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Anno accademico: 2013/2014 Docente: Gianpaolo Mastroianni IL PENSIERO TEOLOGICO MODERNO Modulo 3

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Anno accademico: 2013/2014

Docente: Gianpaolo Mastroianni

IL PENSIERO TEOLOGICO MODERNO

Modulo 3

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Dizionario del Movimento Ecumenico

Il movimento conciliare della fine del medioevo. Al tempo delle grandi tensioni

e delle profonde divisioni nella Chiesa d’Occidente (il cosiddetto grande scisma

d’Occidente, 1378-1417), si è avuto un notevole rafforzamento del movimento

conciliare (cf. la voce «conciliarità»). Secondo la teoria formulata da alcuni

canonisti medioevali a partire dal XII secolo, il concilio generale costituiva la

suprema autorità nella Chiesa e lo stesso papa vi era sottoposto; cionondimeno il

principio del primato di Roma non veniva posto in discussione. Il concilio generale

era considerato l’unica autorità in grado di ristabilire l’unità della Chiesa e di

operare quelle riforme radicali che si erano rese necessarie. Il concilio di Costanza

(1414-1418) proclamò solennemente che il papa doveva obbedienza al concilio

generale in tutto quello che riguardava la fede, l’estirpazione dello scisma e la

riforma della Chiesa. I padri conciliari stabilirono anche una convocazione

periodica dei concili, con cui da allora in poi si sarebbe dovuto governare la

Chiesa. La convocazione del concilio di Basilea (1431) era in parte una risposta a

questa decisione, ma a causa dei molti scontri fra i membri del concilio e il papa

di Roma, il concilio andò gradualmente perdendo prestigio, le posizioni estreme

persero di incisività e, alla fine, il papato ne uscì rinforzato. Il concilio Laterano V

(1512-1517) segnò praticamente la fine del movimento conciliare. Le dispute

interne impedirono l’applicazione delle riforme che pure erano riconosciute come

urgenti, mentre il timore di un risorgere del movimento conciliare rese il papa

estremamente riluttante a convocare un nuovo concilio. Tutto questo ebbe

profonde e gravi conseguenze sugli avvenimenti che si svolsero attorno alla

Riforma del XVI secolo.

Verso un «concilio autenticamente universale». Man mano che il movimento

ecumenico è andato chiarendo il proprio scopo («la natura dell’unità che

cerchiamo»), si è fatta sempre più chiara e insistente la convinzione della

necessità di un «concilio autenticamente ecumenico». L’assemblea di Nuova Delhi

(1961) del CEC ha affermato che è venuto il tempo di intraprendere un nuovo

studio sul ruolo dei concili nei primi secoli, sui loro metodi e sulla loro influenza.

Negli anni 1964-1967, la commissione Fede e costituzione ha avviato uno studio

sulla natura e sulla struttura dei concili ecumenici nella Chiesa antica e sul

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significato del processo conciliare in genere per il movimento ecumenico.

L’assemblea di Uppsala (1968) ha chiesto alle Chiese «di lavorare per preparare il

tempo in cui un concilio autenticamente universale potrà parlare ancora una volta

a nome di tutti i cristiani». Nel 1969, il tema è stato ripreso dal comitato centrale

e la commissione Fede e costituzione ha organizzato una consultazione sul

concilio di Calcedonia e sulla sua recezione da parte delle Chiese, come

esplorazione della sua influenza e del suo significato per la nostra situazione

attuale. La descrizione dell’unità che cerchiamo come «comunione conciliare»

all’assemblea di Nairobi (1975) andava nella stessa direzione, dato che estendeva

l’approccio di Nuova Delhi («tutti in ogni luogo»), facendone una confessione di

fede e una vita di comunione a livello universale, considerando la conciliarità

come parte integrante dell’essenza della Chiesa. Dopo l’assemblea di Vancouver

(1983), l’espressione «processo conciliare» è stata usata per indicare un comune

impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato. Ma gli ortodossi in

particolare hanno obiettato contro l’uso del termine «conciliare», dato che per

loro, come per i cattolici, un vero concilio presuppone già l’unità nella fede e deve

rispondere ad alcuni precisi criteri. Il termine è stato quindi abbandonato nei

documenti ufficiali, ma in molti luoghi i cristiani continuano spontaneamente a

considerare le diverse convocazioni a livello locale, regionale e mondiale come

stadi preparatori del lungo cammino verso l’unità. Un giorno essi vorrebbero

celebrare questa unità tutti insieme in una riunione in grado di rappresentarli tutti

e di essere un segno visibile della comunione che unisce tutte le Chiese sparse nel

mondo.

OIKOUMENE. Oikoumene deriva dal verbo greco oikein, abitare. Con il significato

di «terra abitata» o «mondo intero», il termine è stato usato fin dai tempi di

Erodoto (V secolo a.C.). A partire dall’epoca ellenistica il termine è stato usato in

un contesto secolare per indicare l’ambito politico dell’impero greco-romano o la

distinzione culturale fra il mondo civilizzato e i territori dei barbari.

La Bibbia in genere usa il termine in senso profano, come sinonimo di «terra» (Sal

24,1), e senza particolari sottolineature. Nel Nuovo Testamento, la connotazione

politica del termine appare in Lc 4,5-7 (cf. anche Lc 2,1; At 17,6) e nell’Apocalisse

(specialmente 16,14). L’atteso regno di Dio può essere indicato come

l’«oikoumene futura» (Eb 2,5).

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L’uso ecclesiastico del termine, posteriore e molto più comune, deve la sua

origine alla diffusione della comunità cristiana in tutto l’impero romano. Nel IV

secolo, l’oikoumene era già diventata il «mondo cristiano», con il doppio

significato (politico e religioso) di «impero cristiano» e «Chiesa universale».

L’aggettivo oikoumenikos (latino universalis o generalis) viene applicato a tutto ciò

che ha valore universale. Così, la qualifica di ecumenico viene attribuita a certi

concili e alle loro decisioni dogmatiche (cf. la voce «concili ecumenici») o, in senso

onorifico, a determinate sedi patriarcali o a importanti maestri della Chiesa

universale.

Nella tradizione cattolica e ortodossa, che ha conservato memoria dell’antico

legame fra la Chiesa e l’impero, l’uso del termine si è conservato, anche se il suo

significato è diventato sempre più tecnico. Le Chiese della Riforma, che si sono

trasformate in entità regionali o nazionali, per oltre duecento anni hanno perso di

vista la dimensione ecumenica. Il risveglio pietista (con Nicholas von Zinzendorf e

altri) ha portato alla riscoperta della vocazione missionaria mondiale della Chiesa,

nonché al risveglio della coscienza dell’unità cristiana e della fraternità, al di là

delle diversità nazionali e confessionali (Alleanza evangelicale, 1846). In entrambi

i contesti, si è ripreso l’uso del termine «ecumenico», anche se il suo significato

specificamente moderno descrive piuttosto l’atteggiamento spirituale di chi è

cosciente dell’unicità del popolo di Dio e prova un ardente desiderio che essa

venga ristabilita (Söderblom).

