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Studio Teologico Interdiocesano La recezione del Concilio Vaticano II nello Studio Teologico Interdiocesano Luciano Monari Carlo Truzzi Enrico Mazza Paolo Losavio Giovanni Costi Alessandro Manenti

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Studio Teologico Interdiocesano

La recezione delConcilio Vaticano II

nello Studio TeologicoInterdiocesano

Luciano MonariCarlo Truzzi

Enrico MazzaPaolo Losavio

Giovanni CostiAlessandro Manenti

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Prima edizione, novembre 2013.

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Indice

Esegesi biblica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

Teologia fondamentale e patristica . . . . . . . . . . . . . 13

Liturgia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17

Filosofia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29

Teologia pastorale e catechetica . . . . . . . . . . . . . . 35

Storia della Chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37

Psicologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

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Esegesi biblica

Luciano Monari

Premessa: scrivo di cose successe quarantacinque anni fa e lo fac-cio senza riferirmi a documenti o memorie scritte. La mia memoria haperso molti contenuti particolari riguardanti i fatti di allora e probabil-mente ha ristrutturato altri ricordi man mano che il mio contesto di vitamutava. D’altra parte non ho la possibilità di documentarmi e fare unaricerca storica metodologicamente corretta. Bisogna quindi che il let-tore prenda le mie parole per quello che sono e che possono dare: dauna parte con il riconoscimenti di tanti ‘buchi’ nella documentazione;dall’altra, spero, con l’arricchimento che viene dall’esperienza deglianni successivi nei quali le scelte di mezzo secolo fa hanno dato fruttie hanno mostrato limiti.

1. Il primo, fondamentale elemento che il Concilio ha sottolineato eche ha determinato la revisione dell’insegnamento biblico nei seminariè il posto stesso della Sacra Scrittura non solo nella teologia ma prima ditutto nella vita della Chiesa. L’affermazione fondamentale mi sembraquella di DV 21: “E’ necessario, dunque, che tutta la predicazioneecclesiastica come la stessa religione cristiana sia nutrita e regolata

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dalla Sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli vienecon molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazionecon loro; nella Parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza,da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesasaldezza della fede, cibo dell’anima, sorgente pura e perenne dellavita spirituale.” (EV 1,904)

Come il Concilio ricorda poco sopra, “la Chiesa ha sempre venera-to le divine scritture come ha fatto con il corpo stesso del Signore” (ib.).Questa affermazione potrebbe essere facilmente dimostrata; ma biso-gna subito aggiungere che prima del Concilio il modo di approccioalla Scrittura era di tipo apologetico e dottrinale. Apologetico: si cer-cava cioè di dimostrare la verità della Scrittura in quanto libro ispirato equindi esente da errori di qualsiasi genere. Dottrinale: dalla Scrittura sipotevano e si dovevano ricavare le affermazioni centrali della dottrinadella fede in modo che il contenuto dottrinale proposto alla fede deibattezzati apparisse chiaramente come espressione della rivelazionedi Dio. Tenendo presenti questi obiettivi, si poteva comprendere che lalettura diretta dei testi fosse importante per gli specialisti, ma apparissepraticamente superflua (quando non pericolosa) per le persone co-muni. Gli specialisti avevano il compito di affrontare i problemi storici,letterari, teologici posti dal testo biblico in modo da dimostrare, con glistrumenti della critica biblica, che la rivelazione cristiana è credibile eche la proposta che il magistero fa del contenuto della fede è fonda-ta. Ora, fare questo richiede strumenti culturali complessi che solo glistudiosi sono in grado di possedere e maneggiare (conoscenza dellelingue, della cultura ebraica, della storia dell’interpretazione biblica. . . ); agli altri, al popolo di Dio, può servire conoscere i risultati cui giun-gono gli specialisti in modo da verificare che la conoscenza della fedeè corretta. Ma a che pro leggere direttamente la Bibbia? I contenutidella fede sono esposti con maggior precisione e chiarezza in un cate-chismo ben fatto; le esigenze della morale cristiana sono enumeratecon maggior completezza nei manuali di morale. Per non parlare dellavita spirituale: il racconto della Bibbia contiene sì alcune affermazionidi straordinario impatto sulla vita spirituale dei credenti, ma contieneanche narrazioni poco esemplari che pongono problemi intricati e cheè meglio non conoscere nemmeno. Insomma, per le necessità dellafede e della morale basta il catechismo; per le necessità della vitaspirituale sono un aiuto migliore le vite dei santi e i testi raccomandatidi spiritualità. Si può lasciare la conoscenza diretta della Bibbia aglispecialisti e accontentarsi della percezione che i contenuti della fedee della morale – così come il magistero li presenta – sono davvero

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fondati sulla rivelazione contenuta nella Bibbia (e, naturalmente, nellatradizione).

2. Il Concilio ha rinnovato le prospettive almeno in una duplice pro-spettiva. Anzitutto ha proposto una visione più ampia della rivelazionee della fede: non solo come rivelazione di alcuni contenuti di veritàaccolti come veri nella fede, ma come comunicazione di vita tra Dioe l’uomo, una comunicazione di vita che comprende certo un conte-nuto dottrinale ma, insieme ad esso, tutta la gamma varia del vissutorelazionale: “Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare sestesso e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il qualegli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santohanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura.” (DV2 = EV 873) In questa proposizione del Concilio sono ricordate le dimen-sioni essenziali della rivelazione (alle quali corrispondono altrettantedimensioni della fede): dimensione trinitaria, cristologica, personale,dialogica, storica, dottrinale, esistenziale, salvifica . . . Le conseguen-ze di questa affermazione, come si può immaginare, sono molte eprofonde.

Se la rivelazione è anzitutto un incontro del Dio personale conl’uomo, la Bibbia acquista il valore originario di una parola viva cheDio, soggetto libero mosso da un amore gratuito, rivolge all’uomo conl’intento di suscitare in lui una risposta di amicizia e di fedeltà. Ma allorala Bibbia non è sostituibile con un catechismo, per quanto ben fatto; enemmeno con i trattati teologici, per quanto perfetti; e nemmeno con ilibri di spiritualità, per quanto ricchi. La parola di Dio è parola personalenella quale Dio stesso viene incontro agli uomini e la parola personalenon può essere surrogata in alcun modo; l’amicizia (la comunione divita) richiede necessariamente lo scambio personale di parole contutta la gamma di sentimenti che possono accompagnare questoscambio.

3. Tutto questo ha avuto un impatto forte sulla ristrutturazione dell’in-segnamento di Sacra Scrittura nel corso teologico. Prima del Conciliol’insegnamento era concentrato (quasi unicamente) sulla ‘introduzionealla Bibbia’ e sulla introduzione ai singoli libri biblici. Attraverso queste‘introduzioni’ si comunicavano i dati fondamentali che dimostravanoil valore storico e teologico dei testi (della Bibbia e dei singoli libri); sidimostrava così l’autenticità dei testi (che risalivano, cioè, all’autore cuierano attribuiti), la attendibilità storica (che erano contemporanei aglieventi narrati o erano fondati su fonti credibili), la correttezza teologica(che contenevano affermazioni giuste su Dio, su Cristo, sulla Chiesa,sul destino dell’uomo . . . ). Tutto questo armamentario poteva essere

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offerto e recepito senza un accostamento diretto dei testi; bastavacitare e imparare quei versetti che erano decisivi per fondare unaaffermazione. Non sembrava importante la lettura, ma il patrimonio diconoscenze prodotto dalla lettura.

A questa prospettiva nell’insegnamento della Scrittura corrispon-deva una prospettiva simile nell’insegnamento della teologia. Qui laSacra Scrittura era usata per dimostrare il valore di affermazioni desuntedal magistero o dalla tradizione teologica. Si poneva una tesi e poisi cercava di dimostrarne la verità usando tutti gli argomenti possibili.Si cominciava sempre da una dimostrazione scritturistica della tesi; sipassava poi alla dimostrazione patristica, a quella magisteriale, storica,speculativa . . . ; e si terminava attribuendo a ciascuna tesi la ‘notateologica’ (cioè il grado di certezza) che derivava dal tipo di proveche si era riusciti a raccogliere.

4. La ristrutturazione dei corsi di Sacra Scrittura che si cercò allora diimpostare prevedeva anzitutto un biennio nel quale si sarebbe lettatutta la Bibbia dalla Genesi all’Apocalisse in modo da acquisire unavisione diretta e completa del paesaggio biblico. Era il corso che permolti anni insegnò soprattutto mons. Diaco; lo aveva chiesto insisten-temente e lo condusse con passione per anni trasmettendo in questomodo un amore sincero alla parola di Dio. Non solo: mons. Diaco im-postava la lettura alternando Nuovo Testamento e Antico Testamento;cominciava col vangelo secondo Matteo, poi leggeva il Pentateuco;seguiva il vangelo secondo Marco, poi i libri storici (da Giosuè in poi);poi Luca e i profeti e così via. Questo alternarsi tra Antico e Nuovopermetteva di variare la lettura della Bibbia e soprattutto di darle unaforma precisa nella quale i vangeli avevano una funzione strutturale.D’altra parte anche questa scelta corrisponde a un’indicazione delConcilio: “A nessuno sfugge che tra tutte le scritture, anche del Nuo-vo Testamento, i vangeli meritatamente eccellono, in quanto sonola principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del VerboIncarnato, nostro salvatore.” (DV 18 = EV 1,899) Credo che questa fossela riforma più significativa.

L’esegesi era invece proposta nel triennio con sei corsi semestrali, treper il primo Testamento (Pentateuco e libri storici; profeti posteriori; librisapienziali e Salmi) e tre per il Nuovo (Vangeli sinottici, Paolo e letterecattoliche, Giovanni e letteratura giovannea). Naturalmente, si potevaproporre solo l’esegesi di alcuni testi con attenzione particolare agliaspetti letterari e teologici, secondo il tipo di libri che si commentavano.Nel modo di affrontare l’esegesi era nuova l’attenzione alla dimensioneletteraria. Si può avere un’idea del cambiamento se si osserva il modo

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in cui si faceva uso dell’analisi del ‘genere letterario’. Ai generi letterarifa riferimento anche il Concilio quando scrive: “Per ricavare l’intenzionedegli agiografi, si deve tener conto tra l’altro anche dei generi letterari.La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi invaria maniera storici, o profetici, o poetici, o con altri generi di espres-sione.” (DV 12 = EV 892) Ora, c’è una modalità apologetica di servirsidei generi letterari che consiste nel considerare il genere letterario uninvolucro con cui è rivestito il messaggio di un testo; se si leva il genereletterario, rimane il messaggio nudo e crudo e il testo può trasmettereil suo messaggio senza ambiguità. Questo modo di affrontare il testo è,però, strumentale perché non cerca di comprendere il testo ma solodi ricavare dal testo alcune idee ritenute utili. Passare a una visionecorretta (non apologetica) del genere letterario significa rispettare iltesto per quello che è, cercare di capirlo nel modo migliore, riuscire agustarlo meglio e con maggior sapore.

