Muerte Dicionario Teologico Interdisciplinare Marietti

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Anche una mentalità positivisticamente orien- tata come quella che sembra prevalere nella nostra età scientifico-tecnologica non riesce fa- cilmente ad elaborare un concetto soddisfacen- te. non diciamo dell'evento. ma del puro feno- meno della morte. La morte è decesso, è cessa- zione di strutture viventi organizzate in forma di individuo: è la definizione a livello biologi- co, alla quale però oggi va aggiunto in forma esplicita il carattere di irreversibilità del pro- cesso. Ma intesa come processo biologico la morte si apre ad una complessità di dimensioni (fisiologiche. patologiche, cliniche, ecc.) che rendono il fenomeno né facilmente chiaribile né accertabile senza esitazioni ed ambiguità. E:~pure questo è l'a.spetto che oseremmo dire pm banalmente OVVlO della morte: la sua pro- blematicità s'annida invece nel suo riconosci- mento quale evento umano, in quell'ordine di considerazioni che la pongono in rapporto alla esistenza dell'uomo, e con le quali si svolge meno un discorso di avvenimenti fenomenici e di nessi causali tra di essi, che di ricerca di sen- so. In questa seconda linea ci pare vadano inter- pretate le innumerevoli rappresentazioni della morte proposte nei quadri delle religioni anti- che. Prime tra tutte quelle cosiddette del « ca- davere vivente» o dei ((morti viventi », secon- do le quali non si dà essenziale differenza tra i viventi e coloro che sono morti di recente, cui si attribuisce solo una relativamente maggiore difficoltà di movimento e di parola, a mo' -di dormienti. Diversa è la concezione se- Il LA MORTE NELLA STORIA DELLE RELIGIONI Il LA MORTE NELLA STORIA DELLE RELIGIONI. - SOFICO.. IIII L'ANTICO TESTAMENTO. - IV/ N MORTE. . VII LA MORTE COME COMPIMENTO. • . MORTE. - VIII/ LA MORTE E LA SPERANZA•• IX MORTE NEL QUADRO DELL'ANTROPOLOGIATEO DIO. - XIII LA MORTE IN CRISTO. GIAMPIERO BOF MORTE CHARD, Chiesa, lotta di classee strtfteglepol~tiche,.As- sisi 1973; G. qUTIERREZ, Teologia delfa ItberaZto~e, trad. it, Brescia 1972; A. MANARANCHE, ESIste un' etica sociale cristiana? trad. it. Bologna 1971; G. M ArrA l, Morale politica, Bologna 1971; ].-B. METZ, Sulla teologia del mondo, trad. it. Brescia MORTE

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Anche una mentalità positivisticamente orien­tata come quella che sembra prevalere nellanostra età scientifico-tecnologica non riesce fa­cilmente ad elaborare un concetto soddisfacen­te. non diciamo dell'evento. ma del puro feno­meno della morte. La morte è decesso, è cessa­zione di strutture viventi organizzate in formadi individuo: è la definizione a livello biologi­co, alla quale però oggi va aggiunto in formaesplicita il carattere di irreversibilità del pro­cesso. Ma intesa come processo biologico lamorte si apre ad una complessità di dimensioni(fisiologiche. patologiche, cliniche, ecc.) cherendono il fenomeno né facilmente chiaribilené accertabile senza esitazioni ed ambiguità.E:~pure questo è l'a.spetto che oseremmo direpm banalmente OVVlO della morte: la sua pro­blematicità s'annida invece nel suo riconosci­mento quale evento umano, in quell'ordine diconsiderazioni che la pongono in rapporto allaesistenza dell'uomo, e con le quali si svolgemeno un discorso di avvenimenti fenomenici edi nessi causali tra di essi, che di ricerca di sen­so.In questa seconda linea ci pare vadano inter­pretate le innumerevoli rappresentazioni dellamorte proposte nei quadri delle religioni anti­che. Prime tra tutte quelle cosiddette del « ca­davere vivente» o dei ((morti viventi », secon­do le quali non si dà essenziale differenza tra iviventi e coloro che sono morti di recente, cuisi attribuisce solo una relativamente maggioredifficoltà di movimento e di parola, a mo' -didormienti. Diversa è la concezione se-

Il LA MORTE NELLA STORIADELLE RELIGIONI

Il LA MORTE NELLA STORIA DELLE RELIGIONI. -SOFICO.. IIII L'ANTICO TESTAMENTO. - IV/ NMORTE. . VII LA MORTE COME COMPIMENTO. • .MORTE. - VIII/ LA MORTE E LA SPERANZA•• IXMORTE NEL QUADRO DELL'ANTROPOLOGIATEODIO. - XIII LA MORTE IN CRISTO.

GIAMPIERO BOF

MORTE

CHARD, Chiesa, lotta di classe e strtfteglepol~tiche,.As­sisi 1973; G. qUTIERREZ, Teologia delfa ItberaZto~e,trad. it, Brescia 1972; A. MANARANCHE, ESIsteun' etica sociale cristiana? trad. it. Bologna 1971;G. MArrA l, Morale politica, Bologna 1971; ].-B.METZ, Sulla teologia del mondo, trad. it. Brescia

MORTE

La forma più rigida in cui il pensiero filosoficoha realizzato la sua opposizione al mito nelquale s'è espressa la interpretazione della mor-

III LA MORTE NELLA STORIADEL PENSIERO FILOSOFICO

condo la quale si dà nell'uomo la presenza diuna parte che sopravvive (un'anima, un'om­bra, un eiddlon, quasi un secondo io), e che puòapparire ad es. nei sogni.Comune a queste due rappresentazioni è laconvinzione che la morte significa solo una va- .riazione dello stato di vita, non la sua fine; ad­dirittura essa può rappresentare il raggiungi­mento della vita autentica. Comune ancora èl'affermazione che la morte rappresenta ~maanomalia, spesso angosciante, della vita. E iltema prediletto del mito, che riporta spesso lacausa della morte ad azioni colpevoli, a danno­si sortilegi, a forze malvage: i più vari riti ma­gici sono facilmente addotti come strumenti didifesa e di liberazione. In ogni caso il defuntoè portatore di forze misteriose.La immensa varietà dei miti e delle rappresen­tazioni circa le vicende che caratterizzano lasopravvivenza dopo la morte non manca, tut­tavia, di temi ricorrenti, facilmente documen­tabili anche nell'antichità classica greca e lati­na: il permanere dell'anima nei dintorni delcorpo, sin che questo sussiste; il viaggio dell'a­nima, spesso in forma di animale; il trapassodall'al di qua all'al di là attraverso l'acqua; lafigura del nocchiero, come guida delle anime.Ulteriori convergenze tra i miti riguardano lostato definitivo dei morti, ed altro ancora.

III LA MORTE NELLA STORIA DEL PENSIERO FILO­:UOVO TESTAMENTO. - V/L'ESPERIENZA DELLAVII; INTERPRETAZIONE TRASCENDENTALE DELLAJ PER UNA TEOLOGIA DELLA MORTE. - X; LALOGICA. • XI; LA MORTE ED IL RAPPORTO CON

1969; J. MOLTMANN, Teolof,ia della speranza, trad.it. Brescia 1970; ID., Religione, Rivoluzione efutu­ro, trad. it. Brescia 197 I; A. RIZZI, Scandalo e bea­titudine della povertà, Assisi 1976; D. SOELLE, Teo­logia politica, trad. it. Brescia 1973; B. SORGE, Ca­pitalismo, scelta di classe, socialismo, Roma 1973.