L’uso attuale del termine è in gran parte legato alla nascita e all’organizzazione

del movimento ecumenico, espresso in particolare dal CEC, e alle diverse reazioni

di fronte a questa nuova realtà. Già nel 1951, attraverso una dichiarazione del suo

comitato centrale, il CEC espresse la propria concezione del termine «ecumenico».

In quella dichiarazione si diceva che, in base al suo significato greco originale, il

termine dovrebbe venir usato per «descrivere tutto ciò che si riferisce a tutto il

mandato di tutta la Chiesa di portare il Vangelo a tutto il mondo. Esso indica

perciò... sia l’unità che la missione nel contesto del mondo intero». L’esperienza

ha dimostrato che è difficile mantenere la tensione espressa da questa

definizione.

La Chiesa cattolica romana, che inizialmente aveva manifestato forti riserve in

merito, ha finito per accettare questo nuovo uso del termine, pur ponendo

l’accento esclusivamente sull’aspetto dell’unità. Il decreto Unitatis redintegratio

sull’ecumenismo del concilio Vaticano II (1964) dichiara: «Per “movimento

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ecumenico” si intendono le attività e le iniziative... suscitate e ordinate a

promuovere l’unità dei cristiani» (n. 4; EV 1/509).

Le Chiese ortodosse hanno attivamente partecipato al movimento ecumenico fin

dall’inizio. Esse hanno criticamente definito la loro concezione del movimento

ecumenico come «ecumenismo nel tempo»: «L’obiettivo immediato della ricerca

ecumenica è, secondo la concezione ortodossa, una reintegrazione dello spirito

cristiano, una ripresa della tradizione apostolica, una pienezza di visione e di fede

cristiana, in accordo con tutti i tempi» (Nuova Delhi 1961).

Fra le Chiese della Riforma non esiste una comune visione dell’ecumenismo. Per

molte Chiese protestanti in situazione maggioritaria, il termine «ecumenico»

indica le loro relazioni esterne con le Chiese degli altri paesi. Per le Chiese che

vivono in contesti dove esiste una molteplicità di denominazioni, il termine

«ecumenico» indica l’incontro e la convivenza fra le diverse Chiese. Per molti, il

movimento ecumenico rappresenta la manifestazione dell’impegno cristiano per

l’avvento di una comunità mondiale nella giustizia e nella pace. Al di là e contro

questo «ecumenismo secolare» gli evangelicali conservatori invocano un

«ecumenismo confessante» che riunisca i veri credenti da tutte le Chiese.

Gli aspetti ecclesiali e secolari, spirituali e social-missionari sono tutti parte

integrante di una concezione esaustiva dell’oikoumene. Oikoumene è un concetto

relazionale, dinamico, che va oltre la comunione dei cristiani e delle Chiese ed

abbraccia la comunità umana e tutta la creazione. La vocazione permanente del

movimento ecumenico è quella di trasformare l’oikoumene, intesa come «terra

abitata», nella famiglia vivente (oikos) di Dio.

VITA E AZIONE. Già anteriormente alla prima guerra mondiale, i movimenti

cristiani per la pace avevano discusso spesso dell’idea di formare un movimento

di Chiese a livello mondiale per operare per la pace e la giustizia fra le nazioni.

Durante la guerra, la cosa apparve ancora più necessaria e urgente. Molti capi di

Chiese cominciarono a vedere in quel conflitto armato un’immane catastrofe

umana e sociale e a rendersi conto che le loro Chiese nazionali avevano fatto ben

poco per prevenirla e che anzi spesso vi avevano partecipato con eccessiva

prontezza. Anche se i capi delle Chiese dei paesi neutrali avevano incoraggiato i

tentativi di porre fine al conflitto, ben poche Chiese delle nazioni belligeranti

erano pronte ad affrontare i problemi politici e morali che un simile coraggioso

atteggiamento avrebbe comportato.

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Alla fine del conflitto, le Chiese progettarono una conferenza che fornisse un

contributo e un sostegno per una pace giusta e duratura e formulasse la risposta

cristiana ai problemi economici, sociali e morali di un mondo appena uscito dal

trauma della guerra. Nell’agosto del 1920, 90 capi di Chiese, in rappresentanza di

Chiese protestanti di 15 paesi, si incontrarono a Ginevra per programmare una

conferenza cristiana a livello mondiale. La figura più nota e prestigiosa della

riunione di Ginevra era Nathan Söderblom, arcivescovo della Chiesa luterana di

Svezia, ecclesiastico dotato di un profondo senso sociale, di notevoli talenti come

diplomatico e uomo di governo e posseduto da un’autentica passione per l’unità

dei cristiani. Söderblom, propose che la conferenza mondiale delle Chiese sui

problemi sociali si pronunciasse a favore di un eventuale concilio ecumenico delle

Chiese. Di conseguenza, l’invito a prendervi parte fu esteso a tutte le Chiese,

comprese la Chiesa cattolica romana e le Chiese ortodosse. Come presidente del

comitato incaricato di preparare la conferenza, Söderblom, immise in questo

avvenimento assolutamente senza precedenti tutto il calore della sua visione

ecumenica. La conferenza cristiana mondiale di Vita e azione si tenne a Stoccolma

nell’agosto del 1925.

Il titolo «Vita e azione» esprimeva la volontà degli organizzatori di promuovere «lo

stile di vita cristiano» come «il maggior bisogno del mondo». Lo scopo della

conferenza era quello di «formulare programmi ed escogitare mezzi... grazie ai

quali, attraverso la Chiesa di Cristo, si potesse realizzare più pienamente la

paternità di Dio e la fraternità di tutti i popoli». Sfortunatamente, questo obiettivo

ideale non venne sostenuto da una valutazione realistica degli immensi e

complessi problemi che la società fu chiamata ad affrontare negli anni che

seguirono la guerra. Non sorprende, quindi, che i risultati della conferenza di

Stoccolma non siano stati pari alle sue aspettative.

La forza spirituale della conferenza di Stoccolma fu tutta nella sua idea che «il

mondo è troppo forte per una Chiesa divisa»; la sua debolezza nella sua

deliberata e puntigliosa attenzione ad evitare i problemi teologici, in base al

principio che «la dottrina divide, mentre il servizio unisce». In realtà, la conferenza

si divise profondamente quando si trattò di stabilire un collegamento fra la

speranza cristiana del regno di Dio e la responsabilità della Chiesa nei confronti

del mondo. Su questo punto, la conferenza si espresse in modo troppo vago,

abbandonandosi a tutta una serie di affermazioni generiche sulla necessità di

«applicare il Vangelo in tutti i settori della vita». Le dure realtà del crescente

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disordine politico ed economico mondiale, negli anni 1929-1933, e l’avvento del

nazismo e di altri sistemi totalitari vanificarono le speranze ottimistiche e ideali

della conferenza di Stoccolma e obbligarono il movimento ad impegnarsi più

profondamente nell’analisi e nello studio della situazione sociale e spirituale

mondiale.