Non è per caso che ho usato il verbo ‘gustare’: il verbo cerca diesprimere uno dei mutamenti di accento che si sono verificati nell’ac-costamento alla Bibbia. Se la Bibbia è il magazzino che custodiscele verità della fede e se dalla Bibbia, come da un magazzino, siamochiamati ad estrarre queste verità, la Bibbia ha bisogno solo di essere‘capita’. Ma se la Bibbia è parola che nasce da un dialogo interperso-nale e vuole dare a questo dialogo il massimo di intensità e di bellezza,allora non basta capire, bisogna anche gustare. Più volte il Concilioparla della Bibbia come ‘nutrimento’, come una conversazione diamore: il nutrimento è fatto sì di grassi, zuccheri e proteine, ma è fattoanche di sapore e di gusto; una conversazione di amore contiene an-che delle idee, ma le trasmette insieme a sentimenti, desideri, attese.Uno dei testi più citati in teologia per dimostrare l’ispirazione divinadella Scrittura è sempre stato 2Tm 3,16 che dice: “Tutta la Scrittura èispirata da Dio.” Quando i teologi citavano questo testo come pro-va teologica, si fermavano alle prime parole; il testo, però, continuaaggiungendo: “Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile perinsegnare, convincere, correggere ed educare alla giustizia, perchél’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.”(2Tm 3,16-17) Queste parole sembrano inutili per fondare la dottrinateologica dell’ispirazione biblica, ma in realtà hanno un impatto forte;dicono che la Scrittura serve a formare l’uomo credente, a far sì chela vita cristiana maturi, mossa dallo Spirito, a suscitare il desiderio e ilcoraggio e la perseveranza nelle opere buone. Ora, per raggiungerequesto obiettivo, la dimensione letteraria della Bibbia ha una rilevanzanotevole perché serve a convincere, a sentire la gioia e la bellezza

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della vita di fede. L’esegesi deve riuscire a evidenziarla nel modo piùchiaro perché il lettore ne possa fruire.

5. Un’ulteriore differenza si coglie nella sottolineatura della dimen-sione teologica della Scrittura. Non c’è bisogno di dire che questadimensione è sempre stata considerata primaria, quasi l’obiettivo verodell’esegesi di cui il resto costituiva solo la preparazione. Sennonché,come ho ricordato sopra, il messaggio teologico della Bibbia venivaesposto prendendo l’indice dalla dogmatica (Dio uno e trino; GesùCristo, figlio di Dio e redentore; la creazione e il peccato; la dottrinadell’aldilà . . . .). In qualche modo i libri biblici venivano adagiati su unletto di Procuste perché parlassero alla teologia nel modo in cui lateologia lo richiedeva. Il cambiamento è stato profondo nel tentativodi adattare l’esposizione della teologia biblica alla dinamica propriadi ciascun libro anziché a quella predefinita dalla teologia. Questocambiamento non è senza problemi perché il risultato diventa moltopiù frammentato di quanto desidereremmo: come mettere insiemela teologia del libro di Giobbe con quella del Deuteronomio? E so-prattutto come mettere insieme la teologia del Primo con quella delNuovo Testamento?. Il problema di condurre a unità i diversi spezzonidel pensiero teologico biblico diventerà sempre più forte; ma, in ognimodo, il passaggio di prospettiva è senza ritorno.

6. Vale la pena aggiungere un altro punto. Nei programma di studidella teologia era proposto un corso iniziale di ‘Introduzione al mistero diCristo.’ Si capiva l’intento di questo corso: dare a chi inizia la teologiaun orizzonte generale nel quale collocare le diverse materie che sisarebbero affrontate nel quinquennio in modo da evitare il rischio diuna dispersione troppo ampia. È il difetto del pensiero moderno chetende a specializzare sempre più i campi del sapere perché ritiene chesolo in questo modo sia possibile fare affermazioni serie, motivate. IlLeonardo da Vinci, genio universale, non è più una possibilità concretacontemplata nella cultura contemporanea. E tuttavia l’uomo è uno, ilsoggetto è uno e le sue diverse conoscenze e abilità debbono, primao poi, rapportarsi a lui come unico soggetto.

L’intento di chi aveva proposto il corso era quindi comprensibile elodevole. Ma come immaginarlo? Come una sintesi del catechismo?Come una teologia in miniatura? La scelta che si fece era quella distrutturarlo sulla falsariga della storia della salvezza. Questo mettevanaturalmente al centro la Sacra Scrittura interpretata sul filo della storia.I settantadue libri che costituiscono il canone riconosciuto dalla Chie-sa cattolica sono quanto mai diversi per epoca storica, contenuto,genere letterario. E però tutti questi libri diversi sono testimonianza della

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esperienza che il popolo di Israele e la Chiesa – nuovo Israele – hannofatto nella storia; una esperienza determinata dal riferimento costantea Dio come ‘partner’ dell’uomo. Il riferimento a Dio (il tema dell’al-leanza) fa di questa storia una storia che tende a una meta definibilecome salvezza; in rapporto a questa meta ogni libro acquista un posto,offre un contributo, sollecita a una risposta.

Questo riferimento alla storia della salvezza si inserisce in quellache probabilmente è la rivoluzione più gravida di conseguenze cheil pensiero teologico sta vivendo e cioè l’ingresso della dimensionestorica nella riflessione teologica. Il Concilio ha dato impulso in questadirezioni in due modi. Anzitutto affermando che la rivelazione è avve-nuta “con eventi e parole intimamente connessi tra loro” (DV 2 = EV873); la storia non è quindi solo lo scenario sul quale si effettua l’eventodella rivelazione, ma è il materiale con cui opera la rivelazione stessa.Poi ricordando che “la comprensione, tanto delle cose quanto delleparole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti,i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza cheessi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro iquali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certodi verità.” (DV 8 = EV 883). Ma questa è la storia che si sta ancorascrivendo.

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Teologia fondamentale e patristica

Carlo TruzziConsegno questo scritto nell’ottica di una testimonianza. Ho iniziato

l’insegnamento presso l’Istituto nel 1973 con “Patristica” e “Etica. Princi-pi”, chiamato da don Camillo Ruini. Ho insegnato patristica fino al 2012.Poco dopo gli inizi, lasciato l’insegnamento dell’etica, ho insegnato alungo “Mediazione ecclesiale della rivelazione”, dal 1976 fino al 1998,quando divenni parroco di Mirandola.

La recezione del Concilio ha significato un cambiamento importan-te nell’ordinamento degli studi, ma anche nell’insieme dell’ambientedel seminario. L’apertura al nuovo, il dialogo tra le chiese e nelle chiesee la loro collaborazione ne furono un segno.

Parliamo anzitutto dell’ambiente nel suo insieme.Nel 1967-1968 i seminaristi del liceo e della teologia di Carpi entra-

rono nel seminario di Modena. Fui invitato dal vescovo ad accompa-gnarli. La diminuzione dei seminaristi, ma non solo, suggerì poi di uniregli alunni di teologia di Carpi e Modena a quelli di Reggio nel seminariodi quest’ultima città. Nasceva così lo studio Teologico Interdiocesano,con uno statuto abbastanza semplice e pratico, sotto l’autorità dei trevescovi.

In quel primo momento nell’ampio seminario di Reggio vennero

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ad abitare vari giovani insegnanti e il vicedirettore di Modena donPaolo Losavio. Un primo problema fu quello dell’armonizzazione deiprogrammi svolti nei tre seminari, abbastanza uniformi, ma con scan-sioni temporali diverse. Anche i tre corpi insegnanti confluirono in ununico collegio docenti, nel quale figuravano molti giovani. Per l’ordina-mento dei programmi di insegnamento si guardò principalmente allaPontificia Università Gregoriana.

Il cambiamento della figura pastorale del sacerdote indicato dalConcilio comportò problemi di adattamento tra il clero, con riflessianche all’interno dei seminaristi per alcuni anni.

Non tutto era chiaro e condiviso. Fu così che, poco dopo la fusione,gli studenti di teologia di Modena tornarono al loro seminario. Lo Stu-dio Teologico come tale non subì contraccolpi, perché da Modena iseminaristi continuarono a frequentare i corsi di studio fino ad oggi. Fre-quentavano le lezioni anche membri di varie famiglie religiose, cristianilaici e qualche sacerdote non più giovane.

Il legame con le tre diocesi, alle quali si unì poi quella di Parma,fu costante e sereno nella persona dei vescovi. La produzione di una“teologia contestuale” per le chiese locali, benché da più parti au-spicata, non ebbe sviluppi organici. L’affiliazione all’Anselmianum diRoma è stata un’esperienza proficua per l’Istituto Teologico. Da qual-che anno è subentrato il rapporto con la Facoltà Teologica dell’Emilia- Romagna.

Vengo ora specificamente alle due discipline da me insegnate. Ladisciplina più movimentata dal rinnovamento conciliare è stata quelladella mediazione ecclesiale della rivelazione. Il trattato di “apologe-tica” venne messo da parte negli anni Sessanta. Non si parlò più dipraeambula fidei, di demonstratio Christiana, di demonstratio catholi-ca. Alcuni dei temi ora venivano organizzati in filosofia, altri nel trattatosul “Gesù storico” e altrove.

Lo Studio Teologico scelse come testo base dell’insegnamento del-la “teologia sistematica” l’opera monumentale “Mysterium salutis”. Èsingolare che mentre le varie parti di quell’opera vennero poi via viaabbandonate, la parte del volume II, molto ricca, riguardante la me-diazione ecclesiale, sia stata usata fino ad oggi. Naturalmente nonfurono trascurate le questioni di volta in volta dibattute nell’attuali-tà come l’infallibilità del papa (H. Küng), la recezione ecclesiale (Y.M. Congar), l’ecclesionenesi (L. Boff). Alcune volte è stata effettuataun’analisi pratica sul campo analizzando omelie domenicali.

L’insegnamento di patristica non era considerato indispensabile.Negli anni Sessanta poteva ancora accadere che uno concludesse

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gli studi teologici in seminario incontrando semplicemente brani patri-stici come “prova” di una dottrina teologica, insieme agli argomentiscritturistici e magisteriali. Esisteva una antologia con brani scelti e ordi-nati a questo scopo. Era il noto R. de Journel, Enchiridion Patristicum.Insomma i Padri non erano accostati come un valore in sé, ma in fun-zione di altro, come auctoritates a sostegno. Purtroppo un trattamentoanalogo era toccato al testo biblico.

Fin dall’inizio nell’ Istituto Teologico, sotto l’impulso iniziale di mons.Giuseppe Diaco, nel biennio si è fatta la “lectio continua della bib-bia”, senza indugiare in quelle lunghe introduzioni che lasciano il testoispirato di fatto a una certa distanza dallo studente.

In modo analogo ho chiesto agli studenti di leggere personalmentevarie opere complete dei Padri o ampie parti, per i testi più lunghi, qualila “Città di Dio”. Dovendo fare delle scelte e avendo in gran partestudenti non iniziati alle lingue classiche, sono state usate le traduzioni.Per fortuna in questi decenni le versioni sono aumentate sia comequantità che come qualità di introduzioni e commenti.

Le singole personalità dei Padri come i problemi di evoluzione dottri-nale e interazione con l’ambiente storico sono stati trattati con metodostorico-critico.

Ho fatto delle scelte anche per quanto riguarda i contenuti. Horitenuto doveroso dare un’informazione che guidasse a una visionecompleta dei secoli patristici, ma di base, lasciando ai trattati di teolo-gia sistematica più accurati approfondimenti dottrinali. Ho cercato dimostrare la forza e la bellezza di quell’epoca particolare, ma anche ladistanza dalla nostra cultura, evidenziando anche gli aspetti esistenzialidel mondo antico sia pagano che cristiano. I Padri sono stati dellepersone e non semplicemente dei maestri.

Abbiamo cercato di cogliere frutti dall’entrata della storia nellateologia del XX secolo. Abbiamo ascoltato questa maestra di vita.Arrivare poi a delle conseguenze pratiche, questo, si sa, è altra cosa. Silicet parva componere magnis, anche il Concilio Vaticano II ha trattolinfa dal “ressourcement” in campo biblico, liturgico, patristico.

L’Istituto Teologico Interdiocesano di Reggio Emilia esiste da più diquarant’anni. È stato bello per me farne parte. Il solo fatto che siaesistito ed esista è già una cosa importante. Mi assomiglia un po’ allaComunità Europea, che si è costruita non attraverso un bello schemapreordinato, ma rispondendo più o meno efficacemente ai problemidi vari popoli, che si sono risolti meglio insieme che singolarmente.