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te è rappresentata dal tentativo di ridurre lamorte a fatto ({naturale»: intendiamo, conquesto genericissimo termine, indicare la ten­denza a privare la morte di quelle dimensioni erisonanze che la costituiscono evento decisivodell' esistenza umana e a deprimerla a momen­to la cui singolarità è irrilevante nell'economiagenerale del processo della realtà e delle sueleggi immanenti. La massima di EPICURO:({Quando ci siamo noi, la morte non c'è; equando c'è la morte, noi non ci siamo» (Diog.L.X, I 2 5), è la formula classica di questa ten­denza, ripresa e variata in mille toni, dall'anti­chità ai nostri giorni, da Marco Aurelio a Wit­tgenstein e a Sartre (cfr. MARCOAURELIO,Ri­cordi, VI, 24; L. WITIGENSTEIN, Tractatuslo~ic{)-philosophicus, 6.43 I I; l-P. SARTRE,L essere e il nulla, p. 65 5).Ben più profonda e culturalmente più fecondaè stata la dottrina platonica che, guidata dalmito, ha interpretato la morte come separazio­ne dell'anima dal corpo (Fed., 64C). Nellamorte il corpo si distacca dali' anima diventan­do qualcosa solo per se stesso, e l'anima si di­stacca dal corpo diventando qualcosa solo perse stessa (Ibidem). Ma la morte è altro che unpuro fatto naturale, e nel suo più profondo si­gnificato può essere anticipata dalla responsa­bile decisione dell'uomo: « Tutti coloro i qualiper diritto modo si occupano di filosofia ... diniente altro in realtà essi si curano se non dimorire e di essere morti» (64a). «Coloro iquali filosofano direttamente si esercitano amorire» (67e). Nella filosofia come prepara­zione ed « esercizio di morte» (8 la) si ripren­de con sufficiente chiarezza il motivo orficodella circolarità di vita e morte, espresso anco­ra nel Gorgia (429b): «forse in realtà noi sia­mo morti»; ma qui si introduce come decisivo~uello che potremmo chiamare il motivo del­Iautenticità: non la vita è per sé la vita auten-. , ,1 'l l' l' lnca, ne per se o e a morte: una e a tra pre-sentano una costitutiva ambivalenza che puòvenir superata solo da una consapevole e re­sponsabile assunzione, da parte dell'uomo, del­l ideale significato dell'una e dell'altra.La dottrina platonica non è priva di ambiguitàe di difficoltà: evasiva della problematica au­tentica della morte ci pare, infatti, l'opinioneche propone la sopravvivenza dell'anima, qualsoluzione; di un'anima, per di più, che nellamorte non sarebbe propriamente né colpita nétoccata, ma solo privata del corpo, inteso,quando non propriamente gravame dell'anima,e suo impaccio, o. carcere, come elemento co­munque da essa facilmente disgiungibile. Se

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Gli aspetti molteplici sotto i quali si vive ordi­nariamente l'esperienza della morte sono larga­mente testimoniati dall'A T: la coscienza della~nevitabilità della morte, come sorte comune atutti gli uomini «(( la via di tutta la terra» [IRe 2, 2]), alla quale più spesso l'uomo si ribel­la, sentendola come ciò che amareggia l'interasua vita (2 Re 2o, 2); che talvolta, invece. in­voca come prospettiva più desiderabile dellamiseria e della sofferenza imposta dalla esisten­za (Sir 41, I; Gb 6, 9; 7, 15). L'AT conoscela morte serena dei patriarchi «sazi di giorni»(Gn 25. 7; 35, 29); la morte tragica. la mortemisteriosa (Mosè, Elia, Enoch). Il sentimentodominante di fronte alla morte è una malinco-

111/ L'ANTICO TESTAMENTO

anche alcuni autori compiono seri tentativi perliberare la genuina concezione platonica deirapporti tra anima e corpo dai fraintendimenti,dalle cattive interpretazioni e dalle ingiustesemplificazioni, cui è stata assoggettata soprat­tutto nella mentalità illuministica, - alla cuiconcezione della immortalità naturale essa nonsarebbe assolutamente riducibile, - resta pursempre gravosa l'incidenza del dualismo antro­pologico, che, impedendo una adeguata intelli­genza dell'unità dell'uomo, compromette an­che una genuina comprensione della morte.Se tanta parte della tradizione cristiana ha su­bito rinfluenza del platonismo per gli aspettiche riteniamo deteriori, la linea che potrebbecongiungere idealmente Agostino, Hegel, Dil­they, Heidegger ed altri ancora, non ha man­cato di rendere feconde alcune intuizioni plato­niche, sopra richiamate. Citiamo solo due for­mule, forse le meno note: Agostino « Si ex illoquisque incipit mori, hoc est esse in morte exquo in ilio agi coeperit ipsa mors, id est vitaedetractio ... profecto ex quo esse incipit in hoccorpore, in morte est» (S. AGOSTINO,De Civi­tate Dei, I 3, IO); e Dilthey: « Il rapporto checaratterizza in modo più profondo e generale ilsenso del nostro essere, è quello della vita conla morte, perché la limitazione della nostra esi­stenza mediante la morte è decisiva per lacomprensione e la valutazione della vita »(DILTHEY, Das Erlebnis und die Dichtung,Stutt­gart 19055; p. 2 3o). Sono chiare testimo­nianze di un indirizzo di pensiero nel quale lamorte assume tutto il suo peso di dimensioneessenziale all'intera esistenza e che nel pensierodi Scheler, Heidegger, Jaspers giungerà allasua più avanzata maturazione.

MORTE

nia profonda, alla quale corrisponde il senso difragilità, di inconsistenza, di assoluta preca­rierà dell'esistenza: tanto più struggente quan­to più radicalmente opposta all'ardente deside­rio ed alla aspirazione ad una vita ricca, piena:chiare espressioni se ne hanno nella vanità del­le vanità di Qo 3; nelle immagini dell'esisten­za come erba che l'resto inaridisce (Is 40, 6;Sal 1°3, 1 5; 90, 5); in una rassegnazione allamorte, priva di ogni illusione (2 Sam I 2, Z3 ;14, ] 4)Ma la vera sapienza sa andar oltre, ed accettala morte come un decreto divino (Sir 4 I, 4),come data da Dio'(z Sam 12,15-24; Sal39, 14; 90, IO).La coscienza biblica non si limita però a que­sto: il rapporto della morte con Dio e con ilDio della rivelazione e della promessa, divental'elemento decisivo nella interpretazione chevia via si svilupperà e nella quale la fiducia nelDio, che è signore anche della morte, s'espri­merà nella credenza della risurrezione o dellaimmortalità, e giungerà, nel NT, ad una pienamaturazione cristologica.In questa linea l'elemento primo è rappresenta­to dalla connessione tra morte e peccato. Ori­ginariamente l'idea della connessione sorge e sipone nell'ambito dell'esperienza e della struttu­ra giuridica, là dove si condanna a morte coluiche s'è reso colpevole di gravi infrazioni, l'in­giusto, l'empio. L'interpretazione della morte,in generale, come pena del peccato non soloestende l'idea originaria, ma la approfondisce,ponendo in luce, con la opposizione tra il pec­cato e Dio, la negatività che esso viene a rap­presentare per l'uomo stesso che pecca, il qualene ha in contropartita la morte (Pro l l, 19;cfr. 7, 27; 9, 18; Is 5, 14)·Angoscioso problema è però quello che sorgedi fronte alla morte di chi non può essere accu­sato di colpa personale, e più ancora di chi è ri­conosciuto giusto (Gb 9, 22; Qo 7, I 5; Sal49, I I). Il libro di Giobbe, che esplicitamentepone la questione, non può che indicarne la so­luzione nel mistero trascendente di Dio: l'uo­mo non può che tacere (Gb 40, I; 42, I).La figura del Servo di Dio sofferente introdu­ce però una nuova prospettiva che, se mostreràscarsa fecondità nell'ambito dell'AT, si farà lu­minosa nella interpretazione della morte diGesù: Dio che può salvare, e salva talvolta damorte, non salverà il suo Servo; ma la morteche questi dovrà soffrire non solo ripeterà la fi­gura della sofferenza del giusto causata dagliingiusti, ma avrà valore espiatorio per molti(Is 5 3)'