Fortunatamente in quegli anni e in quel preciso momento critico, i nuovi sviluppi

della teologia contribuirono a dare una nuova vitalità spirituale al movimento Vita

e azione: la teologia barthiana in Europa; dinamiche forme di teologia neo-

ortodossa in Nord America (specialmente nel pensiero di Reinhold Niebuhr); la

teologia ortodossa, rivitalizzata da pensatori russi quali Sergius Bulgakov e

Nikolas Berdyaev. Quando, nel 1934, iniziarono i preparativi per la seconda

conferenza di Vita e azione (Oxford 1937), i nuovi responsabili del movimento

erano fermamente decisi a dare al loro lavoro un più solido fondamento teologico

ed etico. Questo sforzo vide in prima fila due ecclesiastici inglesi: William Temple,

allora arcivescovo di York, e J.H. Oldham, segretario del Consiglio missionario

internazionale. In breve tempo, furono pubblicati ben sette studi teologico-etici:

The Christian Understanding of Man; The Kingdom of God and History; The

Christian Faith and the Common Life; Church and Community; Church,

Community and State in Relation to Education; The Universal Church and the

World of Nations; The Church and Its Function in Society. In base a questi studi

teologici pionieristici, il movimento Vita e azione riformulò la propria concezione

del ruolo della Chiesa nella società.

Il tema centrale del nuovo approccio teologico-etico è riassunto da un’espressione

di Niebuhr che si trova in uno dei volumi sopra citati: «È una teologia pericolosa..,

quella che non si rende conto del rapporto dialettico esistente, in ogni momento

dell’esistenza, fra il regno di Dio e il mondo peccatore, fornendo, al tempo stesso,

sia il giudizio sia un miglior punto di vista su ogni problema di giustizia».

Questi studi preparatori per la conferenza di Oxford rappresentarono,

indubbiamente, un notevole contributo ecumenico e culturale del movimento Vita

e azione. Essi riunivano i saggi di diverse centinaia fra i maggiori pensatori,

teologi e laici, del tempo e dei rappresentanti di tutte le maggiori comunità

denominazionali e confessionali e fecero veramente di Vita e azione un

movimento in grado di aiutare le Chiese e la società civile ad affrontare i problemi

politici e sociali. Il rapporto della conferenza di Oxford sul suo tema

fondamentale, «Chiesa, comunità e stato», costituisce il primo autentico

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documento teologico sul ruolo dei cristiani nel mondo moderno. La sua influenza

sul pensiero protestante e ortodosso può essere paragonata a quella di encicliche

sociali della Chiesa cattolica romana quali la Rerum novarum di Leone XIII (1891)

e la Quadragesimo anno di Pio XI (1931).

Il rapido progresso di Vita e azione negli anni 1934-1937 ne fece un attivo

propulsore della formazione del CEC («in via di formazione») nel 1938. Nelle sue

memorie, W.A. Visser ’t Hooft mostra chiaramente che, al momento della fusione

dei due movimenti per formare il CEC, il movimento trainante fu Vita e azione,

mentre Fede e costituzione fu quello più incerto ed esitante. In realtà, Vita e

azione vedeva nella tumultuosa e pericolosa situazione sociale del mondo di

quegli anni una ragione in più per spingersi decisamente in avanti e procedere

alla formazione di un consiglio ecumenico delle Chiese dinamico e informato. Solo

così si sarebbero potute aiutare le Chiese a fare tutto quanto era in loro potere

per portare al mondo, che attraversava un momento di grande confusione

spirituale e sociale, lo spirito del Dio vivente. E con la sua forte accentuazione del

contributo dei laici, il movimento Vita e azione, allargò enormemente il campo del

sostegno e dello sforzo ecumenico, raggiungendo il mondo delle università,

dell’amministrazione politica e della vita sociale, alla ricerca di nuovi talenti e di

nuovi settori di avanzamento ecumenico. In questo senso è giusto affermare che

Vita e azione ha condotto il movimento ecumenico ben al di là dei confini che gli

erano stati assegnati da Fede e costituzione o dal Consiglio missionario

internazionale.

Dobbiamo soprattutto a Vita e azione e al suo lavoro pionieristico se oggi il

movimento ecumenico si interessa così attivamente a temi quali le relazioni

internazionali, il razzismo, la giustizia e l ordine in materia economica, la

democrazia, i diritti umani, la libertà religiosa, ecc. Cf. la voce «Chiesa e mondo».

CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE - CEC. Questa voce tratta delle origini,

del fondamento, della natura e dello scopo, delle funzioni, dell’organizzazione e

delle strutture del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC). Diverse altre voci di

questo Dizionario trattano degli sviluppi degli studi e delle attività che il CEC ha

lanciato e promosso attraverso i suoi programmi e il suo personale.

Origini. Il CEC venne formalmente costituito il 23 agosto 1948, in occasione della

sua prima assemblea generale tenuta ad Amsterdam, Esso è diventato la maggiore

espressione internazionale visibile delle varie correnti della vita ecumenica del XX

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secolo. Due di queste correnti - Vita e azione e Fede e costituzione - si fusero in

occasione della prima assemblea; una terza corrente - il movimento missionario

organizzato nel Consiglio missionario internazionale - si integrò nel CEC nel 1961,

in occasione della terza assemblea (Nuova Delhi); una quarta corrente - quella

dell’educazione cristiana - vi entrò nel 1971, con la fusione nel CEC del Consiglio

mondiale per l’educazione cristiana.

Ognuno di questi movimenti è più ampio e più profondo di qualunque sua

espressione strutturata, compresa la colleganza delle Chiese in seno al CEC. Il

cristianesimo «applicato» o «pratico», per esempio, è stato istituzionalizzato non

solo nel movimento Vita e azione, ma anche nell’Alleanza mondiale per la

promozione dell’amicizia internazionale attraverso le Chiese (1914). Alcuni

organismi missionari mondiali, come ad esempio il Comitato di Losanna per

l’evangelizzazione del mondo continuano ad assolvere molti degli scopi originari

del Consiglio missionario internazionale. Il dipartimento Giovani del CEC non è

mai riuscito a prendere il posto delle Associazioni cristiane della gioventù

maschile (YMCA), delle Associazioni cristiane della gioventù femminile (YWCA) o

della Federazione mondiale degli studenti cristiani. E, d’altra parte, nessuno

pretende che la commissione Fede e costituzione possa riunire e centralizzare

tutta la stupefacente varietà della riflessione teologica e biblica.

Nel 1920, la Chiesa di Costantinopoli (il Patriarcato Ecumenico) fu la prima Chiesa

a chiedere apertamente la creazione di un organo permanente di collegamento e

cooperazione di «tutte le Chiese», una «Società delle Chiese» (koinonia ton

Ekklesion) simile alla proposta fatta dopo la prima guerra mondiale di una Società

delle nazioni (koinonia ton ethnon), La stessa richiesta venne avanzata negli anni

venti da responsabili di singole Chiese, come ad esempio l’arcivescovo di Svezia,

Nathan Söderblom, tra i fondatori del movimento Vita e azione (1925), e da J.H.

