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Rita Di Giovacchino Il libro nero della prima repubblica Le terre Interventi 59 I edizione: ottobre 2003 2003 Fazi Editore srl Via Isonzo 42, Roma Tutti i diritti riservati Grafica di copertina: Maurizio Ceccato ISBN: 88-8112-407-6 www.fazieditore.it Fazi Editore prefazione di Massimo Brutti con un'intervista a Giovanni Pellegrino indice Prefazione Prologo Il processo Andreotti Parte Prima i terribili anni settanta Parte seconda Il delitto Moro Parte terza L'Agenzia del Crimine Epilogo Il tramonto della Prima Repubblica Appendice Cronologia essenziale Nota. Prefazione Questo è un libro scritto per ricordare e per far ricordare. Esso ricostruisce i momenti più oscuri e tragici della storia italiana dal dopoguerra a oggi. Ripropone ai lettori un passato che è ancora lontano dall'essere decifrato e compreso. Rita Di Giovacchino ha seguito per anni, da giornalista, le vicende legate ai tentativi di eversione e ai delitti politici, dal processo per piazza Fontana alle bombe contro Bologna, dalla lunga scia di enigmi irrisolti attorno al sequestro e all'omicidio di Aldo Moro fino all'assassinio del giornalista

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Il libro nero della prima repubblica - Di Giovacchino Rita

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Rita Di Giovacchino

Il libro nero della prima repubblica

Le terre Interventi 59 I edizione: ottobre 2003 2003 Fazi Editore srl Via Isonzo 42, Roma Tutti i

diritti riservati Grafica di copertina: Maurizio Ceccato ISBN: 88-8112-407-6 www.fazieditore.it

Fazi Editore prefazione di Massimo Brutti con un'intervista a Giovanni Pellegrino

indice

Prefazione

Prologo Il processo Andreotti

Parte Prima i terribili anni settanta

Parte seconda Il delitto Moro

Parte terza L'Agenzia del Crimine

Epilogo Il tramonto della Prima Repubblica

Appendice

Cronologia essenziale Nota.

Prefazione

Questo è un libro scritto per ricordare e per far ricordare. Esso ricostruisce i momenti più oscuri e

tragici della storia italiana dal dopoguerra a oggi. Ripropone ai lettori un passato che è ancora

lontano dall'essere decifrato e compreso.

Rita Di Giovacchino ha seguito per anni, da giornalista, le vicende legate ai tentativi di eversione e

ai delitti politici, dal processo per piazza Fontana alle bombe contro Bologna, dalla lunga scia di

enigmi irrisolti attorno al sequestro e all'omicidio di Aldo Moro fino all'assassinio del giornalista

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Mino Pecorelli, dai crimini del terrorismo rosso e nero ai collegamenti fra terroristi e apparati dello

Stato, dai grandi delitti di mafia alle stragi eseguite dai corleonesi nel biennio 1992-93. Ciascuno di

questi episodi coincide con un momento della sua vita professionale e porta con sé, nella memoria,

un carico di informazioni da non dimenticare, di ipotesi e di retroscena: è la stessa materia prima

sulla quale hanno lavorato, almeno durante tre decenni, molti giornalisti italiani (quelli che si

occupavano delle "trame"), tenendo alta l'attenzione pubblica e combattendo contro il silenzio.

Dunque una testimonianza non neutra. Il ricordo dei morti visti da vicino, i dibattimenti penali che

si svolgevano in giro per l'Italia, e tra gli altri i processi più difficili e finora meno raccontati, quelli

nei confronti di Giulio Andreotti, che Di Giovacchino puntualmente ricostruisce; e poi l'attesa

negli anni, gli articoli dettati in fretta pochi minuti prima della chiusura del giornale, il terrorista

che telefona in redazione e cerca un contatto e vuole raccontare, chissà a quale scopo, la sua versione

dei fatti... Una realtà aspra si agita dietro queste pagine. È difficile da sistemare in un racconto

compiuto e si esprime attraverso interrogativi drammatici, che non riguardano soltanto l'autrice, il

suo lavoro di cronista, ma che in realtà ci appartengono e pesano sulla nostra storia collettiva.

Più volte, la vita pubblica nel nostro paese è stata condizionata, inquinata dalla violenza politica, dal

terrorismo, dagli interessi e dalle strategie di associazioni segrete e di potenti gruppi criminali. Si

può dire che il rischio per la democrazia è stato più forte nei momenti di crisi e di transizione,

quando da parte di organizzazioni e soggetti diversi si è fatto ricorso alla violenza e al delitto politico

come strumenti per l'affermazione di poteri eversivi. Intendo questa espressione ("poteri eversivi")

nel senso più ampio possibile. Le Brigate Rosse, quando ricercavano la via di una trattativa con il

governo e le istituzioni, ambivano in realtà a costituirsi come un potere, capace di ricattare lo Stato,

di togliere efficacia alle leggi. Tentarono una contrattazione con lo Stato nella complessa vicenda

che seguì il rapimento di Aldo Moro, ma non vi riuscirono (ottennero qualcosa di più tre anni dopo,

con i sequestri dell'esponente democristiano Cirillo e del magistrato D'Urso). Nonostante tutto

furono sconfitte: alla fine la potenza conquistata non riuscì a produrre consenso e non resse alla

durezza dello scontro.

Analogamente, anche se su un versante opposto e con altri strumenti, la loggia massonica P2

null'altro voleva essere se non un potere; voleva interferire nell'amministrazione pubblica e voleva

anch'essa contrattare la realizzazione dei propri interessi con i poteri legali, imponendo decisioni,

favorendo carriere, costruendo gerarchie e fortune politiche, sulla base di parole d'ordine vagamente

liberiste e atlantiche. La stessa cosa volevano fare gli esponenti politici che erano alleati con la

mafia. Volevano negoziare favori e profitti. Anche da questa alleanza nasceva un potere, nel cuore

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dell'establishment e in antitesi rispetto allo Stato di diritto. Erano tutte minacce reciprocamente

irriducibili l'una all'altra, ma convergenti.

Accanto alla politica democratica, c'è stata in Italia un'altra politica: un insieme composito di

iniziative volte a incidere sulla vita del paese, che si sono mosse al di fuori della Costituzione e delle

leggi, anzi in contrasto con esse. La tendenza all'illegalismo, assai pronunziata nell'ambito delle

classi dirigenti italiane, è stata un elemento centrale di debolezza della Repubblica, per lungo

tempo, fino a dare luogo ai fenomeni di degenerazione del potere negli anni Ottanta e alla tempesta

di Tangentopoli. Quando dai livelli più elevati del sistema politico si accredita l'idea che la legalità

sia negoziabile e che i soggetti più forti (politici o sociali) possano farne a meno e calpestarla coi

propri comportamenti, è evidente che diventa molto più difficile difendere l'integrità della

democrazia dalle manovre occulte e dalle aggressioni. In questo contesto, per decenni, la violenza è

stata sottovalutata, assecondata e perfino sostenuta da una parte degli apparati di sicurezza, mentre

il ceto di governo non vedeva o fingeva di non vedere. E ciò spiega alcune umilianti sconfitte dello

Stato.

Su tutti gli episodi di eversione e sulle ferite della democrazia, sulla storia di quello che è stato

definito da Giuseppe De Lutiis «il lato oscuro del potere», sulle ragioni e le complicità dei delitti,

possediamo oggi Prefazione molti documenti, un cumulo sconvolgente di notizie, ma poche

certezze definitive.

La ricerca della verità, perseguita dai magistrati, dal giornalismo d'inchiesta, dalle commissioni

parlamentari, è stata ed è sempre di più un cammino impervio. Certo, molti elementi di prova circa

le illegalità e l'inquinamento dello Stato sono emersi; e, trattandosi di comportamenti illeciti sotto il

profilo penale, si sono avviati numerosi processi. Ma questi si sono accavallati l'uno sull'altro, con

esiti contraddittori. Perciò le responsabilità per i fatti eversivi e per i rapporti tra politica e mafia,

che pure si ricavano da tante carte e conoscenze ormai note, non hanno ancora in gran parte dei casi

il suggello della verità processuale. Spesso, gli avvenimenti più inquietanti sono stati coperti e

sovrastati da una coltre di incertezza e di indifferenza: perciò appaiono nella memoria collettiva

come una specie di nebulosa, lontana nel tempo, che molti si illudono di poter mettere tra parentesi

e di dimenticare.

Non si giunge a conclusioni esaurienti e sicure in questo libro. Piuttosto, esso mette in fila una

lunga serie di domande e mi sembra pervaso da un sentimento di ansia. Per il tempo trascorso

inutilmente, per le tante cose scritte e cadute nell'oblio. È come se l'autrice fosse convinta di dover

compiere un'impresa contro corrente, sempre più ardua per trovare un senso nelle vicende che sta

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narrando. Perciò corre di pagina in pagina dietro le possibili spiegazioni, con il dubbio serpeggiante

che non vi sia più risposta ai mille quesiti, che la verità sia irrimediabilmente perduta, tra gli

accertamenti giudiziari interminabili e il disinteresse.

Alla base di tutto c'è una serie di fatti: non teorie, non giudizi politici, ma fatti concreti. I morti del

12 dicembre 1969 e poi Brescia, l'Italicus, il 2 agosto 1980, la lotta armata delle BR, degli altri

gruppi di terrorismo rosso, e il ruolo dei neofascisti nella eversione; e la mafia che fin dalla strage del

23 dicembre 1984 sceglie la via del terrorismo, per allentare la stretta dello Stato e premere sui

propri alleati, sui mediatori. Sono, come leggiamo all'inizio del libro, «pagine della nostra vita in cui

si contano decine di morti che non possono essere dimenticati».

Naturalmente, i fatti sono oggetto di interpretazione e Di Giovacchino sembra attratta in più punti

dalla teoria di uno sviluppo lineare delle strategie eversive, dall'immagine di un meccanismo unico,

come se una piena continuità e una coerenza di azione fossero sempre rintracciabili nel «lato oscuro

del potere». Le relazioni sono a mio avviso più complesse, con strategie spesso del tutto

indipendenti luna dall'altra. Ma non si può dire che non vi siano state somiglianze, interessi

comuni, punti di incontro. E in primo luogo una identica vocazione di diversi gruppi eversivi e

criminali a trattare con le istituzioni, a insinuarsi in esse.

È utile tornare a discutere di questo passato, cercare di svelarne il senso e le ragioni? Io credo di sì, se

vogliamo evitare che esso ritorni. Mi vengono in mente a questo proposito i numerosi libri scritti

negli Stati Uniti, soprattutto da giornalisti, sui misteri dell'omicidio di John Kennedy. Anche là,

come nelle pagine che l'autrice dedica all'omicidio di Aldo Moro, era molto forte l'ansia di

smascherare le menzogne, di trovare un perché oltre il lutto. Quei reportage, quei volumi hanno

contribuito - sondando tutti i documenti disponibili e avanzando congetture, senza acquietarsi -

alla demistificazione delle versioni ufficiali e sono stati elementi costitutivi della cultura

democratica americana. Del resto, senza la curiosità e la unilateralità dei giornalisti indipendenti

non vi sarebbe stato neanche lo scandalo del Watergate e con esso l'indignazione diffusa, che ha

portato alla condanna morale e politica di Nixon.

Nel nostro paese, questo genere di letteratura è sempre più raro; e invece un nuovo giornalismo

d'inchiesta, non messo ai margini ma incoraggiato dai grandi organi di stampa e capace di riflettere

sui misfatti italiani, sarebbe un buon segno di vitalità democratica.

Le pagine che seguono contengono una galleria degli orrori della Prima Repubblica. Non

pretendono di tracciare una storia complessiva, non puntano a una illusoria oggettività del racconto,

ma puntigliosamente ricordano che gli orrori ci sono stati e che hanno generato effetti sul senso

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comune, sulla politica, sui cambiamenti che grazie alla violenza e agli intrighi sono stati impediti o

frenati. Ciò non significa che la Prima Repubblica si identifichi con gli orrori; al contrario, la

democrazia italiana, pur con tutte le sue anomalie derivanti dalla guerra fredda, ha resistito bene. I

grandi partiti hanno isolato il terrorismo, hanno impedito che producesse consenso e questa è stata

la loro ultima impresa di portata nazionale e storica. Inoltre, alla fine degli anni Ottanta, hanno

ritrovato la via di una resistenza attiva contro la mafia. E tuttavia gli orrori hanno ugualmente

lasciato il segno, hanno messo radici, che non sono state ancora scoperte fino in fondo e strappate.

Nessun paese dell'Europa occidentale ha conosciuto, nei decenni passati, la stessa eversione

strisciante, la stessa pratica della violenza come mezzo di condizionamento delle istituzioni e

contemporaneamente la stessa stabilità nel sistema di governo. Le strategie antidemocratiche in

Francia con l'OAS, o in Grecia con i colonnelli, avevano come finalità il rovesciamento del sistema,

l'annientamento del pluralismo politico e delle libertà. In Francia le forze della destra estrema sono

state duramente sconfitte da De Gaulle. In Grecia i militari traditori, in nome dell'anticomunismo,

hanno realizzato un colpo di Stato e a lungo, finché non sono stati scacciati, hanno avuto in mano il

paese.

In Italia invece non c'è stata una vera e temibile strategia insurrezionale o golpista, che abbia

seriamente perseguito un rovesciamento del potere politico dominante. L'uso della violenza è

servito a minacciare e ricattare i governanti o alcuni di essi, non a sostituirli. Lo stesso terrorismo

rosso aspirava a creare condizioni di guerra civile, ma intanto nel breve periodo andava alla ricerca di

un riconoscimento da parte dello Stato, per trattare, per allargare gli spazi di illegalità.

La via prescelta è stata duplice. Da una parte, è stata usata la leva della corruzione: di quanti miliardi

c'è bisognosi domandava Licio Gelli -per controllare un partito di governo o un grande giornale? Il

progetto eversivo della P2 ruotava in larga misura attorno a questo problema contabile. Dall'altra

parte, c'è stato lo stillicidio della violenza terroristica, prima nera e poi rossa. L'autrice ricorda la

puntuale previsione del capo del SID Vito Miceli, nel 1974: «Ora non sentirete più parlare del

terrorismo nero e partiranno gli altri, i rossi». Era soltanto una supposizione o piuttosto il

disvelamento di un gioco tragico in corso, per cui una parte degli apparati dello Stato fomentava il

disordine invece di fermarlo? Giulio Andreotti è un personaggio chiave di questo libro. Egli è stato

imputato in due processi penali, che toccano momenti cruciali della vita pubblica italiana e che qui

vengono raccontati dall'inizio fino a oggi. Nel primo l'accusa è per associazione a delinquere di tipo

mafioso, riguarda fondamentalmente i rapporti con Lima e con i settori inquinati della DC

siciliana, e punta a dimostrare che vi sia stato tra Andreotti e il vertice di Cosa nostra un

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collegamento stabile. Nel secondo processo si tratta di omicidio: il leader democristiano è accusato

di essere stato il mandante dell'assassinio di Mino Pecorelli.

Figura tragica quella del giornalista ucciso nel 1979: uomo legato ai servizi, detentorc di segreti che

scottavano, relativi alle Brigate Rosse, all'affare Moro, alle tangenti di Stato, al sistema di potere

andreottiano, era in possesso di una miriade di carte compromettenti, usate con spregiudicatezza.

Ripercorrendo le spericolate manovre di Pecorelli, Rita Di Giovacchino mette a fuoco alcuni tratti

salienti della illegalità interna alle istituzioni negli anni Settanta. E anche qui, anche nella vicenda

Pecorelli, ritornano negli accertamenti giudiziari le tracce del rapporto tra politica e mafia.

L'autrice analizza le sentenze di appello che rappresentano finora il punto di arrivo dei due processi:

mafia e omicidio. La prima, al termine del processo di Palermo, riconosce che in epoca anteriore al

1980 l'ex presidente del Consiglio ha intrattenuto rapporti stretti e durevoli con l'organizzazione

mafiosa Cosa Nostra, interrompendoli soltanto dopo l'omicidio di Piersanti Mattarella; ma per

quegli anni ormai lontani il reato è prescritto.

L'altra sentenza, pronunziata a Perugia, è una condanna per omicidio, che ha sollevato perplessità e

dubbi: Andreotti sarebbe il mandante del delitto Pecorelli, ma coloro che erano imputati di averlo

commesso sono stati assolti e gli esecutori non si conoscono. E inutile osservare che questa

situazione non è del tutto insolita e più di una volta si ritrova nei processi per reati di mafia, ove

viene provata la decisione dell'omicidio assunta dal vertice dell'organizzazione, senza che siano

individuati i sicari. L'incertezza sulla dinamica degli eventi comunque resta e poiché riguarda un

imputato eccellente toglie credibilità alla condanna.

In realtà, la pesantezza degli accertamenti giudiziari, non solo nel caso della condanna di Perugia,

ma in una certa misura anche in quello del proscioglimento per prescrizione a Palermo, è stata presa

come spunto non per riflettere sugli avvenimenti che nel giudizio sono stati ricostruiti né sul

rapporto politica-mafia, ma piuttosto per ribadire e diffondere nell'opinione pubblica, con una

martellante campagna mediatica, il cliché della giustizia impazzita o politicizzata, caro all'attuale

maggioranza di governo.

L'autrice rifiuta invece questo schema liquidatorio e mette al centro le domande ancora brucianti

che nascono dagli elementi di prova, dai fatti emersi nei processi, dalle deposizioni di collaboratori

di giustizia ritenuti attendibili. C'è stato un negoziato politico diretto o mediato tra Andreotti e i

capi di Cosa Nostra, e se c'è stato, quali erano i terreni del compromesso? Quali le responsabilità

politiche, al di là dei profili penali? C'è stata soltanto inerzia di fronte al potere della mafia oppure

anche una convergenza attiva? I capitoli dedicati ad Andreotti vanno al di là del tema mafia e

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ruotano intorno ai momenti cruciali di crisi e di debolezza della democrazia. Tra questi, in primo

piano, la vicenda del rapimento di Aldo Moro è la più emblematica.

Da allora è passato un quarto di secolo. In quei giorni non crollò la Repubblica, ma certo fu evidente

la sua fragilità. Non riusciamo a dimenticare né a considerare frutto di irrilevanti coincidenze la

lunga serie di misteri e di contraddizioni che quei fatti evocano ancora. Non possiamo cancellare le

prove di impotenza degli apparati, la confusione e le manovre all'interno del sistema politico, le

responsabilità di chi non seppe prevenire né fermare l'azione brigatista. Quanti fantasmi ancora

ruotano intorno agli eventi della primavera 1978. Vorremmo congedarci da essi, ma non è possibile:

sono troppi gli aspetti che rimangono nell'ombra, tra il non detto e la menzogna.

Nel raccontare quella sconfitta della democrazia italiana, Rita Di Giovacchino insiste molto sulla

testimonianza dello stesso Moro, consegnata nel suo Memoriale. Era un testo che egli aveva scritto

per rispondere ai brigatisti e che noi conosciamo soltanto in parte. Non so se vi fosse in lui

l'intenzione di redigere un testo per il futuro, capace di andare al di là del terribile confronto con le

BR. Penso comunque che si trattasse di un'analisi lucida e drammatica delle condizioni di un

fallimento. La politica di Prefazione intesa tra le grandi forze popolari che si erano contrapposte per

decenni nel nostro paese era stata pensata dal leader democristiano come una via non facile ma

obbligata verso le riforme e verso un graduale superamento del blocco del sistema politico italiano.

Il compromesso tra DC e PCI, come era avvenuto con la "grande coalizione" in Germania, poteva

aprire la via a una normalizzazione e a un sistema politico dell'alternanza. Ma lo spettro del

comunismo, sia pure all'italiana, coalizzava e moltiplicava i pericoli e le inimicizie.

Il disegno di Moro non era soltanto ambizioso. Aveva anche in sé un forte volontarismo destinato a

cadere e a infrangersi, perché troppo aggressivo era il sistema di poteri che lo contrastava. Ebbene,

questo complesso di resistenze, di ostacoli, di minacce alla democrazia che venivano anzitutto

dall'interno dello Stato, dalle debolezze e dalle connivenze della politica, è il vero oggetto del

Memoriale. E il rischio che viene qui messo in luce è la congiura di forze interne e internazionali

contro una normalizzazione democratica, che avrebbe dovuto essere condotta (come Moro

progettava giolittianamente) d'intesa con la sinistra e con il movimento sindacale unitario.

Per quel che possiamo oggi vedere, Moro si era sottratto, usando la sola arma della scrittura, al

dominio pieno e incontrastato che i carcerieri volevano esercitare nei suoi confronti. Aveva espresso

il proprio punto di vista, senza infingimenti, sulla crisi drammatica del paese, di cui la sua

esperienza personale era la prova decisiva. È questo l'aspetto che l'autrice sottolinea. Certo, il paese

non fu allora sopraffatto; non venne il disordine, né la guerra civile a cui mirava il terrorismo; e per

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le BR fu l'inizio del tramonto. Non furono calpestate e sovvertite in modo devastante le leggi

comuni, o almeno ciò non apparve (il potere illegale della P2 agiva nell'ombra). Ma sia pure nella

permanenza delle forme democratiche,senza che le regole e i principi della Costituzione venissero

meno, l'Italia fu ugualmente messa in ginocchio e l'inquinamento dello Stato favorì l'assassinio di

Moro.

Il presidente della DC era consapevole di questo andamento delle cose. Perciò le sue parole pesano

come macigni. L'antitesi e gli ostacoli al suo disegno politico non sono soltanto negli intrighi degli

uomini di governo che egli accusa a chiare lettere o nelle pressioni della destra americana. Vi è anche

una rete di interessi, una consuetudine di corruzione e di sostegni occulti ai gruppi eversivi, che egli

segnala con nettezza, attraverso una serie di esempi concreti, e che fa blocco contro di lui.

È possibile - il libro formula molte considerazioni e ipotesi su questo punto - che vi fossero nel

Memoriale anche notizie più compromettenti sulla corruzione interna al sistema di governo e sulle

deviazioni dei servizi segreti. Ma il valore della testimonianza è già davanti ai nostri occhi: è come se

Moro drammaticamente dimostrasse, rigo dopo rigo, che con quello Stato, con quel sistema politico

per lui non c'è più spazio. Il suo progetto è battuto; la minaccia non viene soltanto dai brigatisti, ma

soprattutto da quel sistema.

«Ed è proprio», scrive Di Giovacchino «la diagnosi impietosa che Moro fa in quelle pagine

dell'involuzione politica del paese e dell'assenza di ogni tensione etica e politica, a fornire

un'istantanea anticipata della degenerazione del sistema italiano, che sarebbe venuta pienamente

alla luce quindici anni dopo».

Non so se davvero i due momenti siano così vicini e simili. D'altra parte, la tendenza all'illegalismo

nell'ambito delle istituzioni non spiega da sola fenomeni eterogenei come la strategia della tensione,

le deviazioni dei servizi segreti, le trattative con la mafia e lo sviluppo dei terrorismi. Ma certo essa è

stata una delle condizioni della eversione e l'ha aiutata a crescere, in tutte le sue svariate forme. Ora,

durante gli anni che stiamo vivendo, quell'illegalismo è ancora presente nelle classi dirigenti e nel

costume italiano. Anzi, è un elemento di congiunzione tra Prima e Seconda Repubblica; è ben

lontano dall'essere estirpato e vive una nuova, rigogliosa esistenza.

Massimo Brutti settembre 2003 Nota dell'autore Il 20 marzo del 1993 ero a Napoli. C'era folla

davanti al palazzo della Prefettura: gente che tirava monetine e gridava "mariuolo" alla volta di un

povero assessore travolto dalla tangentopoli vesuviana, quando arrivò la notizia che il Senato aveva

concesso l'autorizzazione a procedere nei confronti di Giulio Andreotti e Antonio Gava. Erano

giorni di ordinario caos, i mandati di cattura fioccavano di qua e di là, non c'era amministratore

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pubblico o manager privato che non dormisse con la ventiquattrore accanto al letto, pronto a

trasferirsi da un momento all'altro a Rebibbia o a San Vittore o a Poggioreale. Ma, passi per Gava

che non era in odore di santità, l'incolpazione di Andreotti provocò autentico sgomento. A creare

maggiore confusione non era tanto l'accusa di partecipazione ad associazione mafiosa, che in quei

tempi non si negava a nessuno, quanto quella di omicidio. «Ma chi è 'sto Mino Pecorelli?», mi

chiedevano afflitti i miei capi, mentre nel buio dei loro ricordi si accendeva all'improvviso una luce

di speranza: «Tu te ne sei occupata a suo tempo, no?».

Sì, me ne ero occupata. Erano passati esattamente quattordici anni da quella sera in via Tacito, il 20

marzo 1979, quando sotto una fitta pioggerella primaverile avevo trascorso qualche ora davanti al

cadavere crivellato di colpi del mio sfortunato collega, riverso nella sua vecchia Citroen verde

bottiglia, a cercare di capire come e perché fosse finito così.

Di tutti gli scheletri che nell'immaginario collettivo affollavano il ripostiglio del Presidente, quello

di Pecorelli rischiava di diventare il più ingombrante, perché il giornalista, nel momento in cui fu

ucciso, stava per rivelare sconvolgenti verità sul delitto Moro. E quel giorno del '93 mentre mi

aggiravo in piazza del Plebiscito a Napoli e mi chiedevo chi fosse l'ignoto manovratore che aveva

all'improvviso deciso di aprire l'armadio, mi sembrava di essere arrivata, insieme a quella folla

rumorosa e vociante che tirava monetine, al capolinea della storia d'Italia.

Dieci anni dopo eccomi qui, in una stanza dell'hotel Le Palme a Palermo, a scrivere l'ultima pagina

di questa incredibile, straordinaria vicenda, che si è conclusa proprio in questi giorni nelle aule

giudiziarie, dopo l'ultima, controversa sentenza della Corte d'Appello di Palermo.

Vediamo com'è andata a finire: a Perugia, il senatore è stato condannato a ventiquattro anni per

l'omicidio di Pecorelli, a Palermo è stato per metà assolto e per metà prescritto dall'accusa di essere

associato alla mafia. Una sentenza, quest'ultima, che Sciascia avrebbe definito un "capolavoro",

pirandelliana come la terra che l'ha generata.

Luci e ombre, dunque, anche in quest'ultimo verdetto. Dieci anni non sono bastati per mettere la

parola fine a questa intricatissima vicenda: almeno per Perugia, deve ancora intervenire la

Cassazione. In ogni caso il processo di Palermo sembra aver confermato l'ipotesi primaria: Cosa

Nostra ha goduto, almeno fino all'inizio degli anni Ottanta, di protezioni politiche ad altissimo

livello, la cui principale responsabilità ricade sul più volte presidente del Consiglio. E l'aver

avvalorato la credibilità del pentito Francesco Marino Mannoia, che ha confermato i rapporti tra

Andreotti e i cugini Ignazio e Nino Salvo, presunti intermediari del delitto Pecorelli, non smentisce

anzi rafforza la tesi della Corte d'Assise d'Appello di Perugia che lo ha condannato. Questa è l'amara

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verità che emerge dal "processo del secolo".

In qualunque altro paese del mondo, una storia come quella di Andreotti, senatore a vita, sette volte

presidente del Consiglio e per venticinque ministro di tutti i governi della Repubblica, dal 1947 al

1993, avrebbe mobilitato storici, politologi, criminologi, insomma avrebbe prodotto più di un

bestseller.Anche perché è una storia appassionante, gravida di intrighi e di misteri, che attraversa gli

anni della ricostruzione, gli anni della guerra fredda e gli "anni di piombo". Una storia che s'intreccia

con il delitto Moro, con le stragi d'Italia e con tanti omicidi che assomigliano tutti al primo, quello

di Mino Pecorelli, il "giornalista che sapeva troppo". Insomma,un grande pezzo del nostro passato,

una vicenda che ci ha coinvolto nei dubbi, nelle certezze e nelle passioni politiche. Invece niente,

silenzio: non è strano? Eppure Andreotti non è affatto scomparso dalla scena politica. Anzi,

nonostante i suoi ottantaquattro anni, è un protagonista attivo, un leader attorno al quale

continuano a coagularsi manovre e progetti che influiscono sugli equilibri di governo. Pensate che

cosa sarebbe successo negli Stati Uniti se Kennedy o Bush fossero stati imputati di fatti tanto

strabilianti. Decine di film, centinaia di libri. Noi, invece, niente: zitti.

Ma forse una storia del genere non poteva accadere in nessun altro paese. Fa parte dell'"anomalia"

italiana e il silenzio nasconde l'imbarazzo. Non perché lo scandalo sia una nostra prerogativa: la

componente "criminale" è parte organica di ogni sistema di potere. Ma in altri paesi l'argine è

costituito dallo stato di diritto, dalla certezza dei codici, dalle garanzie del sistema giudiziario e degli

uomini chiamati a rappresentarlo. La nostra "anomalia" sta nell'operazione di delegittimazione

della magistratura che ha accompagnato questo processo, come tutti gli altri processi politici di

questi anni. Un'operazione pericolosa, perché in nome di un sospetto garantismo, che difende

soprattutto i potenti, non ha investito questo o quel magistrato, ma intere strutture giudiziarie,

intere procure, i pool antimafia e antiterrorismo: fino ad aggredire il ruolo della pubblica accusa. In

questa logica, anche fare semplice informazione rischia di dare credito alla versione di "una

magistratura impazzita". Meglio tacere. Con il risultato che sono ormai pochi gli italiani che

riescono a districarsi nel labirinto delle accuse mosse ad Andreotti, e quando, in occasione delle

sentenze che finora si sono succedute, vengono improvvisamente investiti da una valanga di notizie,

spesso contraddittorie, ne ricavano la sensazione che l'innocenza o la colpevolezza del senatore sia

come la frutta: cambia con le stagioni. Qualcun altro, per disinnescare la mina della condanna,

sostiene che in realtà non si è trattato del processo a un singolo uomo politico, ma a una moltitudine

di uomini politici. Insomma si è fatto il processo alla Storia, incolpando una sola persona.

Il mio criterio sarà quello di raccontare i fatti. I fatti nel processo Andreotti sono stati l'unica

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certezza. Sono una certezza gli omicidi, le stragi, gli attentati sanguinari. compiuti in Italia negli

ultimi trent'anni. Questo processo offre la possibilità di ricostruirli all'interno di un unico

psicodramma collettivo e di comprenderne la trama delle connessioni. Non sono macchinose

ricostruzioni di menti contorte, ma pagine della nostra vita in cui si contano decine di morti che non

possono essere dimenticati. Ci sono stragi lontane, come quella di piazza Fontana o di via Fani, ma

ancora vicinissime nelle emozioni che continuano a suscitare. Altre, quelle di Capaci e via

D'Amelio, sono più prossime; se è vero che le morti di Falcone e Borsellino non possono essere

spiegate soltanto con la necessità di "screditare" Andreotti, come diceva Buscetta, non si può

escludere però una correlazione tra l'uccisione dei due magistrati e l'incriminazione del sette volte

presidente del Consiglio, anche se non è ancora del tutto comprensibile.

Non credo ai complotti giudiziari, ma altri complotti purtroppo non possono essere esclusi. Più

volte Andreotti ha fatto ricorso in questi anni alla teoria dell'ignoto suggeritore", e attorno a questo

mistero si era creata molta attesa, che nel corso del processo si è però rivelata vana. Noi cercheremo

di scoprire a chi si riferiva, ma chi speri, leggendo questo libro, di trovarci dentro una "verità"

confezionata, rimarrà deluso, perché il mistero di chi e cosa sia stato realmente Andreotti nella

storia d'Italia è legato alla soluzione di altri misteri, che non potranno essere svelati se non con

l'aiuto, un domani, degli archivi di Stato, dove giacciono fascicoli ancora coperti dal segreto.

Qualcuno ha detto che Andreotti si è comportato da "imputato modello", qualcun altro ha insinuato

che dietro la sua compostezza si nascondesse soltanto l'astuzia di chi, nel mentire ai giudici, cerca di

accattivarli. Cosa ci si aspettasse da lui è difficile dirlo: personalmente, speravo in un maggiore

contributo alla verità. Speravo che con il processo fosse finalmente venuto il momento di sapere

qualcosa che ci aiutasse a capire vicende di cui Andreotti è uno dei pochi a sapere, a partire dalla

strage di piazza Fontana o dal delitto Moro. Qualcosa che potesse riscattare, dare un significato allo

spargimento di sangue, indicare una finalità superiore, una ragion di Stato che travalicasse le sue

personali responsabilità, come può accadere in un periodo di guerra. Perché di guerra si è trattato,

un conflitto combattuto dietro le linee, negli anni della guerra fredda.

Una forte esigenza di verità, non appagata, ha accompagnato questo processo. Forse per questo

l'impianto accusatorio si è via via dilatato fino a comprendere altre decine di azioni giudiziarie. Il

processo sugli omicidi politici della mafia, il processo alla DC, il processo alla P2, il processo Calvi,

il processo Moro. Diceva Kafka che un processo è luogo di errore e non di giustizia; ma i due ad

Andreotti, al di là della contraddittoria soluzione finale, non sono stati inutili: tra molte

tribolazioni, qualche risposta ai nostri interrogativi l'hanno data. Non è tutta la verità, forse soltanto

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un frammento, che ci impedirà però di seppellire, con il silenzioso protagonista dei nostri ultimi

cinquant'anni, un pezzo di storia italiana.

Ringraziamenti Ho scritto questo libro in pochi mesi, ma è il frutto di ricerche durate

trent'anni.Ringrazio dunque tutti coloro che in questo tempo mi hanno aiutato nel tentativo di

comprendere: i parlamentari, i giudici, i pubblici ministeri e gli avvocati che nelle commissioni

d'inchiesta e nelle aule di tribunale hanno contribuito a demolire false certezze e versioni di

comodo.

Un ringraziamento particolare va ai senatori Massimo Brutti e Giovanni Pellegrino, non soltanto

per lo straordinario lavoro da loro svolto all'interno delle commissioni parlamentari d'inchiesta, ma

per il prezioso contributo di informazioni e consigli alla stesura di questo libro. E uno specialissimo

grazie anche a Vincenzo Ostuni, che in questi mesi mi è stato vicino pungolandomi ogni qual volta

rischiavo il naufragio nella marea di fatti e documenti che costituiscono la materia prima di questa

fatica. Naturalmente, e me ne scuso in anticipo, rimango l'unica responsabile di ogni errore o

omissione; ma come dice Shimon Peres in Persona non grata di Oliver Stone, ricordare la Storia è

pericoloso: «La Storia è scritta col sangue. In fondo tutto ciò che impariamo è come dimenticare».

R.D.G.

A Elisa, Emiliano, Marco, Stefano, Valentina e a tutti i giovani che hanno voglia di conoscere il

passato Essi sostenevano che Dio e Satana devono infine ricongiungersi poiché sono in realtà la

stessa cosa.

Isaac B. Singer Chi potrebbe rispondere alla terribile ostinazione del crimine se non l'ostinazione

della testimonianza? Albert Camus

Prologo Il processo Andreotti

Assolto, condannato, prescritto Non è una storia semplice da raccontare. Due processi, due gradi di

giudizio, quattro sentenze, ricorsi, eccezioni, atti di nullità, rogatorie hanno finora scoraggiato

chiunque dal tentare di ricostruire il processo Andreotti. A complicare le cose, il "processo del

secolo" è stato spaccato in due: metà a Palermo e metà a Perugia. Con le udienze che si

accavallavano, su e giù per l'Italia, mentre il paese affrontava nuove emergenze e le udienze

diventavano sonnacchiose e prive di interesse. A nessuno è stato possibile essere sempre presente

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ma, quando era necessario, noi giornalisti c'eravamo. Mi trovavo a Roma, a Palazzo San Macuto,

nell'ottobre '92, quando Tommaso Buscetta è stato ascoltato dall'Antimafia e ha accusato il senatore

Andreotti di essere "colluso", anzi di essere a tal punto mafioso da rivolgersi a Cosa Nostra per

togliersi dai piedi un giornalista che «lo disturbava politicamente». Ero a Perugia quella terribile

sera del novembre '95, quando a Tel Aviv fu ucciso Yitzhak Rabin, e il giudice preliminare attorno a

mezzanotte ha chiesto il rinvio a giudizio per Andreotti e Vitalone. Ricordo che abbiamo scritto i

nostri articoli in quella maledetta aula bunker, stesi in terra, in ginocchio, davanti ai nostri

computer collegati, attraverso un'unica fottuta presa multipla, con i giornali impazziti che non

sapevano se aprire con l'attentato di Israele o il rinvio a giudizio di Andreotti per omicidio.

C'era il sole e c'era l'ombra, lo scirocco a Palermo e la neve in Umbria, noi sudavamo e battevamo i

denti. Il senatore no. Lui non conosce né il caldo, né il freddo. D'inverno e d'estate lo abbiamo visto

entrare nelle aule giudiziarie, con i suoi passi felpati e il solito vestito grigio; anno dopo anno

abbiamo assistito alla sua impercettibile trasformazione: sotto i nostri occhi, l'uomo più potente

d'Italia è diventato a poco a poco quel simpatico vecchietto che si aggirava per i tribunali nel nuovo

perfetto ruolo di "imputato modello". Non ha mai saltato un pasto o tradito un'emozione. Una sola

volta l'ho visto sorridere, di autentico sorriso: ed è stato quando a Palermo ha trovato ad aspettarlo

alcuni vecchi iscritti alla DC. All'improvviso è diventato un uomo vero, in carne e ossa, ha perfino

abbracciato uno di loro; lì ho avuto la conferma che se Andreotti ha mai conosciuto una vera

passione, questa è stata la Politica, con la p maiuscola, come ai vecchi tempi.

Il processo, da quel 20 marzo '93, quando fu richiesta l'autorizzazione a procedere, è durato dieci

anni e un mese e si è concluso con una condanna a Perugia e con un'assoluzione a Palermo. Anzi,

per meglio confonderci le idee, anche quest'ultima assoluzione è spaccata in due: il reato è stato

prescritto fino al 1980, da quel momento in poi Andreotti è stato assolto. In primo grado il senatore

era stato invece assolto due volte. La prima a Perugia, il 24 settembre 1999, dove i giudici non

avevano ritenuto sufficienti le prove addotte per il delitto Pecorelli; la seconda a Palermo, il 9

ottobre dello stesso anno, pochi giorni dopo. Un colpo doppio che ci aveva fatto tirare un bel sospiro

di sollievo: il sette volte presidente del Consiglio non era colluso con la mafia, o meglio ancora non

era a tal punto mafioso da ordinare ai boss un omicidio.

Invece, niente da fare: entrambe le sentenze sono state appellate, perché il verdetto dei giudici non

era stato netto. L'assoluzione veniva applicata in base al famigerato articolo 530, comma 2, che fa

rientrare dalla finestra quell'assoluzione «per insufficienza di prove» che il nuovo codice di

procedura penale ha cacciato dalla porta. I primi giudici non se l'erano sentita di affermare «che il

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fatto non sussiste» ovvero che c'era la prova certa che Andreotti non aveva mai fatto favori ai boss

chiedendo in cambio a sua volta un favore. Così il 17 novembre 2002 la Corte d'Assise di Perugia ha

potuto condannarlo per il reato più grave: proprio l'uccisione del giornalista. E il 2 maggio 2003 la

Corte d'Appello di Palermo ha emesso il suo ambiguo verdetto.

Dunque Andreotti è stato assolto, condannato e prescritto. Un bel pasticcio, un groviglio che non

ha risolto il nodo primario, perché questa vicenda avrebbe dovuto chiudersi con la certezza che il

senatore fosse innocente; e non "impunibile" o non sufficientemente responsabile. Dieci anni di

processo invece non sono stati sufficienti a escludere la sua innocenza o la sua colpevolezza. Il

mistero resta intatto. Così riprende quota il partito di quanti sostenevano che questo processo fosse

in realtà inutile, perché la responsabilità politica di Andreotti era già stata accertata. Uno strano

crinale quello che separa la responsabilità politica da quella penale per un uomo di governo! Ma la

vicenda non si chiude qui: ci sarà ancora la decisione della Suprema Corte sul verdetto di Perugia e

forse nuovi ricorsi per quello di Palermo. Prima che il processo del secolo imbocchi la strada che già

conosciamo, quella del processo infinito che prosegue indisturbato tra ricorsi e controricorsi, nuovi

processi e nuovi giudizi, forse vale la pena di mettere un punto. Offro questa ricostruzione per

quello che vale: non è un frutto avvelenato, ma la testimonianza di una cronista su fatti realmente

accaduti. Un popolo senza memoria non ha futuro: non so più chi disse queste parole, ma è proprio

quello che ci sta accadendo.

Perugia, 17 novembre 2002: la condanna Il 17 novembre è giorno di malaugurio. Non c'era da

stupirsi se, sotto la pioggia battente, l'aula bunker del carcere di Capanne fosse silenziosa e deserta.

Del resto il processo a Giulio Andreotti da tempo non faceva più audience. Due volte assolto, ormai

il senatore era di nuovo sulla cresta dell'onda: in vetta agli indici di gradimento nazionale, aveva

riconquistato la sua aura di "innocenza". La sentenza d'appello, attesa quella domenica, era appena

una formalità, imputabile allo zelo dei giovani magistrati della Procura umbra che non avevano

rinunciato al ricorso, una decisione a suo tempo criticata. Perché quella di Andreotti, dopo la prima

doppia assoluzione, era ormai da considerarsi una storia chiusa.

Contrariati dalla pioggia e dall'ora tarda, a Capanne c'erano soltanto i fedelissimi del Processo: uno

sparuto gruppo di avvocati e giornalisti che in quell'aula sperduta nella campagna umbra avevano

trascorso sette, otto anni della loro vita. Il carcere di Capanne è un cubo di cemento, protetto da reti

e metaldetector, che spunta come un fungo lungo la strada che taglia le colline tra Perugia e Città

della Pieve. Il bunker è sul lato sinistro, l'avevano costruito una decina di anni prima per i banditi

sardi, ma da allora gli unici ospiti importanti sono stati Giulio Andreotti e il fedele Claudio

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Vita-Ione, che lo ha seguito nei giorni della gloria e in quelli del diluvio. Neppure i loro coimputati

si sono mai presi la briga di arrivare fin qui. E poi per fare cosa, discutere di un giornalista

ammazzato, più noto in morte che in vita, tale Mino Pecorelli? Quel 17 novembre perfino

Andreotti, così assiduo frequentatore delle aule giudiziarie, aveva deciso di attendere a casa il

verdetto. L'altro famoso accusato, Gaetano Badalamenti, don Tano da Cinisi associato a Cosa

Nostra, dimenticato da tempo immemorabile dietro i cancelli del carcere di Fairton a Miami, forse

neppure lo sapeva. Anche gli altri imputati erano assenti, anche Vitalone, anche quei tre

"banditazzi" che una mente contorta aveva associato al Presidente: chi in carcere come Pippo Calò e

Angelino La Barbera detto "il Biondo", e chi per i fatti propri come Massimo Carminati, cieco da un

occhio per via di una sparatoria con la polizia. Insomma,una bella congrega, figuriamoci se lo

condannavano. Non c'era neppure da pensarci.

Finalmente, alle diciotto e venti, è suonata la campanella. Il presidente della Corte d'Assise

d'Appello di Perugia, Lino Gabriele Verrina, uomo alto e dall'aspetto austero, è finalmente apparso

con i suoi capelli bianchi e la faccia rassicurante del giudice da telefilm americano, di qualche

tribunale del Texas o dell'Ohio, si è aggiustato gli occhialini sul naso, si è schiarito la voce e senza

alcuna enfasi ha letto il dispositivo: Visti i capi d'imputazione agli articoli 428 del codice penale e

seguenti, considerate le aggravanti della premeditazione e le attenuanti [...] questa Corte condanna

Andreotti Giulio e Gaetano Badalamenti a ventiquattro anni di carcere come mandanti

dell'omicidio di Mino Pecorelli. Assolve gli altri imputati Giuseppe Calò e Claudio Vitalone,

Michelangelo La Barbera e Massimo Carminati. La sentenza sarà depositata entro novanta giorni.

In nome del popolo italiano.

Il numero ventiquattro per qualche secondo è rimbalzato magicamente da un angolo all'altro

dell'aula: «Ventiquattro, ha detto ventiquattro...». Lo sguardo smarrito dei giornalisti si è incrociato

con il grido di sconforto dell'avvocato Giulia Bongiorno, strenua sostenitrice del senatore, che

improvvisamente si è accasciata sulla sedia. La scena per un interminabile secondo si è

immobilizzata, nessuno aveva il coraggio neppure di respirare. «Sentenza sconcertante», è stato il

primo e unico commento del professor Coppi, difensore di Andreotti. Il presidente Verrina, il

giudice a latere Maurizio Muscato, senza che più nessuno si occupasse di loro, seguiti a ruota dai

corresponsabili dell'infausta sentenza sono usciti dall'aula. Erano quattro impiegate, un funzionario

della Provincia e un pittore ceramista, con la barba bianca come Frate Indovino che proprio in

quella triste giornata moriva a qualche chilometro di distanza. Da quel momento, tolte le fasce

tricolori, i sei cittadini tornavano alla loro vita di sempre. Giustizia era fatta nell'aula di Capanne.

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Possiamo immaginare la scena: seduto vicino al telefono, nella sua poltrona sotto la finestra da dove

oltre il fiume di macchine s'intravede la cupola di San Pietro, Andreotti ha atteso a lungo che

suonasse il telefono. Al primo squillo ha sollevato la cornetta: «Presidente, purtroppo... sono

ventiquattro anni». L'avvocato Franco Coppi era emozionato, quasi balbettava, non riusciva a

trovare le parole. È seguito un silenzio interminabile, interrotto dal senatore che con voce metallica

ha sussurrato: «Faremo ricorso, non te la prendere». Poi è rimasto immobile, nella penombra, in

quella stanza improvvisamente affollata dai fantasmi del passato. Nella Roma assonnata e

domenicale, la notizia si è sparsa come un lampo e la sua casa all'angolo tra corso Vittorio e il

Lungotevere, dove il "mandante" abita da sempre, si è affollata di amici e giornalisti. Chi lo ha visto

in quelle ore dice che era provato, addirittura emozionato, lo sguardo smarrito di fronte all'enormità

dell'evento. Ma è stato soltanto un attimo. Poi è tornato in sé, ha di nuovo calzato la maschera che

conosciamo: lo sguardo imperscrutabile, il sorriso enigmatico e le memorabili orecchie appuntite.

Una maschera senza emozioni, ferma nel tempo. Andreotti era di nuovo Andreotti: ha ripreso in

pugno la situazione, ha rilasciato dichiarazioni e interviste e perfino dettato un comunicato alle

agenzie in cui con l'immancabile lucidità ha preso le distanze da chi, nel difenderlo, si era scagliato

contro i magistrati: «Ho sempre avuto fiducia nella giustizia e continuo ad averne, anche se mi è

difficile accettare una tale assurdità». Solo la moglie Livia, compagna di vita e madre dei suoi

quattro figli, ha ceduto all'emozione: «Chi conosce Giulio lo sa, non è vero niente. Giulio non ha

fatto niente, ma il coltello dalla parte del manico ce l'hanno loro. E non mi chiedete chi sono loro

perché ancora non lo so». Già, chi sono loro? A Giulio la teoria del Complotto non è mai piaciuta: in

questi dieci anni vi ha fatto ricorso con parsimonia. Qualche frase gettata qua e là, comprensibile

soltanto a pochi. Sa che è un terreno minato, così l'ipotesi è rimasta un groviglio di allusioni e

dicerie: americani, CIA, asse franco-tedesco, sinistra giudiziaria... Per qualche tempo ha accennato

a "un ignoto suggeritore": una tesi difensiva che sembrò collocarsi a mezzo guado tra la pista

internazionale e quella interna. Tra l'ipotesi della "destabilizzazione" pilotata a distanza, magari da

oltreoceano, da un invisibile nemico che aveva deciso di destabilizzare la classe politica italiana,

ormai troppo autonoma e poco controllabile, e quella di casa nostra, manovrata da chi affacciandosi

nell'agone politico voleva distruggere il vecchio in nome del nuovo. Con il passare degli anni il

"complotto" è diventato un "complottino", ordito da magistrati e pentiti, di cui non si capisce né il

fine né l'utilità, se non forse agevolare l'ascesa al governo della sinistra, finalmente possibile ora che

non c'è più il pericolo "comunista". Ma posto di fronte a domande precise, Andreotti ha sempre

preferito glissare. Del resto tra le massime evangeliche quella che preferisce è: «Quando a Gesù fu

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chiesto di dire la Verità, lui non rispose».

Una capacità che anche i più accaniti avversari gli hanno sempre riconosciuta consiste - o forse

sarebbe meglio dire consisteva - nel saper demotivare le accuse che gli venivano rivolte, anche quelle

più gravi, minimizzandole con un sorrisetto sarcastico, come se non valesse neppure la pena di

rispondere. E infatti lui non ha mai risposto, men che meno ai giudici. Una strategia che ha

adottato, con discreto successo, anche nella nuova veste di imputato. Del resto di una cosa sono

convinti gli italiani: che Andreotti sia furbo, di una furbizia suprema, "ontologica". Un elemento

non di disistima, ma di consenso, perché la gran parte di noi aspira a essere furba: e agli occhi di tutti

Andreotti rappresenta, nell'eletta schiera dei "vincenti", un Superman della politica in grado di

sconfiggere ogni maleficio e ogni avversità. E così, per molti, il mistero della sua caduta resta

davvero inaccettabile.

Palermo, 2 maggio 2003: l'assoluzione (con prescrizione) Cinque mesi e dieci giorni dopo. Eccoci di

nuovo riuniti nell'aula della prima sezione della Corte d'Appello di Palermo, noi della "compagnia

di giro" che in questi anni ha fedelmente seguito Andreotti nelle aule giudiziarie. Alle diciotto

eravamo in attesa della quarta e (forse) ultima sentenza. In primo grado era stato assolto, ma poi nel

frattempo c'era stata quella condanna a ventiquattro anni che aveva ribaltato la situazione. Il

presidente Salvatore Scaduti, detto Totò il rosso (ma soltanto a causa del colore dei capelli, peraltro

ormai incanutiti), in mattinata aveva annunciato una camera di consiglio breve, e alla difesa era

sembrato un buon auspicio. Ma poi questo magistrato, dai modi spicci, schietto e austero al tempo

stesso, aveva esordito con la lettura di un messaggio irrituale da parte del presidente di una Corte di

Giustizia: In questo doloroso e sanguinante momento di contrasto tra potere politico e giudiziario

voi avete dato al paese, durante lo svolgimento del processo, un esempio di serena e auspicabile

dialettica processuale.

Per capire le parole del giudice Scaduti bisogna ricordare che appena quarantotto ore prima era stata

emessa a Milano la condanna del parlamentare di Forza Italia Cesare Previti, il quale aveva reagito

dando libero sfogo alla sua rabbia con parole durissime nei confronti della magistratura milanese.

Ma questo non era sufficiente a rassicurare gli avvocati del senatore, soprattutto Giulia Bongiorno,

una ragazza di trentasette anni, ex campione di basket, detta "scricciolo" che, dopo il verdetto di

Perugia, era ancor più magra e agitata. «Cosa fa, mi condanna ancor prima di cominciare?», ha detto

confidando la sua ansia ai giornalisti. In realtà lo strano intervento del Presidente era suonato a tutti

come un monito ad accettare una sentenza non del tutto favorevole. Nel pomeriggio la tensione si

tagliava con il coltello nell'immenso corridoio al primo piano di quello che un tempo veniva

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chiamato Palazzo dei Veleni: veleni fabbricati da menti più o meno raffinate contro Giovanni

Falcone e il suo pool antimafia, colpevole di aver rotto le regole "di rispetto" tra magistratura e boss.

Tempi lontani.

Signori, entra la Corte. Ancora, di nuovo, per la quarta volta noi siamo qui con i taccuini in mano.

«Considerati gli articoli 416 e 416 bis, in parziale riforma della sentenza di primo grado dichiara

prescritto il reato commesso fino alla primavera 1980, conferma nel resto la sentenza». Appena un

attimo di silenzio, poi l'urlo dell'avvocato Bongiorno fende l'aria. Ha già in mano il telefonino:

«Assolto, assolto, assolto!», il suo grido rimbalza fino a Roma, fino allo studio del senatore, in

diretta con l'aula di Palermo. È stata lei, giovane avvocato, a guidare, in un balletto di grida

appassionate, la prima interpretazione del dispositivo che in verità, in quel momento, era assai

ermetico per la maggior parte dei presenti.

li Presidente è stato assolto, capito, non è più imputato... dopo dieci anni. E non venitemi a dire che

si tratta di due processi, perché questo è un processo unico, perché a Perugia non capiscono niente

del dialetto siciliano. Questi giudici, i nostri giudici, sono abituati a distinguere i pentiti dai

tarocchi: loro sì, loro capiscono quali sono i pentiti veri e quelli falsi. È finita, finita...

Ma la dirompente euforia di Giulia non è bastata a cancellare l'espressione interdetta del famoso

avvocato Franco Coppi e quella, apertamente preoccupata, del penalista di Palermo, Gioacchino

Sbacchi. Il primo commento a denti stretti è stato di Coppi: «È un'assoluzione, i giudici hanno

voluto precisare che il reato 416 di associazione a delinquere è nel frattempo caduto in

prescrizione... A noi comunque basta il risultato». Qualcuno comincia a fare i conti, dieci anni più

cinque, nei casi in cui vengono contestate le aggravanti: dunque il reato 416 doveva essere già

prescritto nel '95. Forse il giudice Francesco Ingargiola, nella sentenza di primo grado, non se n'era

accorto? Qualcun altro riflette: «Ma il reato 416 bis, quello di associazione per delinquere di stampo

mafioso, è entrato in vigore nel 1982, e non nella "primavera 1980": i giudici hanno sbagliato la

data?».

Nell'aula gli interrogativi si sono moltiplicati con il passare dei minuti, l'entusiasmo della

Bongiorno non ha trovato eco nelle parole del più anziano avvocato Sbacchi: «Vedremo le

motivazioni: potrebbe anche essere il caso di fare ricorso». A guastare del tutto la festa è stato il

procuratore generale aggiunto, Daniela Giglio, che dopo aver inutilmente tentato, insieme alla

collega Anna Maria Leone, di sfuggire all'assalto dei cronisti, ha offerto la seguente interpretazione

del dispositivo: Il processo non è finito. Certo bisognerà attendere le motivazioni, ma questa è

un'assoluzione a metà. Noi ritenevamo che il rapporto tra Andreotti e la mafia andasse letto nel suo

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sviluppo temporale come fatto unico. Per i giudici d'Appello la torta va invece tagliata a pezzetti.

Per un pezzo, tino alla primavera '80, il reato è stato compiuto ma va prescritto. E dunque il giudizio

della Cotte combacia con la posizione dell'accusa, ribaltando la sentenza di primo grado. Per

l'imputato è senz'altro una sentenza peggiorativa, alla quale potrebbe proporre ricorso.

Proprio come aveva detto l'avvocato Sbacchi.

Ma perché fino alla primavera 1980? Cosa era accaduto quell'anno? Il PG Daniela Giglio, che ha

l'aspetto rassicurante della madre di famiglia, ha proferito parole in realtà poco rassicuranti: Nella

primavera '80 Andreotti, secondo l'accusa, cioè noi, si è incontrato per la seconda volta con il boss

Stefano Bontate: ne ha parlato il pentito Francesco Marino Mannoia. Se i giudici hanno applicato

la prescrizione vuoi dire che hanno creduto al pentito. A mio parere hanno ritenuto provato il

legame tra il senatore e la vecchia mafia, l'ala moderata di Cosa Nostra, e non con i corleonesi che da

quel momento sono subentrati al vertice dell'organizzazione: è l'unica interpretazione possibile,

perché con il nuovo codice c'è l'obbligo di esplicitare l'assoluzione anche per i reati prescritti.

Al groviglio di numeri, date e codici che il dispositivo della sentenza di secondo grado propone,

l'accusa ha dunque risposto introducendo il dubbio sull'assoluzione dell'«imputato di mafia» Giulio

Andreotti. A differenza dei giudici di primo grado, la Corte d'Appello del Tribunale di Palermo ha

voluto distinguere fra i due reati di cui era accusato il senatore (distinti non perché si trattasse di una

diversa tipologia di reato, ma perché fino all'82 non esisteva il reato di «associazione mafiosa»). Per

il reato dell'articolo 416 («associazione a delinquere»), in vigore fino a quell'anno, Andreotti non è

stato assolto, ma prescritto, e cioè non si deve procedere a una condanna nei suoi confronti soltanto

perché le accuse sono decadute a causa del lungo tempo trascorso. Per i fatti successivi è stato bensì

assolto in base al famigerato comma 2, perché le prove sono «contraddittorie o insufficienti», e non

con la cosiddetta formula piena, che viene utilizzata quando «il fatto non sussiste».

L'interrogativo più consistente di quelle prime ore è stato il seguente: quale conto dovranno tenere i

supremi giudici di Cassazione di fronte a questa ambigua sentenza, quando si troveranno a valutare

la responsabilità di Andreotti, condannato a ventiquattro anni per l'omicidio di Mino Pecorelli?Per

il pubblico ministero Roberto Scarpinato la sentenza di secondo grado "ben si incastra" con la

sentenza di condanna perugina: Quel participio passato, ancorato alla primavera dell'80, significa

che la Corte ha creduto ai collaboratori storici, da Buscetta a Mannoia. A quella data risale

l'incontro raccontato da quest'ultimo pentito, che sarebbe avvenuto in una villa alla periferia di

Palermo tra Andreotti e il boss, pochi mesi dopo l'omicidio di Piersanti Mattarella, un

democristiano che voleva moralizzare la politica siciliana. Mannoia, fedelissimo di Bontate, dice di

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avervi assistito e descrive minuziosamente i dettagli: luogo, circostanze, contenuti. Parla di

incontro burrascoso. Nello stesso periodo rientrano i rapporti con Michele Sindona, riciclatore del

denaro sporco di Bontate, con il quale Andreotti si sarebbe incontrato negli USA mentre era

latitante. Anche i primi giudici hanno riconosciuto provato questo incontro. L'articolo 129 del

codice di procedura penale stabilisce che non si può dichiarare la prescrizione se risulta evidente che

il fatto non sussiste o l'imputato non l'ha commesso. Se avessero ritenuto di avere la prova della sua

innocenza avrebbero dovuto assolverlo, oltretutto la Corte arretra il «reato commesso» alla

primavera '80, due anni prima dell'entrata in vigore della nuova norma, il 416 bis, e questo dimostra,

a mio parere, che la Corte non ha sospeso il giudizio ma è entrata nel merito delle accuse. Solo

valutando i fatti nella loro concretezza storica si può stabilire che il reato è cessato prima della data

contestata.

Strana sentenza: Andreotti è stato dichiarato in parte assolto e in parte non punibile, ma fra quelli

che hanno manifestato maggiore soddisfazione ci sono proprio i magistrati che lo hanno accusato.

Anche l'ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli ha tenuto a precisare: Non è una sentenza

strana, è strano un paese in cui bisogna difendersi anche dalle sentenze che ti danno ragione. Non

c'è mai stato nessun disegno, nessun teorema, nessun complotto contro Andreotti. C'erano dei fatti,

gravi, da accertare, e la magistratura di Palermo ha fatto il suo dovere fino in fondo. Fino all'80 non

abbiamo una sentenza di assoluzione, ma di prescrizione del reato commesso.

Una sentenza polivalente, all'italiana. Pietro Grasso, il procuratore di Palermo, che è venuto dopo

Caselli e si è tenuto fuori dal processo Andreotti (non ha firmato il ricorso in appello), ha tentato di

sdrammatizzare questa controversa decisione: L'unica cosa certa è che neppure il processo di

secondo grado ha consentito di arrivare a una sentenza di assoluzione piena. È stato dannoso

caricare di significati politici i processi nei confronti di chi ha rappresentato le istituzioni e il mondo

della politica. Per noi Andreotti è un imputato, cioè un uomo sospettato di aver commesso alcuni

reati. Sono sbagliate le reazioni di chi pretende di estendere la salvifica mancanza di prove certe su

Andreotti fino a sostenere che il legame mafia-politica è indimostrabile. La prescrizione per

Andreotti sta a dire soltanto che la magistratura è arrivata fuori tempo massimo. I tempi sono

scaduti e le valutazioni finali non possono essere più affidate al rito giudiziario. È necessario un

giudizio politico. Oppure tutto sarà consegnato alla storia.

Il "mandante" del delitto Pecorelli, pochi minuti dopo la sentenza, ancora stordito dalle grida di

Giulia Bongiorno, ha aperto la porta del suo studio ai giornalisti. Lui in persona, con il solito vestito

grigio, si è offerto generosamente in pasto alla curiosità e ai trabocchetti dei cronisti. No, non è che

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tutti i magistrati di Palermo siano dei criminali, non fatemi dire cose che non penso, e neppure

l'onorevole Previti è un criminale: «Ognuno reagisce come ritiene, non c'è quella trasmissione che si

chiama I fatti vostri? Ecco, non sono d'accordo, io vi dico che mi faccio i fatti miei». I tempi sono

difficili: «Ma il tempo alla fine è galantuomo. Certo, se camminasse più velocemente...». Davanti

alle telecamere Andreotti è apparso come sempre astuto e prudente, compassato e soddisfatto. «E

andata bene», ha commentato con lo stesso sguardo fiero che ha qualche volta, di domenica, a Tor di

Valle, quando vince un cavallo su cui ha puntato. Ad Andreotti è sempre piaciuto puntare sui cavalli

vincenti. Quella parola, «prescrizione», nei commenti che ha fatto a caldo non viene mai citata, ha

preferito di gran lunga l'altra: assoluzione. Un po' di veleno contro Caselli non se lo è potuto

risparmiare. «Non mi è piaciuto che il procuratore abbia scritto un libro per polemizzare con la mia

assoluzione di primo grado mentre era pendente l'appello... ma i magistrati giudicanti non si sono

lasciati influenzare». Non ha dubbi: è come se avesse già letto le motivazioni. I pentiti? «Qualche

volta ci hanno aiutato, ma al mio processo ne ho visti alcuni che erano falsi come l'oro di Napoli».

Soltanto nell'accomiatarsi ha confidato ai giornalisti una preoccupazione: «Speriamo che la Procura

Generale di Palermo non ricorra in Cassazione. Ora, è vero, questi processi mi stanno allungando la

vita, ma forse è meglio questa faccenda chiuderla qui». Poi sulle dita ha fatto qualche calcolo: «Ecco,

non so se riuscirei ad arrivare a ottantotto anni».

Non saprei dire quale sia stata in questi anni la carta segreta di Andreotti. Fatto è che nelle ore

successive alle sentenze, di assoluzione o di condanna che fossero, tutti si sono profusi in

manifestazioni di solidarietà ed entusiasmo, quasi che gli eventi trattati dal processo fossero frutto

di un progetto folle e aberrante, inimmaginabili dal senso comune e completamente estranei alla

storia del nostro paese, oltre che alla personalità del condannato. E non la somma dei sospetti, delle

polemiche e delle inchieste giudiziarie che da sempre lo rincorrono. Con il sorprendente risultato

che Andreotti, nonostante ventiquattro anni ancora pendenti di fronte ai giudici di Cassazione,

appare mondato non soltanto dalle accuse più gravi, ma perfino dall'ombra del più veniale

peccatuccio che abbia mai offuscato la sua carriera politica.

Strategia della beatificazione La conseguenza di tale sentimento collettivo si è tradotta nella

trasfigurazione di Andreotti, perseguitato e martire, come nella vignetta pubblicata dopo la

sentenza choc di Perugia, che lo raffigura circondato da un'aureola, mentre si solleva verso il cielo,

ingobbito e stupefatto, ed esclama: «Ventiquattro anni! Ma che mi credete eterno?». Il ricorso

all'iper in realtà per tutto il processo ha costantemente sdrammatizzato un evento che avrebbe

segnato la storia di qualsiasi paese, che avrebbe costretto ogni altra società a interrogarsi sulla

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propria integrità etica, sulle regole di controllo che si è data, sugli uomini che l'hanno governata,

oltre che sul suo sistema giudiziario. Invece il giorno dopo la condanna è stato ricco di commenti

surreali ma soprattutto di barzellette, che hanno seguito irriverenti il corso di alcune pagine del

processo, come quel bacio tra Andreotti e Totò Riina, raccontato dal pentito Balduccio di Maggio,

che è ormai una gag inevitabile in ogni spettacolo di varietà.

La beatificazione di Andreotti è stata in realtà il modo più rapido per archiviare la condanna, per

ricondurla sul terreno ormai standard della "giustizia impazzita". Una strategia necessaria, per il

timore delle conseguenze che questa sentenza potrebbe avere sulla sorte di tutti gli altri imputati di

rango. L'incredulità dell'opinione pubblica sulle responsabilità "omicidiarie" di Andreotti ha

contagiato ogni altra vicenda giudiziaria, nel segno di una rottura sempre più profonda tra giustizia

e politica. Non deve stupire che, dopo la condanna di Perugia, il primo a cavalcare la tigre dello

sdegno sia stato il premier, Silvio Berlusconi: «Andreotti è vittima di una giustizia penale che ha

abbandonato ogni scrupolo formale e nega in radice il diritto della persona al giusto processo», ha

tuonato mezz'ora dopo la condanna. Nel pronunciare queste parole, il Cavaliere pensava

soprattutto a se stesso: non si rivolgeva ai magistrati di Perugia ma a tutte le procure, i tribunali e le

corti d'appello che lo stavano giudicando. L'ultimo Presidente teme che si ripeta la storia del primo:

cerca di non essere affondato sul fronte giudiziario mentre si accinge a disegnare la sua futura ascesa

al Quirinale.

Le prime ad arrivare, la sera del 17 novembre 2002, sono state le manifestazioni di solidarietà del

Vaticano. La vicinanza tra Andreotti e San Pietro non è mai stata soltanto logistica, ma ideale e

fattiva, interna e internazionale, politica e affaristica, di altari e di banche, di preghiere e

fideiussioni. Non si serve Dio solo con le Ave Maria. Monsignor Angelini ha paragonato la sua

odissea al calvario di Cristo, il cardinale Silvestrini gli ha restituito l'onore del passato: «E un uomo

che ha fatto cose importantissime per il suo paese». Gli ex DO, che con Andreotti difendono un

pezzo della propria storia, pochi giorni dopo la sentenza, riuniti in un convegno che ha sancito la

rinascita dello "scudo crociato" sotto la sigla UDC, lo hanno addirittura osannato. Il popolo dei

plurinquisiti, i vari Gava, Mannino, Pomicino, Gaspari, dimentichi di antichi dissapori e battaglie,

lo hanno accolto al grido interminabile di «Giulio, Giulio». Il loro maggior timore è che l'immagine

della DC possa venire ancora associata alla mafia, al malaffare, al clientelismo e alla corruzione, di

cui molti di loro sono stati chiamati a rispondere. E dopo l'assoluzione-prescrizione di maggio, la

solidarietà si è trasformata in tripudio, in certezza dell'innocenza del senatore, del tutto incuranti

della condanna a ventiquattro anni ancora in atto e dell'assoluzione per insufficienza di prove

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nonché del riconoscimento da parte dei giudici della sussistenza di rapporti con i boss fino alla

primavera '80. Clemente Mastella, più giovane leader campano, a novembre si era avventurato nel

tentativo di dare una lettura politica della sentenza di Perugia: «Dico che quella nei confronti di

Andreotti è una sentenza politica, perché ha conseguenze politiche: ogni qualvolta il centro tenta di

ricostituirsi accade qualcosa che cerca di impedirlo». Ma a maggio ha dichiarato trionfante: «Non si

potrà associare alla DC il legame con la criminalità organizzata».

In queste forti e contraddittorie reazioni a ogni decisione che riguarda Andreotti vanno cercati i

molti legami fra il passato e il presente. Una continuità che neppure il traumatico ricambio della

classe politica, all'inizio degli anni Novanta, ha reciso. All'indomani della sentenza di Perugia, i

giudici palermitani che processano Marcello Dell'Utri si sono recati a Palazzo Chigi per chiedere

ragione a Berlusconi delle origini delle sue fortune. Il presidente del Consiglio si è avvalso della

facoltà di non rispondere: come ex indagato lo ha potuto fare. Andreotti non avrebbe commesso un

simile errore; sarebbe sgusciato tra le domande più insidiose, avrebbe risposto senza nulla dire,

come ha sempre fatto. Un comportamento che esprime una più navigata capacità politica, ma forse

anche una diversa concezione dei rapporti tra poteri dello Stato.

Il processo ad Andreotti non è stato il processo a un uomo del passato. La mafia raccontata da

Buscetta, con la sua capacità di inquinamento della vita politica, è la stessa che descrive l'ultimo

pentito, Nino Giuffrè, ed è uguale a quella di dieci, venti o trent'anni fa.

Le reazioni di cui dicevamo nascondono una profonda sfiducia nei confronti della magistratura e la

convinzione ancora più forte che la politica debba ignorare la palude della "storia segreta" e dei

ricatti che ne conseguono. Una giusta cautela che è però divenuta regola costante, trasformando la

"precauzione del segreto" in "patologia del segreto", sintomo di una degenerazione del sistema

democratico.

La condanna di Perugia certamente è stata un duro colpo per i sostenitori a oltranza dell'assurdità

dell'accusa. Qualcuno si chiederà come mai proprio il sette volte presidente sia finito nella tagliola

della Corte d'Assise di un tribunale di provincia. Con Andreotti a Perugia era stato chiamato a

rispondere dell'uccisione di Pecorelli anche il giudice Vitalone, che all'epoca dei fatti svolgeva la sua

attività nel distretto di Roma. Un motivo procedurale che ha consentito al "processo del secolo" di

svolgersi a briglia sciolta, in quest'aula sperduta nelle campagne umbre, dove sotto l'occhio allibito

di magistrati abituati a discutere di rapine in tabaccheria sono stati rivangati agghiaccianti segreti di

Stato.

La sentenza di colpevolezza è stata possibile, secondo alcuni, per l'innocenza dei giudici perugini,

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per la loro lontananza da quei centri di potere che hanno sempre impedito l'accertamento della

verità; secondo altri, è stata la loro impreparazione a giudicare vicende processuali tanto complesse.

Certamente è stato un danno che la storia di Andreotti sia stata spezzata in due: un pezzo a Palermo,

l'altro nell'aula bunker di Capanne. In realtà resta una storia unica: il reato di mafia e quello di

omicidio non sono fatti a sé stanti. Pecorelli, direttore di «OP», secondo l'accusa nel 79 stava per

pubblicare ampi stralci del Memoriale Moro che avrebbero dimostrato la collusione di Andreotti

con ambienti mafiosi e servizi segreti deviati, distruggendo la sua carriera. Per questo Pecorelli è

stato ucciso da uomini di Cosa Nostra, conferma la sentenza, ma per un "movente" politico: i boss

non avevano alcun interesse a uccidere il giornalista se non quello di fare un favore all'allora

presidente del Consiglio. Per i suoi molteplici rapporti con uomini dell'intelligence, Pecorelli era in

realtà in possesso anche di altri documenti segretissimi, e noi vaglieremo tutte le piste alternative.