Sono fiducioso che i problemi si potranno ancora risolvere efficace-mente insieme.

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Liturgia

Enrico Mazza1. Era il 1968 è quando iniziò la nostra attività in questo Istituto teologi-

co. Il preside Ruini preparò l’elenco delle varie discipline, per abbinarlepoi al nome dei vari insegnanti. Ricordo che ci fu, da parte sua, laconsultazione se si dovessero confermare i precedenti insegnanti delcorso di teologia del seminario di Reggio Emilia e, nel caso, quali di essiandassero confermati. Ci furono delle riconferme sia per gli insegnantidel seminario di Modena sia per gli insegnanti del Seminario di ReggioEmilia, ma ci furono anche delle esclusioni laddove ci fossero nuoveforze con specifiche competenze in determinate discipline, in grado disostituire i precedenti insegnanti.

A me vennero affidati i corsi di liturgia, e alcuni corsi di teologia deisacramenti, secondo il criterio adottato dal preside Ruini per confe-rire l’incarico di insegnamento, che prevedeva o il dottorato in unadelle discipline teologiche oppure la licenza accompagnata da unaspecializzazione in altra disciplina.

2. Effettivamente avevo conseguito la licenza in teologia e la spe-cializzazione in liturgia pur senza avere quest’ultimo titolo dato chestavo lavorando alla tesi per il dottorato. Un dottorato che tardò moltoa venire perché lo conseguii soltanto vent’anni dopo nel 1988. La ragio-

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18 Liturgia

ne di tale ritardo era molto semplice. Avevo scelto di lavorare su BasilioMagno e per questo mi ero rivolto al maggior esperto dell’epoca, ilbenedettino Jean Gribomont affinché mi seguisse in questa ricercaquantunque egli non fosse docente al Pontificio Istituto liturgico di San-t’Anselmo bensì all’Istituto di Studi monastici; formalmente il relatore,o moderatore, avrebbe dovuto essere il benedettino Burkhard Neu-nheuser che era d’accordo che io mi facessi guidare da Gribomont.L’argomento della tesi era in linea con le scelte teologiche di San-t’Anselmo, e di Neunheuser in particolare, dato che avrei dovuto farericerca sull’eucaristia come anamnesi nelle opere di Basilio Magno.

Dopo aver lavorato un anno intero, schedando ampiamente tuttele opere di Basilio, compresi i quattro libri del trattato Contro Eunomioche allora era considerato dubbio, mi accorsi che il materiale raccol-to era veramente scarso: si trattava solo di un piccolo pacchetto dischede, insufficiente per una tesi. Inutile dire che ero molto preoccu-pato e così dopo un anno di lavoro mi recai da Gribomont per farglivedere il mio scarso risultato. Mi accolse con la sua grande cordialità,come sempre, e quando gli spiegai il motivo del mio disappunto egliproruppe in una delle sue grandi risate che tutti coloro che lo hannoconosciuto ricordano bene come sua caratteristica particolare. Difronte alla mia sorpresa, egli spiegò molto chiaramente la questione;io non avevo trovato molto in Basilio, quasi nulla, per il semplice mo-tivo che in Basilio non c’è nulla di rilevante sul concetto di liturgia odell’eucaristia come anamnesi. Anamnesi: un concetto che in quelparticolare momento storico era la base di tutta la concezione dellaliturgia è che quindi andava indagato ad ogni costo in tutte le fontidisponibili.

La mia indagine aveva già prodotto un risultato sicuro: l’assenzadi quella categoria teologica in Basilio. Era chiaro tuttavia che nonsi poteva fare una tesi su una cosa che non c’era. Padre Gribomontsapeva benissimo che Basilio non aveva questa concezione teologicadella liturgia, e me lo disse, aggiungendo che ero io che avevo volutoscegliere quel tema.

Egli sperava tuttavia che, in qualche modo, io potessi trovare qual-cosa di interessante — anche se non proprio la liturgia come anamnesi— dato che lo stesso Gribomont aveva già diretto la tesi di un ci-stercense, psichiatra, che aveva studiato Basilio per mettere in lucel’importanza dell’anamnesi nella vita spirituale. In conclusione, quindi,la colpa era mia che avevo voluto studiare il tema liturgico in Basilio allaluce di una categoria che Basilio applica, invece, alla vita cristiana.

Dato che, per i miei studi precedenti, in quel momento non riuscivo

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ad immaginare altra tesi che quella, pensai bene di rinunciare a taleargomento nella speranza che nel frattempo maturasse qualcos’altroe che il mio dottorato potesse prendere un’altra strada.

3. I corsi di teologia sacramentaria furono affidati in parte a FaustinoPinelli e in parte a me. Di teologia sacramentario io professavo soloi corsi sull’eucaristia e sul matrimonio. Successivamente il corso sulmatrimonio venne affidato all’insegnante di teologia morale, dato chela maggioranza dei temi del corso avevano una trattazione anchein teologia morale. Era, quindi, logico unificare i due corsi in mododa eliminare la doppia trattazione. Mi vennero affidati tutti i corsi diliturgia ma, in pratica, svolgevo un vero programma solo per i corsisu battesimo e cresima, eucaristia, penitenza, matrimonio. Una volta,ma solo una volta, tenni un corso sulla preghiera all’interno del qualepresentai la riforma di Paolo VI sulla liturgia delle ore. Sull’unzione degliinfermi invece non feci mai nulla, mentre trattavo dell’anno liturgiconon all’interno di un corso apposito, ma all’interno di vari altri corsi,seppure per accenni.

Poi, da quando iniziare la docenza in Università cattolica, nellafacoltà di lettere e filosofia, chiesi un alleggerimento del mio impegno.Conservai solo il corso sull’eucaristia dal punto di vista teologico, e ilcorso sulla penitenza che trattavo dal punto di vista liturgico. I corsiche abbandonai, come quello sull’Iniziazione cristiana, furono affidatia Edoardo Ruina.

4. In quell’epoca si discuteva molto se la teologia sacramentariadovesse essere affidata all’insegnante di liturgia o a quello di teologiadogmatica. La discussione continua anche oggi anche se è molto me-no importante. Allora si tendeva ad affidare tali corsi, preferibilmente, achi trattava di liturgia mentre oggi in genere si preferisce il dogmatico.

I termini della questione sono semplici. Dato che il sacramento èun rito liturgico, sembrerebbe giusto che la trattazione sul sacramentofosse affidata a chi conosce i riti liturgici non solo per come sono oggi,nei libri liturgici di oggi, ma anche per il loro sviluppo storico ossiaper come furono nel passato e come si passò da una forma ritualea un’altra per arrivare fino a oggi. Questo suppone la conoscenzadelle fonti liturgiche e, quindi, la conoscenza documentaria di unsettore molto particolare della storia della Chiesa. Non è per casoche i grandi liturgisti del passato fossero degli storici della chiesa e nondei dogmatici. A questo si aggiunga che, per avere la teologia delsacramento, non è sufficiente la conoscenza della liturgia romana,se pure nella sua evoluzione storica, ma è necessario tener contoanche delle liturgie, ossia delle varie Chiese tanto d’Oriente quanto

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dell’Occidente latino non romano. E questo comporta una precisaconoscenza della storia delle Chiese in tutte le loro componenti. Oggigli studi storici sono abbastanza diffusi e, quindi, si suppone che ancheun teologo sistematico li possa possedere. È per questa ragione che ècaduta la pregiudiziale sui corsi di sacramentaria da affidarsi ai liturgisti.

Allora, assieme ai corsi di liturgia fui incaricato anche del corsosull’eucaristia e di quello sul matrimonio. Accanto al corso di teologiaeucaristica avevo il corso di liturgia, avente anch’esso tre ore di lezioneper settimana, che trattava delle diverse maniere con le quali è statacelebrata l’eucaristia lungo la storia. In altre parole si trattava di un cor-so sulle varie «Anafore» delle differenti chiese antiche. Effettivamente ilcorso era indovinato, dato che, di lì a poco, sarebbe stata pubblicatala nuova edizione del Messale Romano contenente tre nuove preghie-re eucaristiche derivate dalle antiche anafore della Chiesa. Dopo 1700anni il Canone romano cessava di essere l’unica preghiera eucaristicadella nostra liturgia. Nei Praenotanda del messale, poi, la preghieraeucaristica veniva definita come culmine di tutta la celebrazione1.

Si trattava di un evento epocale e quindi c’erano tutte le ragioniper avere un corso che illustrasse questo fatto. Ma non si trattava solodi questo. Infatti la Costituzione liturgica del Vaticano II aveva stabilitoun principio interessante per la partecipazione attiva dei fedeli allaliturgia. La partecipazione attiva deve avvenire «per ritus et preces»2,ossia attraverso i principali riti e preghiere. È la prospettiva pastorale,dunque, che impone una particolare conoscenza della celebrazioneliturgica in modo che la partecipazione attiva sia viva e fruttuosa. Senon c’è una profonda conoscenza di questo momento della messa,ossia della preghiera eucaristica, si rischia che questa preghiera siasoltanto uno dei tanti momenti della messa e non il momento culmi-nante; in questa prospettiva si rischierebbe di considerare la preghieraeucaristica soltanto come il contenitore della consacrazione. Un peri-colo decisamente reale anche perché c’era un illustre precedente inmateria, dato che Tommaso d’Aquino considerava il canone romanocome una serie di preghiere capaci di contornare il modo devoto laconsacrazione. Ecco infatti come sia esprime a proposito del prefazio:«primo excitatur populus ad devotionem in praefatione»3, di cui non

1 «A questo punto ha inizio il momento centrale e culminante di tutta la celebrazione,la Preghiera eucaristica, ossia la preghiera di azione di grazie e di santificazione» (Ordina-mento generale del Messale romano, Conferenza episcopale italiana - Libreria editricevaticana, Città del Vaticano 2004, n. 78).

2 Sacrosanctum concilium, n. 48.3 TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, Pars III, q. 83, a. 4, corpore e, in aggiunta, cf.:

ad 1um, ove si dice che ciò che venne aggiunto alla consacrazione serviva a preparare

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avvertiva il tema, che è l’azione di grazie. Per Tommaso, dunque, la pre-ghiera eucaristica o canone romano era solo il contenitore adeguatodella consacrazione.

Con un corso di questo genere, ossia un corso sulle anafore, ci sideve chiedere come rapportarsi al pensiero di Tommaso d’Aquinoche, in materia, presenta particolari difficoltà.

Ad esempio. L’antica liturgia hispanica e gallicana, definendo la ce-lebrazione eucaristica in modo sacrificale, stabilisce che Gesù, nell’ulti-ma cena, istituì l’eucaristia ossia la forma dell’eucaristia, intendendocon questo termine la struttura liturgica della celebrazione. Successiva-mente, soprattutto in Tommaso d’Aquino, al Concilio di Firenze e nellateologia neoscolastica, il termine forma designerà le parole del Signoresul pane e sul calice che vengono definite come parole consacratorie.Senza queste parole non ci sarebbe la forma dell’eucaristia e, quindi,non ci sarebbe la consacrazione. Ebbene la storia ci insegna che ilracconto dell’ultima cena, con le cosiddette parole consacratorie, èentrato nella preghiera eucaristica solo alla fine del quarto secolo, inOriente, mentre il Canone Romano lo ha recepito molto prima, forseall’inizio del quarto secolo, ma anche qui si tratta di un testo avventizio.