MORTE

Il NT si rifà esplicitamente all'A'I', mediatoperò dalla visione apocalittica del tardo giu­daismo, secondo la quale la morte, almeno peruna parte del popolo, sarà superata grazie allarisurrezione, ed all'irrompere del nuovo eone.La morte terrena, quando non sia seguita dallamorte seconda (Ap 2, II; 20,6. 14; 21,8),non è più la morte semplicemente.N aturalmente nel NT relemento decisivo è ri­conosciuto nell'avvenimento di Cristo e nellafede in lui che, avendo sofferto la morte, l'hasuperata e vinta nella risurrezione. Il nuovo eo-

IV / NUOVO TESTAMENTO

In questo vasto contesto veterotestamentario,vita e morte non sono considerate come gran­dezze astratte, ma come due ambiti di realtà,due forze decisive nella vicenda dell'uomo edell' universo intero. Dietro ad esse, alla mortenon meno che alla vita, sta però Jahvé, che ledomina: anche la morte opera dove e comeJahvé permette e vuole.Il regno dei morti, lo sceol, non presenta trattiassolutamente caratterizzanti rispetto alle rap­presentazioni antiche più largamente diffuse.Ma l'AT sottolinea, oltre alla particolare into­nazione teologica, che ogni diminuzione dellavita dice un irrompere dello sceol nel mondo:così accade nella malattia (Sal 13, 22; 3o;88), nella prigionia (Sal 142; 143), nella ini­micizia (Sal 18; 144), in generale nella infeli­cità, nella miseria, nella fame, in tutte le formedell'indigenza. Lo sceol è il regno dell'oblio,della tenebra, dell' orrore: le determinazioninegative si moltiplicano. Ma soprattutto - èappunto l'aspetto teologico - è il regno dellalontananza da Jahvé: là si spegne la lode diJahvé (Sal 6,6.8; 30,10; 88,6.11-13;I I 5, I 7)· Re dello sceol (Am 9, 2; Sal139, 8), come della morte, non ha però comu­nione con i morti: i morti più non ricorda(88, 6).In questo quadro va intesa la morte come sor­gente di impurità cultuale; anzi ogni impuritànon è che un'anticipazione dell'impurità dellamorte (cfr. G. VON RAD, Theologie des A.T.,vol. 1, p. 276).Ma più forte che la convinzione di questa for­za distruggente della morte è la fede in Jahvé enella sua promessa, che resiste anche ad unacontestazione che si presenta con siffatta radi­calità: di qui, se pur nel giudaismo tardivo, s' a­priranno nuove vie di soluzione che influiran­no potentemente anche sul NT.

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ne assume perciò, nella predicazione del regnodi Dio quale risuona nella comunità cristiana,tratti decisamente cristocentrici e cristologici.Parallela modificazione esperimenta il sensocristiano della vita e della morte. In Giovannispecialmente assume spiccato rilievo la solida­rietà della fede con la vita, in antitesi all'altraconnessione tra incredulità e morte: al puntoda rendere la morte terrena pressoché insignifi­cante per colui che crede.Profondamente innestato nelle prospettive del­la sua antropologia, il tema della morte occupauna posizione centrale nel pensiero di Paolo,all'interno del quale ci pare raggiunga ancheparticolare ricchezza ed organicità di sviluppo.Morte e vita rappresentano, infatti, le possibi­lità antitetiche che all'uomo si aprono. La for­mulazione di questa antitesi, quale si presentain Paolo, è vista dal Cerfaux come suggeritadall'ambiente greco: ((Passi come I Cor3, 22-23; Rm 8, 38, confrontati con la lette­ratura della diatriba stoica, mostrano con evi­denza che Paolo ha subito l'influsso della lette­ratura greca contemporanea») (L. CERFAUX,LeCbrist (fans la théologie de Sant Paul, p. 90).Tuttavia il carattere retorico dell'antitesi néannulla né sminuisce il suo significato teologi­co. Piuttosto dobbiamo guardarci dal pericolosempre ricorrente di un'interpretazione anacro­nistica e modernizzante di Paolo. Il significatodi accadimento naturale, di necessità biologi­ca, che nella nostra mentalità è attribuito allamorte, insieme con l'interpretazione della mor­te in una struttura concettuale di derivazionedalla dottrina dualistica del platonismo, mi­naccia la possibilità di una precisa intelligenza9ella concezione paolina.E possibile raccogliere attorno al termine tba­natos, in Paolo, una serie di passi capaci di de­lineare, in un quadro sufficientemente unitario,la storia intera della salvezza. Il suo inizio è in­fatti la colpa del primo uomo, il padre del ge­nere umano, per il quale il peccato è entratonel mondo, e con il peccato la morte (Rm5, I 2. I 7; I Cor I 5, 2 I). Da allora tutti gliuomini peccarono (Rm 5, I 2) ed in Adamomuoiono (I Cor I 5, 22), cosicché da allora lamorte regna sul mondo.Simili affermazioni non possono non suonareestranee alla nostra mentalità corrente, abitua­ta a riconoscere nella morte una necessità natu­rale e propensa, tutt'al più, a ricercare qualipossano essere i fondamenti di questa neces­sità. Ma Paolo si muove in altra direzione;non manca, è vero, in lui un riferimento al mi­to dell'uomo originario (Urmens,ch) da lui rico-

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nosciuto in Adamo, che introduce un'umanitàgravata dal male, al quale corrisponde e si op­pone in Cristo il secondo Adamo, capostipitedi un'umanità nuova.È presente, ancora, l'indicazione di una certanaturalezza e necessità della morte, come è ri­conoscibile nell'indicazione di I Cor I 5, 2 I55., secondo la quale Adamo fu creato solo co­me anima vivente in opposizione a Cristo, vi­sto come spirito vivificante. Ma l'uno e l'altrodi tali elementi non attenuano minimamente laconcezione del peccato, come atto responsabiledell'uomo, e della morte, come conseguenzadel peccato. L'indicare, dunque, come talvoltaaccade, l'una come necessità naturale ed ambe­due come potenze cosmiche va inteso come ri­ferimento ad un'implicita distinzione paolinatra il semplice decedere e rabissale profonditàdella morte; ed ancora va visto - ci pare -come testimonianza del fatto che la morte, im­pegnando la totalità dell'uomo, affonda le sueradici nella situazione che, a partire dal pianofisico-biologico, condiziona l essere dell'uomosino a definirsi in quel livello superiore dellavita spirituale, nel quale, liberamente determi­nandosi, l'uomo configura il suo rapporto conDio.In questo quadro si comprende la solidarietàche Paolo sottolinea insistentemente tra pecca­to e morte. Ciò che conferisce forza al poteredella morte è il peccato: ((il pungiglione dellamorte» (I Cor I 5, 56); la morte è il suo frut­to, il suo termine, il suo salario (Rm6, 6. 2 I. 23)' Complice del peccato è la con­cupiscenza (Rm 7, 7), dalla quale il peccatonasce. La carne, che dalla presenza del peccatoè definita, ne diventa pure principio: suo desi­derio è la morte, per la morte fruttifica (Rm7,5; 8, 6), per questo il nostro corpo è diven­tato corpo di morte (Rm 7, 24). Anche la leg­ge è indicata da Paolo quale potenza del pec­cato; quella legge che di fatto è divenuta ope­ratrice della morte, dal momento che ((la sualettera uccide» (2 Cor 3, 6). La sua funzione èdivenuta ministero di morte. Questa non era lasua destinazione originaria; essa ha rappresen­tato un tentativo di opposizione al peccato ealla morte, ma il peccato è stato più forte: essoha preso occasione dalla legge per sedurci eprocurarci più sicuramente la morte (Rm 7. 7-I 3)' La legge, da parte sua, offrendo la cono­scenza del peccato (Rm 3. 2 o), senza però ap­portare la forza per superarlo, condannandoinoltre il peccatore in modo esplicito a morte(Rm 5, 13 ss.], è diventata la forza del pecca­to.