La cosa più importante è che il processo ad Andreotti è riuscito a dimostrare che si è trattato di un

delitto di Stato, come avevamo sempre pensato, strettamente collegato alla vicenda Moro. Forse

non è un caso che negli ultimi tempi, dopo il processo Andreotti, si siano fatti significativi passi

avanti nell'accertamento della verità sul più grave delitto politico compiuto in Italia.

L'atto di accusa Buscetta, il Maxiprocesso e l'ira dei boss All'inizio di tutta la storia c'è lui, Buscetta.

E i "teoremi" di Don Masino sono usciti vincenti in ogni processo, anche nel processo Andreotti che

era certamente il più difficile. Vedremo più avanti come i giudici di Palermo non gli abbiano

risparmiato critiche, ma senza poterlo smentire fino in fondo. Una vittoria postuma, perché il

pentito di mafia è ormai morto da quasi tre anni, benché l'odio che tuttora suscita in alcuni ambienti

è tale che qualcuno non se ne ricorda e gli rivolge insulti e giudizi sprezzanti, come fosse ancora lì a

potersi difendere e contrattaccare.

Era stato Buscetta nell'84 a mettere in guardia il giudice Falcone: «Non posso raccontare quello che

io so perché ci prenderebbero per pazzi, lei finirebbe in manicomio e io nella sezione psichiatrica di

qualche penitenziario». Il pentito era appena arrivato a Palermo dopo l'arresto a San Paolo del

Brasile; aveva già subito l'uccisione di due figli e aveva tentato il suicidio. Decise di collaborare con

la giustizia perché voleva vendicarsi e non aveva altro modo che questo. I poliziotti scoprirono che

era un uomo misurato, riflessivo, autorevole.

«Un uomo pieno di dignità», lo definì Gianni De Gennaro, l'attuale capo della Polizia, che nell'84

andò a prenderlo all'aeroporto di Ciampino prima di condurlo a Palermo da Giovanni Falcone. Don

Masino amava gli abiti eleganti, soprattutto i blazer blu; prima di ogni apparizione in aula curava

con molta attenzione il suo aspetto. Ma odiava gli orologi costosi e tutti gli inequivocabili segni di

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ricchezza che i boss amano sfoggiare: «Butta quel Rolex, ce l'hanno tutti i commessi viaggiatori»,

diceva ai suoi compagni di ventura. Preferiva sfoggiare belle donne, non macchine potenti. Aveva

carisma: se non fosse stato un boss avrebbe potuto fare il generale o il grande manager, disse di lui

un esperto dell'FBI.

Giovanni Falcone rimase conquistato dalla sua serietà, per molti mesi parlarono soltanto di mafia:

insieme riuscirono a far arrestare più di quattrocento boss, poi condannati all'ergastolo e tuttora in

carcere.

Il giudice gli aveva dato ascolto quando Masino aveva proposto: «Per parlare di politica, i tempi non

sono maturi, però possiamo far arrestare un sacco di gente». La scelta che ne seguì fu quella di

perseguire soltanto il "braccio armato": i trafficanti di droga, i boss sanguinari, i killer. Il

Maxiprocesso fu il primo processo alla mafia, reso possibile soltanto grazie alle accuse di Buscetta,

che era anche il primo boss ad aver rotto il patto del silenzio, le regole dell'omertà che fino a quel

momento avevano impedito di penetrare i segreti dell'organizzazione mafiosa.

Non deve perciò stupire che otto anni dopo, nel '92, quando Falcone è saltato in aria sull'autostrada

a Capaci, Buscetta abbia deciso di andare fino in fondo: è tornato in Italia e ha raccontato quello che

non aveva avuto il coraggio di dire al suo "amico" giudice. Così Andreotti è finito sotto processo e

dieci anni dopo è stato condannato. Scrivono i giudici di Perugia nella sentenza di condanna che

l'«insuperabile valenza probatoria di Buscetta» ha consentito di accertare la verità confermata nel

corso del processo da prove e «testimoni attendibili».

Ormai libero cittadino residente negli USA, senza altri debiti da scontare con la giustizia italiana,

alla fine dell'estate del 1992, pochi mesi dopo le stragi in cui erano morti Falcone e Borsellino il

pentito tornò in Italia con il dichiarato intento di rendere giustizia ai magistrati uccisi dalla mafia.

Negli anni Ottanta aveva lasciato in sospeso un "capitolo" delle sue confessioni rifiutando di parlare

dei rapporti tra mafia e politica. Al suo arrivò annunciò: «Credo che sia venuto il momento di dire

tutto quello che so, lo Stato italiano sta dimostrando di avere coraggio». L'uccisione di Salvo Lima,

luogotenente di Andreotti e capo della corrente politica più potente della DC siciliana, aveva

preceduto di due mesi la bomba di Capaci. Masino si disse convinto che l'omicidio del luogotenente

di Andreotti in Sicilia facesse parte dello stesso oscuro piano che stava travolgendo gli equilibri su

cui si reggevano gli antichi patti tra le cosche e il potere politico. Era cominciata una fase di

destabilizzazione che gli consentiva di alzare finalmente il velo sui retroscena di cui era a

conoscenza: sapeva che stavolta gli avrebbero creduto. E così è stato. Anche i giudici che hanno

assolto Andreotti, sia a Palermo che a Perugia, non hanno messo in dubbio la veridicità delle sue

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affermazioni, le hanno semmai considerate insufficienti per una condanna.

Don Masino è stato cauto nell'accusare "il Presidente", come l'ha sempre chiamato: ha centellinato

le rivelazioni, è andato per gradi. In una prima fase ha parlato di un'«entità». Un termine che ribadì

alla Commissione Parlamentare sulla Mafia, di cui era allora presidente Luciano Violante: fu in

quell'occasione che a microfoni spenti, a un'ultima domanda, fece per la prima volta il nome del

senatore. Buscetta sosteneva cose gravissime: Andreotti era il referente romano di Cosa Nostra che,

attraverso i cugini Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori siciliani di Salemi, gli faceva pervenire «le

sue richieste per tutte le questioni che i boss ritenevano potessero essere risolte a Roma». Erano

questioni giudiziarie, in prevalenza, processi che approdavano in Cassazione e che, per usare una

sua espressione, «andavano aggiustati».

Buscetta raccontò di essere stato molto amico di Salvo Lima e confermò che la corrente

andreottiana aveva l'appoggio e i voti di Cosa Nostra. Passo dopo passo, alla fine ha rivelato che

anche l'uccisione del giornalista Pecorelli era stata voluta da Andreotti. Un favore che l'allora

presidente del Consiglio aveva chiesto ai Salvo perché il giornalista minacciava la pubblicazione di

documenti relativi al caso Moro che potevano distruggere la sua carriera e destabilizzare il sistema

di potere. I cugini avevano girato la richiesta ai capi militari di Cosa Nostra, Stefano Bontate e Tano

Badalamenti,che in circostanze diverse, ma usando un'identica, inequivocabile espressione in

dialetto, gli avrebbero confidato: «'U ficimu nuatri Pecorelli».

Buscetta aveva consentito a Falcone di istruire il Maxiprocesso senza parlare dei rapporti tra mafia e

politica. Ma l'inchiesta penale coinvolse anche il livello superiore dell'organizzazione criminale: con

l'arresto dei cugini Salvo e di Ciancimino erano stati sfiorati i piani alti di Cosa Nostra. Se va

stabilita una data, i guai di Andreotti sono cominciati proprio in quel momento. Non per l'arresto di

persone che in un modo o nell'altro potevano far riferimento a lui: come altri scandali anche questo

gli era scivolato addosso. Il problema vero era che la mafia non aveva mandato giù tutti quegli

ergastoli. L'ira di Cosa Nostra, covata per anni sotto le ceneri, esplose all'indomani della sentenza

definitiva in Cassazione. Andreotti, il garante, non aveva garantito nulla. Anzi, visto che aspirava a

divenire capo dello Stato, aveva preso le distanze da Cosa Nostra per ricostruirsi una verginità

politica - di questo almeno erano convinti i boss. «E pure quel cornuto di Lima ci ha fatto le scarpe»,

si lamentava Totò Riina nel gennaio '92. Anni dopo, è stato il nuovo pentito Nino Giuffrè, braccio

destro di Bernardo Provenzano,a raccontare che Riina, '"o Curto" all'indomani della maxisentenza

si aggirava come un leone in gabbia dicendo: «È cusì che starno camminati..».

Nell'estate precedente, il 9 agosto '91, c'era stato un segnale: il sostituto procuratore generale della

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Cassazione, Antonino Scopelliti, che stava istruendo il ricorso per il Maxiprocesso, fu assassinato

vicino a Reggio Calabria dove, lui calabrese, era tornato per le vacanze. Era un segnale: Cosa Nostra

non avrebbe tollerato lo schiaffo di una condanna definitiva. Fu un delitto per molti aspetti

anomalo, quello del PM Scopelliti, i pentiti di mafia non hanno saputo dare indicazioni precise.

Forse era stato gestito dai "bulgari", cioè dai boss della 'ndrangheta con cui Totò Riina, negli anni

Settanta, aveva stretto rapporti in carcere. Forse fu un omicidio "personale", ordinato dal capo di

Cosa Nostra all'insaputa del vertice ufficiale della "Commissione". Ma qualcuno avanza un dubbio:

il delitto del procuratore generale potrebbe non essere stato ordinato dalla mafia, ma da una mente

"intelligente" che andava preordinando quel piano di destabilizzazione politica che sarebbe

culminato nelle stragi e nell'incriminazione di Andreotti. L'uccisione di Scopelliti doveva impedire

che il Maxiprocesso finisse nelle mani di presidenti "garantisti", per innescare la miccia che avrebbe

inevitabilmente provocato l'esplosione. E così è stato: il 31 gennaio 1992 la Suprema Corte, in un

clima di grande emozione per l'uccisione del procuratore generale, ha accolto le richieste di un pool

di alti magistrati che avevano sostituito il collega ucciso. Furono ancora più severi di quanto sarebbe

stato lui, anche loro convinti che l'omicidio del PG fosse oscuramente legato al Maxiprocesso.

Da Lima alle stragi: non solo mafia Le accuse di Buscetta sono all'origine del processo, la

protostoria. Ma non basta la rabbia per le condanne a spiegare le stragi di Palermo. Se c'è stato un

complotto contro Andreotti, bisogna analizzare questo nodo irrisolto, mai fino in fondo affrontato

dal processo di Palermo. La Procura di Caltanissetta, che indaga su Capaci e via d'Amelio, ad

esempio, da tempo ha aperto un fascicolo che riguarda l'ipotesi di possibili mandanti esterni alla

mafia. I magistrati ritengono che quelle stragi non possano essere state ideate, organizzate e

compiute soltanto da Cosa Nostra. E Buscetta è stato tra i pochi a capire, con la rapidità di chi

conosce uomini e retroscena, cosa realmente stava succedendo in Italia a partire dall'uccisione di

Lima: «Vedo altre cose, dietro queste cose... c'è un piano unico per l'uccisione di Lima e le stragi,

qualcosa di molto più importante della risposta giudiziaria». Il ragionamento di Masino era più o

meno questo: non era soltanto Cosa Nostra a voler impedire la nomina di Andreotti a capo dello

Stato. «La dottoressa Boccassini si guardi intorno e scoprirà delle belle cose». Ma di più non ha

saputo o voluto dire.

La rappresaglia mafiosa è stata esemplare nella sua escalation. Il 12 marzo 1992, a Mondello, in una

mattinata di sole sbucò dal nulla una moto con due sicari a volto coperto. Dal cancello di una villa

stava uscendo un uomo con un'aureola di capelli bianchi, da trent'anni deus ex machina di tutte le

alchimie elettorali e politiche di Palermo: Lima cadde a terra in una manciata di secondi, colpito da

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numerosi colpi sparati a distanza ravvicinata. Cinquanta giorni dopo, il 23 maggio, Giovanni

Falcone saltò in aria a Capaci, investito da una terrificante esplosione che squarciò il tratto

d'autostrada che congiunge Palermo all'aeroporto di Punta Raisi. Il 19 luglio Paolo Borsellino, che

con lui aveva istruito il Maxiprocesso, venne disintegrato da un'autobomba esplosa in via D'Amelio

sotto l'abitazione della madre. Il 25 settembre, a cadere sotto il piombo di una calibro 38 fu Ignazio

Salvo, nella sua villa vicino a Palermo. Nino era morto ormai da un paio d'amai: Ignazio era l'ultimo

anello del patto tradito. Se l'omicidio Scopelliti aveva avviato un piano che doveva innescare la

rivolta di Cosa Nostra, per portare allo scoperto nel modo più traumatico la "rottura" dei patti tra

Andreotti e le cosche, questo era perfettamente riuscito.

Pallido come un cencio, di fronte alla bara del suo capocorrente in Sicilia, Andreotti lanciò un

segnale: «Chi vuole colpire me, lo faccia direttamente». Poi nel corso dei mesi successivi ritrovò

l'abituale fermezza e a ottobre, quando le indagini portarono ad arrestare quattro presunti sicari,

tornò a dire: «Su Lima ci sono sempre state dicerie, ma io non ho mai avuto alcuna conferma dei

suoi rapporti con la mafia. Anzi, devo dire che era tra i più inflessibili nel sostenere provvedimenti

rigorosi». Il problema era che proprio le indagini sull'omicidio Lima avevano portato alla luce quelle

"prove" sulla mafiosità del capocorrente siciliano, di cui Andreotti sosteneva di non aver mai avuto

notizia. Peggio ancora, i pentiti parlando di Lima svelarono anche il suo ruolo di contatto tra la

mafia e il referente romano, cioè lui. La bufera si stava addensando sulla sua testa, ma il senatore

rimase ancora una volta impassibile: «Non so perché vada ignorata la positiva notizia che sono stati

arrestati i responsabili dell'omicidio per dare spazio a illazioni e dicerie».

Tra l'uccisione di Lima e le stragi, nel mese di aprile, sembra che Falcone, allora direttore degli

Affari Penali del ministero della Giustizia, sia volato negli USA per incontrarsi in una località

segreta con Buscetta. È una voce a lungo circolata, di cui non si è mai avuta conferma ufficiale. Il

giudice era rimasto profondamente turbato dalla morte di Lima e intuiva, anche se non aveva chiavi

di lettura sufficienti per comprendere i dettagli, che un terremoto senza precedenti era alle porte.

Certo non prevedeva che lui stesso sarebbe rimasto sepolto dalle macerie.

Pochi giorni prima della strage di Capaci incontrai in un ristorante di Palermo il suo caposcorta,

Antonio Montinaro, un bel ragazzo di trentadue anni, pieno di vita, adorno di bracciali e di

tatuaggi, uno dei poliziotti della Mobile di cui il giudice si fidava ciecamente. C'era davvero stato

quell'incontro segreto tra Falcone e Don Masino? Mi rispose con un sorriso malizioso: «E chi lo sa?!

Non è che ci racconta tutto...». Allora gli chiesi cosa pensava il giudice dell'omicidio Lima. Il volto

di Montinaro si rabbuiò: «E preoccupato, dice che può succedere di tutto... che da un momento

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all'altro anche noi possiamo saltare in aria. Me lo ha detto l'ultima volta che è sceso a Palermo». E

fece un gesto con la mano, accompagnato da un sibilo, che mimava la possibile esplosione.

Montinaro il 23 maggio era alla guida dell'auto in cui Falcone aveva deciso di non salire, per guidare

la sua 127, come spesso faceva a ogni ritorno a casa. Il corteo era composto da tre vetture, il

caposcorta era in testa: è stato il primo a essere investito dall'esplosione, per quell'errore di una

frazione di secondo compiuta dai killer.

Cosa si siano detti Falcone e Buscetta, se davvero si sono incontrati, non lo sapremo mai: tutti e due

sono morti. Ma è probabile che Don Masino gli abbia finalmente confidato quello che non aveva

avuto il coraggio di dirgli nell'84. C'è un testimone importante però: Richard Martin, lo Spedai

Altorney amico di Falcone che, dopo un periodo trascorso presso l'ambasciata USA a Roma, era

tornato in quei mesi a New York. Dopo le stragi fu incaricato dalla Procura Distrettuale di

Manhattan di collaborare alle indagini sui gravissimi attentati compiuti in Italia dalla mafia.

Anche Martin pensò a Buscetta: lo conosceva dai tempi del processo Pizza Connection, forse poteva

dargli una mano a capire quello che stava succedendo. «Buscetta pensava che l'omicidio Lima e le

stragi facessero parte di un unico piano», ha spiegato Yattorney ai giudici di Palermo il 17 luglio del

'96, quando i magistrati si recarono negli USA per interrogarlo. All'origine c'era la rottura del

"patto" con Andreotti, spiegò, aggiungendo che Masino, dei rapporti tra il Presidente e la mafia,

gliene aveva già parlato nell'85: «Ma fu solo un accenno», ha precisato l'avvocato americano.

Un accenno sufficiente a convalidare quel colloquio avvenuto tanti anni prima tra Buscetta e

Falcone, che senza questa testimonianza sarebbe sfumato nella leggenda. Anche l'agente dell'i-'BI

Antony Petrucci ha raccontato in aula, con maggiori particolari rispetto a Martin, quello che il

pentito gli aveva confidato in data non sospetta. Ma è stato l'incontro con Yattorney che ha indotto

la difesa di Andreotti ad avanzare dubbi sul fatto che il ritorno di Buscetta potesse essere stato

pilotato. Al di là di ogni possibile scenario "segreto", ritengo che il pentito non fosse uomo da

sottrarsi all'appuntamento fissato dal destino: era stato lui l'artefice di quel dramma, non poteva

restarsene in disparte, negli USA, come se la cosa non lo riguardasse. Toccava a lui scrivere l'ultimo

capitolo. Un paio di anni dopo, mentre si accingeva a fare per la prima volta il nome di Andreotti, in

un'aula di giustizia del carcere di Padova, dove il Tribunale di Palermo si era trasferito per motivi di

sicurezza, Buscetta chiese che venisse tolto il paravento che lo proteggeva dai fotografi. Le accuse

che stava per rivolgere ad Andreotti, per rispetto a lui e a ciò che rappresentava, potevano essere

fatte soltanto a viso aperto.

La sua tesi consisteva nell'idea che l'omicidio era stato compiuto per danneggiare l'immagine di

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Andreotti: «Lima era il lato democratico-cristiano a Palermo, da morto significava denigrare la

corrente andreottiana e cioè Andreotti». Una frase difficile da spiegare a chi non è in grado di capire

immediatamente il linguaggio mafioso e il contesto storico-politico cui Masino si riferisce. E come

se avesse detto: tutti sapevano che Lima era un canale tra la mafia e Andreotti; ucciderlo rendeva

pubblico quel legame, nel momento stesso in cui veniva spezzato, per distruggere la sua carriera

politica. Anche Giovanni Brusca, il killer che a Capaci aveva premuto il pulsante facendo deflagrare

mezza tonnellata di esplosivo, accennò al "piano" di Cosa Nostra: «Fui incaricato da Totò Riina di

uccidere Ignazio Salvo, ma non c'era fretta», mi disse, «con Lima e le stragi l'obiettivo era stato

raggiunto». E l'obiettivo, come hanno raccontato tutti i pentiti, era impedire che Andreotti

divenisse presidente della Repubblica.

Nella sua ultima intervista, Buscetta aveva commentato l'assoluzione di Andreotti: Non è stata una

mia sconfitta, io ho solo detto quello che mi hanno raccontato, dal '93 a oggi ho sempre ripetuto la

stessa cosa senza neppure cambiare una virgola. In cuor mio sono tranquillo, ho sempre rispettato la

giustizia e i suoi tempi. La mia non è stata una disputa con lui, se Andreotti fosse stato condannato

non sarebbe una mia vittoria, così come ora non è una mia sconfitta se lo hanno assolto [...].

I processi sono lunghi, a volte arrivano in momenti diversi rispetto alla testimonianza. Ora il clima è

cambiato. Andreotti ha recuperato un suo spazio e un suo ruolo politico, i processi sono visti come

una persecuzione [...]. [Il processo] è diventato una questione di cui c'è perfino imbarazzo a parlare.

E di pari passo è mutato anche l'atteggiamento del senatore nei miei confronti. All'inizio lui si è

lamentato di accuse che venivano da oltreoceano, ha parlato di un complotto americano, ha perfino

chiamato Kissinger a testimoniare. Adesso se n'è dimenticato. Io sono stato prima un «teste

guidato», poi una persona leale. Oggi leggo che sono uno «che ha fatto tanti guai». A me questo non

fa né caldo né freddo [...]. Io vorrei essere ricordato come una persona per bene, nell'84 ho preso un

impegno con lo Stato e l'ho mantenuto.

L'intreccio Pecorella Dalla Chiesa La prima volta che Buscetta raccontò dell'omicidio Pecorelli era

il 26 novembre 1992. Il più grave atto d'accusa nei confronti di Andreotti è riassunto in tre o quattro

paginette di verbali; tutto il resto è la descrizione di un contesto all'interno del quale quelle accuse

trovano una collocazione.

Bisogna fare una premessa. Masino era un soldato semplice, non aveva fatto carriera dentro Cosa

Nostra per un fatto che può sembrare strano: gli piacevano troppo le donne. I boss in quegli anni

erano moralisti, gli rimproveravano di aver avuto troppe mogli e troppi figli, ma il suo "difetto" non

gli aveva impedito di diventare amico di uomini potenti, come Lima e i cugini Salvo, e di avere

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rapporti anche con boss italoamericani:insomma le sue quotazioni erano di molto superiori al ruolo

gerarchico. Per questo era in grado di dialogare alla pari con i capi di Cosa Nostra e veniva messo a

parte di segreti gravi e importanti, anche se non ricopriva alcun incarico di rilievo

nell'organizzazione.

Nell'aula bunker di Padova esordì con una frase breve, essenziale: «Pecorelli e Dalla Chiesa sono

cose che s'intrecciano». Del giornalista ucciso a Roma gli avevano parlato in circostanze diverse sia

Stefano Bontate che Gaetano Badalamenti, uomini che in quegli anni rappresentavano le due

anime di Cosa Nostra. Il "Principe" di Villa Grazia e il "Vaccaro" di Cinisi,l'uomo di mondo e il

viddano. Erano stati discorsi occasionali, avvenuti a distanza di un paio di anni, spiegò Buscetta, ma

non poteva trattarsi di menzogne. Le regole rigide di Cosa Nostra impediscono che un uomo

d'onore menta a un altro uomo d'onore. Una tesi che il giudice Verrina ha fatto propria. E in sintesi

Buscetta ha detto: Una prima.volta mi raccontò di questo fatto nel 1980 a Palermo Stefano Bontate.

Durante una conversazione a Fondo Magliocco il discorso cadde sui cugini Salvo, Nino e Ignazio.

Mi disse Bontate: «Anche l'omicidio Pecorelli l'abbiamo fatto noi perché ce l'hanno chiesto i Salvo».

Quel «noi» si riferiva chiaramente a un omicidio personale dei due, non deliberato dalla

"Commissione". In un primo momento avevo pensato che parlasse di Pecorella, un picciotto

assassinato insieme al figlio di Inzerillo. Ma lui si mise a ridere: «Che hai capito, Pecorelli il

giornalista, i Salvo ce l'hanno chiesto perché disturbava politicamente».

Due anni dopo, il 3 settembre 1982, Buscetta si trovava a Rio de Janeiro in compagnia di

Badalamenti quando la televisione diede la notizia dell'uccisione del generale Carlo Alberto Dalla

Chiesa: «Badalamenti mi disse: lo hanno fatto per fare un favore ad Andreotti. E anche lui mi spiegò

che l'omicidio Pecorelli era "cosa nostra"». E aveva aggiunto: «Il giornalista stava appurando

porcherie politiche, segreti che anche Dalla Chiesa conosceva. Badalamenti mi disse che

quell'omicidio c'interessava ad Andreotti e l'abbiamo fatto noi tramite la richiesta dei cugini Salvo».

Il PM Cardella cerca di saperne di più: CARDELLA: Noi chi, ci scusi? BUSCETTA: Io, cioè

Badalamenti e Stefano Bontate, non la "Commissione", la Cosa Nostra. Posso citare la parola che

mi fu detta, la traduzione la farete voi: «'U ficimu nuatri, io e Stefano». Bisogna capire il linguaggio,

Bontate non è uomo che viene a Roma a sparare a Pecorelli, lo può dire ad altre cinquemila persone.

CARDELLA: Ma dopo che lei aveva equivocato con questo Pecorella, Badalamenti cosa disse?

BUSCETTA: Si mise a ridere e mi disse... il fatto del giornalista che voleva arrecare dei disturbi al

Presidente, che aveva documenti scottanti che voleva pubblicare. CARDELLA: Di quali

documenti si trattava glielo disse? BUSCETTA: Secondo lui erano documenti segreti che

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riguardavano Moro. Cardella: In quale circostanza si parlò del generale Dalla Chiesa?

BUSCETTA: Il generale Dalla Chiesa era quello che aveva i documenti segreti, le bobine secondo

Badalamenti, che poteva darli o li aveva dati a Pecorelli,il giornalista.

Aw. COPPI: Erano documenti o bobine...

BUSCETTA: Ma c'era una grande confusione, i discorsi si accavallavano, documenti certo, so di

documenti con certezza, di bobine non so...

Le bobine del sequestro Moro, pur essendo tutti convinti della loro esistenza, non sono mai state

trovate. Forse Buscetta ne aveva sentito parlare, ma non era in grado di ricordare con esattezza in

quale occasione. Il discorso quella sera a Rio de Janeiro si estese: «Tano mi rivelò anche che Calò era

dentro fino al collo nel delitto Calvi». Masino non si dilungava mai in dettagli, ed è quello che lo ha

sempre salvato dalle contestazioni della difesa. Era lui che dettava le regole della sua attendibilità,

ma erano regole logiche, credibili, come questa: Tra uomini d'onore c'è l'obbligo di dire la verità.

Bontate e Badalamenti non mi possono aver mentito quando mi hanno fatto il nome dei Salvo e

sono convinto che i Salvo non si sarebbero mai permessi di commettere un omicidio del genere

senza informare l'interessato, e cioè Andreotti, non sapendo quali potessero essere gli sviluppi di

tale fatto.

Pecorelli e Dalla Chiesa sono «cose che si intrecciano», anche nel destino che la sorte gli ha

riservato. Il generale fu ucciso a Palermo il 3 settembre 1982. Ma la sua morte era stata decisa già tre

anni prima. Racconta ancora Buscetta che nel 79, mentre si trovava nel carcere di Cuneo, Stefano

Bontate gli aveva fatto arrivare questa richiesta: «Bisogna uccidere il generale, ma deve apparire un

omicidio fatto dalle Brigate Rosse, bisogna trovare un contatto e fare in modo che sia rivendicato

dai terroristi». Don Masino riuscì a parlarne con Lauro Azzolini, uno dei brigatisti che faceva parte

del Comitato esecutivo delle BR durante il sequestro Moro, detenuto nello stesso carcere. Azzolini

rifiutò la proposta: «Noi rivendichiamo gli omicidi soltanto quando almeno uno di noi vi partecipa».

Le Brigate Rosse erano interessate all'uccisione del generale, ma volevano saperne di più: Buscetta

non era stato in grado di soddisfare la loro richiesta. Quando uscì dal carcere, nel famoso incontro

con Bontate del 1980, il discorso dopo la rivelazione su Pecorelli si estese anche a Dalla Chiesa. Il

boss di Cosa Nostra fornì una risposta generica: «Sembra che Dalla Chiesa voglia fare un colpo,

mettersi a capo dello Stato italiano...». Fu l'unica spiegazione che Don Masino riuscì a ottenere, con

una sola aggiunta: «Non era un delitto che interessava Cosa Nostra».

Le motivazioni: Perugia Il movente del delitto Pecorelli La motivazione della sentenza di Perugia è

un "mattone" di 367 pagine. Un mattoncino se paragonata a quella di Palermo, ben 1520 pagine.

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Alcuni analisti l'hanno stroncata, senza averla mai letta, sulla base di pochi flash d'agenzia. Qualche

commentatore ha perfino ipotizzato che possa trattarsi di una sentenza "suicida", cioè volutamente

erronea, tale da dover essere annullata dalla Cassazione e chiudere in modo pirandelliano

l'Andreotti-story. La legge non è una scienza esatta e non c'è nulla di più imperscrutabile del «libero

convincimento di un giudice». Dopo averla letta con attenzione penso che la sentenza di Perugia, al

pari di altre sentenze su vicende come questa molto complicate, possa essere discussa, anche

criticata, ma non demolita. Ed è stata questa, invece, la tentazione cui non è riuscita a sottrarsi la

difesa di Andreotti, che in un ricorso di 431 pagine stronca senza pietà la decisione della Corte

d'Assise d'Appello di Perugia chiedendone la nullità «per erronea valutazione della legge penale»,

per «mancanza e manifesta illogicità della motivazione» e per «inosservanza di norme processuali».

L'oggetto di maggior contrasto è proprio l'attendibilità di Buscetta, la «cui valenza è

insormontabile» per i giudici di Perugia, «ondivaga e contraddittoria» per gli avvocati della difesa,

imprecisa e confusa per i giudici di Palermo. Ma delegittimare Buscetta equivale, per molti

magistrati, a mettere in discussione l'operato di Falcone. Tutto questo fa parte della dialettica

processuale, soprattutto in un processo indiziario come questo. Noi cercheremo di districarci nelle

complicate argomentazioni delle parti per capire se davvero c'è stato un "complotto giudiziario" nei

confronti di Andreotti, come sembra sostenere il senatore dopo la condanna; o se l'accusa abbia un

suo qualche fondamento nei tragici eventi che costellano il delitto Moro, nel clima di quegli anni e

nelle vicissitudini siciliane del protagonista.

La tesi dei giudici perugini è che la colpevolezza di Andreotti, non potendo essere dimostrata a

distanza di tanto tempo e per la particolare personalità dell'imputato da una "prova" certa, derivi da

un intreccio di eventi all'interno dei quali è compito del giudice trovare la verità.

Quello che il giudice deve valutare è la prova non l'ipotesi. Ma non è forse la probabilità dell'ipotesi

dipendente dalla forza della prova? lifactum probans può essere definito, ad avviso di questa Corte,

«fatto probatorio», cioè un evento che ha un valore di prova per il faclum probandum che può essere

considerato il "tema della prova". E così una "catena probatoria" si conclude da un fatto probatorio a

un altro, fino al definitivo tema di prova, che deve costituire un «fatto giuridico», cioè un fatto da cui

discende una conseguenza giuridica a norma di legge.

L'attendibilità di Buscetta, dimostrata dal contributo dato dal pentito in tutti i processi contro la

mafia, secondo i giudici da credito alla tesi che siano stati veramente Bontate e Badalamenti a

organizzare l'omicidio Pecorelli,dopo un'esplicita richiesta dei cugini Salvo, fatta per conto di un

"interesse" manifestato da Andreotti. Dal momento che non esistono testimoni (e difficilmente

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potrebbero esserci) della richiesta nsi YaAVà da Andreotti ai Salvo, non è importante - sostiene la

Corte - sapere quale forma questa abbia assunto (non escludendo "almeno" il tacito consenso), dal

momento che la richiesta certamente c'è stata e "non può non esserci stata", trattandosi di un delitto

di altissimo livello che nessuno si sarebbe arrogato di compiere senza il consenso dell'interessato.

La conferma indiretta è che fatti successivi alla morte di Pecorelli hanno confermato la validità delle

sue "premonizioni": tra queste c'è la previsione che Dalla Chiesa sarebbe stato ucciso, come poi è

realmente avvenuto. Anche Pecorelli è stato ucciso dalla mafia; ma per un "movente" politico,

spiega la Corte, perché la mafia non aveva alcun interesse a ucciderlo, non sapeva neppure chi fosse.

Qual è questo movente? La minaccia che il giornalista pubblicasse, in tutto o in parte, il Memoriale

di Aldo Moro era tale, afferma la Corte, da mettere a repentaglio non soltanto la carriera di

Andreotti, ma i difficili equilibri politici di quel periodo, al punto che il PCI avrebbe potuto trarne

vantaggio e realizzare il temuto "sorpasso" elettorale nei confronti della DC.

Gli avvocati di Andreotti, Giulia Bongiorno e Franco Coppi, nel ricorso in Cassazione dichiarano

illogica questa ricostruzione: Il movente del delitto consisterebbe nella preoccupazione del senatore

che il giornalista potesse pubblicare documenti relativi al sequestro e all'assassinio di Aldo Moro,

documenti che avrebbero potuto avere effetti devastanti sulla sua carriera. Ma poi incredibilmente

affermano che «il contenuto degli stessi è rimasto ignoto, quindi è possibile sia che si trattasse di

scritti provenienti da Aldo Moro, sia che si trattasse di atti provenienti da fonte diversa ma

comunque attinenti al caso Moro». E a pagina 293 concludono che «nulla si sa del contenuto dei

documenti consegnati da Dalla Chiesa a Pecorelli».

Il movente sarebbe costituito da un oggetto ignoto, sostiene la difesa, «da documenti di cui non si sa

nulla; non è neppure certo che il giornalista ne fosse in possesso, né che intendesse pubblicarli, né in

che modo - se lo avesse fatto - avrebbero potuto "devastare" la carriera di Andreotti». Quest'ultima

affermazione è in realtà contraddetta da molte testimonianze sulla sparizione di un dossier dalla

tipografia la sera del delitto. Nel caso si sia trattato del Memoriale, ipotizzano gli avvocati, «non

risulta che la copia manoscritta emersa nel '90 abbia in realtà devastato la carriera di Andreotti». Un

capitolo controverso, perché si tenta di eludere la questione che ci sono scritti di Moro mai ritrovati.

l'insormontabile" attendibilità di Masino Un mandante non usa la pistola, non lascia segni del suo

DNA sul luogo del delitto, né può essere intercettato telefonicamente mentre impartisce l'ordine di

uccidere. Almeno non in questo caso. La parola dei pentiti da sola non basta; eppure la Corte

d'Assise d'Appello di Perugia ritiene di aver trovato prove certe che inchiodano Andreotti al ruolo di

"mandante politico" dell'omicidio Pecorelli. Il primo dei facta probantia esibiti dalla Corte è che

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Buscetta sia attendibile, anzi lo sia sempre stato, visto che i giudici di primo grado per poter

assolvere Andreotti sono dovuti ricorrere a un escamotage, ovvero sostenere che fossero stati

Bontate e Badalamenti a mentire a don Masino rivelando l'«interesse di Andreotti alla morte di

Pecorelli». Sbagliano, afferma la Corte d'Appello, perché Bontate e Badalamenti non possono aver

mentito, anzi avevano molti motivi per dire la verità: I primi giudici hanno riconosciuto che

Buscetta aveva detto la verità, ma non ne avevano tratto le debite conseguenze, avendo affermato sic

et sem-pliciter che si può dubitare che a Buscetta sia stato riferito il vero [...]. Non può essere

accettabile l'ipotesi che due esponenti mafiosi di tale rilevanza abbiano mentito, sine una ratione,

confessando un delitto commesso da altri [...] la violazione dell'obbligo di dire la verità è sanzionata

in Cosa Nostra con la morte. Non è ipotizzabile la violazione di tale obbligo per mero desiderio di

vantare un'amicizia in un complesso di situazioni e rapporti che avrebbe reso la menzogna inutile,

dannosa e pericolosa. Motivano i giudici, inoltre, che Bontate rischiava di essere facilmente

sbugiardato, considerati gli stretti rapporti di amicizia che intercorrevano tra Buscetta e i Salvo. Nel

Natale del 1980, un periodo di poco successivo al colloquio su Pecorelli, Masino era ospite in casa di

Ignazio Salvo, che gli aveva addirittura messo a disposizione il proprio aereo per andare a prendere

la moglie: Bontate si sarebbe ben guardato dal fare "pettegolezzi" di tale gravita. Uno dei passaggi

forti della sentenza è il richiamo ai valori che sottende il riconoscimento dell'attendibilità di

Buscetta: Molti sono gli omicidi sui quali il «superpentito di mafia» ha fatto piena luce, molti i

provvedimenti restrittivi che ne sono derivati [...]. Egli ha consentito di potare l'albero mafioso dei

suoi rami più compromessi, mandando in frantumi l'emblema dell'omertà. Se non ci fosse stato

Buscetta tutti i mafiosi sarebbero ancora in libertà. Anche in questo processo Buscetta lancia un

forassimo allarme. Non esiste alcuna plausibile ragione per non prendere nella debita

considerazione le sue dichiarazioni a meno che non ci si rassegni all'idea che in Italia mafia,

malaffare, costume politico sono destinati a restare una costante.

Il credito "senza riscontro" che viene attribuito a Buscetta è proprio quello che gli avvocati

contestano con maggior vigore: «Lo stesso Buscetta ha detto che si trattava di sue congetture l'idea

che l'omicidio potesse essere stato chiesto da Andreotti, ma per la Corte le congetture, essendo di

Buscetta, equivalgono a verità». Una decina di pagine vengono poi dedicate al "consenso tacito" che

avrebbe dovuto essere oggetto di prova, e che invece viene dato per scontato: «Non essendo più

Andreotti l'ideatore del progetto criminoso e l'istigatore dell'altrui condotta esecutiva, venuto

evidentemente a conoscenza del programma omicida, avrebbe dovuto impedirlo: non avendolo fatto

diviene responsabile a titolo di consenso tacito».

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I motivi addotti dalla difesa sono tutt'altro che trascurabili: del resto sono gli stessi per i quali

Andreotti è stato assolto in primo grado, motivi che un tempo si configuravano come insufficienza

di prove. Ma è anche vero che nei processi di mafia, per poter supplire alle difficoltà poste da

un'organizzazione protetta dal vincolo dell'omertà, i comportamenti criminali degli imputati

mafiosi vengono letti e interpretati anche in considerazione delle regole interne della medesima

organizzazione: "regole" che è stato proprio Buscetta a descrivere e che sono all'origine di quei

"teoremi", contestati da tutti gli imputati, ma che hanno retto al vaglio del Maxiprocesso e di tutti

gli altri processi a carico di mafiosi.

Nel corso del dibattimento Buscetta ha più volte affermato: «Per capire queste cose, bisogna tener

conto del linguaggio...». Non potremo mai sapere come siano andati i fatti, sostengono i giudici,

ma, se il mandato di uccidere c'è stato, la catena di comando attraverso la quale è stato trasmesso Il

libro mero della Prima Repubblica non poteva lasciare dubbi sul significato da attribuire alle

lamentele "espresse" nei confronti del giornalista ai cugini Salvo, o da Andreotti o da chi lo

rappresentava. Lamentele che non potevano restare senza conseguenze: se si voleva che il

giornalista non fosse ucciso, ma soltanto messo nell'impossibilità di pubblicare i documenti di cui

era venuto in possesso, questo doveva essere esplicitato.

Proprio mentre riflettevo su questa storia del "tacito consenso", mi è capitato di rileggere alcuni atti

del processo di Capaci, dove si trova un esempio che spiega meglio la motivazione dei giudici di

Perugia. Riguarda la testimonianza di Angelo Siino, molto significativa per capire la valenza del

linguaggio mafioso. Racconta Siino di aver assistito a un colloquio tra Salvo Lima e Ignazio Salvo,

in cui il primo inveiva contro Falcone dicendo: «Quel cane rognoso si futtia la testa, l'Italia in tasca

si vuole mettere...». La conversazione riguardava il sistema degli appalti. Dice Siino che un brivido

gli percorse la schiena: «Ma è pazzo, gli sta dicendo che lo devono ammazzare...».

Fatto sta che Pecorelli è stato ucciso, com'è stato ucciso anche Dalla Chiesa, e che vent'anni di

indagini hanno sempre escluso un movente privato o "minimo".

Per i giudici, una delle prove che Buscetta sia stato sincero sta proprio nel colloquio svoltosi in

Brasile, in cui Badalamenti gli rivelò una circostanza, all'epoca da tutti ignorata, e che soltanto nel

corso di questo processo è stata accertata come vera: Dalla Chiesa e Pecorelli si frequentavano,

avevano stabilito un "contatto" informativo attorno ai documenti Moro, proprio come nel lontano

'82 il boss di Cinisi aveva rivelato a Masino. È questo il secondo factum probans. E ce n'è anche un

terzo: la conferma che il giornalista e il generale fossero davvero a caccia del Memoriale è stata

portata nel corso del processo, nel '94, da un testimone assolutamente attendibile, ovvero dal

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maresciallo Angelo Incandela, uno stretto collaboratore di Dalla Chiesa. Ma per i giudici di Perugia

c'è anche una prova "indiretta", desunta dal contenuto di alcuni articoli di «OP», in cui Pecorelli, in

periodi molto vicini agli incontri con il generale, mostrava di essere entrato in possesso di

informazioni che poteva aver avuto soltanto da lui, cioè da Dalla Chiesa.

La certezza di questi incontri si è avuta quando la segretaria di «OP», Franca Mangiavacca, recuperò

un'agenda nella quale per ben due volte, tra la fine del '78 e l'inizio del 79, c'era scritto "Dalla Chiesa

(Carenini)". Carenini era un deputato DC amico sia di Dalla Chiesa che di Pecorelli. La segretaria

ha spiegato che un cognome tra parentesi per Mino stava a significare che si trattava di una persona

che fungeva da contatto. Quelli tra il generale e il giornalista erano appuntamenti segreti e Franca

Mangiavacca, legata sentimentalmente a Mino, era tra i pochissimi a esserne informata. Una sera

Mino tornò tardi in redazione, piuttosto stremato, le confidò di aver visto Dalla Chiesa e sbottò:

«Non ho mica capito quello che vuole da me!».

Forse era stato il primo incontro. Scrivono i giudici: Le affermazioni trovano conferma nelle

annotazioni delle agende di Carmine Pecorelli da cui si evince che il nome di Dalla Chiesa è

riportato più volte e precisamente il 21 agosto 1978, il 19 e il 22 settembre 1978, il 4 ottobre 1978.

Tali circostanze confermano che Pecorelli e Dalla Chiesa si erano conosciuti e che la conoscenza è

almeno databile al 4 ottobre 1978.

Occhio alla data: in quei giorni Dalla Chiesa aveva già individuato il covo BR di via Montenevoso e

sapeva che all'interno i brigatisti vi avevano trasferito le carte Moro. Nella motivazione si afferma:

In ordine al Memoriale Moro e al suo contenuto Pecorelli ha dato prova di conoscerlo, ben prima

che il governo ne autorizzasse la pubblicazione confutandolo in un articolo, "Questo è vero e questo

è falso". Mentre nell'articolo "Filo rosso" egli parla di un manoscritto con grafia appartenente ad

Aldo Moro di centocinquanta pagine, laddove quello che invece viene trovato e pubblicato dal

ministero dell'Interno è un dattiloscritto di quarantotto pagine. È appena il caso di sottolineare che

questa Corte annette importanza alla conoscenza da parte di Pecorelli almeno del particolare che si

trattava di un manoscritto e non di un dattiloscritto.

Soltanto nel 1990 fu recuperata dietro un pannello del covo di via Montenevoso la fotocopia del

manoscritto. E i giudici citano anche la falsa lettera al Direttore, pubblicata da «OP» il 17 ottobre

78, e nota come "Amen" il cui riferimento al generale Dalla Chiesa è fin troppo evidente, mentre la

prossimità fra la data della pubblicazione della notizia, la cui importanza se provata era di

eccezionale rilevanza, e la data del primo incontro è più di una coincidenza.

Nella lettera, di cui parleremo diffusamente più avanti, Pecorelli sosteneva che Dalla Chiesa avesse

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scoperto la prigione dove Moro si trovava ancora vivo, l'aveva riferito a Cossiga, ma si era perduto

tempo e non si era alla fine ottenuto il rilascio dello statista perché qualcuno «aveva alzato il

prezzo». La domanda che si pongono i giudici è questa: come poteva il boss di Cinisi nell'82 sapere

che Dalla Chiesa e Pecorelli «stavano appurando porcherie politiche legate al sequestro Moro»,

quando tale circostanza non era mai emersa da alcuna indagine sviluppata attorno all'uccisione del

giornalista? La risposta dei giudici è che Badalamenti non poteva saperlo, se non attraverso quei

canali di natura mafiosa che egli stesso confida a Buscetta.

Un verdetto a metà «Sono rimasto soltanto io e un signore che vive nel New Jersey», è stato l'ironico

commento di Andreotti, appena saputo di essere stato condannato come «mandante» in compagnia

di Tano Badalamenti, un padrino detronizzato, chiuso da vent'anni nella cella di un carcere

americano. L'assoluzione di Claudio Vitalone e di Pippo Calò, oltre che dei presunti killer,

Angelino La Barbera e Massimo Carminati, ha in effetti "dimezzato" l'ipotesi accusatoria: da un

lato c'è un mandante e un movente, che si conoscono, dall'altra intermediari ed esecutori, che

restano ignoti. I sostenitori dell'innocenza di Andreotti si sono appigliati a questa "anomalia" della

sentenza, che in effetti si limita a indicare i motivi che avrebbero determinato "l'interesse" di

Andreotti all'eliminazione di Mino Pecorelli, lasciando aperto il varco sulle possibili pedine

utilizzate. E naturalmente anche su questo capitolo danno battaglia, nel ricorso, gli avvocati della

difesa.

Nei delitti di mafia accade spesso che siano condannati i mandanti e assolti gli esecutori, ma non si

può negare che la decisione dei giudici abbia aperto una grave ipoteca sulla credibilità dell'intero

impianto accusatorio. L'assoluzione di Calò, La Barbera e Carminati taglia fuori dallo scenario

dell'omicidio la Banda della Magliana che era stato fin dall'inizio lo "sfondo" dell'omicidio

Pecorelli. Stupefacente appare in particolare l'assoluzione di Massimo Carminati, gestore del

deposito di armi trovato in via Liszt, presso il ministero della Sanità, da cui certamente sono usciti la

pistola 7,65 e i proiettili Gevelot che hanno ucciso Pecorelli. In vent'anni di indagini era stato

questo l'unico elemento di continuità tra la vecchia e la nuova inchiesta.

Nell'assoluzione dei quattro imputati, i giudici di Perugia sembrano addirittura peccare di "eccesso

di garantismo", mostrando il massimo scrupolo nel vagliare il tema della prova a loro carico. Troppe

contraddizioni, troppi ripensamenti nelle testimonianze dei pentiti della Banda della Magliana,

dicono. Ma anche Buscetta aveva messo in dubbio il ruolo attribuito dall'accusa a Calò e ad

Angelino il Biondo, e la Corte ne ha tenuto conto. Il ragionamento di Masino era più o meno

questo: La Barbera appartiene alla famiglia degli Inzerillo; se Bontate avesse affidato a lui il

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compito di uccidere Pecorelli avrebbe dovuto chiedere il consenso al capofamiglia, coinvolgendo la

"Commissione" di Cosa Nostra in un delitto che doveva invece restare riservato, per la delicatezza

del "favore" chiesto dai Salvo. Calò, da parte sua, è stato scagionato, oltre che da Buscetta, anche da

Totò Cancemi, l'unico pentito che in un periodo successivo all'esecuzione del delitto dice di

aver saputo di questa storia: «Una volta andai a trovare Calò a Roma e lui mi accennò al fatto del

giornalista Pecorelli affermando che era intervenuta la "decina" di Stefano Bontate...». Bontate, in

effetti, fino all'inizio degli anni Ottanta, poteva contare a Roma sull'appoggio del boss Angelo

Cosentino, affiliato alla sua famiglia di Santa Maria del Gesù. Risulta però che Cosentino fosse in

stretti rapporti sia con Calò che con la Banda della Magliana, ma che non disponesse di killer suoi.

In ogni caso si tratta di un personaggio molto contiguo alla malavita romana, anche se questo per i

giudici di Perugia non è stato sufficiente a dimostrare la colpevolezza dei coimputati di Andreotti.

Una piccola aggiunta. Il firmatario di questa esplosiva sentenza, il giudice Gabriele Lino Verrina,

non è un pasdaran, anzi: fino a quando la tegola del processo Andreotti non si è abbattuta su di lui,

era considerato un moderato. Ha perfino scritto un libello in cui critica l'uso dei pentiti. Un vero e

proprio saggio, 252 pagine Valutazione probatoria e chiamata di correo, edizioni UTET) nel quale

scrive: «Nel pur comprensibile anelito alla verità ci si illude di aver trovato nel pentitismo e nella

mutuai corroboration la chiave d'oro dell'accertamento probatorio». Più avanti precisa: «Le parole

di un testimone non costituiscono prova quando appaiono inverosimili, contraddittorie e vaghe [...]

i pentiti e i testimoni non vanno creduti sulla parola». Insomma, Verrina è quanto di più lontano ci

sia dall'idea del magistrato "di sinistra", o del possibile protagonista del "complotto" giudiziario che,

dopo la condanna, Andreotti ha preso a temere. Politicamente moderato, non risulta impegnato in

alcuna corrente della magistratura, ha forse un solo debole e lo ha confessato nell'unica intervista

rilasciata dopo la sentenza: «Ho un'enorme stima del giudice Falcone, ho cresciuto i miei figli nel

culto della memoria dei magistrati uccisi dalla mafia». Dopo la sentenza ha ricevuto minacce,

telefonate anonime; qualcuno ha detto: «Verrina, farai la fine di Falcone». Ma il giudice non vi ha

dato troppo peso: «Non è la prima volta che debbo fare i conti con messaggi di morte. Ne ho ricevuti

anche quando ero pretore e mi occupavo di processi delicati contro i "potenti" della zona, ma oggi

come allora sono tranquillo».

maresciallo Incandela Il supertestimone cui accennavamo, l'uomo della "prova che inchioda", è il

maresciallo Angelo Incandela, che nel 79 svolgeva attività di polizia penitenziaria nel carcere di

Cuneo. Dopo aver letto sui giornali quanto aveva riferito Buscetta, alla fine del '92, Incandela si

presentò per raccontare un episodio cui aveva assistito personalmente.

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Sono arrivato a Cuneo nello stesso periodo in cui Dalla Chiesa aveva riottenuto l'incarico

antiterrorismo [fine 78]. Lui aveva sempre mantenuto contatti con la rete di uomini creata quando

era responsabile della sicurezza nelle carceri e io ero uno di questi. Nel gennaio 79 mi telefonò

dicendomi che aveva bisogno di vedermi con urgenza. Come sempre, quando si trattava di incontri

riservati, ci siamo incontrati di notte in una stradina di campagna.

Incandela era dunque un uomo della "rete" Dalla Chiesa e non uno qualunque: era stato proprio lui

a convincere Patrizio Peci, il primo brigatista rosso pentito, a collaborare con la giustizia. Dunque il

maresciallo era un fedelissimo, su cui il generale riponeva la massima stima. Non deve destare

sorpresa quell'incontro notturno, in una strada di campagna, in circostanze di massima riservatezza:

nessuno doveva vederli insieme. Così racconta il maresciallo: C'era anche Pecorelli, non ho dubbi

che si trattasse di lui, ho riconosciuto la foto quando fu ucciso poco tempo dopo. Dalla Chiesa mi

disse che si trattava di un amico e aggiunse: «Guarda che nel carcere sono entrati documenti sul caso

Moro». Ma era il giornalista a saperne di più, precisò che i documenti dovevano essere passati

attraverso una piccola finestra che affacciava sul parlatorio.

Sull'identificazione di Pecorelli, Incandela si dice certo: il maresciallo ha perfino raccontato che il

giornalista in quell'occasione portava occhiali da vista chiari, con la montatura dorata, e la sorella

Rosita ha confermato che il fratello ne aveva effettivamente un paio di quel tipo. Ma la difesa, nel

ricorso, sostiene che il maresciallo possa essersi sbagliato, perché l'uomo che descrive «è più basso di

lui, forse 1,70-1,72, mentre Pecorelli era alto almeno una decina di centimetri di più».

Va detto però che gran parte del colloquio si svolse in macchina, e che quindi Incandela non potè

vedere Pecorelli in piedi se non per pochi minuti.

Il maresciallo era appena arrivato nel carcere di Cuneo, non ne conosceva ancora bene i locali e

impiegò parecchio tempo a trovare il plico, nonostante l'assillo cui lo sottoponeva Dalla Chiesa,

bombardandolo di telefonate quando già era stato trasferito alla caserma Pastrengo di Milano. A

distanza di tempo ritiene di averle consegnate al generale non prima della fine del mese, o

addirittura agli inizi di febbraio. L'incontro notturno risaliva ai primi di gennaio, un mese dopo il

suo trasferimento a Cuneo. Ma vediamo come Incandela ha ricostruito di fronte ai giudici di

Perugia l'incontro con Dalla Chiesa e Pecorelli: Lo sconosciuto [Pecorelli] mi disse che gli scritti

riguardanti il caso Moro erano entrati nel carcere attraverso le finestre del corridoio dell'ufficio per i

permessi di colloqui, dove sostavano i parenti dei detenuti in attesa della perquisizione prima di

essere ammessi ai colloqui. Lo sconosciuto mi fornì una particolareggiata descrizione dei luoghi,

specificandomi che le finestre del corridoio erano prive di reti, sicché era agevole consegnare

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attraverso le stesse oggetti a detenuti che circolavano senza alcuna sorveglianza nel cortile; aggiunse

che attraverso quelle finestre erano entrate anche delle armi e della droga. Non ho mai saputo come

costui fosse a conoscenza dell'esatta ubicazione dei luoghi e di quello che mi raccontava. Certo io

rimasi impressionato dal fatto che conosceva circostanze a me ignote [...]. Lo sconosciuto proseguì

specificandomi che gli scritti riguardanti il sequestro Moro erano entrati nel carcere avvolti con un

nastro adesivo da imballaggio. A questo punto il Generale mi incaricò di trovare a tutti i costi quelle

carte, raccomandandomi, se le avessi trovate, di non aprire assolutamente l'involucro [...]. il

Generale non mi presentò l'uomo che si trovava con noi dentro la macchina. L'uomo parlava con un

accento romano. A un certo punto il Generale, accendendo la luce, gli chiese il numero o l'indirizzo,

non ricordo bene, di qualcuno. Ebbi modo così di vedere con chiarezza il volto dell'ignoto

interlocutore. L'uomo dopo aver consultato l'agendina, rispose che non aveva annotato il numero o

l'indirizzo in questione, aggiungendo che forse aveva quel numero o quell'indirizzo «in redazione».

Compresi allora che non si trattava di un militare dell'Arma e che probabilmente si trattava di un

giornalista. Del resto avevo già notato che l'uomo non aveva nei confronti del Generale

l'atteggiamento tipico dei militari subordinati [...]. Quando fu assassinato il giornalista Mino

Pecorelli, vedendo le foto della vittima pubblicate sui giornali, riconobbi senza ombra di dubbio in

quelle foto la persona che quella sera aveva accompagnato il Generale. Tre giorni dopo il Generale,

convocatomi presso la stazione di Cuneo, mi ribadì che «dovevo assolutamente trovare quelle carte

del sequestro Moro». Aggiunse, poi, una cosa che non aveva detto davanti a Pecorelli: mi disse che

dovevo scoprire se nel carcere c'erano altre carte nelle quali si parlava dell'On. Giulio Andreotti.

E lo stesso Incandela, come si vede, che allude all'esistenza di altre carte oltre al Memoriale.

Particolare importante, perché sia la sentenza di appello di Perugia che quella di Palermo

lamentano di non essere riuscite a individuare la tipologia del documento Moro cui fa riferimento

Buscetta. I giudici ritengono che tra Dalla Chiesa e Pecorelli ci sia stata, in seguito, una sorta di

trattativa sul documento che il giornalista intendeva pubblicare. Del resto era stato lui a consentire

il ritrovamento, grazie a una soffiata che gli sarebbe arrivata, come vedremo, da ambienti della

Magliana. I collaboratori di «OP» hanno confermato che Pecorelli, il giorno dell'omicidio,

aspettava con impazienza una busta che doveva arrivare da Milano, e in quel periodo Dalla Chiesa si

trovava proprio nel capoluogo lombardo. I giudici di Perugia, come sappiamo, danno molta

importanza alla relazione temporale tra gli incontri di Mino con il generale e gli articoli pubblicati

dal giornalista.

Nel numero di «OP» datato 16.1.1979, Pecorelli pubblica l'articolo "Vergogna buffoni", dove

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preannunciava una rivisitazione del caso Moro e faceva riferimento, come se si trattasse di

fantapolitica, alle trattative miranti a ottenere la liberazione dello statista che non erano andate in

porto perché qualcuno, a un dato momento, aveva giocato al rialzo, pretendendo una partita che

non poteva essere accettata, sicché le BR avevano ucciso Moro. Anche in questo caso l'incontro tra

il generale Dalla Chiesa e la pubblicazione dell'articolo è tale che è veramente difficile pensare a una

coincidenza, scrivono i giudici nella motivazione.

In definitiva tutte le testimonianze finiscono per confermare quella di Buscetta, e quanto lui

afferma di aver saputo nell'82 da Badalamenti. Ma un dubbio c'è: perché Incandela non aveva mai

parlato, neppure dopo la morte di Dalla Chiesa, dei suoi incontri con il generale e del ritrovamento

del Memoriale? Il maresciallo ha dato una risposta molto semplice: «Avevo paura, quando Dalla

Chiesa era vivo godevo di qualche protezione, per un certo periodo ho avuto anche una scorta... le

mie figlie erano guardate. Poi sono stato lasciato completamente solo». Non si può dar torto a

Incandela, visto che è l'unico sopravvissuto di questa micidiale partita a scacchi attorno ai verbali

delle Brigate Rosse. Ma ha detto la verità? Il maresciallo ha raccontato di averne parlato con alcuni

colleghi e superiori nel corso degli anni. E una conferma della sua versione la Procura alla fine è

riuscito a scovarla: l'ex direttore del carcere di Cuneo, Angelo Zaccagnino, interrogato dai PM di

Perugia, ha raccontato che Incandela gli parlò dell'incontro con Dalla Chiesa e Pecorelli nel '91, un

anno prima del ritorno in Italia di Buscetta. Dunque aveva già parlato di questa vicenda prima di.

Buscetta, anche se la sua testimonianza è stata raccolta dopo Buscetta. Per i PM è sufficiente a

sgombrare il campo da possibili interferenze tra le due deposizioni, una conferma ante quam della

veridicità dei fatti.

Il contesto In ogni delitto c'è un movente. Il movente è ciò che determina il delitto, 1'"interesse" che

si nasconde dietro il più arcaico atto di difesa nei confronti di una minaccia esterna. Per i giudici

d'appello di Perugia, nella drammatica decisione di Andreotti ci sarebbe stata anche una forte

componente politica, per la portata destabilizzante che avrebbe avuto la pubblicazione di ampi

stralci del Memoriale Moro, quelle pagine drammatiche che lo statista appena un anno prima aveva

scritto nel "Carcere del Popolo", rispondendo alle BR nel corso del "processo" alle trentennali

responsabilità della DC. Una preoccupazione, quella di Andreotti, che s'intrecciava al danno che

avrebbe personalmente subito dalle accuse che Moro gli aveva rivolto. Scrivono i giudici: A quanto

ha raccontato lo stesso Andreotti agli inizi del 79, pur avendo avuto la possibilità di ottenere la

fiducia, grazie alla scissione verificatasi all'interno dell'ivisl e alla nascita della Democrazia

Nazionale, che aveva consentito lo sdoganamento di un certo numero di voti, per onorare l'impegno

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assunto con il PO, al momento della votazione aveva fatto allontanare un paio di senatori

democristiani in «modo da far andare sotto il governo». Questo non comportava l'automatico

scioglimento delle Camere ma è certo che i suoi sforzi andavano in direzione delle elezioni

anticipate.

Elezioni che qualche mese dopo in effetti avvennero, senza che si realizzasse il temuto sorpasso del

PCI sulla DC; anzi i comunisti persero venticinque seggi: Il momento era delicato, la pubblicazione

delle notizie in possesso di Pecorelli avrebbe potuto causare un danno non solo alla persona di

Andreotti, ma al suo stesso partito e comportare uno spostamento di parte dell'elettorato verso il

PCI. Il movente acquista dunque una credibilità particolarmente rilevante.

Sulla nota vicenda della cena alla "Famiglia Piemunteisa", avvenuta ai primi di marzo, quando

Pecorelli si incontrò con Vitalone, il generale Donato Lo Prete e il giudice Carlo Adriano Testi, la

Corte sostiene che i testimoni abbiano smentito la tesi della difesa, e cioè che l'incontro fosse stato

sollecitato dal sottosegretario Franco Evangelisti, all'epoca stretto collaboratore di Andreotti, in

difficoltà per una storia di falsi quadri De Chirico, su cui Pecorelli aveva già date» qualche

anticipazione in un articolo. Sostengono i giudici che la trattativa economica svoltasi durante la

cena tra l'entourage andreottiano e il giornalista riguardava invece la vicenda degli "Assegni del

Presidente", ovvero quei fondi neri, elargiti dalla SIR di Rovelli a partiti politici, nell'ambito dello

scandalo Italcasse: La difesa di Andreotti ha sostenuto che, dato per ammesso che la trattativa sia

stata voluta da Andreotti e che ciò fosse avvenuto per evitare la pubblicazione degli "Assegni del

Presidente", non vi sarebbe stato alcun motivo per volere la morte di Pecorelli, il cui silenzio ormai

era stato ottenuto [...]. La tesi non può essere condivisa: come hanno anche evidenziato i primi

giudici, nel capitolo sesto della sentenza, questi era un giornalista ben introdotto negli ambienti più

diversi sì da avere la possibilità di venire a conoscenza di documenti riservati e notizie scottanti, ma

la caratteristica di Pecorelli era che una volta venuto in possesso di importanti notizie egli le

pubblicava e consentiva anche ai colleghi, che lavoravano ad altri giornali, di attingere alle sue fonti,

perché il suo unico interesse era che la notizia avesse la massima diffusione. E nel fare ciò non aveva

riguardo né per gli amici né per i potenti, né per chi lo sovvenzionava, sicché l'aver concorso

economicamente Pecorelli non avrebbe consentito ad Andreotti di dormire sonni tranquilli. Né

appare valido l'altro argomento difensivo che elecla una via, non daturrecursus ad alleram, essendo

ben possibile che, prima di decidere l'eliminazione del giornalista o durante il tempo necessario a

organizzare l'agguato mortale, si sia ritenuto di blandirlo attraverso sovvenzioni di cui Pecorelli

aveva sicuramente bisogno e che potevano servire a ritardare se non impedire la pubblicazione delle

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notizie relative al sequestro Moro.

Interessante è vedere come il processo ad Andreotti abbia consentito di rivalutare la figura di Mino

Pecorelli, più volte descritto come un volgare ricattatore. Ma di questo parleremo diffusamente più

avanti.

Andreotti avrebbe rivolto ai Salvo la richiesta, stando all'accusa di Buscetta.Ma l'assenza di ogni

riscontro obiettivo e il fatto che tutti i protagonisti siano morti, a esclusione di Tano Badalamenti

(che più volte interrogato negli USA ha mantenuto un atteggiamento ambiguo, contrattando sul

proprio rientro in Italia), pone l'intera ricostruzione nel limbo delle ipotesi. E l'elemento più debole

della versione di Buscetta, ammettono i giudici, è che «non vi sono testi o collaboratori di giustizia

che abbiano dichiarato che simile richiesta vi fu». Ma difficilmente potrebbero esserci testimoni,

riafferma la sentenza di Perugia, perché «Andreotti è persona estremamente prudente, che ha

sempre cercato di non esporsi direttamente, tanto che in casi molto meno gravi dell'omicidio ha

fatto ricorso a intermediari per fare conoscere i suoi desiderati]». Risponde la difesa: «Siamo arrivati

all'assurdo che la prudenza sia considerata elemento di prova». E arriviamo per questa strada al

controverso capitolo del "consenso tacito", cioè all'ipotesi di un mandato" non manifestamente

espresso da Andreotti, ma tale da indurre l'interlocutore a comprendere quale fosse il suo desiderio.

La difesa, come abbiamo accennato, chiede la nullità della sentenza proprio a partire da questa

assunzione. Vediamo come la motivano i giudici di Perugia: Quand'anche si voglia ipotizzare che i

Salvo possano aver deciso autonomamente di uccidere Pecorelli, della cui pericolosità potrebbero

essere venuti a conoscenza per un tramite diverso da Andreotti, non è pensabile che abbiano

realizzato il loro intento criminoso senza consultarsi con il diretto interessato prima di darvi corso.

Non solo perché si trattava pur sempre di sopprimere un uomo, ma soprattutto, si trattava di «fare

un favore» di non poco conto a un'altra persona, dalla quale ci si attendeva di essere alla prima

occasione ricambiati. Per questo era necessario che la persona approvasse preventivamente

l'operazione, in caso contrario, piuttosto che ottenerne la gratitudine, se ne sarebbe avuta la

riprovazione.

Ancora una perfetta sintonia con Buscetta, che nel '96 aveva affermato: «La deduzione nasce dalla

praticità della vita: non si può andare a fare un omicidio a Roma senza avvisare la parte».

Andreotti ha costantemente negato, nell'arco dei dieci anni del processo, di aver mai conosciuto

Nino e Ignazio Salvo. Nella sentenza di primo grado, i giudici di Palermo, che pure lo hanno assolto

dal reato di associazione mafiosa, hanno liquidato la faccenda asserendo che l'imputato mentiva:

ben otto bugie, delle trentaquattro che gli sono state contestate, secondo il presidente della Seconda

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Sezione del Tribunale di Palermo Francesco Ingargiola, riguardano proprio i rapporti personali tra

il senatore e i due esattori siciliani, che negli anni Settanta erano considerati i maggiori sostenitori

della corrente andreottiana in Sicilia.

La cosa straordinaria, in questo breve resoconto del processo a Giulio Andreotti, sta nel fatto che a

mettere in crisi l'uomo più potente della Prima Repubblica, il politico più accorto e sottile della DC,

il più abile difensore di se stesso, sia stato non un avversario politico, dei tanti che ha avuto, e

neppure il Tribunale dei ministri, che lo ha convocato ventitré volte, ma il pentito di mafia

Tommaso Buscetta; dopo morto, per giunta, e in una fase in cui il "pentitismo" non sembra godere

di particolare credito. Il caso Andreotti, qualunque sia l'opinione di ciascuno rispetto alle vicende

appena illustrate, rappresenta l'assoluta singolarità di un pezzo di storia italiana. In uno dei suoi

libri più famosi, contesto, lo scrittore agrigentino Leonardo Sciascia scriveva: A un certo punto la

storia cominciò a muoversi in un paese del tutto immaginario; un paese dove non avevano più corso

le idee, dove i principi - ancora proclamati e conclamati - venivano quotidianamente irrisi, dove le

ideologie si riducevano in politica nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il

potere per il potere contava. Un paese immaginario, ripeto.

Un paese immaginario dove reali sono però stati omicidi, stragi, faide politiche. Reali al punto che

ogni evento non poteva che essere concepito se non in termini di una trama o di un complotto,

dietro cui s'intuiva l'ombra di un potere supremo e sconosciuto, in grado di preservare soltanto se

stesso, attraverso continui rivolgimenti e assestamenti. Fino all'ultima strage e all'ultimo

complotto, nella cui rete è rimasto impigliato, imprevedibilmente, proprio lui, Andreotti. Una

storia unica diventata materia di processo, e se vogliamo davvero comprenderla dobbiamo avere il

coraggio di setacciare, di scavare fino in fondo, per distinguere verità e menzogna.

Le motivazioni: Palermo Il dottor Jekyll e Mister Hyde Le motivazioni della sentenza d'appello di

Palermo, depositate il 27 luglio 2003, sono l'ultimo e (forse) definitivo verdetto sui rapporti tra

Andreotti e la mafia. Ebbene sì, scrivono i giudici, Andreotti ha realmente intrattenuto rapporti con

i boss almeno fino all'inizio degli anni Ottanta. Un comportamento che non fu «solo moralmente

scorretto», o segno di «una vicinanza irrilevante» ad ambienti mafiosi, ma che si configura come

«una vera e propria partecipazione all'associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel

tempo». Parole nette e chiare, pesantissime per il sette volte presidente del Consiglio, appena

mitigate dal fatto che i giudici gli hanno riconosciuto di aver in seguito preso coscienza della

pericolosità criminale del fenomeno mafioso e di averlo combattuto.

Il crinale che separa i comportamenti di Andreotti, questo dottor Jekyll della politica italiana, è

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l'omicidio di Piersanti Mattarella. L'uccisione del presidente della Regione Siciliana, avvenuta il 6

gennaio 1980, diventa, attraverso la lettura offerta dalle motivazioni della Corte d'Appello di

Palermo, la dolorosa presa d'atto della vera natura criminale della mafia, che consentirà ad

Andreotti di intraprendere la strada del suo riscatto morale e politico, fino a mettere a repentaglio la

sua vita, quella dei suoi familiari e dei più stretti collaboratori. La sentenza di secondo grado ha però

ribaltato, sia pure limitatamente a un determinato arco temporale, l'assoluzione dei primi giudici

riconoscendo che tra Andreotti e la mafia c'è stato un patto che travalicava i confini della Sicilia.

Affermazioni che forse stupiranno anche i lettori più attenti che in questi anni si sono sentiti

ripetere, a ogni decisione giudiziaria sul senatore, che le accuse dei pubblici ministeri si erano

rivelate infondate o farneticanti, frutto di una gestione pilotata dei pentiti. A conclusione del

processo di merito, sia a Perugia che a Palermo, in realtà l'unica certezza è che Andreotti non è stato

affatto assolto. Se per il presidente della Corte d'Assise di Perugia, Gabriele Lino Verrina, è

assolutamente certo che Mino Pecorelli sia stato ucciso dalla mafia nell"'interesse" dell'allora

presidente del Consiglio, per i giudici d'appello di Palermo, almeno negli anni Settanta, Andreotti

coltivò «un'autentica, stabile e amichevole disponibilità» verso i mafiosi e per un lungo periodo ha

anche «concretamente agito per agevolare il sodalizio criminale».

E non è pura follia, o frutto di persecuzione giudiziaria, aver ipotizzato incontri "ravvicinati" con i

boss di quella che viene definita l'ala moderata di Cosa Nostra, ovvero Stefano Bontate e Tano

Badalamenti: perché questi sono realmente avvenuti, proprio come hanno raccontato i pentiti

storici di Cosa Nostra e confermato i più recenti collaboratori di giustizia, da Nino Giuffré a Pino

Lipari. Quand'anche la Cassazione cancellasse la condanna per omicidio, resterà agli atti questo

inappellato giudizio. Nel momento in cui scriviamo alla decisione della Suprema Corte mancano

ancora un paio di mesi, e gli avvocati non hanno ancora deciso se ricorrere o no anche nei confronti

del verdetto di Palermo. Vedremo perché.

Ma poiché tutto ciò chiama in causa Andreotti, e non un altro mortale cittadino, non deve stupire

che la monumentale ricostruzione fatta dai giudici di appello (sei volumi divisi in quattro parti e 45

capitoli per complessive 1520 pagine), giusta o sbagliata che sia, non abbia minimamente scalfito

l'immagine e la popolarità di cui tuttora gode il sette volte presidente. E invece di innescare una

qualche riflessione sulle conseguenze che tale comportamento può aver avuto sulla nostra storia più

recente, la sentenza è stata sostanzialmente ignorata, se non volutamente stravolta, per quella

strategia del silenzio o della disinformazione che abbiamo già visto in azione ad ogni verdetto.