Se fosse vero il pensiero tomista, ne seguirebbe che non ci sonostate messe ‘valide’ prima del quarto secolo. Ma c’è molto altro. Adesempio, Tommaso d’Aquino stabilisce che la forma dell’eucaristia,per essere consacratoria, deve essere diretta alla materia4. Ebbene,nella messa, la preghiera eucaristica e l’intero racconto dell’istituzionesono diretti a Dio Padre e non al pane e al vino. Ne seguirebbe che,se questa concezione fosse vera, non ci sarebbe mai stata nessunamessa ‘valida’ e neanche le messe di oggi lo sarebbero.

il popolo che faceva la comunione: «Alia vero necesse fuit addere ad praeparationempopuli sumentis, ut dictum est».

4 Tommaso, riprendendo l’argomento delle oppositiones, si chiede come venganodette le parole consacratorie di Cristo, recitativamente o significativamente: «. . . totaista locutio sumitur materialiter, cum recitative proferatur; recitat enim sacerdos Chri-stum dixisse, Hoc est corpus meum. Sed hoc stare non potest. Quia secundum hoc,verba non applicarentur ad materiam corporalem praesentem, et ita non perficeretursacramentum, dicit enim Augustinus, super Ioan. accedit verbum ad elementum et fitsacramentum» (Summa theologiae, Pars III, q. 78, a. 5, corpore). Per Tommaso, dunque, leparole della forma debbono essere dirette alla materia. Ecco altri testi a conferma: «Sedsanctificatio sacramenti non fit nisi per hoc quod verba formae ordinantur ad materiam»(Super Sent., lib. 4 d. 8 q. 2 a. 1 qc. 4 arg. 1). «Quidam enim dicunt, quod hoc pronomenhoc nullam demonstrationem facit, quia sumitur materialiter, cum verba illa recitative asacerdote proferantur. Sed hoc non potest stare: quia secundum hoc verba illa nullumordinem haberent ad materiam praesentem, et sic non fieret sacramentum. Augustinusenim dicit: accedit verbum ad elementum, et fit sacramentum» (Super Sent., lib. 4 d. 8 q.2 a. 1 qc. 4 ad 1um).

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Questi sono solo alcuni esempi tra i tanti che si potrebbero fare,ma già qui si vede la differente impostazione di un trattato che tengaconto della storia della liturgia, dato che ci sono delle preghiere euca-ristiche della Chiesa antica, anzi, tutte fino agli inizi del quarto secolo,che non hanno il racconto dell’ultima cena con le parole che noidefiniamo consacratorie. La più famosa di queste antiche preghiereeucaristiche è l’anafora degli Apostoli Addai e Mari, in uso ancoraoggi nella Chiesa Assira d’Oriente, ed è stata riconosciuta valida atutti gli effetti in ordine all’ospitalità eucaristica dei cattolici, da un do-cumento della Santa Sede dell’anno 2001 approvato esplicitamenteda Giovanni Paolo II5. Questo testo era particolarmente interessantenon solo per se stesso, come testimone di un’antica tradizione liturgicama anche perché il Cœtus X – la commissione preposta alla redazionedelle nuove preghiere eucaristiche del Messale Romano – in un primomomento aveva pensato a questa preghiera eucaristica come mo-dello esemplare per preparare un’anafora molto semplice per i giorniferiali.

5. Dopo aver detto le ragioni per le quali era opportuno che l’inse-gnamento della teologia dei sacramenti fosse affidata a un liturgista,bisogna sottolineare fortemente che ci sono altre ragioni in base allequali tale insegnamento andrebbe affidato a un teologo. Il sacramen-to, infatti, non è un rito come tutti gli altri studiati dall’antropologia. Essoè dotato di una funzione e di un’efficacia invisibile, irriducibile al rito,che deve essere oggetto di un’indagine teologica propriamente det-ta, con il metodo della teologia sistematica e non certo con il metododella storia di riti o della storia della Chiesa. Inoltre è proprio la pluralitàdi liturgie e di forme rituali, pur nell’unica e identica sacramentalità, aesigere un metodo che sappia trascendere le differenze per andare al-l’unico typos trasmesso da Cristo o, per usare un linguaggio scolastico,

5 TAFT R. F., Mass without the Consacration? The Historic Agreement on the Eucharistbetwen the Catholic Church and the Assyrian Church of the East Promulgated 26 Octo-ber 2001, (Annual 2002 Paul Wattson - Lurana Whithe Lecture at the Centro pro Unione,Rome, March 20, 2003), «Worship», 77 (2003) 482-509; IDEM, Messa senza consacrazione?Lo storico accordo sull’eucaristia tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira d’Orientepromulgato il 26 ottobre 2011, «Divinitas», Nova Series 47 (2004) 75-106 (numero speciale);cf. anche E. MAZZA, «Le récent accord entre l’Église chaldéenne et l’Église assyrienned’Orient sur l’Eucharistie», in: C. BRAGA - A. PISTOIA (édd.), Les mouvements liturgiques.Corrélations entre pratiques et recherches, Conférences Saint-Serge. 50e Semaine d’é-tudes Liturgiques. Paris, 23-26 juin 2003, (= Ephemerides liturgicae. Subsidia 129), CLV -Edizioni liturgiche, Roma 2004, pp. 205-215; IDEM, «Due differenti concezioni del raccontodell’istituzione: ‘Consacrazione’ o ‘Trasmissione’ del typos dell’eucaristia», in: C. GIRAUDO(ed.), La genesi anaforica del racconto istituzionale alla luce dell’anafora di Addai eMari, Roma Pontificio Istituto Orientale - Pontificia Università Gregoriana, 25-26 Ottobre2011, Roma 2013, in stampa.

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per andare all’unica volontà di Cristo istitutore. In questo, è il teologo aessere avvantaggiato.

A ben vedere, non ci sono argomenti cogenti per decidere laquestione in un senso o nell’altro ossia se sia meglio affidare i corsi disacramentaria a un liturgista o a un sistematico. Da allora la questioneè rimasta la stessa e si continua a discutere se sia meglio l’una ol’altra scelta. Nondimeno, oggi c’è una netta preferenza per il teologosistematico. La spiegazione è presto detta; la preferenza per il liturgistasi basava sulla presunzione che egli conoscesse meglio di chiunquealtro lo sviluppo storico di riti, ma oggi questo è sempre meno verodato che i liturgisti hanno lentamente abbandonato gli interessi storiciper rivolgersi alla spiritualità che viene colta soprattutto nei gesti enelle parole del rito capaci di generare un autentico valore estetico epoetico. Al di là di ogni semplificazione, infatti, si deve riconoscere chela cosiddetta spiritualità liturgica è più tributaria dell’estetica del ritoche del contenuto ontologico del sacramento. È ragionevole, dunque,che oggi la teologia sacramentaria sia appannaggio del teologopiuttosto che del liturgista. Ciò che conta non è questo; ciò che contaè la base storicamente corretta della trattazione e la storia dei ritiliturgici oggi è sufficientemente diffusa in modo che anche il teologo vipossa ricorrere.

6. Il corso sulle preghiere eucaristiche, o anafore, era un corso diffi-cile. Lo sapevo benissimo, se non altro perché ero stato testimone diun episodio a proposito di questo corso tenuto a Roma all’Universitàgregoriana, dal gesuita Louis Ligier, un grande esperto in materia. Unnostro compagno di studi, Luigi Serenthà, aveva frequentato questocorso e all’esame non aveva riportato un punteggio molto alto, lui cheera molto attento e diligente e, come si vide poi, uno studioso di vaglia.A chi gli obiettava che era stato penalizzato agli esami avendo sceltoun corso troppo difficile, egli rispondeva di averlo voluto frequentareper imparare, anche se era un corso difficile, perché quello era uncorso in cui c’era veramente molto da imparare. Certo, l’argomentoera veramente difficile ma c’era molto da imparare dalla lettura diquegli antichi testi anaforici. Ricordo che il Padre Ligier aveva scritto unarticolo in La Maison-Dieu sull’origine dell’eucaristia, argomentando inbase all’origine e alla genesi delle anafore: questo articolo era statoportato a Paolo VI come documentazione per la riforma del messaleche introduceva le nuove preghiere eucaristiche. Paolo VI aveva lettotutto questo articolo, ma con grande fatica perché effettivamente l’ar-gomento era molto complesso e ostico. Era il domenicano Pierre-Marieche ricordava questo episodio, dicendo tutta la sua ammirazione per

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Paolo VI che si era cimentato con tale materia6.È vero che il padre Ligier scriveva in modo difficile, ma la vera

difficoltà consisteva nel fatto che le fonti utilizzate per trattare di taleargomento, erano fonti sconosciute pressoché a tutti. La difficoltà,cioè, non consisteva nell’argomento o nell’argomentazione, bensìnell’ignoranza delle fonti che stavano alla base del trattato.

7. Anche a me, che tenevo il corso sulle anafore nel nostro Studioteologico interdiocesano, capitò di dovermi scontrare con il problema.In altri termini, era un corso troppo difficile. Mi si obiettava che non sipoteva tenere un corso così specialistico in un istituto diocesano che,quantunque affiliato alla facoltà teologica di Sant’Anselmo, era pursempre un istituto seminaristico e non universitario. Era raro che un’an-nata si concludesse senza che io sentissi le rimostranze per un corsotroppo difficile che non si capiva a che cosa potesse servire. Non mettoin dubbio che le rimostranze fossero anche nei confronti del docenteche, evidentemente, poteva avere delle carenze didattiche. Debbodire che mi è sempre dispiaciuto vedere come un corso di tale impor-tanza non fosse debitamente apprezzato. Alla fine i conti dovevanoarrivare al pettine e così fu alla fine del corso del 1978 o 1979 quan-do nella riunione comune dei vescovi e delle autorità accademichevennero palesate le rimostranze contro il corso sulle anafore eucaristi-che. Venni chiamato da monsignor Gilberto Baroni che mi espressetali difficoltà e mi chiese, con la sua consueta delicatezza, che cosavolevo fare. Egli lasciava a me ogni decisione in merito e io decisi disospendere il corso sostituendolo con la lettura di «Principi e normeper l’uso del messale Romano», ossia dell’introduzione del messale,che fino a quel momento avevo lasciato alla personale lettura deglistudenti. Il corso, dunque, fu soppresso. Nel 1979 la Congregazione perl’educazione cattolica, competente per gli studi teologici nei seminarie nelle facoltà teologiche, promulgò una nuova Ratio studiorum chesuggeriva che il corso di liturgia potesse, se possibile, avere anche unatrattazione specifica sulle anafore e eucaristiche. Ecco il testo dellaCongregazione:

«Così, per quanto è possibile, si premetta la presentazio-ne dell’orazione giudaica, come si faceva soprattutto nellasinagoga, nelle case private e nella celebrazione pasqualeal tempo del Cristo, in modo che risalti meglio sia la somi-glianza sia la novità della preghiera cristiana. Si descriva

6 L. LIGIER, De la cène de Jésus à l’anaphore de l’Église, «La Maison-Dieu», 87 (1966)7-49.

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poi l’assemblea liturgica dell’età apostolica. È desiderabileche venga aperto agli alunni l’adito alle fonti liturgiche deiprimi secoli (per es.: la Didachè, s. Clemente Romano, s.Giustino, s. Ireneo, Tertulliano, Ippolito Romano, s. Cipriano,le Didascalie e le Costituzioni Apostoliche, la Peregrinazio-ne di Egeria), ai testi scelti dalle anafore primitive e dallecatechesi dei Padri»7.

