieva alla maggioranzadella popolazione qualsiasi legittimazione esi-stenziale.

Ma proprio sulla felicità, parola proibita,che non dovrebbe essere mai pronunciata,l'Illuminismo ha fatto il suo più grave e defi-nitivo errore psicologico, una sorta di «nor-ma di chiusura», per dirla con lo Zietelmann,che blinda il sistema nella sua paranoia. Haproclamato «il diritto alla felicità». Per la ve-rità non è arrivato a tanto, ha sancito «il di-ritto alla ricerca della felicità», come sta scrit-to nella Costituzione americana. Ma a livellodi massa questo è stato introiettato come undiritto a essere felici. Pensare che l'uomo ab-bia un «diritto alla felicità» significa render-lo, ipso facto e per ciò stesso, infelice. La sa-pienza antica era invece consapevole che lavita è innanzi tutto fatica e dolore, per cuitutto ciò che vi sfugge è grasso che cola. «Lavita oscilla fra noia e dolore» può affermarlosolo Schopenhauer, rentier già corrotto dalbenessere. Per ribaltare ancora la battuta di

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Mefistofele: l'uomo occidentale volendo ecercando ossessivamente il Bene, anzi il Me-glio, si è creato con le sue stesse mani, ilmeccanismo perfetto e infallibile dell'infeli-cità.

Ma questo cappio, questo nodo scorsoio,non ci siamo accontentati di stringerlo inter-no al nostro collo. Lo abbiamo esportato, econtinuiamo ad esportarlo, con coerenzaomicida, nell'universo mondo. Nulla deve ri-manere «altro da noi». Nel rapporto che re-centemente George W. Bush ha inviato alCongresso, dov'è teorizzata la «guerra pre-ventiva», dove si afferma che l'America «nonintende minimamente consentire ad alcunapotenza straniera di colmare l'enorme divarioapertosi negli armamenti», ed è la prima vol-ta che uno Stato pretende il disarmo di tuttigli altri, postulando, in un delirio d'onnipo-tenza, un'egemonia non solo attuale ma eter-na, qualcosa di molto simile al «Reich deimille anni» di Adolf Hitler, si dice anche, amo' di rassicurazione, che l'America userà lasua potenza, divenuta unica, per «il bene del-le società libere». Quali sono le «società libe-re»? Ed esistono società libere, libere di esse-re se stesse, come la loro storia le ha fatte,secondo le proprie tradizioni, i propri costu-mi, la propria vocazione, secondo la volontàe il consenso dei propri membri, quando

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sono sottoposte a un simile diktat? La do-manda è tanto più legittima perché il docu-mento Bush aggiunge: «C'è un solo modellopossibile: la libertà, la democrazia e l'impre-sa, valori che devono essere protetti ovun-que». Non c'è posto per valori diversi. Che ilmodello ha da essere unico, e che deve esserequello occidentale, non è più solo una ten-denza di fatto, ora è un atto costitutivo, quasigiuridico, che sta scritto anche sulla carta. Ela nuova Costituzione mondiale.

Il rapporto Bush, una sorta di vangelo del-la mondializzazione e della globalizzazione,promette inoltre «una battaglia di idee e divalori» anche per il futuro del mondo islami-co. L'Islam, come qualsiasi altra diversità cul-turale, sarà accettato, e potrà continuare adesistere, nel nuovo ordine mondiale, solo nel-la misura in cui si omologherà all'Occidente.Vale per tutti. Abbiamo visto in televisionegli afgani. Sono uomini fieri, audaci, corag-giosi, con una grande dignità persino antro-pologica, fisica, feroci e crudeli anche, certo,ma insomma uomini. Che sanno, proprio invirtù della vita essenziale che conducono, ciòche ha valore e ciò che non ne ha, non bam-bini, deviati, esauriti, svirilizzati da mille gio-cattoli. Quale luminoso futuro andiamo pro-ponendo a questa gente, con l'esportazioneviolenta della nostra democrazia, del nostro

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mercato, delle nostre libertà? Che fra nonmolto anch'essi potranno sedersi la sera da-vanti alla TV e vedere «Quiz Show».