Anzi in quest'occasione, per gli strani motivi che vedremo, le dure parole dei giudici hanno sortito il

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singolarissimo effetto di non essere particolarmente dispiaciute né al senatore né ai suoi sostenitori.

Se la prima parte della sentenza ha soddisfatto i PM, che hanno visto riconosciuto nella sostanza

l'atto di accusa, la seconda non ha scontentato la difesa, perché Andreotti si sarebbe sì incontrato

con i boss e sarebbe stato intimo amico dei Salvo, cosa da lui sempre strenuamente negata, ma

soltanto fino alla primavera 1980.

La "fortuna" di questo verdetto, pagina dopo pagina, è che sembra fatto apposta per accontentare

tutti, anche se si procede nella lettura come sotto una doccia scozzese: dopo il getto d'acqua calda

viene quello gelido, al punto da indurre al sospetto che il linguaggio a volte schizofrenico

dell'estensore nasconda un qualche recondito obiettivo, al momento in verità poco chiaro. I pareri

sono stati discordi: c'è chi ha giudicato questa sentenza "buonista" fino all'ingenuità e chi

"raffinatissima" e densa di trappole. Dentro c'è un Andreotti-Jekyll che è un po' diavolo, poi un

Andreotti-Hyde che è quasi un santo. Anche se ciò non lo mette in salvo dall'essere accusato di

mafiosità fino all'80, reato del quale risponderà alla Storia, scrivono i giudici, visto che la giustizia

terrena è arrivata un po' in ritardo.

Che le motivazioni della sentenza d'appello di Palermo, depositate alla fine di luglio 2003,

sarebbero state portatrici di grandi novità era stato chiaro fin da quando il giudice Scaduti, il 2

maggio, aveva letto quel dispositivo con il quale la Corte, come Salomone, spaccava in due la

sentenza di primo grado trasformando l'assoluzione in prescrizione per il primo dei reati contestati

ad Andreotti, quello di associazione per delinquere,valido fino al 1982. La questione era capire con

quali argomentazioni i secondi giudici fossero entrati nel merito delle accuse. Il presidente Scaduti

non si è sottratto a quest'onere, motivando la sua tesi in centinaia di pagine nelle quali vengono

ricostruiti, sotto una luce del tutto nuova, i più importanti capitoli del processo: dal rapporto con i

cugini Salvo, fino al caso Moro e al delitto Pecorelli.

Su quest'ultimo punto la difesa del senatore ha manifestato il massimo dell'ottimismo, convinta che

la sentenza di Palermo apra la strada all'annullamento della condanna dei giudici perugini. Anch'io,

come molti, ritengo che la Cassazione finirà per annullare i 24 anni di pena inflitti ad Andreotti:

l'unica remota alternativa è che la sentenza "imperfetta" dei giudici di Perugia, debole nella

definizione del mandato omicidiario, possa essere annullata con rinvio degli atti a Roma, che dopo

l'assoluzione del giudice Vitalone potrebbe a buon diritto tornare ad essere la legittima titolare

dell'inchiesta sull'omicidio Pecorelli. Una scelta coraggiosa che consentirebbe di non vanificare i

risultati di una lunga inchiesta che, partendo dall'omicidio del "giornalista che sapeva troppo", ha di

fatto riaperto le indagini sul delitto Moro alla luce di nuove importanti acquisizioni. Ma a rendere

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improbabile una decisione del genere, che inevitabilmente condurrebbe quello ad Andreotti sulla

nota strada del "processo infinito", c'è la tarda età dell'unico, eccellentissimo imputato.

Detto questo, ho qualche dubbio che sul giudizio della Suprema Corte possano influire le

contraddittorie valutazioni dei giudici palermitani. Forse è avvenuto il contrario: la condanna di

Perugia potrebbe aver indotto alla revisione della sentenza di Palermo. Non bisogna dimenticare

che Pecorelli è stato ucciso nel '79, proprio nel periodo in cui Andreotti avrebbe intensamente

frequentato i cugini Salvo e si sarebbe incontrato a Roma con Badalamenti, coltivando quegli

"ottimi rapporti" con l'ala moderata di Cosa Nostra cui viene addebitato l'omicidio del giornalista. E

l'esistenza del patto tra Andreotti e la mafia che rende «plausibile» agli occhi dei giudici palermitani

il movente del delitto Pecorelli, anche se questo non basta a dimostrarne la "fattualità".

La «specialissima» credibilità di Mannoia e la rottura dei patti La rottura tra Andreotti e i boss non

sarebbe avvenuta nel marzo '92 con l'uccisione di Salvo Lima, dopo il "tradimento" del

Maxiprocesso, versione Buscetta. Ma molti, molti anni prima: nella primavera del 1980, dopo un

burrascoso colloquio con il Principe di Cosa Nostra, cioè Bontate,che verteva sull'uccisione di

Piersanti Mattarella. Solo in quel momento l'uomo più potente d'Italia, il politico finissimo - di cui

neppure il più fiero avversario ha mai messo in dubbio fiuto, intelligenza e acutezza - avrebbe

finalmente aperto gli occhi e capito che la mafia non era una benemerita associazione folcloristica,

cui andava il merito di tenere a bada la malavita e garantire vittorie elettorali, bensì una pericolosa

organizzazione criminale che non esitava a ricorrere all'omicidio colpendo anche le istituzioni e gli

uomini al suo servizio. Andreotti lo avrebbe scoperto tra la fine del 79 e l'inizio dell'80, quando Cosa

Nostra cominciò ad uccidere poliziotti, magistrati e uomini politici, e da quel momento avviò un

graduale distacco che impedirà ai corleonesi di Totò Riina, usciti vittoriosi come vedremo dalla

guerra di mafia, di usufruire di quei favori politici di cui aveva goduto la precedente gestione di Cosa

Nostra.

Convinca o no questa tesi, non si può negare che abbia una qualche credibilità storica: il corso

impresso dai corleonesi a Cosa Nostra, a partire dalla mattanza che a cavallo degli anni Ottanta ha

raggiunto i mille morti, era in effetti poco conciliabile perfino con gli interessi più occulti della

politica. Dunque da quel momento in poi Andreotti ha mutato atteggiamento anche se, a ben

leggere nelle carte, il senatore non si sarebbe riuscito a liberare tanto facilmente del gravame che i

precedenti rapporti con uomini di Cosa Nostra comportavano. In qualche occasione s'intravede

l'ombra del ricatto o di latenti minacce da parte dell'ala più sanguinaria dell'organizzazione, cui il

presidente però resiste, e con coraggio. Nell'81 - lo riferisce Giovanni Brusca - in piena guerra di

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mafia Andreotti fa pervenire ai boss un messaggio nel quale li avverte che potrebbe essere costretto a

varare leggi speciali se la mattanza non fosse immediatamente finita. In ogni caso, l'idillio con Cosa

Nostra si era consumato e al suo posto era subentrata una forte reciproca diffidenza. Da quel

momento in poi, se qualche rapporto con i boss fu inevitabile - è scritto nella sentenza - deve essere

considerato «strumentale e fittizio» e non frutto di autentica intesa.

Se l'arbitro incontrastato del processo di Perugia è stato il pentito Tommaso Buscetta, il merito di

aver convinto i secondi giudici va senz'altro a Francesco Marino Mannoia, detto Mozzarella, di cui

la Corte d'Appello di Palermo ha apprezzato la «specialissima» credibilità. Il pentito appartiene a

una generazione di boss più giovani di Masino, ma come lui fa parte dei collaboratori di giustizia

che hanno trovato accoglienza negli USA e che godono della protezione garantita dal Marshals

Service, la struttura che oltreoceano, fra le altre cose, gestisce e controlla i pentiti di mafia. Il

patrimonio di conoscenze cui può attingere Mannoia gli deriva dall'essere stato negli anni Settanta

autista e guardiaspalle di Stefano Bontate, oltre che dall'essersi imparentato con un'importante

famiglia di Cosa Nostra dopo il matrimonio con Rosa, la figlia più amata del boss Pietro Vernengo.

Matrimonio d'interesse a quanto sembra, deciso dal gotha mafioso, cui Mozzarella avrebbe voluto

sottrarsi perché pazzamente innamorato di un'altra donna, Rita, già madre di due suoi figli, che lo

ha poi seguito nella decisione di rompere con la mafia e nella fuga all'estero.

Quest'amore contrastato fu una delle prime cose che Mannoia raccontò a Falcone: il boss era

disperato, convinto di non rivedere più la sua donna, temeva la vendetta di Vernengo che mal aveva

tollerato che la figlia fosse stata tradita e abbandonata. Una di quelle storie che portò il giudice a

raccontare nel suo libro di memorie, Cose di Cosa Nostra: «Siamo abituati a considerare i mafiosi

come uomini che non hanno una vita privata e invece ne ho conosciuti tanti che sono tormentati

dalle questioni di cuore e da storie di donne». La temuta vendetta arrivò puntuale, nel novembre

1989, pochi mesi dopo l'inizio della sua collaborazione. Il doppio tradimento del pentito, alla mafia

e alla famiglia, fu pagato con una strage: in un agguato gli uccisero la madre, la zia e la sorella. Un

segnale dell'imbarbarimento di Cosa Nostra, che fino a quel momento aveva risparmiato le donne.

Ma Francesco Marino Mannoia non si lasciò intimidire e dopo l'omicidio di Falcone, come

Buscetta, ha accettato di tornare in Italia, benché non avesse alcun interesse e alcuna voglia di

lasciare il suo rifugio americano dove era riuscito a ricostruirsi, al fianco della sua Rita, un'esistenza

tranquilla. La sua collaborazione era stata ritenuta eccezionale sotto il profilo militare: con il suo

aiuto alla fine degli anni Ottanta erano stati identificati e catturati centinaia di boss. Ma a leggere

quest'ultima sentenza, sembra che il contributo sia stato ancor più rilevante, perché è stata proprio

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la sua ricostruzione ad aver influenzato il verdetto di parziale condanna della Corte d'Appello di

Palermo.

L'importanza di Marino Mannoia, come teste del processo Andreotti, era di aver assistito a due

incontri tra Pallora presidente del Consiglio e il boss Stefano Bontate. Il primo sarebbe avvenuto

nell'estate del 79, nella tenuta di caccia "la Scia" vicino Catania e l'altro, cui abbiamo già accennato,

a Palermo nella primavera '80. Dunque, prima e dopo l'omicidio Mattarella. Meno precisa la prima

testimonianza, più dettagliata la seconda: ma è stato Mannoia ad accendere i riflettori sul significato

dirompente che assunse l'omicidio del presidente della Regione nei precari equilibri interni alla DC

siciliana stretta tra politica e mafia.

Nel primo incontro Andreotti sarebbe intervenuto per ricomporre il dissidio di cui rischiava di fare

le spese Mattarella; nel secondo sarebbe volontariamente «sceso» in Sicilia per affrontare Bontate e

rimproverarlo per quanto era successo, «erratamente convinto», così almeno scrivono i giudici, che

la sua autorevolezza e il suo peso sarebbero stati tenuti in considerazione dal boss. Il Principe reagì

invece duramente: «A Palermo comandiamo noi, questi sono i nostri metodi, se non vi stanno bene

fatevi votare al Nord che sono tutti comunisti. Noi vi leviamo tutti i voti della Sicilia e anche quelli

della Calabria». Questa l'arrogante risposta alle lagnanze di Andreotti. Una reazione che deve averlo

fatto riflettere sulla pericolosità di certe relazioni.

Ma perché Mannoia è così altamente credibile al punto da mettere in ombra perfino Buscetta?

Scrivono i giudici: Va sottolineato che le dichiarazioni di Marino Mannoia, a differenza di altri

collaboratori, sono intervenute quando gli elementi della indagine a carico del senatore Andreotti

non avevano ancora acquisito sviluppo e notorietà, solo successivamente assunti, cosicché le stesse

appaiono frutto del sincero e notevole sforzo di superare la atavica remora a parlare di rapporti tra

Cosa Nostra e personaggi politici, oggettivamente suscettibile di esporre il propalante e gli stessi

inquirenti [...]. In particolare mette conto rimarcare come nessuna fonte prima del pentito Mannoia

avesse parlato di rapporti diretti fra il sen. Andreotti e i cugini Salvo [...]. Marino Mannoia non

denuncia affatto intenti persecutori nei confronti dell'imputato, posto che egli non ha affatto

accreditato la tesi di accusa che trova la sua sintesi nella imputazione di associazione mafiosa

successiva al 1982.

Quello che è più piaciuto della testimonianza del pentito è che Mannoia, pur palesando una diretta

conoscenza dei rapporti tra Andreotti con la fazione che faceva capo a Bontate, non ha esitato a

mettere in dubbio che tali rapporti fossero proseguiti, dopo la morte del Padrino avvenuta

nell'aprile 1981, anche con i corleonesi. Ecco come il pentito spiega le successive difficoltà: In

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questo contesto [dopo la guerra di mafia dei primissimi anni Ottanta] successivo alla morte di

Bontate, Riina e i suoi cercavano anche la fiducia di Andreotti. Ho sentito che non si sono trovati

bene con lui, nel senso che Andreotti non è risultato disponibile come era tempo prima. Tanto è

vero che fu deciso di dare una dimostrazione ad Andreotti, facendo pervenire (anche all'Ucciardone)

l'ordine - per tutti gli uomini d'onore - di far votare in tutta la Sicilia il PSI e in particolare Martelli e

un candidato di Partinico che mi pare si chiamasse Filippo Fiorino [...].

Tutto questo in realtà accade molti anni dopo, nell'87, quando i rapporti tra Andreotti e Cosa

Nostra dovevano essersi già abbondantemente logorati, almeno stando alla lettura dei giudici

palermitani. Ma certamente in quell'occasione, che anticipa di qualche mese la prima pesante

condanna dei boss al Maxiprocesso, il senatore deve aver avuto la conferma che la mafia in fin dei

conti non aveva alcuna possibilità di spostare consistenti pacchetti di voti dalla DC a un altro

partito, in particolare il PSI, ritenuto troppo a sinistra negli ambienti di Cosa Nostra. Furono in

molti, nel segreto dell'urna, a disattendere l'ordine dei capimafia. Lo hanno confermato gli ultimi

pentiti, Giuffré e Lipari. «Neppure il mio di voto si presero», ha detto quest'ultimo.

Il potere di contrattazione sull'esito del Maxiprocesso da parte di Toto riina, soprattutto dopo le

elezioni, fu perciò assai inconsistente. Anche per questo i giudici d'appello non hanno creduto al

famoso incontro al bacio, nella casa di Ignazio Salvo in via Libertà.

Quel confusionario di Buscetta Il colpo più duro inflitto a Buscetta da Mannoia riguarda il capitolo

dell'«aggiustamento giudiziario», che è stato il cavallo di battaglia di Masino nelle sue accuse al

Presidente. Sappiamo come per il Boss dei Due Mondi l'intero patto tra Andreotti e Cosa Nostra

verteva sui favori che l'influente uomo politico poteva garantire a Roma e tra questi c'erano

naturalmente le assoluzioni ottenute a piene mani dai boss in Cassazione. Invece a Mozzarella non

risultano pressioni di Andreotti sul giudice di Cassazione Corrado Carnevale (di recente

definitivamente assolto dall'accusa di concorso esterno) e neppure che ci siano stati impegni da lui

presi nel corso del Maxiprocesso. Va detto, a difesa di Masino, che non ha mai parlato di fatti

avvenuti dopo la sua uscita da Cosa Nostra, databile nei primi anni Ottanta e divenuta definitiva

dopo l'arresto, avvenuto nell'84. L'ipotesi che l'omicidio di Lima, come anche la strage in cui è

morto il giudice Falcone, trovino una logica motivazione nelle pesanti condanne subite dai boss al

Maxi era, come sappiamo, soltanto il frutto di una convinzione che scaturiva dalla profonda

conoscenza che Buscetta ha mostrato di avere dei pregressi rapporti tra Andreotti e i suoi amici

Bontate e Badalamenti,oltre che delle logiche mafiose.

Ma i giudici di Palermo, in definitiva, hanno creduto o no ai teoremi di Buscetta? La difesa ha

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accolto con grande euforia quei giudizi della Corte d'Appello che tendono a "smitizzare" la figura

del pentito, sottolineando le debolezze e le imperfezioni della sua testimonianza. In qualche

passaggio ad esempio si afferma che alcune dichiarazioni di Buscetta in merito al processo Rimi e

all'omicidio Pecorelli «sono oscillanti, vaghe e confuse». Oppure si dice che il collaboratore «aveva

cognizioni soltanto approssimative e lacunose, colmate di volta in volta alla rinfusa da

contraddittorie informazioni probabilmente desunte anche da frammentarie informazioni attinte

dai mass media».

In realtà questi giudizi non intaccano l'impianto accusatorio di Masino, che mostra di reggere sui

punti cardine, incastrandosi perfettamente con le più attendibili dichiarazioni di Mannoia.

Partiamo dall'inizio, ovvero dai supposti rapporti di amicizia che Andreotti aveva con Lima e i

Salvo, che per i giudici di Palermo rappresentano la chiave del suo ingresso nel gotha mafioso dei

Bontate e dei Badalamenti. Non potendo negare i rapporti con Lima, sappiamo che l'illustre

imputato ha impostato tutta la sua linea di difesa asserendo di non aver mai neppure incontrato i

Salvo, fino a rasentare l'assurdo, quando ha affermato di non sapere chi fosse l'anfitrione che

all'hotel Zagarella aveva organizzato un sontuoso banchetto in suo onore. Un capitolo chiave

dell'intero processo anche per via delle foto che lo ritraevano al fianco di Nino, il più anziano dei

due cugini.

La scelta della difesa, per quanto debole, è però comprensibile: ammettere il rapporto con i Salvo

avrebbe di fatto convalidato l'assunto iniziale dell'impianto accusatorio, soprattutto per quanto

riguarda l'omicidio Pecorelli.Quella frase, pronunciata da Badalamenti a Rio de Janeiro - «'u ficimo

nuatri Pecorelli, perché ce l'hanno chiesto i Salvo» - è il punto di partenza di tutte le successive

disgrazie del senatore. Ebbene Buscetta, che è stato grande amico di Lima e anche di Nino Salvo,

tanto da trascorrere in casa di quest'ultimo le vacanze di Natale nel 1980, aveva una conoscenza

"interna" delle relazioni politiche di Cosa Nostra. Ma, come dicono i giudici, non poteva che

riportare chiacchiere. Mannoia, pur appartenendo al rango inferiore di Cosa Nostra, ha supplito

alla lacuna perché è stato in grado di riferire dei rapporti diretti, personali, che intercorrevano tra

Andreotti e i Salvo, avendo visto con i suoi occhi che erano stati proprio loro ad accompagnarlo con

l'auto blindata all'appuntamento con Bontate. Vedremo più avanti, spigolando tra le carte, come

quest'incastro tra le due testimonianze si ripeta anche nell'intera ricostruzione della vicenda

Pecorelli.

Le contraddizioni avvalorano la credibilità dei pentiti e i giudici d'appello ribadiscono il concetto

più volte sostenuto dalla Suprema Corte: quando un collaboratore è pilotato non sbaglia le date,

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arriva in aula più preparato: la confusione avvalora la genuinità della collaborazione di Buscetta.

Anche Mannoia ha fatto qualche pasticcio. In una prima fase, ad esempio, aveva raccontato che

Bontate si era mostrato infuriato per l'omicidio del presidente della Regione. Allora perché nel

confronto con Andreotti aveva sostenuto la linea dura? L'interpretazione dei giudici è che non c'è

contraddizione: il Principe, pur non avendo condiviso la decisione di uccidere Mattarella (un delitto

voluto dai corleonesi), non poteva sminuire agli occhi del presidente il proprio ruolo di capo e in

uno scatto di orgoglio mafioso aveva difeso la scelta. Mannoia si è certamente sbagliato, però,

quando ha collocato Mattarella all'interno della corrente andreottiana, ma questo per i giudici rivela

soltanto la scarsa conoscenza da parte del pentito delle vicende politiche, e non mette in dubbio la

sua attendibilità. Quanto al fatto che abbia erroneamente indicato Francesco Davi come possibile

killer di Mattarella, ciò «costituisce un fatto del tutto specifico e marginale» che non mette in

discussione l'affidabilità del racconto su episodi di cui il pentito è stato testimone.

Una lettura "interessata" di questa sentenza tende a sostenere che i giudici d'appello, Mannoia a

parte, abbiano screditato tutti i pentiti addebitando alla volontà di protagonismo, o alla speranza in

qualche beneficio, la maggior parte delle accuse nei confronti di Andreotti. Ci sono in effetti dei

passaggi che possono trarre in inganno, ma fanno parte di quella strategia del "bilanciamento" cui

spesso fanno ricorso questi giudici, quasi a mitigare la gravita delle loro affermazioni. In realtà le

critiche riguardano soltanto pentiti minori, come Enzo ed Emanuele Brusca, o tal Francesco

Corniglia: per il resto la Corte costantemente ribadisce l'attendibilità non soltanto dei pentiti storici

di Cosa Nostra - Buscetta, Mannoia, Mammoliti - ma anche di quelli più recenti come Giovanni

Brusca, Nino Giuffré e perfino Pino Lipari, pentito molto avversato dalla pubblica accusa. Ed è

proprio sulla base di quello che hanno raccontato in aula i collaboratori di giustizia che i giudici si

sono convinti dell'innocenza di Andreotti nel periodo successivo all'80 e del fatto che i suoi rapporti

con Cosa Nostra fossero entrati in crisi dopo lo storico incontro con Bontate.

Cianamino, i delitti politici e la corrente andreottiana Il secondo incontro tra il Principe di Cosa

Nostra e Andreotti sarebbe avvenuto in una villetta nel pieno centro di Palermo, poco distante da

via Pitrè. Sappiamo ormai come la dura reazione del boss abbia fatto capire all'allora presidente del

Consiglio quanto fosse pericoloso intrattenere relazioni con la mafia. Relazioni alle quali, dicono i

giudici, altri uomini politici in quel periodo erano soggiaciuti, a partire dallo stesso Mattarella. Ma

non sembrano tener conto del fatto che quest'ultimo era siciliano: i mafiosi ce li aveva in casa, non li

era andati a cercare. Ed è proprio la gamma di giudizi che la Corte d'Appello esprime sull"'Andreotti

due", ovvero l'Andreotti redento, quella che maggiormente stupisce perché appaiono frutto non di

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fatti specifici ma di semplici deduzioni. A partire dal colloquio intercorso tra Andreotti e il Principe

di Cosa Nostra di cui non si sa molto: Mannoia non vi ha assistito, è rimasto in giardino insieme ad

altri guardiaspalle, tutto quello che è stato in grado di riferire lo ha appreso durante il viaggio di

ritorno, mentre era alla guida della macchina in compagnia del boss. Il pentito è stato ancor meno

eloquente sul contenuto del precedente incontro dell'estate '79, quello nella tenuta della «Scia»,

quando Andreotti avrebbe invitato alla calma e diffidato Bontate dal proseguire con azioni di

violenza nei confronti dei politici siciliani.

Una preoccupazione del tutto comprensibile, dal punto di vista politico prima ancora che

umanitario, considerate le ripercussioni che gravi fatti di sangue all'interno della DC siciliana

avrebbero potuto avere su di lui, ormai considerato il Capocorrente. Anche perché all'epoca del

primo incontro era già stato ucciso Michele Reina (marzo '79), il quale contrariamente a Mattarella

era uomo vicinissimo a Lima. Ma i giudici non si soffermano su queste riflessioni e caricano

l'innnervosimento di Andreotti di significati morali che debordano dal giudizio di merito e

sembrano avere il puro scopo di salvare, per quanto possibile, l'immagine dell'uomo politico di

fronte alla Storia, che i giudici scrivono proprio con la "S" maiuscola. Citiamo: L'omicidio

Mattarella segnò il drammatico fallimento di mettere sotto controllo l'azione dei suoi interlocutori,

dopo la scelta sanguinaria di costoro, promuovendo un definitivo, duro chiarimento rimasto

infruttuoso per l'arroganza del Bontate [...]. Risulta evidente che, a tutto voler concedere alle

ragioni dell'accusa, eventuali - non compiutamente dimostrate - manifestazioni di disponibilità

personale del senatore Andreotti, successive a tale periodo, sono state semplicemente strumentali e

fittizie, comunque non assistite dalla effettiva volontà di interagire con i mafiosi anche a tutela degli

interessi della organizzazione criminale: anzi in termini oggettivi è emerso un sempre più incisivo

impegno antimafia condotto dall'imputato nella sede sua propria della attività politica.

I giudici fanno proprie le deduzioni del pentito sul fatto che lo scopo dei viaggi in Sicilia dell'allora

presidente del Consiglio fosse quello di scongiurare il delitto Mattarella, traendo da ciò la certezza

che Andreotti non possa in alcun modo essere considerato «un sanguinario». Un'affermazione che

può essere letta come un monito a non accettare la condanna per l'omicidio Pecorelli. E in un ardito

confronto tra il comportamento dell'imputato e quello della vittima, cioè tra Andreotti e Mattarella,

si afferma che entrambi avevano fatto l'errore di sottovalutare il fenomeno mafioso e soltanto dopo

fatti cruenti erano approdati alla convinzione che bisognasse prendere le distanze dalla mafia:

Comunque si opini sulla configurabilità del reato, il senatore Andreotti risponde in ogni caso di

fronte alla Storia. Così come la Storia gli dovrà riconoscere il successivo, progressivo e autentico

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impegno nella lotta contro la mafia, condotto perfino a dispetto delle rispettabili tesi giuridiche di

personaggi di sicura e indiscutibile fede antimafia e se si volesse condividere la ricostruzione

prospettata dall'accusa - anche con notevole maestria diplomatica - impegno che in definitiva ha

compromesso, come poteva essere prevedibile, la incolumità di suoi amici e perfino messo a

repentaglio quella sua e dei suoi familiari e che ha seguito un percorso di riscatto che può definirsi

non unico. Si ricordi la già riportata pagina di appello nella quale efficacemente si tratteggia la

parabola dell'eroico presidente Mattarella e il passaggio graduale dalla sottovalutazione del

fenomeno mafioso alla lotta aperta allo stesso.

In verità l'unico a morire è stato molti anni dopo Salvo Lima e sappiamo come non si sia trattato di

una vendetta "spicciola", ma di un piano strategico ad ampio respiro.

Forse una delle cose che ha più rasserenato Andreotti è che i giudici di Palermo non ritengono che

egli abbia mai intrattenuto rapporti diretti e privilegiati con l'ex sindaco di Palermo, Vito

Ciancimino, con il quale si sarebbe incontrato soltanto in quattro occasioni, tra il 1976 e il 1983.

Tale lettura sgombra il campo dal più grave dei sospetti e cioè che l'omicidio Mattarella, come altri

delitti politico-mafiosi di quel periodo, siano maturati all'interno della corrente andreottiana come

velenoso frutto della lotta fratricida tra l'ala moderata di Cosa Nostra e i corleonesi, che avevano la

loro rappresentanza politica in Lima e Ciancimino. I maggiori sospetti sul movente degli omicidi

politici di Palermo, almeno quelli di Reina e Mattarella, muovevano infatti dal duro scontro tra le

vittime e Ciancimino, al quale entrambi avevano negato favori e richieste legate ad appalti che

interessavano imprenditori vicini ai corleonesi. Una vera e propria faida all'interno della roccaforte

andreottiana, così almeno era stata considerata fino a questa sentenza. I giudici d'appello sembrano

voler ignorare questi sospetti e dedicano un intero capitolo alla ricostruzione dell'iter politico di

Ciancimino, al termine del quale si deduce che il «sindaco nelle mani dei corleonesi», come lo definì

Buscetta, era sì un esponente di rilievo della DC siciliana, ma in veste di battitore libero, a capo di

un suo gruppo politico, le cui sorti solo in qualche breve periodo si sono intrecciate con quelle della

corrente andreottiana. Anzi, proprio a causa del suo legame con i corleonesi, Ciancimino aveva

cattivi rapporti con Lima ed era anche mal sopportato dall'ala moderata di Cosa Nostra, in

particolare da Bontate, che aveva una pessima opinione di questo piccolo e arrogante assessore: lo

considerava un «piantagrane» del quale - diceva - la mafia non aveva alcun bisogno, visto che

«potevano arrivare tranquillamente a Roma grazie ai Salvo».

Il contesto descritto è di poco precedente alla primavera '80: siamo alla vigilia della guerra di mafia,

quando i corleonesi alzano il tiro e decidono di colpire i politici che contrastano i loro interessi. Per

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non perdere il controllo dell'organizzazione Bontate è costretto ad avallare i loro piani di morte fino

a mettere in crisi il rapporto con Andreotti, il quale era secondo i giudici «certamente e fieramente

contrario all'omicidio e il cui intervento nella vicenda ha avuto l'unico scopo di tutelare l'incolumità

di Mattarella».Anche se nelle motivazioni gli rimproverano di averlo fatto "dialogando" con i

mafiosi, poiché era «interessato a mantenere buone relazioni con essi, omettendo di denunciarli»,

pur essendo a conoscenza dei loro piani, visto che consentiva ai boss di metterlo a parte di tali

gravissime decisioni «certi di non subire alcuna conseguenza».

Quale sia stato il ruolo di Ciancimino nella vicenda Mattarella non viene approfondito. Ai giudici

interessa soprattutto dimostrare la sua distanza dalla corrente andreottiana, al di là delle

temporanee convergenze. A tal fine prendono anche in esame la testimonianza del boss Frank Di

Carlo che, al processo d'appello della Procura di Novara (sul trasferimento di Leoluca Bagarella e

altri mafiosi siciliani dal carcere di Pianosa a quello di Novara, favore attribuito all'interessamento

di Andreotti), raccontò che Nino Salvo aveva duramente contrastato Ciancimino affermando che

l'assessore era una palla al piede, mal visto in politica e senza elettorato. Bontate,presente

all'incontro, aveva insistito: «Nino Salvo può rivolgersi direttamente ad Andreotti che ha dato modo

di farci vedere che era a disposizione in qualche cosa che l'avevamo disturbato».

Da questa e altre testimonianze i giudici ricavano la conferma delle buone relazioni di Andreotti

con i cugini Salvo e l'ala moderata di Cosa Nostra, mentre non hanno creduto a Giuffré quando ha

raccontato che, più o meno a metà degli anni Ottanta, Totò Riina, non potendosi più fidare di

Lima, avrebbe utilizzato Ciancimino come tramite per arrivare ad Andreotti. A smentirlo è stato

anche Lipari, secondo il quale neppure Riina voleva sentire più parlare di Ciancimino. L'unico

sostenitore di Don Vito era rimasto Provenzano: «Ma tutti lo sfottevano per questa passione che gli

era rimasta per l'ex assessore». L'economo dei corleonesi arriva ad ipotizzare: «Quando Provenzano

decise che bisognava abbandonare la DC per appoggiare i socialisti molti di noi hanno ritenuto che

questa alzata di ingegno fosse di Ciancimino». La scarsa considerazione in cui era tenuto l'ex

assessore, sia negli ambienti politici che in quelli mafiosi, fa dunque escludere secondo i giudici che

egli possa aver sostituito negli anni '80 quel ruolo di cerniera tra Cosa Nostra e Andreotti che era

stato di Lima e dei cugini Salvo.

La trattativa Moro nello "scambio di favori" Non fu soltanto un accordo elettorale quello intercorso

tra Andreotti e i boss. Nonostante il tono apparentemente bonario e comprensivo di alcuni passaggi,

i giudici d'appello manifestano severità sui punti cardine dell'inchiesta, dove sembrano dare

apertamente ragione alle tesi della pubblica accusa. Uno di questi riguarda i vantaggi in termini di

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potere politico che Andreotti avrebbe ricavato dalle sue relazioni mafiose. I rapporti di scambio tra

lui e l'ala moderata di Cosa Nostra, stando alla lettura che ne da la Corte d'Appello, non celerebbero

aleatorie finalità superiori ma interessi del tutto personali: Andreotti usufruiva del solerte attivarsi

dei mafiosi per soddisfare, ricorrendo ai loro metodi, talora anche cruenti, possibili esigenze - di per

sé non sempre di contenuto illecito - dell'imputato o di amici del medesimo [...]. Le amichevoli

relazioni con Bontate e Badalamenti [...] hanno certamente determinato il generico appoggio

elettorale alla corrente andreottiana per altro non esclusivo e non esattamente riconducibile ad una

esplicita negoziazione e, comunque, non riferibile precisamente alla persona dell'imputato.

La tesi è che dal patto con la mafia in definitiva a guadagnarci di più sia stato proprio Andreotti,

visto che, caduta l'ipotesi dell'aggiustamento giudiziario, i boss dai rapporti con i politici potevano

al massimo aspirare a risolvere piccole questioni di carattere quotidiano come la concessione di

licenze edilizie o l'elezione di candidati a loro più vicini. Quella frase, attribuita da Di Carlo a

Bontate, con cui il capomafia sembra dichiararsi soddisfatto che Andreotti si fosse mostrato

disponibile «per qualcosa che l'avevamo disturbato», lascia intravedere ai giudici soltanto

concessioni di piccolo conto. L'interesse di Andreotti a intrattenere buone relazioni con i boss

andava ben più in là. Vediamo: Nel tentativo di spiegare la propensione dell'imputato a intrattenere

personali e amichevoli relazioni con esponenti di vertice di Cosa Nostra, relazioni certamente

propiziate dagli intimi rapporti già intrattenuti con Lima, appare più interessante considerare la

spinta determinata dalla possibilità di utilizzare la struttura mafiosa per interventi che potrebbero

definirsi extra ordinem, ovvero per arrivare, in taluni peculiari casi, a soluzioni difficilmente

raggiungibili seguendo canali ortodossi. In questo quadro [...] potrebbe includersi il tentativo di

interessare la mafia attraverso il Bontate al salvataggio dell'on. Moro, che viene prospettato - in

termini espliciti ancorché in via deduttiva - dal Buscetta che peraltro, nell'ambito di successive

dichiarazioni non ha mancato di rivelare, come gli è accaduto, qualche approssimazione, qualche

incoerenza e qualche imprecisione.

Eccolo lì: il solito svagato Buscetta ha colpito ancora. Non era stato lui a introdurre il capitolo dei

"grandi favori" fatti dai boss ad Andreotti? A raccontare dell'incarico affidatogli da Bontate per

tentare di salvare Moro? A ben vedere la sentenza d'appello fa suo il quadro delineato da

Masino,anche se lo definisce un po' imprecisetto. Ed è questo uno dei passaggi più delicati della

sentenza d'appello, perché conduce al terreno minato della trattativa tra mafia e terrorismo durante

il sequestro del Presidente DC. Il caso Moro entra dunque a pieno titolo nel verdetto di Palermo,

anche se i giudici ne danno una lettura buonista affidando all'iniziativa di Andreotti l'esclusivo

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obiettivo di salvare la vita di Aldo Moro. Vedremo come Buscetta e altri pentiti, lo stesso

«credibilissimo» Mannoia, alludono invece al fatto che da un certo momento in poi non fosse più in

gioco la salvezza dell'ostaggio, che anzi questa non interessava più una parte della DC.

Non si può ignorare il significato dirompente che le affermazioni dei giudici palermitani rischiano

di assumere se sommate all'interpretazione che la Corte d'Assise d'Appello di Perugia da degli stessi

fatti, collegandoli all'intreccio Pecorelli-Dalla Chiesa. In una diversa ricostruzione, i giudici di

Perugia accreditano l'ipotesi che a partire dal 10 aprile 1978 l'obiettivo prioritario della trattativa

segreta non fosse la salvezza di Moro, ma il recupero dei suoi scritti, e cioè del Memoriale. Proprio

quelle carte cui Pecorelli e Dalla Chiesa davano la caccia nel carcere di Cuneo, qualche mese dopo

l'assassinio del leader DC, e che diventano nel processo Pecorelli il "movente politico" dell'omicidio

del giornalista intenzionato a pubblicare il documento.

I giudici di Palermo sembrano sottovalutare il capitolo del Memoriale, o dei Memoriali, asserendo

che la «defatigante» [sic] ricerca attorno ai contenuti segreti delle due versioni, quella del '79 e

quella del '90, sviluppatasi con perizie e controperizie sia da parte dell'accusa che della difesa, si è in

definitiva «dimostrata inutile» perché Dalla Chiesa e Pecorelli non erano in realtà riusciti a trovare

il documento. Una deduzione che, come abbiamo già visto, nasce dal fatto che il maresciallo

Incandela afferma di non conoscere il contenuto di quel centinaio di pagine che nel gennaio '79 fece

recapitare al generale, e dal fatto che, anche in seguito, Dalla Chiesa gli chiese di procacciargli altri

documenti su Andreotti.

La difesa, naturalmente, da enfasi a questo passaggio della sentenza, perché mina la credibilità del

movente omicidiario indicato da Buscetta. Ma la complessa vicenda della sparizione di alcuni scritti

di Moro non si esaurisce, come vedremo a fondo, con il fortuito ritrovamento delle carte in via

Montenevoso. E appare chiaro come Dalla Chiesa abbia continuato a cercare gli originali del

Memoriale. Ma la cosa più interessante è che questa sentenza conferma il diretto intervento di Cosa

Nostra nel sequestro del presidente della DC, un intervento attribuito a una specifica richiesta di

Andreotti. Vedremo più avanti come l'ombra della mafia affiori nella gestione degli ultimi giorni

della prigionia. In ogni caso, il fatto che la Corte d'Appello di Palermo riconosca come realmente

avvenuta l'apertura di una trattativa tra mafia, mala e Brigate Rosse, non smentisce ma rafforza

l'impianto del processo di Perugia, anche se (e questo comprensibilmente fa molto piacere alla

difesa del senatore) sottolinea le contraddizioni e le imperfezioni della testimonianza di Masino.

Ma la testimonianza di Buscetta regge sul punto cardine: Andreotti si era rivolto ai Salvo per

ottenere l'interessamento di Bontate alla liberazione di Moro. Il racconto di Masino, anche su

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questo capitolo, s'incastra con quello di Mannoia che riferisce di una tempestosa riunione dei capi di

Cosa Nostra svoltasi una quindicina di giorni dopo il rapimento del presidente DC, durante la quale

Pippo Calò, sceso da Roma, avrebbe manifestato dubbi sull'iniziativa tesa a salvare la vita

all'ostaggio delle BR: E rivolgendosi a Bontate lo avrebbe avvertito: «Stefano, ma non l'hai capito

che sono loro, gli uomini del suo partito, a non volere che sia liberato».

Pecorelli, un movente «plausibile» La ricostruzione di questi retroscena, legati al caso Moro,

consente ai giudici di Palermo di riconoscere l'«astratta plausibilità» del movente del delitto

Pecorelli, ma soprattutto di non mettere in dubbio la fondatezza della condanna di Perugia nei

confronti di Badalamenti, unico sopravvissuto di quell'ala moderata di Cosa Nostra, cui viene

attribuita la responsabilità dell'omicidio. Il giudizio è riassunto in quattro righe: Mino Pecorelli,

nell'esercizio della sua attività di giornalista, dava o poteva dare fastidio ad Andreotti [...]; Pecorelli

è stato soppresso per ordine dei capimafia Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, su

sollecitazione dei Salvo per favorire Andreotti.

La verità processuale resta dunque quella indicata da Masino: il giornalista romano è stato ucciso

dalla mafia per fare un favore ad Andreotti, che poteva essere «danneggiato politicamente» da

documenti riguardanti il caso Moro che il direttore di «OP» intendeva pubblicare. Quand'anche la

condanna a 24 anni fosse annullata, la Storia con la "S" maiuscola sarà costretta ad ammettere non

soltanto che Andreotti aveva intrattenuto rapporti con la mafia, ma che per questo fu accusato di

essere il mandante di un omicidio commesso dai boss. Per quanto riguarda le responsabilità penali

del senatore, se la soluzione del presidente Verrina è che Andreotti non poteva non sapere, il

presidente Scaduti gli offre però una via d'uscita secondaria: «Ad attivarsi potrebbe essere stato

qualche "solerte sodale" dei molti che frequentavano i cugini Salvo, come Evangelisti, Lima o lo

stesso Vitalone».

Il verdetto di Palermo apre dunque un nuovo scenario nel delitto Pecorelli: se appare poco credibile

che Vitalone o Evangelisti possano essersi fatti avanti per chiedere l'eliminazione del giornalista

senza informare il Presidente, si potrebbe però ancora arguire che il mandato omicidiario sia stato

frutto di "un equivoco", maturato nell'entourage andreottiano, a causa del differente linguaggio

usato dai suoi sodali. I romani, come Andreotti"ignari" della pericolosità criminale dei loro

interlocutori, non avrebbero valutato le terribili conseguenze che potevano avere le loro lagnanze su

Pecorelli. I cugini siciliani, convinti di aver ricevuto l'ordine di uccidere, si sarebbero attivati

rivolgendosi a Bontate e Badalamenti. Sono nostre considerazioni: la Corte d'Appello non si inoltra

su questo scivoloso terreno, riconosce la "plausibilità" del movente ma si dice certa dell'innocenza di

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Andreotti laddove afferma, nella vicenda Mattarella, che egli «mai sarebbe ricorso all'omicidio per

eliminare avversari politici».

Ai confini della realtà Resta da comprendere perché mai Andreotti abbia, deciso di accettare giudizi

così devastanti per la sua immagine di statista e uomo politico e abbia accolto con tanta filosofia la

parziale condanna di Palermo che reca tali pesanti implicazioni. Ai giornalisti l'ha spiegata così:

«C'è qualche giudizio pesante, ma soltanto nelle 13 cartelle finali, in questa motivazione ci sono

anche aspetti positivi e dopo dieci anni che sto dietro alle mie vicende giudiziarie ho imparato che

bisogna leggere tutte le carte. In un processo a me interessano i risultati finali, e visto che non sono

stato condannato, questi risultati mi sembrano buoni». E il giudizio che darà la Storia? «Quanto alla

Storia, amen», ha risposto con una delle sue solite battute al vetriolo.

Certo è che la decisione di non ricorrere in Cassazione ha collocato le reazioni e i commenti in un

limbo iperreale, dove si spazia da un imbarazzato silenzio a disinvolti commenti sull'impossibilità di

non interagire con la mafia, fino alla parossistica rivalutazione dell'"Andreotti due" aggiustando qua

e là il significato storico di una sentenza che ha comunque per la prima volta affermato l'esistenza di

un rapporto tra mafia e politica, non a livello locale, e con un uomo che ha ricoperto i più alti

incarichi di governo.

«È una motivazione molto articolata», ha commentato saggiamente l'avvocato Giulia Bongiorno.

Probabilmente per questo il collegio di difesa subito dopo la sentenza non è sembrato invogliato a

fare ricorso: «Forse non vale la pena proporre impugnazioni contro una sentenza che comunque

riconosce l'impegno del senatore nell'interesse del paese e demanda il giudizio alla Storia». Un

giudizio storico che il professor Coppi accoglie con sollievo: «Sono crociano e secondo un

autorevole insegnamento del filosofo, i giudici non vanno oltre una historia minor, essendo la Storia

qualcosa di diverso e di più complesso di quanto possa essere scritto nelle motivazioni di una

sentenza».

Il libro nero della Prima La lettura del verdetto è stata come si vede molto controversa. Forse vai la

pena di farla illustrare anche dal diretto protagonista, cioè dal giudice Totò Scaduti, che irritato da

tante speculazioni sulla "sua" sentenza, in forma del tutto inusitata ha dettato all'ANSA una nota

che suona come una sorta di "interpretazione autentica": Rimango sinceramente incredulo e

amareggiato nel leggere taluni commenti dai quali si desume che nessuno abbia minimamente letto

le motivazioni [...] altrimenti non si comprenderebbe come si possa affermare che la sentenza ha

"sbugiardato" le accuse di mafiosità e le connivenze mafiose tra Cosa Nostra (fino alla primavera

1980) e il senatore Andreotti.Accuse di mafiosità e connivenze che, a torto o a ragione, la sentenza si

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è data carico di dimostrare puntualmente nel rispetto delle risultanze processuali e nella scrupolosa

osservanza delle regole imposte dall'articolo 192 del Codice di Procedura Penale [...]. Nessuna

contraddizione esiste nella motivazione della sentenza. [... Non hanno senso le critiche] secondo cui

«fino ad un certo punto sono credibili le motivazioni dei pentiti e da una certa data in poi non lo

sono più» [...e] «si è voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte» [...]. La Corte non ha mai

parlato dello stesso collaborante come credibile fino ad una certa data e non dopo. Essa ha fatto

riferimento ad una miriade di collaboratori che hanno riferito con riguardo a periodi temporalmente

diversi e che sono stati ora creduti e ora disattesi nel più rigoroso rispetto delle regole processuali.

Nel tentativo di fare chiarezza, riassumiamo i punti che ci appaiono più rilevanti per capire il

significato di una sentenza che darà agli storici molto da fare. Dunque: Andreotti era in rapporti di

tale confidenza da poter chiedere ai Salvo favori di rilievo come quello di un intervento della mafia

nella vicenda Moro.

Andreotti ha effettivamente incontrato i cugini Salvo e Tano Badalamenti a Roma, nel suo studio,

quindici giorni prima dell'omicidio Pecorelli.

Non è accoglibile la tesi della "non credibilità" su questo punto del la testimonianza di Buscetta per

"l'assurdità" di un incontro nel pieno centro di Roma tra l'allora presidente del Consiglio e un boss

mafioso: Badalamenti non era così facilmente riconoscibile - dicono i giudici - e poi si trattava di un

incontro riservato.

È credibile che Andreotti si sia rivolto al boss dicendogli: «Di uomini come lei ce ne vorrebbero ad

ogni angolo della strada». L'affermazione dimostrerebbe come il senatore non avesse all'epoca

consapevolezza della pericolosità criminale degli uomini di Cosa Nostra.

Non è credibile che Andreotti abbia potuto chiedere ai Salvo "il favore" di uccidere Pecorelli, non

già perché Buscetta non collega la richiesta all'incontro romano («il progetto poteva non essere

ancora maturato»), ma perché la vicenda Mattarella dimostra come il senatore fosse uomo contrario

a ricorrere alla violenza per eliminare i suoi avversari.

La via d'uscita da quest'ingarbugliato capitolo i giudici di Palermo, come abbiamo detto, la trovano

ipotizzando che possa essere stato qualche «solerte sodale», come abbiamo detto, ad attivarsi per

difendere l'immagine del presidente del Consiglio. La sentenza di Palermo sembra ritornare al

punto d'inizio, e cioè a quella richiesta di rinvio a giudizio al Senato, firmata dal PM Giovanni

Salvi, nella quale la Procura di Roma sosteneva che esistevano elementi abbastanza certi per

individuare un "movente" nell'omicidio Pecorelli - movente che riconduceva in un modo o nell'altro

ad Andreotti -, mentre sembrava meno provato il capitolo sul "mandato" omicidiario, ovvero in che

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modo e da parte di chi questa richiesta potesse essere giunta alla mafia.

I giudici di Perugia hanno creduto a Buscetta laddove afferma: «Non si va ad uccidere a Roma una

persona che non si ha interesse di uccidere, senza essere certi di fare un favore, che peraltro si fa per

essere ricambiati. Non si uccide nel dubbio che la persona, trattandosi poi di Andreotti, possa non

essere d'accordo o magari subirne danno».

Una valutazione che non è illogica o folle, alla luce di quanto afferma la sentenza di Palermo. Per

questo, se Andreotti volesse salvarsi da giudizio della Storia, dovrebbe ottenere l'annullamento di

entrambe le sentenze. Ma il senatore è un pragmatico: per lui, alla fine, quello che conta sono i

risultati; se non si è stati assolti, basta almeno non essere stati condannati. Quanto alla Storia,

amen.

Tano, il coimputato L'unico coimputato di Andreotti al processo di Perugia, Tano

Badalamenti,quel «signore che vive nel New Jersey», non è personaggio che possa passare sotto

silenzio nella ricostruzione di questo processo. Il boss è l'ultimo padrino di Cosa Nostra ancora in

vita, depositario di molti misteri italiani: dallo sbarco alleato nel '43 alla nascita della Gladio

siciliana, al golpe Borghese, al delitto Moro. "Tano seduto" è l'irriverente, caustico soprannome che

gli aveva affibbiato il giovane Giuseppe Impastato che, negli anni della contestazione studentesca

approdata anche a Cinisi, gli aveva dichiarato guerra dai microfoni di una radio libera. Una storia

che ha ispirato il bellissimo film I cento passi di Marco Tullio Giordana: film ispirato dalla vicenda

giudiziaria sulla morte di questo ragazzo, fatto trovare cadavere sui binari della ferrovia, imbottito

di tritolo per simulare un fallito attentato, proprio il 9 maggio 1978, giorno in cui Moro fu ucciso

dalle Brigate Rosse. Una macabra messinscena, ideata da Tano Seduto, che ora nel carcere del New

Jersey sta scontando la pena anche per questo lontano delitto.

Badalamenti era un esponente della vecchia mafia, abituata a gestire i suoi traffici nel rispetto delle

istituzioni; convinto, e lo ripeteva spesso, che la mafia tutto poteva fare «ma non dichiarare guerra

allo Stato». Era un rappresentante della famiglia "contadina" di Cosa Nostra. Ma era anche amico,

come sappiamo, di Bontate, dei Salvo, di Buscetta, insomma dell'Onorata Società palermitana.

Nell'81 era "scappato" dopo aver perso la guerra con i corleonesi: all'interno di questo processo, lo

ritroviamo a Rio de Janeiro la sera in cui fu ucciso Dalla Chiesa, il 3 settembre 1982. Ma appena due

mesi dopo, a dicembre, la Criminalpol individuò cospicue tracce dei suoi traffici ad Alicante, in

Spagna, dove la polizia italiana era convinta che si fosse rifugiato un buon numero di "scappati"

dopo la guerra di mafia.

Ma i soci di Badalamenti non erano soltanto mafiosi: erano coinvolti negli affari di Alicante anche

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piduisti e uomini politici. Negli incartamenti furono trovate prove di investimenti fatti da costoro

nella costruzione dell'aeroporto di Linate, oltre che di un lussuoso complesso alberghiero e di alcuni

residence su quel tratto di scogliera spagnola.

Uno scandalo che coinvolgeva una rete di società finanziarie e imprenditrice che verrà alla luce

soltanto dieci anni dopo grazie a Mani Pulite. Uno dei soci di Badalamenti era Roberto Termini,

piduista, figliastro dell'allora vicesegretario del PSDI Roberto Massaro; alcune vicende chiamavano

direttamente in causa anche il segretario di quel partito, Franco Nico-lazzi, ministro della

Repubblica. Quando le "carte" arrivarono al Viminale si capì subito che si trattava di un dossier

scottante e qualcuno si adoperò per evitare che arrivasse ai giudici: a Falcone fu inviata soltanto una

relazione molto omissiva. Una storia vecchia, questa di Alicante, ma che da un'idea delle relazioni di

cui godeva il boss di Cinisi anche durante il periodo della latitanza e nonostante i nemici di Cosa

Nostra gli stessero dando la caccia.

La storia che a noi interessa è però un'altra, e riguarda la battaglia tra accusa e difesa, durante

l'istruttoria e poi all'interno del processo, sul rientro di Badalamenti in Italia perché testimoniasse

sui suoi rapporti con Andreotti.Il senatore sembrava interessato a quanto poteva dire il vecchio

Padrino; soprattutto sperava che potesse venirgli in soccorso smentendo le "bugie" di Buscetta. La

decisione adottata dai magistrati fu salomonica: andarono a interrogarlo negli USA, per la sua

qualità di imputato nello stesso processo, non avendo egli mai dato sentore di voler collaborare con

la giustizia. In ogni caso tutti si aspettavano qualche "sorpresa" dai viaggi americani. Le sorprese in

effetti non sono mancate e furono anzi drammatiche. Ma prima di parlare di questi viaggi,

dobbiamo affrontare un altro capitolo importante delle accuse rivolte ad Andreotti da Buscetta, il

quale affermò di essere a conoscenza di un incontro avvenuto tra il senatore e Badalamenti a Roma,

nel suo ufficio, alla presenza di Nino Salvo. Un incontro motivato dal desiderio di Badalamenti di

ringraziare personalmente Andreotti per 1'" aggiustamento" di un processo a carico del cognato

Filippo Rimi e del figlio di questi, Vincenzo.

Il processo Rimi L'incontro tra Andreotti, Badalamenti e Nino Salvo sarebbe avvenuto nel febbraio

79, cioè appena un mese prima dell'omicidio Pecorelli. Badalamenti lo avrebbe rivelato a Buscetta la

stessa sera in cui gli aveva confidato il suo ruolo nel delitto, ovvero la sera dell'omicidio Dalla

Chiesa. I ricordi di Buscetta sull'episodio sono in realtà piuttosto confusi: «Del fatto che i Rimi

stessero aspettando la sentenza assolutoria dalla Cassazione avevo saputo dallo stesso cognato di

Badalamenti, nel 71, mentre ero in carcere all'Ucciardone». Ma Masino in quel periodo era

latitante, ricorda la difesa di Andreotti: sarebbe stato arrestato soltanto l'anno successivo. Quanto

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alla definitiva assoluzione dei due boss, questa arrivò soltanto il 13 febbraio 1979, pochi giorni

prima del supposto incontro, molto citato nel processo perché nel corso della conversazione

Andreotti, rivolgendosi a Badalamenti, gli avrebbe detto: «Di uomini come lei ce ne vorrebbe uno a

ogni angolo di strada».

Gli avvocati di Andreotti affermano che di questo episodio, nel corso degli anni, Buscetta ha dato

tre versioni diverse. Sollevano poi un punto interessante, chiedendosi come sia potuto accadere,

nell'imminenza dell'omicidio Pecorelli, che la conversazione riguardasse il processo Rimi e non un

altro argomento ben più importante, ovvero la pianificazione del delitto. «Forse perché Andreotti

era prudente», ironizza l'avvocato Giulia Bongiorno. «Tanto prudente da ricevere in pieno giorno

due capimafia nel suo studio, nel pieno centro di Roma e forse alla presenza degli uomini della

scorta». E aggiunge: «Non è un caso che nella motivazione la Corte d'Appello non faccia cenno a

quest'episodio, inizialmente tanto importante, forse perché dimostra che Buscetta ha mentito. La

verità è che questo è un processo di latta».

Il problema è che molte sentenze della Cassazione affermano che la confusione di date, o altre

imprecisioni nella testimonianza dei pentiti, soprattutto per fatti lontani nel tempo, non invalidano

la loro credibilità, anzi dimostrano l'autenticità della testimonianza, che se fosse "imbeccata" si

rivelerebbe più precisa. Restano comunque validi i dubbi manifestati dalla difesa. Quanto

all'incontro con il senatore, il boss di Cinisi una sua versione l'ha data, durante una memorabile

intervista al TGr, condotta da Ennio Remondino, negando che sia mai avvenuto, ma in modo

subdolo, da vero mafioso: «Forse voleva dire che di uomini come me ce ne voleva uno impiccato a

ogni angolo di strada».

suicidio del maresciallo Lombardo I viaggi americani dei giudici, come si diceva, qualche sorpresa

l'hanno data. La peggiore certamente riguarda il suicidio del maresciallo Antonino Lombardo. A

Palermo, nella notte di sabato 19 marzo 1995, nei giardini profumati di zagara della caserma

Bonsignore, dopo una concitata discussione con i suoi superiori prima di salire sull'auto, il

maresciallo Lombardo si sparò un colpo di pistola alla tempia. Un film nel film, una storia che

meriterebbe da sola un libro a parte, gravida degli odori e dei segreti dell'isola. Lombardo aveva in

tasca banconote per cinque milioni e una lettera di addio alla moglie e ai figli. Questa: Mi sono

ucciso per non dare la soddisfazione a chi di competenza di farmi ammazzare e farmi passare per

venduto e principalmente per non mettere in pericolo la vita di mia moglie e dei miei figli che sono

tutta la mia vita. Non ho nulla da rimproverarmi perché sono stato fedele all'Arma e malgrado sia

arrivato a questo punto rifarei quello che ho fatto. Fina, Giù-seppe, Fabio, Rossella perdonatemi.

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Vi amo immensamente. I cinque milioni che si trovano nella tasca posteriore dei pantaloni, li

dovevo restituire al servizio amministrativo del Comando generale per una delle due missioni in

America e concludo dicendo che la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani.

Saluto anche gli amici fidati (pochi), mio padre, le mie sorelle e i superiori gerarchici con cui ho

lavorato e con loro ho rischiato la vita unitamente a pochissimi colleghi. Ricordatevi che il giorno

più bello della mia vita da carabiniere è stato il 15.01.1993, giorno dell'arresto di Totò Riina, arresto

cui ho dato un grosso contributo che può essere confermato o smentito dai maggiori che sanno.

Una lettera chiarissima per il vertice dell'Arma, un rebus per tutti coloro che ignoravano quale fosse

la missione particolare e segretissima, affidata al maresciallo Lombardo, da tre mesi incaricato di

accompagnare la delegazione dei magistrati italiani nel carcere di Fairton, nel New Jersey, dove

Badalamenti si trovava agli arresti da circa dieci anni. Dietro il suo ruolo ufficiale, il maresciallo

maggiore era chiamato a svolgere un compito delicatissimo di intelligence, il cui obiettivo era

convincere Badalamenti a rientrare in Italia perché contribuisse alla cattura dei corleonesi. Un

motivo che andava ben al di là del processo Andreotti.

Qualche giorno prima, durante la trasmissione Tempo Reale di Michele Santoro, il sindaco di

Cinisi, Vittorio Mele, della Rete di Leoluca Orlando, aveva duramente attaccato il maresciallo

Lombardo, accusandolo di collusione con i boss della zona. Anche un uomo d'onore del luogo,

Salvatore Palazzolo, divenuto collaboratore di giustizia, durante un interrogatorio aveva assicurato

che era «un avvicinabile». I magistrati non presero alcuna iniziativa: sapevano che il maresciallo

combatteva la sua guerra "in territorio nemico". Era uno dei pochi che aveva il coraggio di

attraversare i confini posti dai due schieramenti che si fronteggiavano sul suo territorio: le famiglie

devote a Badalamenti e quelle legate a Riina. Un lavoro "sporco", dove bisognava camminare nel

fango, ma svolto a fini istituzionali. Il maresciallo aveva realmente collaborato alla cattura di Totò

Riina e nel momento in cui si è ucciso il suo obiettivo era arrestare Giovanni Brusca e Leoluca

Bagarella. In questa caccia gli stavano dando una mano i fedelissimi di Badalamenti; i suoi viaggi in

America avevano questo scopo. Forse anche quello di smentire le accuse contro il senatore, ma non

se ne è mai avuta conferma. E nella sua lettera non c'è traccia delle polemiche roventi di quei giorni

su Tempo Reale; a lui la trasmissione televisiva non interessava: «La mia delegittimazione sta nei

viaggi americani...».

Tra lui e Badalamenti c'erano rapporti antichi, come da sempre ci sono Il. LIBRO NERO DELLA

PRIMA REPUBBLICA in Sicilia tra boss e carabinieri. Se esisteva qualche speranza di ottenere

informazioni da Tano, questa poteva venire soltanto dal maresciallo maggiore, legato a

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Badalamenti da vincoli misteriosi che affondavano nel passato. Era stato lui a contattare il boss

quando fu il momento di organizzare il golpe Borghese: lo fece su incarico del colonnello Giuseppe

Russo. Lombardo faceva parte di Gladio? Chissà; certo è che Tano Seduto si fidava soltanto di lui.

Ma di cosa parlavano, qual era la trattativa segreta in atto tra il maresciallo e il boss? Badalamenti

voleva tornare in Italia e il processo Andreotti era un'ottima occasione per tirarsi fuori da quel

carcere americano. Forse era disposto a testimoniare; ma i tempi erano cambiati, e Badalamenti che

cosa avrebbe dovuto dire? Attaccarlo o difenderlo? E in cambio di cosa, lui che ci guadagnava?

Certamente Tano sperava di ottenere la libertà provvisoria; ma se tornava a Cinisi, in quella

situazione, di sicuro lo ammazzavano. Bisognava "ripulire le strade" dai nemici, fare presto, e poi

Tano avrebbe fatto quello che doveva in un modo o nell'altro, come lor signori preferivano.

Due mesi prima di spararsi alla tempia, Lombardo aveva avuto il primo segnale che quei viaggi in

America erano pericolosi: a cento metri da casa sua era stato trovato "incaprettato" un confidente,

Francesco Brugnano; era un segnale che qualcuno gli stava mandando. Poi era sparito il cane, che in

Sicilia vuoi dire: stai attento che ti ammazziamo i figli. E poi c'era stata la trasmissione in TV.

Qualcuno aveva parlato, Lombardo non aveva dubbi. Traspare dalla lettera che il maresciallo era

sicuro che qualcuno lo avesse tradito. «Nell'Arma ci sono cani che portano fuori le ossa», ha detto il

colonnello Mario Mori, all'epoca comandante del ROS. E Lombardo l'aveva sempre saputo: era

stretto tra una tenaglia, tra chi lo sospettava di tramare contro il processo Andreotti e chi conosceva

il vero motivo della sua missione. Lo avevano esposto per far fallire l'operazione; ma allora se

dovevano ammazzarlo, o ammazzargli i figli, preferiva risolvere lui la questione.

Verbali e pallottole Quel colpo di pistola esploso dentro la caserma Bonsignore era riecheggiato in

una Palermo già bagnata di sangue; per le strade erano tornate a fischiare le pallottole. Quello stesso

pomeriggio, il 18 marzo 1995, in via delle Alpi, fuori dalla sua fabbrica di specchi, era stato ucciso

Domingo Buscetta, il nipote di Masino. Un mese prima a Corleone era stato giustiziato Giusto

Giammona; poche settimane dopo erano stati crivellati di colpi la sorella Giovanna e il marito

Francesco Saporito. A guidare la faida era Leoluca Bagarella. Cadevano uno dopo l'altro gli uomini

legati alla vecchia mafia: due giorni prima era stato massacrato di colpi Marco Grado, nipote del

socio di Badalamenti e di quel "cornuto" di Totuccio Contorno, un altro "infame" come Buscetta.

Era di nuovo guerra di mafia: diciotto morti in tredici giorni e sullo sfondo i viaggi americani del

maresciallo maggiore Antonino Lombardo.

Di questi viaggi mi è rimasto nel cassetto un rapporto del 18 dicembre 1994, firmato dal maresciallo

al suo ritorno da una missione negli USA con i magistrati Fausto Cardella e Gioacchino Natoli. Un

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viaggio fallimentare, perché quel giorno Badalamenti era nervoso. Il motivo lo spiega Lombardo:

Alle nove e trenta del giorno 13 ci siamo recati nel carcere di Fairton (New Jersey) ove, a seguito

delle previste procedure, abbiamo dato inizio alla missione che nella giornata si è sviluppata come a

seguito. Prima dell'ufficiale avvio dell'interrogatorio, il Badalamenti è stato condotto in una stanza

adibita a colloqui, per un primo colloquio con il maresciallo Lombardo. Contrariamente alle

aspettative, al colloquio hanno presenziato gli agenti Sebastiano e Nigro, sottolineando di aver

ricevuto in merito precise disposizioni da Washington. In tale circostanza il Badalamenti diceva al

sottufficiale di non sentirsi in tali condizioni disposto ad avviare una discussione ampia e

costruttiva, così come promesso nell'incontro avvenuto a Memphis. Malgrado ciò si diceva

disponibile a sottoporsi all'interrogatorio, sollevando peraltro l'eccezione della presenza di un

magistrato di Palermo significativo, di un atteggiamento di "controllo". In dialetto siciliano

ribadiva di ritenerci persone serie ma di sentire "l'acido nello stomaco" a causa di un approccio non

riservato e da parte di una sola Autorità così come preannunciato.

Appare evidente che don Tano contava sul colloquio riservato con il maresciallo per valutare se la

sua eventuale deposizione a favore di Andreotti non potesse pregiudicare l'estradizione in Italia:

questa era la sua condizione. Era evidentemente infastidito dalla presenza del PM Natoli, perché lo

sapeva ostile ad ogni trattativa con lui. Inoltre, come riteniamo, voleva sapere se Lombardo avesse

preso contatto con le persone che gli aveva indicato nel precedente incontro al fine di catturare

Brusca, e forse anche Bagarella, che era quello che più premeva a entrambi. Sono nostre congetture,

ma convalidate dal successivo comportamento del boss di Cinisi,riportato più avanti nel rapporto

che così prosegue: «A mia espressa domanda rispondeva di accettare in futuro altri incontri e di

essere pronto a sostenere confronti con chiunque. Alle dieci e trenta circa alla presenza dei

sopracitati agenti dell'FBI e dell'avvocato Truman, rappresentante del governo USA, iniziava

l'interrogatorio...». L'interrogatorio è allegato al rapporto, ma non ne ho copia, forse perché non era

particolarmente significativo. Ma prima della verbalizzazione Tano aveva parlato liberamente con i

magistrati, colloquio di cui Lombardo da la seguente sintesi: Badalamenti ha lamentato di non

essere mai stato interrogato "seriamente" dai magistrati palermitani che si limitavano ad aride

contestazioni rifiutando qualsiasi contraddicono; ha apprezzato solo il giudice Falcone; ha riferito

di aver ricevuto la visita del procuratore Tinebra che si è di mostrato gentilissimo ma "politicizzato";

si è dichiarato innocente nell'ambito della Pizza Connection per cui sta ingiustamente scontando

una lunga pena detentiva; ha ripetuto alcuni concetti, già espressi agli scriventi nel precedente in

contro, senza però toccare argomenti che potessero tradire il formale inserimento in Cosa Nostra;

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ha negato di aver mai trafficato in droga; ha condannato il comportamento di Buscetta, esaltandone

la grande intelligenza. Intelligenza che stride con l'assurdità di molte sue rivelazioni. Ha invece

condannato l'immoralità dello stesso perché ha cambiato moglie; ha ribadito che sarebbe stato più

sereno in Italia.

Insomma, Badalamenti lasciava intendere di non condividere le affermazioni di Buscetta, che

avrebbe respinto l'accusa di essere coinvolto nell'omicidio Pecorelli, ma poneva in maniera non

equivoca la condizione del suo rientro in Italia e la sua scarcerazione «perché innocente».

Tre mesi dopo il maresciallo Lombardo uscirà definitivamente di scena sparandosi alla tempia.

L'operazione che doveva portare alla cattura di Brusca fallì; il boss sarà arrestato due anni dopo.

Persa la sua battaglia per poter tornare in Italia, Tano tentò una nuova carta. Nell'inverno del '96 il

suo avvocato americano Schoenbach venne a Roma, andò a trovare Luigi Ligotti, l'avvocato di

Buscetta, e lì tra molti convenevoli lanciò la proposta del suo illustre cliente. Se Masino fosse stato

disposto a ritrattare le accuse contro Badalamenti al processo Pizza Connection, lui sarebbe tornato

in Italia e al processo Andreotti non lo avrebbe smentito. No, non intendeva dichiararsi pentito,

non lo avrebbe mai fatto, però... «Però un silenzio a volte può essere più importante di mille parole»,

assicurò l'avvocato Schoenbach. Ligotti, prudentemente, aveva avviato la registrazione del

colloquio e la bobina fu consegnata agli agenti della DIA. Il progetto di Tano era miseramente

fallito e lui è ancora lì, nel carcere di Fairton, a chiedersi quando e come ha sbagliato.

Parte Prima i terribili anni settanta

Mino Pecorelli fu ucciso il 20 marzo del 1979, al culmine di un periodo tra i più cruenti della Prima

Repubblica. Tra il 78 e il 79 ci furono tremila attentati, ventitré morti e un'ottantina di feriti. Un

periodo drammatico, aperto esattamente un anno prima dalla strage di via Fani e dal rapimento del

presidente DC Aldo Moro, conclusosi dopo cinquantacinque giorni con l'uccisione dell'ostaggio

per mano delle Brigate Rosse. Questa fase chiudeva un cupo decennio di golpe, attentati sui treni,

bombe, sparatorie. Al terrorismo nero si era aggiunto quello rosso, con la nascita e il propagarsi di

organizzazioni armate che, come le BR, godevano di qualche consenso all'interno dei movimenti

giovanili.

Pecorelli era un giornalista "anomalo", che aveva cominciato la sua carriera negli anni Sessanta in

circoli di destra e riviste oltranziste, dove era entrato in contatto con ambienti dei servizi segreti. Un

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giornalista "che sapeva troppo", considerato il confessore dei generali bruciati nelle trame di quegli

anni, legati dalla comune appartenenza alla p2 di Licio Gelli. Anche Mino era stato per un breve

periodo iscritto alla Superloggia, poi si era dimesso, pur coltivando un rapporto intenso e

controverso con il Venerabile. Era uomo di destra, ma in modo autonomo, fortemente avverso al

gruppo che faceva capo ad Andreotti e decisamente al fianco del "partito della trattativa" durante il

sequestro Moro. Su «OP» pubblicò quattro lettere scritte dal presidente DC e secretate dal

ministero degli Interni. La parabola "professionale" di Mino si concluse con l'incontro con Dalla

Chiesa.

In queste pagine, attraverso le campagne di «OP» e le indagini seguite all'omicidio Pecorelli,

cercheremo di ricostruire la storia dei "terribili anni Settanta", che con le sue cifre di guerra - 1400

atti di violenza, oltre mille feriti e 467 morti - fanno dell'Italia un caso unico tra i paesi occidentali

cosiddetti avanzati. Qualcuno potrebbe eccepire che alcuni di questi fatti appaiono estranei al

processo Andreotti. Il motivo per cui ho ritenuto necessario raccontarli è la difficoltà di capire

questa vicenda se non si comincia dall'inizio. Cosa sapeva Mino Pecorelli? Perché bisognava

tappargli la bocca, anzi fermargli la mano, che in realtà impugnava solo una penna? Una penna che

era diventata più pericolosa di una P38. Che cosa ha messo a rischio la vita di Dalla Chiesa? Quali

segreti il generale ha portato per sempre con sé? Quali erano i rapporti del "giornalista che sapeva

troppo" con l'uomo dei dossier, ovvero il Venerabile Licio? E com'è stato possibile che una

generazione generosa, che aveva esordito con il movimento del '68, che si era opposta alla strategia

della tensione, che aveva contrastato il riemergere di nostalgie fasciste, che aveva impresso uno

straordinario impulso alla modernizzazione del paese, fosse finita in quel tritacarne di plumbee

messinscena politiche che aprivano la strada al sequestro Moro? Tutto questo è possibile

comprenderlo solo se procediamo passo dopo passo, sezionando la nascita di fenomeni che tuttora

sono poco conosciuti o fraintesi, come la p2 e Gladio. Se, nella storia che stiamo per raccontare,

buttassimo lì all'improvviso queste due sigle ormai inflazionate, rischieremmo di provocare soltanto

una grande confusione. P2 e Gladio sono nomi che evocano vicende folcloristiche: generali in

gonnella, strani riti massonici, doppi giuramenti. La P2 non è stata quella lobby affaristica descritta

dai magistrati romani a conclusione dell'inchiesta giudiziaria. Come la struttura militare segreta,

nota come Stay Behind in tutti i paesi NATO, e in Italia denominata Gladio, non può essersi

limitata ai seicento "pensionati" della guerra fredda i cui nomi furono per la prima volta rivelati da

Andreotti nel '90 nella relazione alla Commissione Gualtieri sulle Stragi. Il sospetto che esista un

legame tra le due organizzazioni segrete e che questo intreccio di poteri occulti abbia avuto una

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connessione con la strategia della tensione, i falliti golpe, i delitti e le trame dei mille misteri italiani

è forte quasi come una certezza. Anche se non si è mai riusciti ad andare al di là del sospetto per

l'impossibilità delle indagini parlamentari e giudiziarie di travalicare il limite di quella che la

Commissione Anselmi sulla P2 definì la «Piramide Superiore».

