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Anno accademico: 2013/2014 Docente: Gianpaolo Mastroianni IL PENSIERO TEOLOGICO MODERNO Modulo 1

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Anno accademico: 2013/2014

Docente: Gianpaolo Mastroianni

IL PENSIERO TEOLOGICO MODERNO

Modulo 1

IL PENSIERO TEOLOGICO MODERNO

Modulo 1

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Teologia del ‘900

Premessa

La parola teologia è di origine greca ed è composta da due termini, Theos, Dio e

logia - logos, discorso. Teologia è dunque discorso su Dio; fare teologia è parlare

di Dio.

Ma perché fare teologia?

Tante possono essere le risposte, ma quella che più rispecchia il credente, credo,

si fondi sull’esigenza di sistematizzare la propria esperienza di fede sulla base di

categorie razionali e di tentare di definire Dio, di dire Dio in modi umani.

E’ dunque, come diceva il più grande teologo del Novecento, Karl Barth,

un’impossibile possibilità. “Noi siamo uomini e come tali non possiamo parlare di

Dio”. Dio, infatti incontra l’uomo in una relazione dinamica e personale, non

attraverso un sistema di pensiero o una serie di formule. Egli nel libro dell’Esodo

si rivela a Mosè come l’Io sono (Io sono colui che sono), ossia colui che non pu

essere descritto all’uomo attraverso attributi, ma dall’uomo solo incontrato.

Dio ha voluto rivelarsi in Cristo, in primo luogo, inoltre con il suo Spirito, infine

nella Scrittura. La teologia allora pu solo tentare di ri-dire in parole umane questo

incontro, frutto della auto-rivelazione di Dio e per questo è scienza subordinata

alla Parola, all’Evangelo: la teologia per essere buona teologia deve essere

evangelica.

Non tutte le teologie protestanti o cattoliche o ortodosse sono, dunque,

evangeliche.

Oltre ad essere scienza subordinata (alla Parola), è una scienza lieta perché

annuncia la bellezza e la gioia dell’Evangelo, della salvezza. Barth la definiva, così,

scienza lieta, parafrasando e rovesciando il punto di vista di Nietsche che nella

“Gaia scienza” annunciava la morte di Dio.

La teologia, inoltre, per svolgere fino in fondo il suo compito, deve essere

ecclesiale, deve essere, cioè, fatta nella Chiesa e per la Chiesa. Per l’apostolo

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Paolo il ruolo dei dottori, nell’armonia dei ministeri, è quello di preservare la fede

da allontanamenti dalla “sana dottrina, che non ha un valore in sé, come esercizio

accademico, ma ha come finalità quella di edificare la Chiesa, il corpo di Cristo.

Nel tentativo di dare una sistemazione in categorie umane all’incontro con Dio la

teologia ha spesso utilizzato i paradigmi e le categorie sviluppati dall’uomo in

altri ambiti scientifici, in particolare in quello filosofico.

A volte tali categorie hanno costituito un valido supporto, come nel caso della

filosofia greca da cui sono state mutuate le categorie di sostanza-persona, per

concettualizzare la Trinità; l’idea del Logos, per concettualizzare la preesistenza

di Cristo.

In altri casi, come nella teologia liberale, l’utilizzo di categorie filosofiche mutuate

dall’Illuminismo ha messo in serio pericolo l’ortodossia della fede. In altri casi la

teologia ha messo in campo riflessioni nate sul terreno sociale tentando di

interpretare e risolvere in chiave cristiana conflitti e fenomeni politici, come nel

caso della teologia della liberazione. Nel nostro breve itinerario esamineremo

alcuni snodi teologici del Novecento. Per meglio comprendere la teologia liberale

faremo un cenno alla filosofia ed al pensiero illuminista. Il pensiero del grande

filosofo Kant, poi, ci offrirà delle griglie di riflessione con cui in maniera dialettica

si è confrontata la teologia tedesca della prima metà del Novecento, su tutti Karl

Barth.

La Teologia Liberale

La nascita della modernità: l’Illuminismo

La teologia liberale nasce in bonam partem come un tentativo di risposta alle

sfide della modernità.

Sebbene la data di nascita della modernità sia controversa, gli storici in gran

parte considerano il periodo che va dal 1500 alla Rivoluzione francese come gli

inizi della modernità. La modernità vera e propria inizierebbe con la Rivoluzione

francese e l’Illuminismo.

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A partire da Nicola Cusano (+ 1464) e poi con Cartesio, Giordano Bruno e

Benedetto (Baruch) Spinoza, viene messo in discussione il tomismo. Tommaso

d’Aquino e la Scolastica, utilizzando la filosofia aristotelica, dimostravano

l’esistenza di Dio a partire dalla osservazione della realtà risalendo a ritroso alla

causa prima.

Dal XV secolo in poi la dimostrazione dell’esistenza di Dio veniva trasferita sul

piano dell’intuizione, individuando nella ragione, nel pensiero, la continuità tra

Dio e l’uomo. In vari ambiti, poi, si iniziava a fare strada l’idea che il mondo

potesse essere pensato in maniera indipendente da Dio e da principi etico -

religiosi.

Machiavelli, in politica, agli inizi del Cinquecento aveva teorizzato che le scelte

politiche del Principe non dovessero ricondursi ad un’etica dei principi, di origine

divina, ma ad un’etica della responsabilità, cioè dovessero essere finalizzate alla

stabilità ed al controllo del Regno. Il filosofo del diritto, Grozio, poi, aveva

effettuato nel 1625 uno strappo ulteriore elaborando il suo diritto naturale “etsi

deus non daretur” ossia pensando indipendentemente dal fatto che Dio esistesse

o meno . Si erano gettate le basi perché l’uomo pensasse sé stesso

indipendentemente da Dio o che pensasse Dio a partire dalle proprie intuizioni

piuttosto che dai dettami della Chiesa.