MORTE

Quali possibilità ha, allora, l'uomo di usciredalla sua tragica condizione di abbandono alpeccato e alla morte? Le Scritture danno all'u­manità una speranza di salvezza che si concre­tizza in Cristo. Egli, per liberarci dal poteredella morte, ha assunto la nostra condizionemortale: nato sotto la legge (Gal 4,4), aven­do preso una carne simile alla carne di peccato(Rm 8, 3), è solidale con il suo popolo e contutta la stirpe umana. La sua morte fu unamorte al peccato (Rm 6, IO), benché Egli fos­se innocente, perché assunse sino alla fine lacondizione dei peccatori, gustando la mortecome essi tutti [cfr. I Ts 4, 14; Rm 8, 34).Cristo è morto non soltanto per il suo 'popolo,ma per tutti gli uomini (2 Cor 5, 14). E morto«per noi» (1 Ts 5, 10), mentre eravamo fec­catori (Rm 5, 6 ss.}, dandoci in tal modo i se­gno supremo di amore suo e di Dio. Cristo haliberato gli uomini da quella legge del peccatoe della morte di cui fino allora erano schiavi(Rm 8, 2) e alla fine dei tempi, nella risurre­zione, la morte, l'ultimo nemico «sarà distruttaper sempre», «ingoiata nella vittoria» (I Cor15,26. 54 ss.).((Paolo non spiega la morte come un fenome­no, che si dispieghi alla superficie della nostraesistenza umana. La morte ci tocca. Come sia­mo completamente peccatori, così moriamocompletamente. La morte non è il passaggiodell'anima attraverso una porta oscura. Essa ciannienta, ma coloro che sono morti con Cristovengono risvegliati alla vita eterna. La sp_eran­za nella vita è fondata esclusivamente sull'attosalvifico, non su una dottrina delI'anima o delritmo della morte e della vita della natura. Noi ..abbiamo la certezza che la vita non è solo po­sta nel futuro, ma che essa è con noi in sovrab­bondanza, nello Spirito, come libertà- sotto forma di speranza di fronte alla thlipsis- non ancora SOtto forma di risurrezione e didoxa (Gal 2, 19 s.). La realtà della vita futura,già presente in questo mondo, viene percepitaparadossalmente sotto forma di sofferenza nelcompiersi della nostra morte quotidiana (2Cor 6,9; Rm 8, 36; 2 Cor 4,10-12). Que­sta sofferenza dimostra la verità della speranza(Rm 5, 2 55.)) (H. CONZELMANN, Teologia delNT, p. 352).Cristo, dunque, è il nuovo Adamo (I Cor15,45; Rm 5,14). il nuovo capo dell'uma­nità. Per questo, se egli è morto per noi, noitutti siamo morti (2 Cor 5, 14). Tutta via biso­gna che questa morte diventi una realtà effetti­va per ciascun uomo: è il senso del battesimo.Moriamo al peccato (Rm 6, I I), all'uomo

MORTE

La storia delle interpretazioni della morte te­stimonia nella maniera più convincente il pesodecisivo che esse hanno sulla determinazionedel senso della vita; addirittura non pare esa­gerato affermare che la morte decide del serisodella vita e del suo valore. Riconoscere nellamorte la fine dell'uomo sembra condannare lavita ad una radicale insignificanza: tutti glisforzi intesi a valorizzare la vita come valoreoggettivo appaiono infatti, con grande facilità,non solo destinati al fallimento, ma ancora co­me forme evasive ed alienanti. Si tratterebbeallora di prendere atto, con lucida veracità,della ,insuperabile assurdità dell'essere dell'uo­mo. E la tesi del Sartre esistenzialista, per ilquale {(1'uomo è là, stupidamente là, per nien-

VI L'ESPERIENZA DELLA MOR·TE

vecchio (6, 6), al corpo (6,6; 8, IO), alla leg­ge (Gal 2, 19); la morte con Cristo è in realciuna morte alla morte. Quando eravamo pri­gionieri del peccato allora eravamo morti, or..siamo dei viventi da morte (Rm 6, I 3). Ma lanostra unione con Cristo, realizzata sacrarnen­talmente nel battesimo, deve ancora essere at­tualizzata nella nostra vita quotidiana facendomorire in noi le opere del corpo (Rm 8,13)'La morte ha mutato senso dopo che Cristo neha fatto uno strumento di salvezza. Se l'Apo­stolo di Cristo appare agli uomini come tu:morente (2 Cor 6, 6; Fil I, 20; cfr. 2 Co;I, 9 SS.; I I, 2 3; I Cor I 5, 3 I ), ciò non costi­tuisce più un segno di sconfitta: egli porta in séla mortalità di Cristo, affinché la vita di Gesùsi manifesti pure nel suo corpo (2 Cor 4, IOss.).Così la morte corporale assume un nuovo si­gnificato: non è più un destino inevitabile, unacondanna per i peccati; il cristiano muore peril Signore come ha vissuto per Lui (Rm 14, 7ss.; Fil I, 20). Perciò per il cristiano morire è.in definitiva, un guadagno, perché Cristo è lasua vita (Fil I, 2 I). La condizione presente.che lo lega al suo corpo mortale, è per lui op­primente: Paolo preferirebbe lasciarla per an­dare a dimorare presso il Signore (2 Cor5, 8); ha fretta di indossare la veste di gloriadei risorti, affinché ciò che c'è in lui di mortalesia assorbito dalla vita (2 Cor 5, 1-4; cfr. ICor I 5, 5 1-5 3)' Desidera andarsene per esse­re con Cristo (Fil I, 23)' Ma questo esserecon Cristo, non annullato dalla morte, rappre­senta 1'autentico valore.