Oldham (Gran Bretagna), tra i fondatori del Consiglio missionario internazionale

(1921).

Nel luglio del 1937, alla vigilia delle conferenze mondiali di Vita e azione (Oxford)

e di Fede e costituzione (Edimburgo), i rappresentanti dei due movimenti si

incontrarono a Londra, dove decisero di fondere i due movimenti e di dar vita ad

un’assemblea pienamente rappresentativa delle Chiese. Riguardo alla natura e agli

scopi dell’erigenda associazione, si accordarono, fra l’altro, su quanto segue:

«Essa non avrà alcuna autorità di legiferare per le Chiese o di impegnarle

nell’azione senza il loro consenso, ma se vuole essere efficace, dovrà meritare e

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guadagnare il rispetto delle Chiese a tal punto che le persone più influenti nella

vita delle Chiese sentano il desiderio di consacrare tempo e attenzione al suo

lavoro». Si previde di coinvolgere attivamente anche i laici, «coloro che occupano

posti di responsabilità e di influenza nel mondo civile» e di «creare uno staff

dirigente di grande qualità intellettuale». S. Mc Crea Cavert (Stati Uniti) suggerì di

chiamarla «Consiglio ecumenico delle Chiese».

Sia la conferenza di Oxford che quella di Edimburgo accettarono la proposta e

nominarono sette membri di un comitato di 14 membri per formare il CEC. Riuniti

a Utrecht nel maggio del 1938, i membri del comitato crearono un comitato

provvisorio responsabile del Consiglio ecumenico delle Chiese «in via di

formazione». William Temple, arcivescovo di York e in seguito di Canterbury,

venne nominato presidente e l’olandese W.A. Visser ‘t Hooft segretario. Il comitato

provvisorio stabilì una solida piattaforma per il CEC, risolvendo delicati problemi

costituzionali relativi al suo fondamento, alla sua autorità e alla sua struttura.

Nell’ottobre-novembre del 1938, il comitato provvisorio spedì inviti formali a 196

Chiese e Temple scrisse una lettera personale al Segretario di stato del Vaticano.

Nello stesso 1938, in occasione del suo incontro a Tambaram (India), il Consiglio

missionario internazionale si mostrò interessato al piano del CEC, ma decise di

continuare come organismo separato. Un certo numero di società missionarie che

ne facevano parte non volevano ricadere sotto il controllo delle Chiese e, d’altra

parte, si temeva che le Chiese del Nord America e dell’Europa non avrebbero

concesso alle giovani Chiese che andavano sorgendo altrove il posto che esse

meritavano. Cionondimeno, il Consiglio missionario internazionale facilitò

l’ingresso di queste Chiese nel CEC, si «associò» con esso nel 1948 e poi si

integrò in esso nel 1961.

Nel 1939, il comitato provvisorio programmò la prima assemblea generale del

CEC per l’agosto del 1941, ma la seconda guerra mondiale venne ad intralciare i

progetti e il periodo di gestazione del CEC si prolungò per quasi un decennio. Fra

il 1940 e il 1946, il comitato provvisorio non poté funzionare normalmente

attraverso i suoi comitati responsabili, ma i suoi membri ed altri si riunirono negli

Stati Uniti, in Inghilterra e in Svizzera. Sotto la guida di Visser ‘t Hooft, a partire da

Ginevra vennero organizzate durante la guerra diverse attività che contribuirono

alla testimonianza sovrannazionale della Chiesa: servizi di cappellania; lavoro fra i

prigionieri di guerra; assistenza agli ebrei e ad altri rifugiati; trasmissione di

informazioni alle Chiese; preparazione, attraverso contatti con i leader cristiani di

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ogni parte del mondo, della riconciliazione e dell’aiuto interecclesiale una volta

che la guerra fosse finita.

Dopo la guerra, il comitato provvisorio si incontrò a Ginevra (1946) e a Buck Hill,

Pennsylvania (1947). Il comitato poté affermare che la tragica esperienza della

guerra aveva approfondito la volontà delle Chiese di manifestare pubblicamente la

loro solidarietà. Nel 1948, erano già 90 le Chiese che avevano accettato l’invito ad

entrare nel CEC.

Le ponderate decisioni sulla rappresentanza e sull’appartenenza al CEC richiesero

che si facesse molta attenzione alla consistenza numerica delle diverse Chiese

oltre che ad un’adeguata rappresentanza confessionale e geografica. La principale

condizione per poter far parte del CEC era l’accettazione del fondamento sul

quale il Consiglio intendeva costituirsi. Fra le altre condizioni, venivano

accuratamente specificate l’autonomia della Chiesa in questione, la sua stabilità,

un’adeguata consistenza numerica e i suoi buoni rapporti con le altre Chiese.

Anche se alcuni avrebbero preferito un consiglio composto soprattutto di consigli

nazionali di Chiese o di famiglie confessionali mondiali (ad esempio, luterani,

ortodossi, battisti), prevalse la tesi di coloro che volevano che il CEC fosse a

contatto diretto con le Chiese nazionali e che comprendesse quindi la Chiesa

metodista di Gran Bretagna, la Chiesa episcopale metodista degli Stati Uniti, la

Chiesa metodista dell’Africa australe, ecc. Gli organismi confessionali mondiali, i

consigli nazionali delle Chiese e gli organismi ecumenici internazionali potevano

essere invitati a mandare dei rappresentanti alla prima assemblea ma in qualità di

osservatori e senza diritto di voto. All’assemblea inaugurale (22 agosto 1948) si

trovarono 147 Chiese di 44 paesi disposte ad entrare nel CEC. In un modo o in un

altro, vi erano rappresentate tutte le famiglie confessionali del mondo cristiano,

eccetto la Chiesa cattolica romana. Il giorno seguente, l’assemblea votò la

costituzione del CEC e la nuova associazione organizzata delle Chiese diffuse il

suo primo messaggio: «Cristo ci ha fatto suoi ed egli non è diviso. Cercando lui,

noi ci ritroviamo fra di noi. Qui ad Amsterdam, ci siamo impegnati nuovamente

nei suoi confronti e ci siamo riuniti fra di noi, costituendo il Consiglio ecumenico

delle Chiese. Intendiamo restare insieme».

L’assemblea di Amsterdam definì nelle grandi linee i compiti del CEC attraverso la

costituzione e, in modo più specifico, attraverso le sue decisioni in materia di

politica generale, programmi e amministrazione finanziaria. L’assemblea

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autorizzò il CEC a parlare a nome suo alle Chiese e al mondo, ma definì

chiaramente la natura e i limiti di questi pronunciamenti.