In questo testo non solo si suggerisce l’esistenza di tale corso, chenoi avevamo sempre fatto, ma anche si delinea il programma ossiala traiettoria da seguire partendo dai testi del Giudaismo per passareai primi testi cristiani e per arrivare ai grandi testi delle preghiere eu-caristiche orientali e occidentali. A questi testi andavano aggiuntele più antiche catechesi che noi, in questo Istituto, studiavamo nelcorso sull’iniziazione cristiana. Il progetto delineato dalla Ratio studio-rum, coincideva esattamente con il programma del nostro corso sulleanafore trattato in questo Istituto. Anzi, ricordo che, in alcuni momenti,i testi delle catechesi patristiche venivano trattati congiuntamenteda Giovanni Costi, nel corso di catechetica, e da me, nel corso sulbattesimo.

Tuttavia le difficoltà degli studenti andavano ottenute nel dovutoconto e, pertanto, il corso sulle anafore non venne più attivato. Il corsorestò silente, anche se qualche suo tema, o spezzone, confluì nel corsodi teologia dell’eucaristia che tenevo in quegli anni e che tenni fino alcompimento del settantesimo anno di età.

8. C’è un’ultima questione alla quale vorrei accennare: si trattadella questione dell’anamnesi con la quale abbiamo aperto questodiscorso. Il fatto che la mia tesi si fosse arenata proprio sulla questionecentrale ossia la questione dell’anamnesi, non significava che que-sta categoria teologica non dovesse essere al centro del mio corsosull’eucaristia dato che era la dottrina in voga in quel momento, pro-fessata assolutamente da tutti. Infatti se andiamo a leggere il librettodegli studenti di quell’epoca, laddove viene presentata la sintesi diogni corso, io riassumevo dicendo che l’eucaristia era l’anamnesi dellamorte e resurrezione del Signore. Queste poche righe sintetiche chepresentavano il corso sull’eucaristia, sono rimaste immutate negli anni.Lentamente, anno dopo anno, il mio corso subiva dei mutamenti inbase ai nuovi dati che introducevo ma la presentazione sintetica nellibretto degli studenti rimase la stessa. Effettivamente io continuavo a

7SACRA CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Istruzione per la formazioneliturgica nei seminari, Roma 1979, n. 26.

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cercare elementi che dimostrassero questa dottrina che era entrata invigore in quegli anni e, anche se non trovavo nulla, restavo convintodella bontà della dottrina che tutti in quel momento professavano. Èchiaro quindi che non potevo e non dovevo cambiare la presenta-zione sintetica del corso anche se, alla fine, i contenuti del corso nonerano più coerenti con quella presentazione.

9. A proposito dell’eucaristia come anamnesi, c’è un episodio chericordo in modo molto vivo anche oggi, che testimonia questa miaincessante volontà di trovare finalmente delle conferme a questa dot-trina. Accadde proprio qui, qui a pian terreno davanti all’ingresso delseminario mentre il professor Camillo Ruini e io ci dirigevamo verso l’a-scensore; avevo appena letto da qualche parte che anche Tommasod’Aquino professava la dottrina dell’eucaristia come anamnesi e neero felicissimo dato che, almeno quell’epoca, Tommaso era alla basedei vari trattati teologici. Ruini conosceva molto bene la dottrina diTommaso sia per i suoi studi precedenti sia per la sua ricerca per la tesidi dottorato. Quale occasione migliore per sincerarmi della posizione diTommaso d’Aquino a proposito dell’eucaristia come anamnesi. Glieneparlai, il tempo di arrivare all’ascensore e di aspettare che l’ascensorearrivasse. Con trepidazione gliene parlai; con trepidazione dato cheper me Ruini era un punto di riferimento, un’autorevole maestro; contrepidazione perché il suo parere, per me, valeva in modo decisivo.Devo dire che il professor Ruini era stato mio insegnante di filosofia, alliceo, ed era stato lui che mi aveva insegnato a pensare. Sono coseche non si dimenticano anche quando, poi, si diventa colleghi. Chi ti èstato maestro una volta, conserva sempre l’autorevolezza del maestro.Questo era il mio atteggiamento di allora verso Ruini e non è certocambiato oggi. Allora, in quel lontano giorno, eravamo dunque davan-ti all’ascensore e io gli avevo già esposto il mio quesito. Mentre si aprivala porta dell’ascensore ed entravamo egli , scuotendo la testa, mi dissemolto semplicemente che in Tommaso questa dottrina non esisteva.Rimasi esterrefatto. Com’era possibile? Tutti, fino a quel momento, miavevano insegnato il contrario, ossia che anche Tommaso d’Aquinoprofessava la dottrina dell’eucaristia come anamnesi. Poteva essere ilcontrario?

La cosa tornò attuale anni dopo quando, nel 1989-1990, fui chiama-to all’Università di Lovanio, a Louvain-la-Neuve, come Visiting Professoral Collège Erasme che era un Istituto di storia medievale. Tenni una seriedi lezioni su Tommaso d’Aquino e la sua concezione dell’eucaristia; perprepararmi lessi tutta una serie di articoli sull’argomento, tutti schieratiper la concezione anamnetica dell’eucaristia. Ma esaminando bene

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la questione, mi resi conto che gli argomenti utilizzati per sostenerequesta tesi erano decisamente deboli anzi tradivano una precisa con-cezione ideologica, sconfessata dalle citazioni stesse di Tommaso. Mifu subito chiaro che Tommaso non aveva affatto questa concezioneche gli autori in questione si sforzavano di attribuirgli con lo scopodi mostrare l’attualità di questo autore anche dopo la Costituzioneliturgica del Vaticano II. Fu in quegli anni, dunque, che mi resi contoche aveva avuto ragione Ruini con quella frase che mi aveva dettodavanti all’ascensore; in Tommaso d’Aquino non c’è una concezioneanamnetica dell’eucaristia.

10. Uno dopo l’altro, tutti gli autori che dovevano costituire l’ossaturadi un trattato sull’eucaristia, mostravano di non avere quella conce-zione anamnetica che si voleva attribuire loro. Nondimeno, stante ilprevalente pensiero di quell’epoca, io continuavo a insegnare questainterpretazione del mistero eucaristico e di conseguenza non cambiaimai la presentazione del mio corso nel libretto degli studenti. Nel suoinsegnamento di filosofia, Ruini aveva una volta spiegato che non èdifficile trovare i punti deboli di una teoria o di una dottrina; tuttavia,non è il caso di demolire teorie o dottrine pregresse se non c’è unadottrina migliore per sostituirle. È un insegnamento che mi è semprestato caro.

11. Se dovessi scrivere oggi un breve profilo del corso sull’eucaristia,per il libretto degli studenti, non potrei più parlare dell’eucaristia comeanamnesi. Quantunque i miei studi in materia risalgano ormai agli anniottanta, solo di recente sono riuscito a mettere a fuoco una dottri-na interpretativa diversa da quella anamnetica: la tipologia biblicaapplicata alla liturgia. A questo punto, sì, io potrei cambiare la presen-tazione del corso nel libretto degli studenti ma gli anni sono trascorsi –or non è più quel tempo e quell’età! – e non professo più quel corsoper raggiunti limiti di età. E quindi la mia dottrina sulla tipologia biblicaapplicata alla liturgia, non entrerà nel corso sull’eucaristia di questoIstituto dato che non sono più io l’incaricato. Vedranno i miei successorise sarà il caso di proseguire con la vecchia concezione anamneticadell’eucaristia, o di adottare la concezione tipologica come ‘altro’metodo interpretativo, un metodo che è basato tanto sulle Scritturequanto sulla prima patristica.

12. Per finire, debbo dire che, per me, l’appartenenza a questoIstituto teologico è stata un grande impulso allo studio e alla ricerca.

Ora abbiamo ceduto il testimone. Dato che la conoscenza cresceper accumulo sulle conoscenze precedenti, la cessione del testimoneai nuovi insegnanti esprime la speranza che l’intenso lavoro di tutti

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quegli anni fecondi possa servire di stimolo, in modo che questo Istitutopossa continuare ad essere un cenacolo di riflessione e di appren-dimento, coerente con quella tradizione, culturale e pastorale a untempo, cui ho avuto l’onore di appartenere.

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Filosofia

Paolo LosavioNel caso in cui lei abbia contribuito alla strutturazione dello STI, quali

sono state le linee ispiratrici che hanno portato alla sua nascita?

Ero allora Vice Rettore del Seminario di Modena e condussi in primapersona per la nostra diocesi il cammino che portò alla formazione del-lo studio teologico interdiocesano di Re. Se la memoria non mi inganna,gli incontri si protrassero per alcuni mesi. I primi del 1968. L’esperienzacomune iniziò infatti col nuovo anno scolastico 1968-9. L’operazione,che portò il Seminario di Modena a rinunciare alla propria sede, certonon fu facile: è comprensibile soltanto nel clima di rinnovamento diquegli anni, i primi dopo la fine del Vaticano II, quella stagione sin-golare, che non può essere dimenticata, caratterizzata da speranzee grandi entusiasmi. Il punto di riferimento fu ovviamente il decreto“Optatam totius”, ma inserito in tutto il contesto dell’insegnamento delConcilio. Il decreto sulla “Formazione sacerdotale”chiedeva la “revi-sione degli studi ecclesiastici” dei Seminari. La messa in comune deidue seminari permise un più ricco e più preparato corpo insegnanti.Molti corsi conobbero un vero salto di qualità. L’ elemento di maggiorenovità che subito fu possibile mettere in atto fu il maggiore spazio dato

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alla S. Scrittura “anima di tutta la teologia” (come la definisce al n.16,la Optatam totius), il cui primato doveva divenire la molla per il rinnova-mento di tutti gli studi di teologia. La lettura continuata della Scritturanel primo biennio della teologia permetteva un primo approccio allaParola che doveva dare la possibilità fin dall’inizio di porre la Scritturaalla base dello studio delle diverse branche della teologia. Veniva ri-mandato invece al triennio lo studio esegetico dei Libri Sacri. Anche laliturgia conobbe un vero rinnovamento: non più soltanto uno studio ditipo rubricale, ma l’approfondimento del suo senso teologico. A partiredal 1972 fu introdotto il corso di Patristica che rendeva possibile nelcorso teologico un più curato e indispensabile studio dei Padri dellaChiesa. Infine, dal punto di vista metodologico, divennero caratteriz-zanti l’attenzione alla dimensione storica dei problemi, l’introduzionedei corso speciali, dei seminari, delle esercitazioni e delle tesine.

A partire dalla disciplina da lei insegnata, quali sono state le novità– di metodo e di contenuto – che hanno voluto esprimere gli spunti dirinnovamento del Vaticano II?

Nei primi anni del post-Concilio si respirava talvolta un’aria di ri-dimensionamento della filosofia negli studi teologici. Ma questo nonavvenne a Reggio e in ogni caso l’impressione via via si è dileguatanegli anni successivi e soprattutto con l’enciclica di Giovanni PaoloII “Fides et ratio”. Anche per quanto riguarda la filosofia, fu notevoleil ripensamento e quindi il rinnovamento dell’insegnamento. Oltre al-la citata “Optatam totius” non si potè non avere presente a questoproposito la costituzione pastorale “Gaudium et spes”.

Le maggiori novità introdotte nello STI sono state queste:• Una prospettiva che aiutasse gli studenti a percepire come cen-

tro unificante di ogni indagine filosofica la domanda sull’uomo,proprio sulla linea della “Gaudium et spes”che nel Proemio dice:“E’ l’uomo dunque, ma l’uomo singolo integrale , nell’unità dicorpo e di anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà... ilcardine di tutta la nostra esposizione” Tale prospettiva permettevadi attivare nello studente un più vivo interesse e al suo impegno,una più chiara dimensione esistenziale.

• Una concentrazione attorno a tre temi fondamentali: uomo, mon-do, Dio (sono i tre temi indicati dalla “Optatam totius” n. 15) Daqui la scelta dei tre corsi fondamentali: antropologia filosofica,filosofia della natura, teologia filosofica.