Ma è con l’Illuminismo che tale processo giunge a compimento. La parola

Illuminismo deriva dal francese “ Les lumières”, i lumi, le luci. Ad illuminare il

cammino dell’uomo, da quel momento in poi, non sarebbero state verità

consolidate, ma la luce della ragione. Questo non vuol dire che l’utilizzo della

ragione inizi con l’Illuminismo. Anche il medioevo è stata un’epoca in cui l’utilizzo

della ragione era molto forte. Il pensiero di Tommaso d’Aquino ha una fortissima

impronta razionale e si configura come un formidabile tentativo di sostenere la

fede con la ragione. E, d’altro canto, non tutti i pensatori dell’età dei lumi erano

dei razionalisti in senso stretto, come lo sviluppo della massoneria e dei riti

esoterici, avvenuti in quest’epoca, dimostrano. La grossa novità dell’epoca

illuminista, per , consiste nel ruolo centrale che viene dato alla ragione nella quale

viene riposta un’immensa fiducia. Viene meno il principio di autorità, quel

principio per cui esistevano verità accettate a priori, dogmatiche ed indiscutibili.

Tutto va, invece, vagliato alla luce della ragione, tanto la religione, quanto la

cultura, il diritto, le credenze dei popoli, la tradizione. La fede inizia, così, ad

essere messa in discussione e la Bibbia ad essere analizzata come se si trattasse

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dell’Odissea o di un qualunque altro testo parte del patrimonio socio-culturale

umano.

Emmanuel Kant

La filosofia tedesca della fine del ‘700 e dell’inizio dell’Ottocento ebbe, insieme

all’illuminismo francese, una straordinaria influenza sulla teologia protestante del

XX secolo. L’Idealismo, declinazione filosofica della più ampia corrente di pensiero

che va sotto il nome di Romanticismo, la filosofia di Hegel e di Marx e la filosofia

esistenzialista del filosofo danese Søren Kierkegaard, costituirono forme di

pensiero che influenzarono i grandi teologi tedeschi. Se Harnack e tutta la

teologia liberale, come vedremo, furono influenzati potentemente

dall’illuminismo, Troeltsch, Pannenberg, i fratelli Rendtorff si mossero senz’altro

nel solco della filosofia hegeliana nella loro ricerca di Dio nella storia. Marx, poi,

influenz tutte le teologie della liberazione, le cosiddette teologie “dal basso”.

I teologi che si interrogarono sul rapporto tra Dio e l’uomo, sull’antropologia,

sulle modalità di comunicazione della verità di Dio all’uomo, come Barth, Brunner,

Gogarten, Bultmann sono certamente debitori nei confronti della filosofia del

grande pensatore tedesco Immanuel Kant.

Nato e morto a Konigsberg (22 aprile 1724 -12 febbraio 1804), Kant è un Giano

bifronte nel senso che egli, da un lato porta a compimento la lezione illuminista

della piena fiducia nella razionalità, e dall’altro pone la stessa ragione a giudizio,

evidenziando i limiti delle facoltà razionali ed effettuandone un bilancio critico.

Per procedere in una valutazione critica della ragione, Kant ne definisce quelli che

chiama Universali soggettivi, ossia quelle strutture mentali, universali per l’uomo,

ma soggettive, nel senso che sono universali solo relativamente alla specie

umana.

Rispetto all’illuminismo Kant fa un notevole passo in avanti. Per l’Illuminismo la

conoscenza era di tipo quantitativo. L’Enciclopedia di Diderot e D’Alambert

esprimeva lo sforzo dell’uomo, attraverso la ragione, di esplorare e conoscere il

mondo mettendo le conoscenze una al fianco dell’altra. Kant invece, non si

concentra sulla conoscenza come sommatoria di informazioni, ma sulle modalità

attraverso cui l’uomo giunge alla conoscenza attraverso le facoltà razionali. Kant,

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contrariamente agli illuministi, definisce il limite che le facoltà dell’intelletto,

quella che egli chiama la ragion pura, hanno.

Il limite maggiore che egli individua è l’incapacità per la ragion pura di applicarsi

a ci che è trascendente, metafisico, come l’anima e Dio. Il fatto che la ragion pura

tenda alla comprensione di Dio, abbia l’idea di Dio non significa che Dio esista,

potrebbe esistere come non esistere. Pensare un oggetto non significa che esso

esista. L’uomo non pu pensare la cosa in sé, ma solo pensare attraverso le sue

categorie.

Kant ci tiene a chiarire che la sua non è una posizione materialista, ma afferma

che l’esistenza di Dio non pu essere affermata positivamente con le facoltà

razionali. Questo piccolissimo spiraglio lasciato aperto dalla ragion pura viene

recuperato in maniera piena dalla ragion pratica, ossia le facoltà razionali

applicate alle cose pratiche, alle relazioni, all’etica.

In ognuno d noi, dice Kant nella Critica della Ragion pratica, c’è una voce della

coscienza che si determina attraverso degli imperativi che la ragione fornisce ad

ogni uomo e che, come per la ragion pura, sono degli universali soggettivi, ossia

delle determinazioni di tutti gli uomini. “Agisci in modo da trattare l’umanità

come un fine e non come un mezzo” è un imperativo categorico che fa eco

all’evangelico “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Gli imperativi lottano con le

inclinazioni dell’uomo che lo mettono in una situazione di conflitto (potremmo

qui leggere l’eco di Romani 6, con la battaglia tra spirito e carne). La coscienza

morale che ogni uomo ha, in un percorso a ritroso arriva a postulare l’esistenza

dell’anima immortale e di Dio. Attenzione, Kant dice “postulare”, non dimostrare.

Il postulato in matematica è una verità intuitiva senza la quale non si pu

procedere alla dimostrazione di un teorema.

L’uomo che aspira al bene e si scontra con le sue inclinazioni pu continuare a

ricercare i principi etici ispiratigli dagli imperativi categorici solo se postula

l’immortalità dell’anima, cosa che gli consente di continuare a migliorarsi. Il

desiderio di felicità che vi è nell’uomo e la spinta al bene che egli ha, ma che non

si realizza, produce un conflitto nella vita umana. Come è possibile allora che

l’imperativo morale possa coesistere con l’infelicità? Solo, dice Kant, postulando

l’esistenza di Dio ossia di un luogo dove virtù e felicità si incontrano.