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te» e « ogni esistente nasce senza ragione; siprotrae per debolezza e muore per combinazio­nen (J.-P. SARTRE,La nausea, p. 191).Molteplici sono le vie tramite le quali l'uomocerca di evitare così nichilisticaconclusione: ri­chiamandosi alla immortalità, o almeno a qual­che forma di permanenza nel ricordo, nelleopere, nel processo vitale della specie che con­tinua; oppure giungendo ad affermare una for­ma di permanenza personale, sino al puntoche, nel mondo sia pagano che cristiano, s'èproposta l'ipotesi che proprio nella morte l'uo­mo raggiunga la sua pienezza. L'ipotesi teolo­gica detta della cc decisione» ne è oggi rinnova­ta espressione: {(nella morte si apre per l'uomola possibilità per il suo primo atto pienamentepersonale; essa costituiscequindi il luogo vera­mente privilegiato del divenire della coscienza,della libertà, dell'incontro con Dio e della de­cisione del suo destino eterno» (L. BOROS,Mysterium mortis, p. 30).In realtà il confronto con la morte è necessa­rio; già 1'esprimevala splendida formula di Se­neca «vivere tota vita discendum est et, quodmagis fortasse miraberis, tota vita discendumest mori» (SENECA,De brevitate uùae, VII, 3)..Ma come posso confrontarmi con la morte,dove la colgo? Ne conosco aspetti esteriori;oppure momenti preliminari, che per di piùsfuggono, ben spesso, alla coscienza riflessa,obnubilata o spenta affatto dalla sofferenza edai farmaci con i quali si vuol lenirla. Non ècerto colui che sorge da situazioni che l'hannocondotto ai limiti estremi della vita più qualifi­cato di altri ad offrirei una chiara intelligenzadella morte. Tutto quello che può proporsi co­me oggetto di osservazione empirico­scientifica non permette di identificare il tem­po, il momento della morte, nonché la sua na­tura; quello che il biologo od il fisiologo inten­dono comemorte, non coincide con quello cheintendono il filosofo ed il teologo. Quello chenuove acquisizioni scientifiche o nuove espe­rienze hanno reso possibile, ad es. in fatto dirianimazione, ha piuttosto complicato che ri­solto il problema dello stabilire che cosa sia lamorte.La morte è un momento limite, non assimilabi­le ad altri momenti della esistenza, che pur necondizionano la comprensibilità, e sui quali, asua volta, proprio in quanto limite, proietta lasua ombra. Propriamente non posso esperi­mentare la morte sin che son vivo: posso espe­rimentare gli stadi di una evoluzioneche inevi­tabilmente conduce alla morte, posso esperi­mentarne le sofferenze preliminari, la stessa

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Quello che separa con un segno netto e pro­fondo la morte dell'uomo da un qualsiasi fini­re, è la consapevolezza che l'uomo ha del suoessere per la morte: consapevolezza che può

VII LA MORTE COME COMPI­MENTO

agonia; posso soggiacere al venir meno dellecose; posso soffrire il distacco dilacerante dellapersona più cara. Neppure la mia morte è espe­rienza della morte, se ci atteniamo al senso ri­goroso di esperienzacome vissuto intramonda­no. La morte infatti mi pone in una situazionenon più inquadrabile nelle categorie della vita,dell'esistenza empirica. In questo senso valedavvero la massima di Epicuro sopra ricorda­ta. Di qui acquista verità l'affermazione chedalla morte non v'è ritorno.Ma sembra tendenza costante dell'uomo nonsolo lo sfuggire la morte, bensì anche robliar­ne o snaturarne la problematicità. Queste stes­se formule, che affermano la morte come sem­plice fine dell'uomo, ci pare muovano in talsenso, assumendo la fine, categoria dell'al diqua, come categoria assoluta; così come elusi­ve - già rabbiamo indicato - ci sembrano lesoluzioni fondate su un dualismo platonizzan­te.Il dichiarare la morte situazione limite com­porta anche che essa è limite per la nostra in­telligenza, i cui concetti sono misurati su espe­rienze intramondane. Una realtà siffatta ci im­pone perciò un interrogativo, un interrogativoradicale, assoluto, del quale la vita, l'umanaesistenza è condizione di possibilità, posizionenecessaria,ed insieme impossibilitàdi risposta:impossibilità non forzata dalla contradditoriamolteplicità di soluzioni: troppo spesso paghedella evocazione di fantasmi, o, di contro, in­clini ad attribuire ai fantasmi che l'accompa­gnano la problematicità della morte, quasi cheuna purificazioneda quelli potesse risultare an­che liberazione da questa.In realtà dalla morte e non dalle sue figure ac­cidentali, sorge il sempiternus horror, radice diogni altro modo dell'orrore: è l'orrore del nonessere, colto nella radicale negatività della pri­vazione. Non l'assenza, ma il vuoto, ilbaratro,l'abisso infinito. Di fronte al quale non stasemplicemente,altro e diverso, il pieno, l'esse­re; piuttosto sembra che da quello si levi una.nube che tutto intossica, un filtro che tutto am­morba e corrode, rendendolo vano e insignifi­cante.

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assumere le più diverse figure e sempre si pre­senta con intonazioni singolari, ma che nellasua struttura soggiace a tutte le scelte ed agliorientamenti autenticamente umani: ora appa­re come speranza o timore, ora come serenoandare incontro o fuga, altra volta come ricer­ca di razionale chiarezza o di oblio. La com­prensione della esistenza come possibilità è in­trinsecamente legata al senso della morte; emette in luce la contraddizione, nella qualel'uomo si dilacera tra la inarrestabilità del pro­cedere in tutto il suo essere verso la morte - lanaturalezza della morte - ed il non meno radi­cato rifiuto che oppone alla morte con tutto ilsuo essere; tra la casualità continuamente espe­rita del vivere e del sopravvivere, ed il sensodella possibilità dell'esistenza come trascendi­mento di questa casualità.Al fondo è la contraddizione già sopra dichia­rata tra l'essere e il non essere, per la quale ilnon essere appare come raccapricciante ed an­goscioso, perché non è già il niente, ma il nullache insidia l'essere, insidendo in esso, che purs'afferma in una apertura progettante. Il nonessere si pone perciò come ostacolo, come con­traddizione alla radicale volontà di vivere, diessere, dell'essere che vuoi essere, che è vo­lontà di potenza.La rassegnazione non è impossibile, ma solocome affermazione dell'esigenza suprema del­l'essere, non della sua negazione. Ed in questastessa linea è anche inquadrabile la già accen­nata teoria della morte come decisione o comecompimento. La enuncia chiaramente K. Rah­ner: « Se l'asserzione che la morte è per sua na­tura il compimento personale di sé, la "propriamorte" ha ragione di sussistere, allora la mortenon può essere soltanto un incidente che vieneaccettato passivamente (sebbene sia evidente­mente anche questo), un evento biologico difronte al quale l'uomo come persona si trovainerme ed estraneo, ma è pure da intendere co­me atto dell'uomo dall'interno e, beninteso,non soltanto una presa di posizione dell'uomonei suoi confronti, che rimanga fuori di essa».Ed ancora: «La morte deve essere dunquequeste due cose: la fine dell'uomo come perso­na spirituale e attivo compimento dall'interno,un attivo portarsi-a-compimento, generazionecrescente e comprovante il risultato della vita etotale prendersi-in-possesso della persona, è unaver-realizzato-se-stessi e pienezza della realtàpersonale attuata liberamente. E la morte del­l'uomo come fine della vita biologica è allostesso tempo e in maniera indissolubile e ri­guardante tutto l'uomo, rottura dall'esterno,