Dietro l'immaginifica metafora qualcuno ha creduto di poter individuare proprio Andreotti.

Personalmente ho qualche dubbio sul fatto che potesse essere lui il garante della P2, per la sua

estraneità alla massoneria, data per certa anche dalla sentenza dei giudici di appello di Palermo. Ma

è possibile che il sette volte presidente, che è stato ministro della Difesa ripetutamente fin dai primi

anni Sessanta, possa aver svolto un ruolo di tramite tra l'apparato militare clandestino, la NATO e

la CIA, considerato che da un certo momento in poi tutti i capi dei servizi segreti e le alte gerarchie

militari risultarono affiliate alla superloggia. Sarebbe stato proprio Gelli, alla fine degli anni

Sessanta, a "battezzare sulla spada" almeno quattrocento ufficiali.

Quando nel '90 i nomi dei gladiatori furono dati in pasto all'opinione pubblica - una vicenda che

vedremo meglio alla fine di questo libro - nella confusione che ne seguì furono alcuni di loro a

gridare che le vere strutture deviate erano altre e facevano capo proprio a lui, Andreotti, il quale

avrebbe approfittato della sua lunga permanenza al ministero della Difesa per organizzare il nucleo

più occulto del superservizio. Soltanto di recente questa segretissima struttura sembra aver trovato

un nome: si chiamerebbe Anello e la Procura di Roma sta conducendo indagini molto riservate sulle

sue possibili deviazioni. Rimane tuttavia estremamente difficile capire che ruolo l'Anello abbia

avuto in vicende come il sequestro Moro o il rapimento dell'assessore napoletano Cirillo, la fuga di

Kappler e altri misteri. Ma anche su questo torneremo. In ogni caso tutti i nostri apparati di

sicurezza fino all'81-82, dopo lo scioglimento della P2, sembrano rispondere più a poteri

sovranazionali come la NATO e la CIA che al governo e al parlamento italiano, di cui

evidentemente i nostri alleati non si fidavano per la presenza di troppi "comunisti" eletti dal popolo.

Per questo avevano affidato la difesa del patto atlantico a uomini disposti ad agire al di fuori delle

regole democratiche.

In ogni caso non si può comprendere cosa è accaduto in via Fani e durante il sequestro Moro se non

ricostruiamo, anno dopo anno, almeno a partire dal 1964, ovvero dal mancato golpe De Lorenzo, le

attività dei cosiddetti "servizi segreti deviati", che probabilmente non erano affatto deviati ma

svolgevano il loro ruolo di garanti degli equilibri mondiali sanciti dal patto di Yalta, dove necessario

anche attraverso forme di guerra "non ortodossa".

Anche il capitolo sui rapporti tra Andreotti e Sindona è stato molto importante nel processo di

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Palermo. I giudici di primo grado, nella sentenza firmata dal presidente Ingargiola, riconoscono

come realmente avvenuto, nel 76, l'incontro segreto negli USA tra l'allora presidente del Consiglio e

il bancarottiere latitante. Di Gelli invece non si è parlato molto nell'aula di Palermo, e ancor meno a

Perugia: l'ipotesi che fosse stato il capo della P2 a ordinare l'uccisione di Mino del resto era stata

archiviata a conclusione della prima indagine svolta dal PM Sica. Ma l'interesse di questo

personaggio va al di là del suo possibile ruolo nell'omicidio del giornalista. Gelli era impegnato in

prima persona nel salvataggio di Sindona, ed è stata l'FBi ad accusarlo di aver gestito il suo viaggio a

Palermo nell'estate 79. Negli ultimi giorni di vita, Pecorelli era impegnato in un'importante

operazione di appoggio al banchiere latitante: stava per pubblicare quella famosa "Lista dei 500"

(ovvero i nomi dei "clienti" che avevano utilizzato la sua banca per operazioni illecite) e sembrava

tornato, dopo un periodo di contrasti, in pieno accordo con il Venerabile, con il quale avrebbe

dovuto incontrarsi il 21 marzo, e cioè il giorno dopo il suo omicidio.

In quegli anni Andreotti è stato di volta in volta indicato come il vero capo della P2 o come il vero

manovratore delle "deviazioni" dei servizi segreti.

La prima ipotesi va esclusa, la seconda è più suggestiva, anche se, come vedremo, ci sono passaggi in

questa dannata storia in cui lui stesso non appare che una pedina. I suoi rapporti con la Superloggia

e con i generali che era stato proprio lui a mettere a capo dei nuovi apparati di sicurezza varati con la

riforma del '77 sono rimasti avvolti nell'ombra. Una cosa sembra certa: era uomo molto informato, e

questo gli ha consentito di giocare una partita politica spregiudicata che lo ha messo al riparo, per

lungo tempo, dai colpi dei suoi nemici. Fin quando... fin quando qualcuno non ha deciso che era

venuto il momento di liberarsi anche di lui. Come e perché, è quello che cercheremo di scoprire.

Morte di un giornalista Roma, 20 marzo 1979 Mino era al settimo cielo, rimuginava sulla tiratura

dell'edizione straordinaria. Diecimila copie, ventimila, anche trentamila: abbastanza per pagare

tutti gli arretrati. Era soddisfatto: immaginò la faccia del suo avvocato, poi l'espressione ottusa del

"Quinto Evangelista" (così aveva ribattezzato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) e rise

di cuore. Anche il povero colonnello, chissà in quale stato di agitazione era! Negli ultimi tempi, in

attesa delle carte, aveva assunto toni da incappucciato: «Non telefonarmi, ti ho detto, non

telefonarmi...», gridava al telefono. Ma aveva mantenuto la parola, il malloppo era in tipografia, a

lui non restava che scrivere l'editoriale. Aprì la finestra, piovigginava, l'aria della sera era ancora

fredda, ma c'era già quell'odore di terra umida e profumata che a marzo annuncia la primavera.

«Proprio adesso che avevamo quasi raggiunto l'accordo su trecento milioni annuì di pubblicità»,

pensava con un po' di rammarico: l'accordo sarebbe sicuramente saltato. Ma non poteva tirarsi

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indietro proprio lui, era l'occasione che aveva sempre aspettato; si mise alla macchina da scrivere,

qualcuno in quel momento bussò alla porta ed entrò nella stanza. «Meglio a casa stanotte, la notizia

non deve trapelare!», decise di colpo. Prima di uscire, di fronte allo specchio si aggiustò il nodo della

cravatta. Gli occhiali da vista deformavano leggermente i tratti del volto: aveva il naso un po' gobbo

e le labbra piegate all'ingiù in segno di costante disprezzo verso il resto del mondo, ma a

cinquant'anni era ancora un bell'uomo. Se Franca, la segretaria-amante, non fosse dovuta tornare a

casa quella sera dai bambini, sarebbero potuti andare a cena insieme, per festeggiare. Pazienza, non

sarebbe mancata occasione. Solo all'avvocato Gianfranco Rosini, quel pomeriggio aveva

manifestato i suoi timori: «Ho paura che stavolta vogliano incastrarmi», gli aveva confidato. «Ho

per le mani un fatto enorme, pericoloso, ma ormai non posso rifiutarmi». «Quando la smetti?», gli

aveva chiesto l'avvocato. «Dopo questo numero, mi arricchisco o mi ammazzano». Ma era scoppiato

a ridere: in realtà non aveva mai creduto che avessero il coraggio di ucciderlo.

L'omicidio di via Tacito Lo uccisero due ore dopo. Era sceso in compagnia di Franca e di un paio di

collaboratori. Sul portone gli ultimi saluti, le solite raccomandazioni. «Ti aspetto a cena?», aveva

chiesto a Paolo Patrizi, il redattore di «OP» che abitava a Terni e qualche volta si fermava a dormire

da lui, nella stanza dei ragazzi (Stefano e Andrea, all'epoca di ventidue e quattordici anni). «No, ho

un appuntamento, ti raggiungo dopo», era stato l'accordo. Mino si era stretto il bavero del soprabito

e si era avviato da solo verso via Orazio, dove nel pomeriggio aveva parcheggiato la sua Citroen,

color verde bottiglia, targata Roma 08195. La macchina era proprio di fronte all'Ufficio del

Registro: aveva appena fatto marcia indietro, quando quell'uomo con l'impermeabile bianco si era

avvicinato, lui aveva abbassato il finestrino, forse aveva bisogno di un'informazione, ma l'altro aveva

aperto la portiera e l'aveva fulminato con una raffica di pallottole. La prima, quella mortale, lo aveva

raggiunto in bocca. È così che la mafia uccide chi parla troppo.

Un segnale inequivocabile: ma nessuno pensò a un delitto di mafia. In quel periodo si parlava

soltanto di terrorismo e Brigate Rosse, e quell'omicidio andava buttato nel mucchio. Il cadavere fu

trovato alle venti e quarantacinque,in via Orazio, quasi all'angolo con via Tacito, riverso nell'auto,

la portiera spalancata, la testa crivellata dai proiettili. Dalla bocca usciva un filo di sangue nero e

raggrumato che si perdeva nel colletto della camicia. Nessun testimone, ma sull'identità della

vittima non ci furono dubbi. Era Mino Pecorelli: nel portafoglio fu trovato il tesserino

professionale, nell'auto un fascio di giornali e numerose copie di «OP-Osservatorio Politico»,

cinquantasei pagine in carta patinata, foto a colori, neppure un rigo di pubblicità. Il brigadiere si

appoggiò sul cofano dell'auto per stilare il verbale: «Addì 20 marzo 1979...». Al medico legale bastò

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un'occhiata, i colpi erano stati quattro in rapida successione: uno in bocca, uno alla testa, due al

torace. La morte era sopraggiunta istantanea.

Negli ultimi giorni Mino era preoccupato. Attendeva con ansia da Milano un documento

importantissimo, spiegarono ai magistrati i redattori del settimanale. Nessuno di loro sapeva di cosa

si trattasse, il direttore non metteva nessuno a parte dei suoi segreti fin quando non erano in pagina.

Qualche tempo prima aveva accennato a un contatto con le Brigate Rosse, poi non ne aveva più

parlato. Era stato a novembre, dopo aver scritto "Vergogna buffoni", che Patrizi gli aveva chiesto

come faceva a sapere tutte quelle cose. E lui se l'era cavata con una battuta: «Ho qualche amico nelle

Brigate!». Sempre meglio che rivelare i suoi incontri con Dalla Chiesa! Dieci giorni prima, raccontò

Franca Mangiavacca, c'era stata una certa tensione per una telefonata di minacce giunta in

redazione. «Farai una brutta fine, stronzo», l'aveva apostrofato un uomo che parlava con un forte

accento romanesco. Mino aveva minimizzato, a cose del genere aveva fatto il callo. Raccontò ancora

la donna che una settimana prima aveva notato un ragazzo con giubbotto, i capelli lunghi sul collo,

non troppo alto, e aveva avuto l'impressione di essere seguita. Lo aveva detto a Mino, che come al

solito aveva alzato le spalle.

In fondo a via Orazio c'era una fila di palazzi color ruggine, con le luci spente. Un solo bar era aperto

a quell'ora, all'angolo con via Plinio; all'interno, il barista e un paio di avventori. La luce fioca dei

lampioni rendeva la strada poco illuminata; la pioggia ovattava i rumori. Nessuno aveva sentito

nulla, solo Franca mentre si allontanava aveva adocchiato un giovane con l'impermeabile bianco che

attraversava la strada. Ma quando ripassò, del killer non c'era più alcuna traccia. Si disse poi che era

salito su una moto dove ad attenderlo c'era un complice: ma era soltanto una logica deduzione.

Il primo ad arrivare sulla scena del delitto fu il PM Domenico Sica, onnipresente in tutte le

inchieste "scottanti". C'erano anche il collega Eugenio Mauro, il capitano dei Carabinieri Paolo

Tomaselli e il perito della Scientifica Antonio Ugolini. Nel giro di mezz'ora, mentre la notizia si

diffondeva nella città, in quel tratto di strada, ormai illuminato a giorno dai riflettori della

Scientifica, arrivarono tutti gli sbirri della capitale. Erano lì per constatare di persona che quel

bastardo fosse davvero morto, gli giravano intorno, lo guardavano con cinica soddisfazione.

Nessuna pietà verso quell'uomo a faccia in giù nella sua vecchia Citroen, con la borsa aperta e i fogli

pieni di appunti sparpagliati sui sedili schizzati di sangue. Due carabinieri in borghese

ridacchiavano tra loro, lanciandosi sguardi allusivi: nel marzo '81 ho ritrovato i loro nomi

nell'elenco della lista P2. La pista imboccata da Sica due anni dopo portò in effetti a Gelli e al noto

intreccio fra massoneria, servizi segreti, terrorismo nero e Banda della Magliana. Una sorta di pista

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parallela, rispetto a quella indicata tanti anni dopo da Buscetta; molti dei protagonisti erano infatti

gli stessi. Ma nessuno aveva osato in quegli anni fare il nome di Andreotti, e nessuno avrebbe mai

immaginato che alla fine, a rimanere incastrato nei tranelli tesi da Mino, sarebbe stato proprio lui.

«OP», storia di un muckracher A ripensarci ora può sembrare una premonizione, ma la pubblicità

della rivistina, intonata al clima di quegli anni, suonava più o meno così: «OP, una raffica di

notizie», con tanto di fori di proiettili sul logo della testata. Appena un paio di mesi prima, quel

giornalista sempre elegante, con una perenne smorfia di sarcasmo sul volto, aveva pubblicato un

trafiletto che nel consueto linguaggio allusivo diceva: «I nostri lettori e coloro che ci stimano

saprebbero riconoscere immediatamente la mano che ha armato anche chi vorrà torcerci un solo

capello». In realtà ci sono voluti quattordici anni prima che si arrivasse a imboccare la pista cui

Mino probabilmente alludeva. Anche se l'ombra di Belzebù (tra '2, Guardia di Finanza e petrolieri)

aleggiava nell'immediatezza del delitto, erano in pochi ad avvedersene.Soltanto Sereno Freato,

uomo di fiducia di Aldo Moro, in seguito a un'interrogazione parlamentare sullo scandalo Petroli,

mandò questo strano messaggio: «L'entourage Moro non aveva alcun rapporto d'affari con la

Farnesina o con Palazzo Chigi e non era in alcun modo interessato all'omicidio Pecorelli». Era come

se avesse detto: «Mica lo abbiamo ammazzato "noi" Pecorelli, rivolgetevi a chi è stato più volte

ministro degli Esteri e capo del Governo». Infatti aggiunse: «Indagate sull'omicidio Pecorelli e

troverete i mandanti del delitto Moro».

L'«Osservatorio Politico», ribattezzato nell'ambiente «Ora paga», era qualcosa di più di un foglio

scandalistico, considerato che le "veline" provenivano da uomini dei servizi segreti che, dopo essere

stati "fottuti", sembravano perseguire l'unico obiettivo di intorbidare la lotta politica attraverso il

ricatto. Non si può negare che l'obiettivo preso di mira da «OP» fosse stato negli ultimi anni

costantemente Giulio Andreotti. E ad alimentare le campagne di stampa erano proprio quei

generali che il Presidente aveva di volta in volta silurato.

Questo tipo di operazioni pubblicistiche e un certo linguaggio allusivo tipico della cosiddetta

"stampa gialla" avevano alimentato attorno a Mino leggende e sospetti. In molti si chiedevano se

quel giornalista, coraggioso e arrogante, fosse davvero un giornalista o piuttosto una spia, un

avventuriero o un volgare ricattatore. Pecorelli ha dovuto morire per poter essere rivalutato; se fosse

nato negli USA sarebbe stato tranquillamente incluso nella grande tradizione americana dei

muckrachers, apprezzata schiatta di giornalisti che non esitano a spalare nel fango per smascherare

gli affari sporchi della politica. Ma da noi è un genere di scarso successo.

I suoi scoop, un po' criptici, avevano un pregio raro per quel genere di pubblicazioni: l'assoluta

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attendibilità della notizia. «Spiccavano, come diamanti purissimi in un letamaio di insinuazioni,

notizie esatte e documentate fino alla virgola», scrisse in morte «l'Espresso». Era uno strano

personaggio Mino, in cui si sommavano tante contraddizioni dell'epoca: uomo di destra ma non

fascista, descritto da chi l'ha conosciuto come un provinciale di buona educazione, superbo e

sprezzante del pericolo. Il generale Maletti, capo del SID, che aveva finito dopo tante aspre liti per

essergli amico, all'indomani della sua tragica morte disse di lui: «Aveva una baldanza nell'attaccare

persone che solo lui riteneva di poter attaccare, e questo gli piaceva moltissimo. In quel suo gioco si

divertiva immensamente».

Nato a Sessano del Molise il 14 giugno 1928, Mino ad appena sedici anni era diventato partigiano e

aveva combattuto nell'armata del generale polacco Anders. Anche in amore era appassionato e

insofferente. Ha avuto due figli da donne diverse: dal primo matrimonio era nato Stefano, che oggi

vive in Sudafrica; dal secondo Andrea. «Ogni volta che conosco una donna, in senso biblico, finisco

per sentire la necessità di costruire con lei un nuovo nido, di mettere su famiglia», confidava agli

amici.

Perfino quei suoi terribili, fortissimi mal di testa, sono divenuti oggetto di indagine. In una

biografia, Renzo Trionferà scriveva: «Era forse all'ordine delle sue emicranie il dover custodire nella

mente tanti segreti d'amore, di imbrogli, di veline scottanti, di conti da pagare, di processi da

subire...». Anche Andreotti soffriva di mal di testa e nell'ultimo periodo ci fu un cortese carteggio

tra i due in cui si scambiavano ricette e consigli. Troviamo agli atti una sorprendente letterina, in cui

Pecorelli ringrazia il Presidente, e conclude con questo sibillino messaggio: Sono fidente che il

futuro possa accomunarci oltre che nella sofferenza cefalgica anche nella difesa dei grandi ideali

della giustizia e della democrazia attraverso un rapporto che, sorto così singolarmente da

"supposte", sia sincero, duraturo e reciprocamente fiducioso.

Quando il killer dall'impermeabile bianco gli sparò, erano passati pochi giorni dalla famosa cena

alla "Famija Piemunteisa", avvenuta alla fine di febbraio. Nonostante le molteplici smentite di

Vitalone e degli altri partecipanti al convivio, sembra proprio che il principale argomento di

conversazione, tra Pecorelli e l'entourage andreottiano, riguardasse l'infuocata campagna che «OP»

stava conducendo attorno allo scandalo Italcasse. Così la Procura di Perugia, nel ricorso alla Corte

d'Assise d'Appello, descrive il clima della serata: «Durante la cena, Pecorelli saggia le reazioni degli

interlocutori "andreottiani" alle sue anticipazioni sulla sua prossima offensiva al Presidente e ai suoi

assegni, provocando in Vitalone agitazione e timore...». Ma nonostante gli incontri con i suoi

fedelissimi, nonostante le telefonate e lo scambio di "letterine", Andreotti non sembrò propenso,

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all'indomani del delitto, a rendere pubblici i suoi rapporti con la vittima. Mandò un telegramma alla

famiglia, ma in Transatlantico conversando con i giornalisti, che si affollarono intorno a lui per

saggiarne le reazioni, fece addirittura finta di non sapere chi fosse l'ucciso. E a chi gli chiedeva se

conoscesse o no il giornalista, rispose in modo vago: «Sì, ho sentito della morte di questo Pecorella o

Pecorelli, non ricordo come si chiama...». Forse anche lui, come Buscetta, lo aveva confuso con il

"picciotto" assassinato assieme al figlio del boss Inzerillo.

La guerra di Mino La sera in cui Pecorelli fu ucciso, in tipografia era già pronta l'ultima copertina di

«OP»: vi compariva a tutto campo la foto del presidente del Consiglio, con un titolo a caratteri

cubitali: "Gli assegni del Presidente". La copertina fu ritrovata, le pagine interne mai: forse

contenevano i nomi di chi aveva incassato gli assegni, come aveva anticipato Mino nelle settimane

precedenti. Due anni prima «OP» aveva pubblicato l'elenco completo, con tanto di codici bancari,

di una macroscopica storia di tangenti di circa due miliardi. Tangenti incassate dalla corrente

andreottiana in cambio di finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto che dall'Italcasse

finivano alla SIR di Nino Rovelli. Una tangentopoli ante litteram con sottofondo mafioso,

considerato che del pacchetto facevano parte anche due assegni di venti milioni che nel 77, appena

due anni prima, erano stati versati a Ciancimino perché desse la scalata alla DC siciliana a colpi di

tessere.

A partire dalla faccenda Italcasse, Andreotti era diventato il bersaglio fisso delle campagne di «OP».

Dallo scandalo dei fascicoli SIFAR, a quello dei Petroli, dalla strage di piazza Fontana agli attacchi

all'Ufficio D Affari Riservati, da Sindona al delitto Moro. Non deve stupire che Mino si fosse

appassionato tanto alla vicenda del Memoriale, che in realtà appassionava tutti i giornalisti. Ma lui

aveva forse un motivo in più: il'accuse di Aldo Moro contro Andreotti nobilitava le sue campagne

contro il Presidente, e i "segreti" che lo statista aveva rivelato, a partire dall'esistenza di quel "partito

antiguerriglia" dietro cui si celava Gladio, confermavano i suoi scoop più spericolati.

Per capire quel periodo è bene non procedere per capitoli separati. Se l'inchiesta sul delitto Pecorelli

ha un pregio, è proprio quello di unificare al suo interno vari spezzoni del sistema di potere vigente

in quegli anni, come fossero linee convergenti all'interno della medesima trama. A conclusione della

prima inchiesta sull'uccisione di Mino, archiviata a Roma nel '91, prima delle stragi di Palermo e del

ritorno di Buscetta, il PM Giovanni Salvi scrisse che «obiettivo di Pecorelli nei mesi precedenti la

morte era essenzialmente Licio Gelli e la struttura di potere che intorno a questi si era coagulata;

anche filoni apparentemente alternativi mostrano punti di contatto che tenderemo a evidenziare».

L'attenzione sul Venerabile, da parte del PM Sica, era stata provocata da un paio di articoletti di cui

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parleremo, comparsi su «OP» nei primi tre mesi del 79, in cui Pecorelli rivelava, documenti alla

mano, che durante la Resistenza il futuro capo della P2 colludeva con i comunisti e faceva il doppio

gioco. Ma non è detto che quello fosse un "attacco": anzi, come vedremo, molti elementi hanno poi

indotto a ritenere che potesse trattarsi di una campagna concordata tra Gelli e il redattore di «OP».

Andreotti, in verità, non saltava un numero. Mino era sempre informatissimo delle malefatte del

Divo Giulio, come lo aveva ribattezzato. Forse perché molti suoi scoop li otteneva offrendo la spalla

ai generali perdenti, più inclini alla confidenza. Raccontò Romolo Cardellini, il caporedattore di

«OP», che fino al 75 era Vito Miceli (allora capo del SlD) a inviare quotidianamente le sue velenose

noticine contro Gianadelio Maletti (allora capo dell'Ufficio D), con il quale solo successivamente,

dopo il suo arresto, Mino stringerà amicizia. Questi generali per un motivo o per l'altro ce l'avevano

con Andreotti, si sentivano usati e buttati via come un'amante tradita. E la loro rabbia trovava sfogo

nei trafiletti di Mino, in cui i cenni sprezzanti rivolti al senatore abbondavano: lo chiamava Padrino,

Don e Biscione.

Va riconosciuto che Pecorelli riuscì ad anticipare filoni investigativi, come i finanziamenti CIA alla

DC, in una maniera che dimostra come il giornalista fosse ben informato e scrivesse la verità.

Furono i suoi scoop e le sue campagne a provocare le dimissioni anticipate del presidente della

Repubblica, Giovanni Leone, e perfino giornalisti di fama come Camilla Cederna attingevano al

suo inesauribile serbatoio di informazioni "riservate". Soltanto molti anni dopo si è scoperto che

quasi certamente si trattava di una campagna orchestrata da Gelli: il Venerabile aveva sottoposto

all'attenzione del capo dello Stato il suo Piano R, la prima bozza del Piano di Rinascita Nazionale.

Ma Leone aveva fatto orecchie da mercante e la P2 non glielo aveva perdonato. In ogni caso Licio,

gran custode di scheletri nell'armadio, era per Mino una buona fonte, forse la migliore.

Non aveva soldi Pecorelli, era proprietario soltanto del suo appartamento sulla Camilluccia, frutto

di un'eredità familiare. Scrivono i giudici di primo grado: «Era un giornalista molto curioso e

capace, ma nell'estorcere informazioni, non nell'estorcere denaro. Con i pregi e i difetti insiti nella

natura umana è stato un giornalista appassionato, antagonista alla sinistra, ma non per questo

indulgente alla sua parte». Un giornalista molto speciale, soprattutto per l'odio che era riuscito a

suscitare. Ma anche un uomo solo. La sorella Rosita, che non si è mai arresa e ha sempre difeso la

memoria del fratello, così ricorda il loro ultimo incontro: Un mese prima di essere ucciso, mi pregò

di andare a casa sua. Era distrutto: mi disse che non aveva più una famiglia, che faceva tutto da solo,

che il mal di testa lo torturava. Piangeva come un bambino. A me sembrò anche molto spaventato.

Gli ultimi incontri Gli ultimi giorni di Mino furono particolarmente intensi, addirittura frenetici. Il

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21 marzo, se fosse stato ancora vivo, avrebbe dovuto incontrarsi con Licio Gelli. La sera prima di

essere ucciso aveva invece cenato con il capitano Antonio La Bruna, uno degli agenti meno segreti

del SID, amico per la pelle e, a quanto risulta dalla famosa agenda, gli aveva perfino regalato una

cravatta. Nell'ultimo periodo Pecorelli aveva intensificato contatti, incontri, telefonate. La sua

agenda del 79, che attraversa gli ultimi tre mesi di vita, era talmente fitta di scadenze da assomigliare

a quella di un ministro. A partire dai primi di gennaio si era incontrato più volte con Vita-Ione, con

l'ex capo dell'Ufficio Affari Riservati Federico d'Amato, e poi nell'ordine con Giampaolo Cresci,

Emo Danesi, Giovanni De Matteo, Flaminio Piccoli, Giancarlo Elia Valori, Giuseppe Trisolini,

ancora Vitalone, Franco Evangelisti, Pietro Musumeci, Ugo Niutta, Antonio Varisco, Egidio

Carenini, Tommaso Addario, Franco Picchiotti, Angelo Cosentino (consigliere del presidente

Leone, che aveva versato una ventina di milioni a Pecorelli per attutire la campagna contro il

Quirinale, ma inutilmente). Il nome del PM Luciano Infelisi ricorre cinque volte. I contatti

telefonici con Evangelisti sono frequentissimi. Per chi non avesse presenti i nomi sopracitati,

diremo che si trattava di personaggi di primissimo piano della politica, della magistratura e dei

servizi segreti, quasi tutti iscritti alla P2. Tre giorni prima di morire incontrò Trisolini, detto Nik,

braccio destro del generale della Guardia di Finanza Raffaele Lo Giudice.

L'argomento non poteva non riguardare lo scandalo Petroli, o perlomeno quello che diventerà lo

scandalo Petroli, visto che soltanto un anno e mezzo dopo la morte di Mino, il 9 maggio 1980, il

coordinamento interno della Guardia di Finanza inviò un rapporto alla Procura col quale si

chiedeva l'apertura di un'indagine sul possibile legame tra lo scandalo che aveva travolto il vertice

della Finanza e l'omicidio del direttore di «OP». Il fascicolo Mi.Fo.Biali fu una delle tre piste

imboccate da Sica subito dopo il delitto. Ma lo scandalo Petroli non era in quel momento in cima ai

pensieri di Pecorelli, impegnato su ben altri fronti. Ai primi di gennaio era con Dalla Chiesa nel

carcere di Cuneo, a caccia del Memoriale di Aldo Moro. Alla fine di febbraio lo troviamo a cena

insieme a Vitalone alla "Famija Piemontesa", ma pur avendo ricevuto offerte vantaggiose, come una

sessantina di milioni in contanti e l'allettante contratto pubblicitario da trecento milioni all'anno

con una società milanese a cui accennavamo, non sembrava disposto a rinunciare al suo scoop sugli

"Assegni del Presidente" e neppure, come sembra, alla pubblicazione del Memoriale Moro.

La mattina del 20 marzo, il giorno in cui fu ucciso, si era incontrato a Palazzo di Giustizia con il PM

Infelisi e gli aveva annunciato "notizie esplosive"sul rapimento del figlio di Giuseppe Arcaini, il

presidente dell'italcasse (questa fu la seconda pista seguita da Sica). Ma intanto frugava nel passato

di Gelli (la terza pista).

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A difesa di Andreotti va detto che ognuna di queste campagne, condotte da «OP» negli ultimi mesi,

avrebbe spiegato più di un omicidio, anche se purtroppo due o tre in un modo o nell'altro

riconducevano a lui.

L'unica certezza che emerse dalle indagini fu che qualcuno, quasi alla stessa ora del delitto, si

presentò in tipografia e a nome del direttore si fece consegnare un incartamento che era stato

portato nel pomeriggio dal cognato di Mino, Umberto Limongelli, il quale interrogato disse di non

sapere cosa conteneva la busta. Possibile che Pecorelli fosse stato tanto leggero da non procedere a

una duplicazione delle carte che attendeva, se erano davvero così segrete ed esplosive? Tutto quello

che avvenne nelle ore successive, ancora a distanza di anni, si presenta all'insegna della confusione.

Sica e i carabinieri rimasero tutta la notte nella redazione, riempirono numerosi scatoloni con tutte

le carte trovate in via Tacito, poi sigillarono l'ufficio. Fu rimproverato al magistrato romano il

ritardo con cui si era proceduto alla verbalizzazione del materiale sequestrato. Anni dopo, quelle

scatole finirono negli archivi della Commissione P2, nello stesso identico disordine denunciato

all'origine: c'erano mescolati insieme documenti riservati, fascicoli segretissimi, agende,

block-notes fitti di appunti personali, bozze di articoli non ancora compiuti. Le scatole più segrete

della Repubblica sono ancora lì, in piazza di san Macuto, a disposizione di chiunque voglia

ricostruire questa tragica storia.

Ed è pescando tra i documenti di queste scatole che ho cercato di districare il groviglio dei moventi e

dei possibili mandanti cui abbiamo fatto cenno nelle ultime pagine e dove ho scoperto che il nome di

Andreotti ricorre fin dall'inizio delle indagini in almeno due delle tre piste poi abbandonate.

Tre piste per un delitto La vita privata di Mino Pecorelli, nonostante la movimentata situazione

sentimentale e qualche incertezza economica, non presentava zone d'ombra. Nessun movente

privato: questa fu subito l'ipotesi della Procura di Roma. Le indagini sull'omicidio puntarono subito

sull'attività professionale della vittima, noto corsaro dell'informazione scandalistica, cercando il

possibile movente tra le notizie che il giornalista aveva già pubblicato, ma soprattutto fra quelle che

aveva in mente di pubblicare. Il PM Domenico Sica, titolare dell'inchiesta, individuò tre filoni

ispirati alle campagne di stampa che Pecorelli aveva avviato nei mesi precedenti la morte, ognuno

dei quali pescava informazioni da documenti "riservatissimi". Le tre piste riguardavano lo scandalo

dei petroli, la vicenda Italcasse e per ultimo la rivelazione fatta a gennaio su «OP», appena due mesi

prima dell'omicidio, di un attestato di benemerenza del Comitato di Liberazione Nazionale di

Pistoia nei confronti di Lido Gelli, dietro il quale s'intuiva il "tradimento" del Venerabile nei

confronti di una sessantina di fascisti poi fucilati dai partigiani. Un'azione che, secondo il PM, non

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giovava alla reputazione "anticomunista" del capo della P2.

Alla fine fu proprio questa la pista che prevalse, nell'81, dopo l'esplosione dello scandalo degli

iscritti alla Superloggia e la fuga all'estero di Gelli.Sica trascurò il caso Moro, non diede peso alle

"minacciose" anticipazioni annunciate negli ultimi numeri di «OP», tantomeno indagò sui possibili

incontri tra Pecorelli e Dalla Chiesa di cui c'era già qualche traccia nelle agende del giornalista. Il

Venerabile fu indagato per una decina di anni come mandante del delitto, in compagnia dei due

presunti esecutori: i neofascisti romani Massimo Carminati e Giusva Fioravanti. L'inchiesta

galleggiò su tutti i possibili misteri d'Italia, fino all'archiviazione nel '91 con un «non luogo a

procedere» nei confronti dei tre indagati.

Nel '93, dopo le rivelazioni di Buscetta, quando il procuratore capo di Roma Vittorio Mele inviò al

Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Giulio Andreotti, per una sorta di

contrappasso l'inchiesta imboccò sì - finalmente - la pista Moro, ma dalle carte scomparve ogni

possibile connessione con il ruolo che Gelli e la P2 potrebbero aver avuto perlomeno nella gestione

delle indagini sul sequestro del presidente DC. Un legame che appare evidente per l'appartenenza

alla Superloggia di tutti gli uomini chiamati a indagare su via Fani e l'uccisione dello statista: dai

capi dei servizi segreti agli alti funzionari della Polizia di Stato, ai responsabili dei nuclei

antiterrorismo, erano in tutto cinquantatré gli appartenenti agli apparati della sicurezza e

dell'ordine pubblico ai quali furono in seguito addebitati inefficienza e omissioni e altre "stranezze"

per la gestione dell'indagine. Lo stesso Gelli, stando alle molte "voci" pervenute alla Commissione

Moro, avrebbe partecipato alle riunioni del comitato di crisi al Viminale con il falso nome di

Luciani: notizia che non è mai stato possibile accertare.

Non mancano elementi di raccordo tra le due inchieste: uno è rappresentato da Massimo Carminati,

presunto esecutore del delitto Pecorelli, indicato come l'armiere della Banda della Magliana sia dai

giudici romani sia da quelli di Perugia. Che la 7,65 utilizzata per uccidere Pecorelli provenisse dagli

scantinati del ministero della Sanità, in via Liszt, dov'era nascosto il deposito di armi cui

attingevano malavita e terroristi neri, è l'unica certezza di un'inchiesta che si è protratta per

vent'anni. È perciò difficile comprendere come i magistrati di Roma, Palermo e Perugia, che pure

sono stati accusati in questi anni di aver voluto ricostruire la storia d'Italia in un solo processo, non

abbiano sentito l'esigenza di approfondire i rapporti, sempre rimasti nell'ombra, tra il Venerabile e

Andreotti.

Un vuoto che rischia di azzerare non soltanto la possibile "verità" sull'omicidio Pecorelli, ma anche

tutti gli sforzi compiuti per ricostruire il contesto storico in cui il delitto è maturato: non deve

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stupire che la sentenza ne sia uscita dimezzata. Senza alterare la ricostruzione processuale, crediamo

dunque utile alla comprensione dei fatti riproporre tutti i capitoli della Pecorelli-story: anche

quello, peraltro appassionante, del Venerabile Licio.

Lo scandalo Petroli Quella dei Petroli fu una pista battuta a lungo da Sica, ma in realtà lo scoop di

Pecorelli era andato a vuoto. Le rivelazioni erano state accolte in silenzio dagli interessati e la

magistratura aveva atteso due anni per aprire un'inchiesta su quello che si presentò come il più

grosso scandalo degli anni Settanta, che portò in carcere l'intero vertice delle Fiamme Gialle e

dimostrò, con venti anni di anticipo, il sistema di corruzione vigente nel finanziamento dei partiti e

delle correnti politiche. In sintesi, era successo questo: sotto lo sguardo vigile dei finanzieri,

venivano importate in Italia ingenti quantità di petrolio dalla Libia (si è parlato di un sesto del

fabbisogno nazionale) la cui vendita arricchiva gli stessi vertici della Guardia di Finanza, che

ripartivano gli utili tra i loro protettori.

Mino ne aveva cominciato a parlare su «OP» nel 77; al momento della morte aveva quasi

interamente pubblicato il dossier del SID, ma non c'erano state reazioni significative a quelle

clamorose notizie. Questo da la misura non soltanto del clima politico stagnante di quegli anni, ma

anche delle barriere che la Procura di Roma opponeva nei confronti di ogni possibile notitia

criminis con risvolti politici.

Il dossier dei servizi, denominato Mi.Fo.Biali risaliva agli anni 74-75. Partiamo dalla sigla: Mi

come Miceli, il capo del servizio segreto che avrebbe coperto il traffico di petrolio; Fo come Mario

Foligni, fondatore del Nuovo Partito Popolare nato con l'intento di contrastare la DC che

«considerava corrotta» e che nella vicenda avrebbe svolto il ruolo di intermediario con personalità

libiche e maltesi; Biali come anagramma di Libia. All'indagine del SID si era affiancata anche la

Guardia di Finanza, con intercettazioni telefoniche e ambientali illegali perché, dimenticavamo di

dire, la magistratura non fu mai informata dell'indagine del servizio segreto. Citiamo dalla sentenza

di Perugia: «L'autorizzazione a indagare su Foligni era stata data, secondo il generale Maletti, dal

ministro della Difesa che era all'epoca Andreotti». Pecorelli aveva pubblicato ampi stralci del

dossier sostenendo che dall'indagine emergevano episodi di corruzione ed esportazione illegale di

valuta degli alti gradi della Guardia di Finanza (in particolare del comandante del Corpo generale

Raffaele Giudice, della moglie, del suo segretario particolare Giuseppe Trisolini e del

vicecomandante Donato Lo Prete) e un traffico di petrolio con la Libia cui erano interessati Foligni,

il fratello del premier di Malta, Don Mintoff, petrolieri italiani, alti prelati e lo stesso Giudice.

Questo pressappoco 1'"inghippo", come lo descriveva Pecorelli: La benzina usciva da un deposito

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SIP (un punto franco di dogana in cui viene stivato il carburante in attesa di essere acquistato da

grossisti con la sua bolla di accompagno). Su c'era scritto che era destinato a X e invece finiva a Y.

Una mano amica dell'unì-' chiudeva abbastanza gli occhi: i doganieri vedendosi riportare la bolletta

potevano non saperne niente. Unici a parte dell'inghippo erano i camionisti delle autobotti [...] le

società che abbiamo chiamato X erano società fantasma con sede in mezzo ai canneti o in prati verdi.

Quanto alle società definite Y, interrogate dalla magistratura sul mancato pagamento dell'imposta

di fabbricazione, hanno dichiarato di non dover nulla per aver acquistato la benzina da un'altra

società...

La vicenda coinvolse pesantemente Licio Gelli e Umberto Ortolani, braccio destro del Venerabile,

ambienti finanziari italiani e anche Sereno Freato, che tirato in ballo reagì con la sibillina battuta:

«Indagate sull'omicidio Pecorelli e scoprirete i mandanti dell'omicidio Moro». Nei guai finì invece,

ancora una volta, il generale Maletti sospettato di essere stato lui a passare il malloppo all'amico

giornalista con lo scopo di un'ennesima atroce vendetta nei confronti dell'odiato Miceli. Il capo

dell'Ufficio D fu anche accusato di aver insabbiato lo scandalo, visto che non aveva trasmesso gli atti

alla magistratura. «Ho consegnato il dossier al mio successore, non sta a me valutare l'uso che ha

fatto dell'indagine», fu la debole autodifesa.

Andreotti (all'epoca ministro della Difesa) per questa vicenda finì di fronte al Tribunale dei

ministri: ne uscì indenne e senza aver proferito parola. A distanza di tanti anni, non si comprende

cosa possa averlo spinto a sollecitare un'indagine che ha finito per danneggiare i comandanti della

Guardia di Finanza, come Giudice e Lo Prete, considerati vicini al suo entourage. L'unica ipotesi è

che potesse essere interessato ad avere informazioni su Foligni e il suo partito, e forse a causa di ciò

non abbia poi informato la magistratura. Ma si intravede anche una schermaglia, un conflitto,

un'improvvisa ostilità con Gelli difficilmente comprensibile dall'esterno: per questo sarebbe stato

auspicabile un approfondimento giudiziario sui rapporti tra il senatore e il Venerabile. Scrivono i

giudici di Perugia: Andreotti aveva interesse a che il dossier Mi.Fo.Biali rimanesse segreto, visto

che «nella sua qualità di ministro della Difesa aveva utilizzato lo spionaggio politico [ai danni di

Foligni] utilizzando mezzi illegali»; ma vi erano interessati anche i generali della Guardia di

Finanza, «che dalla pubblicazione degli articoli vedevano compromessa la loro posizione».

In realtà Pecorelli fu ucciso non per quello che aveva già scritto, ma per ciò che era in procinto di

scrivere: aveva già pubblicato l'intero dossier nel marzo '79, sotto il titolo "Petrolio e manette", una

telenovela in quattro puntate, che era caduta nel più assoluto silenzio. Mino era un battitore

solitario, abituato alle sconfitte; lo scandalo Petroli esplose con due anni di ritardo, e forse soltanto

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grazie alla sua morte, tanto forte era l'impermeabilità del sistema di potere in quegli anni. Nel '93,

nella richiesta di rinvio a giudizio nei confronti del senatore, il PM Salvi scrive: «Nulla fino a quel

momento era trapelato al di fuori del sid e del suo referente politico Giulio Andreotti».

L'Italcasse «Il coinvolgimento di Andreotti era già nelle carte che Sica aveva a disposizione nel 79»,

tuonò il relatore di minoranza alla Commissione P2, Massimo Teodori. Ma l'ex deputato radicale

non si riferiva ai Petroli, bensì all'Italcasse, la seconda delle tre piste individuate dal PM romano. Lo

scandalo Italcasse riuniva una serie di vicende che avevano quale comune denominatore l'ingerenza

dei partiti (ma soprattutto della DC e al suo interno della corrente andreottiana) nella gestione

dell'Istituto centrale delle Casse di Risparmio italiane, noto come Italcasse. La banca, che

finanziava opere pubbliche, era in quel periodo oggetto di numerose inchieste amministrative e

giudiziarie per l'elargizione di "fondi neri" (operazioni illecite di finanziamento ai partiti attraverso

operazioni contabili "in nero") e di "fondi bianchi" (la concessione anomala di crediti a imprese

collegate al mondo politico che ne otteneva in cambio cospicue tangenti). Una vicenda molto

complessa, per i riflessi sia politici sia giudiziari, che a noi interessa soltanto per quanto riguarda la

nostra inchiesta. Al centro dello scandalo c'erano le situazioni debitorie della SlR di Rovelli e della

società Caltagirone, che nei confronti dell'Italcasse avevano totalizzato debiti per centinaia di

miliardi. Quando il direttore generale dell'Italcasse, Giuseppe Arcami, fu costretto alle dimissioni,

le società rischiarono la bancarotta e Andreotti fu accusato di essere indebitamente intervenuto, in

qualità di presidente del Consiglio, nelle operazioni di salvataggio.

Nei giorni successivi al delitto, ci furono alcune rivendicazioni anonime che avevano tutta l'aria di

sollecitare l'attenzione degli inquirenti sull'Italcasse, come possibile movente dell'omicidio

Pecorelli. Arrivò in Procura anche un volantino, siglato da un sedicente Partito Armato Europeo,

nel quale si affermava che l'omicidio era stato «organizzato dalle forze monetarie anglofile legate

alla Banca d'Italia». Pecorelli vi veniva descritto come un ricattatore professionista, «un taxi usato

dai vari servizi segreti per operazioni di ricatto». Il messaggio dell'Anonimo sembra piuttosto

equivoco: in realtà Pecorelli aveva costantemente seguito la vicenda, con articoli a cadenza

settimanale, attingendo oltre che a sue fonti personali anche alla relazione ispettiva della Banca

d'Italia che portò alle dimissioni di Arcaini, firmata dal capo della vigilanza Mario Sarcinelli, dando

massimo risalto al contenuto della stessa (fondi neri e contabilità occulta). Non era la Banca d'Italia

il bersaglio di Mino; anche se era molto interessato agli sviluppi dell'Italcasse.

All'indomani del delitto, il PM Luciano Infelisi, amico del giornalista, si catapultò dal procuratore

capo di Roma Achille Gallucci affermando che poche ore prima di essere ucciso Pecorelli era andato

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a trovarlo nel suo ufficio per dirgli che aveva avuto notizie esplosive sul rapimento del figlio di

Arcaini, il direttore dell'Italcasse. E anche l'avvocato Franco De Cataldo, radicale, difensore del

giornalista nei processi di querela, interrogato da Sica confermò: «Sì, era a caccia di notizie

sull'Italcasse, mi aveva chiesto informazioni sull'istruttoria».

Le anticipazioni di Mino risalivano all'ottobre '77, un anno e mezzo prima della morte, quando

Arcaini era stato costretto alle dimissioni. Pecorelli lo difese, sostenendo che la magistratura aveva

centrato l'attenzione soltanto sul conto di sei miliardi a lui intestato, tralasciando altre operazioni e

altre responsabilità. In quei giorni «OP» pubblicava un primo elenco di assegni per l'ammontare di

due miliardi e rivolgeva ad Andreotti questa domanda: «Presidente, a lei questi assegni chi glieli ha

dati?». Domanda retorica. Il giornalista sapeva benissimo che provenivano dal petroliere Nino

Rovelli, presidente del colosso chimico SIR Rumianca e gran finanziatore della corrente

andreottiana (se n'è recentemente tornato a parlare a proposito del processo IMI-SIR). La SIR era

in una situazione di totale deficit e aveva contratto un debito inestinguibile con l'Italcasse di

duecentodiciotto miliardi. Lo scandalo fu uno degli argomenti trattati da Moro nel Memoriale:

«L'Italcasse è il grande elemosiniere della DC». Così era scritto nella versione del 78. Ma nel

manoscritto ritrovato nel '90, il presidente DC esprimeva durissime critiche ad Andreotti; secondo

il professor Francesco Maria Biscione (autore di uno studio comparato delle varie versioni degli

scritti di Moro), questo passaggio porta il segno della manipolazione. Nel 78 lo scandalo era ancora

sui giornali e le pesanti affermazioni di Moro avrebbero gravemente danneggiato Andreotti, come

vedremo più avanti. Proprio alla fine di quell'anno, Mino era tornato sull'argomento con nuove

rivelazioni: «È una bomba, l'Italcasse non è finita, è appena cominciata, ai primi dell'anno verrà

fuori chi ha preso gli assegni». E muoveva ad Arcaini il rimprovero di aver creato «un cordone di

società finanziarie e immobiliari rette da uomini che in un modo o nell'altro ne condizionano

l'attività». Il 16 dicembre 1978 Arcaini fuggì all'estero, dove morì di infarto tre mesi dopo; soltanto

allora si seppe che contro di lui era stato emesso un avviso di reato per peculato. Qualche mese

prima su «OP» era apparsa la notizia che il direttore generale era stato liquidato «con centinaia e

centinaia di milioni dal consiglio di amministrazione».

Gli "Assegni del Presidente" La campagna di stampa orchestrata da Pecorelli sugli "Assegni del

Presidente" certamente non era gradita ad Andreotti, né al suo entourage: abbiamo visto come

l'argomento sia stato oggetto della famosa cena al ristorante la "Famija Piemunteisa", durante la

quale Pecorelli e Vitalone, in presenza del giudice Carlo Adriano Testi e del vicecomandante della

Guardia di Finanza, discussero del servizio che «OP» era in procinto di pubblicare con tanto di foto

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di Andreotti in copertina, rabberciando alla fine un accordo economico su un contratto

pubblicitario da trecento milioni, più una trentina in contanti per la tipografia. I giudici, come

sappiamo, non hanno ritenuto che nel corso di quell'incontro sia stato trovato alcun accordo solido

e definitivo con il giornalista e hanno respinto la tesi dei difensori del senatore secondo cui,

ammesso che questa trattativa sia avvenuta, ciò basterebbe a sgombrare il campo da ogni ipotesi

omicidiaria. Pecorelli non era affidabile, afferma la Corte, gli amici di Andreotti sapevano

benissimo che avrebbe finito per scrivere tutto quello che sapeva: la cena e l'offerta in denaro erano

soltanto un tentativo di tenerlo buono e prendere tempo.

E poi non è l'Italcasse il movente del delitto, ma l'imminente pubblicazione di ampi stralci del

Memoriale. Gli articoli sugli "Assegni del Presidente" avevano però esasperato i rapporti tra il

giornalista e il clan andreottiano. Anche perché Pecorelli aveva effettivamente le prove delle

tangenti pagate brevi manu ad Andreotti, sotto forma di assegni di piccolo taglio, da Nino Rovelli.

Franca Mangiavacca nel '93 si è ricordata che Mino aveva avuto alcune fotocopie di quegli assegni

da Ezio Radaelli, l'ex patron del Cantagiro. Al canzonettista, scopritore di talenti come Rita Pavone

e Teddy Reno, erano stati girati direttamente da Andreotti per organizzare serate musicali durante

una campagna elettorale. Il pacchetto ammontava a centosettanta milioni di lire, cifra ingentissima

per quegli anni. Ed è stato proprio lui, il patron, a mettere definitivamente nei guai il senatore.

Convocato dai magistrati nel maggio '93, Radaelli ha confermato di aver dato le fotocopie a Mino e

ha perfino detto di essere stato oggetto di pressioni da parte di una persona vicina al senatore che,

poco prima dell'interrogatorio, era andata a trovarlo per fargli capire che non doveva fare il nome di

Andreotti: «Non è che me lo abbia detto apertamente, me lo ha suggerito. Ricorda quegli assegni di

Rovelli che le diede Wagner? No, risposi, ricordo che me li diede Andreotti. E lui se n'è andato».

Povero senatore, è stato anche accusato di tentativo di corruzione del teste he mani della mafia Il

direttore di «OP» era l'unico in quegli anni a fare guerra aperta al Presidente; attaccare Andreotti

era diventata per lui una missione. In un'intervista pubblicata nel giugno '93 dal «Corriere della

Sera», a firma di Paolo Graldi, l'avvocato Gianfranco Rosini, che era andato a trovarlo poche ore

prima che fosse ucciso, rivela: Mino mi aveva confidato che per circa due anni era stato una specie di

segretario personale di Andreotti. Io dissi: «Un personaggio ambiguo questo Andreotti». E lui

rispose: «Uno dei grandi criminali della storia, sto approntando un fascicolo documentatissimo che

svelerà chi è veramente Andreotti e quali e quanti siano i suoi crimini».

Capitoli che in un modo o nell'altro riconducevano a quel "patto con la mafia" di cui lo accusano

oggi i magistrati di Palermo. E la mafia compare per la prima volta, nelle indagini sull'omicidio

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Pecorelli, proprio a margine dello scandalo Italcasse. La mattina del 20 marzo, poche ore prima di

essere assassinato, era andato da Infelisi per dirgli che aveva tra le mani "materiale esplosivo" sul

figlio di Arcaini: informazioni dirompenti sulla scandalo della Pubblica Banca. Di che poteva

trattarsi? Se non gli avessero sparato, probabilmente avremmo letto la seconda puntata dell'articolo

pubblicato sul numero 5 di «OP». Ma il primo "colpo" lo aveva già messo a segno, era in edicola

quando il killer dall'impermeabile bianco ha aperto il fuoco in via Tacito.

La storia era in effetti "scoppiettante", come disse a Infelisi. Sotto il titolo "Caro Paul... firmato

Arcaini", Mino raccontava di uno strano rapimento avvenuto la sera del 19 marzo '77, quando il

figlio di Arcaini era stato affrontato da due uomini incappucciati sotto la sua casa di Milano: Erano

circa le due di notte e Rino Arcaini, il figlio del direttore generale dell'Italcasse, parcheggiata l'auto

stava per rientrare nella sua abitazione quando gli si pararono davanti, pistola alla mano, due

individui con il viso coperto da passamontagna di lana. Di qui in avanti la meccanica del sequestro

(che di sequestro si tratta) segue sviluppi che non hanno precedenti nella storia del crimine.

I due malviventi, spiega Pecorelli, avrebbero ordinato a Rino Arcaini di salire in casa e sotto la

minaccia delle pistole lo avrebbero obbligato a scrivere tre diverse lettere a questo misterioso Paul,

della cui copia Mino era entrato in possesso (questo lo scoop!), e nelle quali egli si autodenunciava

di altrettanti gravi episodi destinati a restare sotto silenzio. Nella prima riconosceva di aver venduto

«a una società francese il 49 per cento della Francis... e di aver depositato il ricavato in una banca

svizzera»; nella seconda dichiarava di essere il vero responsabile di un incidente costato la vita a due

operai per il quale fu assolto «da magistrati giudicanti ai quali fu molto riconoscente»; nella terza

scriveva di aver effettuato insieme ad altri soci numerosi viaggi in America e di aver condotto in quel

paese transazioni di affari «a seguito delle quali ha lucrato utili per l'importo di trentacinque

miliardi, anche questi depositati in Svizzera». E così conclude: Fatti sottoscrivere ad Arcaini i tre

capi d'imputazione (per estorcere la confessione non occorrono meno di tre ore), i due incappucciati

gli raccomandano di informare il padre dell'accaduto perché provveda a procurarsi dieci miliardi di

spiccioli, quindi gli somministrano un potente narcotico, aspettano che cominci a dormire e se ne

escono indisturbati dalla Comune. A Milano è l'alba del 19 marzo, San Giuseppe, il santo di

Arcaini.

La spiegazione di questo ingarbugliato affare l'ho trovata negli "scatoloni" di Sica, quello dove il

magistrato la notte del 20 marzo, subito dopo l'omicidio, aveva raccolto tutte le carte recuperate

nella redazione di «OP», bozze di articoli, block-notes, appunti, fotocopie e documenti

riservatissimi.Tra gli allegati alla relazione della Commissione P2, dove alla fine quei documenti

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erano approdati, al tomo XXIII c'è una fotocopia della lettera indirizzata al fantomatico Paul e

un'informativa che rende possibile ricostruirne l'identità: «Frey Paul Roberto, vero nome Frei

Aloisio Paul. Mov. estrema destra, furto Volkswagen, omicidio Benz Ottimar, trafficante d'armi,

venduto a Salvatore pistola e armi, identificato Luigi Salvatore, Fronte rivoluzionario». L'appunto

era uno dei tanti che Mino prendeva al telefono parlando con qualche "vocina" amica. Chi era Paul

Aloisio Frei? Che ruolo ha giocato nel sequestro del figlio di Arcaini, per conto di chi aveva

condotto il pesante ricatto nei confronti del presidente dell'Italcasse? Lo scenario che s'intravede

dietro il rapimento falso-vero è il solito e via via che ci inoltriamo in questa fantastica storia

dobbiamo farci l'abitudine: mafia, trafficanti d'armi, terrorismo nero, malavita romana e gangster

marsigliesi. In una parola, la Banda della Magliana, che alla fine degli anni Settanta poteva essere

già considerata il braccio armato dei poteri forti, anche se il giudice Verrina non è riuscito a trovare

prove sufficienti per "incastrare" i presunti esecutori dell'omicidio di Mino Pecorelli.

In quel block-notes, trovato a san Macuto, assieme alla fotocopia della lettera al misterioso Paul,

c'erano anche le riflessioni che Mino andava facendo mentre si avviava a passi veloci verso la morte:

Andreotti è un capo quasi assoluto cui tutto per la Ragion di Stato è concesso [...]. C'era un altro

Presidente che non aveva la macchina blindata, non presidente del Consiglio, ma presidente del

Consiglio nazionale del suo partito, la DC. Un tale chiamato Aldo Moro.

Più avanti troviamo un'altra noticina preziosissima, quanto a primo impatto indecifrabile: Il

pasticcio Italcasse rivela un personaggio, un'eminenza grigia, che vale a gettare parecchia luce

sull'oscura e torbida vicenda. Si tratta del finanziere italo-svizzero Florent Ravello Ley, amico e

socio di Addario [condirettore generale dell'Italcasse], già prima che questi venisse esaltato ai fasti

dell'Italcasse era consigliere della Flaminia Nuova e reale dominus...

Queste poche righe rivelano che Mino aveva individuato quell'invisibile filo che lega l'economia

legale all'imprenditoria mafiosa, l'intreccio di denaro pubblico e privato attraverso un sistema di

riciclaggio che aveva i suoi terminali nelle banche svizzere. La Flaminia Nuova, la SOFINT e altre

società del finanziere Florent Ley Ravello erano clienti dell'Italcasse, usufruivano di crediti

illegittimi, ma facevano anche parte di quel reticolo di società finanziarie e imprenditrici legate alla

Banda della Magliana, di cui lo svizzero Ley Ravello era il socio più presentabile di una cordata che

in ogni caso riportava a Pippo Calò, il tesoriere di Totò Rima. Torneremo a parlare di Florent, della

Flaminia Nuova più avanti, via via che ci avvicineremo all'intreccio più oscuro che si cela dietro

l'omicidio Pecorelli e capiremo fino in fondo il pericoloso significato di quell'appunto che Mino

scrisse pochi giorni prima di morire.

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La stagione del golpe L'omicidio di Mino Pecorelli chiude un decennio drammatico, culminato

l'anno precedente con la strage di via Fani e il delitto Moro. Per capire il contesto in cui si colloca il

più grave delitto politico compiuto in Italia, occorre ricostruire quello che Pasolini definiva «il

romanzo delle stragi», le cui radici affondano in anni ancora più lontani, i primi anni Sessanta,

quando ci fu la svolta del centrosinistra.

La lunga stagione del golpe durò circa dieci anni, dal '64 al '74, e si intrecciò con quel periodo di

complotti, attentati, bombe che divenne poi tristemente noto come la "strategia della tensione".

Dalle indagini sui gravi fatti di sangue degli anni Settanta, sono emersi finora soltanto frammenti

della trama perseguita dagli ignoti burattinai, che sembravano tirare le fila del disordine con il solo

scopo di creare le condizioni per un intervento militare "forte", in grado di garantire una svolta

autoritaria. All'interno di questo progetto si muovevano ambienti e forze politiche eterogenee, che

andavano da una destra ancora istituzionale a un'ala realmente golpista, nella quale avevano trovato

legittimazione neofascisti, nostalgici e partigiani anticomunisti. Un ruolo di non poco rilievo, in

questa lunga serie di attività illegali, lo hanno ricoperto in quegli anni i servizi segreti: il SIl-'AR

(Servizio Informazioni Forze Armate) negli anni Sessanta, più tardi il SID (Servizio Informazioni

Difesa) e per finire il SISMI (Servizio Informazioni e Sicurezza Militare) e il SISDE (Servizio

Informazioni e Sicurezza Democratica) fino a quando, con la riforma del '77, la nostra inteliigence

fu scissa in due tronconi: da un lato il controspionaggio militare, dall'altro la sicurezza interna. Ma

le cose non andarono meglio: alla "strategia della tensione" era subentrata la fase degli "opposti

estremismi" e del terrorismo brigatista che culminerà con il sequestro Moro.

Uno dei più appassionanti enigmi della Prima Repubblica riguarda il ruolo che Andreotti ha avuto,

sia nella vicenda golpista sia nelle trame successive, per via delle profonde relazioni che lo legavano

ai servizi segreti. La sua permanenza al ministero della Difesa, dove rimase più a lungo di ogni altro

uomo di governo, ha contribuito a far accrescere attorno a lui quella sulfurea leggenda di uomo

potente, pericoloso e per questo inaffondabile. Un'accusa dalla quale Andreotti si è sempre difeso

così: «Con i servizi segreti non ho mai avuto relazioni, me lo hanno sempre sconsigliato per il mio

prestigio e io ho seguito il consiglio». Quanto ci sia di vero non sappiamo, ma un barlume di luce sui

reali rapporti tra Andreotti e i generali golpisti, ce lo offre la lettura incrociata degli unici

protagonisti di quegli anni che osarono attaccarlo su questo imperscrutabile fronte.

Naturalmente troviamo da un lato Moro e il suo Memoriale, dall'altro Pecorelli con le sue velenose

e informate noticine su «OP». Anzi alcuni scritti di Pecorelli, del 78, erano in tale "sintonia" con

quanto il presidente DC aveva appena rivelato alle Brigate Rosse nel Carcere del Popolo, da indurre

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i giudici di Perugia a sospettare che il giornalista avesse una fonte "personale" in grado di informarlo

quasi in "diretta" su quanto diceva il prigioniero, molto prima che i memoriali divenissero pubblici.

La fonte non poteva essere Dalla Chiesa, o perlomeno non soltanto lui, dal momento che alcuni

articoli precedono l'incontro con il generale. I giudici di Perugia non hanno perciò escluso che

Pecorelli avesse un contatto personale all'interno delle Brigate Rosse, o molto vicino

all'organizzazione.

La strategia della tensione Al termine di un anno che aveva visto crescere la contestazione

studentesca e poi la mobilitazione operaia nelle fabbriche, culminata con 1'"autunno caldo",

all'interno della Banca Nazionale dell'Agricoltura, di piazza Fontana a Milano, esplose una bomba

ad alto potenziale che fece diciassette morti e ottantacinque feriti. Era il 12 dicembre 1969: fu il

momento più incandescente della strategia della tensione, un punto di non ritorno nella storia della

nostra democrazia. La strage di piazza Fontana è considerata la madre di tutte le stragi che, da quel

momento in poi hanno segnato i passaggi cruciali della nostra vita politica. Tutto quello che è

accaduto, prima e dopo piazza Fontana, è possibile leggerlo attraverso la lente dell'inchiesta

"infinita" sui responsabili, durata oltre vent'anni e riaperta dal giudice Guido Salvini nel '94.

L'ultima indagine in ordine di tempo si è recentemente conclusa con la riaffermazione della

colpevolezza dei primi imputati, Franco Preda e Giovanni Ventura, non più perseguibili perché

definitivamente assolti, e con la richiesta di arresto nei confronti di Delfo Zorzi, in Giappone da

anni, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni irreperibili. La decisione forse non è servita ad

assicurare alla legge i responsabili, ma ci ha consentito di rileggere in modo unitario l'intera fase

della "strategia della tensione".

L'inizio della stagione dei golpe viene datato al '64, quando il generale Giovanni De Lorenzo,

comandante generale dei Carabinieri ed ex capo del SIFAR, mise a punto il "Piano Solo". Fu così

definito perché, nei progetti dell'allora capo di Stato Antonio Segni (preoccupato per le

inquietudini che il nascente centrosinistra aveva provocato) avrebbero dovuto partecipare

all'operazione soltanto i carabinieri, di cui maggiormente si fidava. Il "Piano Solo" prevedeva, oltre

all'occupazione dei centri politici e istituzionali, la deportazione in Sardegna di una lista di

enucleandi, la cosiddetta Lista E, di cui dovevano far parte sindacalisti, dirigenti comunisti, ma

anche socialisti, compresi alcuni parlamentari: lista mai recuperata, ma certamente esistente: fu

proprio Andreotti a confermarlo alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta Biolchini.

L'elemento più interessante del mancato golpe di De Lorenzo è il primo certo coinvolgimento di

Gladio, dato che i deportati avrebbero dovuto essere concentrati presso la base militare di Capo

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Marrargiu, a nord di Alghero, che alla luce delle attuali conoscenze era il luogo dove venivano

addestrati gli uomini dei reparti Stay Behind, per una guerra da combattersi "dietro le linee" in

nome dell'anticomunismo, non contro il nemico invasore ma contro nemici interni, anche a prezzo

di fomentare un conflitto civile.

Per capire meglio la genesi della sindrome golpista dobbiamo fare qualche accenno alla biografia di

De Lorenzo: a proporlo capo del SIFAR era stato nel '55 l'allora presidente della Repubblica

Giovanni Gronchi. La sua nomina fu molto gradita all'ambasciatrice statunitense Claire Booth

Luce e in particolare al suo consigliere politico AUen Dulles, uomo della CIA, che consideravano

Gronchi un po' troppo "sinistro" e vedevano di buon occhio che fosse tenuto sotto stretto controllo.

Controllo che non mancò di essere eseguito, tanto che il capo del SIFAR finì per piazzare cimici

anche in Vaticano per sapere cosa dicesse il capo dello Stato al papa. Per dare un'idea del clima in cui

maturò il primo progetto golpista, possiamo aggiungere che il responsabile militare dell'ambasciata

americana, Verner Walters, si muoveva dicendo che se i socialisti fossero andati al governo, gli USA

sarebbero stati costretti a invadere militarmente l'Italia.

Questa decisione di mettere sotto controllo l'intero mondo politico diventò una tale ossessione che

il servizio finì per compilare 157 mila schede informative su politici, sindacalisti, uomini di Chiesa,

imprenditori, giornalisti. Una schedatura di massa, che insieme alle rivelazioni sul mancato golpe,

pose fine nel '67 alla carriera di De Lorenzo, proprio quando era riuscito a diventare Capo di Stato

Maggiore dell'Esercito. Il generale fu fatto fuori sull'onda dello scandalo: fu anche deciso di

eliminare i 157 mila fascicoli, raccolti illegalmente, completi di notizie sulla vita privata di una

moltitudine di personaggi pubblici. Ma la "grande fumata", come fu definito il rogo delle schede, fu

rinviata di stagione in stagione. Nel frattempo le schede più interessanti, nell'ordine di qualche

migliaio, finirono in copia al generale Allavena che, una volta iscritto alla P2, le passò a Licio Gelli

il quale seppe farne buon uso.

Prima di essere destituito, De Lorenzo era riuscito a piazzare tutti i suoi uomini nei posti chiave dei

più importanti uffici, sia del SiFAR che dell'Arma, creando in violazione di ogni norma di sicurezza

democratica, un unico mastodontico servizio segreto alle cui dipendenze troveremo migliaia di

uomini quasi tutti carabinieri. Una struttura che continuò a operare anche negli anni successivi.

All'origine delle fortune di De Lorenzo c'erano un paio di medaglie d'oro al valor militare,

conquistate durante la Resistenza. Alla "scheda" sul generalone va aggiunto che nel periodo della

Liberazione era riuscito a stabilire ottimi rapporti con gli americani, che coltivò anche in seguito,

tanto che, all'insaputa del governo italiano, prese concreti accordi con gli USA per l'attuazione di un

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piano di permanente offensiva anticomunista, denominato Demagnetize, il cui obiettivo era quello

di ridurre con ogni mezzo la crescita e il potere dei partiti comunisti italiani e francesi.

Il golpe, nell'estate '64, fu alla fine archiviato. Cosa sia accaduto non è mai stato ben chiaro. Fu forse

il fiuto politico di Aldo Moro a salvare la situazione: intuì che il vero obiettivo del putsch era quello

di ridimensionare la portata riformatrice del suo governo, il primo ad aver aperto ai socialisti. Il

presidente del Consiglio arrivò a partecipare a una riunione "cospiratoria",una delle tante che si

svolsero in quella folle estate. Fatto è che di lì a poco cadde il primo governo Moro e, nella seconda

edizione, le istanze innovatrici e popolari del centrosinistra risultarono più che annacquate. Il

risultato era stato ottenuto e senza neppure sparare un colpo. Nell'economia della nostra storia,

questo è un periodo che precede di qualche anno gli avvenimenti che a noi interessano. Ma è bene

risalire alle origini. Il golpe De Lorenzo è considerato il padre di tutti i golpe, proprio come la strage

di piazza Fontana è la madre di tutte le stragi. Tant'è che da quel momento in poi, la data del colpo

di Stato fu rinviata di anno in anno, almeno fino al 74, senza mai essere accantonata. E non si è mai

capito bene, se a partire da quel momento, il ricorso al "tintinnar di sciabole", come lo definì Pietro

Nenni, fosse un reale tentativo di rovesciamento dei poteri costituzionali o soltanto xavintentona,

come dicono gli spagnoli, e cioè un progetto il cui scopo era quello di condizionare gli equilibri

politici.

Il golpe Borghese Era passato un anno dalla strage di piazza Fontana, quando si decise di ritentare

la strada del golpe. La notte dell'8 dicembre, la notte dell'Immacolata, alcune centinaia, forse

migliaia di uomini, agli ordini del comandante Junio Valerio Borghese, si mossero alla conquista dei

centri decisionali della capitale. Un gruppo di avanguardisti arrivò a occupare il Viminale. Poi

qualcuno fece una telefonata, attorno a mezzanotte, e come d'incanto l'adunata si sciolse, i

congiurati abbandonarono i sotterranei del ministero degli Interni, i reparti che si stavano dirigendo

verso il Quirinale fecero marcia indietro, alcune colonne di uomini che si stavano muovendo sulla

Salaria in direzione di Roma, furono bloccate. Cos'era successo? Borghese, il Principe nero, il

mitico comandante della X MAS, era un generale di alto livello, durante la guerra aveva ricoperto

incarichi importanti, era un esperto di antiguerriglia, fu salvato dagli angloamericani che lo

sottrassero alla fucilazione decisa dai GAP: se si era esposto fino a quel punto non poteva trattarsi di

un "golpe da operetta". Borghese doveva aver avuto qualche assicurazione ad alto livello. È questa

almeno la convinzione più diffusa. Il senatore Pino Romualdi dell'MSi, ex consigliere del Partito

Fascista Repubblicano, confidò a Marco Pannella: «Junio mi aveva chiesto di aderire, io gli

domandai se c'era qualcuno sopra di lui. Non mi rispose, decisi di non accogliere il suo invito perché

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non c'era alcuna certezza della purezza dell'operazione». C'è chi in quella vicenda intravide lo

zampino dell'ambasciatore americano Graham Martin, nominato nel '69 da Nixon. Il presidente

USA era molto preoccupato per la situazione italiana: vedeva comunisti ovunque e si diceva anche

che fu lui a promuovere la P2 come centro di potere anticomunista. Quanto a Martin, fu una scelta

giudicata infelice dalla stessa GIÀ, perché l'uomo era poco incline a capire la complessità della

situazione italiana, che interpretava e giudicava sulla base di contatti con personaggi di destra o

estrema destra, in quel periodo di casa all'ambasciata di via Veneto.

Ma doveva esserci anche una copertura interna, politica. Come potevano gli uomini di Junio essersi

spinti così avanti, se non con la certezza che il progetto poteva avere uno sbocco operativo, un

programma su chi avrebbe assunto i pieni poteri avallando l'azione militare? L'uomo chiave di

quella notte fu il capo del SiD, Vito Miceli, la cui nomina era freschissima, di appena due settimane.

Fino a quel momento aveva ricoperto il ruolo di capo del SiOS (Servizio Informazioni Operative e

Situazione) dell'esercito, il servizio segreto delle Forze Armate, insomma era uno "spione" di

vecchia data. Fu una nomina di ispirazione massonica: Miceli era entrato nella loggia di Palazzo

Giustiniani l'anno precedente e fu il primo uomo che Gelli riuscì a piazzare a capo del SID. Il

Venerabile, che non aveva alcun ruolo riconosciuto negli organigrammi del servizio segreto, ottenne

in cambio di usufruire di un ufficio, di una linea telefonica e di quel nome in codice, "Filippo" con il

quale ormai interloquiva a ogni livello.