Riassumendo: con la Ragione pura, astratta, l’uomo, per Kant non pu né

dimostrare né negare l’esistenza di Dio. Con la Ragione pratica, ossia la ragione

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applicata alla morale l’uomo scopre degli imperativi categorici che scontrandosi

con le contrarie inclinazioni lo inducono a postulare l’immortalità dell’anima. Gli

imperativi morali, scontrandosi con la realtà nella quale regna spesso il caos,

determinano nell’uomo infelicità non vedendo egli realizzate nella realtà le istanze

morali che ha nella sua coscienza. Solo postulando l’esistenza di Dio è possibile la

tensione verso la virtù, altrimenti l’uomo sarebbe un masochista che tende

all’infelicità.

Kant apre dunque la strada ad un approccio esistenzialista che sposta la fede da

un piano logico-razionale, ad uno personale-esistenziale, che sarà fatto proprio da

Kierkegaard (danese) e da una fetta importante del protestantesimo tedesco.

Il protestantesimo liberale

Il protestantesimo tra le varie confessioni cristiane fu quella maggiormente

permeata dall’influenza del pensiero illuminista. Ci è da attribuire ad una serie di

ragioni: la relativa debolezza delle istituzioni ecclesiastiche ed il prestigio delle

università di teologia che sempre più dettavano la linea al pensiero religioso dei

paesi del Nord Europa e della Germania in particolare. In un clima politico

conservatore, inoltre, le università erano il luogo privilegiato del dissenso e della

libertà di pensiero.

Si potrebbe osservare che allo sviluppo della teologia liberale contribuì la natura

stessa del protestantesimo e la sua genetica predisposizione a sfidare l’autorità

religiosa. La forte diffusione dell’illuminismo prima e del romanticismo poi, in

Germania e Svizzera infine, fu un’altra spinta alla nascita della teologia liberale.

Spinse infatti i teologi tedeschi a sentirsi in dovere di confrontarsi con le nuove

idee che si imponevano, nel tentativo di “modernizzare” il cristianesimo per

renderlo compatibile, per così dire, con quella cultura dominante di fronte alla

quale rischiava, a loro avviso, di diventare obsoleto.

Le origini del protestantesimo liberale sono da ascriversi, probabilmente, a

Friedrich Schleiermacher (1763-1834). Egli cerc di rispondere alle critiche

illuministe da un lato ammettendo i limiti della religione alla luce della ragione,

ma dall’altro sottolineando l’importanza del sentimento religioso considerato alla

maniera di Kant un assoluto soggettivo, ossia caratteristico di tutto il genere

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umano. Tale sentimento religioso per i cristiani è reso attuale, come afferm nella

sua opera la “Dottrina della fede”, dalla relazione con la persona di Gesù. In

pratica Schleiermacher faceva proprie le critiche alla plausibilità del cristianesimo

da un punto di vista razionale recuperandolo sulla base del sentimento religioso,

a suo avviso universale. Alla stessa maniera in cui Kant, nella Critica della Ragion

pratica, recuperava la fede sulla base dell’etica.

Adolf Harnack fu il più prestigioso esponente del protestantesimo liberale. Nato

nel 1851, fu professore di storia del cristianesimo come associato a Marburgo ed

ordinario, poi, a Berlino. Fu membro dell’Accademia prussiana delle scienze e

direttore generale della Biblioteca di stato prussiana di Berlino (1905-1921).

Nel1914 gli venne conferito il titolo nobiliare che aggiunse il Von al suo cognome.

Il cristianesimo a parere di Harnack necessitava di una rifondazione, se voleva

continuare ad essere un’opzione intellettuale seria. Il suo progetto, pertanto, fu

teso a trovare un punto di equilibrio tra la fede cristiana e la nuova scienza che si

era imposta. Per dirla alla maniera kantiana si passava dal dogma alla critica, ossia

dal dato assoluto ed indiscutibile, al risultato raggiunto solo a seguito del vaglio

critico della ragione.

La Bibbia, contrariamente a quanto lo stesso Lutero aveva affermato con il “sola

Scriptura”, andava indagata con gli strumenti della critica testuale che, eliminando

ogni idea di ispirazione della Scrittura da parte dello Spirito Santo (II Timoteo

3,16), tentava di ricostruire, con un approccio metodologicamente ateo, la storia

del testo ed i suoi eventuali rimaneggiamenti, con ipotesi di lavoro che spesso

saranno superate da ipotesi successive.

L’idea che il testo biblico come ci è giunto possa essere stato rimaneggiato,

spinse il teologo liberale alla ricerca del “residuo divino” presente in esso. I due

libri di maggiore importanza di Harnack sono: “Storia del dogma” e “L’essenza del

cristianesimo”. Nel primo egli afferma che la vera critica del dogma è la sua storia.

La tesi di fondo è che esista uno scarto tra quanto predicato da Gesù ed il Gesù

raccontato dai vangeli, tra l’annuncio di Gesù e la fede della chiesa.

Il cristianesimo dei primi secoli ha rivestito l’annuncio di Gesù, afferma Harnack,

di categorie mutuate dalle filosofia greca, determinando la nascita dei dogmi

dell’incarnazione del Logos, della trinità, della salvezza. Raggiunta tale

comprensione il compito dei teologi è di “sbucciare” il cristianesimo delle scorie

aggiuntesi nel corso dei secoli per arrivare alla “polpa”, al nucleo centrale.

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Agli albori del XX secolo egli tenne presso l’università di Berlino, nel semestre

1899-1900, una serie di lezioni aperte a tutti gli studenti delle facoltà di Berlino,

dall’ambizioso titolo l’Essenza del cristianesimo raccolte in un libro che avrà

undici edizioni in tedesco.

