Il potere del silenzio tra medico e paziente

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IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE: IL POTERE DEL SILENZIOdi Luisa Ghianda Esistono diversi tipi di pazienti, affetti da diverse patologie, ma ogni persona ammalata necessita uno scambio profondo e personale nel processo di cura. Il contenuto della comunicazione può essere diverso a seconda della situazione, ma l’attenzione per il “modo” con cui si comunica obbliga sempre alla stessa accuratezza, alla stessa empatia. La comunicazione della diagnosi e della prognosi saranno differenti, il linguaggio sarà adatto al livello culturale dell’interlocutore, ma un elemento spiccherà su tutti, “il silenzio”, quel prezioso silenzio che consente ad una comunicazione vera di realizzarsi. E per silenzio intendo la disposizione all’ “ascolto” della sofferenza altrui, disposizione che necessita una certa “attrazione” verso la sofferenza, non forma di autolesionismo, ma interesse di significato. Un silenzio che può avvenire solo attraverso delicate tecniche maieutiche, dove l’arte di porre domande “in punta di piedi” risulta un elemento strutturante del colloquio.

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IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE: IL POTERE DEL “SILENZIO”

di Luisa Ghianda

Esistono diversi tipi di pazienti, affetti da diverse patologie, ma ogni persona ammalata

necessita uno scambio profondo e personale nel processo di cura.

Il contenuto della comunicazione può essere diverso a seconda della situazione, ma

l’attenzione per il “modo” con cui si comunica obbliga sempre alla stessa accuratezza, alla

stessa empatia. La comunicazione della diagnosi e della prognosi saranno differenti, il

linguaggio sarà adatto al livello culturale dell’interlocutore, ma un elemento spiccherà su

tutti, “il silenzio”, quel prezioso silenzio che consente ad una comunicazione vera di

realizzarsi.

E per silenzio intendo la disposizione all’ “ascolto” della sofferenza altrui, disposizione che

necessita una certa “attrazione” verso la sofferenza, non forma di autolesionismo, ma

interesse di significato. Un silenzio che può avvenire solo attraverso delicate tecniche

maieutiche, dove l’arte di porre domande “in punta di piedi” risulta un elemento strutturante

del colloquio.

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Il silenzio che ho in mente non ha niente a che fare con l’assenza di verbalizzazione,

l’assenza di informazioni, che invece confonde ed incupisce il paziente, assumendo ai suoi

occhi la forma della negazione, della distanza emotiva. Intendo un silenzio atto a permettere

al paziente di raccontarsi.

Solo di fronte all’arte del silenzio il paziente può sentirsi preso in cura nella sua interezza,

può sentirsi accolto come individuo sofferente, degno di rispetto.

Solo nell’arte del silenzio la relazione tra medico e paziente acquisisce una dimensione

umana, sfumando i contorni della dimensione strettamente clinico-assistenziale, quella dove

il paziente si sente solo un numero.

Solo nella gestione del silenzio, ora il silenzio del medico, ora il silenzio del paziente, può

avvenire quella comunicazione difficile da pronunciare, come da ascoltare, la

comunicazione della verità dolorosa, magari di una diagnosi drammatica o di una terapia

ostica.

Penso alla relazione di cura come l’incontro tra due esseri umani alla pari: da una parte il

paziente, con la sua sofferenza, le sue speranze e i suoi dubbi, dall’altra il medico, con la

sua competenza professionale, ma anche la sua empatia. Due partner nella relazione

terapeutica, dove il paziente dismessi i panni dell’oggetto di cura, entra in quelli di co-

partecipante al processo di cura.

Nell’ascolto profondo c’è attenzione, ma questa attenzione è tanto più difficile quando già

nelle prime parole pronunciate dal paziente il medico sente crescere dentro di sé il dissenso

per ciò che viene esplicitato. Un ascolto efficace è faticoso, necessita esercizio e volontà,

silenzio interiore e disponibilità verso l’altro. Ascoltare senza giudicare, criticare o

persuadere, sospendendo giudizi e pregiudizi sembra quanto mai difficile, ma è una

competenza allenabile. Solo nell’ascolto profondo si può capire e apprezzare l’esperienza

dell’altro, i suoi timori, le sue speranze, le sue ansie.

Nell’ascolto profondo c’è umanità. L’ascolto profondo è già di per sé un atto terapeutico.

Affrontare la sofferenza è certamente difficile, increscioso, dispendioso. Ma in medicina il

tempo non è denaro; è anche una terapia. E se l’arte della relazione non si apprende sui

manuali, né si inventa nel momento del bisogno, è altrettanto vero che si può affinare,

educare durante tutta la vita, laddove ci sia sincera motivazione.

Di fronte al paziente straniero la situazione si complica ulteriormente, perché se il successo

di un intervento terapeutico non si misura solo in base alle competenze tecniche del

professionista, ma anche, e forse soprattutto, in base alle sue competenze relazionali, gli

aspetti culturali che connotano la reazione con il paziente straniero non possono essere

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trascurati. Molte le domande a riguardo: i pazienti stranieri come intendono lo scambio con

il medico? Quale tipo di aspettative hanno nei confronti della medicina occidentale, nel

momento in cui provengono da realtà in cui il medico segue pratiche completamente diverse

da quelle in uso nel nostro sistema sanitario? Quanto la non conoscenza di determinati

codici di comportamento può influire sull’instaurarsi di una relazione terapeutica efficace?