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così che la "propria morte" dall'interno ama­verso ratto della persona stessa è al tempostesso l' evento del più radicale depotenziamen­to dell'uomo, azione e passione in uno. Datal'unità sostanziale dell'uomo, sempre che siapresa veramente sul serio, non è possibile asse­gnare semplicemente ciascuna di queste dueparti dell'unica morte all'anima e al corpo dd­l'uomo, e così scomporre la vera e propria es­senza della morte umana» (K. RAHNER, Sullateologia della morte, pp. 29-30).Sarebbe azzardato affermare da un punto divista della ragione naturale la realtà effettualedella morte come compimento; potremmo for­se riconoscere ilprofilarsi di siffatta possibilità..o addirittura di esigenza, nella constatazioneche tutto quello che di volta in volta s'è rag­giunto o realizzato è già in qualche modo a noisottratto, irrigidito, cristallizzato, e solo puòvalere come momento di un processo sempreprogrediente. Ma anche questo abbisogna diprecise chiarificazioni e solleva gravi difficoltà.In ogni caso l'aspetto primo della morte - efenomenicamente rilevante - è il venir meno.il cessare, il non essere più, la fine. Può presen­tarsi nella teoria della decisione un sottile para­logisma quando si salti, senza mediazioni, dal­la incornpiutezza del dinamismo spirituale edelle sue realizzazioni, insuperabile nei limitidella esperienza terrena, alla affermazione diun compimento raggiunto nella morte. Una si­mile illazione o postulazione dovrebbe essereben fondata. Perché il compimento piuttostoche la fine completa? Il dato fenomenico dellafine non può essere semplicemente disatteso. Esenza un preciso riferimento alla fenomenicitàdella morte non possono neppure venir elabo­rate quelle che, a partire da una fenomenologiadell'uomo, possono essere indicate come pro­pr~età d~llo spirito (immortalità, indistruttibi­lità, SUSSIstenza,ecc.).L'origine del problema è evidente: posto chela morte sia considerata come avvenimentoche interessa tutto l'uomo, essa va vista nel suomomento di determinazione, come fatto natu­rale, e nel suo momento umano, di libertà. Sifa allora chiara l'alternativa: sarà il momentonaturale quello che prevarrà, alla fine, sulla ve­loce e fuggitiva meteora della libertà, qualemomento specificamente umano? Oppure saràla natura quella che verrà assunta nella libertà?Le indicazioni bibliche che abbiamo in prece­denza esposto oppongono, è ovvio, un chiarorifiuto alla prima ipotesi, anche se non permet­tono di accogliere senza precisazioni la secon­da. Rahner ci ricorda che nella dottrina della

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Prima di tentare una qualsiasi risposta a que­st'ultima domanda è però necessario soffer­marci ancora sulla sua premessa, che diretta­mente propone il tema di una ontologia dellamorte. Che cosa con questa s'intenda è dettochiaramente da Rahner: «N ella morte comeavvenimento concreto nel singolo uomo, per ilquale essa è decisamente bene o male, ci deveessere ancora qualcosa di comune, qualcosa diancora neutrale che permetta di dire che tuttigli uomini in senso vero (anche se ciò nonesaurisce l'intero avvenimento della morte)muoiono della stessa morte, cosicché rimanevelato di che morte in realtà il singolo uomomuoia, se di quella di Adamo o di quella di

VIII INTERPRETAZIONE TRA­SCENDENTALE DELLA MORTE

chiesa i due momenti sopra indicati sono com­presi rispettivamente nelle diciture della mortecome ((separazione dell' anima dal corpo» edine dello status oiae» (a.c., p. 15). In ogni ca­so, se la natura nella morte è assunta nella li­bertà, diventa decisivo, sul «dover morire», il«voler morire n. Ma come può essere intesaquesta affermazione? Insistiamo ancora: il du­plice aspetto della morte non può far dimenti­care, con la necessità, la casualità del «dovermorire», che non coincide senz'altro con lamaturazione del «voler morire». Il vangelostesso testimonia che la morte viene semprecc tamquam fur et latro»; e se, come vedremo,la morte mette in gioco anche 1'abbandono daparte di Dio, essa non può semplicemente rap­presentare un acquistarsi e possedersi, ma ~ ne­cessariamente un perdersi; ed anche il suo insi­stito legame con il peccato non permette dicomprenderla senz'altro come compimento.Ci pare si presenti una linea interpretativa nel­la direzione della opzione fondamentale del­l'uomo per Dio o contro Dio. Potrebbe esserefecondo istituire un rapporto esplicito tra lastruttura formale della opzione fondamentaleed il carattere trascendentale della morte: maora ci è impossibile.Positivo risultato della riflessione svolta inquesto paragrafo sarebbe già 1'aver sufficiente­mente chiarito che il discorso della morte co­me compimento, dal punto di vista filosofico,dice la seria ipotizzabilità di due ipotesi fonda­mentali di interpretazione della morte: 1'unanella direzione della morte come pienezza, 1'al­tra invece come kenosi radicale. Ma cosa puòinclinarci o deciderci per l'una o per l'altra?

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Cristo. Partendo di qui, dunque, la teologiastessa esige un'ontologia della morte, perquanto poco, dal motivo accennato, la morteesperimentata realmente possa venir identifica­ta in partenza in modo ingenuo col postulatocarattere naturale della morte» (o.c., p. 35).Ma un'ontologia della morte può essere svoltasolo nel quadro di una antropologia ontologi­ca, ed in particolare in connessione con il temadelia corporeità, della quale essa rappresentaun elemento cruciale e definitore (cfr. G. BOF,Una antropologia cristiana nelle lettere di S. Pao­lo, pp. 77 ss.). N ella morte cessa, anzitutto, lafenomenicità dell'uomo. L'aspetto primo e piùimmediato con il quale la morte si presenta èquello del sottrarre l'uomo dall'ambito nelquale egli è inserito insieme con tutti gli entiintramondani: sottrarre che è impossibilità dirinvenimento tra di essi, più ancora è chiusuradi ogni possibilità di ulteriore determinazionedell'ordine, dell'orientamento, del significatodegli enti intramondani: siffatto rapporto è in­fatti caratterizzante della corporeità e dellamondanità deli' uomo. E forse necessario affer­mare che la morte rappresenta la fine di questacorporeità e mondanità?Ma un secondo non meno rilevante momentodella corporeità è rappresentato dal suo esserefondamento del rapporto interpersonale. An­che per questo aspetto la morte rappresentamotivo di crisi. Come è possibile tessere nuovetrame di umani rapporti, come è possibile ilperdurare di quelli già costituiti, quando vengameno quell'empiricità dell'uomo, che di ognirapporto rappresenta il presupposto?Il rapporto con Dio, anch'esso mediato dallacorporeità, dovrebbe diventare terzo essenzialetema iÌi quest'ordine di considerazioni.L'ontologia della morte che in tal modo s'èandata profilando ha chiaramente carattere diontologia trascendentale. Ora è chiaro che unariflessione trascendentale sulla morte, postoche non Eossa esercitarsi sull' esperienza dell'i­stante della propria morte, e tanto meno sullacontemplazione del cadavere, è possibile solose la morte non ci sorprende semplicemente,ma rappresenta una dimensione della vita, po­tremmo dire una sua struttura. Questo com­porta la presenza della morte in ogni momentodella vita, in ogni espressione vitale; ma nonesclude, d'altro canto, che alcuni momenti nepermettano una migliore trasparenza, facendo­ne emergere i tratti ~iù tipici, così che se nepossa istituire una piu attenta disamina. Pos­siamo addurre, nel quadro delle esperienza piùtipiche, e al fine indicato più feconde, quelle