Alla fine del suo percorso verso le origini Harnack conclude che l’essenza del

cristianesimo, nella versione predicata originariamente da Gesù, “si possa

ricondurre a questi due punti: Dio come padre e l’anima umana nobilitata al

punto da essere in grado di unirsi a lui (ed a lui unita),....” . Harnack, dunque,

taglia fuori tutto il vangelo della salvezza, la teologia della croce, l’escatologia e

la potenza miracolosa dello Spirito Santo, per ricondurre il cristianesimo al

rapporto padre-figlio così come presentatoci nel Padre nostro, ed all’unione

dell’anima dell’uomo con Dio come espresso nel detto di Gesù: “che giova

all’uomo guadagnare per sé anche tutto il mondo se poi perde la sua anima?”,

rendendolo in questo modo a suo avviso universale e non esposto alla critica della

scienza.

I contenuti della lezione di Harnack saranno presto superati e numerosi saranno i

tentativi della teologia liberale di definire nuove “essenze del cristianesimo”.

Resisterà nel corso del tempo il metodo storico critico che verrà per utilizzato con

modalità ed intenti spesso differenti e che, contrariamente a quanto immaginato

dai teologi liberali, problematizzerà il cristianesimo senza giungere a risultati

definitivi né in termini spirituali né scientifici.

Un esempio evidente di tale percorso è costituito dalla ricerca sul Gesù storico.

Obbiettivo di tale ricerca è ricostruire, attraverso uno studio critico delle fonti, il

vero Gesù, il Gesù storico, nella convinzione che esista uno scarto tra l’annuncio,

il Kerigma, fatto dai discepoli e la biografia di Gesù di Nazareth.

La ricerca passa attraverso cinque fasi. Dopo la prima di stampo illuminista ed

hegeliano, che ha come artefici Reimarus e Strauss, alla cui base vi è l’idea che i

vangeli siano il frutto di una mistificazione da parte dei discepoli (Reimarus) o di

una proiezione su Gesù di desideri ed aspirazioni umane (Strauss), vi è la ricerca

liberale su Gesù che cerca di individuare delle fonti che precedono i vangeli ed ha

come maggiore interprete Holtzmann. La terza fase è caratterizzata da una

sostanziale sfiducia nella possibilità della ricerca di pervenire a risultati. Albert

Schweitzer, in particolare, evidenzia il carattere proiettivo della ricerca del Gesù

storico, per cui tutti coloro che si cimentano in ricostruzioni non fanno altro che

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attribuire al Gesù della storia la propria visione della morale e della religione. La

quarta fase della ricerca, che ha in Kaseman, Ebeling e Fuchs i sui massimi

esponenti, cerca di derivare le caratteristiche del Gesù storico per contrasto,

attribuendogli le caratteristiche non in linea con la cultura religiosa ebraica e

dunque considerate originali e pertanto più vicine alla verità. La quinta fase,

infine, con Sanders e Theissen, tra gli altri, utilizza un approccio sociologico per la

ricostruzione del Gesù storico utilizzando al contrario della quarta il criterio di

plausibilità, ossia di coerenza con i fenomeni religiosi contemporanei a Gesù.

Karl Barth (1886-1968)

Il giovane Karl Barth era stato affascinato dalle argomentazioni di Harnack

aderendo, in una prima fase della sua vita, alla teologia liberale. Ci , nonostante la

formazione conservatrice verso la quale il padre Fritz, protestante conservatore ed

insegnante presso l’università svizzera di Basilea, città natale di Karl, aveva

cercato di indirizzarlo. Il padre, infatti, dopo avere fatto studiare il figlio nelle

facoltà conservatrici di Berna e Tubinga, passando per Berlino, dove grande

successo avevano le lezioni di Harnack, aveva dovuto arrendersi alla richiesta di

Karl di frequentare la facoltà liberale di Marburgo. Qui Barth fu affascinato dal

pensiero teologico di Hermann e di Martin Rade, con il quale trascorse molte ore

discutendo di teologia nel corso delle serate nella quali il professore apriva le

porte della sua casa agli studenti.

Quando inizi la sua carriera da coadiutore nella comunità riformata di lingua

tedesca di Ginevra, per due anni le sue prediche ebbero un taglio fortemente

liberale.

A determinare la rottura con la teologia liberale furono, molto probabilmente,

due eventi. Il primo fu il trasferimento a Safenwil, villaggio minerario del cantone

svizzero dell’Argovia, come pastore, dove sarebbe rimasto per dieci anni. Qui la

popolazione era formata in prevalenza da operai, per cui Barth ebbe modo di

confrontarsi con le loro problematiche e rivendicazioni che spos iscrivendosi al

partito socialdemocratico. Ad attrarlo fu, allora, sempre meno il protestantesimo

liberale borghese e sempre più la predicazione spirituale e sociale dei Blumhardt:

Johan, il padre, pastore luterano che aveva dato origine ad un vigoroso

movimento spirituale incoraggiato da guarigioni e miracoli e Christoph, eletto al

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parlamento regionale ed interprete del cristianesimo sociale che ebbe una certa

diffusione nella chiesa protestante. Barth mantenne sempre una posizione

originale (diremmo, come sempre nella sua vita, dialettica) nella sua appartenenza

politica che and maturando con la sua visione teologica e che coinvolse pastori a

lui contemporanei come Herman Kutter e Leonhard Ragaz, non subendo il fascino

del marxismo.

La seconda ragione di rottura con il protestantesimo liberale fu l’adesione di

novantatre intellettuali, tra cui tutti i teologi liberali, compreso Harnack (con la

sola eccezione di M. Rade), alla dichiarazione di guerra fatta dal Kaiser,

Guglielmo II, che decretava lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. A parere di

Barth il manifesto bellicista rappresentava la bancarotta di tale teologia

costituendo solo il naturale esito di un modo di leggere e vivere la fede in

maniera conformista e del tutto appiattita sulla cultura borghese dominante.

Ricorderà Barth: “In questi intellettuali scoprii con orrore tutti i miei maestri

teologici che altamente veneravo. Nella disperazione per ci che questo significava

circa i segni dei tempi, mi resi conto improvvidamente che non potevo più seguire

né la loro etica e la loro dogmatica, né la loro comprensione della Bibbia e della

storia. Almeno per me, la teologia del XIX secolo non aveva più alcun futuro”.