Fondamento. L’assemblea inaugurale del 1948 stabilì quanto segue: «Il Consiglio

ecumenico delle Chiese è un’associazione di Chiese che accetta nostro Signore

Gesù Cristo come Dio e Salvatore» (cf. la voce «CEC, fondamento»). Fin dall’inizio

questa formulazione diede luogo a problemi e a richieste di una più chiara

definizione della centralità in Cristo della comune vocazione delle Chiese, di

un’espressione più esplicita della fede trinitaria e di un riferimento specifico alla

sacra Scrittura. In conseguenza di tutto questo, la terza assemblea del CEC (Nuova

Delhi 1961) procedette ad un riformulazione del fondamento, rimasto da allora

immutato: «Una associazione di Chiese che confessano il Signore Gesù Cristo

come Dio e Salvatore secondo le Scritture e cercano perciò di realizzare insieme la

loro comune vocazione per la gloria dell’unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo».

Meno di una confessione di fede cristiana e più di una formula, il fondamento

serve come punto di riferimento per i membri del CEC, come fonte o garanzia di

coerenza. Dato che il CEC non è una Chiesa, esso non formula alcun giudizio sulla

sincerità o solidità con cui le Chiese membri accettano il fondamento o sulla

serietà con cui esse ammettono i loro fedeli. Per cui lo stesso fondamento ricade

sotto la formula di William Temple: «Tutta l’autorità che il Consiglio ha consiste

nel peso che esso riuscirà a guadagnarsi presso le Chiese con la sua propria

saggezza».

Natura e scopo. Nel 1948, le Chiese membri si resero conto che il CEC non era

una Chiesa al di sopra di esse e che non era certamente la Chiesa universale o

l’inizio della «Chiesa mondiale». Esse si resero conto che il Consiglio era uno

strumento attraverso il quale le Chiese potevano rendere insieme testimonianza

della loro comune fedeltà a Cristo, della ricerca di quell’unità che Gesù Cristo

desidera per la sua unica Chiesa e cooperare in materie che richiedono

affermazioni e azioni comuni. L’assemblea si riconobbe nella descrizione del CEC

fatta da Visser ‘t Hooft: «Una soluzione di emergenza, una tappa nel cammino...,

un’associazione che cerca di esprimere quell’unità in Cristo che ci è già data e di

preparare la strada per un’espressione più piena e più profonda di tale unità».

Quello che non era chiaro nel 1948 era in che modo questa natura spirituale

dell’associazione poteva porsi in relazione con la concezione che le Chiese

membri avevano della natura e dei limiti del CEC e con la concezione che avevano

della loro relazione ecclesiale con le altre Chiese membri. In breve, l’appartenenza

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di una Chiesa al CEC aveva una qualche implicazione per l’«autocomprensione» o

la situazione ecclesiologica di quella Chiesa?

Per chiarire il problema, il comitato centrale del CEC adottò nel 1950 la

dichiarazione di Toronto su La Chiesa, le Chiese e il Consiglio ecumenico delle

Chiese. La dichiarazione fu il risultato di «un dibattito di notevole intensità»

(Visser ‘t Hooft), anche se il suo contenuto «definì un punto di partenza e non il

cammino o la meta» (Lesslie Newbigin), Secondo la dichiarazione di Toronto, il

CEC «non è e non deve mai diventare una super-Chiesa». Esso non negozia unioni

fra le Chiese. Esso «non può e non dovrebbe essere basato su una qualsiasi

concezione particolare della Chiesa». L’appartenenza al CEC non «implica che

quella Chiesa considera la sua particolare concezione della Chiesa come

semplicemente relativa» o accetti «una particolare dottrina riguardo alla natura

dell’unità della Chiesa». Cionondimeno, la comune testimonianza dei membri

«deve essere basata sul comune riconoscimento che il Cristo è il capo divino del

corpo», che «in base al Nuovo Testamento» è l’unica Chiesa di Cristo.

L’appartenenza della Chiesa di Cristo «è più vasta» dell’appartenenza alla propria

Chiesa particolare, ma «non implica che ogni Chiesa debba considerare le altre

Chiese membri come Chiese nel senso vero e pieno del termine». E tuttavia, la

comune appartenenza al CEC implica in pratica che le Chiese «dovrebbero

riconoscere la loro reciproca solidarietà, prestarsi reciprocamente assistenza in

caso di necessità e astenersi da azioni che sono incompatibili con le relazioni

fraterne».

Mentre si continua a discutere sulla natura apparentemente immutabile sia del

fondamento che della dichiarazione di Toronto, le funzioni, gli scopi e gli organi

del CEC stanno cambiando, sia nella concezione che nella realtà. L’attuale lista di

funzioni, approvata dalla sesta assemblea (Vancouver 1983) dimostra molta meno

neutralità nelle concezioni ecclesiologiche delle Chiese di quello che potrebbe

suggerire una lettura imparziale del fondamento e della dichiarazione di Toronto,

anche se le funzioni non obbligano le Chiese membri.

Un chiaro esempio di questo cambiamento è costituito dal passaggio dal vago

scopo del CEC «di realizzare l’opera dei movimenti mondiali di Fede e

costituzione e Vita e azione» (1948) all’appello molto più specifico rivolto alle

Chiese di perseguire «lo scopo dell’unità visibile in una sola fede e in una sola

comunione eucaristica, espresse nella celebrazione e nella vita comune in Cristo e

di avanzare verso quell’unità in modo che il mondo possa credere» (assemblea di

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Nairobi 1975). Sarebbe difficile sostenere che un simile cambiamento è in sintonia

con la conclusione della dichiarazione di Toronto secondo cui «l’appartenenza

non implica l’accettazione di una particolare dottrina riguardo alla natura

dell’unità della Chiesa». Le Chiese oggi possono dare per scontato quello che esse

non avrebbero certamente dato per scontato nel 1948. O si deve ammettere che i

loro rappresentanti alle assemblee vengono trascinati a lasciarsi andare ad

approvazioni verbali, mentre in realtà i loro mandanti a casa loro continuano ad

avere tutt’altra concezione di se stessi?

Questa domanda può suffragare il giudizio secondo cui la dichiarazione di

Toronto è da molti punti di vista sorpassata. Molte delle sue affermazioni su ciò

che il CEC non è o su ciò che l’appartenenza al CEC non implica sono certamente

ancora valide e hanno bisogno di essere riaffermate, ma non ci si può aspettare

che una «soluzione di emergenza» del 1950, nella difficile situazione del bambino

che fa i suoi primi passi, possa rendere giustizia all’esperienza collettiva,

ecumenica e missionaria, che le Chiese hanno fatto in sei continenti per oltre 40

anni. Una più chiara identità del CEC e del suo futuro richiede una più chiara

identità del movimento ecumenico.