«Conobbi Miceli a un ricevimento tra il '68 e il '69, gli proposi l'ingresso in massoneria e lui

accettò», raccontò Gelli, il 28 settembre 1976, al giudice fiorentino Pierluigi Vigna. Era stato

proprio lui, il Venerabile, si racconterà in seguito, a telefonare quella notte al comandante Junio

Valerio Borghese per bloccare la marcia dei congiurati ormai giunti a poche centinaia di metri

dall'ufficio del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Celli sembrò dell'avviso che la gita

fino al Viminale fosse più che soddisfacente: «Il fatto è che quella notte piovve e forse qualcuno ha

avuto paura di bagnarsi», fu il suo unico e caustico commento. Ma la telefonata non poteva essere

una sua iniziativa personale.

Nell'84 Buscetta, coinvolto con altri boss di Cosa Nostra nel golpe Borghese, raccontò a Falcone

che il progetto era appoggiato dagli americani. Secondo Masino l'operazione fu bloccata perché in

quelle ore si disse che erano state avvistate nel Mediterraneo navi e cacciatorpediniere, messe in

allerta da voci che circolavano in ambienti del PCI. Insomma, fare un Golpe in Italia non sarebbe

stata un'operazione indolore; non poteva ripetersi quello che era avvenuto in Grecia tre anni prima.

Non fu soltanto Buscetta a dare questa versione dei fatti: come vedremo, altri congiurati

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confermeranno il coinvolgimento di ambienti NATO nel progetto golpista.

Fallito il golpe, qualunque capo di servizio segreto sarebbe stato rimosso, invece Miceli restò al suo

posto fin quando lo scandalo non esplose. La successiva ricostruzione degli eventi consentì di

accertare che attorno a mezzanotte il capo del SID fu ufficialmente informato che gli insorti

avevano occupato il Viminale, da Federico Gasca Queirazza, allora capo dell'Ufficio D, e cioè

vicecapo del servizio segreto perché all'epoca quell'ufficio svolgeva il ruolo attualmente coperto dal

SISDE.

«Non prendere alcuna iniziativa, me ne occupo io, penserò io a informare chi di dovere», rispose

Miceli. In realtà fece passare più di due ore prima di telefonare al ministro dell'Interno Restivo, per

consentire ai congiurati di defluire. In seguito fu abbastanza accorto da disporre indagini: negli

archivi del SID furono conservate le bobine delle registrazioni telefoniche e anche alcune copie di

un paio di rapporti, stilati dal servizio sull'intera vicenda. Ma non furono consegnati alla

magistratura, se non nel 75, dopo che Miceli fu arrestato in relazione al golpe.

Nel marzo '71, quando ormai del golpe Borghese erano pieni i giornali, Miceli fu interrogato dalla

magistratura, a toglierlo dall'imbarazzo fu il procuratore generale Carmelo Spagnuolo, massone

dichiarato dal 1947, che gestì la cosa con mano leggera. Il capo del SID avvalorò la tesi, poi

appoggiata da dichiarazioni della destra politica, che si fosse trattato di un gesto "sconsiderato" di

un pugno di nostalgici di cui, in seguito alla segnalazione, non si era trovata traccia. Il tacito accordo

tra il procuratore e il generale fu di tener fuori la massoneria, che invece aveva molti suoi esponenti

coinvolti, a cominciare da uno dei massimi organizzatori, il costruttore Remo Orlandini. La

Commissione Parlamentare sulla P2 accertò molti anni dopo che, in occasione di un convegno

all'Hilton, era stato proprio "il fratello colonnello" Gelli a informare il Gran Maestro Salvini, capo

della loggia di Palazzo Giustiniani «di aver iniziato sulla spada quattrocento alti ufficiali

dell'esercito al fine di predisporre un governo dei colonnelli che era sempre meglio di un governo dei

comunisti».

Molti anni dopo il neofascista Paolo Aleandri, che aveva partecipato alla notte dell'Immacolata,

diede questa versione: Quando i gruppi armati della destra extraparlamentare [Ordine Nuovo e

Avanguardia Nazionale] e alcuni reparti delle Forze Armate fossero riusciti a impadronirsi dei

centri nevralgici del potere [RAI, presidenza della Repubblica, ministero degli Interni...] sarebbe

dovuto scattare un piano insurrezionale esistente nelle cassaforti del Comando Generale dell'Arma

dei Carabinieri, con l'arresto per finalità antiinsurrezionali di sindacalisti, esponenti politici,

militari e altri interventi analoghi. L'attuazione del piano avrebbe consentito l'instaurazione di un

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governo militare, sostenuto dalle forze istituzionali che avevano dato il tacito assenso

all'operazione.

Il piano cui fa riferimento Aleandri, custodito nella cassaforte dei carabinieri, è evidentemente il

"Piano Solo" e anche la lista dei proscritti dev'essere la stessa, famigerata Lista E, forse aggiornata di

qualche anno. Nelle bobine conservate nella cassaforte del SID, si troverà nel 75 anche una

telefonata tra due congiurati, l'ex para Sandro Saccucci e il maggiore Rosa, che commentano i fatti

della notte precedente: «Ci hanno traditi», dice Saccucci. E fu tradito anche il comandante della X

MAS. Raccontò Stefano Delle Chiaie, dal suo rifugio in Spagna, che Tunio era morto non

d'infarto, ma per un caffè al cianuro, opportunamente corretto. Se si è trattato davvero di omicidio,

vuoi dire che qualcuno realmente temeva possibili rivelazioni sulla portata del golpe e su chi c'era

dietro. Il SID certamente non era estraneo, risulterà infatti che a contattare gli ufficiali delle Forze

Armate, sarebbe stato proprio l'agente Guido Giannettini, già coinvolto come vedremo nella strage

di Piazza Fontana.

La guerra dei generali I primi anni Settanta, dopo la strage di piazza Fontana e il golpe Borghese,

furono fervidi per i nostri apparati di sicurezza, con i capi coinvolti nelle trame perennemente in lite

tra loro, divisi su tutto, lacerati da scandali e ricatti, in balia delle correnti politiche. Tra il '64 e il 74,

Andreotti fu due volte ministro della Difesa, e divenne nel 72 per la prima volta presidente del

Consiglio: aveva già cinquantatré anni, un'età abbastanza avanzata per quello che era stato Xenfant

prodige della DC, il pupillo di De Gasperi, sottosegretario a soli ventiquattro anni, nell'immediato

dopoguerra. Dicono i politologi che ciò dimostra come, nonostante il potere e il grande prestigio di

cui godeva all'interno della Dc, si era creata attorno a lui una certa diffidenza da parte dei big

democristiani, soprattutto Moro. Lo scoglio fu superato nel 72, sull'onda di gravissimi fatti di

sangue, con una coalizione di centrodestra che non disdegnava l'appoggio esterno dell'MSi. E da

allora, come sappiamo, è stato alla guida del governo ben sette volte, prima di incappare in questo

sventurato processo.

Nel 74, quando Andreotti tornò alla Difesa, l'esperienza del SiD travolto dagli scandali poteva

considerarsi agli sgoccioli, e fu proprio lui ad accelerarne la fine, facilitando l'arresto di Miceli

coinvolto nelle trame golpiste. Del generale non si era mai fidato e non a torto: aveva sparlato di lui

con i colleghi della CIA che glielo avevano subito riferito. La crisi del SiD fu anche il risultato di un

mutato clima internazionale: l'esperienza dei regimi fascisti nell'area del Mediterraneo, dai

colonnelli greci alla Spagna franchista, volgeva al termine. Nel 74, con lo scandalo Watergate negli

USA, entrò in crisi la destra repubblicana e con essa l'asse Nixon-Kissinger, di conseguenza si

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indebolì l'appoggio americano a quei regimi. La dittatura in Portogallo crollò il 25 aprile 1974,

travolta dalla "rivoluzione dei Garofani"; tre mesi dopo la stessa sorte toccò ai colonnelli greci:

resisteva la Spagna del generalissimo Franco dove trovarono rifugio Stefano Delle Chiaie e molti ex

attivisti di Avanguardia Nazionale ormai bruciati dalle indagini giudiziarie.

Per liberarsi dell'ormai scomodo Miceli, Andreotti nella sua qualità di ministro della Difesa affidò

un'indagine interna sulla vicenda del golpe al generale Gianadelio Maletti, capo dell'Ufficio D, che

era in fama di ottimo tecnocrate, algido, efficiente, amico di tedeschi e israeliani. Era l'uomo del

futuro, Maletti, collocato a sinistra, fortemente appoggiato dai socialisti, in particolare

dall'onorevole Giacomo Mancini di cui era diventato amico durante il processo di Catanzaro su

piazza Fontana (trasferito da Milano per motivi di «legittima suspicione»). Ma anche il feeling tra

Andreotti e Malettiera destinato a esaurirsi nel breve volgere di qualche anno: il capo dell'Ufficio D

fu rimosso nell'ottobre 75, perché coinvolto con il suo aiutante La Bruna nella fuga all'estero di

Guido Giannettini, imputato della strage di piazza Fontana.

Una vicenda in cui Miceli aveva soffiato sul fuoco, proprio mentre Malettiportava a termine il suo

rapporto da cui emergeva il diretto coinvolgimento del capo del SID nel golpe Borghese. Insomma

la guerra dei generali era in pieno svolgimento, ma Andreotti era in una botte di ferro e non vedeva

l'ora di liberarsi di entrambi. L'inchiesta giudiziaria sul golpe fu affidata a Claudio Vitalone, come

sappiamo fedelissimo del ministro, che a conclusione dell'indagine avviò una requisitoria di ferro

contro Miceli: «Il capo del SID ha spudoratamente mentito, patentemente violando fondamentali

obblighi del suo ufficio. Per oltre tre anni egli ha agito legibus so-lutus senza che nessuna delle

autorità sovraordinate abbia avuto modo di imporgli il rispetto di legalità e correttezza».

Nel frattempo il ministro della Difesa era riuscito a liquidare sia l'ala dura che quella legalitaria del

servizio segreto, assumendo il ruolo di "bonificatore" delle gravissime deviazioni dei servizi segreti:

questo gli consentì di appoggiare un'ipotesi di riforma «in nome della trasparenza e della legalità»,

che riuscì a decollare nel 77. Nonostante le assicurazioni, la rivoluzione nei servizi segreti fu una

vittoria personale del Venerabile Licio, che riuscirà a piazzare tutti gli iscritti alla sua Loggia, ancora

poco nota ma già molto potente, a capo dell'intera struttura di intelligence, delle Forze Armate e del

Viminale. Un team che troveremo vigile e attivissimo, l'anno successivo, durante il sequestro e il

rapimento Moro.

Il "malloppone" e i "malloppini" Pecorelli aveva incontrato La Bruna ventiquattro ore prima di

morire. Dopo anni di ostilità i due erano ormai amici per la pelle. L'incontro non è particolarmente

interessante ai fini dell'inchiesta sull'omicidio, ma consente di affrontare il capitolo dei rapporti di

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Mino con le "segrete stanze", una rete di relazioni pericolose in cui il giornalista nuotava come un

pesce nell'acqua. Erano gli uomini delle trame e dei golpe l'inesauribile fonte dei suoi scoop, uomini

bruciati nella "guerra dietro le linee" che gli raccontavano come fossero rimasti vittime di occulte

gerarchie, catene di comando non istituzionali, ordini illegali, deviazioni dalle finalità di servizio. E

tutti per un motivo o per l'altro avevano il dente avvelenato con Andreotti. Il giornalista in una

prima fase aveva difeso a spada tratta Miceli, attaccando Anisetta e Labrunne, come aveva

ribattezzato Maletti e La Bruna: li accusava di aver rovinato il capo del SiD per conto di Andreotti,

quando loro non erano da meno, visto che dirigevano una struttura deviata per alimentare la

strategia della tensione: È stato proprio lui l'Anisetta a crearsi un centro di controspionaggio a uso e

consumo suo, della sua carriera, al cui comando ha posto La Bruna e il suo NOI). Ci riferiamo a

quella piccola armata Brancaleone costituita da otto ufficiali il cui ufficio aveva sede in via Sicilia, e

che avrebbe dovuto finire a Forte Braschi.

Poi, con il tempo le acque si acquetarono e quando toccò a loro, Mino abbracciò la nuova causa. Pur

di dare addosso ad Andreotti era pronto a tutto. Scrive la Corte d'Assise di Perugia, nella

motivazione della sentenza: Pecorelli era in possesso di documenti segreti e sapeva che Miceli nel

rapporto originale sul golpe Borghese aveva citato nomi di politici e alti funzionari. Il rapporto era

stato consegnato alla magistratura, che però l'aveva restituito avendo preferito lavorare su ipotesi

minori.

Il magistrato cui Miceli aveva consegnato il dossier era proprio Vitalone. Pecorelli lo accusava di

aver manovrato per appropriarsi dell'inchiesta, in modo da favorire gli interessi del "ministro". Nelle

mani di Vitalone finì poi anche il cosiddetto "malloppone", ovvero il verbale che Maletti aveva

consegnato nel '75, prima di essere destituito, con tutti i rapporti e gli interrogatori sui congiurati

della notte dell'Immacolata. Mino, sul suo «( )P», dedicò varie puntate al succulento fascicolo,

riportando brani della "chiacchierata amichevole" tra La Bruna e il golpista Remo Orlandini che,

ignorando la presenza del registratore nelle tasche del capitano, aveva vuotato il sacco. «I nomi,

dimmi i nomi: se non capisco chi vi ha messo in questa situazione, come posso aiutarvi?», gli urlava

La Bruna e Orlandini era andato giù a ruota libera: «NATO, e se non basta CI A e tedeschi», aveva

risposto secco.

Il rapporto di Maletti confermava la presenza di personaggi che andavano ben al di là dei quattro

"pensionati nostalgici", l'unica ipotesi su cui Vitalone intendeva lavorare. Ma anche il vecchio

rapporto di Miceli, finalmente riemerso dagli archivi del SID, non era da meno. Ma alla fine vinse

Vitalone: nella sua inchiesta di questi nomi non c'era traccia e a pagare le spese del golpe Borghese

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furono soltanto Miceli e i soliti Orlandini, Saccucci e pochi altri. Pecorelli sosteneva che a

trasformare il "malloppone" in "malloppini" era stato .proprio lui, Andreotti, che aveva purgato i

verbali espungendo i nomi e i riferimenti più imbarazzanti. Dalle colonne del suo «OP», ogni

settimana andava all'attacco, accusava il ministro di aver distrutto i servizi segreti per suoi

personalissimi scopi e di aver gestito «le rivelazioni sul golpe Borghese per smantellare il SID e

mettere ai posti di comando personaggi politici abituati al compromesso».

Forse Mino aveva ragione, ma per scoprirlo abbiamo dovuto aspettare il fatidico 1992, quando La

Bruna consegnò al PM di Milano, Guido Salvini, una decina di nastri che prudentemente aveva

messo da parte. Dei nomi contenuti nel "malloppone", ne sono trapelati alcuni: c'è un ammiraglio

NATO, un magistrato romano e altri ancora che non dovevano comparire; per fortuna, alcuni nel

frattempo erano morti. L'ex capitano del SID confermò a Salvini che la "sfrondatura" del

"malloppone" era stata decisa nello studio del ministro della Difesa Andreotti alla fine del luglio '74,

durante una riunione cui erano presenti, oltre al ministro, l'ammiraglio Mario Casardi (successore

di Miceli alla guida del SID), il comandante dei Carabinieri Enrico Mino, poi precipitato sulla Sila

con un elicottero, il capo dell'Ufficio D Maletti e lo stesso La Bruna.

L'agente Giannettini L'agente segreto Guido Giannettini ha svolto un ruolo chiave negli anni della

strategia della tensione. È l'uomo che ha partecipato alla preparazione del golpe Borghese

arruolando gli ufficiali, ed è stato poi arrestato con l'accusa di aver partecipato alla preparazione

della strage di piazza Fontana. Andreotti spiegò al Tribunale dei ministri che si trattava di un

informatore, infiltrato in ambienti eversivi, che puntualmente forniva notizie sulla preparazione di

attentati, sia sulla strage di piazza Fontana che su quella di Fiumicino, compiuta nel 73 dai feddayn.

Attentati che non furono però sventati. Quando Maletti fu destituito dal servizio segreto, Pecorelli

rivelò che era stato Andreotti, e non Rumor, ad apporre il segreto di Stato sulla appartenenza al SID

di Giannettini, e a coprire la sua fuga a Parigi, resa possibile dall'«aiuto garantito da ambienti

ministeriali». Il SID gli avrebbe fornito un passaporto di comodo e a quanto risulta lo avrebbe

continuato a pagare.

In questa vicenda, Andreotti sembrava avere mantenuto un comportamento ambivalente: era stato

proprio lui, appena insediato alla Difesa, a denunciare il ruolo di Giannettini come informatore del

SID in un'intervista, forse convinto che fosse venuto il momento di voltare pagina, anche per i

mutati equilibri internazionali. Ma quando i giudici di Catanzaro gli chiesero conto dell'esatto

ruolo dell'informatore negli organigrammi del servizio, Andreotti oppose il segreto di Stato,

cercando poi di scaricarne le responsabilità su Rumor, che non se la sentì di smentirlo: furono

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entrambi rinviati a giudizio per reati ministeriali.

Ma chi era Giannettini? Per quali strade un neonazista dichiarato era giunto a ricoprire un ruolo

così importante? Ufficialmente svolgeva attività giornalistica, ma questa era soltanto una copertura:

l'agente apparteneva a varie organizzazioni spionistiche internazionali, camuffate da agenzie di

stampa, che tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta costituivano il raccordo tra i regimi

fascisti di Spagna, Grecia e Portogallo con le organizzazioni italiane di estrema destra. Era amico di

Guérin Sérac, ideologo neonazista, direttore dell'Aginter Press con sede a Lisbona, meta di molti

nostri fuoriusciti e ricercati. Giannettini era un ideologo, non un uomo d'azione come Stefano Delle

Ghiaie: con Pino Rauti alla fine degli anni Sessanta aveva scritto un libello anonimo dal titolo Le

mani rosse sulle Forze Armate, nel quale si attaccava pesantemente il generale De Lorenzo

giudicato troppo neutralista e poco anticomunista.

Pecorelli conosceva bene Giannettini. Il loro incontro era avvenuto nella redazione di «Mondo

d'oggi», una rivista di estrema destra che a metà degli anni Sessanta era considerata il salotto buono

di quel circuito oltranzista che faceva capo al generale Giuseppe Aloia, all'epoca comandante delle

Forze Armate. Aloia era un ultra del Patto Atlantico, un fautore dell'esercito "ardimentoso" che per

essere tale doveva avvalersi di una leva ideologicamente attrezzata in caso di conflitti locali. Il

generale temeva soprattutto l'influenza culturale e ideologica dei comunisti e fu uno dei promotori

del convegno organizzato dall'Istituto Pollio al Parco dei Principi, nel '65, da molti ritenuto l'atto di

nascita ufficiale della strategia della tensione. «Mondo d'oggi» era considerato il punto di ritrovo di

politici e intellettuali di estrema destra come Pino Rauti, Edgardo Beltrametti, Enrico de Boccard e

Franco Simeone, poi fondatore dell'«Osservatorio di Politica Internazionale», detta «OP», l'agenzia

di stampa che Pecorelli ereditò negli anni Settanta.

Ma la fuga di Giannettini all'estero è un altro dei capitoli del Memoriale, in cui Moro critica il

comportamento di Andreotti: Per quanto riguarda la strategia della tensione, che per anni ha

insanguinato l'Italia, pur senza conseguire i suoi obiettivi politici, non possono non rivelarsi

accanto a responsabilità che si collocano fuori dell'Italia, indulgenze e connivenza di organi dello

Stato e della Democrazia Cristiana in alcuni suoi settori [...]. Mi ha fatto particolarmente

impressione il cosiddetto caso Giannettini, la rivelazione improvvisa e inusitata per la forma

dell'intervista [si riferisce all'intervista rilasciata da Andreotti nel 74] del nome del collaboratore del

sin, forse collegata a presumibili insistenze dell'on. Mancini e con la difesa strenua fatta dal

parlamentare socialista del generale Maletti, accusato al processo di Catanzaro.

Lo strano furto in via Savoia Nessuno ha mai creduto che Gelli quella notte abbia potuto fare quella

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telefonata di sua iniziativa, ma a nome di chi il Venerabile sia riuscito a sventare il golpe, ormai a un

passo dal suo compimento, rimane un mistero (a parte l'ipotesi sul contrordine americano). Il 28

marzo 1978, dodici giorni dopo il sequestro Moro, Mino scriveva di uno strano furto subito da Aldo

Moro nel 75, nel suo studio in via Savoia, da dove erano scomparsi «documenti che dimostravano

come il golpe Borghese fosse stato una farsa montata da Giulio Andreotti». Un'accusa che, se

dimostrata, avrebbe chiamato in causa il Divo Giulio quale grande burattinaio della strategia della

tensione. Anche i giudici di primo grado del processo di Perugia affermano che il presunto

retroscena del golpe Borghese poteva essere un valido movente per l'uccisione del giornalista. Ma la

Corte d'Appello avanza un altro sospetto: in che modo Pecorelli era entrato in possesso di una

simile informazione e proprio in quel momento? Moro era nelle mani delle BR da dodici giorni, i

brigatisti avevano appena annunciato, nel Comunicato numero 4, che lo statista stava "pienamente"

collaborando all'interrogatorio nel Carcere del Popolo. L'oggetto del furto in via Savoia faceva forse

parte dei tanti segreti di Stato che Moro stava rivelando nella sua "ignota" prigione? Nel Memoriale

di questa notizia non c'è traccia, anche se non si può escludere che sia in uno dei passaggi secretati.

Sono però rimasti i pesanti giudizi che Moro diede ai suoi carcerieri sulle responsabilità di forze

internazionali, ma anche interne - la DC e i servizi segreti - nella drammatica esperienza di quegli

anni: La strategia della tensione ebbe la finalità di rimettere l'Italia sui binari della "normalità",

dopo le vicende del '68 e il cosiddetto autunno caldo. Si può presumere che paesi associati a vario

titolo alla nostra politica, e quindi interessati a un certo indirizzo, vi fossero in qualche modo

impegnati attraverso i loro servizi di informazione. Su significative presenze della Grecia e della

Spagna fascista non ci sono dubbi, ma lo stesso servizio italiano può essere considerato uno di

quegli apparati su cui grava il maggior sospetto di complicità del reato.

Più avanti Moro spiega: È doveroso rilevare che quello della strategia della tensione fu un periodo di

autentica e alta pericolosità con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle

masse popolari fortunatamente non permise. E invece [...] vi furono altri ambienti e organi che non

si collocarono di fronte a questo fenomeno con la necessaria limpidezza e fermezza. È quella

commistione, di cui dianzi dicevo della DC, perla quale perseguendo una politica di egemonia

politica non è stata abbastanza attenta a selezionare pericolose intrusioni.

Ma nel rievocare la strage di piazza Fontana Moro rivela anche l'esistenza di un «gruppo

specializzato in attività di antiguerriglia operante in ambito NATO», che potrebbe aver debordato

dalla sua attività "antinvasione" ed essere stato utilizzato a scopi interni contro la crescita elettorale

del PCI. Una rivelazione che scatenò un gravissimo allarme in tutti i servizi d'intelligence alleati,

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forse superiore a quello ragionevolmente suscitato dalle poche frasi, comprensibili soltanto agli

addetti ai lavori, che noi conosciamo. Forse sapevano che Moro, sotto interrogatorio, era stato

molto più preciso e dettagliato o avevano avuto conferma che, durante il sequestro, persone vicine

alla famiglia avevano recapitato alle Brigate Rosse documenti prelevati dal suo studio. Il timore,

convalidato dalla sentenza di Perugia, è che questi documenti fossero i piani militari segreti della

NATO. Anche l'ammiraglio Fulvio Martini, che è stato il capo del SISMI negli anni Ottanta, in un

suo libro di memorie ha rivelato che durante i cinquantacinque giorni del sequestro Moro sparirono

dalla cassaforte del ministro della Difesa Attilio Ruffini alcuni documenti NATO riservatissimi,

che contenevano i piani Stay Behind, dove in modo dettagliato veniva indicata la reazione prevista

in caso di insurrezione, non soltanto in Italia, ma anche in altri paesi europei. Chi li aveva trafugati?

Qualcuno, su indicazione di Moro, li aveva prelevati e consegnati a intermediari delle Brigate

Rosse: fu questo il sospetto che generò un gravissimo allarme ai vertici della sicurezza atlantica.

Gladio, l'Anello e i piani segreti Tra la fine di marzo e i primi di aprile 1978, in quella che viene

solitamente definita la "prima fase" del sequestro BR, scattò dunque l'allarme rosso attorno alla

concreta ipotesi che Moro stesse rivelando, e in modo dettagliato, alle Brigate Rosse l'esistenza di

quella struttura segretissima, alla quale era affidata la difesa del Patto Atlantico. Una struttura che

violava le norme costituzionali e che in pochissimi conoscevano. In effetti l'esistenza di Gladio era

ignorata, non soltanto dal Parlamento, ma anche da qualche presidente del Consiglio, ad esempio

Fanfani, come poi si accertò. A quel che oggi sappiamo, anche se tuttora non ufficialmente, ma

soltanto sulla base di quanto è emerso da molteplici inchieste giudiziarie (a partire da quella di

Felice Casson su Gladio e quella del giudice Salvini sulla strage di piazza Fontana), dietro la sigla

Gladio si celavano tre componenti operative: il Superservizio, ovvero una sorta di cupola dei servizi

segreti che avrebbe pianificato la strategia della tensione e che viene identificato con l'Ufficio R del

SID e poi del SFSMI; i reparti militari Stay Behind regolari, cioè appartenenti alle Forze Armate (si

scoprirono in seguito soltanto quelli di stanza nel Triveneto); la "rete parallela", costituita da civili o

ex militari, nella quale erano confluiti anche alcuni appartenenti di Ordine Nuovo e di Avanguardia

nazionale, coinvolti nel golpe Borghese.

Il Superservizio faceva capo a servizi d'intelligence sovranazionali, come la CIA e altre strutture

NATO. Fu questo, molto probabilmente, il motivo per il quale, almeno a partire dal 77, gli uomini

della nostra intelligence, ma anche i massimi responsabili delle Forze Armate, della Pubblica

Sicurezza e dell'Arma, dovettero dar prova della propria fedeltà atlantica, con un giuramento che

avesse una valenza superiore rispetto alla fedeltà giurata allo Stato italiano. Perché in realtà era

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questo il senso del giuramento alla p2: un affidavit. «Anch'io, come altri, sono stato costretto a

iscrivermi alla Loggia, per non essere escluso da ogni possibilità di carriera», spiegò il generale Dalla

Chiesa quando il suo nome fu trovato sulle liste di Castiglion Fibocchi.L'Italia, in questo ultimo

scorcio di guerra fredda, appare sempre più paese a sovranità limitata".

un A fare da raccordo tra la cupola dell'intelligence, ovvero il Superservizio, e le Reti Parallele,

almeno fino alla metà degli anni Ottanta, sarebbe stata una particolarissima struttura denominata

Anello: un nome in codice che stava a sottolineare il ruolo di collegamento tra vertice militare e base

operativa. Una struttura del tutto ignota fino a pochissimo tempo fa, cui Rita Di Giovarci uno

secondo alcuni andrebbero addebitate la maggior parte delle "operazioni sporche" compiute dai

servizi segreti in quegli anni: dalla strategia della tensione al sequestro Moro, al caso Cirillo, alla

fuga di Kappler, ma che ebbe anche un ruolo di primo piano nella copertura dei traffici di armi e

petrolio attraverso la Libia. L'Anello risalirebbe al dopoguerra, ma è stato più o meno a metà degli

anni Sessanta che il governo italiano, o meglio alcuni suoi esponenti, avrebbero preso atto della sua

esistenza e cercato di riorganizzarlo per assicurarsene il controllo: proprio nel periodo in cui

Andreotti era al ministero della Difesa.

Alla scoperta dell'Anello si sarebbe arrivati dopo il ritrovamento dell'archivio dell'Ufficio Affari

Riservati in un deposito sull'Appia Antica, dove giacevano alla rinfusa documenti importantissimi,

trasferiti in questa sorta di "discarica" dei servizi segreti dopo lo scioglimento dell'ufficio diretto da

Federico Umberto D'Amato. A fare la sensazionale scoperta fu il perito della Commissione

Parlamentare sulle Stragi Aldo Giannuli, che ne parlò diffusamente in una relazione al Parlamento

del 2000, ora agli atti della Procura di Brescia che indaga sull'omonima strage.

Nella stessa relazione Giannuli parlò anche del cosiddetto Noto Servizio (in realtà ancora molto

oscuro e assolutamente ignoto, anche se qualcuno doveva conoscerlo con il suo vero nome di

Anello). Già il 15 novembre 2000 alcuni, quotidiani pubblicarono la notizia dell'arrivo a San

Macuto, il palazzo che ospitava la Commissione Stragi, di una relazione della Procura di Brescia. In

quel documento la superstruttura veniva ancora chiamata Noto Servizio e veniva descritta come una

sorta di servizio segreto parallelo composto da imprenditori, industriali, ex ufficiali sia badogliani

che repubblichini, come ad esempio lo scomparso Giorgio Pisanò, ma anche da religiosi come padre

Enrico Zucca, entrato nelle cronache per aver trafugato la salma di Mussolini, e perfino da Tom

Ponzi, il famoso investigatore privato. All'interno di questa strana e ancor fumosa organizzazione

segreta emergeva la figura di un sedicente colonnello, in realtà pilota della Repubblica Sociale

Italiana, Adalberto Titta: un personaggio già noto alle cronache per essere entrato e uscito a suo

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piacimento dalle carceri italiane durante il sequestro dell'assessore napoletano Ciro Cirillo, rapito

dal brigatista (o presunto tale) Giovanni Senzani. C'erano anche uomini del mondo

politico-affaristico, come Felice Fulchignoni, insieme a parecchi illustri sconosciuti.

Sembra che nel 72 il Noto Servizio potesse contare su una rete di 164 uomini che gravavano sul

bilancio dello Stato per svariati miliardi. Uno dei capifila era tal Sigfrido Battaini, che disponeva di

notevoli masse di denaro, di un deposito di armi e munizioni presso la caserma Moscova di Milano,

oltre che di un ufficio di rappresentanza in via dello Statuto a Roma. Nella relazione della Procura

di Brescia si fa riferimento a una serie di veline ritrovate nel fascicolo al macero, secondo le quali il

Noto Servizio sarebbe nato nel '45, quando il generale Mario Roatta, ex capo della polizia segreta

fascista, fugge dall'ospedale militare romano in cui era detenuto e, a quanto sembra, traghetta alcuni

dei suoi ex sottoposti verso la nuova struttura occulta. Uno dei suoi uomini di punta, che vedremo

comparire in vicende legate al sequestro Moro, era Giorgio Conforto (nome in codice "Dario") e

proprio a questo nome era intestata la cartellina fatta ritrovare sull'Appia che ha avviato le indagini

sul Noto Servizio.

Da queste veline citate nella relazione di Brescia, emergeva con chiarezza che questa struttura

avrebbe fatto prevalentemente capo ai carabinieri del SID, godendo di un rapporto mediato con

Giulio Andreotti, soprattutto nel periodo degli attentati organizzati dalla destra eversiva, cui

arrivavano attraverso questo canale armi ed esplosivo. Attraverso alti ufficiali dell'Arma il Noto

Servizio avrebbe aperto canali "petroliferi" con la Libia. La sua attività deviata, secondo la Procura

di Brescia, si celerebbe dietro le stragi di piazza Fontana, di piazza della Loggia, ma anche dietro il

MAR di Carlo Fumagalli (responsabile della morte dell'editore Feltrinelli) e dietro l'attività del

bombardiere nero Gianni Nardi. Tutti capitoli che illustreremo a fondo nelle pagine che seguono.

Sulla base di vecchie testimonianze, riscontri documentali e verifiche incrociate sui documenti

ritrovati negli archivi da Aldo Giannuli, il perito dei magistrati di Brescia Roberto De Martino e

Francesco Piantoni, si afferma in sostanza che sotto la definizione di Noto Servizio, locuzione che

potrebbe sottendere un nome preciso (l'Anello?), si sarebbe celata la vera struttura italiana di Stay

Behind, cioè Gladio. Andreotti, nel rivelare nel '90 l'esistenza di Gladio, titolò la sua relazione "Il

cosiddetto SID parallelo, ovvero l'operazione Gladio", indicando l'esistenza di un servizio segreto

irregolare ma comunque innestato nel "tessuto istituzionale". Una versione che provocò la reazione

dei 620 gladiatori i quali, più o meno tra le righe, sostennero che la vera struttura deviata era

un'altra, ovvero quella che faceva capo a lui e che avrebbe costituito il nucleo più occulto del

superservizio. Una polemica in cui tuttora non è possibile stabilire chi ha torto o ragione, per la

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lentezza e la difficoltà, delle indagini giudiziarie, quelle ancora in atto e quelle ormai concluse senza

approdare ad alcuna certezza.

Nei giorni in cui comparvero sui giornali queste rivelazioni Andreotti era in Cina. Raggiunto

telefonicamente da alcuni giornalisti, il suo commento fu: «Non ne so niente, sono a Pechino, non

ho mai avuto rapporti né segreti né non segreti, si vede che a qualcuno da fastidio che io non sia

ancora morto».

Pecorelli doveva essere a conoscenza dell'esistenza dell'Anello, considerato che disponeva dei

riservatissimi fascicoli sul Mi.Fo.Biali; e, sulla base di molte allusioni fatte dal giornalista sul ruolo

di Andreotti nella distruzione dei servizi segreti, sembra anche a conoscenza dei rapporti che

intercorrevano tra la struttura supersegreta e Andreotti, indicato da alcuni testimoni ascoltati dalla

Procura di Roma come il principale beneficiario dell'Anello. Anzi, qualcuno allude al fatto che sia

stato proprio l'allora ministro della Difesa a dargli questo nome, che stava a indicare il passaggio dal

"notevole caos" del periodo precedente gli anni Settanta, contrassegnato dall'esistenza di molteplici

e spesso confuse strutture parallele, a un'unica e più efficiente organizzazione. Come si vede le

informazioni sulla natura dell'Anello sono ancora molto confuse e l'inchiesta romana affidata a

Ionta, che finora è proceduta nel più totale silenzio, sembra purtroppo destinata all'archiviazione

per l'impossibilità di accertare fatti troppo lontani nel tempo e per la delicatezza delle informazioni

raccolte che condurrebbero nell'alveo dei segreti di Stato.

È un vero peccato, perché questo sembra essere proprio "l'anello" che manca nella ricostruzione dei

misteri Moro, quello che ci consentirebbe di capire la portata delle rivelazioni fatte dal presidente

della DC alle BR e il motivo per cui queste avrebbero potuto danneggiare così tanto Andreotti.

Ma il mistero dei misteri alla luce di queste considerazioni è che fu proprio Andreotti, nell'agosto

del 1990, a svelare per la prima volta l'esistenza dello Stay Behind, provocando enormi ripercussioni

in tutta Europa. Nonostante la sua versione dei fatti, come stiamo per vedere, fosse piuttosto

riduttiva e lacunosa, le rivelazioni di Andreotti su quello che era stato fino a quel momento il

massimo segreto militare di Stato non possono essere banalmente considerate un atto dovuto. E a

distanza di tanti anni, anche alla luce degli eventi successivi, ci si domanda ancora cosa abbia spinto

il presidente del Consiglio a tale spericolata operazione, che molti considerano l'origine di tutti i

suoi guai.

Vediamo intanto come andarono i fatti. Il giudice veneziano Felice Casson, che da alcuni anni

indagava su uno dei più gravi e misteriosi episodi della strategia delle tensione, la strage di Peteano,

era giunto alla conclusione che quell'attentato fosse stato compiuto da una particolare struttura

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legata ai servizi segreti con l'unico scopo di scatenare il terrore per poi attribuirne la responsabilità

alle Brigate Rosse, che in quel periodo non si erano ancora macchiate di reati di sangue.

Il 31 maggio 72 a Peteano una telefonata anonima alla caserma dei carabinieri attirò l'attenzione di

alcuni militari su una FIAT 500 imbottita di esplosivo. In quattro si avvicinarono alla vettura per

ispezionarla, aprirono il cofano provocando la deflagrazione: tre morirono e il quarto rimase

gravemente ferito. La perizia fu affidata a Marco Morin, un esperto di esplosivi, ex militante di

Ordine Nuovo il cui nome comparirà poi nella lista dei 622. Nel 1984 Casson scoprì che il perito

aveva manipolato gli accertamenti sull'esplosivo, che in realtà era di un particolare tipo in dotazione

alla NATO, proveniente da un arsenale militare dove erano custodite armi e munizioni di ogni

genere, che successivamente si rivelò un deposito Gladio. I sospetti di Casson divennero certezza

grazie alla collaborazione di un estremista di destra, Vincenzo Vinciguerra, anche lui appartenente a

Ordine Nuovo, che non soltanto ammise la sua responsabilità nella preparazione dell'attentato ma,

senza rinnegare le sue idee, si definì un «burattino» ideologico al servizio di una più ampia

organizzazione alla cui rete appartenevano sia civili che militari e il cui unico, comune obiettivo era

la lotta al comunismo sotto ogni sua forma e con ogni mezzo.

Il giudice veneziano aveva riferito gli inquietanti risultati della sua inchiesta alla Commissione

Stragi e Terrorismo di Libero Gualtieri (PRl), e, nel gennaio 1990, chiese di poter accedere agli

archivi del SISMI di Forte Braschi per accertare l'esistenza di questa rete parallela. Gualtieri

informò Andreotti, il quale nel luglio 1990, non senza sorpresa, diede il suo consenso. Casson trovò

documenti che confermavano l'esistenza di Gladio e ne riferì alla Commissione; questa, il 2 agosto

1990, invitò Andreotti a informare il Parlamento sulle reali dimensioni e finalità della struttura

occulta entro sessanta giorni. Il giorno successivo, davanti alla Commissione, Andreotti ammise

l'esistenza di una struttura segreta e si impegnò a consegnare un rapporto dettagliato entro il

termine prescritto dopo essersi consultato con la Difesa.

Il 18 ottobre Andreotti fece recapitare a Gualtieri una relazione scritta di 12 cartelle destinata a

sconvolgere tutti i piani atlantici della sicurezza. Ma tre giorni dopo aver inviato il fascicolo,

Andreotti telefonò a Gualtieri dicendo che era urgente che gli venisse restituito, perché doveva

apportare alcune modifiche. Non senza aver manifestato il suo disappunto, il presidente della

Commissione Stragi, che si accingeva a studiare il dossier, rinviò le carte a Palazzo Chigi, di cui

naturalmente aveva fatto alcune fotocopie. Ma il deputato radicale Roberto Cicciomessere era stato

del tutto casualmente testimone del fatto che il plico era arrivato e poi era tornato indietro: la

notizia filtrò sui giornali e la vicenda Gladio finalmente deflagrò.

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Il 24 ottobre, Andreotti restituì il documento alleggerito di un paio di pagine. Ma anche la seconda

versione non mancò di provocare un pandemonio. Gli italiani vennero a sapere che, all'insaputa del

Parlamento, e in qualche caso anche dei vertici dello Stato e perfino del presidente della

Repubblica, era stata attiva fino al 1972 una struttura militare e d'intelligence occulta in grado di

mobilitare nel giro di poche ore alcune centinaia di civili già in armi. Molti sospettarono che la data

del 1972 fosse stata fornita da Andreotti a puro scopo difensivo. Prima di allora, infatti, pur essendo

stato ministro della Difesa, non aveva mai ricoperto incarichi di vertice: fu nominato presidente del

Consiglio soltanto quell'anno. Già il 9 novembre, tuttavia, Andreotti dovette ammettere che la

struttura, dopo il 1972, era stata assorbita all'interno del servizio segreto militare: dunque era

probabilmente ancora attiva. Fu costretto a questa nuova rivelazione per gli enormi riflessi che lo

scandalo Stay Behind stava proiettando anche fuori dall'Italia. Il 30 ottobre, il presidente greco

Papandreu aveva confermato la passata esistenza di una struttura analoga in Grecia. In poche

settimane, giunsero conferme dirette o indirette dell'esistenza, passata o presente, di organizzazioni

simili da molti paesi europei: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania,

Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia.

Nel suo rapporto Andreotti aveva già sostenuto che queste strutture facevano capo a organizzazioni

sovranazionali di ambito NATO, come il Comitato Clandestino Alleato (ACC, Allied Clandestine

Committee) e il Comitato di Pianificazione Clandestino (CPC, Clandestine Planning Committee),

che coordinavano le attività cospirative in funzione anticomunista nei rispettivi paesi. Quando il

presidente francese Francois Mitterand tentò di tirarsi fuori dalla bufera sostenendo che la struttura

non era operativa da tempo, Andreotti lo smentì con una secca dichiarazione: «Mi risulta che alla

riunione dell'ACC del 24 ottobre a Bruxelles [poche settimane prima] erano presenti anche i

francesi». Il governo francese fu così costretto ad ammettere.

In seguito alle rivelazioni di Andreotti, consistenti segnali di fastidio furono manifestati da

ambienti della CIA e dell'Mló, il servizio segreto inglese. Cercheremo di capire nell'ultima parte di

questo libro cosa possa averlo spinto a provocare questo terremoto e quali possano essere state le

conseguenze: il nostro presidente del Consiglio non sembrò tuttavia preoccuparsene

particolarmente.

Intanto, in Commissione Stragi si discuteva animatamente sull'aspetto meno convincente della

rivelazione di Andreotti: il numero degli appartenenti alla Gladio. La lista che circolò nel 1990 e che

fu resa nota dall'ANSA nel febbraio 1991 comprendeva seicentoventidue nomi di civili. Quel che

non convinceva era sia il numero degli appartenenti, molto esiguo, rispetto alla funzione svolta

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dall'organizzazione segreta, ovvero fronteggiare una possibile invasione sovietica, sia la qualità dei

nomi: tutte persone assolutamente presentabili.

Pochi giorni dopo, quando Andreotti accennò in modo laconico che la struttura era stata assorbita

dal servizio segreto militare, fu dunque chiaro che la cellula supersegreta - che sia o no da

identificarsi col misterioso Anello - era ancora attiva all'epoca del sequestro Moro; e lo è

probabilmente a tutt'oggi. L'ipotesi avanzata dalla Commissione Pellegrino, alla fine degli anni

Novanta, è che in realtà la "Lista dei 622" indichi soltanto i "capistruttura", in grado di attivare una

propria sub-struttura attingendo al personale di altre reti clandestine, senza per questo escludere

che la stessa lista possa essere stata sfrondata di qualche nome "imbarazzante". Quali reti e quali

nomi? Quanto è accaduto dopo il 1974 non si sa con certezza, ma una serie di elementi, che più

avanti scopriremo, fanno pensare che alla fine degli anni Settanta (dopo la rivoluzione dei servizi

segreti e la nascita del Supersismi) siano stati utilizzati dalla Gladio anche terroristi rossi e qualche

boss mafioso e camorrista, in grado di coinvolgere settori di Cosa Nostra, della Nuova Camorra

Organizzata e della Banda della Magliana negli attentati e negli omicidi selettivi. E c'è il forte

sospetto che ai depositi di armi della Gladio abbiano avuto accesso sia terroristi che mafiosi. Del

resto fin dagli anni Settanta l'Anello avrebbe avuto contati "amichevoli" sia con il boss Luciano

Liggio che con il camorrista Raffaele Cutolo. È per ora soltanto un'ipotesi; quel che è certo è che

fino al 1974 fu particolarmente attiva la misteriosa "rete parallela" denominata Rosa dei Venti, che

utilizzava ampiamente terroristi di destra.

La Rosa dei Venti L'attività della Rosa dei Venti si concretizzò in una serie di azioni

terroristiche,compiute nei primi anni Settanta. Tra queste c'erano sicuramente il fallito attentato al

treno Torino-Roma dell'aprile '73, i disordini del 12 aprile a Milano e la strage davanti alla questura

di Milano di via Fatebenefratelli. L'autobomba fu piazzata all'ingresso della questura, al termine di

una cerimonia ufficiale, proprio mentre stava uscendo il ministro Mariano Rumor accompagnato da

altre autorità. L'ordigno esplose uccidendo quattro persone e facendo decine di feriti; Rumor si

salvò per un soffio. L'attentatore, Gianfranco Bertoli, fu catturato sul posto. Attenzione, questo

nome riemergerà nel '90 proprio nell'elenco dei seicentoventidue fornito da Andreotti alla

Commissione Stragi. Bertoli era un gladiatore, anche se per un certo periodo si tentò di farlo passare

per un omonimo: se si trattò di una "svista", questa è indicativa di quali potrebbero essere i nomi

"sfrondati".

La presenza di Bertoli alla questura di Milano ha invece una spiegazione, che troviamo

nell'inchiesta di Salvini: sembra che Rumor si fosse impegnato, non si sa in quale sede, a proclamare

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lo stato di "emergenza nazionale" subito dopo la strage di piazza Fontana, cosa che in effetti non

fece, forse per la forte mobilitazione popolare seguita all'eccidio. Dirà Cossiga a Pellegrino: «Non è

credibile questa versione, lo stato d'assedio avrebbe provocato in quel momento la guerra civile.

Forse Rumor, sotto choc, avrà detto qualcosa di generico senza rendersene conto. Non è

sospettabile di una cosa del genere». Dietro la sigla Rosa dei Venti va collocata dunque l'attività

delle reti parallele di Gladio, in quel periodo prevalentemente formate da ex partigiani bianchi e

neofascisti di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo.

Il 72 fu un anno davvero horribilis. Il 6 marzo fu arrestato Pino Rauti, membro della direzione

nazionale dell'MSi per la strage di piazza Fontana; il 15 marzo Feltrinelli fu trovato dilaniato ai

piedi di un traliccio ad alta tensione a Segrate, a trecento metri dal capannone industriale di

proprietà di Carlo Fumagalli, il capo del MAR (Movimento Armato Rivoluzionario),

un'organizzazione di estrema destra; il 17 marzo fu ucciso Luigi Calabresi, commissario di Pubblica

Sicurezza contro il quale era in atto una campagna dell'estrema sinistra per la morte dell'anarchico

Giuseppe Pinelli, "defenestrato" dal quarto piano della questura di Milano poche ore dopo la strage

di piazza Fontana e a maggio ci fu la strage di Peteano. Su «OP agenzia» del 72 Pecorelli, scriveva:

L'ipotesi più probabile è che il presidente del Consiglio [Andreotti] voglia continuare a manovrare

la leva del disordine a destra per garantire a se stesso, cioè all'uomo "del recupero a destra", la

possibilità di restare a Palazzo Chigi. Forlani e Rumor lo hanno capito. Ecco perché il segretario

DC ha parlato.

Il segretario DC era in quel periodo Forlani, che nel corso di un comizio a La Spezia il 5 novembre

1972 fece per la prima volta, nella storia politica di quegli anni, un'aperta allusione al

coinvolgimento di servizi segreti stranieri nella strategia della tensione, manifestando il coraggio di

affermare che il pericolo veniva da destra e non da sinistra: «È stata compiuta dalla destra

reazionaria una trama che ha trovato anche solidarietà internazionali. Questo tentativo non è finito,

noi sappiamo che è ancora in corso». Non è chiaro chi fosse il destinatario del messaggio, ma Forlani

doveva avere ben ponderato la sortita e Mino vi legge un attacco ad Andreotti.

Per l'omicidio del commissario Calabresi è tuttora in carcere Adriano Sofri, ex leader di Lotta

Continua. Ma in una prima fase le indagini si appuntarono su Gianni Nardi, il bombardiere nero

che si sospetta fosse legato all'Anello, che poi riuscì a emigrare in Spagna, dove sarebbe morto in un

incidente stradale su cui si sono sempre nutriti dubbi. I colleghi di Calabresi riferirono che il

commissario, al momento del delitto, stava indagando su possibili connessioni tra la strage di piazza

Fontana e un'organizzazione segreta. L'indagine gli era stata affidata dal giudice Emilio

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Alessandrini, ucciso nel 79 a Padova: l'attentato fu attribuito alle indagini che stava svolgendo su un

gruppo dell'autonomia.

Le prime ammissioni sull'esistenza della Rosa dei Venti furono fatte da Amos Spiazzi, tenente

colonnello del secondo gruppo di artiglieria di Verona, che aveva ricevuto l'ordine di allertare

"gruppi fiancheggiatori" nel giugno del 73 in appoggio al cosiddetto "golpe bianco" di Edgardo

Sogno. Il generale Sogno, medaglia d'oro al valor militare durante la Resistenza, aveva diretto

l'organizzazione Franchi. Sogno difese a spada tratta la Rosa dei Venti, cui a suo dire appartenevano

soltanto patrioti: «Ci sono ex partigiani,uomini politici, intellettuali, grandi industriali, uomini di

primo piano della politica e dell'economia».

Quando il 31 ottobre 1974 il giudice Giovanni Tamburino firmò il mandato di cattura contro

Miceli, il generale gli diede questa spiegazione: «C'è ed è sempre esistita una particolare

organizzazione segretissima che è a conoscenza anche delle massime autorità dello Stato». Ma si

rifiutò di offrire altre informazioni su quello «speciale organismo esistente nell'ambito del servizio».

Quando nel '90 Andreotti rivelò l'esistenza di Gladio, il generale ormai eletto senatore nelle liste

dell'MSI reagì duramente: «Io mi sono fatto arrestare, ma ho taciuto». E a Tamburino che gli

chiedeva conto dei rapporti del SID con alcune organizzazioni eversive dell'estrema destra, aveva

risposto in modo rassicurante: «È una fase che va concludendosi, finora avete sentito parlare di

fascisti, da ora in poi sentirete parlare soprattutto delle Brigate Rosse». Una straordinaria capacità di

previsione, considerato che avevano appena arrestato Renato Curcio e Alberto Franceschini! Forse

a dare il colpo definitivo alla carriera del capo del SID, più ancor della notte dell'Immacolata, fu

proprio l'ammissione dell'esistenza della struttura supersegreta che tale doveva restare. Lo stesso

errore sarà compiuto nel 76 dal suo rivale Maletti che per giustificare la fuga di Giannettini disse:

«Abbiamo dato ascolto al consiglio di un servizio amico».

Fu forse per far fronte a tale emergenza che Andreotti fu precipitosamente nominato ministro della

Difesa. Scrive lo storico Giuseppe De Lutiis, uno dei massimi conoscitori della nostra intelligence:

In un clima da basso impero, il 12 marzo 1974, Andreotti tornò dopo otto anni alla guida della

Difesa. Con il suo arrivo lo scontro tra l'ala dura e quella legalitaria del SID, personificate da Miceli

e Maletti, subisce un colpo di acceleratore. Il capo dell'Ufficio D non era più solo, aveva il ministro

dalla sua parte. E iniziò un'azione tendente a bruciare i settori più compromessi del SID parallelo.

Una fase destinata a durare pochissimo, perché anche Maletti fu rapidamente bruciato, proprio

quando Tamburino, ormai a un passo della verità, fu spossessato dell'inchiesta che la Procura di

Roma avvocò a sé. L'indagine sulla Rosa dei Venti finì nel calderone del processo ai "quattro

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pensionati" del golpe Borghese.

La Gladio siciliana Esiste il forte sospetto che alla "rete parallela" abbiano partecipato, oltre alle

organizzazioni di estrema destra, anche la criminalità organizzata, o almeno alcuni boss. Anche

Emanuele Macaluso parla della mafia come di una sorta di Gladio siciliana: commistione che l'ex

senatore del PCI fa risalire all'epoca dello sbarco alleato, quando gli USA grazie all'ausilio della

comunità italoamericana sostituirono l'ex personale politico e burocratico lasciato in eredità dal

fascismo con una rete di persone "affidabili" messa in piedi dal gangster massonico Lucky Luciano,

mandato segretamente in Sicilia qualche mese prima dopo che la sua condanna a cinquant'anni di

reclusione era stata annullata. Tra le persone che sicuramente Luciano contattò c'erano Michele

Sindona e Badalamenti, e molti sono i sospetti che entrambi abbiano avuto stretti contatti con

l'OSS, il servizio segreto americano operativo negli anni della Liberazione. I boss non avevano

bisogno di essere selezionati, né ideologicamente attrezzati: che fossero fortemente anticomunisti

non c'era dubbio. Del rapporto tra "struttura antiguerriglia" e mafia parla anche Vito Ciancimino, in

un "memoriale" scritto all'inizio degli anni Novanta di cui parleremo più avanti.

L'ipotesi di Macaluso è che la Gladio siciliana sia intervenuta nella cattura del bandito Giuliano

quando, dopo la vittoria elettorale della DC, fu necessario liquidare le frange separatiste fino a quel

momento appoggiate dai servizi segreti. Ma non è difficile ipotizzarne il ruolo anche nel sabotaggio

dell'aereo di cui rimase vittima Enrico Mattei, che di Gladio era stato uno dei fondatori. Il

presidente dell'ENl aveva anche organizzato una sua rete personale, costituita dalla Federazione

Italiana Volontari della Libertà, l'associazione dei partigiani bianchi fortemente anticomunista e

antisindacale, che probabilmente faceva capo alla Rosa dei Venti. L'eliminazione di Mattei dallo

scenario politico ed economico italiano va attribuita alla sua politica di "autonomia energetica", che

entrava in quegli anni in aperto contrasto con gli interessi delle multinazionali angloamericane, le

cosiddette sette sorelle.

La Gladio siciliana potrebbe essere sopravvissuta allo smantellamento dalla "casa madre" (se mai lo

smantellamento dello Stay Behind c'è stato fino in fondo); e da alcune indagini emerge il sospetto

che possa aver avuto accesso ai depositi di armi ed esplosivo, come quel Semtex T4 certamente

utilizzato nella strage al treno di Natale dell'84, per cui Pippo Calò è stato condannato all'ergastolo.

Per quanto possa essere prematuro affermarlo, c'è qualche fondato sospetto che anche le stragi più

recenti, quelle del '92 e '93, siano state compiute con l'appoggio di apparati segreti. Una delle

"operazioni speciali" a cui ha partecipato la mafia fu certamente il golpe Borghese. Il Principe nero

aveva bisogno di uomini capaci di sparare, da utilizzare nei suoi piani di occupazione territoriale.

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Racconta il pentito Antonino Calderone (atti acquisiti al processo Andreotti di Palermo) che suo

fratello Giuseppe fu contattato da Junio Valerio tramite il colonnello dei Carabinieri Giuseppe

Russo. Qualche anno dopo, sia il boss di Catania sia il colonnello furono assassinati. Buscetta parla

invece di incontri preparatori del golpe avvenuti a Milano. Alla mafia il progetto non piaceva, dice

Masino: lo riteneva pericoloso e poco conveniente.

Il motivo lo spiega Calderone: «Mio fratello si oppose alla proposta di far indossare ai nostri uomini

una fascia gialla, che avrebbero dovuto mettere al braccio». Se il golpe falliva, la fascia avrebbe

facilitato una sorta di schedatura dei mafiosi e Cosa Nostra, evidentemente, non aveva alcun

interesse a uscire allo scoperto. Così, benché nessuno sappia dire con esattezza come sia andata a

finire, la partecipazione della mafia alla notte dell'Immacolata sarebbe stata alla fine piuttosto

marginale.

Responsabilità e depistaggi La stagione del golpe lasciava una difficile eredità politica: gli apparati

dello Stato erano "costretti" a intervenire per depistare le indagini della magistratura e coprire

proprie e altrui responsabilità. Fu il giudice Guido Salvini, a conclusione dell'inchiesta su Piazza

Fontana, a ipotizzare la presenza della "struttura antiguerriglia" dietro i più gravi attentati di quegli

anni e a sostenere che la fase delle bombe, degli attentati ai treni e dei falliti golpe rientrava in

un'operazione di guerra vera e propria, una guerra a "bassa intensità" che i servizi d'intelligence

atlantici hanno condotto qua e là per il mondo a sostegno dei governi amici. Il presidente della

Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino, nel libro intervista Segreto di Stato sostiene: Il

depistaggio compiuto dai servizi segreti, e più in generale dagli apparati della sicurezza, nei

confronti della magistratura riguarda soprattutto i fatti che si sono verificati tra il '69 e il '74:

bisognava impedire che i giudici scoprissero l'esistenza di Gladio, coperta dal segreto atlantico, e di

quella vasta rete di organizzazioni paramilitari clandestine legate agli apparati.

Ma è proprio a causa dei depistaggi messi in atto a partire dalla strage di piazza Fontana che non è

stato mai possibile individuare negli archivi del Viminale l'origine del "mandato stragista". Spiega

Pellegrino: Non riesco a immaginare che un uomo come Federico Umberto D'Amato, il capo

dell'Ufficio Affari Riservati, abbia condiviso quella strage pur non avendo, se ne ha conosciuto i

preparativi, fatto nulla per evitarla [...]. Anzi penso che abbia ritenuto un grave errore mettere la

bomba nella banca o almeno farla esplodere quando non era deserta. Voglio dire che D'Amato e i

suoi uomini possono essersi dati da fare non per coprire proprie responsabilità, ma semmai quelle

dei Carabinieri, o di apparati militari o di uomini dei servizi alleati [...]. Dietro D'Amato c'era

comunque un interesse politico-istituzionale che premeva perché la strategia che stava dietro piazza

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Fontana e le relative alleanze non venissero disvelate.

Era Andreotti l'uomo che aveva assunto l'onere di tutelare questo interesse politico-istituzionale?

Risponde Pellegrino: Non lo sapremo mai. Alcuni in Commissione dicono che una regia

andreottiana sarebbe chiara nei depistaggi sul golpe Borghese, ma è una conclusione che mi lascia

perplesso. Se venisse portato di fronte a qualche tribunale verrebbe assolto. E giustamente, direi.

Non è andata così anche a Palermo o Perugia [l'intervista è precedente alla condanna del 22

novembre a Perugia] La responsabilità politica è una responsabilità collettiva ed è in questa logica

che va affrontato anche il tema di un suo eventuale coinvolgimento nella strategia della tensione e

nei conseguenti depistaggi.

In politica si risponde non soltanto di ciò che si vuole o che si fa, ma anche di ciò che non si sa

quando si ha il dovere di sapere. E si risponde anche di ciò che non si è fatto per impedire un evento

quando si aveva il dovere di impedirlo. E ipocrita ritenere che la strategia della tensione potesse

essere il frutto della deviazione di piccoli settori di apparati istituzionali, anche se non può essere

contestata la responsabilità politica a una sola persona.

La ricostruzione di questo periodo, così drammatico per l'Italia, e del ruolo che Andreotti potrebbe

avervi svolto, da la misura di come sia difficile anticipare un giudizio storico su un uomo che per

alcuni rappresenta il punto più alto della capacità di gestione dello Stato, per altri la più

spregiudicata concezione della politica intesa come pura mediazione di interessi, al di fuori di ogni

progetto etico. Non stupisce che all'interno della DC egli abbia rappresentato l'altra faccia del

potere, rispetto a come lo concepiva Aldo Moro, e che da questa contrapposizione siano derivate

tante disgrazie per quel partito. Andreotti è l'uomo che nel '72 governa a destra, ma è poi l'uomo

della solidarietà nazionale con il PCI; è fortemente legato ai vertici militari, ma non ha esitato a

smantellarli, nel 74, buttando a mare generali compromessi (anche se mise al loro posto uomini

forse peggiori); è l'esponente democristiano che più ha coltivato relazioni con la CIA e con gli

americani, ma anche l'autore della svolta "filoaraba" del governo italiano; dicono che sia il Signore

dell'Anello ma nel '90 ha rivelato Gladio e i complotti della CIA in Italia. La storia dimostrerà che

forse è stato proprio quest'ultimo il suo tallone d'Achille, l'unico punto scoperto nella pesante

armatura che lo ha sempre protetto, rendendolo alla fine della guerra fredda improvvisamente

vulnerabile. Un esempio della sua poliedricità rispetto ai fatti appena raccontati? È stato lui a

smascherare Giannettini, ma gli ha poi offerto una ciambella di salvataggio: in seguito alle

disavventure giudiziarie il giornalista-spia è tornato in Italia e ha trovato lavoro presso una delle

società di Ciarrapico, un fedelissimo della gens Giulia.

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Il Venerabile indagato C'è un dato che accomuna Pecorelli ai protagonisti della sua tragica storia: a

partire da lui sono tutti o quasi iscritti alla P2. Forse per questo la terza e ultima pista battuta dal

PM Sica fu proprio quella delle relazioni massoniche del giornalista. Ma a indirizzare le indagini

sulla Superloggia era stata anche una telefonata anonima, arrivata alla Procura di Roma quarantotto

ore dopo il delitto, cui fece seguito una lettera dello stesso tenore: «Indagate su tal Lucio Gelli e

sull'omicidio di Vittorio Occorsio».

Occorsio era un magistrato dello stesso ufficio, assassinato nel luglio 76 dal terrorista nero Pierluigi

Concutelli. Gelli era proprio Gelli, benché il nome di battesimo fosse sbagliato. Attenzione alle

date, siamo nel marzo 79: il Venerabile era certamente conosciuto in molti ambienti, anche

internazionali, ma non era ancora assurto agli onori delle cronache ed era lontano dall'aver

conquistato la fama di potentissimo capo della P2. Non vogliamo dilungarci sulle trame

massoniche, se non per quello che strettamente interessa la nostra vicenda. Ma prima di capire in

che modo Gelli sia finito sulla graticola dei sospettati per l'omicidio del suo amico Mino, primo

indagato eccellente di questo incredibile affare, bisogna dare qualche accenno alla sua biografia che,

per quanto conosciuta, è sempre ricca di spunti inediti, come quello relativo al suo oscuro passato di

"doppio partigiano",impegnato in azioni spericolate come vendere i rossi ai tedeschi e i fascisti ai

partigiani nell'estate del '43. Fu questo l'ennesimo micidiale scoop di Mino, per il quale Licio

rischiò l'accusa di omicidio. La pista si concretizzò nell'81 con quattro avvisi di garanzia: nella veste

di mandante politico, al posto di Andreotti, troviamo Gelli; al posto di Vitalone, un colonnello

emergente, il piduista Antonio Viezzer. Il sicario non era un boss, come Michelangelo La Barbera,

ma un terrorista nero, Giusva Fioravanti, noto in quegli anni per ammazzamenti vari, appartenente

ai Nuclei Armati Rivoluzionari, una formazione molto "intrecciata" con la Banda della Magliana.

L'armiere, come sappiamo, era invece lo stesso: quel Massimo Carminati accusato di aver fornito la

pistola dell'armeria di via Liszt all'uomo che ha sparato a Pecorelli.

Il delitto Occorsio Quella strana, ambigua comunicazione giunta subito dopo l'omicidio Pecorelli,

in cui l'anonimo fingeva di non conoscere il nome di Gelli, ribattezzato "Lucio", apre uno squarcio

sui sommovimenti che in quel periodo turbavano un certo ambiente. Gli autori del depistaggio

conoscevano bene il Venerabile, visto che lettera e telefonata provenivano, com'è stato poi

accertato, dal Centro di Controspionaggio di Firenze.

Dunque si trattava di un anonimo "istituzionale", dato che la pista che conduceva al Venerabile era

stata fabbricata, per loro stessa successiva ammissione, dal colonnello Federico Mannucci

Benincasa del SISMI e dal capitano Umberto Nobili, tenente colonnello dell'aeronautica militare,

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anche loro iscritti alla P2, ma per qualche motivo in rotta con Licio. Qualche anno dopo l'omicidio,

il giudice istruttore di Roma Francesco Monastero, nel concludere la prima istruttoria sul delitto

Pecorelli, scriveva: «Bisogna perscrutare un mondo fatto di solide amicizie e di improvvise

diffidenze, di squallidi ricatti e di provocatorie mistificazioni, di minacciosi segnali e di inquietanti

attese».

Non deve stupire che da un ambiente come questo sia partito il primo siluro contro il capo della P2.

Ed è possibile che dalla stessa qualificata fonte Mino fosse entrato in possesso anche dei tre fascicoli

del SID - il più importante, secretato Comlnform 15.743, il servizio informazioni italiano operante

durante la guerra - che trattavano del misterioso esordio del Venerabile sulla scena italiana.

«Indagate sull'omicidio Occorsio», scriveva l'anonimo. Il 10 luglio 1976 il giudice Vittorio Occorsio

fu affrontato, mentre era alla guida della sua auto sul Lungotevere, senza alcuna scorta, da un

commando guidato dal neofascista palermitano Pierluigi Concutelli, che fece fuoco con una raffica

di mitra. Un delitto siglato terrorismo nero, almeno apparentemente. Il fatto è che il magistrato

romano era sul punto di scoprire i legami tra uno strano gruppo massonico, l'Anonima Sequestri e

l'eversione di destra. A rivelarlo era stato un giornalista dell'«Unità», Franco Scottoni, amico del

magistrato. l'11 aprile del 1976 era stato il primo a parlare sul quotidiano comunista di una

fantomatica «Loggia p2». Il giornalista raccontò poi a Sica che qualche ora prima dell'omicidio

aveva incontrato Occorsio nel suo ufficio. Gli era sembrato di buon umore e gli aveva confidato che

la sua indagine aveva fatto passi avanti. Ma gli aveva detto: «Ho paura che si tratti di qualcosa di

molto pericoloso, è ancora prematuro parlarne... ci sono dentro neofascisti e marsigliesi. Ora vado

di corsa, vieni a trovarmi domani».

Un altro appuntamento che la morte ha reso impossibile. A mettere Occorsio sulle tracce di Gelli

era stato nel 71 l'ex ufficiale dei para Sandro Saccucci, uno dei congiurati della Notte della

Madonna. Saccucci, che Occorsio aveva interrogato in carcere, era vicino a Ordine Nuovo, la

disciolta organizzazione fascista di cui faceva parte lo stesso Concutelli, ma confidò al magistrato di

essere anche massone. Un incappucciato della sua stessa famiglia, il professor Felice Franciosi, poi

deceduto, lo aveva incaricato di compiere un'indagine sui possibili legami tra organizzazioni di

estrema destra ed estrema sinistra. Raccontò Saccucci: Mi resi presto conto che uno stesso

fenomeno attraversava questi gruppi: c'era un continuo sgretolarsi e riaggregarsi di sigle e di uomini

quasi su ispirazione esterna. Tutto sembrava avvenire secondo piani prestabiliti, come se a muovere

le pedine sulla scacchiera dell'eversione fosse una mente superiore e invisibile.

Occorsio fu dunque il primo a intuire che potesse essere la massoneria a tirare le fila del terrorismo,

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utilizzando a seconda delle contingenze sia rossi che neri. Tre mesi prima di essere ucciso, il

magistrato aveva messo a segno un bel colpo arrestando Albert Bergamelli, un marsigliese coinvolto

in sequestri di persona e rapine. Un gangster pericoloso e spietato,salito alla ribalta delle cronache

con la sanguinosa rapina di piazza dei Caprettari, dove morì l'agente Marchisella. Un fatto di

cronaca che ha a lungo tenuto banco sulle prime pagine dei giornali, per lo straziante suicidio della

giovane fidanzata e poi per l'eliminazione di Claudio Tigani, un ladruncolo che aveva fatto da

basista nella rapina, ucciso perché "sapeva troppo". Quando Bergamelli fu arrestato, i giornalisti si

catapultarono: il gangster fece il suo ruolo, si lasciò fotografare, ma ci tenne a rilasciare una strana

dichiarazione: «Se mi hanno preso vuoi dire che qualcuno mi ha scaricato, ma la pagherà cara perché

sono protetto da una grande famiglia».

Nessuno lì per lì fece caso a queste parole che sembrarono le millanterie di un delinquente. Ma

qualche giorno dopo gli investigatori fecero una strana scoperta: il provento di alcuni sequestri della

gang erano stati riciclati con l'aiuto dell'avvocato del gangster, Gian Antonio Minghelli, figlio di

Osvaldo, generale di Pubblica Sicurezza. L'anonima marsigliese in realtà aveva messo in piedi una

vera e propria industria dei sequestri di persona: Bulgari, Andreuzzi, Danesi, Ziaco, D'Alessio,

Amato.

Bisogna attendere l'81 per scoprire che Gelli nel 75 aveva nominato il generale Osvaldo Minghelli

segretario organizzativo della P2, carica di grande rilievo che lui stesso aveva gestito prima di essere

promosso Venerabile. Nei primi anni Settanta il quartier generale della P2 aveva sede in via

Condotti, dietro il paravento di un fantomatico Centro Studi di Storia Contemporanea. Fatto sta

che la sede era nello stesso stabile della gioielleria Bulgari, e anche il proprietario fu rapito dalla

gang di Bergamelli. Del rapimento dei figli di Arcaini e De Martino abbiamo già parlato. Ma finì

nelle prigioni dei marsigliesi perfino il figlio di Umberto Ortolani, che secondo alcuni piduologhi,

era la vera mente della Loggia. Era veramente strana questa Anonima: i rapiti erano quasi tutti

piduisti facoltosi, piduista l'avvocato degli arrestati e piduista era anche il commissario della Mobile

che arrestò Bergamelli, Elio Cioppa. Forse anche il gangster lo era, magari iscritto nella lista bis mai

venuta alla luce: interrogato, affermò di essere in ottimi rapporti con Licio Gelli, che naturalmente

smentì. Una spiegazione di questi strani sequestri la possiamo forse trovare nel rapimento di

Amedeo Ortolani, catturato dalla gang mentre stavano giungendo in porto le trattative per la

cessione della Voxson, azienda di cui l'ostaggio era presidente e che in quel momento versava in

gravi condizioni. Il sequestro mise in moto una forte pressione per la concessione di finanziamenti

pubblici che rimisero in sesto i bilanci.

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Albert Bergamelli dopo l'arresto deve aver commesso qualche errore, forse ha lanciato messaggi

ricattatori, si era montato la testa, chissà. La fine che lo attende è la stessa di Francis Turatello, il

marsigliese che nascose il Memoriale. Nell'82, nel carcere di Ascoli Piceno (dove aveva stretto

amicizia con Cutolo), Albert fu assassinato da Paolo Dongo, un malavitoso politicizzato, divenuto

brigatista del Fronte delle Carceri, l'ala capeggiata da Giovanni Senzani (uno strano capo delle

Brigate Rosse, come vedremo, consulente del ministero della Giustizia e coinvolto nel sequestro

Cirillo). Scottoni, dopo la morte del magistrato, scrisse sull'«Unità»: «Più volte in quest'ultimo

periodo si era parlato di una cellula nera sotto l'etichetta di una loggia massonica di cui faceva parte

l'avvocato Minghelli. Ma le indagini non erano approdate a nulla di concreto». E ancora il

giornalista rivelò: «Occorsio mi disse che la pista non era stata abbandonata, che anzi aveva ricevuto

un documento importante che aveva aperto nuovi spiragli. Quel giorno tirò fuori dalla borsa un

opuscolo redatto in lingua spagnola, in cui si parlava di una certa OMPAM (Organizzazione

Mondiale per l'Assistenza Massonica) che annunciava l'acquisto di un immobile a Roma,

adeguatamente arredato, per un prezzo di otto milioni di dollari USA, circa sei miliardi». L'ompam

non faceva parte della massoneria ufficiale, anzi era stata denunciata come illegale, però vi aderiva la

loggia dell'avvocato Minghelli. Anche «l'Espresso» scrisse che l'OMPAM raccoglieva proseliti in

Sudamerica e aveva acquistato un palazzo in via Romania: «L'ompam è in realtà una creatura di

Gelli, il cui nome veniva fuori sia pure indirettamente, tanto che Occorsio ad aprile aveva ordinato

ai carabinieri di pedinarlo», affermava il giornalista Pierluigi Buffa. La buona stella del Venerabile

aveva iniziato la sua eclissi: l'uccisione del magistrato gli concesse ancora qualche anno.