L’adesione alla guerra era, ad avviso di Barth, una diretta conseguenza di una

teologia che aveva espunto dal suo orizzonte la totale alterità di Dio e della sua

rivelazione per ricercare una via non in Cristo, ma nella religione mediata dalla

ragione che smarriva il divino nell’umano arrivando, in ultima analisi, ad una

omologazione nei confronti del pensiero dominante.

Il pastore rosso di Safenwil, come era stato definito Barth per la sua adesione al

socialismo, come spesso era accaduto al cristianesimo nei momenti di crisi,

decideva di ripartire dalla Bibbia, dalla immersione in essa ed in particolare

dall’Epistola ai Romani dell’apostolo Paolo, che, da Lutero in poi, aveva costituito

il grido di battaglia del cristianesimo di fronte alle ideologie dominanti,

pubblicandone una commentario nel 1919. Qui, contrariamente a quanto fatto

dalla teologia liberale, non è l’uomo ad interrogare il testo, ma il testo ad

interrogare l’uomo mettendone in questione ogni espressione. Compito

dell’esegesi, per Barth, divenne stabilire una contemporaneità tra il testo scritto

da Paolo ed il lettore.

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La critica di Barth sarebbe stata fatta propria da una generazione di giovani

teologi, tra cui spiccano i nomi di Eduard Thurneysen, Emil Brunner e Friedrich

Gogarten, che si sarebbero raccolti a partire dal 1922 intorno alla rivista “Fra i

tempi”, il cui titolo alludeva alla sospensione tra il già e non ancora, alla tensione

tra la prima e la seconda venuta di Cristo. Un articolo a firma di Gogarten, dal

titolo, appunto “Tra i tempi” costituiva una condanna senza appello della teologia

liberale: ”Non ci si pu più ingannare, e noi stessi non possiamo più ingannarci, nel

prendere l’umano per il divino … Con tutta serietà ci poniamo l’inquietante

domanda se oggi in genere ci siano uomini capaci di pensare realmente Dio.

Sappiamo che Egli non si è mai nascosto ai semplici (comprendete questa parola?).

Siamo tutti così profondamente incappati nel nostro essere uomini, da aver

perduto Dio per questo.”

Dopo la pubblicazione del commentario all’Epistola ai Romani crebbe la fama di

Barth che fu chiamato a ricoprire un ruolo universitario prima all’università di

Gottinga dal 1921 al 1924, poi alla facoltà di orientamento cattolico di Munster,

quindi a Bonn dove inizi a trasformare le sue lezioni di dogmatica cristiana nel

monumentale libro Dogmatica Ecclesiale che lo occuperà per tutta la vita e

consisterà in 13 volumi e circa ottomila pagine, e che ne farà il più importante

teologo del Novecento e tra i maggiori della storia del cristianesimo.

Nonostante il sostantivo dogmatica rimandi ad un idea di sistematicità, ossia ad

una descrizione delle dottrine che venga racchiusa in un sistema logico e

completo di pensiero, la teologia di Karl Barth più che dogmatica è dialettica. Ci

sta ad indicare il fatto che la rivelazione che Dio fa di sé stesso non si declina in

un sistema di pensiero, ma in un incontro con l’uomo, in un evento che avviene

nel tempo e nello spazio. Ogni tentativo di descrivere Dio è destinato al

fallimento, perché Dio è totalmente altro, è di una qualità totalmente differente

dall’uomo.

Ci determina quella che Barth chiamava l’impossibile possibilità della teologia. Per

questa ragione la teologia non pu che procedere, nel suo impossibile tentativo di

descrivere Dio, per negazioni successive, raccontando Dio in maniera dinamica,

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come si pu provare a fotografare il volo di un uccello, attraverso una sequenza

continua di fotogrammi e non in un unico scatto.

Dal punto di vista filosofico Barth dunque fa propria la critica kantiana alle

possibilità della ragione di riuscire ad imbrigliare Dio, ma se Kant recupera la

possibilità di postulare l’esistenza di Dio a partire dall’etica, per Barth è solo Dio a

potersi rivelare all’uomo. Riferimento della teologia di Barth è il teologo vissuto

nel primo secolo dell’anno mille, Anselmo d’Aosta. Anselmo è conosciuto nella

storia del pensiero teologico cristiano per la cosiddetta prova ontologica secondo

cui Dio è ci di cui non si pu pensare alcunché di maggiore. Tale affermazione

costituisce solo una premessa alla conoscenza di Dio. Per Anselmo non è la

ragione che conduce l’uomo alla comprensione di Dio, ma la fede ad aprire alla

ragione nuove ed inaspettate vie di comprensione. Credo ut intelligam, credo per

comprendere, è il motto di Anselmo che Barth fa proprio in premessa alla sua

teologia.

Se ci è vero l’uomo deve partire dalla rivelazione di Dio e non il contrario. Il punto

massimo in cui Dio si rivela all’uomo, il punto di tangenza tra il totalmente altro e

l’uomo è Cristo, per questo la teologia di Barth è fortemente cristologica.

La totale alterità di Dio viene declinata da Barth in tutti gli ambiti. In ambito

politico, pur essendo un socialista dichiarato e militante, egli mantiene sempre un

certo distacco dalla politica nella convinzione che la parola finale e definitiva sul

mondo appartiene a Cristo e non ad un’ideologia. Quando Barth scriverà la

famosissima Dichiarazione di Barmen, nel 1934, con la quale la chiesa

confessante, di cui fece parte anche Bonhoeffer, prende posizione contro Hitler

contrariamente alla chiesa luterana ufficiale ed alla chiesa cattolica, il fulcro

dell’opposizione al regime è cristologico: “Gesù Cristo, così come ci è testimoniato

nella Sacra Scrittura è l’unica Parola di Dio che dobbiamo ascoltare, nella quale

dobbiamo confidare ed alla quale dobbiamo obbedire, in vita ed in morte.

…..Respingiamo la falsa dottrina secondo cui la chiesa potrebbe darsi o

permettere che le vengano dati capi (Fuhrer) di tipo particolare. Respingiamo la

falsa dottrina secondo cui lo Stato, al di là del suo compito particolare, dovrebbe e

potrebbe diventare un ordinamento della vita umana”.