A colonizzare l'intero pianeta non siamospinti solo da nostri interessi, crediamo dav-vero, crediamo sul serio - questo è il viziooscuro dell'Occidente di cui abbiamo parlatoall'inizio - di avere «il migliore dei modellipossibili». E quindi avanziamo ilari, con laverità in tasca e il sole in fronte, senza incer-tezza, senza esitazioni, senza sospetti, senzaresipiscenze. E quando qualcuno, qui in Oc-cidente, osa avanzare dei dubbi sulla bontàdel modello, quasi subito, come racconta Ce-ronetti, si alza in piedi un cretino che con gliocchi iniettati di sangue illuminista urla: «Maindietro non si torna!» Bravo. La tragedia èproprio questa. Idiota. Avanziamo, trasporta-ti da un meccanismo che va per conto suo,per forza autonoma, che è sfuggito, da moltotempo, anche al controllo degli epigoni degliapprendisti stregoni che lo concepirono. Do-cili come buoi, belanti come pecore, ciechicome struzzi che han ficcato la testa nellasabbia, ci lasciamo trasportare dalla corrente,ci facciamo portare al macello senza reagire.Senza fare opposizione. Senza nemmeno cer-care vie d'uscita. Perché manca un pensieroche pensi la modernità. Per la prima voltanella storia dell'Occidente, del glorioso Occi-

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dente di Eraclito, di Parmenide, di Aristote-le, di Platone, di Plotino, dei Padri dellaChiesa, di Agostino, di Tommaso d'Aquino,di Alberto Magno, di Raymond di Pennafort,di Duns Scoto, di Bacone, di Leibniz, diRousseau, di Adam Smith, di David Ricardo,di Kant, di Hegel, di Schopenhauer, di Marx,di Nietzsche, di Heidegger, non c'è un pen-siero che pensa se stesso. Non c'è più unafilosofia che dia un orientamento, non c'è piùuna filosofia, ecco tutto. Non ci sono filosofi.II pensatore di punta del mondo occidentaleè considerato oggi Karl Popper che ha scrit-to: «Affermo che noi viviamo in un mondomeraviglioso. Noialtri occidentali abbiamol'insigne privilegio di vivere nella miglioresocietà che la storia dell'umanità abbia maiconosciuto. E la società più giusta, più ugua-litaria, più umana della storia»22. Ma questonon è un filosofo liberale, è una domesticaliberale. «Tutto va ben madama la marche-sa».

Lo scontro del futuro non sarà quindi fradestra e sinistra, fra un liberalismo trionfante

22 K. Popper, Entretien sur l'économie, in «Revue françaised'économie», n. 2, 1986, p. 63.

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e un marxismo morente - questo lo sappia-mo - ma non sarà nemmeno quello «scontrodi civiltà» fra Occidente e Islam preconizzatodallo studioso americano Samuel Hunting-ton23. Il terrorismo alla Bin Laden sarà, contutta probabilità, una parentesi - magari unalunga parentesi - che aiuterà l'Occidente arafforzare la propria egemonia, a completareil delirio dell'unico modello mondiale, assor-bendo, integrando, innocuizzando, ghettiz-zando, distruggendo ogni altra cultura, Islamcompreso. Non ci saranno guerre di civiltàperché ne rimarrà una sola, la nostra. Ma èall'interno di questa che awerrà lo scontrovero, il più drammatico e violento: fra le éli-tes dominanti fautrici della modernità e lefolle deluse, frustrate ed esasperate, di ognimondo, che non ci crederanno più, avendocompreso, alla fine, che lo spirito faustiano,lo spirito dell'Occidente, opera eternamenteil Bene ma realizza eternamente il Male.

23 S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà, Milano, Garzan-ti,2000.

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