Getti, doppio partigiano Quello che aveva convinto Sica della bontà della pista massonica non era

stata la lettera anonima, ma una serie di articoli che Pecorelli aveva pubblicato un paio di mesi prima

di morire. Il primo trafiletto era comparso sul primo numero di «OP» del '79. Aveva toni concilianti,

ma fu come uno squillo di tromba per le orecchie più sensibili: Da quando con l'ingresso del PCI in

area governativa è tramontata la moda di scoprire un golpe alla settimana, politologi, tramologi si

sono messi a pubblicizzare il più folklorico filone della massoneria [...] l'argomento viene trattato

sulla falsariga dei testi salgariani, scrivendo di Grande Oriente, Rito scozzese, Maestri Venerabili e

Liberi Muratori e delle misteriose liturgie di uomini incappucciati, è facile far immaginare tra

ombre e corridoi un susseguirsi di complotti, congiure e pugnali. Secondo i nostri esperti in Italia il

novanta per cento dell'alta dirigenza dello Stato, i vertici industriali e bancari, la magistratura,

appartengono alla massoneria e il pontefice massimo, il genio criminale che tutto muove e decide è

Gelli.

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Siamo nel 79, Mino già mostrava di conoscere la vera portata della Loggia P2, ma quella sortita in

apertura d'anno era ambigua: da un lato sembrava voler difendere il Maestro, dall'altro annunciava

una campagna stampa che, sia pure tra il serio e il faceto, si annunciava pericolosa: Questo Gelli è

un ex fascista agente dei servizi segreti argentini, amico personale di Lopez Rega, fondatore degli

Squadroni della morte AAA in America Latina, legato alla CIA, a Connally e ai falchi americani

[...]. Cardine della loro tesi è che Gelli sia un nazista criminale, collaboratore delle SS e delatore di

partigiani. Questo porta acqua al nostro mulino perché siamo entrati in possesso di un documento

che dimostra l'esatto contrario [...]. Nel luglio '44 Gelli si presentò in divisa da ufficiale tedesco

presso una casa per malattie nervose chiamata Villa Sbertoli (in località Collegi-rate Pistoia, che le

SS avevano adibito a prigione). Forte dell'ascendenza personale e della perfetta conoscenza del

tedesco, con sangue freddo eccezionale, si fece consegnare i partigiani che grazie a lui poterono

raggiungere di nuovo le rispettive formazioni.

La prima lecita domanda riguarda chi potesse aver fornito a Pecorelli tali documenti riservati, in

particolare quel fascicolo Comlnform 15.743 (data dell'episodio di Villa Sbertoli), che fu ritrovato

tra le carte nella redazione di «OP», ma che non risulta catalogato negli archivi del SIFAR. Non

tutti sono d'accordo, ma ho sempre sospettato che la trovata fosse proprio del Venerabile, l'unico del

resto in grado di fornire a Mino anche l'attestato di benemerenza firmato da Italo Carobbi,

presidente del CLN della provincia di Pistoia, pubblicato in un riquadro nello stesso numero di

«OP»: Questo Comitato dichiara che Gelli Licio, di Ettore, pur essendo stato al servizio dei fascisti

e dei tedeschi, si è reso utile alla causa dei patrioti pistoiesi. Esso ha: 1) avvisato partigiani che

dovevano essere arrestati; 2) messo a disposizione e guidato personalmente il furgone della

Federazione Fascista per portare sei volte consecutive rifornimenti di viveri e armi alla formazione

di Silvano e alle formazioni di Pippo dislocate in via Val di Lima; 3) ha partecipato e reso possibile la

liberazione dei prigionieri politici detenuti a Villa Sbertoli.

Un attestato di quel tipo, checché se ne pensi, tornava molto utile a Gelli in quel momento, visto

che stavano emergendo le sue compromissioni con i regimi sudamericani e che la vicenda dei

desaparecidos in Argentina aveva molto colpito l'opinione pubblica internazionale. Contro di lui

poteva montare una campagna orchestrata dalla sinistra e l'accorto Licio interveniva per mettere sul

piatto un certo debito di riconoscenza... Ci fu perfino il dubbio che potesse trattarsi di un "falso"

architettato da lui, ma l'attestato è autentico come anche il contenuto del fascicolo Comlnform.

Una volta messo in moto Mino era difficilmente arginabile. E ancor meno arginabili erano le sue

"fonti". Così il 20 febbraio 1979, giusto un mese prima del suo omicidio, il direttore di «OP» torna

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sull'argomento chiamando direttamente in causa il colonnello Antonio Viezzer, un altro ufficiale

del Controspionaggio di Firenze, piduista gelliano di stretta osservanza. L'articoletto merita di

essere citato: è un classico "sfottò" di Mino nei confronti dei suoi amici spioni.

L'appuntamento va collocato in uno scenario da 007 formato Hollywood. Giorno dell'incontro:

lunedì 5 febbraio che passerà alla storia come il lunedì delle Streghe. Luogo: l'angolo di una strada

male illuminata di Roma centro. Occhiali neri, baffi finti, bavero dell'impermeabile rialzato fino

alle orecchie, cappello a larghe falde calato sul viso, giornale sotto il braccio, sigaretta accesa. Il

Professore era stato puntuale, così travestito era stato inevitabile per Pecorelli riconoscerlo senza

averlo mai conosciuto.

Ed ecco che Viezzer consegna nelle mani di Pecorelli un altro fascicolo ingiallito, uscito dagli stessi

archivi del Comlnform. Scrive Pecorelli: «È un lungo elenco di nomi che qualcuno un tempo ha

tradito. Un lungo elenco che noi non tradiremo una seconda volta. Perché non è nostra abitudine

rivelare segreti di Stato e questo ha tutta l'aria di esserlo». Seguiva invece la lista di una sessantina di

fascisti, fucilati in seguito al tradimento di Gelli, consegnata al Comitato di Liberazione di Arezzo.

Questa seconda puntata non è certamente frutto del Venerabile; c'era in ballo un episodio ben

diverso dal salvataggio umanitario di Villa Sbertoli. Qui emergeva la figura del doppiogiochista

pronto a tutto, un traditore della peggior risma. Il colonnello Viezzer, dopo aver letto l'articoletto,

andò da Gelli infuriatissimo e lo affrontò urlando: «Vedi tu cosa puoi fare con questo qui». Ma il

Venerabile aveva scosso la testa: «Purtroppo non è uomo che si possa facilmente controllare». Il

povero Viezzer, anche lui appartenente al Centro di Controspionaggio di Firenze, molto

probabilmente non c'entrava niente; la fonte di questo secondo scoop, come abbiamo già detto,

poteva essere benissimo l'autore della telefonata anonima su «tal Lucio Gelli».

Domanda d'obbligo, che ha impegnato a lungo anche i magistrati che hanno indagato sull'omicidio:

quali erano i rapporti tra Pecorelli e il Venerabile in quel periodo? Mino era un piduista atipico;

frequentava Gelli dal meeting all'Hotel Baglioni, nel 72, che fu una sorta di debutto ufficiale della

Loggia. Fu lì che tra i due si stabilì un proficuo scambio: il Venerabile gli offriva notizie utili, Mino

le rilanciava su «OP» facendo da volano in un sottile gioco di segnali, ricatti e minacce. Soltanto nel

giugno 78 si iscrisse alla Loggia, ma per via del suo carattere tempestoso la permanenza durò pochi

mesi; a ottobre aveva già rassegnato le dimissioni con una vibrante lettera: Caro Licio, ho atteso

invano una tua comunicazione riguardo Fratello Gigi.All'atto di sollecitare il tuo autorevole

intervento ti avevo rappresentato anche la mia premura per l'imminenza del processo. Se la risposta

non è arrivata vuoi dire che nella famiglia è venuta meno o forse non c'è mai stata la solidale

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assistenza dei suoi componenti [...] esistono per caso fratelli di serie A e di serie B? [...]. Nel

constatare siffatta disparità ti rassegno la mia decisione di uscire definitivamente

dall'organizzazione. Ho fatto una breve ma significativa esperienza che mi conforta nel credere che

non ci sono templi da edificare alla Virtù, solo all'ingiustizia e all'arroganza. Per quanto riguarda i

nostri personali rapporti mi auguro se lo desideri che essi possano rimanere immutati.

Non sappiamo chi fosse Fratello Gigi, ma i rapporti in effetti non si guastarono a seguito delle

dimissioni. Numerose erano state le telefonate tra Gelli e Pecorelli nei primi tre mesi del 79; si erano

visti almeno una volta a febbraio e, come sappiamo, avevano un appuntamento a cena proprio la sera

del 21 marzo, cui Pecorelli mancò per sopraggiunta morte. Il procuratore capo di Roma, Achille

Gallucci, nell'82, nella requisitoria con cui chiedeva l'archiviazione nei confronti del Venerabile e di

Viezzer, motivò in questo modo la scelta: «È innegabile che in una serie di articoli, spesso non

completamente comprensibili, Pecorelli per certo nel passato iscritto alla P2 avesse iniziato nei

confronti di Gelli suo sovventore una pericolosa non- che documentata e veritiera campagna. È

comprensibile che successivamente Gelli cercasse di avere contatti con Pecorelli per fermarlo». Ma,

in definitiva, non c'era alcuna prova che avesse mai pensato di ucciderlo.

Questo rapido excursus sul passato di Gelli "doppio parmigiano" non può considerarsi concluso

senza il ritrattino (divenuto noto negli anni Ottanta) che di Licio fece un anonimo maresciallo del

SIFAR nel '51, dal quale si apprende che l'operazione di Villa Sbertoli gli aveva dischiuso nuovi

promettenti orizzonti consentendogli di entrare nella galassia di una misteriosa intelligence, in cui

veniva utilizzato per le sue straordinarie qualità camaleontiche. Scrive il maresciallo: Gelli Licio è

un giovane alto, distinto, con capelli all'Umberto ondulati artificialmente, fronte spaziosa, occhi

piccoli quando sorride, naso grosso aquilino, bocca larga ma regolare, dentatura sana, viso ovale,

corporatura snella, mani piuttosto grosse. Cammina svelto con fare franco e disinvolto, veste

elegantemente con un soprabito marrone a doppio petto e porta sempre sciarpa a fiori piccoli, ama

pantaloni sborsati da ufficiale con gambali neri lucidi a stecca, fuma sigarette di varie marche, non è

dedito né al vino né ai liquori, non gioca e non frequenta sale da ballo [...] viaggia molto in auto, una

1100 FIAT Musetto, comprata da tal Colombo di Milano (sebbene sia stata regolarmente pagata ha

atteso oltre un anno per fare la voltura). Spende somme di denaro in cose del tutto superflue

dimostrando di possederne una quantità esagerata in confronto alle sue probabili entrate, fino a

diecimila lire al giorno.

Più avanti il rapporto riserva altre più consistenti sorprese: Il nominativo segnalato è uno dei più

pericolosi elementi che operano nella zona 8a alle dirette dipendenze del Partito Comunista.

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L'attività di Gelli risale al 1944, epoca in cui si pose al servizio dei rossi per salvare la pelle ai

partigiani. La sua vera attività comincia a essere più scoperta nel 1947-48: egli si associa al professor

Niccolai Danilo, abitante a San Felice di Piteccio, con lui cerca di mascherare altri traffici, facendosi

passare per un industriale di trafilati di ferro e rame [...] dopo quattordici mesi questa azienda di

copertura è praticamente allo status quo.

Nulla sfugge al SIFAR: Il Gelli visto che l'affare industria non può reggere ha deciso di cambiare

tattica e ha iniziato il solito lavoro tanto in uso nel servizio spionistico orientale. Ha aperto una

libreria in corso Antonio Gramsci, così gli agenti del suo servizio si recheranno in bottega con dei

libri sotto il braccio, diranno che il tal libro non va, ne prenderanno un altro e così via.

Proprio come nei romanzi di Le Carré. Se anche questo documento fosse un falso, bisogna dire che

è ben inventato. In ogni caso nessuno, tranne Pecorelli, aveva osato violare l'alone di mistero che

circondava il passato del Venerabile. Ma il giornalista era uso giocare su vari tavoli: forse non era

stato il povero Viezzer a fornirgli il fascicolo sulla "lista dei nomi traditi", ma qualche altro ufficiale

piduista che in quel periodo era sceso in guerra contro il Venerabile. Perché? Un movente lo fornì

molti anni dopo il tenente colonnello Umberto Nobili, complice con Mannucci Benincasa nella

fabbricazione dell'anonimo "istituzionale" in cui si invitava a indagare su Gelli e l'omicidio

Occorsio: «Ero venuto a conoscenza di legami, di saldature tra mafia, servizi libici, nuclei eversivi, il

tutto coordinato ed eseguito a partire dal 78 dalla P2», raccontò durante un'audizione alla

Commissione Parlamentare per la Strage di Ustica. Un intreccio che riporta a quella cellula

supersegreta dell'intelligence denominata Anello e che conferma anche il ruolo della P2 nella

strategia della tensione. Ma c'era anche una parte dei servizi segreti che, pur avendo aderito alla P2,

non faceva parte del nucleo "deviato" e si operava per sventarne le azioni più pericolose? Chissà,

forse si trattava di pure rivalità interne, di trame e dissapori che dovevano essere noti a Pecorelli.

Mino, ad esempio, non aveva in simpatia il colonnello Viezzer e nel '74 gli dedicò un articoletto in

cui allude al suo ruolo di "gladiatore" in contatto con ambienti eversivi: Questo colonnello fino a

poco tempo fa comandava il reparto guastatori del servizio che si addestra in Sardegna e ha

disponibilità illimitate di esplosivo. Si noterà a questo proposito che in tutti i casi di attentati di

matrice di destra l'esplosivo non è mai stato rubato.

Una diretta allusione ai depositi Gladio di Capo Marrargiu, oltre che al diretto coinvolgimento del

SiD negli attentati di destra. Un accenno spericolato, come sappiamo, in cui Mino da prova di

essere a conoscenza del segreto militare "tabù" di quegli anni, l'esistenza dello Stay Behind. Nello

stesso articolo seguivano attacchi ancora più pericolosi nei confronti di Andreotti che accusava di

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aver offerto "coperture governative" agli attentati di destra.

La Balaustra Chi fosse davvero Licio Gelli, e quale la sua reale influenza nelle stanze che contano, si

scoprì soltanto nella primavera dell'81, quando divennero finalmente pubblici gli elenchi degli

iscritti alla "balaustra" più potente e segreta della massoneria italiana. E che iscritti! Tre ministri

della Repubblica, il Capo di Stato Maggiore della Difesa, tutti i capi dei servizi segreti, trentuno

generali delle tre armi, della Polizia e della Guardia di Finanza, diciotto magistrati, prefetti,

diplomatici, alti funzionari, parlamentari, banchieri, professori universitari e giornalisti, compreso

il direttore del «Corriere della Sera», ma anche attori, cantanti, uomini di spettacolo. Pure se a

distanza di tanti anni le numerose inchieste, parlamentari e giudiziarie, che da allora si sono

succedute, non sono ancora riuscite a chiarire che cosa abbia spinto uomini tanto importanti a

confluire in questa consorteria e in cambio di quali contropartite abbiano reso giuramento a un

personaggio che all'epoca era noto come il materassaio di Arezzo.

Difatti nessuno ha mai pensato che il vero destinatario del giuramento fosse lui. L'ex leader del PSI

Bettino Craxi, ascoltato dalla Commissione P2, diede questa valutazione: «Non ho mai creduto che

Gelli fosse il capo, ma piuttosto un grand commis, un segretario generale, un attivatore

dell'organizzazione. Non un capo carismatico, ma uomo di relazioni, affari, intrighi». Lui Gelli lo

incontrò una sola volta, all'hotel Raphael, dove si era presentato come ingegner Luciani: «Dice che

loro erano molto importanti e che controllavano metà della stampa italiana, che avevano anche la

forza di cambiare il presidente della Repubblica con una campagna sui giornali. Disse di poter

assicurare relazioni dirette con gli americani». L'ex presidente Cossiga, che nel 76 aveva detto di

aver appreso dell'esistenza della P2 da un articolo sull'«Espresso», preciserà nel '93 alla seconda

Corte d'Assise di Roma: La Loggia è stata la risposta in termini sbagliati e occulti ai timori dei

circoli atlantici che l'alleanza DC-PCI allontanasse l'Italia dalla NATO. La P2 è d'importazione

americana. Non c'è dubbio che Gelli non fosse il vero capo della Loggia. Vi pare che generali,

arrivati ai massimi vertici, potessero rispondere a uno come lui? Il capo era un referente che metteva

nei posti chiave i generali filoamericani.

Ma il nome non lo ha detto. Non è mai stato risolto il nodo dei rapporti tra Andreotti e il

Venerabile: quando la Commissione Parlamentare d'Inchiesta sulla P2, presieduta da Tina

Anselmi, cercò di oltrepassare quella soglia non riuscì che a individuare la misteriosa Piramide

Superiore. Un'indicazione troppo vaga, al tempo stesso demonizzante, cui ognuno nel tempo ha

dato il significato che preferiva. L'indicazione di Cossiga sul ruolo di diga anticomunista della

loggia massonica può essere valida, ma l'idea che mi sono fatta della Piramide Superiore mi porta a

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immaginare una sorta di gotha della massoneria internazionale, il luogo occulto dove è possibile

muovere come pedine le sorti di uomini e governi. Ma è anche vero che proprio nelle fasi di crisi o di

transizione politica della Repubblica, il ricorso alla violenza potrebbe aver dato adito a manovre

destabilizzanti, che puntavano su gruppi contrapposti, nell'interesse di centri di potere deviati e

occulti.

C'è chi ha identificato la Piramide con la Superloggia di Montecarlo, ma credo che il suo livello sia

ancora quello di una sub-sezione del gotha massonico, anche se questa loggia è particolarmente

potente. Sembra sia nata nel 77 come sezione della P2, grazie all'iniziativa di un commerciante

amico di Licio, tale Luciano Frittoli, per accogliere i personaggi più coinvolti in ogni possibile

nefasta alleanza con la mafia e i trafficanti di armi e droga. Gli iscritti di Montecarlo erano almeno

quattrocento, che uniti ai seicento della Loggia italiana danno l'idea delle dimensioni che aveva

raggiunto la p2: una Loggia non supera in genere i duecento-duecentocinquanta membri.

L'affermazione di Dalla Chiesa, quando giustificò la sua iscrizione alla P2 dicendo che si trattava di

«un'autocertificazione di anticomunismo», spiega in parte il motivo che può avere spinto uomini di

Stato, anche non corrotti, a iscriversi alla potente "balaustra". Tuttavia l'appartenenza alla

Superloggia consentì ai molti che aspiravano ad alti incarichi di arrivare a ricoprirli, e la P2 divenne,

inevitabilmente, un centro di potere privilegiato per ogni strategia politico-militare e finanziaria. Il

sospetto più grave, emerso qua e là in molte inchieste giudiziarie di cui abbiamo già parlato, è che la

loggia gelliana alla fine degli anni Settanta possa aver svolto il ruolo di "sala regia" del terrorismo,

sia rosso che nero, tesa inizialmente a condizionare il consenso attorno al sistema politico

dominante, per poi approdare a un progetto autonomo: quello contenuto nel Progetto R (o Piano di

Rinascita Nazionale) che prevedeva la fine del sistema dei partiti, la nascita di lobby politiche e il

bipolarismo, come in effetti è poi avvenuto all'inizio degli anni Novanta con la fine della Prima

Repubblica.

In un'intervista al TGl condotta da Ennio Remondino nel luglio 1990, un ex collaboratore della cia,

Richard Brenneke, diede questa versione: I soldi della CIA andavano alla p2 per diversi fini, uno dei

quali era il terrorismo. Un altro scopo era quello di ottenere il suo aiuto per trafficare droga negli

USA da altri paesi. Ci siamo serviti della P2 per creare situazioni favorevoli all'esplodere del

terrorismo in Italia e in altri paesi europei negli anni Settanta.

Sembrano affermazioni incontrollate; ma se esaminiamo le liste della P2 troviamo in effetti anche

generali che dirigevano il Supersid che, come è ormai lecito sospettare, era il centro direzionale dei

nuclei che agivano "dietro le linee": personaggi legati tra loro da patti occulti, che facevano

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riferimento alla stessa casa madre, le cui azioni rilette oggi sembrano inseguire progetti di cui non

c'è traccia in alcun dibattito parlamentare o di governo.

Per tornare al processo Pecorelli, partito nel '79 dal tentativo di far luce sull'omicidio di un

giornalista scatenato e bizzarro e approdato nel '93 all'incriminazione dell'uomo politico più

potente degli ultimi cinquant'anni,ci limitiamo a osservare come il passaggio tra le due indagini sul

delitto abbia seguito l'evolversi delle strategie giudiziarie degli ultimi vent'anni: prima si tentò di

capire quale fosse il rapporto tra massoneria e servizi segreti, poi quello tra politica e mafia. Se si

fosse trovato un punto di congiunzione tra i due filoni d'indagine sarebbe stato forse possibile

scoprire anche la vera catena di comando tra le varie parti in causa: massoneria, politica, servizi,

mafia. La teoria del "mandante unico", che la sentenza ci consegna, ammesso che sia sufficiente a

chiarire l'omicidio di Pecorelli, non aiuta a comprendere tutto quel che è successo. Anche se

qualcuno, forse a ragione, potrà dire che non è questo l'obiettivo del processo penale.

Da piazza del Gesù alle logge coperte La misteriosa e fulminea carriera massonica di Licio Gelli

comincia in piazza del Gesù attorno alla metà degli anni Sessanta, precisamente nel '66, quando il

Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Giordano Gamberini, rese operativo il futuro capo della

P2, allora semplice direttore di una ditta di confezioni per uomo (la Gioele di Giovanni Lebole).

Gamberini aveva rapporti di primo piano a livello internazionale, e anche in seguito, quando fu

sostituito da Lino Salvini, manterrà l'incarico di curare i rapporti con le massonerie estere e con la

CIA. Fino a quel momento Gelli si era accontentato di fare da factotum per un deputato

democristiano di Pistoia,Romolo Diecidue, incarico che gli consentì di "fottere" al commendator

Pofferi, benché amico del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, la gestione di una

fabbrica di materassi che lo arricchì grazie al trionfo di ordini da parte di conventi, ospedali e collegi.

Ma i traffici dell'immaginifico Licio non si limitavano a questi affarucci, che cominciavano ad

andargli stretti. Dal Grande Oriente Gelli transitò a Palazzo Giustiniani,dove c'era una loggia

coperta, destinata a ospitare i Fratelli di maggior prestigio e più bisognosi di riservatezza: al futuro

Venerabile questo angolo appartato, dove la sua vocazione all'intrigo aveva maggiori possibilità di

espansione, piacque moltissimo.

La loggia "riservata" di Palazzo Giustiniani era molto prestigiosa: vi erano passati l'ex presidente del

Senato Cesare Merzagora, i generali Aloja e De Lorenzo, e anche Miceli. Nelle liste c'erano altri

nomi illustri, come l'arcivescovo di Vienna Franciscus Konig. O misteriosi, come don Agostino

Coppola, economo di Monreale, condannato a diciotto anni con l'accusa di appartenere alla banda

di Luciano Liggio, e parente del leggendario boss mafioso Frank Coppola, detto Tre Dita, di cui

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parleremo più avanti per il suo intervento nelle trattative segrete con le BR all'epoca del sequestro

Moro. Tra i politici transitati nella loggia di Palazzo Giustiniani ricordiamo il socialdemocratico

Luigi Preti e il comunista Gianni Cervetti. Via salendo la scala della grande finanza e dell'industria,

del mondo bancario e del parastato; incontriamo nomi come quelli di Eugenio Cefis, Giuseppe

Arcaini, Guido Carli, Enrico Cuccia e Michele Sindona. E c'era anche il procuratore generale della

Cassazione, Carmelo Spagnolo, massone dal '47. «Nessuno riuscirà mai a spiegarsi come potessero

convivere nella stessa organizzazione e con spirito di fraternità personaggi che si odiavano a morte

come Cuccia e Sindona, Aloja e De Lorenzo, il socialdemocratico Preti e lo stalinista Cervetti»,

rileva Roberto Fabiani, autore del libro-inchiesta I massoni d'Italia. Ma Gelli aveva una sua

filosofia: «Abitare al piano attico del mondo, dove tutti si conoscono, facilita i rapporti e aiuta a

superare le incomprensioni».

In ogni caso il Venerabile approfittò di questo periodo per costruire il primo nucleo della

potentissima P2. Nel '71, il Gran Maestro del Grande Oriente Lino Salvini lo promuove segretario

generale, e ciò concede al materassaio quella autonomia organizzativa di cui aveva gran bisogno e

che gli consentirà nel breve volgere di qualche anno di circondarsi di uomini potenti in ogni ramo.

Nel '76, un nuovo balzo: viene promosso Maestro Venerabile e, in tacito accordo con Salvini, si

sgancia da Palazzo Giustiniani. La P2 è ormai al decollo, pronta a conquistare un ruolo di dominio

all'interno della massoneria ufficiale ma anche nel mondo esterno, attraverso la scalata dei suoi

iscritti a tutti i luoghi di comando. L'ombra della mafia, con Sindona e don Agostino Coppola, è già

presente in questo nucleo primario della P2. Fili di cui si perderanno le tracce nelle liste ritrovate a

Villa Wandadi Castiglion Fibocchi, nell'81, in quella valigia che Gelli, pronto a fuggire, aveva

preparato. Ma c'è chi ritiene che anche questa sia stata un'abile trovata del Venerabile, che in realtà

voleva far trovare le liste, naturalmente dopo averle depennate dei nomi più imbarazzanti.

Un'accusa dalla quale il Venerabile si è sempre difeso: «Per carità, gli iscritti alla P2 erano persone

molto perbene, nessuno di loro in seguito è risultato coinvolto in Tangentopoli, erano forse un po'

troppo anticomunisti, ma in quegli anni il pericolo del comunismo era davvero molto alto».

Ma negli anni Novanta, quando, dopo la caduta dei grandi patriarchi della DC, fiorì una nuova

generazione di pentiti di mafia, scopriremo che, soprattutto in Sicilia, alla fine degli anni Settanta

c'era stato un proliferare di "logge coperte" nelle quali erano stati accolti anche i rappresentanti delle

famiglie mafiose: la loggia Adelphi a Napoli, le logge Orion della Carnea e di via Roma a Palermo,

la loggia Scontrino a Trapani e altre ancora. Le più importanti sono la loggia di via Roma e quella

dello Scontrino. Duemila iscritti in quella di via Roma: i più bei nomi della politica,

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dell'imprenditoria siciliana e di... Cosa Nostra. Vi troviamo i cugini Salvo, l'editore del «Giornale di

Sicilia» Federico Ardizzone, il commercialista Vito Guarra-si, quell'avvocato Nino Buttafuoco

arrestato per il rapimento del giornalista Mauro De Mauro. Ma anche il boss Salvatore Greco,

cugino carnale del "papa della mafia" Michele Greco. Era invece affiliato alla Carnea un cognato del

boss Stefano Bontate, che più avanti troveremo coinvolto nella fuga di Sindona in Sicilia, Giacomo

Vitale, all'epoca considerato la longa manus di Gelli in Sicilia. Nell'87 il pentito di mafia Antonino

Calderone raccontò che dieci anni prima Gelli, attraverso il Fratello Vitale, aveva fatto pervenire a

Bontate la seguente proposta: creare una sezione riservata nella quale i boss di maggior prestigio

potevano trovare alloggio. L'operazione prevedeva l'investitura dello stesso Bontate, di Michele

Greco e di due rappresentanti per famiglia. Per Catania sarebbe entrato Giuseppe Calderone, già in

contatto con la massoneria dal tempo del golpe Borghese. Per Enna il boss Bongiovino, per Trapani

Totò Minore.

Il pentito Leonardo Messina, nel '93, aggiornerà il quadro di qualche anno, sostenendo che anche i

corleonesi furono poi affiliati alla massoneria, e fece i nomi di Totò Riina, Francesco Madonia,

Mariano Agate, Nicola Terminio, Moreno Micciché, Gaetano Piazza e dell'imprenditore

"corleonese"Angelo Siino. Messina fu anche il primo a parlare di una segretissima Loggia dei

Trecento. Se è vero quello che hanno raccontato i pentiti (e già nell'83 di queste logge segrete

trovarono traccia i giudici Falcone e Chinnici), c'è da chiedersi quale fosse il piano di Gelli o dei

suoi committenti, che valenza avrebbe dovuto avere l'accordo tra massoneria e mafia e in vista di

quali importanti obiettivi veniva sancito un patto che consentiva a Cosa Nostra di riassumere il

ruolo di braccio armato a disposizione di interessi sovranazionali e atlantici, come ai tempi della

Liberazione. Torna alla mente l'ipotesi della Gladio siciliana.

Nel 1982 il SISDE ebbe sentore di quanto stava avvenendo e informò la Commissione Anselmi che

nella Loggia Montecarlo, oltre a Frittoli, c'erano fuoriusciti dalla P2. I più importanti erano Ezio

Giunchiglia, Giorgio Balestrieri (già capitano della Marina Militare) e William Rosati. Secondo

l'informativa del SISDE, a Montecarlo Frittoli era entrato in contatto con il trafficante

internazionale di armi Samuel Cummings, presidente della Inter Arms di Londra e residente nel

Principato di Monaco.

In una lettera dell'80, rinvenuta nell'archivio di Gelli, Giunchiglia parlava del "risveglio"

(massonico) di Randolph Stone, già iscritto alla P2, ufficialmente commerciante, ma indicato negli

anni Settanta come capo della Stazione CIA in Italia. Quando nell'86 la polizia, nel corso di

un'indagine relativa a un traffico di droga, fece irruzione nel Centro Studi Scontrino, scoprì che si

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trattava di una loggia massonica diretta da tal Giovanni Grimaudo in diretto contatto con la Loggia

di Montecarlo e in particolare con Giunchiglia. Anzi, dalle agende venne fuori che l'ex affiliato alla

P2 era l'uomo di raccordo tra Montecarlo e la rete di "logge coperte" operanti al Sud. Alla loggia

trapanese risultarono affiliati amministratori, funzionati pubblici, capimafia e uomini dei servizi

segreti.

Di tutte queste informazioni tenne conto il PM Elisabetta Cesqui che, nella requisitoria del 31

gennaio 1991 al processo a "Gelli più 622", affermò che Giunchiglia era un personaggio che si

collocava «nella zona di maggiore ombra della P2 tra la sponda dei contatti con ambienti militari e

informativi USA e quella che riconduce al commercio di armi».

Belfagor e Belzebù Ma la P2, proprio nel momento della sua massima ascesa, mostrava al suo

interno i primi segni di cedimento. Sul finire degli anni Settanta il sistema gelliano appariva in crisi,

il business di Licio con la Romania (dove esportava abiti Lebole esentasse grazie alla sua amicizia

con Ceausescu e all'appoggio del segretario generale della Guardia di Finanza Nik Trisolini) si era

interrotto per via dello scandalo Petroli e la grande "famiglia" appariva lacerata da divisioni e lotte

intestine. Nel periodo che segue il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, mentre Andreotti è alle

prese con i memoriali e la difficile situazione politica, oltre che con Sindona, l'Italcasse, i Petroli e

tutto il resto, anche Gelli appare travolto dai sospetti, dagli scandali, dalle trame; nelle sue vicende,

per uno strano destino, ricorrevano gli stessi nomi, le stesse sigle, gli stessi ambienti che

minacciavano Andreotti. Al punto che sui giornali dell'epoca furono ribattezzati Belfagor e

Belzebù. Con la differenza che Gelli-Belfagor uscì travolto dalla valanga che si abbattè sulla P2,

insieme ad alcuni uomini dei servizi segreti che con lui rimasero impigliati nella strage di Bologna;

mentre Andreotti-Belzebù ne uscì al solito indenne.

Tra le carte sequestrate nella redazione di «OP» ho trovato una lettera che la dice lunga sul clima da

grande intrigo, prodotto dalla battaglia tra opposte fazioni all'interno della P2. È uno di quei fogli

senza firma che abbondavano sulla scrivania di Mino, ma il cui mittente doveva essere ben noto al

giornalista. Ecco quanto faceva sapere l'Anonimo: Gelli Licio: aretino - massone - nazista - ex

informatore delle SS tedesche, spia dei servizi segreti italiani - coinvolto con Minghelli nel

riciclaggio dei rapimenti Bulgari, Ortolani, Parrillo (tutti stranamente in contatto con Gelli). Fece

il suo ingresso nel mondo economico fottendo un amico del presidente Gronchi, il quale gli affidò

una rappresentanza commerciale di materassi Permaflex.

Con tono concitato, così prosegue l'ignoto cantore: Ora intrattiene rapporti di spionaggio con

alcuni paesi del Sudamerica (è stato artefice del ritorno di Peron in Argentina, alleato di Lopez

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Rega, il quale da buon apprendista stregone manovrava alcuni settori di nazisti tedeschi rifugiati in

Argentina [...]). Il Gelli si è occupato di riciclare monete cartacee sudamericane e di altre

nazionalità, di cui si daranno fotocopie contraffatte per finanziare operazioni di guerra in Europa.

L'FBI sta indagando su alcuni commerci tra spacciatori di droga e mafiosi che intratterrebbero

rapporti con Gelli.

L'informatore, che doveva ben conoscerlo, così descrive il "sistema gelliano": È quello di coprirsi

con la massoneria (ricostituzione P2 ora in sfacelo), ricatta magistrati e uomini appartenenti

all'organizzazione militare, soprattutto il colonnello Trisolini, detto Nik, aiutante maggiore del

comandante della Guardia di Finanza che ha procurato attraverso Ortolani notevoli affari e

remunerazioni a uomini politici e detiene contatti spuri e doppiogiochisti con Sindona, il quale a

sua volta ricatta personalità DC e della Santa Sede. All'estero gode di un permesso riservato ai

diplomatici argentini che ricatta dopo la caduta di Isabelita Peron, ora serve Pinochet e i generali

argentini, con Miceli esercita pressioni per finanziamenti che attraverso lui avrebbe fatto avere

all'MSI-DN. Nel frattempo mantiene rapporti con forze oscure della sinistra italiana giustificando

tale comportamento con la necessità di fornire notizie alla massoneria.

Quante volte ricorre la parola «ricatto» in questa informativa che proviene quasi certamente dal

Centro di Controspionaggio di Firenze? L'intero sistema gelliano sembrava fondato sul ricatto, lo

stesso Venerabile era ricattato: La magistratura stava per emettere ordini di cattura per complicità

manifeste nella questione rapimenti e riciclaggio, ma l'intervento di alcuni magistrati massoni ha

sempre impedito i provvedimenti. Minghelli ha minacciato di parlare, ma il Gelli è riuscito a farlo

tacere con la promessa che lo salverà.

L'amico di Pecorelli doveva avere proprio il dente avvelenato con il Venerabile. Sentite come

conclude l'informativa: Gelli è semianalfabeta (terza media), ha una conoscenza grammaticale

infantile, è presuntuoso, ma si presume riesca a realizzare grandi imprese per una forma di pazzia

lucida. Viaggia con Mercedes targata corpo diplomatico argentino, a breve termine sarà costretto a

interrompere ogni rapporto con la Romania perché i funzionari che lo agevolavano sono stati

arrestati [...] detti abiti godono di esenzioni tariffarie doganali con la complicità della Guardia di

Finanza (Nik). Sembra che Gelli si recherà all'estero e verrà arrestato.

La profezia come sappiamo si è puntualmente avverata due anni dopo. Il grande mistero è che,

nonostante in quegli anni le vite di Belfagor e Belzebù corressero parallele, lungo gli stessi scandali,

non ci sono testimonianze né prove certe del fatto che Andreotti e Gelli si frequentassero, a

esclusione di una telefonata, una lettera e una foto. La lettera e la telefonata sono agli atti del

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processo di Palermo e sono inserite nel percorso del crack di Sindona. La foto risale agli anni

Sessanta, fu scattata all'inaugurazione dello stabilimento Patty di Frosinone. Seduto in prima fila,

vicino a prelati e notabili locali, oltre che al cardinal Marcinkus, Belzebù sorride soddisfatto: le

maestranze assunte nello stabilimento erano state pescate nel suo collegio elettorale e tutto

sembrava andare bene. Dietro la Patty, che produceva valigie, si sarebbe occultata un'impresa di

Sindona (nativo di Patti, in provincia di Messina, da cui il nome). La fabbrica di lì a poco rischiò il

naufragio, ma fu salvata da finanziamenti a favore del Mezzogiorno: era intervenuta la Fatina

Azzurra (cioè Andreotti), come scriveva Mino.

In quegli anni non furono molti gli uffici di sicurezza che cercarono di saperne di più sulle origini

delle fortune di Gelli e sulle sue coperture politiche. Nel 74 si mobilitò però l'Ufficio I della Guardia

di Finanza, il servizio segreto delle Fiamme Gialle. Ad Arezzo fu mandato il tenente colonnello

Luciano Rossi, su incarico del capo dell'ufficio, il colonnello Salvatore Florio. Qualche tempo dopo

il finanziere stilò un rapporto di cinque cartelle nel quale si asseriva che l'indagato aveva una solida

situazione finanziaria di cui non si conosceva l'origine [...] fonte degna aveva riferito che era alto

esponente della Massoneria internazionale [...] ad Arezzo è un intoccabile ma tanti e tali sono i suoi

rapporti che ogni indagine verrebbe annullata.

Nelle cinque striminzite paginette c'è un passaggio, particolarmente importante: «A livello

nazionale è sicura l'esistenza di rapporti con Andreotti e altri elementi della sua corrente nel periodo

frusinate».

Ma di questa relazione del tenente colonnello Rossi non si seppe mai nulla, se non quando il PM

Colombo durante la perquisizione a Villa Wanda,nell'81, ne trovò una copia. Il colonnello nel

frattempo si era trasferito a Napoli: lo mandò a chiamare il procuratore di Milano Luigi Dell'Osso

che gli mostrò l'informativa. Rossi spiegò che era stato avvicinato e sconsigliato dal proseguire. Il

giorno dopo fu trovato morto con un colpo di pistola alla tempia. Nel frattempo anche il colonnello

Florio era morto in circostanze oscure: nel '78 ebbe un incidente stradale su cui si fecero molte

congetture. È stato uno dei pochi tentativi di far luce sul Venerabile Licio e i suoi rapporti con

Andreotti. Tutto il resto sfuma in istantanee sfocate: dai rapporti con Ceausescu, agli incontri con

Sindona, alle buone relazioni con i paesi arabi. Belfagor e Belzebù si inseguono, si rincorrono, ma

non s'incontrano mai.

Sindona, il Diavolo e l'acqua santa Alla fine degli anni Settanta la Sicilia ribolliva come una pentola

su un fuoco troppo alto: era un periodo d'inquietudine, contrasti, rivalità. Dopo un lungo periodo di

pax mafiosa, gli equilibri si erano spezzati: stava per scatenarsi la notte dei lunghi coltelli, la più

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sanguinaria delle guerre di mafia. Presto ci sarebbero stati morti ad ogni angolo di strada. E non

solo morti di lupara, anche di kalashnikov e di tritolo: boss, picciotti, poliziotti, magistrati e uomini

politici. Un terremoto senza precedenti. L'era dei grandi padrini, disposti al dialogo e alla

mediazione, come i Bontate e i Badalamenti,era al tramonto: alle porte premevano i viddani di

Corleone, San Giuseppe Jato, Altofonte, boss rozzi e terragni, abituati ad altri linguaggi e altre

regole. Nessuno fu in grado di capire cosa avesse scatenato tanta furia. La mafia uccide sempre per

"interesse" e dietro questa parola, quasi carnale, ci sono i soldi, i soldi sporchi; e con i soldi il potere

o la necessità di conservarlo attraverso una tela di ricatti, coperture, intimidazioni.

Così fu anche nella terribile estate del 1979. Al centro di questa guerra c'era un uomo, che a noi

interessa perché ha un ruolo chiave nel processo a Giulio Andreotti, ma che rappresenta anche il

punto più controverso e oscuro di molti misteri italiani: Michele Sindona. La sua presenza è come

un'ombra che accompagna i passaggi cruciali della nostra storia, la storia visibile e quella invisibile.

Perché era un grande banchiere, un grande finanziere, stimato da Paolo vi, ma al tempo stesso il

consigliori di Cosa Nostra, il riciclatore delle immense ricchezze dei boss, che erano andate perdute

nei misteriosi crack delle sue molte banche sparse in tutto il mondo.

Quell'estate Sindona era tornato segretamente in Sicilia per rassicurare i suoi "clienti", protetto

dall'aristocrazia mafiosa dell'isola, ma ai corleonesi in realtà interessava soltanto rientrare in

possesso delle centinaia di miliardi che si erano volatilizzati e che lui poteva restituire soltanto se

riusciva a salvare la sua Banca privata. Non ci riuscì e questo segnò la sua fine: Sindona aveva

venduto l'anima al Diavolo e Dio se la riprese nel carcere di Voghera il 20 marzo del 1986. Due

giorni dopo la sentenza di condanna all'ergastolo per l'omicidio di Giorgio Ambrosoli, il curatore

fallimentare che si era opposto ai suoi fantomatici "piani di salvataggio", Sindona fu ucciso da una

tazzina di caffè al cianuro, come lui stesso aveva previsto. Omicidio o suicidio? Vedremo. Prima del

processo, quando era ancora a New York, in un'intervista aveva detto: Che qualcuno non mi voglia

far tornare in Italia, si capisce. C'è un articolo sul «Progresso italoamericano»,dove tra molte

sciocchezze, c'è scritta anche una cosa sensata: «Sarebbe un peccato se in Italia qualcuno gli fornisse

un caffè avvelenato: non potrebbe portare con sé i Filistei».

Il Bancarottiere di Dio La storia ufficiale di Michele Sindona comincia nel '54, quando a Milano il

commercialista di Patti incontra il futuro pontefice Paolo VI che era ancora monsignor Montini. Fu

lui a metterlo in contatto con la grande finanza vaticana. Il ruolo iniziale di Sindona fu quello di

spostare su banche estere ingenti somme dei conti correnti della Santa Sede, con enormi profitti, per

alleggerire quegli aggravi fiscali che lo Stato italiano cominciava a rivendicare. Un'operazione

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spregiudicata, ma ancora al limite della legalità, e fu lungo questa strada che il suo destino si

incrociò con quello del cardinale Paul Marcinkus, uomo di Chiesa ma convinto «che la Chiesa non

si regge con un'Ave Maria».

Sindona era un finanziere puro, ambizioso, determinato; non è mai stato uomo avido di soldi, non

ha mai esibito lussi e ricchezze, né mostrato i segni di una volgare corruzione. Per lui il denaro era

uno zero assoluto, un'astrazione matematica, che sapeva abilmente maneggiare, nascondere,

moltiplicare attraverso operazioni e passaggi comprensibili a pochissimi. Con la banca di Roma e

Marcinkus, che presiedeva l'Istituto Opere Religiose (Ior), fondò la Società Immobiliare, che segnò

la sua ascesa nel mondo finanziario.

Nel '43 aveva soltanto ventitré anni ed era un giovane laureato in legge. In attesa che finisse la

guerra aveva aperto uno studio da commercialista a Messina. Le cose gli andarono bene, si trasferì a

Milano, dove andava e veniva dagli Stati Uniti: l'asse Milano-New York fu il canale che gli consentì

un rapido arricchimento, tanto che sul finire degli anni Cinquanta fu in grado di acquistare una

quota della sua prima banca, la Banca Privata Finanziaria. All'inizio degli anni Sessanta l'ascesa di

Sindona sembrava inarrestabile: era il mago di funamboliche e geniali operazioni in Borsa. La sua

Banca Privata si associò ad altri istituti di credito europei, come la Finabankdi Ginevra, di cui il

Vaticano era uno dei titolari, la Bankhaus Wolff di Amburgo, la Herstatt di Colonia, la Amicor di

Zurigo, la Continental Illinois di Chicago, retta da Marcinkus, e lo IOR, detta anche Banca

Vaticana. Verranno poi la Franklin Bank e l'Ambrosiano.

Nel 73 la fortuna stava per voltargli le spalle, ma lui ancora non lo sapeva. L'anno precedente le sue

banche erano state oggetto di un'ispezione da parte della Banca d'Italia che aveva registrato alcune

irregolarità e trasmesso le relazioni alla magistratura nei mesi successivi. Per risanare il deficit aveva

chiesto un prestito alla Banca di Roma di cento milioni di dollari e lo aveva ottenuto attraverso la

consociata estera di Nassau. Sindona cercò di superare le prime difficoltà, dichiarando di aver

sventato una manovra speculativa di un consorzio internazionale di banche, e durante un

ricevimento Andreotti, allora presidente del Consiglio, lo ringraziò pubblicamente definendolo il

Salvatore della Lira. Il «Business Week» lo definì il finanziere italiano di maggior successo. Il

«Fortune» lo esaltò come uno dei più geniali uomini d'affari del mondo, il «Times» gli dedicò elogi.

Fu l'ambasciatore americano John Volpe (detto anche John Golpe) a consacrarlo «uomo dell'anno

1973».

È questa la storia ufficiale, pubblica, del Banchiere di Dio. Ma ce n'è un'altra occulta, tenebrosa,

sanguinaria che fece di lui un "genio del male", il Banchiere del Diavolo. Per conoscerla bisogna

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risalire agli anni della guerra, al '43, quando Michele era ancora un giovane

avvocato-commercialista,pallido e determinato, con il suo modesto studio a Messina. I tedeschi

stavano perdendo la guerra, gli americani si accingevano a liberare l'Italia iniziando con uno sbarco

in Sicilia. Per facilitare l'operazione, considerato che l'isola è terra di mafia, i servizi segreti

americani contattarono il gangster Lucky Luciano. Il suo vero nome era Salvatore Lucania, era stato

in carcere negli USA e qui il suo destino si era incrociato, per vie misteriose, con il giudice Dewey,

grande massone americano: fu lui a metterlo in contatto con le alte sfere della CIA che decisero di

spedirlo in Sicilia a contattare i vecchi boss rimasti in sonno per tutta la durata del fascismo. Con il

loro aiuto Lucania rapidamente fondò la Sezione Italia, di cui entrerà a far parte una rosa di

personaggi siciliani in modo che costituissero un riferimento per gli americani al momento dello

sbarco. Tra questi personaggi c'era il giovane Michele Sindona.

Pecorelli era a conoscenza di qualche retroscena, che pubblicò nel '75, quando la storia occulta di

Don Michele cominciava ad avere il sopravvento su quella ufficiale: Inventato finanziere da Lucky

Luciano, i due si conobbero in Sicilia nel '43 quando per conto dell'agente dell'OSS Luciano,

Sindona fece sparire diversi milioni di dollari che il servizio segreto americano aveva destinato alla

preparazione dello sbarco alleato. Nel meeting di Palermo (hotel Le Palme) del '52, lo nominò

amministratore di due miliardi di dollari che all'epoca i boss fecero riciclare per le loro operazioni

europee attraverso opportune banche svizzere.

Quei miliardi erano i soldi che spettavano alla mafia per l'aiuto dato agli alleati? Certamente furono

l'inizio della fortuna di Sindona, una fortuna che purtroppo era costretto a condividere con Cosa

Nostra. In ogni caso, lo sbarco alleato fu l'occasione giusta per stringere quelle amicizie che

resteranno negli anni a venire. Negli Stati Uniti i clienti del suo studio erano nomi importanti del

gotha mafioso: Gambino, Spatola, Daniel Porgo, Vito Genovese. Il Banchiere di Dio esportava i

capitali del Vaticano all'estero, il Banchiere del Diavolo legalizzava e accresceva i soldi della mafia

americana. E tutto passava all'interno della sua Banca Privata. Alla fine degli anni Sessanta

un'informativa dell'FBi lo segnalò come implicato nel traffico di stupefacenti tra Italia e USA. E

quel diavolo di Pecorelli pubblicò subito l'informativa inviata all'Interpol.

Ministero degli Interni Interpol 16 novembre 1967 prot123 516404 alla questura di Milano.

Oggetto: traffico allucinogeni tra Italia e Stati Uniti, Porgo Daniel e altri. La polizia statunitense

sta conducendo indagini su un traffico di droghe tra Italia e USA. Nel commercio sarebbero

implicati Porgo ed Ernest Gengarella, i cittadini italiani Sindona Michele nato a Patti [...].

Tra le tante scatole finanziarie inventate da Sindona, quella che tirava le fila dei finanziamenti

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"sotto copertura" a partiti e altri enti pubblici era la Franklin: due miliardi della CIA finirono nel 74

alla DC; undici milioni di dollari passarono dalla CIA al SID di Vito Miceli. Secondo la

Commissione d'Inchiesta del Senato degli Stati Uniti quei soldi dovevano servire a finanziare la

campagna elettorale di ventuno politici italiani che godevano della fiducia del governo americano.

Ma sono in molti a ritenere che siano stati utilizzati anche per il golpe Borghese. Risulta infatti che

la Finabank, negli anni Sessanta, abbia appoggiato la Helleniki Tekniki, una società che coprì il

golpe dei colonnelli greci.

Il Banchiere del Diavolo risultò anche iscritto alla P2. Massone da sempre, aderì alla Loggia che,

come sappiamo, si annidava nella libera muratoria di Palazzo Giustiniani, trampolino di lancio di

Gelli. Quali furono negli anni a venire i suoi rapporti con il Venerabile non è dato sapere

ufficialmente, ma vedremo come l'fbi considerasse la fuga in Sicilia del 79 di Michele Sindona, di

cui parleremo fra breve, un'operazione organizzata dal capo della P2.

In un'intervista periodicamente trasmessa in televisione, a chi gli chiese come e quando avesse

conosciuto Sindona, Gelli fece il riesci, come si dice in Toscana: «Mah! Non ricordo, sono passati

così tanti anni, sono passate migliaia di persone più importanti, come faccio a ricordare... Tuttavia

tengo a precisare che mi presentò Sindona una persona molto onorevole». Gelli parla così, per

allusioni strampalate, la mente rivolta altrove, sembra un distratto, un dissociato; poi, quando ci

ripensi, capisci perfettamente il messaggio. Nella stessa intervista affermò infatti: «Sindona era

uomo di grandi capacità intellettive, portato alla finanza, e secondo la mia valutazione sarebbe stato

un magnifico ministro delle Finanze o forse anche un buon governatore della Banca d'Italia».

Mancò poco che qualcosa del genere accadesse, almeno a sentire Pecorelli che, in quella nota che

precede la formazione del governo Andreotti nel 76, scrive che «il Super giulio per l'occasione

Superpadrino imbarcherà Michele l'Americano». Sindona era già nei guai: l'elezione in Parlamento

avrebbe potuto rilanciare le sue quotazioni, oltre che sottrarlo a un processo per bancarotta.

Don Michele in Sicilia Se il 1977 e il 1978 furono anni di incredibili violenze, scontri di piazza,

gambizzazioni, omicidi, bombe, attentati (culminati con il sequestro e l'uccisione di Aldo Moro), il

1979 è stato un anno di mirabili trame e omicidi "selettivi", in parte finalizzati a eliminare gli

scomodi testimoni degli anni precedenti. Un anno in cui si attutì l'eco del terrorismo e tornò

protagonista, con tutta la sua forza inquinante, la mafia. Era stata la mafia a uccidere a Roma

Pecorelli, il 20 marzo. Ma aveva già assassinato a Palermo il giornalista Mario Francese e il DC

Michele Reina; il 21 luglio fu la volta del capo della Mobile Boris Giuliano. Una settimana dopo

furono uccisi a distanza di poche ore a Milano Giorgio Ambrosoli, il curatore del fallimento del

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Banco Ambrosiano, e a Roma il colonnello Antonio Varisco, un carabiniere della rete Dalla Chiesa,

amico di Pecorelli: il delitto fu rivendicato dalle BR, ma, stranamente, a sparare era stato un fucile a

canne mozze. A ottobre torniamo a Palermo con l'omicidio di Cesare Terranova, giudice e

parlamentare comunista, assassinato con il suo collaboratore Lenin Mancuso. Questi omicidi fanno

parte, come vedremo più avanti, di una lunga teoria di omicidi politico-mafiosi.

Ma l'estate del '79 precede di poco l'inizio della guerra di mafia, della grande mattanza. Ed è in

questa fase che si colloca la fuga a Palermo del latitante Michele Sindona. La mattina del 3 agosto

1979, nel suo ufficio di New York, la segretaria riceve una telefonata in cui un sedicente "Comitato

proletario di eversione per una giustizia migliore" annuncia di aver rapito il finanziere. Quasi alla

stessa ora il "rapito", caricato su un auto da due ceffi, scompare dall'Hotel Pierre dove alloggiava

dopo essere tornato in libertà, grazie a una cauzione stratosferica: tre milioni di dollari. Il finto

rapimento riecheggiava le modalità del sequestro Moro, ma era soltanto una macabra messinscena.

Aiutato dal padrino italoamericano Rosario Spatola e da John Gambino, con in tasca un passaporto

falso intestato a tal Joseph Bonamico, Don Michele andò prima a Vienna, da lì volò ad Atene (forse

per salutare i suoi amici colonnelli), dove lo raggiunse Giacomo Vitale, il piduista amico e cognato

del boss Stefano Bontate, allora capo di Cosa Nostra. E finalmente approdò in Sicilia attorno a

ferragosto.

Sindona in un primo momento rimase nascosto in casa di un'amica, Francesca Paola Longo, dove

un altro massone, Joseph Miceli Crimi, molto amico di Licio Gelli lo andò più volte a trovare,

fungendo da contatto fra i due. Sarà Miceli Crimi, noto chirurgo estetico, a sparare quel colpo di

fucile alla gamba del "rapito" per avvalorare la tesi della prigionia. Ma qual era lo scopo di questo

viaggio? Sindona era uomo che teneva alla sua immagine ed è questa che tenta ancora di accreditare,

sia a Palermo per placare l'ira dei boss, sia di fronte al mondo intero dove fino all'ultimo si batterà

per salvare le sue banche e il suo onore. Due anni dopo, al giudice Gherardo Colombo, che aveva

trovato il suo nome nella lista scoperta a Villa Wanda, del suo viaggio in Sicilia tenne a dire: Ho

ricevuto lettere dall'ammiraglio Morris, rappresentante del Pentagono, che mi ringraziava anche a

nome dell'ammiraglio Turner, allora a capo della CIA, e a nome dell'ammiraglio Haig, allora capo

della NATO, per ciò che avevo fatto e avrei fatto non solo nell'interesse degli Stati Uniti ma di tutto

l'Occidente.

Per capire di cosa ringraziavano Sindona questi alti esponenti del governo USA, dobbiamo andare

indietro di qualche stagione. La calda estate del 79 aveva avuto una regia preparativa nel 76, quando

John Connally, ex ministro texano, aveva dato vita in Sicilia a un comitato anticomunista

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denominato "Per la difesa del Mediterraneo". Gli avvocati Giuseppe Zupo e Armando Sorrentino,

parte civile nel processo per l'omicidio di Pio La Torre, il deputato comunista ucciso a Palermo

nell'80, sostengono che Connally avrebbe ormeggiato la sua barca al largo di Ustica per incontrarsi

con alcuni massoni siciliani, tra cui anche Miceli Crimi. E fu proprio il chirurgo a fornire per primo

una patente politica alla fuga di Sindona, sostenendo che si trattava di una missione destinata a

concludersi con la separazione della Sicilia dall'Italia. Sindona, in un'intervista all'Unità», confermò

che il viaggio era legato a una non meglio precisata «campagna politica ed economica che talune

persone ritenevano che io dovessi fare in Italia in nome della privatizzazione e dell'anticomunismo».

E citò fra i suoi stimatori perfino Marcinkus e lo IOR, che nel fallimento della sua banca avevano

perduto almeno una sessantina di miliardi, ma forse, come dicono alcuni, duecento.

Don Michele non mentiva: la conferma viene dal fatto che nell'agosto '79 era stato deciso in ambito

atlantico di installare in Europa 572 missili a medio raggio, di cui 112 a Comiso, in Sicilia.

Un'iniziativa che aveva provocato una viva reazione da parte della sinistra: La Torre aveva guidato

una campagna di opposizione con l'appoggio dei movimenti ecologisti. Quando ci sono in ballo

grossi interessi mafiosi, ogni vicenda ha una lettura tridimensionale: c'è l'interesse personale, quello

delle "famiglie" e la "finalità superiore". Sindona si era "fatto rapire", come vedremo, per mandare

segnali e promuovere ricatti, ma aveva anche la necessità di rassicurare i suoi clienti siciliani dei forti

appoggi di cui continuava a godere oltreoceano e di cui in effetti almeno in certi ambienti

beneficiava. Ma le "famiglie" continuavano a premere per riavere i soldi. La promessa non poteva

essere che una grande operazione strategico-militare che ridava fiato ai boss rilanciando il loro ruolo

di «cane da guardia del Mediterraneo».

piano di salvataggio La fuga a Palermo fu l'ultimo atto di una lunga battaglia che Sindona aveva

portato avanti, a partire dal '74, per ottenere dalla Banca d'Italia un piano di salvataggio che gli

risparmiasse il crack: lui stesso ne aveva messo a punto uno, che puntava a coprire i buchi neri della

Banca Privata attraverso quei trucchi funambolici in cui era sempre stato maestro. Ma bisognava

che Enrico Cuccia, l'amministratore delegato di Mediobanca, desse il suo assenso: invece storse la

bocca e lo definì «un papocchietto». Un piano di salvataggio fu messo a punto anche dal ministro

delle Finanze Gaetano Stammati (p2), con l'approvazione di Andreotti. Franco Evangelisti, stretto

collaboratore del senatore, convocò il governatore della Banca d'Italia, Paolo Baffi, per

comunicargli che bisognava convincere il curatore del fallimento Ambrosoli ad accettare il piano.

Ma la risposta fu un'ispezione di Mario Sarcinelli, braccio destro di Baffi, cui seguì la bocciatura del

piano Stammati. Per Sindona fu l'inizio della fine; l'operazione salvataggio guidata dagli uomini del

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presidente del Consiglio era tallita. Racconterà Francesco Pazienza, il faccendiere del Supersismi

che più avanti conosceremo meglio, che la Superloggia di Montecarlo nel gennaio '79 convocò una

riunione straordinaria della 2 per decidere la punizione di Sarcinelli, che sarà arrestato il 24 marzo

(per interessi privati in atti d'ufficio e favoreggiamento personale, fatti insussistenti per i quali fu poi

prosciolto) e condotto a Regina Coeli su ordine di cattura del giudice istruttore Antonio Alibrandi.

Anche Gelli era molto interessato al salvataggio del Banchiere di Dio. Dopo il fallimento del piano

Stammati, a Sindona non restava che mettere in atto il Grande Ricatto. Lo aveva annunciato il 28

settembre 76, quando scrisse la sua prima lettera ad Andreotti: La mia difesa avrà, come può

immaginare, due punti di appoggio, quello giuridico e quello politico. Sarò costretto mio malgrado

a presentare i reali motivi per cui è stato emesso a mio carico un ingiusto mandato di cattura [...].

Farò cioè presente, con opportune documentazioni, che sono stato messo in questa situazione per

volontà di persone e gruppi politici a lei noti che mi hanno combattuto perché sapevano che

combattendo me avrebbero danneggiato altri gruppi cui avevo dato appoggio con tangibili e ufficiali

interventi. Ritengo che la chiusura di situazioni difficili e complesse, che coinvolgono enti e

istituzioni dello Stato, possa nell'interesse della collettività e del paese starle a cuore.

Il linguaggio è criptico, ma l'obiettivo chiarissimo. Ma neppure queste pressioni ottengono alcun

risultato: il bancarottiere si sentiva scaricato. 1 giudici di primo grado affermano invece che

Andreotti si era oltremodo mobilitato in suo favore, anche nella sua veste di presidente del

Consiglio, al di là dei compiti istituzionali. La sentenza d'appello, al contrario, riconosce che

l'interessamento di Andreotti non andò più in là della «benevola attenzione». Per quale motivo si

sarebbe dovuto esporre nella difesa di un uomo ormai latitante, colpito da mandato di cattura per

bancarotta fraudolenta, nei confronti del quale la magistratura italiana aveva avviato una procedura

di estradizione? Nella condanna dei giudici di Perugia, si da invece molto credito alla testimonianza

di Rodolfo Guzzi, legale di Sindona tra il '74 e l'80, e quindi a conoscenza di tutti i contatti tra il suo

cliente e l'entourage andreottiano di cui è stato egli stesso intermediario. Nel 76, raccontò Guzzi, ci

fu un incontro tra Andreotti e due emissari di Sindona, Paul Rao e Philip Guarino, che chiesero un

intervento del presidente del Consiglio presso il Dipartimento di Stato americano affinchè non

concedesse, o perlomeno ritardasse, l'estradizione di Sindona in Italia. Un incontro che non aveva

carattere pubblico, visto che Andreotti non ne informò la magistratura. L'avvocato Guzzi trovò

tracce di questo intervento nelle proprie agende, ma soprattutto affermò che l'argomento del

colloquio tra Andreotti, Rao e Guarino fu oggetto di conversazione quella stessa sera durante una

cena, svoltasi all'Hotel Parco dei Principi, cui era presente anche Licio Gelli, che assicurò il suo

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interessamento alla soluzione della vicenda «attraverso suoi canali traversi». Accuse che da sempre

scivolano su Andreotti senza lasciare traccia: «Se facessimo una statistica comparativa, potreste

accorgervi che mi sono incontrato con Giorgio La Pira, Carlo Gnocchi e Madre Teresa di Calcutta

un numero di volte assai superiore rispetto a Michele Sindona e Licio Gelli». Ma anche lui era

talvolta costretto a mescolare il Diavolo con l'acqua santa.

Il Grande Ricatto Fallito ogni tentativo di salvataggio, Sindona punta dunque all'avventura

siciliana. Prima la fuga da New York, poi il passaggio in Grecia; infine, a metà di agosto, Don

Michele approda a Catania e da lì, in compagnia della sua amica Longo e di Joseph Miceli Grimi, si

trasferisce a Palermo nella villa di Rosario Spatola, il boss italoamericano. L'illustre "rapito" da

inizio alle operazioni, non si sa se guidate da volontà sua o da quella dei suoi amici mafiosi. C'era

poco da scegliere: i corleonesi erano alle porte, ammazzavano di qua e di là, rivolevano i loro soldi, le

centinaia di miliardi inghiottiti dal crack della Banca Privata.

Don Michele sapeva di essere condannato a morte se non trovava rapidamente una via d'uscita. Nel

film di quei quaranta giorni lo vediamo muoversi freneticamente: ha numerosi incontri, anche fuori

Palermo, telefona, scrive lettere, manda sottili minacce in perfetto linguaggio mafioso ad ambienti

politici e finanziari. Ma le telefonate furono intercettate e Vincenzo Spatola, fratello di Rosario,

venne arrestato mentre si accingeva a cambiare un assegno da centomila dollari: il cerchio si

stringeva. Don Michele riuscì comunque a tornare a New York via Vienna, si chiuse in un albergo

per tre giorni, senza radersi e senza lavarsi, poi si fece trovare in una cabina di Manhattan e ai

soccorritori raccontò di essere stato rapito da un'organizzazione marxista-leninista.

L'operazione che doveva condurre in porto una serie multipla di ricatti, per salvare lui e

tranquillizzare i clienti siciliani, era fallita. Sindona mise a punto un terzo obiettivo: completare

quel dossier sui "clienti" della sua Banca, che da tempo stava curando, per portare a compimento il

Grande Ricatto. Interrogato, Joseph Miceli Grimi confermerà: «Lo ha detto lui stesso. Si trattava

del recupero di documenti che gli erano necessari per l'andamento delle cause in corso». Sembra che

a procacciargli le "carte" fosse stato proprio il suo amico boss Rosario Spatola; questo fa sospettare

che accanto ai personaggi di primissimo piano, che avevano utilizzato le sue banche per esportare

valuta o per aprire conti riservati, ce n'erano altri che avrebbero provocato non poco imbarazzo per

gli evidenti, inconfessabili intrecci. Sindona era già in possesso di una lista di cinquecentotrenta

clienti, implicati in operazioni di trasferimento all'estero di beni per un valore di novantasette

milioni di dollari. Dice ancora Miceli Crimi: «Forse quei documenti li recuperò solo in parte, a New

York era molto nervoso; l'ultima volta che ci siamo salutati, invece, l'ho visto più tranquillo: mi disse

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che aveva in mano carte che avrebbero risolto la situazione».

Il Banchiere di Dio, intervistato, assicurò in più occasioni: «La lista dei cinquecento non esiste». Il

Banchiere del Diavolo, fingendo di essere messo sotto torchio da ignoti terroristi, faceva invece

sapere dal suo "carcere" palermitano, attraverso lettere ad amici e parenti, di essere sul punto di

confessare. E, in una macabra e ricattatoria parodia del Memoriale Moro, forniva alla famiglia un

decalogo di notizie che i suoi "rapitori" volevano a tutti i costi sapere: la lista dei cinquecento («Ne

bastano dieci, tutti personaggi in vista della Finanza e della Politica»); i fondi neri della DC

(«vogliono che io indichi i nomi delle società estere controllate dalla DC»); i fondi PSI e PSDI; i

finanziamenti ai politici («sono state prelevate somme dalle mie banche»); operazioni irregolari

(«per conto di partiti politici e di clienti importanti»); falsi in bilancio («per ottenere finanziamenti

dalle mie banche, società quotate in borsa hanno depositato falsi bilanci»); speculazioni

(«operazioni bancarie per danneggiare i piccoli azionisti»); grandi società («devo rivelare operazioni

irregolari che ho gestito con costoro»); il segreto bancario («i miei rapitori vogliono sapere se è vero

che ho esonerato le banche estere da me controllate dal segreto bancario»).

Era questo il Grande Ricatto, o almeno una parte, dirà Giovanni Falcone al termine della sua

indagine sulla fuga in Sicilia del bancarottiere; fuga che si concluderà con un mandato di cattura

internazionale per associazione a delinquere.

È interessante la lettura che del capitolo Sindona da l'ultima sentenza di Palermo. La vicenda del

bancarottiere siciliano consente ai giudici di affrontare anche il capitolo dei rapporti tra Andreotti,

Gelli e la p2, che viene così riassunta: Il caso Sindona consente di individuare una cera sintonia tra

gli interventi di Andreotti e gli interessi della P2 che si sono manifestati attorno al salvataggio del

banchiere [...] ma non è tale da ipotizzare una subalternità di Andreotti alla volontà di Lido Gelli e

al desiderio da parte dei boss Bontate e Inzerillo di rientrare delle consistenti perdite economiche

che le famiglie mafiose avevano subito con il crack [...]. Certi erano i collegamenti del Gelli con

Sindona e presumibili anche quelli del Gelli con Andreotti, tanto che gli stessi PM ammettono che

nella vicenda si era verificata una libera e volontaria sinergia tra gli interventi di Andreotti e quelli di

vari esponenti della massoneria: alla stregua di ciò, non si vede come, nella congerie delle più o

meno plausibili congetture formulabili [...] possa tassativamente escludersi l'ipotesi che l'imputato

si fosse mosso anche perché indotto da sollecitazioni di ambienti massonici facenti capo a Gelli[...],

e non si vede come possa costituire una valida controindicazione il fatto che Andreotti, non certo

alieno dall'allacciare relazioni fin troppo disinvolte, con i più disparati ambienti, personalmente

non appartenesse alla massoneria.

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solito caffè al cianuro La storia dell'estradizione di Sindona è lunga cinque anni: fu chiesta il 24

febbraio f 975, venne concessa il 25 marzo 1980. In realtà gli americani temevano di non vederlo più

tornare e prima di concederla cercarono di chiudere il processo sul crack della Franklin Bank. I

giudici italiani nel 78 andarono a New York, portando con sé anche il maresciallo Silvio Novembre,

consulente di Giorgio Ambrosoli, che stabilì rapporti di familiarità con gli agenti dell'FBi. Uno di

questi gli disse: «Ma voi lo volete o non lo volete Sindona? Non pare che il governo italiano abbia le

vostre opinioni, abbiamo saputo di un intervento diretto, moderatore, del console generale d'Italia a

New York». Eppure Don Michele aveva da anni il dente avvelenato con Andreotti, che non era

riuscito a salvarlo, e durante il processo, in un'intervista televisiva a Jas Gawronsky che cercava di

sapere quali fossero le sue coperture politiche, rispose: «Lei vuol forse parlare di scoperture

politiche, non di coperture. Io non ho mai avuto nessuna copertura politica e questo lavorando in

Italia è stato un grave errore». Nell'immagine televisiva appariva teso, le labbra si sollevavano in uno

strano tic nervoso conferendogli un'espressione terribile, come quando aggiunse: «Se io avessi avuto

coperture politiche sarei a circolare per le vie di Roma liberamente, come fanno i petrolieri e i

cementieri».

L'ultima intervista a Sindona lo mostra dietro le sbarre: aveva appena letto un memoriale al

processo per l'omicidio di Giorgio Ambrosoli, diceva che era molto dispiaciuto, distrutto, ma si

dichiarava innocente. «Cosa farà se sarà condannato?», gli chiese il giornalista. Lui si voltò di scatto,

fece una di quelle smorfie che assomigliano più a un ghigno che a un sorriso: «Non verrò

condannato», rispose semplicemente. Invece Sindona fu condannato, il 18 marzo 1986, e per giunta

all'ergastolo. Quello che è accaduto nelle quarantott'ore successive resterà forse per sempre sepolto

con lui. Nel carcere di Vogherà, per tutta la durata del processo, le misure di sicurezza erano state al

massimo: il cibo veniva prelevato in cucina dal pentolone comune e sigillato. Così il thermos del

caffè. Quella mattina, il 20 marzo 1986, Don Michele agli agenti di custodia sembrò strano, agitato.

Quando gli portarono il caffè andò a prenderlo in bagno, non lo faceva mai. Dopo due minuti uscì

gridando: «Mi hanno avvelenato!». Morirà qualche giorno dopo stroncato da un grammo di cianuro

di sodio.

Nelle tre bustine di zucchero (delle cinque di cui disponeva Sindona) ritrovate ancora chiuse dopo

l'avvelenamento, non c'era traccia di cianuro (come non ce n'era nel thermos che conteneva il caffè).

Dobbiamo immaginare che l'ignoto assassino, inserendo il veleno in una sola bustina, abbia

sottoposto Sindona a una sorta di roulette russa, dall'incerto successo? Improbabile. Se invece è

stato suicidio, qualcuno gli ha fornito la dose ed è stato lui a scioglierla nel caffè. Per giunta era un

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caffè lungo, che ha bevuto fino in fondo: come ha fatto a non accorgersi del sapore acre e

amarognolo? Si è voluto uccidere fingendo di essere stato ucciso perché la sua uscita di scena fosse

ancor più sensazionale? Potrebbe essersi avvelenato, spontaneamente, ma non per questo è certo

che volesse davvero morire: è l'ultima ipotesi in ordine di tempo. Anche a New York aveva tentato il

suicidio due volte per ottenere il trasferimento. E forse ora voleva tornare proprio a New York. Del

resto era un detenuto "estradato in prestito"; gli americani avevano posto condizioni sulla sua

sicurezza. Ma qualcuno ha sbagliato la dose del veleno, o l'ha voluta sbagliare, non si sa. L'unica

cosa certa è che è morto "suicidato". Con una tazzina di caffè, proprio come Pisciotta.