MORTE

gliamo ora solo esplicitare alcuni nessi dellacomprensione della morte con altri temi antro­pologici, attraverso i quali sarà anche]ossibileintravvedere, in forma più esplicita, . tipo dirisposta alla problematica che nei paragrafiprecedenti abbiamo visto addensarsi attornoalla morte. Otterremo cosÌ anche un altro risul­tato: quello di offrire quasi una esemplificazio­ne del tipo di rapporto che riconosciamo tra ri­flessione filosofica e i dati di fede: il rapporto,cioè, tra un interrogativo proposto a livelloontologico, ed una risposta in termini onrici:riconoscendo alla teologia il compito di media­r:_equesto rapporto.E evidente che, per Paolo, il destino dell'uomonon si conchiude nei limiti dell' esistenza terre­na, ma si proietta, al di là della morte, in unanuova forma di vita, anzi nella vita autentica.La morte è il momento limite, che separa edunisce insieme le due figure fondamentali del­l'esistenza umana, quella terrena e quella ultra­terrena.Ma la morte nella prospettiva dell'antropolo­gia paolina non può essere intesa, platonica­mente, come separazione dell'anima dal corpo:comprometterebbe l'unità che Paolo riconoscenelI'uomo, e la dialetticità radicale che conferi­sce alla morte un carattere paradossale: il sapermorire, nel quale lo stoico realizza, con il sog­giacervi, il supremo superamento della neces­sità; la celebrazione della propria personalitànel «conternncre mortern», non sono affari diPaolo.Egli vede la morte legata anzitutto alla vicen­da di perdizione o di salvezza del mondo: ap­pare con la colpa del primo Adamo ed è supe­rata dalla morte di Cristo; ed è, insieme, unarealtà che, definendo l'uomo come tale, si ponein qualche modo ad un livello precedente aquello sul quale l'uomo si definisce come unitoo separato da Cristo. Essa rappresenta la finedell'uomo, del quale sconvolge ed annienta re­sistenza; addirittura: l'uomo non redento ha lamorte come suo fine (Fil 3, 19). Ma insiemeessa ha il positivo carattere del compimento,per il quale Paolo può ~esiderare di dissolversiper essere con Cristo. E termine dell'orrore su­premo e del desiderio; minaccia sempre incal­zante, nemico che colpisce improvviso, e atti­vo compimento di sé.La concezione dell'unità dell'uomo che Paoloesprime diventa però sorgente di difficoltà nel­la rappresentazione di quel che avviene del­l'uomo nella, e dopo la morte: Paolo stesso haesperimentato ildisagio proveniente dalle cate­gorie nelle quali interpretava la realtà dell'uo-

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La già sottolineata connessione che la Bibbiapone tra morte e peccato ci dice che il sensopiù preciso e compiuto della morte è attingibilesolo se questa è vista nel quadro dei rapportitra l'uomo e Dio, come momento di questirapporti segnato di profonda ne~atività; informa parallela e contrapposta, l essere conCristo che si realizza nella morte ne dice ilmo­mento di positivo rapporto con Dio. Ma que­sto secondo aspetto trova più esplicita tratta­zione dove si parli della beatitudine dopo lamorte, e della risurrezione. Vogliamo perciòsostare ancora sul primo, negativo.Vogliamo iniziare dal richiamo alla afferma­zione della universalità della morte, facilmenterinvenibile nella scrittura e nella tradizione del-

XII LA MORTE ED IL RAPPOR­TO CON DIO

mo, e che mal si prestavano ad una risposta deltutto soddisfacente e capace di superare questoaspetto della problematicità della morte. Perquesto egli è ricorso a categorie di origine edimpronta ellenistica, ed a figure come quelledell' abitazione e del vestito (2 Cor 5, I -I o ~cfr. G. BOF, in: «Dizionario teologico», voceImmortalità). Ma non risulta meno evidente lafedeltà di Paolo all'indirizzo fondamentaledella sua concezione, secondo la quale la cor­poreità rappresenta un elemento essenziale del­l'uomo, cosicché all'c(essere sovrarivestito» (2Cor 5,4) si volge la sua aspirazione, e nel rag­giungimento del corpo della risurrezione sicompie la sua salvezza.Acutamente K. Rahner propone, nella ricercadi una interpretazione adeguata del pensiero diPaolo sulla corporeità e sulla mondanità del­l'uomo, una chiarificazione di quello che in luisignifichi il rapporto dell'uomo con i «principidel mondo» di Gal 4, 3. 9. Ci pare prospetti­va interessante, anche se possiamo ora solo ri­chiamarla (cfr. K. RAHNER, Sulla teologia dellamorte, pp. 19 ss.).Inequivocabile è la risposta di Paolo ad un al­tro problema posto dalla morte: quello deirapporti personali: coloro che sono morti nonsono affatto sottratti alla possibilità di relazio­ni tra di loro e con Cristo, e neppure con i vi­venti; e i viventi non sono esclusi dalla possibi­lità di incidere in qualche modo su di essi; ba­sterebbe a confermarlo il riferimento al puroscuro battesimo per i defunti in I Cor15, 29·

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la chiesa. Possiamo dire che la sua portata do­gmatica può essere limitata alla universalitàdella morte come fatto biologico o fisico? Daquanto abbiamo detto ci pare soluzione alme­no improbabile. Addirittura ci pare possa legit­timamente esser messo in dubbio se l'afferma­zione comporti necessariamente la morte fisica.Si potrebbe allora proporre questa ipotesi diinterpretazione: la affermazione della universa­lità della morte dice la universalità di un' espe­rienza di separazione da Dio, dunque di mortecome espressione, frutto e compimento delpeccato. Che la morte sia essenzialmente con­nessa alla separazione da Dio, alla opposizionea Dio, altro non è che la ripetizione della suadipendenza dal peccato. Ma l'ipotesi escludeche la morte sia una semplice estrinseca conse­guenza del pe~~ato, la quale si con~umi nellanatura, o addirittura nel corpo dell uomo. Alcontrario, essa è, in tutta la sua consistenzareale, espressione del distacco e della distanzada Dio. La morte è un perdersi, perché è unperdere il rapporto con la vita e con la sua sor­gente; è l'inferno, nella misura suprema secon­do la quale è sofferto da tutti gli uomini, anchedal giusto, anche da Gesù che, condannato sul­la croce come maledetto, ha espresso la supre­ma angoscia del suo spirito nel grido: ((perchémi hai abbandonato? l).

Allora si comprenderebbe anche meglio ran­goscia della vita, e quella più violenta e inelut­tabile di fronte alla lucidità spettrale dellamorte. Certo questo non traspare molto nellaincoscienza nella quale la sofferenza, da un la­to, la nostra formazione culturale ed il moder­no assetto clinico ed ospedaliero, dall'altro, ce­lano e violano la tragicità della morte, ed ilsuo mistero, sottraendola alla possibilità di unapur relativa esperienza, che altre epoche ed al­tre culture sembrano aver avuto più accessibile.Ma se ancora in qualche misura la morte puòessere colta e vissuta come separazione dallavita e dalla sua trascendente fonte, allora nellaabissale profondità di questa esperienza si in­travvede anche il nesso tra morte, peccato,dannazione.Ne verrebbe allora un' altra conseguenza allatesi della morte come compimento. Sarebbeimpossibile identificare con esso la morte realeconcreta: il compimento potrebbe solo signifi­care una possibilità trascendentale, definitiva­mente negata, come attuazione positiva, daldominio, sul piano antico, del peccato e delleconseguenze non annullate dalla redenzione. Ilpeccato sarebbe allora anche la radicale incom­piutezza dell'uomo, che trova nella morte il