Riflettere sulla modalità di costruzione dell’alleanza terapeutica medico-paziente

rappresenta una necessita per quel medico che considera parte dei suoi compiti quello di

aiutare il suo paziente a recepire le informazioni tecniche sui rischi e benefici dei singoli

interventi, ma soprattutto che ritiene fondamentale sostenerlo sia nel fare le scelte più

idonee, sia nel dare un significato a tali scelte, ben sapendo che il paziente è in un momento

di vulnerabilità non solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico.

Riflettere sulle modalità di costruzione di una relazione empatica nasce, dunque, dalla ferma

convinzione che il paziente necessita un medico presente con tutto se stesso, un medico

che sa cogliere la natura psicologica di quel preciso paziente, un medico che ha compreso

che il “modo” con cui comunicherà la verità al suo paziente sarà per questi un’ancora con

cui affrontare la malattia, un medico convinto che stabilire una relazione “emotiva” con il

paziente rappresenta una priorità e non una semplice appendice della relazione di cura, un

medico fermamente convinto che il paziente ha bisogno di essere preso in cura nella sua

dimensione fisica e psicologica.

Certamente stabilire una relazione profondamente empatica può essere faticoso per il

medico, nonché comportare alcuni rischi, non ultimo la perdita dell’obiettività. Questo

accade soprattutto quando l’empatia si trasforma in fusionalità. La comunicazione della

verità può avere certamente un impatto profondo anche sul medico e non solo sul paziente

e sui suoi familiari, soprattutto quando il rapporto emotivo con l’assistito è particolarmente

stretto. In tal caso il medico può affrontare con difficoltà le proprie emozioni e in questo modo

perdere il suo ruolo supportivo.

Questo è il motivo per cui diviene importante per il medico individuare, definire, legittimare

le emozioni e le aspettative coinvolte nella gestione del proprio ruolo professionale, poiché

solo una buona auto-consapevolezza garantisce una gestione sana della relazione

terapeutica. Rendersi conto dei sentimenti che si provano significa trovarne le cause interiori

e immaginarne gli effetti sui pazienti: è umano, ad esempio, che il medico provi rabbia di

fronte all’ipotesi di un insuccesso terapeutico; è umano che utilizzi tale emozione per

difendersi contro l’ansia da insuccesso personale. Ma il parallelo insuccesso

terapeutico/fallimento personale nasce dal mito dell’onnipotenza. E’ un pregiudizio che il

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medico sia onnipotente, è un’illusione che possa curare tutte le malattie. Credenze di questo

tipo rischiano di portare ad una relazione disturbata: eccessivamente empatica, in quanto

troppo coinvolgente, o all’opposto distante, fredda e distaccata. L’ansia da fallimento può

essere utilizzata in modo costruttivo impegnandosi per eludere qualsiasi forma di negligenza

personale, implementando la preparazione tecnica, migliorando i dispositivi terapeutici,

affinando gli scambi relazionali. Al tempo stesso è fondamentale contemplare la possibilità

di un insuccesso, legato a cause varie.

Il progresso del sapere scientifico e tecnologico, reclamando sempre più spazio e impegno,

ha sottratto all’anima tempo e spazio per l’umanità. Ma, come ricorda Eraclito, il sapere

scientifico e umanistico non sono in competizione tra loro. Solo coltivando entrambi gli ambiti

di sapere è possibile lo sviluppo della persona.

Curare l’anima, imparare a creare momenti di silenzio, imparare a distinguere le proprie

voci interiori predispongono il medico ad una migliore capacità di accoglienza dei propri

pazienti ed ad una migliore comunicazione, quella costruita su misura per l’altro, quella

che necessariamente richiede la conoscenza dell’altro, quella comunicazione carica di un

profondo ascolto, fatto di partecipazione emotiva e rispetto dell’interlocutore, per rintracciare

nelle sue parole i suoi vissuti.

Credo che il tema della svalutazione della comunicazione origini da diverse questioni. La

prima è che tutti siamo convinti di sapere comunicare bene. La seconda è dovuta alla

diseducazione all’ascolto. La terza è da ricercare nella cultura del problema, nel senso che

più che “l’uomo con il problema” il medico percepisce, a volte, di fronte a sé il solo

“problema”.

Ritengo, invece, che per affrontare efficacemente la malattia di un paziente non sia possibile

prescindere dalle sue caratteristiche individuali e socio-culturali. E’ fondamentale lasciare

al paziente il posto di soggetto attivo, permettendogli di esprimere la propria sofferenza

fisica e psichica; è fondamentale offrirgli il calore della solidarietà, perché ricevere gentilezza

è terapeutico.

Gli insuccessi terapeutici a volte non dipendono da fattori medici in senso stretto, ma sono

proprio l’espressione della qualità della relazione umana tra quel medico e quel paziente.

Conoscere le basi dell’interazione umana, riconoscere i propri processi e filtri mentali,

affinare le proprie competenze psico-sociali offrono al medico l’opportunità di

“professionalizzarsi” sul piano relazionale, aprendosi ad una partecipazione emotiva alla

relazione di cura, al fine di offrire risposte più soddisfacenti, che non lasciano spazi agli

insuccessi relazionali.