«Riservatissimo...

Quando Sindona fuggì da New York a Palermo, Pecorelli era già morto da cinque mesi. Ma il

Grande Ricatto, come abbiamo visto, non era un'idea maturata in una notte di mezza estate. Don

Michele lo meditava da anni. Per uno di quei colpi di fortuna che questo mestiere talvolta riserva,

quando nel '93 tornai a San Macuto per rileggermi tutte le carte contenute negli scatoloni di Sica, e

ormai catalogate tra gli atti della Commissione IJ2, ho scovato nel Tomo XVII contenente gli

allegati alla Relazione, un appunto molto interessante che collega la frenetica attività del giornalista

nelle ultime settimane di vita anche alle vicende del crack Sindona. Tra i foglietti recuperati sulla

scrivania di Mino c'era questo breve messaggio battuto a macchina, naturalmente anonimo, che

diceva: Telefoni controllati. Silenzio totale per un paio di settimane. Per qualche novità in cassetta e

non di sera: è da ritenersi da non escludere di essere seguiti in tutti i movimenti, arriverà il seguito

per i 500. Nessuna urgenza per un eventuale seguito all'incontro di ieri sera. Escludere con tutti,

anche con l'amico di Arezzo: una partecipazione a esaltare la nota persona indebolisce la posizione

nell'eventuale discussione e crea notevoli e inutili difficoltà.

11 riferimento ai cinquecento non può che essere alla lista dei cinquecento, come è sempre stata

definita. Dal tono concitato trapela il pericolo che comportava il passaggio di mano del documento.

La persona che scrive potrebbe essere un emissario di Sindona o qualcuno che ha comunque

interesse a far avere a Pecorelli quest'ultimo pericolosissimo malloppo. Non dovrebbe trattarsi di

Gelli, però, visto che l'informatore gli dice di escludere l'amico di Arezzo. I telefoni sono

controllati, qualcuno ha captato il contatto? Chissà, ma l'Anonimo sostiene che è in attesa di un

seguito, quindi una parte dei documenti è già nelle mani di Mino.

A parte queste tracce, quel foglietto fotocopiato nel Tomo XVII è un rebus. Poco prima di essere

ucciso Mino scriveva su «OP»: Esistono le prove documentali che il presidente del Consiglio ha

percepito un miliardo da Michele Sindona. Che un altro miliardo è stato pagato a un ex segretario

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politico di un partito. Che ben quindici miliardi sono finiti nelle casse di un partito (lo stesso del

presidente del Consiglio e dell'ex segretario politico).

Il segretario politico potrebbe essere Amintore Fanfani, che difese il partito dall'accusa di

finanziamento illecito sostenendo che i due miliardi di Sindona erano un'elargizione in vista del

referendum sul divorzio. I finanziamenti di cui parla Mino sono gli stessi oggetto di un altro pesante

attacco di Moro nei confronti di Andreotti, contenuto nel Memoriale. Su cosa si basa Mino: sul

Memoriale o sulle carte che Sindona gli ha fatto avere? Il misterioso appunto del Tomo XVII ci fa

capire che Pecorelli ha in mano carte di Sindona; l'inchiesta di Perugia conferma che al momento

della morte era entrato in possesso anche del Memoriale. Non è escluso che puntasse a un colpo

"doppio" per la sua rivistina: se Sindona e Moro dicevano la stessa cosa...

Nel '93, Paolo Patrizi, il collaboratore di «OP» mi confermò: «Di sicuro Pecorelli attendeva con

ansia documenti importanti che avrebbero costituito uno scoop sulla vicenda del crack di Sindona».

Da chi avrebbe dovuto ricevere il materiale Patrizi non lo sa, ma tiene a precisare: «Noi ci

occupavamo da anni di Sindona con un'impostazione innocentista: posso immaginare che il

materiale atteso servisse a scagionare il banchiere, imputando le responsabilità ai suoi ex alleati».

Fatto sta che nell'estate '93, in quel vortice di segnali che seguirono l'apertura dell'indagine a carico

di Andreotti, dagli USA arrivò anche questo: «A uccidere il giornalista italiano fu Joseph Aricò, il

killer condannato per l'omicidio di Giorgio Ambrosoli». Era stata una telefonata anonima a

riportare a galla questo nome. Sì, proprio lui, il misterioso sicario che affrontò Ambrosoli quella

sera di luglio del 1979, sotto il portone della sua casa a Milano, gli si avvicinò impugnando la pistola

che aveva in tasca e gli chiese: «Mi scusi, il dottor Ambrosoli?». «Sono io». Aricò estrasse la pistola e

lo uccise. Scusi dottor Ambrosoli, io non c'entro niente, sono soltanto il killer! Un killer che tre mesi

dopo cercò di evadere scavalcando la finestra di un carcere americano superblindato.

La finestra era al nono piano.

Piazza delle Cinque Lune Giorgio Ambrosoli, il liquidatore che si oppose a tutti i piani di

salvataggio di Sindona, e Antonio Varisco, il comandante del Nucleo Traduzioni di piazzale

Clodio, amico intimo di Pecorelli, furono ammazzati a meno di ventiquattro ore di distanza l'uno

dall'altro: il primo a Milano, il 12 luglio 1979, l'altro a Roma, il 13 luglio. Del primo omicidio

sappiamo com'è andata: Sindona è stato condannato all'ergastolo ed è poi morto con una tazza di

caffè al cianuro nel carcere di Vogherà; anche Aricò, il presunto killer, è morto precipitando dal

nono piano. Del secondo omicidio non si sa granché: l'attentato fu rivendicato dalle Brigate Rosse,

ma aveva modalità strane. Sul luogo dell'agguato, il lungotevere alle spalle di piazza del Popolo

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dove ora svetta una bella stele in memoria del colonnello, furono lanciate bombe fumogene di tipo

Energa che servirono a coprire la fuga dei killer. Il brigatista Antonio Savasta, che pure era il capo

della colonna romana, fu molto evasivo sulle modalità dell'attentato. Ma non è tutto. Una settimana

dopo, il 21 luglio, fu assassinato a Palermo il capo della Mobile Boris Giuliano.

Tre delitti catalogati in modo diverso, ma che in realtà potevano avere un comune denominatore: il

Grande Ricatto. A indagare sull'omicidio Varisco, convinto per primo che avesse tutt'altra matrice,

fu il capitano della digos Antonio Straullo, che si occupava della destra eversiva. Prima di essere a

sua volta ammazzato, firmò tutti i rapporti investigativi su uno strano borsello trovato su un taxi e

consegnato al maggiore Antonio Cornacchia (p2) del reparto investigativo dei Carabinieri. Il

borsello fu "fatto trovare" il 13 aprile 1979, ed è forse il più esplicito tentativo di ricatto, da parte dei

servizi segreti e della Banda della Magliana, sui misteri che collegano il caso Moro all'omicidio

Pecorelli. L'uomo che aveva "dimenticato" il borsello sul taxi, come si scoprì in seguito alla sua

morte (non naturale), era Toni Chichiarelli, il falsario. Pittore di notevole abilità, in grado di

duplicare un De Chirico nel giro di poche ore, Chichiarelli era un personaggio a mezzo guado tra la

mala romana e i servizi segreti: fu lui, come vedremo, a fabbricare il falso comunicato BR sul Lago

della Duchessa ed era stato ancora lui a fabbricare le cinque schede ritrovate nel borsello, sulla

falsariga delle schede recuperate nel covo di via Montenevoso dove i brigatisti appuntavano

informazioni su possibili obiettivi.

Una di queste schede riguardava il giornalista ucciso appena tre settimane prima: «Pecorelli Mino

(da eliminare), agire necessariamente non oltre il 24 marzo, sarebbe problematico concedergli

tempo, non bisogna rivendicare l'azione anzi occorre depistare». La scheda concludeva così:

«Martedì 20 ore ventuno e quaranta giunta notizia operazione conclusa positivamente: recuperato

materiale purtroppo non completamente, sprovvisto dei paragrafi 162, 168, 174, 177». Questo

sibillino passaggio confermerebbe il fatto che la copia del Memoriale avuta da Pecorelli non era

integrale. C'era poi, oltre all'indirizzo di via Tacito e al numero di targa della macchina, un altro

messaggio oscuro: «Martedì 6 marzo 1979, causa intrattenimento prolungato presso l'alto ufficiale

dei Carabinieri piazza delle Cinque Lune, l'operazione è stata rinviata». Più sotto in basso, scritto a

mano, l'anonimo estensore aveva aggiunto: «Sereno Freato!». Non c'è bisogno di ricordare che

questo stretto collaboratore di Aldo Moro, pochi giorni prima, nell'aula del Parlamento aveva

lanciato quell'oscuro messaggio: «Indagate sull'omicidio Pecorelli e troverete i mandanti del delitto

Moro».

In piazza delle Cinque Lune c'era l'ufficio del colonnello Varisco. Quel pomeriggio del 6 marzo, in

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quella sede riservata, Pecorelli incontrò anche un pezzo grosso dei Carabinieri. Dalla Chiesa?

Vediamo: secondo la ricostruzione fatta dal maresciallo Incandela all'incirca un mese prima, tra la

fine di gennaio e i primi di febbraio, aveva mandato a Dalla Chiesa il plico imballato trovato nel

"fossetto" del carcere di Cuneo. Che contenesse un centinaio di pagine del Memoriale Moro era

implicito, perché questa era stata l'indicazione data da Pecorelli. Nell'incontro in Piazza delle

Cinque Lune, il generale e il giornalista si rivedevano per la prima volta dopo il viaggio a Cuneo. È

stato in quel momento che è avvenuto il passaggio di carte «sprovviste dei paragrafi 162, 168, 174,

177» di cui parla il falsario della Magliana? Paragrafi, questa l'ipotesi, che contenevano segreti

militari sullo Stay Behind, che Dalla Chiesa non avrebbe consegnato al giornalista. Forse in

quell'occasione fu preso soltanto un accordo, per questo motivo Pecorelli non fu ucciso la sera del 6

marzo e l'omicidio fu rinviato. Cosa sia accaduto, tuttavia, è davvero un mistero che nessuno dei

protagonisti potrà più raccontare.

Ma la catena di sangue è ancora più lunga. Il 21 luglio morì a Palermo Boris Giuliano. Un mese

prima si era incontrato con Ambrosoli: lo rivelò Giuseppe Melzi, legale dei piccoli azionisti delle

banche di Sindona. Ambrosoli stava ricostruendo i giri di denaro delle banche sindoniane, mentre il

commissario stava indagando sul percorso di certi denari mafiosi: «Tutti e due si sono trovati di

fronte al problema del riciclaggio di "denaro sporco" e ai circuiti finanziari nazionali e internazionali

di carattere occulto», scrive Massimo Teodori in P2: la controstoria.

Questa del borsello è una brutta storia di morti ammazzati e di sporchi ricatti. Il capitano Straullo fu

ucciso dai NAR, l'organizzazione di Giusva Fioravanti, il 21 ottobre 1981. Prima di morire confidò

a un amico che «ne sapeva abbastanza da far saltare il Palazzo». L'uccisione del colonnello Varisco

apre una misteriosa catena di sangue, apparentemente legata a persone che in qualche modo

potevano conoscere i segreti legati all'uccisione di Pecorelli. Dopo la morte di Mino, il colonnello si

era dimesso dall'Arma e nel momento in cui fu ucciso stava per andare a lavorare alla Farmitalia con

Ugo Niutta, grand commis di Stato, ex collaboratore di Enrico Mattei, amico del deputato DC Toni

Bisaglia a sua volta amico di Pecorelli.

Lo scenario si sposta al 1984, un anno particolarissimo, quello che termina con Cosa Nostra

all'attacco e con la strage sul treno del 23 dicembre. Nell'84 Niutta si uccise a Londra; pochi mesi

prima Bisaglia era misteriosamente caduto da una barca. Una morte strana, resa ancora più oscura

da quella, avvenuta anni dopo, del fratello sacerdote che, minacciate grandi rivelazioni, fu

inghiottito dalle acque di un fiume. Nell'84 morì in un agguato anche Toni Chichiarelli, l'uomo del

borsello. Fu allora che Franca Mangiavacca si disse convinta che era stato lui a pedinare Mino, nei

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pressi della redazione di «OP», qualche giorno prima del delitto.

Parte seconda Il delitto Moro

Via Fani Nella primavera del 78, dal 16 marzo al 9 maggio, per cinquantacinque lunghissimi giorni,

il presidente della DC Aldo Moro rimase in ostaggio delle Brigate Rosse. Un periodo terribile per

l'Italia, scandito dai lugubri comunicati dei terroristi, nei quali si rendevano pubblici i risultati

dell'interrogatorio cui il prigioniero veniva sottoposto in un ignoto Carcere del Popolo. La

mirabolante scenografia del sequestro tendeva ad accreditare agli occhi dell'opinione pubblica la

crescita politico-militare di un'invincibile organizzazione terrorista, le Brigate Rosse, in grado di

tenere in scacco il paese in nome di ideali comunisti, cui si opponeva l'inefficienza e la scarsa

preparazione degli apparati di sicurezza dello Stato. Contro ogni previsione Moro, nonostante

l'indiscussa capacità dialettica che gli consentiva di avere facile ragione sui brigatisti, non si limitò a

fornire risposte difensive, ma collaborò pienamente con le BR, dando soddisfazione anche alle

domande più stringenti sui retroscena di scandali e stragi, fino a rivelare segreti di Stato e militari,

tra cui l'esistenza della misteriosa e potentissima Gladio. Nel momento in cui lo rapirono, Moro

stava per coronare la sua formula politica, il "compromesso storico", con il varo del primo governo di

unità nazionale che avrebbe dovuto insediarsi due ore dopo la strage di via Fani. Un progetto che

andava fermato in nome degli equilibri mondiali. Ma nessuno aveva messo in conto che Moro

avrebbe parlato, mettendo a rischio un'operazione al cui buon esito erano per motivi diversi

interessate le grandi potenze.

Nel suo eremo sconosciuto, Aldo Moro sospettava di essere stato abbandonato dalla DC e che alla

liberazione si opponesse soprattutto Andreotti,da sempre suo antagonista nel partito. Questo lo

stato d'animo del Prigioniero, soprattutto da quando il governo presieduto proprio da Andreotti si

era schierato per la "linea della fermezza", chiudendo ogni possibilità di dialogo con chi lo aveva in

pugno: essendo stata esclusa la possibilità di una "trattativa" fondata sullo scambio di prigionieri,

non gli restava che contrattare la sua salvezza personale scendendo a patti con le BR. Del resto

Moro era un sostenitore della linea umanitaria che lui stesso aveva adottato con successo quando,

presidente del Consiglio, aveva patteggiato la liberazione di un gruppo di feddayn in cambio della

salvaguardia del territorio italiano da altri attentati sanguinari.

L'unica moneta di scambio era la piena collaborazione con le BR. Ma le sue rivelazioni erano

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destinate a scatenare una guerra di intelligence senza esclusione di colpi tra CIA, Mossad e KGB,

ugualmente impegnati per motivi diversi nella caccia al Memoriale e a quei documenti

"riservatissimi" che la famiglia Moro, secondo una credibile ipotesi, avrebbe fatto recapitare alle BR

forse attraverso un prete amico. Nella motivazione della sentenza di Perugia, i giudici affermano

che Andreotti era personalmente interessato a evitare la divulgazione di quelle carte per le pesanti

accuse che Moro gli aveva rivolto e che avrebbero distrutto la sua carriera politica. L'intreccio

Pecorelli-Dalla Chiesa rivelato da Buscetta, secondo i giudici, ha trovato pieno riscontro nelle

indagini che forniscono la prova che il generale e il giornalista erano effettivamente entrati in

possesso, grazie al maresciallo Incandela, di quel documento esplosivo che il direttore di «OP» si

accingeva a pubblicare la sera in cui è stato ucciso: anche se non si è riuscito a scoprire quali parti o

quale versione del Memoriale fosse arrivata nelle sue mani. Dopo l'omicidio del giornalista sarebbe

finito in mani ignote, perché qualcuno proprio alla stessa ora del delitto si era presentato in

tipografia e aveva prelevato l'incartamento ancora sigillato. È questo il vero "movente"

dell'assassinio Pecorelli, afferma la sentenza: lo dimostra il fatto che anche Dalla Chiesa tre anni

dopo sarà ucciso. Delitti compiuti dalla mafia in nome di interessi politici.

sequestro e l'eccidio Il 16 marzo 1978 Aldo Moro si era alzato presto, come ogni mattina. Prima

delle otto era già a messa, nella chiesa di Santa Chiara, in via di Forte Trionfale. Era un giorno

importante, il 16 marzo: il presidente della DC era atteso a Montecitorio per il dibattito sulla

fiducia della nuova maggioranza. Nel giro di poche ore sarebbe stato varato il governo Andreotti e

per la prima volta il partito comunista si sarebbe astenuto dal voto contrario. Il primo compromesso

era stato coinvolgere Giulio nell'operazione. Era soddisfatto, il presidente della DC: la sua linea alla

fine era prevalsa, l'accordo tra comunisti e cattolici cui aveva tanto lavorato, combattuto e sofferto,

per vincere anche le resistenze interne al partito, era realtà. Nella Chiesa affollata, dopo la

benedizione qualcuno lo vede alzarsi, sussurrare poche parole all'orecchio della moglie: l'ultimo,

inconsapevole commiato. Il maresciallo Leonardi gli si avvicina, poi si gira verso l'uscita, il

Presidente lo segue. All'esterno sul sagrato ad attenderlo c'è la folla che, come sempre, gli si stringe

attorno con affetto e deferenza. Qualcuno apre la portiera dell'auto e lui sale; fa un gesto di saluto

con la mano. E l'ultima volta che lo statista viene visto vivo: il suo corpo martoriato'ricomparirà

cinquantacinque giorni dopo, all'interno del bagagliaio di una Renault 4 rossa, in via Caetani.

Dei misteri legati alla prigionia del presidente DC si è molto scritto e congetturato: dell'agguato, dei

brigatisti, delle vie di fuga, dei covi e delle prigioni, dei garage e delle tipografie, delle bobine

scomparse, dei comunicati e dei verbali, del Quarto Uomo e del Grande Vecchio. Ma i venticinque

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anni trascorsi dal più grave attentato della storia della Repubblica, che molti ritengono paragonabile

soltanto all'assassinio di John Eitzgerald Kennedy,non sono stati ancora sufficienti a capire chi lo ha

ucciso e neppure a ricostruire credibilmente in che modo siano andati i fatti.

Il primo dei misteri ha come cornice proprio la chiesa di Santa Chiara. Noi sappiamo che quella

mattina Moro è salito sul sedile posteriore dell'auto di scorta guidata dal maresciallo Leonardi, ma

non sappiamo perché quell'auto si sia diretta in via Fani, che era soltanto uno dei tre percorsi

alternativi abitualmente scelti. Neppure è comprensibile come Moro sia potuto uscire indenne dal

fuoco incrociato dei brigatisti, che lo attendevano dietro le piante del bar all'angolo tra via Fani e via

Stresa, se si pensa che circa alle nove e dieci di quel 16 marzo 1978 a sparare, almeno ufficialmente,

sarebbero stati terroristi che si erano addestrati "nel cortile di casa". Com'è potuto sopravvivere

Moro alle pallottole sparate a destra dai terroristi in divisa da aviatore e a sinistra dai due misteriosi

killer giunti a bordo di una moto? Non è ancora certo neppure il numero di quanti abbiano sparato:

nove, poi undici, infine dodici secondo i brigatisti, non meno di quattordici secondo i periti. E come

ha fatto a non essere colpito da neppure uno dei quarantanove proiettili della mitraglietta Scorpion,

con cui un misterioso tiratore, mai finora individuato, avrebbe sparato, centrando come birilli tutti e

cinque gli uomini di scorta? «Uno che spara in quel modo è un tiratore scelto di altissimo livello; in

Europa si contano sulle dita di una mano», ha commentato l'ex capo di Gladio, il generale Gerardo

Serravalle.Dietro quella che fu definita "la geometrica potenza" dispiegata in via Fani dalle Brigate

Rosse, c'erano dunque killer professionisti.

Il fatto che Moro sia potuto uscire incolume da quel volume di fuoco è talmente incomprensibile

che a un certo punto è circolata la seguente fantastoria:un paio di agenti in borghese si presentano

alla chiesa di Santa Chiara, comunicano al maresciallo Leonardi che c'è stato un allarme, dicono che

per motivi di sicurezza sarebbe meglio che il Presidente raggiungesse la Camera in modo anonimo,

per non dare nell'occhio. Gli uomini di scorta lo avrebbero raggiunto passando per via Fani.

Secondo questa teoria, dunque, Moro non sarebbe stato prelevato in via Fani. Obiezione: Leonardi,

che sceglieva personalmente di volta in volta i tragitti, comunicandoli ai colleghi soltanto all'ultimo

minuto, non avrebbe mai rinunciato alla protezione di Moro, se non avesse avuto assoluta garanzia

delle persone cui affidava il Presidente. Dunque, secondo questo sibillino suggeritore, doveva

trattarsi di un ordine superiore, inconfutabile, accompagnato da un secondo ordine: quello che la

scorta passasse in via Fani, dove sarebbe stata sterminata, com'era nei piani, per eliminare testimoni

scomodi.

Fine della fiction che anni fa ha avuto il pregio di insinuare il dubbio sulla ricostruzione giudiziaria,

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fatta sulla base delle affermazioni assai lacunose di alcuni brigatisti come Valerio Morucci e Mario

Moretti. Una delle più recenti novità investigative riguarda le auto: secondo i brigatisti presenti sul

luogo della strage, la 132 dove si trovava Moro sarebbe stata violentemente tamponata dalla 128,

dove si trovavano gli altri tre agenti di scorta, nel momento in cui l'incrocio tra via Fani e via Stresa

veniva bloccato dalla 126 alla cui guida c'era Mario Moretti. Uno degli scoop del film di Renzo

Martinelli,Piazza delle Cinque Lune, in cui si ripropongono i misteri del caso Moro, consiste in un

buon numero di foto d'epoca scattate quella mattina in via Fani, dalle quali si evince che non c'è

stato alcun tamponamento: le due auto erano distanti l'una dall'altra almeno settanta centimetri ed

erano integre. Cosa significa questo? Che gli agenti non erano frastornati dall'incidente, e non si

spiega perciò l'assoluta assenza di reazione nel lasso di quei venti-trenta secondi passati da quando il

superkiller dei quarantanove colpi è sceso dalla 126 a quando ha cominciato a sparare. L'unica

spiegazione è quella data dalla vedova Leonardi: «Hanno visto qualcuno che conoscevano, per

questo non è scattato l'allarme». Altra domanda: perché i brigatisti indossavano divise da aviere, che

avrebbero potuto renderli più facilmente riconoscibili al momento della fuga? Forse per essere

identificati ed evitare che qualcuno, che non avevano mai visto, sparasse contro di loro. Dunque -

situazione paradossale - gli uomini della scorta di Moro conoscevano i killer e i brigatisti no.

Ultimo mistero: il furgoncino con le ruote tagliate. Qualcuno sapeva con certezza già la sera prima

quale sarebbe stato il percorso e in una strada periferica aveva tagliato le gomme del furgone che

ogni mattina si recava in via Fani per consegnare le piante al fioraio, parcheggiandosi proprio

all'incrocio tra via Fani e via Stresa. L'attentato era stato dunque curato nei minimi dettagli.

Generali e boss sul luogo della strage La prova di chi si trovasse quella mattina in via Fani in realtà

c'era, grazie alle foto scattate da un tecnico con l'hobby della fotografia, che era riuscito a riprendere

l'intera scena dall'alto e aveva consegnato il rullino al PM Infelisi. Ma il rullino nelle ore successive

scomparve a causa del caos di quelle ore: così almeno è stato detto. Eppure, dall'intercettazione di

una telefonata tra l'onorevole Benito Cazora e un suo amico calabrese, risulta che in realtà queste

foto, sottratte al processo, qualcuno le aveva viste: «Sembra che sia riconoscibile uno di laggiù», dice

Cazora al suo interlocutore. Un calabrese, uno della 'ndrangheta, come vedremo, in effetti c'era, o

forse più di uno, anche se poi, naturalmente, questo fatto è stato smentito. Ad avvalorare la

fantastoria che abbiamo prima raccontato c'era un particolare: se Moro fosse stato in via Fani,

avrebbe assistito al massacro, avrebbe saputo che i suoi agenti erano tutti morti. Possibile che nelle

centinaia di pagine, di lettere, di appunti scritti di suo pugno nel covo delle BR non ci sia neppure

una parola di pietà nei confronti di chi aveva sacrificato la vita per difenderlo e del maresciallo

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Leonardi, in particolare, cui era legato da un grande affetto? Chi lo conosceva lo ritiene

impensabile, eppure così è stato.

Quella mattina in via Fani, oltre alle Brigate Rosse, in verità c'era anche un sacco di gente che non

avrebbe dovuto esserci. Il personaggio che aveva allertato la preoccupazione dell'on. Cazora sarebbe

il boss della 'ndrangheta Antonio Nirta. Molti anni dopo, un pentito calabrese, Saverio Morabito,

raccontò che Nirta non si trovava lì per conto delle Brigate Rosse, ma su richiesta del generale dei

Carabinieri Francesco Delfino. Un generale, famoso e sui generis, la cui carriera si è protratta tra

luci e ombre per circa trent'anni: nel '92 assurgerà agli onori delle cronache per aver arrestato

Balduccio Di Maggio, il pentito che ha poi accusato Andreotti del "bacio" con Totò Riina. Il suo

prestigio s'inceppò nella poco nobile vicenda di quel miliardo incassato dai familiari

dell'imprenditore rapito Giuseppe Soffiantini, per intavolare una trattativa con i banditi sardi. In

quell'occasione, messo di fronte all'accusa di Morabito, Delfino andò su tutte le furie, ma invece di

smentire rimbalzò l'accusa: «C'è senz'altro un errore, non ero io quello che aveva infiltrati nelle

Brigate Rosse».

Tra i tanti che quella mattina si trovarono a passare per caso in via Fani c'era anche il colonnello

Camillo Guglielmi, uno stretto collaboratore del generale Pietro Musumeci, numero due del

SISMI, anzi del Supersismi. Nel film caso Moro del regista Giovanni Ferrara, a Guglielmi viene

attribuito il ruolo dell'ufficiale che, avvicinatosi a una delle auto di scorta, avrebbe aperto il

portabagagli e prelevato a colpo sicuro un paio di borse dello statista. Non sappiamo come siano

andate in realtà le cose, se non che per molto tempo il colonnello si giustificò asserendo che si

trovava in via Fani perché lo aveva invitato a pranzo un collega che abitava in via Stresa. Erano le

nove del mattino: diciamo che si era mosso per tempo. Ma qualche anno dopo un ex para, Pierluigi

Ravasio, appartenente all'ordine dei Templari, si presentò spontaneamente alla Commissione

Stragi e tra altre cose interessanti parlò di Guglielmi: «Il colonnello quella mattina si catapultò in

via Fani dopo aver ricevuto una telefonata di Musumeci: "Vai subito lì, un informatore mi ha detto

che succederà qualcosa di grosso, forse rapiscono Moro"». Guglielmi (secondo alcuni, morto anni fa

di crepacuore per i sospetti suscitati dalla sua presenza in via Fani, secondo altri riparato all'estero

per evitare l'interrogatorio in aula) avrebbe confidato a Ravasio di essere arrivato a cose fatte e di

essere rimasto sconvolto: «Ero lì, c'erano tutti quei corpi a terra, e non ho potuto fare niente». Il

generale Musumeci, sempre secondo Ravasio, aveva saputo di quanto stava per accadere da tal

Francesco, un brigatista pentito. Tenete a mente questo nome, Francesco, avremo modo di tornare

a parlarne.

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A quanto sembra Nirta non era l'unico boss presente sul posto. Ci sono testimoni che riconobbero

dalle foto segnaletiche Giustino De Vuono, anche lui calabrese, anche lui legato alla 'ndrangheta.

Pecorelli, in uno dei suoi ultimi scritti, l'ormai famoso "Vergogna buffoni", lo definisce il

"legionario De". E in effetti De Vuono, prima di politicizzarsi in carcere (dove si avvicinò alle br),

aveva trascorso un certo periodo nella Legione straniera. I testimoni credettero di ravvisarlo nelle

sembianze di uno spazzino che un paio di giorni prima avevano visto all'angolo di via Stresa in un

orario insolito, forse durante un sopralluogo degli attentatori prima dell'agguato. Secondo una delle

veline allegate dalla Procura di Brescia alla relazione sul Noto Servizio era presente in via Fani

anche una persona legata alla struttura meridionale dell'Anello. Qualcuno legato alla 'ndrangheta?

Il nome di De Vuono comparve sul tabellone con cui quella sera, a meno di dodici ore dall'attentato,

furono diramati, nei TG delle venti, nomi e foto di sedici terroristi super-ricercati. Tra questi c'era

anche Innocente Salvoni, un brigatista sposato con una francese: Franc, oise Tuscher, ex militante

del Collettivo Politico di Milano, che a Parigi lavorava come direttrice dell'Hyperion, una scuola il

cui nome ricorrerà spesso nelle indagini sulle BR. L'Hyperion, aveva aperto a Roma una succursale

in via Nicotera, rimasta in funzione meno di quattro mesi, da marzo a giugno 78, quando a "cose

fatte" chiuse i battenti; un'altra succursale, nello stesso periodo, fu aperta a Milano. Magistrati e

commissioni d'inchiesta parlamentari ritennero che dietro questa scuola si celasse una centrale di

controspionaggio in ottime relazioni con l'Eliseo. Qualcuno sostiene ancora che si trattasse di

un'agenzia della CIA. La Tuscher era comunque nipote dell'Abbé Pierre, un eminente religioso

candidato al Nobel nell'89, molto amico dell'ex presidente francese Giscard d'Estaing, che

certamente godeva di ottime relazioni internazionali. Del resto in un'informativa del 75, il generale

GianadelioMaletti, il capo dell'ufficio D del SID, aveva previsto che le BR avrebbero presto subito

un'evoluzione, entrando in contatto con personaggi di livello superiore, ambienti internazionali,

anche se ciò avrebbe comportato un mutamento della loro matrice politica. Proprio nel 2003, la

Procura di Roma ha riaperto l'inchiesta sulla presenza di Salvoni in via Fani: è il primo segnale,

dopo venticinque anni, dell'intenzione di riaffrontare uno dei nodi più oscuri, per la "polivalenza del

personaggio", della vicenda Moro.

Per una di quelle misteriose e circolari coincidenze, ricorrenti nelle inchieste sul terrorismo rosso,

Giustino De Vuono fu in seguito indagato per un contributo di venti milioni che il parente di un

rapito della 'ndrangheta, la stessa cosca del malavitoso brigatista, versò all'Hyperion. Forse

l'assegno doveva sostenere la sua latitanza all'estero dove, secondo il SISMI, il Legionario sarebbe

riparato dopo essere evaso dal carcere. Un'evasione sospetta, avvenuta pochi giorni prima della

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strage di via Fani. L'informativa dei servizi salvò De Vuono dall'accusa di partecipazione alla strage.

Ma a lungo si sospettò che fosse proprio lui il superkiller con il giubbetto azzurro di cui parlava

Pecorelli nel suo articolo.

Ma c'è un'altra fantastica storia, già in queste prime ore. Nel corso del primo notiziario della

mattina, attorno alle otto, Radio Città Futura, per bocca del direttore dell'emittente radiofonica

legata all'estrema sinistra, Renzo Rossellini,lanciò l'ipotesi che in concomitanza con il varo del

governo DC-PCI, potesse accadere a Roma qualcosa di terribile. Mancava meno di un'ora alla

strage che avrebbe cambiato la storia d'Italia, quando Rossellini annunciò: «Potrebbero addirittura

rapire o uccidere Aldo Moro». Nel pomeriggio il figlio del famoso regista s'incontrò in via del

Corso, nella sede del PSI, con Craxi e De Michelis, che lo avevano convocato per saperne di più.

Non sappiamo cosa disse loro, ma più volte interrogato negli anni a venire diede informazioni molto

vaghe sull'origine della notizia: disse che la voce circolava negli ambienti dell'autonomia operaia e

che la radio l'aveva raccolta.

11 tabellone sui superlatitanti fu compilato anche grazie al contributo del comandante del Nucleo

Traduzioni del Tribunale di Roma, Antonio Varisco, che ormai conosciamo. Nelle ore

immediatamente successive alla strage il colonnello segnalò anche una misteriosa Renault 4 rossa,

avvistata in circostanze sospette nella zona di Monte Mario. E sarà proprio una Renault 4 rossa la

macchina ritrovata il 9 maggio in via Caetani con il corpo di Aldo Moro nel bagagliaio.

Coincidenze, semplici coincidenze. Ma dietro Varisco, c'era la mente investigativa di Dalla Chiesa

(di cui il colonnello era uno stretto collaboratore), anche se il generale era relegato in quei mesi alla

Securpena (il servizio di sicurezza delle carceri) ed escluso con i suoi duecento uomini dall'inchiesta

su via Fani. Ma Dalla Chiesa scalpitava nell'ombra e con buoni risultati, a giudicare dalle

importanti indicazioni che il suo staff era stato in grado di fornire a meno di ventiquattro ore dalla

strage. Tra i sedici segnalati, oltre a De Vuono, c'erano anche i nomi di Adriana Faranda, Valerio

Morucci, Mario Moretti, Lauro Azzolini, Prospero Gallinari, Franco Bonisoli. Sette degli undici

brigatisti, questo per ora il numero ufficiale, che quella mattina erano sul luogo della strage.

Ma il vero commando non poteva essere composto da così pochi terroristi: le persone presenti in via

Fani dovevano essere almeno una ventina e molte di più quelle coinvolte nelle varie fasi

dell'operazione. «Quando rapimmo il giudice Sossi, un agguato di gran lunga meno impegnativo,

eravamo in dodici», mi confidò Alberto Franceschini. E la moglie di Moro, Noretta Chiavarelli,

raccontò in aula durante il primo processo: Quando arrivai in via Fani chiesi cosa fosse successo. E

loro mi dissero che lo avevano rapito le Brigate Rosse. Io chiesi: come fate a saperlo? Risposero che

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era evidente. Il giorno prima, in via Savoia, quando furono trovate tracce di effrazione nello studio

di mio marito, potevano essere stati solo i ladri, in via Fani solo i brigatisti. Io invece pensavo che

poteva essere accaduto di tutto.

«Suo marito aveva mai ricevuto minacce?», chiese il presidente Santia-pichi. «Nei mesi precedenti

erano arrivate delle lettere minatorie...». «Erano volantini delle BR, pensavate che fossero loro?».

«No, mio marito riteneva che fosse qualche amico che voleva metterci sull'avviso».

Ma la signora Moro alla Commissione d'Inchiesta parlò di un altro tipo di minacce: riferì di

pressioni avvenute durante il viaggio che il marito aveva compiuto negli USA nel settembre 74.

Dopo un burrascoso colloquio con Kissinger, durante il quale il segretario di Stato americano lo

aveva sconsigliato dal proseguire nell'ipotesi di un'alleanza con il PCI e nella sua politica filoaraba,

un anonimo ufficiale dei servizi segreti lo aveva avvicinato, traducendo in modo esplicito il consiglio

di Kissinger: «Stia attento, lei potrebbe pagarla cara». Il giorno seguente, nella chiesa di St Patrick,

Moro ebbe un malore, in seguito al quale decise di tornare immediatamente in Italia. Al suo medico

personale confidò il motivo del suo stato di agitazione, e questi riferirà: «Temeva di non poter

riabbracciare i suoi». Il fratello Alfredo Carlo Moro, nel suo libro Storia di un delitto annunciato,

afferma che quando nel Memoriale, in modo del tutto incidentale e scollegato da quanto stava

affermando, Aldo inviò i suoi saluti al medico curante, in realtà aveva voluto mandare un messaggio

su quella che era la vera matrice del sequestro BR, alludendo all'episodio del suo viaggio negli USA.

Ma ci sono altri punti oscuri. Le vie di fuga ad esempio: sul luogo dell'agguato erano comparse

soltanto due macchine. Una, la 132 targata Roma P79560, secondo la segnalazione di una pattuglia

della Polizia, fu abbandonata poco dopo in via Licinio Calvo, dove sarà ritrovata soltanto un paio di

giorni dopo. Come sono fuggiti tutti gli altri? A sentire Morucci, Gallinari sarebbe andato via

addirittura in autobus.

Non vogliamo dilungarci oltre su dettagli ormai noti, oppure destinati a non trovare chiarezza. Al

termine della cronaca di questa prima giornata accenniamo soltanto all'esistenza di quel garage di

cui si è a lungo parlato, un segreto che come vedremo Pecorelli era in procinto di svelare poche ore

prima dell'uccisione. Torniamo in via Licinio Calvo. A meno di cento metri, in via Massimi 91, c'è

un'autorimessa chiusa al pubblico, il cui accesso era controllato da particolari dispositivi di

sicurezza. Ebbene, molti elementi e molti anni di indagini hanno portato a pensare che le BR

possano aver utilizzato questo garage nei giorni immediatamente precedenti o successivi alla strage.

La 132, ad esempio, è comparsa (o ricomparsa) soltanto due giorni dopo in via Licinio Calvo, nel

luogo dov'era stata vista dagli agenti di una volante mentre veniva parcheggiata da due giovani e una

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ragazza. Un testimone attendibile, un ufficiale dell'esercito in pensione, abituato a lasciare la

propria vettura in quel tratto di strada, affermò che l'auto non era lì due ore prima del ritrovamento.

C'è stata riportata da qualcuno? Qualcuno sapeva del garage e non l'ha detto? Perché? Un motivo

c'è: l'autorimessa dei misteri veniva usata da alti funzionari del Vaticano e apparterrebbe allo IOR.

Un'altra premonizione di Mino cui il tempo ha reso giustizia. A proposito delle uniformi da pilota

che i brigatisti indossavano, Pecorelli osservava sarcasticamente: «Non saranno andati in elicottero

a deporre Moro?». L'idea dell'elicottero sembrava solleticarlo: in un altro articolo (28 marzo 1978) si

chiedeva: «Su quale mezzo è stato trasportato il presidente della DC? Escluso l'elicottero, su

qualsiasi altro velivolo». Fra i testimoni c'è un medico che afferma di aver sentito il rumore di un

elicottero sopra via Fani tra le nove e dieci e le nove e venti. In realtà gli elicotteri della Polizia

partirono dopo le nove e trenta. Una strana coincidenza.

La fine di Yalta Molti ritengono che l'uccisione di Aldo Moro abbia chiuso una fase politica, durata

circa trent'anni, mettendo fine alla certezza dell'"immortalità della DC". Il suo presidente era stato

ucciso dalle Brigate Rosse, al termine di un macabro processo al sistema democristiano, e quel

delitto portava il segno di una forte ingerenza nel nostro sistema politico da parte di oscuri poteri.

Nel 78 lo statista DC, poco amato dall'America di Kissinger, come lui stesso scrive nel Memoriale,

aveva commesso un paio di errori che avevano forse decretato la sua condanna a morte: era stato

protagonista di una politica filoaraba, ieri come oggi non gradita al Dipartimento di Stato, e in

violazione dei patti di Yalta aveva aperto la coalizione ai comunisti per realizzare, come spiega egli

stesso dalla sua prigionia, un patto programmatico di governo, ovvero quella democrazia compiuta

cui l'Italia, «paese a sovranità limitata», non aveva diritto di aspirare.

In una delle ultime lettere inviate dal Carcere del Popolo rivolgendosi a Berlinguer, che sperava di

far recedere dalla linea della fermezza, Moro mostrava di esserne consapevole: Pensi che per poco lei

rischiava di inaugurare la nuova fase politica lasciando andare a morte ]o stratega dell'attenzione al

partito comunista Rita Di Giova :a uno (con anni di anticipo) e il realizzatore unico di un'intesa

tra democristiani e comunisti che si suole chiamare una maggioranza parlamentare, riconosciuta e

contrattata. Per gli inventori di formule sarà in avvenire preferibile essere prudenti nel pensare alle

cose.

Una lettera scritta negli ultimi giorni di prigionia, quando Moro sembra ritenere imminente la sua

scarcerazione e scongiurata la condanna a morte, come si desume da quel passaggio: «per poco lei

rischiava...».

Gli anni Settanta erano stati di piombo. Il piombo dei golpe stabilizzanti, delle stragi di destra e

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degli omicidi "selettivi" di sinistra, finalizzati però alla stabilizzazione del sistema politico. Gli anni

Ottanta si preannunciavano invece all'insegna della massima instabilità. Il dopo Yalta, inteso come

la fine della rassicurante divisione del mondo in due blocchi contrapposti, era già cominciato,

almeno in Italia, con la strage di via Fani. A rendere incerta e instabile la classe politica italiana

erano proprio quei primi segnali del tramonto della guerra fredda. Il Muro non franò in una sola

notte, nell'ottobre 1989; ci fu almeno un decennio di preparazione e i segnali del mutamento

epocale, che avrebbe avuto come apice il crollo dei regimi comunisti, erano già nell'aria alla fine

degli anni Settanta. Non si trattava soltanto dell'apertura ai comunisti progettata da Moro. Altri

segnali annunciavano l'inizio di un mutamento. La rete massonica P2 era riuscita a infiltrarsi nei

paesi dell'Est, come in Romania, grazie all'amicizia personale-affaristica tra il Venerabile Licio e il

"fratello" Ceausescu: cominciata con le esportazioni dei vestiti Lebole su cui la Guardia di Finanza

chiudeva un occhio, si era via via sviluppata fino ad approdare a un proficuo scambio di segreti

militari, organizzato all'ombra di un Centro Studi con sede a Vienna gestito da Martin Ceausescu,

generale dell'Armata Rossa e fratello del dittatore di Bucarest. L'intesa fu pianificata, passo dopo

passo, dagli approcci tra i servizi segreti delle due potenze, CIA e KGB, a quanto sembra

discretamente gestiti da Bush senior e Gorbaciov.

Il nostro Mino, grazie alle sue relazioni con i generali del Supersid e con il Venerabile Licio,

sembrava discretamente informato di questi sommovimenti ed era in grado di abbozzare un'analisi

assolutamente controcorrente rispetto alla teoria della «geometrica potenza brigatista». Il 2 maggio

78, appena una settimana prima del tragico epilogo, pubblicava un articolo dal titolo "Yalta in via

Fani": La vita è un sogno, scriveva Calderón de la Barca, ma niente di quel che succede oggi attorno

a noi riguarda la poesia. Al contrario l'agguato in via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La

cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni

[...]. L'obiettivo primario è allontanare il Partito Comunista dall'area del potere nel momento in cui

si accinge al gran balzo, alla diretta partecipazione del governo del paese. È un fatto che si vuole che

ciò non accada. Perché è comune interesse delle due superpotenze mondiali mortificare

l'ascesa del PCI, cioè dell'eurocomunismo, del comunismo che aspira a diventare democratico e

democraticamente guidare un paese industriale.

Riflessioni, quelle di Pecorelli, che hanno anticipato di vent'anni alcune attuali recenti scoperte

dimostrando come Mino non solo avesse informazioni di primo piano, ma anche una sorprendente

capacità di analisi: Una partecipazione del PCI al governo democratico non sarebbe gradita neppure

ai sovietici, perché la dimostrazione storica che un comunismo democratico possa arrivare al potere

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grazie al consenso popolare rappresenterebbe non solo il crollo del primato ideologico del PCUS

sulla Terza Internazionale ma la fine stessa del sistema imperiale moscovita.

Chi aveva ucciso Aldo Moro, o perlomeno, chi era stato il mandante del delitto gestito dalle Brigate

Rosse? Il giornalista non aveva dubbi: «Le BR non rappresentano il motore principale, esse

agiscono come motorino per una correzione della rotta dell'astronave Italia», scriveva nel settembre

78, facendo intendere di essere a conoscenza delle finalità segrete di chi era in grado di manovrare le

leve del terrorismo.

La saldatura di queste opposte pulsioni non può non passare all'interno del sistema italiano. Il

problema era quello di sempre: puntare al ridimensionamento del PCI, gestire gli inevitabili accordi

con il più importante partito comunista occidentale, che in quegli anni sfiorava il 30 per cento del

consenso elettorale, attraverso un uomo politico più "affidabile". L'accusa che muove dall'intero

impianto del processo Andreotti, nei suoi due tronconi, è che la maggiore affidabilità andreottiana

proveniva dall'appoggio che gli garantiva Cosa Nostra e dal controllo totale che era riuscito a

realizzare sull'intera rete dei servizi segreti di marca piduista, che lui stesso aveva avallato, dopo aver

distrutto il SID e liquidato sia Miceli che Maletti.

La storia della DC era stata dominata, negli anni Sessanta e Settanta, dallo scontro tra due gruppi e

due linee politico-strategiche, da una parte Moro e dall'altra Andreotti. Lo scontro, rimasto

sotterraneo per molti lustri, era violentemente deflagrato per le gravissime accuse che il presidente

DC gli aveva rivolto durante la prigionia. Accuse che avevano provocato un terremoto all'interno

della Democrazia Cristiana, alimentato dai sospetti degli amici di Moro che fosse proprio lui,

Andreotti, l'uomo che stava manovrando, nel suo esclusivo interesse, contro ogni soluzione

incruenta del sequestro.

Un rapimento annunciato La sorte di Moro era già segnata da molto tempo e lo statista ne era

consapevole. Diversi erano stati i segnali che le sue aperture politiche a sinistra non fossero gradite

oltreoceano. Il presidente DC era nel mirino fin dai tempi del nascente centrosinistra: doveva

morire già nel '64, alla vigilia del golpe De Lorenzo, ma il putsch fallì e non se ne fece più niente.

Pecorelli lo venne a sapere nel '67 e al riguardo pubblicò un articolo su «Mondo d'oggi», poche

settimane prima che chiudesse i battenti. Non erano certo le Brigate Rosse, che neppure esistevano,

a voler uccidere Moro, ma un nucleo golpista che con l'eliminazione del presidente del Consiglio, a

capo di un governo di centrosinistra, avrebbe sancito le condizioni di un traumatico cambiamento

politico. Quello che impressiona è che l'omicidio doveva essere compiuto mediante rapimento,

come poi è realmente avvenuto quattordici anni dopo: quasi che le BR avessero utilizzato un

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copione già scritto.

La realizzazione dell'obiettivo era stato affidato a un para, il tenente colonnello Roberto Podestà,

istruttore di corpi speciali. Un gladiatore? L'ufficiale era molto vicino alla rivista su cui scriveva

Mino, proprio «Mondo d'oggi», la stessa dove gravitavano Giannettini e quel giro di intellettuali di

destra che teorizzavano 1' «esercito ardimentoso» e «ideologicamente attrezzato» sponsorizzato dal

generale golpista Giuseppe Aloja.

Scriveva Pecorelli: Podestà aveva una serie di cartine nelle quali erano riportati i tragitti abituali del

presidente del Consiglio [Moro! con tutti gli orari, il nome delle persone al seguito, il numero

preciso degli agenti della Presidenziale ed era in possesso di una serie di fotografie della casa

dell'onorevole e di una lista completa di tutte le guardie speciali che si alternavano alla vigilanza del

presidente del Consiglio.

L'ufficiale dei para, all'epoca del rapimento vero, era ancora attivo, ma collocato in una zona

d'ombra, dirigeva una rivista legata ai servizi segreti. E c'è un'altra strana premonizione, quella del

regista Pierluigi Pingitore, certamente legato ad ambienti di destra, che mandò in scena una piece

teatrale proprio sul rapimento di Moro. Anche Mino previde più volte la volontà di eliminare il

leader DC dalla scena politica. Nel 75, alla vigilia della grande vittoria elettorale del PCI, che sfiorò

il tetto storico del 30 per cento dei suffragi, sotto l'allusivo titolo di "Moro...bando" annunciava: «E

proprio Moro il ministro che deve morire alle tredici?», parafrasando il titolo di un libro scritto in

quegli anni da Andreotti.

Ancora nel 75, il 13 settembre, sotto il titolo: "L'America esperta scherza e prevede", faceva una

sinistra profezia: «Un segretario al seguito di Ford in visita a Roma ebbe a dichiararci: vedo nero, c'è

una Jacqueline nel futuro della vostra Penisola». Nel gennaio 76 tornò all'attacco con una vignetta

in cui appariva Moro crocefisso sotto l'emblema della DC, sormontata da una falce e martello, col

seguente sottotitolo: «Il Santo del Compromesso, vergine, martire e dimesso». Poi commentava

l'imminente collasso del governo Moro con tenebrose metafore; «Oggi assassinato con Moro

l'ultimo centrosinistra possibile, muore insieme al leader pugliese ogni possibilità di

sedimentazione indolore della strategia berlingueriana». Tre mesi prima del sequestro, le

paraboliche antenne di Mino, molto vicine ai centri decisionali, presentivano l'imminente disastro,

e il giornalista si abbandonava a cupe riflessioni: Temiamo seriamente che la democrazia italiana

non potrà reggere il peso di tanto marciume, ogni minuto c'è una nuova girandola, un nuovo

scoppio di rumore e colore. Ma la festa sta per finire. Ci sarà il minuto di gravoso silenzio e poi i

secchi botti finali, sono botti oscuri e senza luci.

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Riflessioni che diventeranno via via più precise, durante il sequestro Moro, tanto che sul numero di

«OP» in edicola il 9 maggio, giorno dell'uccisione del Presidente, Pecorelli scriveva: Dopo il

sequestro Moro tutto in Italia procede velocemente. Troppo per essere comprensibile e univoco

[...]. Dopo aver accecato i servizi segreti, bendando gli occhi ai governi, oggi è l'intero paese a essere

cieco e sordo: si ha l'impressione che si stia sperimentando un'altra forma di dominio. Una grossa

partita a scacchi giocata sopra le nostre teste (o con le nostre teste?) dai potenti della terra. Una

partita di cui nessuno ancora può conoscere l'esito [...] l'Italia è il paradiso degli 007. Bianchi, neri e

gialli, agenti doppi, tripli, agenti multipli percorrono la Penisola in lungo e in largo forzando gli

eventi in nome e per conto di interessi opposti e diversi.

Un'intuizione straordinaria quest'ultima; come capiremo molto tempo dopo, alla fine degli anni

Novanta, questi agenti tripli hanno realmente avuto un ruolo di primo piano nella gestione del

sequestro BR. Ma il 12 settembre 1978, in un editoriale su «OP», Mino sosteneva che i mandanti

del delitto Moro dovevano essere cercati tra i suoi oppositori; questa la saldatura tra movente

internazionale e movente interno: «Esistono sufficienti indizi per essere sicuri che le Brigate Rosse

hanno agito per conto terzi, italiani o stranieri o italiani e stranieri». E Pecorelli arrivava a

sospettare che qualche ideologo rivoluzionario «mirasse a incarichi ministeriali dopo aver eliminato

il governo esistente . Ma il pericolo di una trama contro di lui, prima ancora del rapimento, doveva

essere ben chiaro al presidente DC; scriveva Mino: «Moro doveva aver capito di essersi spinto

troppo a sinistra nel corso dei negoziati col PCI e di aver in tal modo destabilizzato lo scacchiere

mediterraneo».

Nel Carcere del Popolo «L'eremo è luogo di solitudine, quella solitudine che è intrisa di sentimento,

di meditazione e di follia». La riflessione di Sciascia in Todo Modo (1974), quasi preveggente su

quanto stava per scatenarsi nella DC, potrebbe ben descrivere lo stato d'animo di Moro nel Carcere

del Popolo mentre scorrevano i giorni, le settimane senza che dall'esterno arrivasse alcun segnale

rassicurante. In quelle ore senza tempo, appena interrotte dall'eco di notizie che nulla di buono

lasciavano prevedere per la sua salvezza e per la soluzione della crisi politica in cui il sequestro BR

aveva fatto precipitare il paese, il presidente DC scriveva, scriveva: lettere alla moglie, ai familiari,

agli amici di partito, i pochi che gli erano rimasti, al papa, ai nemici di sempre.

Durante quei cinquantacinque giorni, infatti, lo statista si dedicò a due generi di testi: uno è

costituito dalle risposte alle domande dei suoi carcerieri, l'altro era finalizzato alla comunicazione

con il mondo esterno. In questo secondo filone possono essere annoverate anche le note personali,

indirizzate ai brigatisti, che contenevano riflessioni e spunti autobiografici e molto probabilmente

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dovevano influire sull'immagine che Moro intendeva proporre di sé a documento dell'ultima tragica

prova cui era sottoposta la sua vita.

La parte che più interessa a noi è naturalmente la prima, con l'aggiunta di alcune lettere inviate a

uomini politici dalle quali traspariva che non solo era perfettamente informato dai suoi carcerieri

delle decisioni che venivano prese all'esterno, ma che non aveva perduto in quel terribile frangente,

benché si volesse sostenere il contrario, né la lucidità né la capacità di analisi proprie del suo modo

di intendere la trattativa politica anche nella più aspra delle condizioni. L'insieme di queste carte,

lettere escluse, costituiva un blocco di centocinquanta pagine, noto, ormai lo sappiamo, come il

Memoriale Moro. Questa almeno la valutazione degli esperti: il documento di cui in effetti

disponiamo, molto più breve, risulta pesantemente censurato, sia nella versione trovata nel '78 che

in quella trovata nel '90.

Ma anche nella parte a noi nota, il Memoriale è un documento altamente drammatico: il più

drammatico della storia repubblicana, per le circostanze in cui è stato elaborato, ma anche perché

esprime il punto più alto di consapevolezza critica di un uomo di governo, costretto a riflettere sul

proprio operato e su quello del suo partito, nel conflitto di interessi e poteri contrapposti che la

spartizione di Yalta imponeva. La perenne esclusione del PCI dall'alternanza di governo aveva

prodotto inevitabili ripercussioni politiche e morali che avevano favorito l'espandersi della

corruzione e poi del terrorismo, facendo dell'Italia un caso unico tra i paesi economicamente

sviluppati. Ed è proprio la diagnosi impietosa che Moro fa in quelle pagine dell'involuzione politica

del paese, e dell'assenza di ogni tensione etica e politica, a fornire un'istantanea anticipata della

degenerazione del sistema italiano, che sarebbe venuta pienamente alla luce quindici anni dopo.

Nell'economia del processo Andreotti, il Memoriale Moro è un punto cruciale, perché è attorno al

suo ritrovamento che si concretò l'intreccio Pecorelli-Dalla Chiesa rivelato da Buscetta, che ha

finito per convincere i giudici di Perugia della colpevolezza del senatore nell'omicidio del

giornalista. Nelle motivazioni della sentenza si afferma che la pubblicazione su «OP» del'accuse di

Moro sull'Italcasse nel 78 sarebbe stata devastante per la carriera politica del presidente del

Consiglio, assai più di quanto sia avvenuto nel '90, quando l'eco dello scandalo si era attutita.

Quanto alla possibilità che Pecorelli fosse entrato in possesso del documento e di informazioni di

prima mano relative al sequestro, non c'è soltanto la prova provata del suo rapporto con Dalla

Chiesa, ma una molteplicità di indizi che hanno portato a ritenere che Mino in quei mesi avesse

attivato un canale diretto con le Brigate Rosse e che questo canale gli avesse consentito di

pubblicare notizie veritiere, sconosciute agli stessi inquirenti, come il fatto che a sparare ad Aldo

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Moro fosse stato Maurizio, nome in codice di Mario Moretti, come è stato poi confermato dal capo

delle BR.

E su «OP» erano stati pubblicati stralci di almeno quattro lettere di Moro, intercettate dal Viminale

e mai divulgate, tra le quali una privatissima dello statista ad Andreotti, in cui veniva esplicitato il

sospetto che egli avesse appoggiato un complotto ai suoi danni per timore di essere "esautorato",

dopo aver appreso di un accordo interno alla DC che lo escludeva da ogni incarico di rilievo: questo

accordo, infatti, prefigurava la candidatura di Moro al Quirinale dopo la scadenza del settennato di

Giovanni Leone, la nomina di Zaccagnini a presidente della DC e quella di Piccoli a capo del

Governo. Ed è proprio il fatto che Mino conoscesse troppi segreti, per i giudici di Perugia, ad aver

decretato la sua condanna a morte.

«Il mio sangue ricadrà su di voi» In una delle ultime e più drammatiche pagine del Memoriale,

Moro intuiva che le fortune della DC sarebbero finite non appena fosse mutato lo scenario

internazionale, proprio come è avvenuto alla fine degli anni Ottanta. Il presidente DC,

nell'imminenza della morte, inveiva contro tutti coloro che avevano dimostrato di essere pronti a

sacrificarlo pur di garantirsi una sopravvivenza che sarebbe stata inevitabilmente a termine. In una

delle quattro lettere intercettate dal Viminale e non recapitate ai destinatari(ma pubblicate da «OP»)

compare quella profezia che gli anni sembrano aver confermato: «Il mio sangue ricadrà su di voi».

Chiuso nella sua prigione sconosciuta, Moro rifletteva sui tradimenti subiti perfino da Cossiga e da

Zaccagnini; abbiamo visto con quali parole si era rivolto a Enrico Berlinguer,responsabile di aver

dimenticato l'attenzione che lui aveva rivolto al partito di cui era segretario, alleandosi con

Andreotti in quella linea della fermezza che equivaleva a una condanna a morte.

Ma era soprattutto il presidente del Consiglio la persona cui riservava le parole più dure e le accuse

più gravi: Tornando a Lei, onorevole Andreotti per nostra disgrazia e per disgrazia del paese (che

non tarderà ad accorgersene) non è mia intenzione rievocarne la grigia carriera [...]. Non è questa

una colpa: si può essere grigi ma onesti; grigi ma buoni; grigi ma pieni di fervore. Lei ha potuto

navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è milioni di anni luce

lontano da lei [...]. Ebbene onorevole Andreotti a lei è proprio questo che manca, il fervore umano

[....]. Durerà un po' più, un po' meno, ma passerà senza lasciare traccia. Non le basterà la cortesia

diplomatica del presidente Carter per passare alla storia. Passerà alla triste cronaca [...] che le si

addice.

E dopo aver scritto della vicenda dell'italcasse asseriva: Sono tutti segni di un'incredibile

spregiudicatezza politica, che deve aver caratterizzato una fortunata carriera che non gli ho mai

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invidiato e della quale la caratteristica più singolare è che passi così frequentemente priva di

censure, o anche solo del minimo rilievo. Quali saranno state le manifestazioni di siffatta

personalità, in un ambiente come Roma, in un'attività variabile ma senza mai soste? Che avrà

significato la lunga permanenza alla Difesa, quali solidi e durevoli agganci essa deve aver prodotto?

Moro concludeva con una definizione lapidaria: «Un regista freddo, impenetrabile, senza dubbi,

senza palpiti e senza mai un momento di umana pietà». E mostrava di essere consapevole di come

fosse poco gradita, allV-stablishmcnt americano, la sua politica di apertura.

Seppi, poi, ed il fenomeno divenne sempre più vistoso, che non mancarono all'ambasciata occasioni

di incontro politico-mondano alle quali peraltro, senza alcun mio dispiacere, non venivo invitato

[...]. Si trattava, per quel che ho capito di una direttiva del segretario di Stato Kissinger, che puntava

su una DC più nuova, giovane, tecnologicamente attrezzata [...]. Cominciarono a frequentare

sistematicamente l'ambasciata giovani parlamentari, come Borruso, Segni, De Carolis, Rossi.

Insomma, si ebbe qui un mutamento di rapporti che prefigurava un'Italia tecnocratica, che parla

inglese, più omogenea a un mondo sofisticato e più internazionale.

In altra parte del Memoriale Moro si chiedeva anche se non ci fosse stata contro di lui

«un'indicazione tedesca o americana».

Con lucidità, il prigioniero preannunciava quella che sarebbe stata la fine della vecchia DC,

ipotizzando che anche il suo eterno rivale non avrebbe potuto evitare di fare i conti con questa

realtà, pagando il prezzo più alto per aver accettato ogni compromesso in nome del potere, e

venendo perciò destinato alla «cronaca» come in effetti è accaduto. Andreotti come Moro era uomo

della vecchia DC, non parlava inglese, non apparteneva a quella «nuova Italia» che andava

delineandosi alla fine degli anni Settanta, «tecnocratica» e «internazionale»: rappresentava il

passato, un passato dove machiavellicamente i vizi diventavano virtù, se giustificati dal fine. «Il

potere logora chi non ce l'ha», era, come sappiamo, la pragmatica scelta andreottiana.Ma non

appena le cose fossero cambiate, le responsabilità sarebbero ricadute su chi troppo

spregiudicatamente aveva rinunciato alla virtù. Questa la lucida previsione nell'ultima lettera, la

stessa in cui da le dimissioni dalla DC e da ogni altro incarico politico.

Quattordici anni dopo, la profezia di Moro si è avverata. Quegli spari a Mondello hanno messo la

parola fine all'aspirazione di Andreotti di accedere al Quirinale, come il rapimento messo in piedi

dalle BR aveva detto no all'esperimento DC-PCI di Aldo Moro. Buscetta, dal suo particolarissimo

osservatorio, aveva intuito uno scenario più vasto dietro le tragedie di Palermo: «Dietro la morte di

Lima potrebbe esserci una cosa di molto superiore all'impegno processuale. Ma siamo nel campo

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delle ipotesi». E l'ipotesi di Don Masino è che «uccidere Lima serviva a denigrare Andreotti». Un

omicidio che lo avrebbe sottratto alla storia per affidarlo alla cronaca, come Moro aveva previsto.

due Memoriali Buona parte del processo di Perugia è stata dedicata alla terribile, annosa caccia data

alla versione integrale del Memoriale, di cui non si è mai trovato l'originale, forse definitivamente

scomparso con la morte di Dalla Chiesa. Questo almeno è uno dei sospetti che si cela dietro

l'intreccio rivelato da Buscetta. Del Memoriale, come abbiamo già accennato, esistono due versioni

ufficiali. La prima, dattiloscritta, fu trovata nell'ottobre 78 dallo stesso Dalla Chiesa nel covo di via

Montenevoso a Milano; la seconda, è stata fortunosamente e poco credibilmente rinvenuta nel 1990

durante i lavori di ristrutturazione dello stesso appartamento, dietro il pannello di un termosifone.

In verità, sono in pochi a credere alla fortuita di questo secondo ritrovamento, che avrebbe riportato

alla luce dodici anni dopo la fotocopia del manoscritto, in alcuni capitoli più ampia della precedente

versione, ma a detta degli esperti ugualmente censurata.

Per comprendere la genesi di questa doppia versione, e il significato che assume all'interno del

processo, bisogna tornare indietro negli anni, alla prima settimana dell'ottobre 78, quando Dalla

Chiesa arrivò da Milano di notte e si incontrò con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio

Franco Evangelisti stretto collaboratore di Andreotti, e gli mostrò un pacco di carte: «Vorrei che

anche lei valutasse la situazione e avvertisse il Presidente. Domani, quando lo incontrerò, vorrei che

fosse preparato ad affrontare il peggio». E difficile immaginare cosa si siano detti Andreotti e Dalla

Chiesa e quale sia stata la determinazione presa. Il senatore ha sempre negato un incontro riservato

di tal natura con il generale. Ma al processo lo hanno confermato la madre di Emanuela Setti

Carraro, la giovane moglie di Dalla Chiesa uccisa con lui in via Carini, e lo stesso Evangelisti, morto

poco tempo dopo l'incriminazione del senatore. La signora Setti Carraro, tra le lacrime, ha ricordato

le poche confidenze che aveva ricevuto dalla figlia sui segreti del marito. Una riguardava proprio la

consegna delle carte ad Andreotti: «Con il cucco che gliele ha date tutte», le aveva però sussurrato

Emanuela.

A quel periodo risalgono i primi incontri tra Pecorelli e Dalla Chiesa, nella motivazione della

sentenza di Perugia la data viene collocata attorno al 4 ottobre. E su uno dei block notes di Mino

troviamo scritto: «Le carte segrete in mano a Dalla Chiesa». L'appunto è proprio dell'autunno 78,

nel periodo immediatamente successivo alla scoperta del covo di via Montenevoso.Il 31 ottobre, in

un articolo dal titolo «Memoriali veri e memoriali falsi», Mino da prova di essere già informato di

quanto doveva essere accaduto dietro le quinte e scrive: La bomba Moro non è scoppiata. Il

Memoriale, almeno quella parte recuperata nel covo milanese, non ha provocato gli effetti

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devastanti a lungo paventati. Giulio Andreotti è un uomo molto fortunato, ma a spianare il suo

cammino stavolta hanno contribuito circostanze solo in parte fortuite.

Il Doppio Memoriale è stato uno dei punti più controversi del processo, quello su cui la difesa ha

dato maggior battaglia. L'avvocato Giulia Bongiorno ha personalmente curato una perizia

linguistica dalla quale risulterebbe che la versione manoscritta da Moro, ritrovata nel '90, non solo

non conterrebbe alcuna novità rilevante ma sarebbe addirittura, nella scelta dei vocaboli, meno

aspra e più riguardosa nei confronti di Andreotti rispetto alla trascrizione fatta a macchina dalle BR.

La pubblica accusa è di parere opposto: la parte riguardante il senatore è ben più ampia e le censure,

presenti anche nella seconda versione, devono celare passaggi importanti. Ci sono frasi del tipo:

«Come ho già detto», oppure «nella parte in cui abbiamo trattato di ciò»; riferimenti di cui poi non si

trova traccia nel testo. Anche la Commissione Stragi di Pellegrino dispose una perizia: e la affidò al

professor Biscione, secondo il quale le parti "censurate" riguardano i seguenti capitoli: il golpe De

Lorenzo, la strage di piazza Fontana e la strategia della tensione, la riforma dei servizi segreti,

l'affare Lockheed, il ruolo degli ambasciatori USA in Italia e Gladio.

Uno degli argomenti carenti sarebbe proprio la mafia. Com'è possibile, si chiedono i PM di

Palermo, Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, che dopo le pesanti osservazioni di Moro sui

rapporti che intercorrevano tra Sindona e Andreotti, le Brigate Rosse non abbiano avuto la curiosità

di approfondire l'argomento? Peraltro Moro scriveva di aver messo in guardia Andreotti, prima del

famoso viaggio negli USA del 72 quando incontrò in pubblico Sindona, sulle amicizie pericolose del

banchiere siciliano, citando l'autorevole parere dell'ambasciatore Ortona che parlava di note

«relazioni con ambienti mafiosi» del Banchiere di Dio. I passaggi chiave, che rivelano la diversità tra

i due memoriali, riguardano soprattutto l'Italcasse e i finanziamenti occulti della CIA alla DC:

argomenti che vengono trattati molto più ampiamente nel secondo Memoriale, anche se quelle

rivelazioni, a distanza di dodici anni e in un diverso contesto politico, non erano più così

dirompenti. Nel primo Memoriale, Moro, pur esprimendo un duro giudizio sullo scandalo

Italcasse, si limitava a una sintetica osservazione: «L'avvilente canale dell'Italcasse che si ha torto di

ritenere meno importante o più inestricabile di altri...». Ben più ampia appare invece la trattazione

nel secondo manoscritto, in cui lo statista DC si lancia in un vero e proprio accuse: E lo sconcio

dell'Italcasse? E le banche lasciate per anni senza la guida qualificata, con la possibilità, anche [...] di

esposizioni indebite, delle quali non si sa quando ritorneranno e anzi se ritorneranno. E un intreccio

inestricabile nel quale si deve operare con la scure.

Moro si dilunga maggiormente anche sull'incontro negli Stati Uniti con Sindona: E per quanto

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riguarda i rapporti di importanti uomini politici con il banchiere Sindona è pur vero, per quanto mi

è stato detto con comprensibile emozione dall'onesto avvocato Vittorino Veronese, presidente del

Banco di Roma, che la nomina del funzionario Barone ad amministratore delegato fu voluta,

all'epoca difficile del referendum, tra Piazza del Gesù e Palazzo Chigi come premio inderogabile per

quel prestito di due miliardi che la conduzione del referendum rendeva, con tutte le sue applicazioni

politiche, necessario.

Un prestito fatto dalla Banca sindoniana.

Gli incontri segreti del generale Fu Evangelisti, uno dei più stretti collaboratori di Andreotti, a

rendersi particolarmente attivo per la soluzione dell'intricata vicenda Italcasse; e fu ancora

Evangelisti a ricevere la visita notturna di Dalla Chiesa, subito dopo la scoperta del covo di via

Montenevoso. Interrogato dai magistrati di Palermo poco prima di morire, il politico romano

confermò di aver solo sfogliato quella notte una cinquantina di pagine dattiloscritte, ma di ricordare

un passaggio, su cui gli erano caduti gli occhi, dove Moro lo citava in termini elogiativi. E in effetti

questo elogio nel Memoriale del '90 c'è: Perché Ella, onorevole Andreotti, ha un uomo non di

secondo, ma di primo piano con lei; un loquace, ma un uomo che capisce e sa fare. Forse, se lo avesse

ascoltato, avrebbe evitato di fare tanti errori nella sua vita.

Per i giudici è la prova che Evangelisti aveva realmente maneggiato una copia del Memoriale; ma è

anche certamente vero che l'ex sottosegretario potrebbe aver visionato la versione originale, due

anni prima, nel '90, dopo il suo ritrovamento in via Montenevoso. In ogni caso Dalla Chiesa si era

rivolto a lui perché, come Moro, lo giudicava una persona di esperienza e di buon senso, capace di

fare da tramite con il Presidente in quel difficilissimo momento. O forse voleva avere un testimone

dell'incontro con Andreotti.

Sostiene l'accusa che Andreotti era preoccupato per la parte segreta del Memoriale, che ancora non

conosciamo del tutto, anche se i magistrati di Palermo, preoccupati di offendere la memoria del

generale, dicono che agli atti non c'è alcuna prova di manipolazione delle carte da parte di Dalla

Chiesa, né alcuna certezza che sia stato lui a sottrarre almeno una ventina di fogli all'attenzione

dell'autorità giudiziaria. Ma la ricostruzione dell'intera vicenda porta inevitabilmente a questa

conclusione. Come altri protagonisti di questo infinito noir, anche il generale, via via che andava

infilandosi nel tunnel che lo condusse alla morte, assumeva comportamenti poco comprensibili e

sembrava preda di una vivissima agitazione che lo portava a compromettersi sempre di più in questa

dannata vicenda.

Non era del resto una situazione facile. A soli tre mesi dalla morte di Al- Il unno nero della Prima

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Repubblica do Moro, quando aveva appena riconquistato l'incarico di capo dell'Antiterrorismo, si

era ritrovato tra le mani un documento esplosivo: l'atto di accusa dello statista DC assassinato dalle

BR, che, invece di inveire contro i terroristi, dalla sua ultima prigione se la prendeva con un amico

di partito, gli rivolgeva pesantissime accuse, lo malediceva e al tempo stesso rivelava imbarazzanti e

scottanti segreti di Stato. Un altro al suo posto avrebbe sottratto le carte, almeno quelle più

compromettenti, le avrebbe messe al sicuro e avrebbe taciuto: quel segreto ben custodito sarebbe

stato per lui la migliore assicurazione sulla vita. E invece Dalla Chiesa ha fatto esattamente il

contrario: è uscito allo scoperto, ha informato Andreotti dei suoi pesanti sospetti, poi in modo da

rendersi del tutto riconoscibile gli ha mandato segnali minacciosi attraverso la carta stampata, e non

soltanto quella di tipo "giallo" alla Pecorelli: anche settimanali e quotidiani a grande tiratura.