Che cosa sentono oggi le Chiese riguardo alla loro «comune vocazione» (o

fondamento)? Che cosa vedono oggi le Chiese nel futuro del movimento

ecumenico, in teoria e in pratica? Quali sono le concezioni o le immagini che sono

veramente vive nelle Chiese membri, quando si parla di «ecumenismo»? Sono le

stesse concezioni e immagini che si ritrovano anche nelle Chiese non membri? Il

CEC rappresenta la struttura e il contesto naturale della testimonianza nella

comunione per le Chiese membri, in particolare dal punto di vista della riflessione

e dell’azione della comunità? Se così non è, quali ne sono le ragioni? Alle attuali

domande circa l’identità e il ruolo del CEC nel movimento ecumenico non si

risponde ripetendo semplicemente le posizioni del 1950. Il rinnovamento del CEC

in quanto tale non può avvenire attraverso una semplice riformulazione dei

programmi e degli uffici di Ginevra. Molti membri delle Chiese richiedono

un’analisi globale, realistica, dello sviluppo, degli intoppi e delle sconfitte del

movimento ecumenico nelle Chiese a partire dal 1948. Essi chiedono una sintesi

articolata ed aggiornata e un’affermazione che costituisca un «fondamento

comune», come ad esempio «il movimento ecumenico, la Chiesa, le Chiese e il

CEC».

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Organizzazione. L’assemblea di Amsterdam ha definito i compiti del CEC nella

sua costituzione e nelle sue decisioni riguardo alle politiche e ai programmi. I

programmi del CEC sono un servizio reso a nome delle Chiese membri e un

servizio a tutte le Chiese, membri o non membri. Il CEC assolve alle sue funzioni

legislative ed esecutive attraverso l’assemblea, i comitati centrale ed esecutivo, e

attraverso il personale e gli organismi subordinati della segreteria generale.

L’assemblea è il supremo organismo legislativo che stabilisce la politica del CEC e

rivede la sua applicazione nei programmi. Convocata ogni sette-otto anni,

l’assemblea è composta dai delegati con diritto di voto eletti dalle Chiese membri.

Essa elegge i sei (o sette) presidenti del CEC, che formano il presidio, e i membri

del comitato centrale.

Il comitato centrale assegna i posti nell’assemblea alle Chiese membri sulla base

della loro consistenza numerica, della rappresentanza confessionale e della

distribuzione geografica. La tabella che segue dà un’idea della crescente

partecipazione alle assemblee:

Assemblea Delegati Chiese

Amsterdam 1948 351 147

Evanston 1954 502 161

Nuova Delhi 1961 577 197

Uppsala 1968 704 235

Nairobi 1975 676 285

Vancouver 1983 847 301

Canberra 1991 842 317

La rapida decolonizzazione del mondo, dopo la seconda guerra mondiale, è

iniziata in Asia nel 1947, con l’indipendenza dell’india e del Pakistan, e in Africa

nel 1957, con l’indipendenza del Ghana. La conseguente crescita delle Chiese

nazionali e il sorgere al loro interno di leader indigeni, sia chierici che laici,

nonché il crescente numero delle Chiese ortodosse si riflettono nella

rappresentanza regionale alle assemblee. Nel 1948, la stragrande maggioranza

dei 351 delegati delle 147 Chiese erano europei occidentali e nordamericani.

All’assemblea di Vancouver (1983), la divisione per regioni degli 847 delegati era

molto più bilanciata, dal momento che vi erano 158 delegati nordamericani, 152

europei occidentali, 142 europei orientali, 131 africani, 114 asiatici, 53 medio-

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orientali, 30 latinoamericani, 26 australiani e neozelandesi, 22 della regione del

Pacifico e 19 dei Caraibi.

Questa diffusione geografica indica un cambiamento che riguarda il movimento

ecumenico in quanto tale. Il centro tradizionale, che nel 1948 abbracciava le aree

del Nord Atlantico, dell’Europa occidentale e del Mediterraneo, va

progressivamente riducendo la propria influenza a favore dei centri dell’emisfero

australe, che non sono più semplici ricettori passivi: Africa, Asia, Caraibi, America

Latina e Oceania.

A motivo di una tale ricollocazione, sia geografica che storica, queste aree stanno

diventando i nuovi centri delle articolazioni teologiche, dei comportamenti

personali ed etico-sociali, delle spiritualità, delle discipline delle Chiese, delle

espressioni artistiche e della cooperazione interecclesiale nella comune

testimonianza. In occasione dell’assemblea di Evanston (1954), R.D. Paul della

Chiesa dell’India del Sud, rivolgendosi alle Chiese occidentali, disse: «Voi ci avete

insegnato come pensare, ma ora che siamo maturi cerchiamo di ripensare il

messaggio cristiano da noi stessi. Ora potete darci fiducia e permetterci di

occuparci da soli dei nostri affari. Siamo diventati i vostri partner nella grande

missione della Chiesa al mondo». In seno al CEC, sia nelle assemblee che nei

programmi, si è cominciato a riconoscere la stessa importanza a tutte le voci. Per

quanto grande possa essere la loro varietà, i «contesti» hanno ancora il teatro

dell’unica Chiesa di Dio nell’unico mondo di Dio come il contesto.

In tempi recenti, le più forti raccomandazioni e negoziazioni - non sempre riuscite

con certe Chiese - tese ad avere un’adeguata rappresentanza di uomini e donne,

adulti e giovani, ministri ordinati e laici, hanno prodotto dei cambiamenti nella

composizione delle ultime assemblee, come dimostra la seguente tabella:

Percentuale dei delegati

Assemblea Donne Sotto i 30 anni Laici

Uppsala 1968 9 4 25

Nairobi 1975 22 9 42

Vancoover 1983 30 13 46

I delegati formano il nucleo essenziale di un’assemblea, ma non ne definiscono il

clima. Già all’assemblea di Amsterdam i delegati erano una minoranza

nell’insieme dei partecipanti, composto da sostituti, consulenti, visitatori

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accreditati, delegati dei giovani e addetti al servizio (due categorie che sono state

tradizionalmente un fertile terreno di coltura per i leader ecumenici: William

Temple, per esempio, è stato addetto al servizio alla conferenza di Edimburgo del

1910 e Philip Potter, in seguito segretario generale del CEC, è stato delegato dei

giovani all’assemblea di Amsterdam). All’assemblea di Evanston si ebbero ben

646 giornalisti accreditati, 144 in più rispetto al numero dei delegati. Una stima

sommaria del numero totale dei partecipanti diretti all’assemblea di Vancouver

diede qualcosa come 2500 persone, senza tener conto delle folle intervenute a

tutta una serie di iniziative promosse nel quadro dell’assemblea e alle

celebrazioni liturgiche (circa 4500 persone al giorno).

Il comitato centrale è il principale organo di continuazione fra le assemblee. Esso

si riunisce ordinariamente una volta all’anno, alternativamente a Ginevra e altrove.

Esso esegue le decisioni dell’assemblea, approvando e rivedendo i programmi e

stabilendo le priorità fra di essi; fissa il bilancio e provvede al sostegno

finanziario; elegge i 14-16 membri del comitato esecutivo che non ne fanno parte

ex officio. Il comitato esecutivo si riunisce normalmente due volte all’anno. Il

comitato centrale è passato dai 90 membri del 1948 agli attuali 145. Il comitato

esecutivo ha ora 27 membri.