• Il superamento della visione tendenzialmente dualista che si era

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imposta a partire dall’epoca moderna che aveva chiamato “Psi-cologia” il trattato sull’uomo, con la conseguente, almeno impli-cita, riduzione dell’uomo alla sua sola anima. Con l’Antropologiasi è recuperata l’essenziale corporeità dell’uomo. Corporeità, manon riducibilità dell’uomo ad essa: corporeità animata dallo spiri-to. Quindi spirito, ma spirito che si realizza nella corporeità. L’uo-mo,spirito incarnato. E la fondamentale unità corporeo-spiritualedell’uomo (cfr. “Gaudium et spes” cap.1: La dignità della personaumana), che fa di lui un essere finito, ma sempre aperto all’infinito.E’ la miseria e la grandezza dell’uomo, indissolubilmente unite.Nello STI fu così recuperata una visione dell’uomo profondamenterinnovata.

• Il recupero dell’unità tra scienza dell’ente in quanto ente (onto-logia) e scienza di Dio. Tale unità si era rotta con la cosiddettaseconda scolastica (Suarez) nel XVI secolo, e divenuta definitivacon Christian Wolff. In tal modo invece l’ontologia riacquista tuttoil suo significato; senza l’affermazione di Dio, infatti, resta comesospesa a mezz’aria; non la si comprende pienamente se nondiventando teologia, come avevano intuito sapientemente Ari-stotele e dopo di lui S.Tommaso. Viceversa la possibilità di unaaffermazione di Dio che non sia ancorata alla metafisica nonpuò che riuscire vana e inconsistente. Fu così recuperata con laTeologia filosofica una riflessione su Dio rinnovata, profondamenteradicata nell’essere. Ma insieme doveva rimanere viva l’atten-zione sulla problematica umana, essendo sempre il problemaDio problema profondamente esistenziale, che chiama in causaprima di tutto l’uomo.

• Uno studio attento dell’ateismo che la Gaudium et spes definiscefenomeno “fra i più gravi del nostro tempo”, che “va esaminatocon diligenza ancora maggiore” (n.19). Ampio spazio è statodedicato alla storia dell’ateismo, in particolare alle forme e allecause dell’ateismo contemporaneo e ad una loro valutazione.

• Una attenzione particolare alla storia del pensiero e quindi unrecupero della dimensione storica dei problemi, come condizio-ne per coglierli in tutta la loro profondità. In particolare si sonointrodotti corsi di filosofia contemporanea: in un primo momentofurono preferiti il marxismo e l’esistenzialismo; poi successivamen-te l’Ermeneutica, il Pensiero debole e il Problema comunicativo.Questo risponde ad una preoccupazione già presente in Opta-tam totius e ancora più fortemente affermata nella Gaudium etspes: la necessità cioè di inserire il pensiero cristiano dentro alla

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cultura e al dibattito attuale e di instaurare un dialogo, inelimi-nabile, con l’oggi in cui il Signore ci chiama a vivere. L’impegnodel dialogo dopo il Concilio non può non rimanere sempre unapriorità. E tale deve essere anche l’insegnamento della filosofianei Seminari.

In che misura questo rinnovamento teologico dello STI non si è limita-to al piano intellettuale, ma ha voluto riferirsi alla formazione pastoraledegli studenti come futuri presbiteri?

Certamente questo era un obiettivo che ci si era proposti, richiestod’altra parte dalla stessa “Optatam totius”. Penso anche che ciò siaavvenuto per le singole materie con buoni risultati. Questa volontà siè accentuata quando fu introdotto il “Sesto anno”. Resta comunqueun obiettivo prezioso da perseguire, per dare pieno significato unitarioalla formazione dei futuri presbiteri.

Quali collaborazioni e quali difficoltà si sono riscontrate nel rapportotra STI, formazione nei seminari e pastorale della Chiesa locale?

Un primo tentativo di totale unificazione dei due seminari che ri-guardava non solo gli studi, ma anche la vita comune, risultò non privadi difficoltà. La convivenza durò due anni. Fu soprattutto per volere diMons. Baroni che questa fu interrotta. Ciò fu giustificato dalle tensioniche caratterizzavano quegli anni, che anche i giovani seminaristi re-spiravano e che rendevano non facile il cammino formativo. Con laripresa autonomia della vita dei seminari veniva meglio salvaguardatala specificità di ogni Chiesa locale. Ciò portò come costo la necessitàdei viaggi e del tempo necessario per essi da parte dei seminaristi fuorisede.

Lungo gli anni del suo insegnamento ha riscontrato dei cambia-menti, positivi o meno, nella proposta dello STI? Quali aspettative sisono concretizzate? Quali invece sono rimaste sulla carta e perché?

Sia pure con qualche difficoltà e rallentamento, inevitabile nel cam-mino, non riscontrai grossi problemi per la realizzazione degli obiettiviche ci si era proposti. Come in ogni cammino, è sempre possibile, anzidoveroso, un continuo sforzo per migliorare. In particolare io perso-nalmente non sono riuscito a sollecitare uno studio più partecipato epersonale degli alunni. Attribuisco questo (ma forse mi inganno) alla

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stessa difficoltà della materia, la filosofia, per la quale uno studio perso-nale richiede,come condizione previa, una conoscenza della materiache solo un corso istituzionale può dare.

Lungo gli anni del mio insegnamento noto solo due cambiamenti.La soppressione del corso di Logica avvenuta con l’anno scolastico1976-7 e nel corso dell’anno scolastico 1986-7 la ricomparsa dell’onto-logia, distinta dalla teologia filosofica. Quanto alla prima resto abba-stanza convinto della utilità formativa della logica classica e ritengoinoltre importante oggi l’integrazione in essa della logica matematica,diventata strumento indispensabile nella cultura odierna.. Non ricordoper quale motivo fu introdotta di nuova la Ontologia. Forse perchè al-cune questioni di Metafisica generale non potevano essere affrontatein Teologia filosofica. Tale difficoltà fu superata quando i più recentidocumenti del Magistero sia della CEI (Regolamento degli studi teo-logici del 2006), sia della Congregazione per l’educazione cattolica(Decreto di riforma degli studi ecclesiastici di filosofia del 2011), hannoprevisto un unico corso di “filosofia dell’essere e teologia filosofica”.Non è più solo teologia filosofica, ma una piena integrazione delle dueprospettive, senza pericolo che vengano trascurate alcune importantiquestione più generali della filosofia dell’essere. Questo ha comportatoun alleggerimento del corso di teologia filosofica, che avviene conl’inserimento di “Filosofia della religione”, anch’esso utilmente previstonei documenti sopra citati. Così è avvenuto allo STI a partire dagli anniscolastici 2007-2008 e 2008-2009.

Alla luce del cammino fatto, quali intuizioni che hanno dato vitaallo STI ritiene tuttora valide e quali nuovi compiti invece dovrebbeassumersi lo STI e la teologia in prospettiva futura?

A mio parere si deve dare un giudizio sostanzialmente positivo delloSTI e della sua ricerca di fedeltà al Concilio Vaticano II, anche se nonsono mancati lungo il cammino momenti di difficoltà e di tensioni. Leintuizioni che hanno dato vita allo STI e che ritengo tuttora valide sono:l’importanza della S.Scrittura, della Patristica, dello sviluppo storico deiproblemi, della attenzione data alla cultura di oggi.

Per il futuro consiglio queste attenzioni: una maggiore collabora-zione tra gli insegnanti delle materie affini, una maggiore stimolazionedella partecipazione attiva degli alunni, uno stimolo sempre da rin-novare per la ricerca e il dialogo. Ci si può domandare in fine se siapossibile una presenza più significativa e propositiva dello STI all’internodelle nostre chiese locali, individuandone modalità e strumenti.

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Teologia pastorale e catechetica

Giovanni CostiCome premessa, posso assicurare che, come Insegnante dello S.T.I.

a partire dal 1970, fosse presente una forte istanza di rinnovamento delpiano di studio, anche in dimensione metodologica, per un’adeguataispirazione allo spirito e ai documenti portanti del Concilio Vaticano II.

Nel 1970 il Corso costituiva una novità nell’ordinamento del pianoorganico dello S.T.I.

Mi sembra che possano essere richiamate le seguenti scelte opera-tive:

• Il Corso di Teologia Pastorale Catechetica si fondava su una baseteoretica di teologia pastorale, con una proiezione particolaredi sottolineatura dei dati costitutivi della teologia dell’annunciodella fede cristiana. Pur alla presenza di richiami pratici, il Corsonon mirava ad una operatività catechistica, in situazione.

• Il Corso doveva necessariamente riconoscere rapporti e interazio-ni con tutte le discipline ispirate alla Rivelazione cristiana: SacraScrittura – Tradizione della fede – Liturgia – Storia della Chiesa . . .e inoltre con discipline delle Scienze umane, in particolare con laSociologia, la Psicologia, e la Pedagogia . . .

• Il Concilio Vaticano II offriva, attraverso i documenti solenni del

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suo magistero (L.G. - D.V. - S.C. - G.S.), le strutture portanti diimpostazione del Corso; altre istanze e precisazioni provenivanodagli altri documenti del Concilio.

• Soprattutto il Corso ha beneficiato del progetto teoretico deivescovi italiani [il Rinnovamento della Catechesi (1970-1983)], cheha permesso di dare al Corso un suo preciso volto tematico sullamissione dell’annuncio della fede da parte della Chiesa, sullacentralità cristologica di tale annuncio, sulle fonti, sui compiti,sui soggetti della catechesi e, in più, sulle modalità della stessanella pastorale della Chiesa locale, sui metodi e sugli operatoricatechisti.

• Negli anni il Corso di Catechetica ha potuto riferirsi al progettooperativo dei Catechismi della C.E.I., dal Catechismo dei Bambinial Catechismo degli Adulti. In merito il Corso assumeva una suafase di pastorale pratica.

• In alcuni anni scolastici, in modo più sistematico, sono stati studiatie sperimentati, attraverso seminari di studio e di ricerca, i problemicatechistico-pastorali per i pre-adolescenti, i giovani . . . e perl’annuncio liturgico della omelia eucaristica.

• L’Ufficio Catechistico diocesano, di cui ero responsabile, unita-mente al prof. don Gianni Gariselli, ha potuto in parte benefi-ciare delle ricerche e delle proiezioni operative dei corsi delloS.T.I. Sostanzialmente mi sembra di poter affermare che buonaparte degli studenti risultavano interessati e implicati dalle istan-ze del corso; ne è prova un numero consistente di tesine per ilbacellierato su tematiche attinenti.

• Fino alla fine degli anni Ottanta, del secolo scorso, si potevariscontrare un certo coinvolgimento diretto dei Seminari delle Dio-cesi in ordine alla formazione dei seminaristi teologi in merito allapastorale operativa. Sono state sperimentate verifiche e accom-pagnamento, da parte dei responsabili dell’Ufficio Catechisticodiocesano, sulle sperimentazioni pratico-pastorali dei seminaristinelle parrocchie.

• Come suggerimento proporrei a tutto lo S.T.I. di prevedere unamaggiore presenza diretta nella cultura della città e della Dio-cesi. In merito vedrei con simpatia una presenza di stimolo degliInsegnanti dello S.T.I. nei Vicariati diocesani.

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Storia della Chiesa

Giovanni CostiMi sembra di aver assunto il compito di Insegnante della Storia della

Chiesa nello S.T.I. nel 1985.Ritengo di aver potuto beneficiare, per l’impostazione e la metolo-

gia dei Corsi suddetti, degli studi di Patrologia per il Corso dell’EpocaAntica, e dei corsi preparatori alla abilitazione alla tesi di laurea pressol’Institut Catholique di Parigi per il Corso dell’Epoca Moderna. Forse lelezioni meglio riuscite e creative sono derivate dagli anni dei miei studiin terra francese.