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Qui Barth ribalta totalmente la tradizionale teoria degli ordinamenti di stampo

luterano. Questa ipotesi teologica affermava che Dio avesse creato istituti che

rendono possibile la vita associata, quali lo Stato, il matrimonio e la professione

secolare. Applicata al nazismo tale dottrina finiva per legittimare tale infausto

regime.

In un altro paragrafo della Dichiarazione di Barmen troviamo un altro spunto

teologico caro a Barth, quello contro la teologia naturale: “Respingiamo la falsa

dottrina in base alla quale la chiesa, come fonte della propria predicazione,

potrebbe e dovrebbe riconoscere, oltre e accanto a quest’unica Parola di Dio,

anche altri eventi e potenze, figure o verità in quanto rivelazione di Dio”.

La totale superiorità della rivelazione divina rispetto ad ogni esperienza umana

informerà anche la sua posizione nei confronti delle religioni. In un testo della

Dogmatica dal titolo “ Il crepuscolo degli dei” Barth scrive: ”La conoscenza di Dio

nel senso del messaggio neotestamentario, la conoscenza del Dio trinitario,

signific in passato, in contrasto con il mondo religioso dei primi secoli, e significa

tuttora il più radicale crepuscolo degli dei. … Non è un caso se ogni genuina

predicazione della fede cristiana fino ad oggi è stata avvertita come un

turbamento, anzi come distruzione proprio dello slancio religioso, della vita, delle

ricchezze, della pace religiosa. Non c’è proposizione più pericolosa e più

rivoluzionaria di questa: Uno solo è Dio e non c’è nessuno che gli sia pari. Tutti i

conservatorismi, ma anche tutti i progressismi vivono di ideologie e mitologie, di

religioni mascherate o anche dichiarate ….Accanto a Dio ci sono solo le sue

creature oppure appunto falsi dei: perci accanto alla fede in lui le religioni non

possono essere che superstizioni ed eresia e, in ultima analisi, incredulità”. Da

questa critica Barth non esime il cristianesimo quando perde la semplicità della

relazione con Dio e quando pretende di disporre della grazia di Dio.

Con la sua teologia Barth è, dunque, fortemente critico nei confronti della

teologia naturale. A partire da Tommaso d’Aquino che aveva dimostrato

l’esistenza di Dio in maniera razionale attraverso le cinque vie, si era in ambito

teologico sviluppato un percorso di pensiero secondo cui dall’osservazione della

natura ed attraverso la ragione si potesse a ritroso arrivare a Dio. La più famosa

delle cinque vie di Tommaso era quella, di matrice aristotelica, della causa prima.

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Osservando il mondo si poteva verificare che in ogni ambito esisteva tra gli eventi

un nesso di causalità, ossia ad ogni effetto corrispondeva una causa. Risalendo a

ritroso si doveva postulare necessariamente una causa prima.

Per Barth la teologia naturale in fondo nascondeva la pretesa dell’uomo di arrivare

a Dio con le sue forze ed in ultima analisi di voler disporre di Dio. La radicalità

della sua posizione, dettata probabilmente anche dal contesto storico e teologico

che aveva avallato la nascita del nazismo, lo porterà ad assumere un posizione

particolarmente dura nei confronti del suo vecchio amico Emil Brunner.

Il suo vecchio compagno, nel tentativo di mitigare la radicalità della dottrina

barthiana, che Bonhoeffer avrebbe, nel suo Resistenza e resa, definita in maniera

critica: “positivismo della rivelazione”, scrisse, in un libretto del 1934, Natura e

grazia. Qui Brunner sosteneva che, pur riconoscendo a Dio la piena iniziativa

nell’azione di redenzione, dovessero esistere nell’uomo dei “punti d’aggancio” sui

quali la grazia potesse fare leva. Barth, che con Brunner aveva condiviso un

percorso comune ai tempi della rivista “Tra i tempi”, replic in un irato volumetto

dal titolo molto semplice :”No! Risposta a Emil Brunner” nel quale negava ogni

possibile spazio ad una sia pur velata possibilità di collaborazione umana al

progetto divino. Tale asprezza, che avrebbe condizionato i rapporti tra i due

teologi per i successivi trent’anni, pu essere compresa solo sullo sfondo delle

tragedie che il nazismo perpetrava in Europa che, a parere di Barth, avevano tra le

varie paternità anche quella della teologia naturale.

Negli anni della maturità Barth mitigherà questa posizione già durante gli anni

della Dogmatica arrivando ad una posizione più matura con il libro l’Umanità di

Dio di cui parleremo più avanti.

La Dogmatica ecclesiale, opera mastodontica di oltre ottomila pagine, era da Barth

stata programmata in cinque sezioni. La prima è costituita dai Prolegomeni ossia

le premesse alla teologia. Qui Barth al posto delle premesse sulle possibilità di

conoscenza di Dio da parte dell’uomo, che normalmente si trovano in tutti i

manuali di teologia dogmatica, parla della Trinità e delle sue modalità di

rivelazione attraverso l’effusione dello Spirito, l’Incarnazione e la Parola,

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significativamente evidenziando, in tal modo, la precedenza di Dio rispetto ad

ogni possibilità umana.

Nella seconda parte Barth analizza il tema della dottrina di Dio, affrontando tra le

numerosissime altre cose il tema della predestinazione. Qui Barth afferma come la

predestinazione non necessariamente abbia un suo duplice volto: predestinazione

a salvezza e predestinazione a dannazione. Se Dio quando rivela il suo vero volto

lo fa in Cristo e nella sua misericordia, allora, dice Barth, non si pu negare la

possibilità di salvezza universale (l’apocatastasi). Non la si pu affermare

positivamente, stando alla Bibbia, ma nemmeno negare.

Nella terza sezione Barth si dedica in quattro volumi alla dottrina della creazione.