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Lasceremmo monco e privo del suo fulcro ildiscorso teologico sulla morte se non ne chia­rissimo la dimensione cristologica. La mortenon riserva solo una nuova vita, per colui checrede in Cristo, diversa da quella di chi noncrede: essa è diversa, nel suo essere morte, perchi crede: è la morte nel Cristo, nel Signore.Forse 1'espressione più pertinente è quella della«sacramentalità della morte». La tradizioneteologica ha costantemente dichiarato il rap­porto dei sacramenti con la morte di Cristo: inessi si celebra la «memoria passionis l). La vitacristiana è partecipazione alla morte di Cristo:ma potrebbe darsi un significato non figuratodell espressione se la morte non fosse dimen­sione costante della vita di ognuno?N on pare allora salto eccessivo concludere chela morte in Cristo, come momento limite del­l'esistenza cristiana, come momento limite del­la partecipazione alla morte di Cristo, realizzaquello che si anticipa e si significa nella realtàdei sacramenti. Non è certo possibile nascon­dere sotto queste affermazioni la difficoltà diprecisare ulteriormente che cosa implichi il ca­rattere cristiano della morte, al di là del riferi­mento alle scelte cristiane dell'esistenza terre­na, e della speranza per la vita futura. Ma talidifficoltà sono sufficienti a render vuota e va­na raffermazione iniziale?Certo è che la visione teologica della morteproietta lo 'sguardo meno nell'al di là che nel­l'al di qua, meno in quello che la misericordio­sa benevolenza di Dio offre come speranza ul­tima per l'uomo, che sulle possibilità, gli impe­gni, le prospettive ed i valori che essa suscitain questa vita.Ed il primo annuncio che noi cogliamo è chel'uomo non è più solo, neppure nel momentoin cui sembra essersi lasciato dietro tutto e tut­ti, e da tutto e da tutti sembra irraggiungi­bile.La morte in Cristo dice questa solidarietà cheCristo ha stabilito con l'uomo, e che nulla puòinfrangere. Di più: i sacramenti della fede nondicono la relazione dell'individuo con Cristo,

XIII LA MORTE IN CRISTO

suo sigillo: come frutto del peccato la morte èla irrealizzabilità dell'uomo.Tutto converge così a mostrare nella morte ilmomento supremo, nel quale viene alla luce, es'afferma, la contraddizione o la paradossalitàpropria dell'uomo: nella sua costituzione anto­logica, nel suo dinamismo spirituale, nella suasituazione storico-salvifica.

MORTE

ma annunciano un rapporto ecclesiale conil Cristo, e dunque del singolo in una comu­nità.Per questa via la salvezza investe la realtà con­creta e globale dell'uomo; e si realizza il valoresalvifico della morte di Cristo, in tutte le figu­re e le dimensioni di quella.La sacramentalità della morte così intesa cirende comprensibile la vita come {(memoriapassionis». Non possiamo certo qui intravve­dere altro e più che una possibilità, che solo inaltro contesto teologico, e con il richiamo dinumerosi principi ed aspetti qui neppure nomi­nati, dovrebbe ricevete la sua chiarificazione egiustificazione. Si aprirebbe allora alla conside­razione della morte anche l'orizzonte sociale epolitico, perché verrebbe problematizzata co­me forma di partecipazione alla morte di Cri­sto la fatica, la sofferenza e la lotta del povero,del « maledetto» ancora appeso alla croce eche vive questa maledizione come distacco oribellione alla chiesa, a Cristo, a Dio; e ancorala sofferenza e la lotta di tutti gli oppressi incerca ed in attesa di giustizia, il travaglio di in­tere generazioni per le generazioni successive,il loro morire per dar vita. Ci si potrebbe chie­dere se la miseria, in quanto è protesta e sospi­ro, non sia, pur irriflessamente, in forza dellao.ggettiva unione alla morte di Cristo, invoca­zione.Ma intanto s'è delineato un altro aspetto: ilsenso totale della morte, come è per noi rag­giungibile, va inteso anche per le possibilitàche essa offre; qui, soprattutto, la coscienza bi­blica e la figura storica di Gesù acquistano va­lore esemplare. La morte diventa stimolo al ti­mor di Dio: al riconoscimento della sua tra­scendenza, della nostra relatività, del nostroassoluto bisogno di Lui: è la coscienza di sé,della propria creaturalità, come possesso di sésolo in un rinvio assoluto a Dio creatore. Semai una insufficienza antologica, la contingen­za, può essere fondamento e motivo della esi­genza di Dio, questo appare radicalmente nellamorte: forse è la verità più profonda della for­mula che dichiara nella tomba la culla deglidei. Più profondo e più vero è certo l'illumi­narsi, di fronte alla morte, della fede di molteanime semplici. L'uomo si riconosce, così,mortale di fronte a Dio, che solo è immortale(I Tm 6, I 6); già nelI'AT l'accettazione dellamorte dalle mani di Dio era un rendergli ono­re.Ma la stessa precarietà della vita, il pericoloche essa venga improvvisamente interrotta, lainsuperabile accidentalità della morte come av-

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Ci limitiamo ad indicare le opere alle quali, in for­ma esplicita o implicita, ci siamo di fatto riferiti nelcorso della voce, dando anche le indicazioni com­plete delle opere già citate.A. BERTHOLET,in: «Dizionario delle religioni»Roma 19722, voce Morte, 286; H. SCHMID-B.REICKE-P.ALTHAUS-E.STROKER,in: RGG VI3,voce Tod, 9°8-92 I ; F. DINGERMANN-F.MUSSNER­K. RAHNER-G.SAUSER-M.VODOPIVEC,in: LThK,voI. X, voce Tod, 218-227; K. KERÉNYl,DieMy­thologie der Griecben, 2 volI., Zurich 19682; P.HOFFMANN-H. VOLK, in: {(H andbuch Theologi­sche Grundbegriffe» vol. II, voce Tod,661-679;trad. it. «Dizionario teologic~». 3. volI., Brescia;R. BULTMANN,art. Thanatos, in: TWNT, III. 7-2 I; H. HAAG, in: «Dizionario Biblico», Torino1960, voce Morte, 661-662.; P. GRELOT,in: «Di­zionario di teologia biblica» Torino l 97I 4, voceMorte, 731-742; G. VON.RAD,TbeologledesA.T.,

BIBLIOGRAFIA

venimento esteriore, vengono a costituirsi co­me elementi intrinsecamente qualificanti ilvangelo. Il figlio dell'uomo che viene come« fur et latro », la morte improvvisa, inevitabi­le, la costanza della sua minaccia, l'urgenzadella decisione, il camminare di fronte a Dio:sono tutti momenti rilevanti dell' annuncioevangelico, e sono legati alla morte, la qualediventa per essi anche giudizio di Dio. Nell'af­fidarsi a questo giudizio sta la fede, che si ponecome affidamento radicale, soprattutto perchéè condizionata dal venir meno, nella morte, ditutte le assicurazioni mondane. E similmenteassumono la loro radicalità cristiana la speran­za contro ogni speranza e l'amore che puògiunger a sacrificare la vita in un'offerta che èdell'amore prova suprema.Nella morte si esperimenta, dunque, per il suonesso con il peccato, il distacco da Dio ed in­sieme il distacco di Dio, il « no » del peccatoredetto a Dio che è fonte di vita, il c(no » di Dioad una vita che si ribella alla sua sorgente. Ilrapporto del peccato con la morte èprima rap­porto di senso che di causa. Ma nella prospet­tiva cristiana la morte diventa soprattutto illuogo della grazia come liberazione dal pecca­to, come risurrezione dai morti: alla luce dellamorte acquista la sua 'pienezza di senso l'an­nuncio del vangelo secondo il quale (c •. non cisarà più la morte, né lutto, né lamento, né af­fanno, perché le cose di prima sono passate»(Ap 21,4).

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MORTE