La bibliografia di riferimento per gli studenti era costituita da Storiadella Chiesa, Ed. Morcelliana, oppure dai volumi di Storia della Chiesa,Ed. Marietti, con approfondimenti segnalati ai quattro volumi di Storiadella Chiesa di Giacomo Martina, Ed. Morcelliana. Le lezioni peròerano supportate da una lunga documentazione di testi fotocopiati,su tematiche portanti del Corso.

Una mia preparazione personale allo svolgimento dei corsi ha avutoun preciso riferimento nella serie dei volumi Storia della Chiesa direttida H. Jedin, Ed. Jaca Book.

Tutta la bibliografia indicata aveva in buona parte recepito leistanze di rinnovamento e aggiornamento del Concilio Vaticano II.

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38 Storia della Chiesa

Un certo disagio, per l’impostazione e la proposta dei corsi, consi-steva nella difficoltà di cogliere gli aspetti interdisciplinari della Storiadella Chiesa con altre discipline teologiche, in molti casi direttamentecoinvolte sugli stessi problemi. Non sempre la Storia della Chiesa riusci-va a dare un volto storico-situato alla Liturgia, alla Teologia sistematica,alla Teologia pastorale, . . . per sottolineare le particolari caratteristichedella Chiesa e della Chiesa locale, nei lunghi processi della storia.

Non sempre era possibile cogliere l’insegnamento della Storia dellaChiesa come un supporto storico concreto per la collocazione di unaparticolare situazione della Chiesa stessa, a contatto e coinvolta davari processi politici, nazionalistici, culturali. Dato altamente significativoin merito: la Chiesa nell’epoca della Riforma.

La trattazione delle tematiche costitutive della Storia della Chiesadelle origini (Epoca Antica) e delle tematiche storiche della preriforma– Riforma cattolica – Riforma protestante – Controriforma (Epoca Mo-derna), ritengo che abbiano potuto fornire una chiave di lettura e disensibilità anche per la Chiesa del nostro presente storico, impegnataa realizzare e a vivere le prospettive di riforma del Concilio Vaticano II.

Come lato carente, nel periodo, mancava l’apertura e l’attuazionedi mirati corsi di Storia per la Chiesa locale nelle singole diocesi. In parteoggi possono sopperire in merito i vari progetti di Storia della Chiesalocale delle diocesi di Modena, Reggio Emilia-Guastalla, Carpi, . . .

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Psicologia

Alessandro ManentiRientro in diocesi nel 1975 e nell’ottobre dello stesso anno inizio

l’insegnamento allo STI. I corsi che il preside Ruini mi affida sono Eticafilosofica (che insegno tuttora), Psicologia (fino al 2008), Morale dellapenitenza (dal 1975 al 1994, collegato al corso di Mazza sulla peniten-za), morale della vita fisica (solo per un anno). Nel 1980 (fino ad oggi)parte il nuovo corso sulla esperienza spirituale (collegato a quello chefu di Monari sulla spiritualità dei salmi e ora in abbinamento con quellodi Colombini). Nel sesto anno dal 1978 al 2012 insegno pastorale fami-liare (inizialmente con Landini) e dal 1990 al 1995 direzione spirituale eaccompagnamento. Sono preside per 2 mandati dal’95 al 2005

Inizio dopo 9 anni di studi alla Gregoriana, colmo di cultura forse,ma certamente di entusiasmo e di umanità. Il concilio era finito da10 anni, quindi navigavo – come tutti – sulla scia di novità che si erainfiltrata anche nei corsi che seguivo alla Gregoriana, nella facoltà difilosofia e poi di teologia. La maggioranza dei docenti mai, in classe,si limitava a fare il riassunto del pensiero altrui ma si lanciava in unsuo pensiero creativo che neanche nei loro libri o nei loro articoli erapossibile trovare perché da un semestre all’alto lo arricchivano e lorilanciavano. Professori che erano dei “mostri sacri” ma che potevi

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contattare, al pomeriggio, per colloqui personali. In metafisica p. Lotztalmente coinvolgente che sembrava vedere volare in classe l’ente,l’essere e l’essenza. P. Henrici per la storia della filosofa, e poi p. DeFinance, p. Valori, p. Selvaggi. . . . In teologia, Flick, Aklzeghy, Latourelle,Alfaro, Martina e poi Fuks e l’indimenticabile Demmer. Nel ’71 sbarcanoda Chicago a Roma p. Rulla, p. Imoda e sr. Rydick per fondare l’istitutodi psicologia, cosa abbastanza bizzarra se teniamo conto che, in queglianni, psicologia voleva dire Freud, quindi pulsioni, sesso, inconscio,ateismo e religione come nevrosi collettiva. Ma la voglia di dialogarecon il “di fuori” era grande.

E, in contemporanea, l’esperienza di 4 anni nel seminario francese edi 5 nel collegio inglese veri e propri punti di raccolta dell’aria culturaleche in quelle chiese si respirava. Anzi fu proprio su consiglio del rettoredell’inglese, Comac Murphy O’Connor poi cardinale di Londra chemi iscrissi a psicologia: nei progetti del vescovo Baroni dovevo fareteologia morale ma O’Connor venne espressamente a Reggio perconvincerlo alla psicologia, di cui mons Baroni, come me, era del tuttoignaro di che cosa si trattasse; accettò: “mi sembra che si tratti di unacosa utile ma tu non farti confondere la testa”.

Dico questo perché lo stesso entusiasmo di capire il mondo primadi evangelizzarlo lo ritrovai nello STI: un corpo docente affiatato chespingeva in avanti, ben consapvole –insieme ai rispettivi vescovi- di checosa volesse dire avere in diocesi uno studio teologico. Sull’orientamen-to di fondo, il preside Ruini fu con me molto esplicito, più preoccupatodi indicarmi quello, che i contenuti che avrei dovuto dare ai miei corsi.Mi disse che la teologia dei seminari non doveva essere soltanto unariflessione accademica seppur rigorosa, che, al di là dei singoli corsida insegnare, era importare mantenere una riflessione teologica co-mune e unitaria fra i docenti delle 3 diocesi coinvolte e che bisognavatenere legata questa riflessione teologica condivisa alle esigenze dellenostre chiese locali nel senso che doveva essere un apporto e unagaranzia di qualità per le scelte pastorali. E non furono chiacchere:per anni i docenti dello STI hanno fatto più volte il giro della diocesi edelle scuole di ogni livello e grado, corsi per catechisti, aggiornamentodel clero, ritiri spirituali, convegni ecclesiali, scuole per formatori dellapastorale familiare e giovanile. . . , con “pacchetti” che prevedevano,quasi in forma monotona: Monari (Scrittura), Mazza (Liturgia), Manenti(psicologia), Landini (morale), Costi-Gariselli (catechetica) con unasintonia fra noi che ormai era diventata quasi automatica. Memorabilile assemblee scolastiche sulle questioni allora emergenti circa il sesso, irapporti prematrimoniali, la droga. . . dove solo la maestria di Mazza ci

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esonerava dall’uscire spennati vivi.In questo clima inizio i miei insegnamenti apparentemente eteroge-

nei ma collegati fra loro da un progetto ben preciso di come “usare”le scienze profane in uno studio addetto alle “scienze sacre” e di co-me pensare queste ultime anche con un utilizzo pastorale. Il corso dipsicologia esisteva già (d. Franco Marchi) ma come allora si faceva unpo’ dappertutto era un corso informativo, di solito sulle leggi dell’etàevolutiva e adolescenziale, sulle principali teorie psicologiche circa lareligione e con qualche accenno alle dinamiche di gruppo. Ma tuttosommato, un discorso a latere del percorso teologico. Non si poteva fa-re diversamente dato che, negli anni ’80, parole come “integrazione”,“accompagnamento psico-spirituale”, “antropologia della vocazionecristiana”, “persona umana come mistero”, “mediazioni psichiche”ecc. . . non esistevano neanche. Le riflessioni sull’ “utilizzo” della psico-logia (che travalica l’approccio della psicologia della religione) percomprendere meglio la dinamica della esperienza cristiana e la stessaantropologia teologica erano ancora agli inizi.

Ci era chiara l’integrazione (senza confusione) di prospettive, co-sì come affermata dal Concilio: Nella cura pastorale si conoscanosufficientemente e si faccia buon uso non soltanto dei principi dellateologia ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luo-go della psicologia e sociologia, cosicché anche i fedeli siano condottia una più pura e più matura vita di fede1. Come si vede, la psicologianon é vista solo in funzione di una maggiore maturità umana, né al finedi una maggiore professionalità degli educatori né soltanto per unamaggiore specializzazione culturale, ma le si riconosce il contributoper la maturità cristiana: vivere in maggiore profondità la sequela diCristo e questo attraverso un processo di integrazione progressiva frastrutture psichiche ed esigenze oggettive poste dal messaggio rivelato.Applicato ai nostri studenti seminaristi ciò vuol dire che senza questaformazione umana l’intera formazione sacerdotale sarebbe priva delsuo necessario fondamento2.

Dunque, se il nostro STI ha fatto entrare a pieno titolo la psicologianell’indagine della vita di fede, il problema era come farla entrare.Qui è stato molto feconda l’interazione con gli insegnanti di filosofia(penso soprattutto a Losavio e a Aldini, molto attenti alla cultura con-

1 Gaudium et Spes, 62 (corsivo mio). Altri testi conciliari circa gli apporti delle scienzeumane allo studio della risposta umana alla divina vocazione: GS 5.52.54.62; GE 1; CD14; OT 2. La necessità della integrazione era già stata posta nella costituzione apostolicadi Pio XII Sedes Sapientiae, cfr. AAS 48 (1956) 359.

2 E’ affermato esplicitamente nella Pastores dabo vobis al n. 43.

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temporanea) e con quelli di teologia (penso soprattutto a Diaco, Ruini,Monari, Mazza, molto attenti alla mediazione del pensiero cristianonella cultura contemporanea). Il confronto continua tuttora. Moltosinteticamente possiamo dire che il modo di fare entrare la psicologianella teologia era (ed è) quello di metterle a confronto non sui conte-nuti particolari ma sulle rispettive antropologie di fondo. L’oggetto distudio – l’esperienza cristiana - è comune, la prospettiva con cui lo si os-serva è diversa, ma trattandosi dello stesso oggetto ci dovrebbe essereconvergenza fra le prospettive. In altre parole, la riflessione teologicadovrebbe stare attenta alla sua ricaduta antropologica e quella dellapsicologia alla sua ricaduta teologica cosicché le due prospettive simuovano verso un’antropologia cristiana che tenga coerentementee intrinsecamente uniti teocentrismo e antropocentrismo. Credo chequesto si stia tuttora facendo nello STI anche, praticamente, trattandocerti temi con la presenza dei docenti di entrambi i versanti o nellegiornate di studio.