Qui parlando dell’antropologia Barth cerca di superare la contrapposizione tra Dio

e uomo che aveva caratterizzato precedentemente il suo pensiero. E lo fa a partire

dall’incarnazione, per cui se Dio si è fatto essere umano questo va compreso a

partire dal sì che Dio ha detto all’uomo.

Il bilancio sull’evoluzione del suo pensiero teologico sarà pienamente compiuto

nel felicissimo libro frutto di una conferenza del 1956 l’Umanità di Dio.

Ricordando i tempi dell’ Epistola ai Romani Barth scrive “Ci che all’incirca

quarant’anni or sono cominciava impetuosamente ad imporsi a noi era più la

divinità che l’umanità di Dio. Io mi sarei trovato in imbarazzo se mi fosse stato

chiesto di parlare dell’umanità di Dio intorno al 1920, quando mi trovavo in

questa sala di fronte al mio grande maestro Adolf Von Harnack. Avremmo - dice

Barth - supposto qualcosa di maligno dietro questo tema”. E più avanti “La libera

partecipazione di Dio all’esistenza dell’uomo, il suo libero intervenire per lui,

questa è l’umanità di Dio. ...Non è forse vero che in Gesù Cristo proprio

l’autentica divinità racchiude in sé anche l’autentica umanità? “. E parlando del

sacrificio di Cristo Barth scrive che nel riflesso dell’umanità di Gesù si manifesta

l’umanità, nella divinità, di Dio. Come Gesù è per l’uomo, così è Dio. “Ed allora

l’affermazione di Nietsche, per la quale l’uomo sarebbe qualcosa che dev’essere

superato, è un’impudente menzogna; allora la verità di Dio è proprio questa e

nessun’altra, per dirla con Tito 3,4: la sua benignità verso gli uomini”.

Barth nutre da sempre una passione per la musica classica. Scriverà in un articolo

che Mozart, considerato espressione della musica secolare, parla di Dio più e

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meglio della musica sacra di Bach in quanto rifletterebbe meglio la non clericalità

di Dio. In una delle sue celebri battute Barth sostiene che gli Angeli di fronte a Dio

suonano la musica di Bach, ma, quando sono tra loro, suonano Mozart e Dio da

dietro l’uscio li ascolta con piacere.

La quarta sezione della dogmatica, la dottrina della riconciliazione resterà

incompiuta e la quinta, quella del compimento, l’escatologia, non vedrà mai la

luce.

L’ultima opera di Barth, Introduzione alla teologia evangelica è una celebrazione

misurata, ma felice della teologia nella quale Barth, pur riconoscendo i limiti della

teologia nella sua impossibile possibilità di parlare di Dio, la presenta per come

egli la ha vissuta, una appassionante occasione per riflettere su Dio.

Conclusioni su Barth

I due aggettivi che normalmente vengono usati per definire la teologia di Barth

sono “dialettica” e “neo ortodossa”. Del carattere dialettico abbiamo detto. Del

ritorno ad un cristianesimo ortodosso abbiamo detto implicitamente parlando

della reazione di Barth alla teologia liberale. Ed in effetti la teologia di Barth è

neoortodossa nella misura in cui rimette al centro della teologia il vangelo, la

auto-rivelazione di Dio, Cristo. La sua battaglia contro la teologia naturale è,

potremmo dire, neocalvinista nel senso che sbilancia tutto il rapporto tra Dio e

l’uomo in favore di Dio e tutta la iniziativa nella rivelazione dalla parte di Dio.

Ogni forma di religione che abbia la pretesa di disporre della rivelazione, pur con

tutte le migliori intenzioni, rischia di scivolare nell’idolatria, sostituendo l’uomo

od una qualche sua espressione, fosse pure la più alta, a Dio.

Dal punto di vista del rapporto con la Bibbia la posizione di Barth è invece un po’

più articolata. Egli è convinto che la teologia cristiana debba essere fondata in

ultima analisi sull’esegesi, ed in questo egli è ortodosso; il teologo deve rendere

contemporaneo il testo biblico per interrogare l’uomo moderno così come

l’evangelo ha interrogato i contemporanei di Gesù. Riguardo al testo biblico, per ,

Barth ha una posizione diversa rispetto al protestantesimo del 17° secolo che ne

aveva teorizzato l’inerranza e l’ispirazione assoluta, anche dei suoni delle parole.

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Per Barth Dio, per rivelarsi, deve sempre adeguare la rivelazione di Sé stesso al

linguaggio umano, fallibile. Questi atti linguistici, in sé limitati ed umani, sono

scelti da Dio per diventare sua Parola in senso derivato. E’ come se la Parola di

Dio, così come da lui proclamata, costituisca il centro di un cerchio più interno

che si trasmette al cerchio più ampio della parola scritta e a quello ancora più

ampio della parola predicata e proclamata. In questo passaggio l’elemento umano

è inevitabile, ma Dio, con la potenza dello Spirito Santo assorbe questa umanità

per rinnovare la rivelazione.

Abbiamo qui una nuova versione del concetto ortodosso di illuminazione in base

al quale la potenza dello Spirito dà alla Scrittura quella potenza che tocca il cuore

dell’uomo rivelando Dio attraverso la Bibbia. Vediamo qui l’eco del pensiero

Kantiano sullo scarto tra il trascendente e la sua comprensione da parte della

ragion pura.

In questa visione la critica testuale, l’analisi della storia del testo, del suo

linguaggio, del contesto storico, hanno un valore preparatorio. Scrisse Barth

nell’introduzione al suo commento all’epistola ai Romani : “Il metodo storico-

critico della ricerca biblica ha la sua ragion d’essere: ha come scopo di preparare

la comprensione, il che non è mai superfluo. Ma se dovessi scegliere tra quel

metodo e l’antica dottrina dell’ispirazione, accoglierei decisamente quest’ultima:

essa ha una maggiore, più profonda, più importante ragione d’essere, perché si

riferisce al lavoro stesso della comprensione, senza la quale ogni preparazione è

priva di valore. Sono contento di non dover scegliere tra i due. Ma tutta la mia

intenzione è stata rivolta a penetrare, attraverso l’elemento storico, nella Spirito

della Bibbia, che è lo Spirito eterno … I nostri problemi sono, se comprendiamo

bene noi stessi, i problemi di Paolo; e le soluzioni di Paolo debbono essere le nostre

soluzioni, se la luce che lo illuminava è la stessa che illumina noi”.