Il segretario generale è il capo dell’esecutivo del CEC. Egli dirige il personale,

compresi quanti sono impegnati nella direzione di operazioni continuative. Viene

eletto dal comitato centrale, normalmente per un periodo di cinque anni, e

risponde ad esso. Il primo segretario generale fu W.A. Visser ‘t Hooft (1948-1966),

il secondo Eugene Carson Blake (1966-1972), il terzo Philip A. Potter (1972-1984),

il quarto Emilio Castro (1985-1992), e il quinto Konrad Raiser.

Strutture. Secondo alcuni ecumenisti, nel periodo dopo la seconda guerra

mondiale, nelle Chiese e nel movimento ecumenico ci si è preoccupati

eccessivamente delle strutture. Se all’inizio esse erano ragionevoli e adatte al loro

scopo, con il passare degli anni hanno finito per diventare «pericolosamente

nevrotiche» (Max Warren, 1976). Questi ecumenisti affermano che, a partire dal

1948, si è consacrato decisamente troppo tempo ed energie a «rabberciare». Altri

critici, lungo i 40 anni di vita del CEC, hanno continuato a richiedere una

valutazione più radicale dell’intera struttura del CEC.

Molti danno per scontato che l’efficienza nella vita della Chiesa, come nel mondo

degli affari, richiede che almeno ogni dieci anni avvengano importanti

cambiamenti organizzativi. Altri ritengono che in realtà il prevalente «modello

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manageriale» delle Chiese e del CEC abbia danneggiato ed offuscato, più che

promosso ed espresso, la loro natura e i loro compiti. Tutti concordano sul fatto

che non può esistere alcun CEC «giusto e perfetto» in quanto organizzazione e

che tutte le decisioni riguardo alle strutture del CEC, vecchie e nuove, dovrebbero

essere di natura pragmatica.

L’assemblea del 1948 doveva sostanziare la comunione del CEC aiutando le

Chiese non solo a restare insieme ma anche a vivere e crescere insieme.

L’assemblea di Amsterdam creò 12 dipartimenti, ben consapevole del fatto che

l’esperimento strutturale avrebbe avuto bisogno di una costante, accurata

revisione. I dipartimenti erano quelli di Fede e costituzione, Studi,

Evangelizzazione, Laici, Giovani, Donne, Aiuto interecclesiale/rifugiati, Affari

internazionali, Istituto ecumenico, Pubblicazioni, Biblioteca e Amministrazione.

La maggior parte degli uffici si trovava a Ginevra, in un vecchio edificio sulla

strada per Malagnon (attualmente un museo di orologi), poi a partire dal 1964 in

un nuovo edificio al Grand-Saconnex, Ginevra. Per mantenere più strette relazioni

con le Chiese membri nordamericane venne aperto un ufficio a New York. Un

segretariato per l’Asia orientale, in collaborazione con il Consiglio missionario

internazionale, venne stabilito a Londra.

Per tutte queste attività dipartimentali, per l’esecutivo e i programmi, la prima

assemblea aveva autorizzato un’èquipe di sole 36 persone. Tutto il personale

dipendente, nel gennaio del 1949, ammontava a 98 persone. In realtà, la quota

massima di personale previsto (36) non venne mai raggiunta prima dell’assemblea

di Evanston (1954). Per rafforzare l’équipe ufficiale, diverse Chiese misero a

disposizione, per periodi più o meno lungi, i servizi del loro personale

stipendiato. Alcuni posti, resi vacanti dalle dimissioni, non furono di proposito

occupati, finché l’assemblea di Evanston non elaborò un nuovo piano di

ristrutturazione e funzionamento del Consiglio. L’esperienza di sei anni aveva

mostrato la necessità di un coordinamento più efficace dei diversi dipartimenti.

L’assemblea di Evanston dotò il CEC di quattro divisioni, ognuna provvista di

dipartimenti: 1) Studi: Fede e costituzione; Chiesa e società; Evangelizzazione;

Studi missionari; 2) Azione ecumenica: Giovani; Laici; Uomini e donne nella Chiesa

e nella società; Istituto ecumenico; 3) Aiuto interecclesiale/rifugiati e Affari

internazionali, 4) Informazione.

Il modello stabilito ad Evanston continuò anche dopo l’assemblea di Nuova Delhi

(1961). L’integrazione nel CEC del Consiglio missionario internazionale aveva già

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di per sé comportato sufficienti cambiamenti. Le grandi Chiese ortodosse

dell’Europa orientale (Unione Sovietica, Romania, Bulgaria e Polonia) erano appena

entrate nel CEC. Non era certamente saggio introdurre altri drastici cambiamenti.

Ma l’assemblea di Nuova Delhi stabilì che si riesaminasse il problema delle

strutture. Il comitato incaricato delle strutture (1964-1967) presentò la propria

relazione all’assemblea del 1968, la quale autorizzò il nuovo comitato centrale a

studiare la situazione e ad agire di conseguenza. Nel 1972, il comitato centrale

procedette ad una riorganizzzazione della struttura del CEC, in base a due

principi fondamentali: «semplificazione e coordinamento». Esso cercò di

esprimere le principali funzioni costituzionali del CEC in tre unità amministrative

flessibili con ampi mandati. Le unità avrebbero eliminato l’evidente separazione

fra studio e azione e avrebbero promosso una maggiore partecipazione dei vari

segmenti della composizione del CEC attraverso sotto-unità con programmi

specifici. Le diverse sotto-unità vennero deliberatamente poste in posizione di

«tensione creativa». Ogni unità aveva un comitato di membri provenienti dal

comitato centrale e dagli organismi di governo delle diverse sotto-unità. Con

modifiche marginali, la struttura generale stabilita nel 1972 era ancora in

funzione al tempo della settima assemblea (Canberra 1991).

Amministrazione. La situazione finanziaria del CEC è un sintomo della salute e

della vitalità dei suoi programmi e delle sue relazioni, ma rispecchia altresì le

tendenze economiche a livello mondiale, come ad esempio, le crisi di recessione,

la crisi del debito e l’inflazione. Dagli anni settanta, le ampie fluttuazioni dei

termini di scambio delle altre maggiori valute in rapporto al franco svizzero - con

il quale il CEC deve acquistare la maggior parte dei suoi beni e servizi - hanno

creato seri problemi, dato che, anche nel caso in cui le Chiese aumentino di anno

in anno le loro donazioni, il valore di queste somme in franchi svizzeri può di

fatto diminuire.

Da dove viene il danaro? Circa il 75% proviene dalle donazioni delle Chiese

membri e delle loro agenzie missionarie e di aiuto e circa il 96% della somma

globale proviene da 13 paesi. Nonostante che solo una piccola percentuale della

somma globale provenga dalle Chiese del terzo mondo, molte di esse

contribuiscono pro capite più delle Chiese del cosiddetto primo mondo. Non vi è

alcuna tassa obbligatoria di appartenenza al CEC. Le Chiese sono tenute a fare

donazioni annuali, «commisurate alle loro risorse». Ma un terzo dei membri del

CEC non assume alcuna responsabilità finanziaria nei suoi confronti.