Qui c’è una scelta metodologica che ritengo un “fiore all’occhiello”dello STI: rifiuta di demandare alla psicologia la riflessione sulla praticariservando alla teologia il ruolo della sola teoria come se alla teologianon fosse riconosciuta la possibilità di dire o di suggerire nulla di pratico.E viceversa, dà alla psicologia il ruolo di suggerire qualche indicazionecirca l’elaborazione della teoria (vedi settore morale) o almeno diproporne qualche comprensione esistenziale (vedi settore dogmatico).Ad esempio, se è vero come è vero che la Grazia va letta in chiavepersonalista e relazionale, allora non si può non sapere niente su comela persona umana si predispone a tale relazione. Oppure, se è veroche il potere dell’azione salvifica è dello Spirito, non possiamo poiignorare –nei corsi di pastorale- come quel potere viene mediato dauna comunità, da un leader ecclesiale o dal direttore spirituale: secostoro non fanno un discernimento sul loro modo (anche psichico)di farsi mediazione, come è possibile continuare ad affermare cheil primato è dello Spirito, che il potere è realmente dello Spirito? Ciòbasta per capire che la dimensione psicologica, più che un corsoinformativo a sé stante, è una dimensione trasversale della teologiaquando essa si preoccupa di dimostrare che il vangelo non solo èun messaggio ma è un messaggio di vita e per la vita. E, viceversa,non può una psicologia essere insegnata in un curriculum teologicose essa non rimane in costante collegamento con il dato esegetico,dogmatico (specialmente di antropologia teologica) e morale. Si trattadi fare una psicologia teologicamente interpretata. Questa sensibilitàha costituito e costituisce una prerogativa del nostro studio teologico

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che difficilmente è riscontrabile in altri, estranea perfino alla facoltàa cui siamo affiliati. Chi è scettico nei confronti di una tale psicologianon è per riserve circa la psicologia ma per ignoranza circa il datoteologico stesso. E quando si dice che la psicologia nega la grazia ovuole trasformare i padri spirituali in mini psicologi, si sta esprimendouna ignoranza teologica prima che psicologica.

L’unicità dell’esperienza è ciò che la vita ci consegna. La distinzionefra psicologico e teologico ha le sue ragioni, il suo fondamento episte-mologico e, concettualmente, è perfino doverosa. Però non costituisceil dato originario che è l’esperienza cristiana. Si deve fare, ma con laconsapevolezza che si tratta di una rielaborazione concettuale del-l’esperienza in atto, non di una fenomenologia dell’esperienza stessa.Quando, dunque, si vuole agire sulla esperienza stessa occorre ricom-porre l’unità. È il lavoro di integrazione. Questa è la seconda peculiarità–dopo l’interdisciplinarietà- che ha guidato il nostro studio teologio nelcostruire la fisionomia del sesto anno, che non è inteso come “adessodimenticate i corsi di teologia conclusi l’anno scorso e ora passiamoal come si fa: dieci regole per affascinare i giovani, e 15 per comecondurre gli incontri dei fidanzati». Si tratta, in quell’anno conclusivo, diriprendere il dato teologico - che dunque si deve chiaramente averein mente - per esplicitarne il potere salvifico - direi quasi diagnostico eterapeutico - nei vari settori e periodi del vivere: pastorale giovanile,della comunità, sociale, familiare, direzione spirituale. . . . Le qualità inte-grative di questi corsi erano già state accennate nei corsi sistematici ele loro esplicitazioni nel sesto anno non raramente vedevano e vedonoa fianco del pastoralista anche i precedenti insegnanti di sistematica.Per favorire questa circolarità fra teologia e pastorale venne anchefatta la proposta al seminario di Reggio di mandare in parrocchia,per il week-end, i seminaristi a due a due, con compiti mirati che du-rante la settimana seguente diventavano oggetto di supervisione daparte del sottoscritto e del catecheta d. Costi (ma la cosa ebbe bre-ve vita perché vista come limitazione all’autonomia decisionale delseminario).

E veniamo al punto più delicato, quello sul coinvolgimento persona-le degli studenti.

L’impostazione così come è stata descritta – integrazione ma nonconfusione fra psicologia e teologia e la confluenza delle due per unpensare la pastorale che non si limita a valutare le esperienze messein atto ma a verificare il senso delle stesse prima che vengano prese -comporta necessariamente il coinvolgimento personale degli studen-ti e la loro disponibilità a fare un discernimento personale non solo

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sull’attuazione della loro coscienza pastorale e vocazionale ma sullaformazione della stessa. Il riferimento esplicito è alla teoria di Lonergan(ripetutamente sfruttata nei corsi dello STI) circa l’educazione comeauto-appropriazione o come «conversione» ad un nuovo orizzonteinterpretativo, qualitativamente superiore a quello che il seminaristagià possedeva all’inizio del curriculum formativo: superiore non perchésemplicemente arricchito di nuovi contenuti ma di nuovi criteri pervalutare i contenuti di sempre, emergenti dal fatto che il seminarista,grazie al contatto con la teologia si dovrebbe situare in un orizzontequalitativamente nuovo e più comprensivo della realtà stessa e piùrispettoso della sublimità della vocazione cristiana che sempre superaogni nostra conoscenza ed esperienza. La convinzione di fondo chegiustifica il legame fra STI e seminari che lo frequentano è che il legamefra sapere teologico appreso e pastorale non è diretto ma passa attra-verso la persona del seminarista e quando ciò non avviene, i contenutiappresi verranno ben presto dimenticati per lasciare il posto alle pre-comprensioni personali che già il seminarista aveva prima dell’entratain seminario e non sottoposte nel frattempo a vaglio critico.

Quindi, lo STI come luogo di formazione e non solo di istruzione. Adesempio, il mio corso di etica (esperienza dei valori naturali) e di spiri-tualità (esperienza dei valori cristiani) sono pensati in sequenza e postinel biennio (dove c’è, in parallelo, anche il corso della lettura continuadella bibbia) perché - si pensa - possono essere un aiuto al discernimen-to circa l’ipotesi vocazionale che in quegli anni il seminarista dovrebbeaffrontare e risolvere, mentre il corso di psicologia (dinamiche psico-logiche dell’esperienza cristiana) è al terzo anno perché - si pensa- possa aiutare il seminarista a fare il successivo discernimento sullaqualità della sua (già interiormente avvenuta) decisione vocazionale(seguendo, in ciò, la distinzione ignaziana fra discernimento moralee quello – successivo - di natura spirituale). Ci dovrebbe essere unacerta sincronia fra contenuto che si apprende e compito vocazionalein atto.

Di qui il contributo dello STI alla formazione più globale dei semi-naristi, materia di incontro e a volte di attrito con i seminari. Si può atal proposito ricordare l’offerta di un accompagnamento personale(del tutto libero, opzionale ed extra-curriculare) di percorsi individuali diconoscenza di sé a cui poteva seguire la frequenza alla scuola estivaper educatori, che nel frattempo avevo iniziato in diocesi con la colla-borazione di altri ex studenti di psicologia della Gregoriana in favoredella formazione dei formatori delle nostre rispettive diocesi (diventatapoi l’attuale Istituto Superiori per Formatori, con sede oggi nella diocesi

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di Brescia).Qui, dunque, il punto critico tuttora sul tavolo: uno studio teologico,

fino a che punto può pretendere il coinvolgimento personale dellostudente? Va pensato solo come un polo accademico o anche comeiniziazione al pensarsi - da parte del seminarista - in un certo modopiuttosto che in altro? Si ferma a trasmettere la immagine vera (rivelata)di Dio o cerca anche di sconfessare o correggere le immagini interioriche ogni seminarista ha, precedentemente, in sé di Dio? Vuole trasmet-tere un Dio vero o anche un Dio vivente in noi? Fino a che punto può“pretendere” dai suoi studenti un salto qualitativo nel progettare sestessi? Può spingersi fino a proporre esperienze che siano trasformativee non solo conservative? A quali sfide future prepariamo i nostri semi-naristi? Ci basta custodire la loro vocazione o metterla salutarmene incrisi? Li prepariamo ad essere ministri del culto o anche a confrontarsicon le antropologie contemporanee che, dunque, vanno conosciute,e confrontate con la propria chiaramente differenziando il suo nucleodai suoi derivati? Sono questioni che noi, come corpo docente, nonabbiamo certo risolte ma le abbiamo certamente presenti (le “giorna-te di studio” fra i docenti sono un altro “fiore all’occhiello dello nostroSTI). E, come è ovvio, in questi anni hanno avuto risposte alterne, anchea seconda dei vescovi e dei rettori che si sono succeduti nelle nostrediocesi.

Limitatamente alla psicologia: dal momento che il suo modo diessere presente nello STI interroga molto da vicino l’interiorità deglistudenti, è chiaro che non passa innocua. Una impostazione comela nostra ha suscitato e susciterà molte obiezioni, nei seminaristi, neirettori e forse nei vescovi stessi. Alla radice, non sono però resistenzealla psicologia stessa ma all’invito di essa alla (ri)elaborazione dellapropria coscienza. Esprimono la difficoltà alla disponibilità di sè finoalla revisione di sè. Le critiche sono sempre le stesse e un po’ stantie: lapsicologia non crede alla grazia, l’insegnante di dogmatica o di sacra-mentaria ha detto il contrario, si vuole sostituire la direzione spiritualecon la psicologia, a scuola non si legge il catechismo della chiesacattolica, lo STI è disfattista, gli insegnanti non sanno che cosa è lapastorale..... Eppure, è strano: basterebbe informarsi un po’ di più sullaproduzione dello STI per capire dove sta il vero fastidio e apprezzare laqualità veramente invidiabile del nostro studio teologico.

E in futuro? È già stato ampliamento detto da molti che l’ingressopost-conciliare della psicologia nel mondo teologico ha avuto - finoad oggi - delle ricezioni identificabili in quattro passaggi: resistenza,indifferenza, resa (da parte della teologia), integrazione (soprattutto a

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livello della antropologia sottesa ai due campi di indagine)3. Dunque,sembra pace fatta e collaborazione avvenuta. Le pubblicazioni espres-sive di quest’ultima fase della integrazione sono più che abbondantisul versante psicologico.

Ma si sta aprendo una nuova fase: quella della integrazione ane-stetizzata. Integrazione sì, ma talmente tanto da aver svuotato la psi-cologia della sua anima che non è una teoria per la consolazionedella mente ma una prassi per l’apertura del cuore. Come già fu l’in-tuizione del concilio, la psicologia negli studi teologici non serve peraggiungere nuove informazioni ma per una migliore vita di fede e ciòlo fa non quando si presenta come una teoria compatta ma perchépropone un itinerario e un metodo educativo che aiuti la persona atenere uniti nella sua vita l’aspetto antropologico e teologico dellasua esperienza cristiana. Ma ciò presuppone che la persona (cioè ilseminarista) ne senta il bisogno, ossia che non dia per scontata questaunione e che non la affidi alla sola “ortodossia” della mente e “orto-prassi” della volontà. Il mondo degli affetti –nonché la parabola deltesoro nascosto- ci informa chiaramente che a garantire la perseve-ranza vocazionale e l’efficacia apostolica non è la conoscenza diun contenuto valoriale ma l’energia che si è dovuta “spendere” perconquistarsi quel contenuto (“ortopatia”). Oggi il clima culturale nonva nella direzione di accendere queste energie, né fuori né dentro allachiesa (seminari). Fuori si riscontra una cultura che si appiattisce suemozioni “tristi” e dentro un’altrettanta simpatia per l’acquiescenzadel sentire, spostando nella lotta contro il mondo la vera lotta cristianache è quella interiore, fra la nostra inevitabilmente piccola interiorità ela grandezza del Dio di Gesù tanto amato ma anche inevitabilmentestrapazzato. L’eccessivo amore per l’adattamento smorza la passionee là dove ci si accontenta che per fare un dono di sé basti l’intenzionedi farlo, certi percorsi educativi attirano solo una minoranza. La vogliadi sognare che il concilio ci aveva donato, oggi non è più un regalosuperadditum ma un tesoro da andare a cercare e penso che lo STIdebba preparasi a dare il suo contributo per la ormai inderogabilequestione del ruolo dei futuri preti nel nostro territorio.

3 B. Forte, Teologia e psicologia: resistenza,indifferenza, resa o integrazione? in F. Imoda(a cura di), Antropologia interdisciplinare e formazione, EDB, Bologna, 1997, 75-95.