Barth, dunque, non disdegna gli strumenti della critica testuale, ma solo se questi

sono funzionali alla penetrazione delle verità bibliche e alla trasposizione della

universalità del messaggio biblico in contesti storici diversi da quelli dove è

avvenuto il primo annuncio. Insomma Barth per quel che riguarda l’esegesi

disegna una posizione mediana tra la posizione bianca o nera, che vedrà

contrapposti da un lato quanti ritengono la Bibbia un prodotto umano e quanti la

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ritengano ispirata parola per parola. Tale posizione non si fonda su un tentativo di

compromesso, estraneo alla natura del grande teologo, ma alla sua fermissima

convinzione dello scarto assoluto tra Dio e l’uomo con il suo pensiero ed il suo

linguaggio.

Molti intrecci con la vita di Barth ebbe quella di Dietrich Bonhoeffer. Il pastore e

teologo, che morirá assassinato dai nazisti, nasce nel 1906, venti anni dopo Barth.

La sua figura, dal grande fascino e dal notevole spessore morale, costituirà uno

stimolo importante non solo per i teologi ma per numerose generazioni di

credenti.

Figlio di una famiglia della borghesia illuminata tedesca, riceve un' istruzione di

alto profilo e manifesta sin da piccolo una vivacissima intelligenza che lo porta ad

essere un eccellente pianista e a terminare gli studi di teologia a soli 21 anni. Si

reca negli Stati Uniti grazie ad una borsa di studio presso l'Union Theological

Seminary di New york. L'esperienza americana verrà ricordata da Bonhoeffer più

che per gli aspetti legati allo studio della teologia, gli Stati Uniti di inizio secolo

sono alla periferia del pensiero teologico, per le sue esperienze spirituali presso le

chiese nere battiste di Harlem dove scoprirá un cristianesimo fatto di meditazione

della parola e di gioiosa preghiera.

Rientrato in Germania assume nel 1935 la direzione del seminario di formazione

pastorale di Finkenwalde. Tale seminario viene concepito da B. come una sorta di

ritiro, se pur a termine, di stampo monacale, che prevede una vita comunitaria e

celibataria. Qui inizia la amicizia di una vita con Eberhard Bethge che pubblicherá

postume le lettere dal carcere di Dietrich con il titolo Resistenza e resa.

Del periodo di Finkenwalde, probabilmente quello più felice della sua vita, sono le

due opere Sequela e Vita comune. In Sequela il cuore del libro è dato dal capitolo

dedicato alla "grazia a caro prezzo" contrapposta alla "grazia a buon prezzo". Qui

Bonhoeffer non mette in discussione la centralità della grazia, così come

evidenziata da Paolo e Lutero, ma si oppone allo svuotamento che una dominante

interpretazione di comodo aveva fatto fatto della stessa. È vero che solo chi crede

obbedisce, ma è altrettanto vero che solo chi obbedisce crede.

Nel libro Vita comune B. descrive le linee fondamentali di una vita comunitaria

nella quale si alternano momenti di comunione a momenti di solitudine e

raccoglimento personale, nei quali il servizio è l'elemento centrale della vita

vissuta insieme. L'ultimo capitolo è dedicato alla Santa cena ed alla confessione

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che Bonhoeffer, in controtendenza rispetto alla tradizione protestante, ritiene sia

uno strumento importante di crescita e maturazione spirituale.

Traspare da questi due testi l'idea di un cristianesimo come chiamata alla

responsabilità. L'etica non si muove in un ambito teorico e solo all' interno delle

mura di una chiesa, l'etica della responsabilità si declina nel concreto. Non è un

caso che il testo di Etica scritto da B. contenga un'ampia parte di causistica

dimostrando che il cristiano è chiamato più ad un'etica della responsabilità che

dei principi. La chiamata di Cristo, allora, non pu che indurlo a schierarsi contro il

nazismo, prima aderendo alla chiesa confessante e tentando di mantenere in essa

una tensione contro il regime, poi partecipando al complotto contro Hitler

organizzato dal cognato Hans Von Dohnanyi. Per le sue posizioni subirà

numerose vessazioni. Dopo la chiusura da parte del regime del seminario di

Finkenwalde, gli verrà inibita la possibilità di espatriare. Infine, nel 1943 verrà

arrestato e giustiziato il 9 aprile del '45 a Flossemburg, nello stesso giorno in cui

veniva assassinato il cognato Dohnanyi e pochi giorni prima del fratello Klaus.

Dalle lettere pubblicate postume con il titolo Resistenza e resa, oltre ad un tenero

e toccante quadro biografico, emergono acute riflessioni sul tema della

secolarizzazione che, seppur appena abbozzate costituiscono un contributo al

dibattito sul tema che tanto ha coinvolto i teologi del Novecento. Il cristianesimo,

in un mondo ormai diventato adulto, deve trovare un nuovo linguaggio di

comunicazione evitando di ridursi a mero "tappabuchi" presente solo nei momenti

estremi della vita, diventando non religioso. La critica rivolta alla teologia di Barth,

che tanto infastidirá il teologo svizzero quando le lettere verranno pubblicate, di

positivismo della rivelazione, coglie la necessitá del cristianesimo di confrontarsi

fino in fondo con la modernità . Sarà Gogarten a raccogliere la sfida lanciata da B.

con il testo " Destino e speranza dell'epoca moderna" del 1953, nel quale la

secolarizzazione viene considerata come un naturale esito della grazia che pone

l'uomo in una condizione di responsabilità nei confronti del mondo. La

secolarizzazione si distingue dal secolarismo per Gogarten. La secolarizzazione

implica che tale autonomia non espunga Dio dall'orizzonte umano e rimanga alla

base della speranza, mentre il secolarismo propone una prospettiva del tutto atea

e dunque priva di speranza.

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