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Il CEC riceve danaro per coprire le sue spese gestionali e danaro da trasmettere ai

programmi e ai progetti ecumenici nel mondo intero (questi «fondi fiduciari»,

amministrati gratuitamente dal CEC, fra l’assemblea di Vancouver e quella di

Canberra, sono stati di circa 50 milioni di dollari USA all’anno). Fra le entrate del

CEC vi sono offerte «libere», che possono essere impiegate in modo flessibile, e

offerte «vincolate» dal donatore ad uno specifico programma o a una particolare

sotto-unità. La parte di offerte a destinazione «libera» diminuisce sempre più; dal

30% dei fondi del CEC del 1981 è passata al 16,5% nel 1989.

Dove va il danaro del CEC? L’assemblea di Amsterdam aveva destinato alle spese

del primo anno 386.000 dollari (allora pari a 1,6 milioni di franchi svizzeri). La

somma non venne spesa tutta. Le spese dei primi cinque anni ammontarono a

circa 1,4 milioni di dollari (allora pari a 7 milioni di franchi svizzeri). Fra

l’assemblea di Vancouver e quella di Canberra (1983-1989), le spese per i

programmi furono di 307,5 milioni di franchi svizzeri. Circa i due terzi del totale

del 1989 fu assorbito da costi relativi al personale e un terzo venne destinato alla

«partecipazione», cioè al coinvolgimento delle Chiese membri attraverso viaggi,

incontri, consultazioni, traduzioni e comunicazioni. Nel 1972, è cominciata una

sistematica internazionalizzazione del personale di Ginevra e una politica dei

salari basata su una giustizia non discriminatoria. I salari del 1990, per 359

persone della direzione, ammontarono a circa 26,4 milioni di franchi svizzeri.

Relazioni. Gli organigrammi e i piani dei conti non permettono di per sé di

rendersi conto delle nuove e crescenti richieste cui il CEC ha risposto durante gli

ultimi vent’anni nel campo delle relazioni con le Chiese membri, le Chiese e i

gruppi non membri e gli altri organismi ecumenici. I fatti parlano da soli. I membri

del CEC sono più che raddoppiati, passando dalle 147 Chiese membri

dell’assemblea di Amsterdam alle 311 dell’assemblea di Canberra. I consigli

cristiani nazionali associati con il CEC sono ora 35; altri 46 sono affiliati alla

commissione Missione al mondo ed evangelizzazione e altri 35 sono in «rapporti

di lavoro». I consigli regionali, inesistenti nel 1948, sono stati stabiliti in Africa,

Asia, Caraibi, Europa, America Latina, Medio Oriente e Pacifico.

Le 12 strutture confessionali mondiali sono diventate più attive, con obiettivi più

ampi, come hanno fatto anche altre organizzazioni internazionali, quali le

Associazioni cristiane della gioventù maschile, le Associazioni cristiane della

gioventù femminile, la Federazione mondiale degli studenti cristiani e le Società

bibliche unite. La Chiesa cattolica romana, pur non facendo parte del CEC,

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influenza la maggior parte dei suoi programmi (cf la voce «Gruppo misto di

lavoro»). La Chiesa cattolica romana è membro a pieno titolo di oltre 30 consigli

nazionali e dei consigli regionali dei Caraibi, del Medio Oriente e del Pacifico e

tiene strette relazioni di lavoro con altri consigli nazionali e regionali.

La maggior parte delle Chiese in rapida espansione sono nelle famiglie

evangelicali e pentecostali. La maggior parte di questi gruppi non sono membri

del CEC. Alcuni sono in dialogo con il CEC, altri sono esplicitamente contro di

esso e ad esso estranei. La maggior parte delle Chiese pentecostali (e

indipendenti) sono molto piccole, con strutture amministrative molto informali.

La crescita numerica e la diffusione geografica di questa base costitutiva del CEC,

nel senso più ampio del termine, non offre di per sé una risposta alla domanda

circa la qualità della comunione. La migliore prova della vita ecumenica delle

Chiese si trova nella partecipazione rappresentativa all’azione e alle decisioni

degli organismi costituzionali del CEC. E tuttavia non mancano appelli per un

maggiore coinvolgimento di un maggior numero di Chiese membri nella

delineazione e nella valutazione della politica e dei programmi del CEC. Vi sono

pure richieste di «un uso maggiore dei viaggi da parte del personale del CEC e

delle visite delle Chiese per ascoltare le necessità e preoccupazioni delle Chiese,

condividere la loro vita, rappresentare il Consiglio in quanto tale e interpretare i

suoi programmi e le sue preoccupazioni» (comitato centrale del 1989) e per

«promuovere relazioni creative» con un più ampio ventaglio di partner ecumenici,

Chiese non membri, nuove comunità ecclesiali, specifici movimenti

transdenominazionali (per esempio, il movimento carismatico) e gruppi di azione,

nonché consigli locali, nazionali e regionali delle Chiese, Comunioni cristiane

mondiali, ecc.

I programmi del CEC degli ultimi due decenni sono molto vasti, di ampio respiro e

ricchi di impegni e di interessi. Le sotto-unità hanno storie, metodi di lavoro, e

persino canali di finanziamento molto diversi. Il punto focale di alcune sotto-unità

è molto chiaro, mentre nel caso di altre esistono notevoli sovrapposizioni nei temi

o nella composizione. Pochi programmi hanno fissato chiaramente la data della

loro conclusione. Molti richiedono più personale e maggiori finanziamenti. Nuovi

gruppi di interesse chiedono nuovi programmi.

Anche le Chiese membri variano notevolmente nelle loro strutture e nel personale

che riceve i servizi del CEC. Si va da una sola persona che smista tutta la

comunicazione con il CEC ad una comunicazione efficace con l’opportuna base in

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seno alla Chiesa, che si preoccupa di darle seguito attraverso studi e iniziative

adeguate. Le Chiese che sono seriamente impegnate nel CEC sono impegnate

ecumenicamente anche in iniziative locali e regionali o in comunioni organizzate e

dialoghi bilaterali. Esse mettono spesso addirittura troppa carne al fuoco, più di

quanta ne possano poi di fatto digerire. Un sovraccarico di programmi da parte

del CEC nel suo servizio alle Chiese potrebbe disturbare la recezione, che esige

invece un processo di digestione disciplinata e di assimilazione a tutti i livelli della

vita delle Chiese, sul piano sia teorico che pratico.

In conclusione, lo stesso successo del CEC nella realizzazione dei suoi diversi

scopi per oltre 40 anni ha messo più chiaramente in luce i difetti e le debolezze

sia del CEC che delle Chiese membri. Ben consapevole di questo, il comitato

centrale del luglio 1989 ha cominciato ad esaminare la «riorganizzazione

programmatica» del CEC nel contesto del movimento ecumenico nel suo insieme e

a prendere realisticamente in considerazione ogni proposta commisurandola con

la previsione delle risorse finanziarie disponibili.

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