Il suo comportamento induce sentimenti assolutamente contrapposti, tra chi tende a delegittimarlo

e chi lo santifica. A noi appare un uomo lacerato tra il senso del dovere, la lealtà allo Stato e la

percezione di un pericolo assoluto, insormontabile, che poteva essere sventato soltanto rivelandolo,

non avendo la possibilità di combattere ad armi pari. In ogni caso, gli eventi che seguono la scoperta

del covo di via Montenevoso e il giallo del doppio Memoriale sono un intrigo da spy story, degno di

un Ludlum o di un Le Carré. Sentite cosa scriveva Pecorelli in quelle settimane: Quando a marzo

scorso le Brigate Rosse annunciarono di aver dato inizio al Processo, sulle prime pagine si cominciò

a fare un'opera di enfatizzazione:rivelazioni sconvolgenti, svelati segreti di Stato, in pericolo il

sistema occidentale [...]. L'opera è culminata la scorsa settimana nel servizio dell'«Espresso»: sulla

base di alcune frasi, che non abbiamo ritrovato nel dossier diffuso dal Viminale, il settimanale aveva

costruito un processo che diffamava l'intero staff democristiano. Andreotti e Piccoli in particolare.

È stata costruita una montagna perché partorisse il topolino.

Mino fa finta di credere al fatto che il testo diffuso dal Viminale sia la versione integrale, e dunque

beffeggia le BR per l'"insignificanza" dell'interrogatorio: Sono un pugno di killer senza cervello,

brigate senza generali. È lo stesso Memoriale a parlare. È lo stesso Memoriale, anche se resta da

stabilire perché la «Repubblica» dell'8 ottobre scriveva: ieri è arrivata la conferma della

magistratura, le settanta pagine del dossier ci sono.

Invece il Viminale ne aveva distribuite soltanto quarantanove. E Pecorelli si chiedeva: «Per scrivere

una cinquantina di pagine sono sufficienti appena tre ore di interrogatorio. Tutto è ridotto ad un

chiacchiericcio tra impiegati di ministero senza intelligenza, senza idee e senza prospettive». Ma

poneva un interrogativo cui solo il tempo ha dato risposta certa: «Esiste un altro Memoriale in cui

Moro sveli invece importanti segreti di Stato?».

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L'uccisione di Galvaligi Non soltanto Dalla Chiesa, ma il suo intero staff sembrava sconvolto dalle

rivelazioni di Aldo Moro. Agli atti del processo di Palermo, c'è un capitolo che dimostra quale

partita pericolosa avessero intrapreso, nell'autunno 78, il generale e i suoi uomini. Il seguente

racconto viene fatto da Giorgio Battistini, giornalista della «Repubblica», professionista pacato e

assai lontano dalla spericolatezza «scoopista» di Pecorelli. All'epoca, come quasi tutti, si occupava di

terrorismo, così, nel periodo in cui cominciarono a trapelare indiscrezioni sul ritrovamento

dell'archivio BR nel covo di via Montenevoso, il giornalista cercò di mettersi in contatto con Dalla

Chiesa per un colloquio o per un'intervista, ma questi nicchiava, rinviava, non si faceva trovare. Fin

quando un pomeriggio lo chiama in redazione il generale Galvaligi, con il quale Battistini aveva già

parlato al telefono: viene fissato un appuntamento alla stazione Termini. I due non si conoscono;

Galvaligi come concordato indossa un impermeabile e ha un giornale in mano, si guarda attorno

con aria circospetta, estrae dalla tasca un foglietto che ogni tanto consulta e fa le seguenti

rivelazioni: «Il Memoriale è una bomba, tutto contro Andreotti, ci sono frasi forti, molto forti...».

Il collaboratore di Dalla Chiesa parlava di una settantina di pagine, diceva che i capitolati esplosivi

erano almeno diciassette e tutti in un modo o nell'altro riconducevano al Presidente, dagli esordi

della sua carriera, ai rapporti con i servizi segreti, a Sindona, all'Italcasse e via dicendo. Battistini

rientra in redazione, informa il direttore Scalfari e il vicedirettore Rocca; la tipologia del contatto è

talmente anomala che decidono di telefonare per verificare se la persona che si era presentata

all'appuntamento fosse proprio il generale Galvaligi. Sì, era proprio lui. Fin qui il racconto

conferma lo stato di sovreccitazione in cui versava l'intero staff di Dalla Chiesa, e nulla di più si

potrebbe aggiungere a ciò che abbiamo già detto.

Ma c'è una piccola appendice: la sera del 31 dicembre 1980, alle venti circa, un commando delle

Brigate Rosse ha aspettato sotto il portone Galvaligi con i mitra spianati. Lui ha fatto appena in

tempo a entrare: era in compagnia della moglie, aveva nelle mani dei pacchetti, forse regali, forse

qualche leccornia per la sera dell'ultimo dell'anno. Ha estratto le chiavi, ha aperto il portone ed è

caduto sotto una grandine di proiettili. Ho un ricordo personale di quella terribile sera: faceva un

freddo gelido e avevo addosso un cappottino nero troppo leggero; guardavo quel cadavere steso a

terra mentre cercavo di ripararmi nell'androne dell'anonima palazzina all'EUR in attesa della polizia

scientifica. Di quel generale ucciso conoscevo soltanto la voce, quando gentilmente mi informava

che Dalla Chiesa non era in ufficio. E mi chiedevo: perché proprio lui? C'è qualcosa che non torna

nella frenesia del generale nei mesi successivi all'uccisione di Moro: lui conosceva la storia di

Andreotti e della sua corrente siciliana; le rivelazioni del Prigioniero, per quanto gravi, non

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potevano averlo così fortemente stupito. C'era di più, molto di più: come aveva confidato al suo

fedele Incandela, Dalla Chiesa si sentiva in pericolo di vita, aveva scoperto cose gravissime, era

entrato nel labirinto infinito dei misteri del caso Moro, aveva visto il Minotauro. L'intreccio Dalla

Chiesa-Pecorelli è diventato l'intreccio delle indagini su due omicidi. Che il generale fosse in

pericolo di vita, Mino lo aveva anche scritto, con il suo solito linguaggio cifrato, sul numero del 17

ottobre 1978. Ma forse non immaginava che lo avrebbe preceduto nel suo terribile destino.

Nell'articolo il direttore di «OP» rivelava che Dalla Chiesa aveva scoperto la prigione di Moro

quando lo statista era ancora vivo e aveva avvertito il ministro dell'Interno Francesco Cossiga.

Il corpo era ancora caldo [...] perché un generale dei Carabinieri era andato a riferirglielo di persona

nella massima sicurezza. Dice: perché non ha fatto nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere

nulla su due piedi, doveva sentire più in alto e qui sorge il rebus: quanto in alto, magari sino alla

loggia di Cristo in Paradiso? [...]. Non se ne fece nulla e Moro fu liquidato perché se la cosa si fosse

risaputa in giro avrebbe fatto il rumore di una bomba! [...] C'è solo da immaginarsi [...] quale sarà il

generale dei CC che sarà trovato suicida con la classica revolverata che fa tutto da sé o coll'arcinoto

curaro di bambù di importazione amazzonica (Valerio Borghese docet) o con il solito incidente

d'auto radiocomandato nelle curve di Ibiza - oh, la sbadataggine dei camionisti spagnoli - ma il

nome del generale è noto: Amen.

La lettura di queste poche righe è più complessa di quanto possa apparire, anche quando si è

imparato a leggere i criptici messaggi di questo strano giornalista. Amen naturalmente è Dalla

Chiesa, uno pseudonimo usato altre volte da Pecorelli. Dove scrive che il corpo è ancora caldo

significa che Moro è ancora vivo; la Loggia di Cristo è naturalmente la P2, i "suicidi" e gli incidenti

citati si riferiscono a quelli del generale Anzà (che stava per rivelare i retroscena del golpe De

Lorenzo) e al falso incidente che sarebbe costato la vita a Gianni Nardi, in Spagna. Pecorelli dunque

sapeva che Dalla Chiesa rischiava la vita. Nel dicembre '78, 'A f accuse del giornalista si fece ancora

più stringente: A Milano oltre il Memoriale in due copie sono stati trovati ben cinquemila

documenti inventariati, tra cui alcuni che per una corretta interpretazione richiedono un buon

livello di competenza, tale comunque da rendere i carcerieri interroganti (o chi doveva poi ascoltare

le bobine o leggere le trascrizioni) in grado di capire il livello insignificante delle dichiarazioni di

Aldo Moro.

L'aggettivo «insignificante» era evidentemente usato in senso ironico. Pecorelli già sapeva dei

contenuti "secretati" del Memoriale e che il documento distribuito dal ministero dell'Interno era

stato "censurato".

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La trattativa nelle celle di Cuneo Sappiamo che la Corte d'Assise d'Appello di Perugia ha dato

grande rilievo alla testimonianza del maresciallo Angelo Incandela: fu lui a ritrovare nel gennaio 79,

due mesi prima che Pecorelli fosse ucciso, il manoscritto di Aldo Moro nel carcere di Cuneo,

confermando, alla fine del '92, quanto aveva detto Buscetta, e cioè che il generale e il giornalista

erano entrati in possesso di documenti di Moro. Notizia di cui fino a quel momento nessuno aveva

mai saputo nulla. Le dichiarazioni del maresciallo, che era stato uno degli uomini di punta della rete

Dalla Chiesa nel periodo in cui si occupò delle carceri, non si limitano al ritrovamento del

Memoriale di cui abbiamo già parlato. Incandela ha reso altre drammatiche dichiarazioni che ci

aiutano a capire lo stato d'animo del suo superiore nei mesi successivi alla scoperta del covo di via

Montenevoso. Dalla Chiesa sapeva di essere in pericolo: aveva bisogno di una prova certa che quelle

gravissime affermazioni le aveva fatte davvero Moro; aveva saputo che circolava una copia della

versione originale, scritta dallo statista di proprio pugno e aveva l'assoluta necessità di trovarla.

Incandela sostiene che, nel corso dell'incontro notturno con Dalla Chiesa e Pecorelli, era apparso

chiaro che era stato quest'ultimo ad avere la notizia che le carte segrete si trovavano nascoste proprio

nel carcere di Cuneo. Da chi Mino aveva avuto quest'informazione e perché quei documenti così

importanti erano finiti lì? E un giallo nel giallo, di cui cercheremo di ricostruire i passaggi salienti.

Nei giorni precedenti, Dalla Chiesa aveva bombardato il maresciallo di telefonate, tornando su

argomenti di cui avevano parlato anche in altre occasioni. Il generale, ad esempio, era convinto che

Incandela sapesse su Andreotti molte più cose di quante non gliene dicesse, informazioni che

poteva aver appreso girando per le carceri, e più volte aveva insistito perché firmasse un rapporto nel

quale raccontava per filo e per segno cos'era avvenuto durante il sequestro Moro. «Tu queste cose le

vai a raccontare al SID e a me non le dici», lo rimproverava.

Un dialogo aspro e in certi passaggi drammatico, quello tra il generale e il fedele maresciallo, che da

la misura della diffidenza che nutriva Dalla Chiesa nei confronti di Andreotti e di come proprio nel

carcere di Cuneo, ormai identificato come il vero teatro della trattativa segreta attorno al sequestro

Moro, si sia giocata la partita più pericolosa del processo al senatore. Vediamone alcuni passaggi,

così come sono stati raccontati ai giudici dal maresciallo Incandela: Devo dire che il generale Dalla

Chiesa teneva moltissimo ad avere informazioni sull'onorevole Andreotti. Tante volte nel corso

degli anni mi chiese con insistenza di riferirgli notizie apprese dai detenuti sul suo conto. Egli era

convintissimo che Andreotti fosse una persona estremamente pericolosa. Non mi chiarì sulla base di

quali elementi avesse maturato tale convinzione. Può darsi che ascoltando i nastri registrati

contenenti le conversazioni dei detenuti avesse acquisito elementi di conoscenza ai quali attribuiva

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grande importanza. Il generale era convinto che io fossi a conoscenza di informazioni sul conto

dell'onorevole Andreotti apprese nel circuito carcerario. Nonostante lo assicurassi che non ero in

possesso di tali informazioni, continuava a insistere. Una volta a Milano, quando comandava la

Divisione Pastrengo, per indurmi a redigere una relazione riservata su tali mie presunte conoscenze

concernenti l'onorevole Andreotti, mi disse: «Ma non capisci che solo in questo modo io, tu e altri

come noi possiamo avere la speranza di salvarci la vita?». Io non gli chiesi spiegazioni per lo stato di

soggezione nel quale mi trovavo sempre quando parlavo con lui. È certo che Andreotti per il

generale Dalla Chiesa era un chiodo fisso.

Poi il maresciallo Incandela ha raccontato nei dettagli il ritrovamento del plico che si trovava

proprio nei pressi del luogo che aveva descritto Pecorelli,all'interno di un pozzetto coperto da un

tetto di lamiera, che si trovava in un locale adiacente alla sala colloqui. Incandela lo descrive così:

«L'involucro era una specie di salame lungo venti-trenta centimetri, era avvolto con un nastro

isolante di colore marrone che poteva contenere un centinaio di fogli». Gli episodi riferiti da

Incandela al processo Andreotti erano già, anche se forse con minori dettagli, agli atti di un altro

processo: quello a carico del maresciallo Alfredo Manfra presso il tribunale di Cuneo.

L'attendibilità del Supertestimone è stata duramente contestata dalla difesa. Lo stesso figlio Nando

non ha apprezzato le dichiarazioni del maresciallo, che devono essergli apparse offensive per la

memoria del padre. Anche se era stato proprio lui a raccontare ai giudici quello che una volta gli

disse: «Andreotti fa il doppio gioco». Ma l'accusa ha creduto a Incandela e quel che è peggio il

giudice Verrina sembra aver considerato decisiva la sua testimonianza.

Non abbiamo perfetta conoscenza della rete di rapporti che consentì a Pecorelli di venire in possesso

di queste informazioni. Tuttavia, un capitolo del processo può gettare qualche barlume di luce su

questo ennesimo mistero. Il carcere di Cuneo, tra il marzo e l'aprile del 78, era diventato il quartier

generale della trattativa per la liberazione di Aldo Moro, ma soprattutto, a quanto sembra, per il

recupero del Memoriale. Certo è che pur sostenendo ufficialmente la linea della fermezza, la DC

aveva attivato canali per contattare le BR attraverso la malavita. Lo riconosce anche la sentenza

d'appello di Palermo. Molti protagonisti del nostro processo si erano già incontrati in quel periodo

proprio nel carcere di Cuneo. C'era Buscetta, ad esempio, che ha raccontato di aver ricevuto una

telefonata da Stefano Bontate,che lo incaricava di fare tutto il possibile per salvare Moro. E

scopriamo che il giudice Claudio Vitalone, attraverso un amico, l'avvocato Edoardo Formisano, era

entrato in contatto con il gangster marsigliese Francis Turatello, all'epoca capo della mala milanese,

che come già sappiamo era detenuto in quel carcere. La trattativa naufragò, per i motivi che

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vedremo, ma doveva essere arrivata a buon punto se, come sembra, le Brigate Rosse o chi per loro

avevano fatto avere a Turatello almeno una parte del manoscritto di Aldo Moro attorno al 10 aprile.

Turatello, dopo che Incandela trovò l'involucro, fu trasferito dal carcere di Cuneo a quello di

Pianosa, ed è lì che il maresciallo lo incontrò qualche tempo dopo, scoprendo che il gangster sapeva

benissimo che era stato proprio lui a trovare il plico contenente quel centinaio di pagine del

Memoriale Moro che, quando la trattativa per la sua liberazione era fallita, era stato certamente lui a

nascondere nel pozzetto come assicurazione sulla sua vita. È naturalmente un'ipotesi, ma è anche

l'unica possibile. Così il maresciallo racconta l'incontro: Il Turatello mi disse: «Lei è il famoso

maresciallo Incandela che viene da Cuneo? Io sono stato mandato via da Cuneo a causa di certi

scritti di Moro di cui lei è a conoscenza. È stata la Democrazia Cristiana che non ha voluto salvare

Moro, sono stati bloccati tutti i contatti che si erano messi in moto in alcune carceri tra brigatisti e

grandi malavitosi per vedere di arrivare a un accordo che salvasse Moro».

Un accordo che comportava la consegna da parte delle Brigate Rosse delle rivelazioni più pericolose

o imbarazzanti che Moro poteva aver fatto nel corso dell'interrogatorio? Ma perché, se i brigatisti

avevano accettato di consegnare le carte, la trattativa s'interruppe? Forse non le avevano consegnate

tutte oppure, ottenuto lo scopo, qualcuno ugualmente decise che era meglio che Moro fosse ucciso

perché era ormai considerato inaffidabile e quindi pericoloso il suo ritorno in libertà per tutto quello

che avrebbe potuto ancora dire o fare? In definitiva, è proprio questo il nodo della cruenta

conclusione del sequestro Moro.

Nel corso del processo Raffaele Cutolo, l'ex capo della Nuova Camorra Organizzata, rivelò a

sorpresa che aveva saputo che il direttore di «OP» faceva il "doppio gioco", e cioè passava

informazioni ottenute in ambienti della Magliana al generale Dalla Chiesa. Don Rafè ha fornito un

particolare che s'incastra perfettamente con la testimonianza di Incandela: «So che i due andavano

insieme a fare perquisizioni nelle carceri». Uno dei canali informativi di Cutolo era certamente

Franco Giuseppucci, un boss trasteverino, legato da molteplici affari con la camorra napoletana: se

fosse stato vivo sarebbe comparso come imputato nell'omicidio del giornalista. Il boss della camorra

era anche amico di Aldo Semerari, il criminologo che nell'81 fu trovato decapitato proprio di fronte

alla sua abitazione, il castello di Ottaviano. Ma era soprattutto legato a Ugo Bossi, un malavitoso

massone, che aveva avviato la trattativa nel carcere di Cuneo per conto di Vitalone.Anche Semerari,

come Pecorelli, frequentava il giro della Roma nera; la notizia della strana liaison tra Dalla Chiesa e

il giornalista, ignota ai loro più stretti collaboratori, doveva essere conosciuta negli ambienti della

malavita romana. Quelle carte scottavano anche nelle mani dei boss. Per questo qualcuno aveva

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avvertito Pecorelli due anni prima, alla fine del 78, quando era cominciata quell'avventura che lo

avrebbe portato alla morte.

Un paio di pentiti di estrema destra hanno confermato che il giornalista aveva contatti diretti con

ambienti della malavita romana. Rolando Battistini raccontò: «Sapevamo che c'erano avvocati,

magistrati e uomini politici che facevano da trait d'union tra ambienti politici e Banda della

Magliana». Avvocati, magistrati e uomini politici che Pecorelli ben conosceva a causa del vincolo

massonico. Ivano Bongiovanni, rapinatore comune legato ai neri, sostiene: «Ho incontrato

Pecorelli in casa del costruttore Nicoletti nel 75, c'erano Albert Bergamelli e due personaggi

importanti». Rosario Nicoletti fu arrestato per vicende legate alla costruzione dell'Università di Tor

Vergata: il suo nome ricorre spesso nell'inchiesta sulla Banda della Magliana condotta dal giudice

Otello Lupacchini; Bergamelli, come sappiamo, era uno dei marsigliesi trasferitisi a Roma. Dunque

Mino aveva contatti con la malavita romana e quello che ha raccontato Cutolo è verosimile: poteva

davvero essere stato lui ad avere ricevuto da ambienti malavitosi la dritta che aveva consentito a

Dalla Chiesa di recuperare il Memoriale.

In ogni caso anche Cutolo aveva partecipato alla trattativa per la liberazione di Aldo Moro. A

parlarne fu il suo luogotenente Luigi Bosso, trasferito a Pianosa dopo la fine del sequestro BR.

Anche il camorrista confidò a Incandela, nel periodo in cui il maresciallo era in servizio presso il

supercarcere, uno scenario simile a quello descritto da Francis Turatello: Il Bosso, dopo avermi

parlato dell'intervento di Raffaele Cutolo nelle trattative per la liberazione di Grillo, aggiunse: «E

Moro! Se parlo io e dico quello che so...». E poiché io insistevo per indurlo a parlare, il Bosso

aggiunse: «Ma tu Incandela vuoi morire? Chi te lo fa fare a volere sapere certe cose!», e ancora:

«Guarda che è stata la DC a volere che Moro non fosse lasciato libero dalle Brigate Rosse. Questo è

un fatto di cui sospettano tutti. Ti sei mai chiesto chi ha rapito Moro? Sì, le BR, hanno eseguito

materialmente la cosa, ma chi ha guidato questa gente? Pensaci un po' Incandela. Ah, se tiro fuori

tutto quello che so. Ti dico solo che il rapimento di Moro e quello di Cirillo sono stati voluti

entrambi da un pezzo della DC e io ne ho le prove. Ma per adesso chiudiamo qui che è meglio».

Anche Bosso è morto in carcere nell'84, ma per una crisi cardiaca, non brutalmente ucciso com'è

accaduto a Turatello nella prigione di Nuoro. Incandela aveva registrato quasi tutti i colloqui con il

camorrista, a sua insaputa, e aveva mandato le bobine al giudice Carlo Alemi di Napoli. Le memorie

del maresciallo Incandela, tra boss e terroristi, sono un romanzo a sé nella saga del processo

Andreotti. Anche Buscetta lo aveva messo sull'avviso, durante un colloquio a Cuneo: Maresciallo,

ma chi glielo fa fare? Ma lo sa che noi a Roma possiamo contare perfino su Andreotti? E che

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potevamo salvare la vita a Moro anche se furono loro a non volerlo? Se la prenda più comoda, si

goda la vita che si campa una volta sola.

Molte informazioni fornite da Buscetta sul sequestro Moro sono legate al periodo che trascorse nel

carcere di Cuneo. È stato lui a raccontare che in quel periodo era divenuto il quartier generale della

"trattativa" segreta per la liberazione del leader DC. Tentativi che si erano bruscamente interrotti

attorno al 10 aprile, una settimana prima della messinscena del ritrovamento di Moro nel lago della

Duchessa, di cui parleremo più avanti. Una delle ipotesi è che proprio attorno a quella data si era

avuta la certezza che Moro avesse risposto alle domande delle BR, facendo gravissime rivelazioni e

pesanti accuse ai compagni di partito, primo fra tutti Andreotti. La certezza si fondava

probabilmente sui verbali che Turatello era riuscito ad avere. C'è chi sostiene che da quel momento

in poi Moro non poteva più essere salvato: la sua liberazione sarebbe stata pericolosa per gli

equilibri politici.

Durante la trattativa le attività furono molteplici, come confermano le intercettazioni telefoniche a

suo tempo depositate agli atti del processo Moro. Buscetta racconta che era stato Ugo Bossi, un

amico di Turatello, a cercare di farlo trasferire a Torino, dove erano detenuti i capi BR in quel

periodo sotto processo nel capoluogo piemontese. Ma a opporsi al trasferimento fu proprio Dalla

Chiesa, all'epoca capo della Securpena, una sorta d'intelligence che si occupava della sicurezza nelle

carceri: era contrario al coinvolgimento della mafia nel sequestro Moro. Forse temeva che i contatti

tra boss e terroristi non si sarebbero limitati alla liberazione di Moro: intuiva scenari diversi e

destabilizzanti.

In quel periodo erano in molti, a quanto sembra, a dare la caccia ai verbali dell'interrogatorio di

Moro. Anche chi scrive si è imbattuta per altre vie con uno spezzone di questa strana storia. L'ex

leader BR, Alberto Franceschini, nel corso di un'intervista mi rivelò di aver incontrato nel carcere di

Bad'e Carrus, nell'80, proprio Francis Turatello, che gli aveva fatto una rivelazione mai venuta alla

luce in nessuno dei tanti processi Moro. Per ottenere la liberazione dello statista, la malavita

avrebbe dovuto organizzare una rivolta nel carcere di Torino, prendere in ostaggio i capi BR, per poi

procedere a uno scambio con Moro. Turatello spiegò a Franceschini: «La cosa mi sembrò pericolosa

e dissi di non essere disponibile all'operazione». Non stupisce che questo gangster, coinvolto a così

alto livello nell'affare Moro, una volta spariti quei documenti che erano per lui un'assicurazione

sulla vita sia stato assassinato in carcere dal terrorista nero Pierluigi Conditelli: il killer del giudice

Occorsio.

Il romanzo di Incandela non finisce con il ritrovamento del "salame" nel pozzetto adiacente alla sala

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colloqui. Negli anni successivi, anche dopo la morte di Pecorelli, Dalla Chiesa appariva preda di

grandissima agitazione e, a quanto racconta ancora il fedele maresciallo, nell'estate dell'81 lo

convocò a Milano nel suo ufficio presso la Divisione Pastrengo dove lo aveva pregato di recarsi in

tutta segretezza: Dopo alcuni convenevoli il Generale cambiando improvvisamente il tono dei

discorso e fissandomi negli occhi mi disse: «Ma sei o no un maresciallo con i coglioni sotto?».

Quindi aggiunse: «Stiamo scrivendo la storia: si può essere fedeli allo Stato in tanti modi, si può

servire la Patria anche in modi non propriamente legali. Per la Patria si può e si deve rischiare

quanto occorre e quando si hanno i coglioni [...]. Stai bene a sentire quello che ti dico e quello che

dovresti fare. Si tratta sempre della questione delicatissima dei documenti dattiloscritti che parlano

del sequestro Moro e di Andreotti». Quindi mostrandomi una busta gialla grande e aperta,

all'interno della quale vi erano a occhio e croce una quarantina di fogli, disse: «Io ti consegno questo

fascio di documenti e tu in qualche modo devi riuscire a ficcarli dietro lo sciacquone della toilette

del refettorio dove si svolge buona parte della vita sociale dei detenuti. Poi il giorno dopo, visto che

sei tu che ordini le perquisizioni, disponi una perquisizione nei locali in modo che saltino fuori».

Il maresciallo Incandela nicchiò, disse che se avesse collocato i documenti dietro lo sciacquone la

cosa non sarebbe passata inosservata. Forse potevano essere nascosti in una cella, ma Dalla Chiesa

non era d'accordo. Alla fine non se ne fece niente. «Il generale mi disse che lo avevo deluso, che

stavo tradendo la sua fiducia, che se me lo avessero chiesto i servizi segreti mi sarei dato da fare. Del

contenuto di questo colloquio non ho parlato con nessuno prima della sua morte», ha raccontato

ancora il maresciallo. Perché Dalla Chiesa aveva incitato il suo collaboratore a comportamenti al

limite dell'illegalità? Quali carte voleva che fossero ritrovate? Erano ancora pagine del Memoriale

Moro, quella parte dell'interrogatorio BR che nel '78 aveva tenuto per sé, a dire della signora Setti

Carraro, la madre della sua giovane moglie? Forse sì. Nel frattempo era diventato vicecomandante

dell'Arma dei Carabinieri, ma si trattava di un incarico onorifico. Quel giorno, quando era andato a

trovarlo alla caserma Pastrengo, Incandela lo aveva trovato che correggeva i compiti degli allievi

ufficiali, un ruolo che evidentemente gli andava stretto. Dopo aver smantellato le Brigate Rosse, il

generale era tornato nell'ombra. Ma non era soltanto una questione di carriera: quel pacchetto di

fogli, che aveva trovato nel covo di via Montenevoso e che Pecorelli non aveva potuto pubblicare,

doveva venire alla luce. Tra le sue mani ormai scottavano troppo.

I sospetti di Dalla Chiesa Il generale Dalla Chiesa, prima ancora di fare irruzione nel covo di via

Montenevoso, sospettava l'esistenza di infiltrazioni all'interno delle Brigate Rosse: non semplici

informatori, ma veri collegamenti operativi con un'unica centrale criminal-terroristica. Un suo

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stretto collaboratore, il colonnello Niccolo Bozzo, la cui testimonianza è agli atti del processo di

Perugia, ha dato questa spiegazione: Nel settembre 78, tornai alle dirette dipendenze del generale,

dopo che aveva riottenuto l'incarico antiterrorismo, e tra le prime cose mi fu detto di approfondire

l'ipotesi dell'esistenza di una struttura paramilitare segreta, nata con funzioni antinvasione che

aveva poi debordato in azioni illegali.

Dalla Chiesa pensava che questa struttura avesse avuto origine nel periodo della Resistenza, quando

il comando americano aveva infiltrato i gruppi partigiani comunisti, per poterli eventualmente

annientare alla fine della guerra. Il generale aveva appuntato la sua attenzione in particolare

sull'Organizzazione Franchi, diretta da Edgardo Sogno, medaglia d'oro al valor militare che nel

periodo della liberazione aveva avuto rapporti diretti, di grande rilievo, con il comando americano e

l'OSS (Office of Strategie Services, antenato della CIA). Bozzo e il generale ne parlarono a

proposito delle rivelazioni di Giancarlo Viglione, un giornalista di Radio Montecarlo (poi finito

sotto processo per tentata estorsione): un altro dei tanti "gialli" che costellano l'omicidio Moro, di

cui torneremo a parlare. Viglione raccontò di aver saputo che alle riunioni BR erano presenti politici

e magistrati e tra questi a sorpresa indicò l'ex procuratore di Milano Adolfo Beria d'Argentine.

Dalla Chiesa non prese neppure in considerazione l'ipotesi che il giornalista stesse raccontando la

verità; anzi, considerava le dichiarazioni di Viglione un depistaggio ispirato dalla Superloggia di

Montecarlo. «Ma era convinto che si trattasse di un messaggio che andava interpretato», precisò

Bozzo. Un messaggio sui veri burattinai delle BR. Il procuratore Beria d'Argentine, insospettabile

per l'accusa che gli veniva mossa, durante la Resistenza aveva aderito con la moglie Cecilia ai

Comitati di Resistenza Democratica, che facevano capo proprio alla Franchi. Chiamato in causa per

il mancato golpe del 73, attribuito alla Rosa dei Venti, Sogno s'infuriò sostenendo che i venti nuclei

della "rete parallela" erano organizzazioni di tutto rispetto, finanziate da FIAT, Confindustria,

ministeri della Difesa e degli Esteri. In realtà era avvenuto proprio quello che Miceli aveva

annunciato al giudice Tamburrino: da un certo periodo in poi la «rete parallela» del Supersid non

avrebbe più fatto ricorso all'estrema destra, ma all'estrema sinistra. «Sentirete parlare soltanto di

Brigate Rosse», aveva annunciato nel 74: e così fu.

Il messaggio di Viglione, secondo Dalla Chiesa, andava interpretato in questo modo: le BR erano

infiltrate da persone legate a centrali impegnate nella lotta al comunismo che, proseguendo

nell'opera d'infiltrazione iniziata durante la guerra, perseguivano l'obiettivo di un

ridimensionamento del PCI radicalizzando le attività dell'estrema sinistra. Un'intuizione, quella di

Dalla Chiesa, che recentemente ha trovato conferma in una lunga intervista rilasciata da

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Franceschini a Giovanni Fasanella su «Dagospia». Quasi una confessione, in cui il brigatista rivela

l'esistenza di un livello superiore delle BR, mai scoperto, del quale facevano parte personaggi

appartenenti a un ceto sociale elevato e in qualche caso anche a un certo circuito internazionale.

Corrado Simioni, uno dei fondatori dell'Hyperion e membro nei primi anni Settanta del nucleo

primitivo delle BR, il Collettivo Politico Metropolitano, era in realtà legato ad ambienti NATO e

aveva messo in contatto Mara Cagol con Roberto Dotti, un ex partigiano comunista rifugiatosi per

un certo periodo a Praga, o così almeno raccontava, che negli anni Cinquanta era però diventato il

braccio destro del generale Edgardo Sogno. Simioni chiese a Mara - moglie di Renato Curcio,

ricordiamolo - ignara della liaison con Sogno, di compilare schede informative su tutti i militanti

delle BR e di consegnarle a Dotti, dicendole anche che poteva rivolgersi a lui se c'era bisogno di

denaro o di ogni altra forma di assistenza.

Nel 74, dopo il rapimento del giudice Mario Sossi, le BR fecero un'altra azione clamorosa:

"perquisirono" lo studio di Sogno e fu lì che scoprirono un necrologio scritto dal generale e

pubblicato dal «Corriere della Sera» a un anno dalla morte di Dotti. A Mara Cagol venne il dubbio

che potesse trattarsi della stessa persona, con cui si era incontrata sulla Terrazza Martini di Milano:

per scoprirlo, Curcio e Franceschini andarono al cimitero e rubarono la foto dalla lapide, che fu poi

ritrovata al momento dell'arresto da Dalla Chiesa e dal giudice Caselli, che non riuscirono a

capacitarsi perché mai un siffatto reperto cimiteriale si trovasse lì.

Racconta ancora Franceschini che Simioni aveva creato una sua rete personale, denominata «le zie

rosse» e Curdo nel 70-71 decise di rompere con lui quando scoprì che aveva reclutato a sua insaputa

anche la moglie: accadde dopo un attentato in Grecia contro l'ambasciata americana, durante il

quale saltò in aria una donna, che era l'amante di Simioni. Fu allora che Mara confidò al marito che

al suo posto avrebbe dovuto esserci lei.

Dopo la rottura, Franceschini chiese a Simioni di pagare i debiti con la tipografia; con sua grande

sorpresa l'Ingles, come l'avevano soprannominato per la sua rassomiglianza con il falso

rivoluzionario del film Queima-da, disse che l'avrebbe fatto ma ci voleva tempo perché i soldi erano

in una cassetta di sicurezza in Grecia: «Noi impallidimmo. Come mai il denaro del Collettivo

Politico Metropolitano era sotto la protezione dei colonnelli?», si chiesero Alberto e Renato.

Simioni uscì dall'organizzazione senza battere ciglio, e poco dopo fecero ritorno all'ovile Moretti e

Gallinari che si erano allontanati dal Collettivo nel 71. Quest'ultimo disse che aveva rotto con la

"Ditta" (così Simioni chiamava la sua rete, lo stesso nome usato dagli agenti del Mossad per il

servizio segreto); il motivo era che in quel gruppo praticavano il libero amore e facevano scambi di

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coppia. Ma Franceschini sospettava che fosse stato proprio Simioni a convincerli a rientrare nelle

BR. Il 74 era alle porte e l'Ingles gli aveva sempre detto: Nel 1974 ci sarà una grande crisi economica

ed esploderanno forti tensioni sociali. Noi ora lavoriamo sotto traccia per costruire una rete logistica

molto forte, con infiltrati in tutte le organizzazioni del movimento e della sinistra. E quando

arriverà il momento, grazie al lavoro dei nostri uomini, saremo in grado di innalzare il livello dello

scontro.

Finalmente lui e Renato capirono: Simioni era un agente della CIA e avvertirono anche Adriano

Sofri e altri dirigenti dei movimenti di sinistra. Troppo tardi: pochi mesi dopo furono arrestati e

l'organizzazione finì sotto il controllo di Mario Moretti, che era diventato l'uomo di fiducia di

Simioni e dell'Hyperion. Questa la protostoria delle Brigate Rosse, raccontata da uno dei suoi capi.

Uno scenario molto simile a quello che aveva delineato Dalla Chiesa al colonnello Bozzo.

Un'operazione di intelligence molto sofisticata, come vediamo, le cui tracce si ritrovavano dietro

molte inchieste, anche se i magistrati che per strade diverse finivano per scoprirle all'epoca venivano

accusati di "cortiplottomania". La tesi di Dalla Chiesa era condivisa dal giudice Tamburrino, che a

seguito della sua indagine sulle deviazioni del SID e sulla Rosa dei Venti era approdato alla stessa

conclusione: «A un certo punto ho avuto la precisa cognizione che buona parte dei terroristi sia rossi

che neri agivano su indicazione e suggerimenti dei servizi segreti». Una convinzione che il 11.

LIBRO NERO DELLA PRIMA REPUBBLICA giudice aveva rafforzato dopo gli interrogatori di

Roberto Cavallaro, il sindacalista di destra che per un certo periodo aveva indossato i falsi panni del

magistrato militare per avvicinare gli ufficiali e convincerli ad aderire al progettato golpe attribuito a

Sogno: Gladio, noi la chiamavamo organizzazione X o anche Rosa dei Venti, che sono la stessa cosa.

Molti appartenenti avevano il nulla osta Cosmic, che viene rilasciato dall'alleanza atlantica. I

membri dell'organizzazione Cosmic avevano il compito di infiltrarsi nei gruppi di destra e di sinistra

in modo di accrescere la tensione e consentire all'esercito di intervenire.

Può essere interessante a questo punto scoprire il significato di Gladio, una definizione soltanto

italiana dello Stay Behind, la guerra dietro le linee. Il nome Gladio si ispira all'antica arma che i

romani usavano nelle arene, poi diventato il distintivo fascista degli aderenti alla Repubblica di

Salò. Il "nulla osta Cosmic" era invece un lasciapassare molto serio e, non si sa per quale oscuro

motivo, fu concesso anche ad alcuni membri della Banda della Magliana e della camorra.

Il Noto Servizio La strategia degli apparati Stay Behind consisteva dunque nell'istigazione alla

violenza tra opposte fazioni di destra e di sinistra, attraverso azioni provocatorie, rappresaglie e

attentati, che nell'intento degli ideatori dovevano creare una situazione di instabilità e terrore per

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aprire la strada all'intervento militare. La "paura del golpe", nei primi anni Settanta, ha finito per

indirizzare la ribellione dei movimenti giovanili verso un'attività di lotta armata inizialmente

giustificata come autodifesa. Una vittima di questa paura fu certamente l'editore Giangiacomo

Feltrinelli, che a partire dal '69 aveva lavorato alla nascita dei Gruppi di Azione Partigiana, che in

parte si ispiravano alle omonime formazioni della Resistenza e in parte all'esperienza "guevarista" e

della lotta armata in Sudamerica. Alberto Franceschini mi raccontò: «Feltrinelli aveva progetti

grandiosi e continuava a proporci finanziamenti, ma le sue proposte non ci convincevano [...]. Non

so perché ma si era convinto che far saltare tralicci ad alta tensione in Alto Adige fosse

indispensabile per colpire l'enel e Fanfani».

Fu proprio su un traliccio che il giovane editore incontrò la morte nel marzo 72. Quando fu

ritrovato, il tronco semicarbonizzato e le gambe amputate, in tasca aveva la foto intatta della moglie

e del figlioletto, che consentì l'identificazione, una mezza banconota da mille lire e un pacchetto

Astor imbottito di tritolo. Soltanto dopo la rivelazione dell'esistenza di Gladio fu possibile capire

che le "mezze mille lire" erano in realtà la chiave d'accesso ai depositi di armi dello Stay Behind: per

il ritiro di pistole, fucili ed esplosivo era necessario esibirle; i carabinieri avrebbero confrontato la

mezza banconota con l'altra metà depositata nella cassaforte della sezione SAD del SID di Roma, se

combaciavano si potevano prelevare le armi. Il pacchetto Astor al tritolo ricorda invece gli ordigni

confezionati secondo le norme d'istruzione di un opuscolo militare della NATO. In quale trappola

era inconsapevolmente caduto Feltrinelli? Falliti i contatti con i futuri brigatisti, la sorte dell'editore

fu segnata dall'incontro con Carlo Fumagalli, uno strano «ex partigiano» che nel '45 era stato

insignito dagli americani della stella di bronzo al valore militare. Nel '62 aveva fondato il MAR, una

delle tante formazioni di estrema destra che proliferavano in quel periodo di preparazione del golpe

De Lorenzo: al fianco di Fumagalli c'erano gli ex partigiani della Valtellina, ma anche un buon

numero di malavitosi comuni. Il MAR, come sappiamo, è una delle formazioni paramilitari che si

celano dietro la sigla Noto Servizio. L'aspetto più inquietante della morte di Feltrinelli fu che il

traliccio dell'ENEL si trovava nei pressi di un capannone per la demolizione di veicoli industriali di

proprietà di Fumagalli. Con Feltrinelli al momento dell'incidente c'erano due compagni: uno fu poi

identificato in tal Gunther, nome di battaglia tedesco, che l'editore conosceva come operaio

comunista ex partigiano. Partigiano lo era stato, ma nella formazione di Fumagalli. Con queste

credenziali, dopo l'incidente occorso al compagno Osvaldo, nome in codice di Feltrinelli, Gunther

fu accolto in un nucleo delle BR dove militò qualche tempo prima di sparire con la cassa.

Questa premessa sulla nascita del partito armato, che precede di alcuni anni il rapimento e

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l'uccisione di Aldo Moro, renderà più facile nelle pagine seguenti capire i retroscena dei mille

misteri dei cinquantacinque giorni di prigionia. Dalla Chiesa, come altri uomini di intelligence

estranei a quel circuito, aveva intuito che sotto la falsa specie di combattenti comunisti si

muovevano, in un territorio di confine con i servizi segreti occidentali, personaggi che perseguivano

interessi del tutto opposti.

E il generale cominciò a sospettare che esistesse una centrale vera e propria che coordinasse le varie

azioni terroristiche, pur di diversa tendenza. Una centrale, vale la pena di ricordarlo, che è spuntata

per la prima volta nel '98, in un dossier che la Procura di Brescia inviò al presidente della

Commissione Stragi Pellegrino. I giudici di quella città, riaprendo le indagini sulla strage di piazza

della Loggia, scoprirono uno strano episodio di venticinque anni prima: il 28 maggio 1974, il giorno

stesso dell'eccidio, il brigatista Arialdo Bentrami si era rivolto a Ermanno Buzzi (il neofascista poi

condannato come autore della strage) per avere una falsa carta d'identità. Possibile, si erano chiesti i

giudici, che tra terroristi rossi e neri ci fosse una tale mutua assistenza? Dall'archivio del ministero

degli Interni spuntò a sorpresa un documento che ricostruiva con precisione la storia di

un'organizzazione supersegreta, di cui nessuno fino a quel momento era a conoscenza, dallo strano

nome di Noto Servizio.

La struttura era stata creata alla fine del conflitto da agenti angloamericani e sovietici, che avevano

reclutato gli uomini degli apparati fascisti e nazisti: quelli che all'ultimo momento erano passati

dall'altra parte. In segno di riconoscimento per la collaborazione offerta, il Noto Servizio era stato

affidato nella prima fase al capo della polizia segreta di Mussolini, Mario Roatta, cui fece seguito

per una sorta di legge dell'alternanza un ufficiale polacco del Patto di Varsavia, Otimski, poi

trasferitosi a Tel Aviv. Come si vede, fin dall'inizio la struttura nasceva all'insegna di contrapposte

bandiere: lo scopo iniziale era quello di compiere operazioni speciali contro i nazisti, ma negli anni

successivi si era trasformato in una sorta di Spectre nostrana attraverso la quale manovrare gli

opposti estremismi. I magistrati di Brescia erano convinti che la struttura supersegreta avesse

finanziato anche Carlo Fumagalli (sospettato per la strage del 74) attraverso l'ambigua figura del

bulgaro Jordan Wessilinoff, agente al servizio di molte bandiere. Ex collaboratore dei nazisti, dopo

la guerra aveva lavorato come meglio poteva per americani, russi e bulgari. Wessilinoff (è bene

tenere a mente questo nome perché ci torneremo), risultò poi affiliato alla Loggia Carnea di Santa

Margherita Ligure e dedito con successo a pratiche esoteriche. Come vediamo, i sospetti di Dalla

Chiesa sulle infiltrazioni all'interno delle Brigate Rosse, che trovavano le loro origini nel periodo

della Resistenza, avevano imboccato la direzione giusta, anche se sarebbero dovuti passare molti e

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molti anni prima di riuscire a capire come potessero essersi realizzate.

Tutti elementi che corroborano l'ipotesi che il covo di via Gradoli era "sotto osservazione". Molto

recentemente, uno dei testimoni ascoltati dalla Procura di Roma, nell'ambito delle indagini sulla

cellula supersegreta del SISMI, il cosiddetto Anello, avrebbe raccontato che l'esistenza di un covo

in via Gradoli era nota al servizio segreto ed era stata segnalata dal colonnello Adalberto Titta,

responsabile della struttura, al presidente del Consiglio. Ma Andreotti avrebbe scosso la testa

dicendo: «Ormai la cosa migliore è non fare nulla», e avrebbe dato valutazioni negative sul possibile

rilascio di Moro. Il testimone è un ex funzionario della Fiera di Milano, Michele Ristuccia, e ai

magistrati romani ha raccontato anche che Titta, morto d'infarto otto mesi dopo la conclusione del

sequestro Grillo, nell'82, aveva mantenuto contatti con alcuni brigatisti anche durante il rapimento

Moro. Questi gli avevano manifestato sfiducia nelle istituzioni, asserendo di non aver trovato

interlocutori interessati alla trattativa per liberare l'ostaggio. Affermazioni di cui è difficile valutare

l'attendibilità, per lo stretto riserbo in cui si sta svolgendo l'inchiesta del PM Ionta. Ma sembra che a

suo tempo la morte di Titta provocò allarme nei servizi d'intelligence europei, tanto che i francesi

ottennero di misurare il cadavere per accertare che si trattasse proprio dell'ufficiale del SISMI. Che

fosse un vero infarto, furono in pochi a crederlo.

Molte dunque furono le segnalazioni attorno a via Gradoli. Fatto certo è che il 18 marzo 1978, due

giorni dopo il sequestro, la palazzina fu interamente perquisita dalla polizia ma gli agenti, tre

uomini e una donna, giunti di fronte all'interno 11, dopo aver suonato il campanello, proseguirono

come se si trattasse di un controllo di routine. Invece erano andati lì perché, tra il 16 e il 17 marzo,

era giunta al ministero degli Interni una telefonata anonima che segnalava l'esistenza di un covo

brigatista proprio in via Gradoli. Insomma, era un'ispezione mirata e non uno dei tanti controlli di

quei giorni. Ma la polizia preferì fare irruzione nell'appartamento accanto, dove abitava, per una

semplice coincidenza, un'informatrice del SISDE, Lucia Mobkel, la quale approfittò dell'irruzione

per inviare un'informativa al commissario della Pubblica Sicurezza Elio Cioppa (p2) - il suo punto

di «contatto» con il servizio - nella quale affermava che la notte precedente i suoi vicini di casa

(quelli dell'interno 11) l'avevano tenuta sveglia a causa di un'incessante attività di trasmissione in

alfabeto morse, tecnica che la giovane di origini egiziane aveva l'aria di conoscere bene. Un

elemento in più per far tornare gli agenti sui loro passi e abbattere l'uscio, e invece non accadde

niente. Di quelle perquisizioni agli atti del processo Moro c'è un rapporto, ma evidentemente

retrodatato visto che è stato stilato su fogli intestati «Dipartimento di Polizia», una definizione in

vigore soltanto dall'81. Tre giorni dopo, il 21 marzo 1978, a quattro giorni dalla strage di via Fani, la

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polizia tornò ancora in via Gradoli, ma solo per fare irruzione nell'abitazione di un militante di

Potere Operaio, Franco Manni, che da quel momento si diede alla latitanza.

Nel comprensorio della strada, che era peraltro una via stretta e curva, chiusa al traffico e con una

sola uscita (quanto di meno adatto a una struttura clandestina), c'era un po' di tutto: sedi di

copertura dei servizi segreti, malavita sudamericana, comitati politici al limite della legalità. E a

quanto si scoprirà molti anni dopo, quando gli scandali travolsero il SISDE, ventisei appartamenti

risultarono intestati a tre società di copertura del servizio segreto civile. Insomma, il capo delle

Brigate Rosse aveva scelto una zona che evadeva anche le più elementari regole di anonimato e

sicurezza richieste per la sua attività. E per giunta l'ingegner Borghi, alias Moretti, era caduto in

bocca al lupo affittando un appartamento la cui proprietaria era in qualche modo legata a Dario,

l'agente (presunto) del KGB, e aveva come vicina di casa una spia del sisde! Segnalazioni su via

Gradoli hanno costellato tutta l'attività investigativa per oltre un mese, fino al 18 aprile, data della

clamorosa e pilotata scoperta della base brigatista, anche questa avvenuta in circostanze quanto

meno singolari! La polizia fece irruzione in seguito a una perdita d'acqua che aveva allagato

l'appartamento di sotto. A provocarla, dissero, era stata la doccia, lasciata "sbadatamente" aperta da

Moretti e Barbara Balzerani, che quella mattina erano usciti molto presto. Fu più difficile spiegare

la presenza di una scopa, trovata nella vasca da bagno, collocata in modo da indirizzare il getto

d'acqua verso una fessura del pavimento proprio per facilitare l'infiltrazione. Prima di approfondire

questo capitolo - che s'intreccia con la macabra messinscena delle ricerche del corpo di Moro nel

lago della Duchessa organizzata per quella stessa mattina - occorre dare qualche altra informazione

sul crescendo di segnalazioni che convergevano attorno alla base operativa.

Il deputato DC "Benito" Cazora, che abbiamo visto molto attivo e addolorato per la sorte del

Presidente, era ormai in costante contatto con Rocco Varrone e altri elementi della 'ndrangheta

calabrese, proprio nel tentativo di scoprire la prigione. E già nei primi giorni del sequestro fu

informato che Moro andava cercato sulla Cassia: «Mi portarono all'incrocio di via Gradoli e mi

sussurrarono: questa è la zona calda. Chiamai subito il questore, ma mi disse di aver fatto già

controllare porta a porta quella strada senza alcun esito». Gli agenti, come abbiamo visto, avevano

"saltato" soltanto l'interno 11. Tutto questo si è saputo nel corso degli anni e delle indagini

successive. Eppure Pecorelli, proprio in quei giorni scriveva: «I capi delle BR risiedono in

Calabria». Anche l'avvocato Rocco Mangia, noto penalista romano, aveva segnalato i sospetti di una

sua cliente al colonnello Varisco: la donna, che abitava nella palazzina IMTCO, gli aveva detto che

era rimasta colpita dal viavai di persone, anche in ore notturne, e dal continuo ticchettio della

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macchina da scrivere (forse l'alfabeto Morse), giungendo alla conclusione che la prigione di Moro

fosse proprio lì. Varisco non sembrò dar credito alla segnalazione, anche perché in quei giorni erano

in molti a sospettare dei vicini di casa. Ma la mattina del 18 aprile fu il primo ad arrivare sul posto e

più tardi, quando in Tribunale incontrò l'avvocato Mangia, lo rimproverò perché non era stato

abbastanza insistente. Un paio di notti dopo la strage, l'ormai noto Antonio La Bruna ricevette varie

telefonate da Francoforte. A chiamarlo era un suo ex collaboratore che in modo agitato lo sollecitava

ad andare in via Gradoli: «Quelli che hanno rapito Moro stanno lì». L'informatore era Benito

Puccinelli, presidente dell'Organizzazione Internazionale Opus Christi, una persona

assolutamente attendibile: Mi raccontò che in un garage, che poi si scoprì essere quasi di fronte alla

base (via Gradoli), c'era un'antenna collegata a un ponte radio che si trova nella zona del Lago della

Duchessa. L'antenna consente le comunicazioni con le colonne BR che operano al Nord.

La Bruna, a quanto rievocò in seguito, tentò di mettersi in contatto con il capo del SISDE Grassini

(p2), ma inutilmente: finì per inviargli un'informativa di cui non seppe più nulla.

Passo dopo passo, ci avviciniamo alla clamorosa conclusione di questo primo, cupo capitolo di

misteri. La notizia che c'era una base BR in via Gradoli era praticamente di dominio pubblico,

anche se tutti coloro che si stavano adoperando per arrivare alla sua scoperta finivano per essere

respinti. Era una battaglia sorda, senza esclusione di colpi, tra chi cercava di salvare Moro e chi

inseguiva altri, incomprensibili obiettivi. Fu così che il 2 aprile qualcuno, all'interno della DC e in

ambienti cattolici, decise di organizzare una «seduta spiritica». Tra i presenti c'erano Romano

Prodi, il professor Alberto Ciò e un pranoterapeuta, spacciato per medium, che sussurrò il fatidico

nome: «Gradoli, Gradoli...». Ma poiché non c'è peggior sordo di chi non vuoi sentire, quando

l'ennesima segnalazione sul covo BR, accompagnata da nomi così prestigiosi, finì sul tavolo del

ministro dell'Interno, la polizia organizzò a colpo sicuro una spedizione nel paesino del viterbese di

nome Gradoli. E questo pur avendo Noretta Chiavarelli, moglie di Moro, telefonato di persona al

questore De Francesco per fargli presente che poteva trattarsi di una strada: qualcuno le rispose che

era stato tatto un controllo sulle pagine gialle, senza esito. Una clamorosa bugia! Quel nome sugli

elenchi SIP c'era.

Nel corso del processo, Andreotti si limitò a fare questa considerazione: «Alla storia della seduta

spiritica io non ho mai creduto: penso invece che qualcuno dell'Autonomia di Bologna abbia fatto

filtrare la notizia, ma non potevano indicare la fonte, se no l'avrebbero messo nei guai». Eppure se a

via Gradoli la polizia fosse arrivata subito, se Moretti fosse stato arrestato durante i primi giorni del

sequestro, l'intera vicenda Moro si sarebbe risolta diversamente. Ne è convinto il giudice Rosario

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Priore, uno dei magistrati romani che istruì il processo Moro: Io torno spesso su via Gradoli proprio

perché se noi vi fossimo giunti fin dall'inizio, forse la storia del sequestro e delle Brigate Rosse

sarebbe stata diversa. Tutta la storia d'Italia sarebbe stata diversa [...]. Invece è stata una disfatta

enorme, perché sicuramente si sapeva di via Gradoli.

Lago della Duchessa Mezz'ora dopo la scoperta del covo di via Gradoli, alle nove e quarantacinque

del 18 aprile 1978, un redattore del «Messaggero», allertato da una telefonata anonima, recuperò da

un cestino di rifiuti di piazza Giuseppe Gioacchino Belli il Comunicato numero 7 delle Brigate

Rosse in cui si annunciava «l'avvenuta esecuzione del presidente DC Aldo Moro, mediante

suicidio». Il comunicato informava che il corpo del prigioniero si trovava impantanato nei fondali

limacciosi del Lago della Duchessa, a 1.800 metri di altezza, in località Cartore. Il comunicato era

patentemente falso, come confermò a colpo d'occhio il capo della digos Domenico Spinella. Ma al

Viminale per qualche ora si ipotizzò che potesse essere autentico e questo consentì di allestire una

mastodontica messa in scena, destinata a imprimere una forte accelerazione all'occulta strategia del

sequestro, che andò in onda nelle ventiquattr'ore successive su tutte le reti TV. Da quel momento

sembrò cessare ogni volontà, da una parte e dall'altra, di portare a compimento il sequestro Moro

senza ulteriore spargimento di sangue.

Quel 18 aprile lo spettacolo fu davvero desolante: sotto l'occhio vigile delle telecamere, il

procuratore De Matteo, il comandante dei vigili del fuoco Pastorelli, il vicecapo della Polizia

Emilio Santillo s'inerpicarono sui monti innevati del Lago della Duchessa, le cui acque erano

ricoperte da uno spesso strato di ghiaccio, con lo sguardo smarrito di chi non capisce cosa sta

facendo. Non ci volle molto per rendersi conto che si trattava di un macabro depistaggio, la cui

scenografia faceva da contrappunto alle mirabolanti scoperte che in quelle stesse ore, sempre sotto i

riflettori, si andavano facendo al civico 11 di via Gradoli.

Per Pecorelli non c'erano dubbi: la «troppo inequivocabile scoperta del covo» e la scenografia della

falsa esecuzione erano in evidente contrappunto. In un articolo dal suggestivo titolo "Diario

dell'irreale assoluto", Mino scrive: Un volantino anomalo, rachitico, frettoloso e recapitato in una

sola città annunzia l'avvenuta esecuzione per suicidio di Aldo Moro [...]. E qui passiamo all'altro

evento [...]. All'acqua gelata del Lago della Duchessa fa riscontro l'acqua corrente e dilagante della

doccia di via Gradoli [...] e i poliziotti si sono trovati davanti a un inequivocabile riassunto dei

connotati brigatisti del sequestro Moro.

Non aveva torto Pecorelli: quando gli agenti fecero irruzione in via Gradoli la scena che si presentò

ai loro occhi, del tutto improbabile se attribuita agli occupanti della casa, mostrò cassetti e armadi

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aperti, una decina tra mitra, fucili e pistole sul letto, proiettili disseminati dappertutto, due divise

dell 'Alitalia mescolate a copie di comunicati e volantini BR lasciati in bella vista per facilitare le

riprese televisive: ecco qui, sono proprio loro, quelli della strage di via Fani! Nella confusione non

mancarono elementi di grande rilievo investigativo, che però furono lasciati cadere nel più totale

disinteresse. Come quei proiettili 7,65, dello stesso tipo usato in via Fani: la perizia accertò che

trentanove dei novantadue bossoli recuperati sul luogo della strage provenivano da uno stock di

munizioni in dotazione a «forze armate non convenzionali». In un appunto della questura di Roma

datato 21 settembre 1978 è scritto: «Dagli esami effettuati dai periti risulta che le munizioni usate

provengono da un deposito dell'Italia settentrionale, le cui chiavi sono in possesso di sole sei

persone».

Un deposito Gladio, evidentemente, dove il particolare che caratterizza armi e proiettili è il colore

verdognolo del liquido antiruggine usato per proteggerli dall'umidità del terreno. In via Gradoli

c'era lo stesso tipo di proiettili, usato sia in via Fani che in via Tacito per uccidere Pecorelli. Lo

stesso tipo di proiettili 7,65 (per essere precisi 7,62, un calibro che non era più in fabbricazione)

furono allegati alle false schede trovate nel borsello sul taxi, e fabbricate da Toni Chichiarelli, il

falsario della Banda della Magliana.

La mutata strategia del sequestro Una settimana prima della provvidenziale perdita d'acqua

all'interno 11 di via Gradoli erano accaduti fatti nuovi. Il 10 aprile le BR avevano divulgato, con il

comunicato numero 5, un pesante attacco di Moro a Paolo Emilio Taviani, considerato l'uomo degli

accordi segreti con gli USA su Gladio e lo Stay Behind. Il presidente DC segnalava gli importanti

incarichi ministeriali ricoperti da Taviani tra cui, per la loro importanza: il ministero della Difesa e

degli Interni, tenuti entrambi a lungo con tutti i complessi meccanismi, centri di potere e

diramazioni segrete che essi comportano [...]. In entrambi gli incarichi ricoperti egli ha avuto

contatti diretti e fiduciari con il mondo americano.

Non sappiamo cosa altro abbia scritto Moro, perché proprio questo è uno dei paragrafi ampiamente

censurati del Memoriale. In ogni caso, le sue affermazioni avevano creato il massimo allarme tra i

pochi che erano in grado di capirne le reali implicazioni. Il prigioniero, dal canto suo, mostrava di

temere che fossero scese in campo altre entità interessate alla sua liquidazione dalla scena politica e

anche "terrena". La lettera concludeva infatti con quell'interrogativo che abbiamo già anticipato:

«Vi è forse nel tener duro contro di me un'indicazione americana o tedesca?».

Quando ormai fu evidente che quella al Lago della Duchessa era stata una sceneggiata, l'attenzione

si appuntò su una serie di significati simbolici attribuibili alla data o ad altri elementi

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dell'agghiacciante scenografia allestita dai "manovratori occulti ". Il Lago della Duchessa, prescelto

per quella che Moro definirà «la macabra grande edizione della mia esecuzione», coincideva con

l'indicazione fornita precedentemente dall'informatore di La Bruna su quella misteriosa

ricetrasmittente, collegata all'antenna di via Gradoli, di cui le BR avrebbero potuto usufruire.

Qualcuno vi legge un'allusione a una Duchessa romana, che, come vedremo fra non molto, avrà un

ruolo particolarissimo nel sequestro Moro. Ma perché proprio il 18 aprile? Il 18 aprile del 1948 la

DC aveva vinto le elezioni confinando per i successivi trent'anni il PCI all'opposizione. Una vittoria

schiacciante, che aveva rassicurato gli americani e fatto recedere da ogni proposito di "separatismo"

in Sicilia. Qualcuno voleva sottolineare la sconfitta comunista e far capire che quello era e doveva

restare l'assetto definitivo del governo italiano? O voleva ricordare il debito di riconoscenza che i

poteri forti dovevano avere nei confronti della DC e invitare a recedere dall'intento di destabilizzare

il partito attraverso la diffusione delle rivelazioni di Moro nel Carcere del Popolo? Ogni ipotesi è

possibile.

In ogni caso, scriveva Pecorelli, la strategia delle due parti in causa era cambiata. Il volantino

numero 7, quello autentico, contraddiceva quanto affermato nel numero 5 [su Taviani] che

concludeva con il trionfante annuncio: «Nessuna trattativa resterà segreta, niente deve essere

nascosto al popolo» e facevano sapere che il Prigioniero aveva rivelato le turpi complicità del

regime, additato con fatti e nomi i veri e nascosti responsabili delle pagine più sanguinose della

storia italiana, messo a nudo gli intrighi di potere, le omertà che hanno coperto gli assassini di Stato,

indicato l'intreccio degli interessi personali, delle corruzioni, delle clientele [...] della putrida cosca

democristiana.

Nel Comunicato numero 7 la musica cambiava: «Non ci sono segreti che riguardano la DC, né

clamorose rivelazioni da fare». E concludevano: «Le informazioni in nostro possesso saranno

diffuse attraverso la stampa e i mezzi di divulgazione clandestina delle organizzazioni combattenti».

Ma neppure questo è mai avvenuto. E il Memoriale ritrovato, nelle due versioni, non rivela quanto

era stato anticipato.

Quando il 20 aprile le Brigate Rosse mandarono il "vero" Comunicato numero 7, definirono

l'operazione della Duchessa «una provocazione del potere» oltreché un tentativo d'interferenza

nella gestione del processo a Moro. Ma le BR avevano raccolto il messaggio e posero il primo

ultimatum: entro quarantott'ore si doveva procedere a uno scambio di prigionieri. La vita di Moro

in cambio della liberazione di tredici brigatisti detenuti. In mancanza di ciò il Tribunale del Popolo

avrebbe proceduto all'esecuzione della sentenza.

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Qualche riflessione. Dopo il comunicato numero 5 e il trionfale annuncio delle BR che Moro stava

pienamente collaborando all'interrogatorio, la strategia del sequestro muta completamente,

l'attenzione si sposta dal problema della liberazione del presidente DC alla necessità di impedire la

divulgazione di quello che Moro aveva rivelato: bisognava intercettare i verbali dell'interrogatorio.

La questione centrale diventa il Memoriale, anzi come recuperarlo. Il consulente americano Steve

Pieczenik, che fino a quel momento aveva collaborato con il Comitato di Crisi in qualità di esperto

di sequestri, decise di partire da Roma, per un motivo che solo recentemente ha spiegato: «Il mio

compito era quello di convincere il governo italiano che sarebbe stato un errore trattare con le BR.

Dopo il comunicato numero 5 era evidente che non ci sarebbe più stata alcuna trattativa, il mio

compito era esaurito».

Perché Moretti, se veramente voleva trattare, aveva fatto l'errore di scoprire le sue carte così presto?

Ma si trattò davvero di un errore? Forse aveva capito che da parte del governo non c'era alcuna

volontà di trattare sulla liberazione di Moro. Dunque spostò l'attenzione su un altro oggetto di

trattativa: le rivelazioni di Moro, cioè il Memoriale. Per questo, dopo aver ricevuto conferma

dell'interesse sul "secondo" ostaggio, si premurò di assicurare il silenzio in cambio di qualche

contropartita. Nel Comunicato numero 7, dunque, tentò di porre rimedio, facendo marcia indietro,

assicurando che Moro non aveva fatto alcuna rivelazione che meritasse di essere divulgata.

Quel "partito" che voleva Moro morto C'è un altro segnale della mutata strategia del sequestro

Moro. All'accelerazione posta dalle BR, con la conclusione dell'interrogatorio e l'emissione della

condanna a morte del prigioniero, fece da contrappeso la "ritirata strategica" della mafia da ogni

trattativa segreta. Una trattativa che, come già sappiamo, aveva il suo nodo nevralgico nel carcere di

Cuneo con la diretta partecipazione di boss mafiosi come Buscetta e gangster come Turatello e

Bossi. Ebbene, tutti i tentativi messi in atto per la liberazione di Moro subirono un improvviso e

autorevolissimo stop con l'intervento di Frank Coppola, detto Tre Dita, uomo di fiducia della mafia

americana in Italia, oltre che cugino di quell'Agostino Coppola che abbiamo già incontrato all'inizio

degli anni Settanta nella Loggia di Palazzo Giustiniani. Il boss, benché anziano e malato, ritenne

necessario intraprendere un faticoso viaggio da Latina, dove si trovava al soggiorno obbligato, fino a

Cuneo per parlare a quattrocchi con quanti si stavano adoperando per liberare Moro: doveva fargli

capire che in alto loco era stato deciso «che quell'uomo doveva morire». Tornato a Latina, Frank

convocò anche Rocco Varrone, il boss della 'ndrangheta che su mandato di Cazora stava cercando di

individuare la prigione. Il vecchio Coppola gli ordinò di interrompere la ricerca: «Di' ai tuoi amici

che i giochi sono finiti». Mentre Cutolo, che in più occasioni ha detto di aver saputo dalla Banda

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della Magliana dov'era la prigione di Moro, ricevette la visita del suo luogotenente Vincenzo

Casillo, latore di un messaggio di alcuni politici campani: «Don Rafè, faciteve 'e fatte vuost'».

Pochi giorni prima si era svolta a Palermo una riunione della "Commissione" di Cosa Nostra, la

cosiddetta Cupola, in cui naturalmente si discusse del rapimento BR. Bontate illustrò le iniziative

messe in atto, poi si rivolse a Pippo Calò che era appositamente sceso da Roma, dove operava a

stretto contatto con la Banda della Magliana, per chiedergli cosa intendesse fare: ne abbiamo già

parlato. Ma Calò si mostrò guardingo e insofferente. Alla fine sbottò: «Stefano, ma non l'hai ancora

capito che sono "loro" che lo vogliono morto?». Lo ha raccontato nel '93 Francesco Marino

Mannoia ai giudici di Palermo, quando nell'ambito del processo ad Andreotti si affrontò il capitolo

dell'intervento della mafia nel rapimento Moro. Sappiamo quale credito abbia riscosso Mannoia

presso i giudici d'Appello di Palermo. E anche qui la sua testimonianza s'incastra con quanto ha

raccontato Buscetta sui tentativi da parte di Ugo Bossi di farlo trasferire nel carcere di Torino,

dov'erano reclusi i brigatisti rossi. Quando, nell'80, Masino uscì dal carcere e cercò di saperne di più

su cosa era accaduto all'esterno durante il sequestro Moro, Bontate fu evasivo. «Ormai era "acqua

passata". Ma certo a chiedere a Bontate di interessarsi della liberazione di Moro, non potevano che

essere stati i Salvo e quindi Giulio Andreotti», ha raccontato al processo. Nelle sue parole c'è la

conferma che Andreotti si era adoperato in una prima fase per salvare Moro. Ma la notizia che il

prigioniero stava collaborando con le BR e che gli stava rivolgendo gravi accuse, lo avrebbe fatto

recedere da ogni iniziativa. Di questo almeno si sono convinti i giudici di Perugia, anche se si tratta

soltanto di una deduzione.

Al processo Pecorelli, Buscetta ha parlato delle intercettazioni che Ugo Bossi, il gangster che aveva

cercato di spedirlo a Torino a trattare con le BR, gli avrebbe fatto leggere in carcere: erano

trascrizioni di telefonate mai fatte pervenire ai magistrati che si occupavano di terrorismo; furono

persino escluse dal processo sui rapimenti di persona in cui erano coinvolti i coimputati di Bossi.

Spiegò Buscetta: «Se ho capito bene, ma non m'intendo di queste cose, le telefonate furono escluse

perché c'era qualcosa che riguardava i servizi segreti. Ricordo una telefonata tra Bossi e un politico

che diceva: «Sono loro che non lo vogliono liberare a Moro», Il politico era Vitalone e Buscetta

precisa: «Io non so se oltre a questo Vitalone ce n'è un altro, ma il Vitalone della telefonata parlava

come esponente politico della DC». Ecco di nuovo quel "loro" che ritualmente torna al crocevia di

ogni grande mistero. Chi sono "loro"? Quale cupola, quale Piramide Superiore, quale entità

nasconde questa allusione? Finora, non c'è stata occasione per spiegare chi fosse Ugo Bossi e per

quale motivo abbia assunto nel carcere di Cuneo il ruolo chiave di gestire la trattativa tra malavita e

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Brigate Rosse. Le sue storie giudiziarie lo mostrano legato sia a Francis Turatello che a Cutolo e a

Frank Coppola, ma da altre vicende appare chiaro che godesse di un autonomo prestigio che

sembrava discendere dai suoi rapporti con la massoneria. Tra il 70 e il 72, pare sia stato proprio un

certo Ugo Bossi il ricettore di assegni, a lui intestati, che ambienti industriali versarono al Grande

Oriente d'Italia per finanziare iniziative volte a dividere le organizzazioni sindacali dopo i successi

dell'autunno caldo.

Quanto al Vitalone menzionato da Buscetta, dovrebbe trattarsi di Claudio, il magistrato coinvolto

con Andreotti nel processo Pecorelli, e non del fratello Wilfredo, che fa l'avvocato. Il PM romano si

era evidentemente attivato per liberare Moro su indicazione di Andreotti. Nel precedente paragrafo,

ho omesso un particolare: la fantomatica messinscena del Lago della Duchessa fu, almeno in parte,

ispirata da una proposta di Vitalone che lui stesso ha poi svelato: Sì, ero convinto che bisognasse

recare un'opera di disturbo alle Brigate Rosse. Ecco, io avevo detto a Cossiga (all'epoca ministro

degli Interni): chiamate i servizi, fate un regolare rapporto incartato all'autorità giudiziaria,

inventate qualcosa che li costringa a cambiare soggetto. Se stiamo fermi di fronte alla scacchiera non

succede niente, se lasciamo muovere i pezzi soltanto all'avversario la battaglia è persa.

L'idea sembrò piacere a Cossiga, ma Vitalone non ne aveva saputo più niente: «Quando ho visto che

il messaggio BR era falso, capii che qualcuno aveva messo in atto la mia idea e rimasi molto stupito».

Quanto al ruolo di Calò, Buscetta aveva una sua personale convinzione che ha riassunto così: «Calò

faceva parte di un partito tutto suo, che non voleva Moro vivo...». Nel corso della riunione della

"Commissione", a schierarsi contro Bontate e i suoi progetti di salvezza fu in realtà l'intero

schieramento corleonese, capeggiato da Totò Riina. Ma il fatto che il pentito abbia posto l'accento

sul ruolo di Calò sta a significare che il movente della decisione andava cercato nella linea indicata

dai referenti romani del boss. Insomma la "ritirata strategica" di Cosa Nostra dall'affare Moro non

sembra una decisione autonoma: piuttosto il risultato di pressioni e interessi molteplici.

Due anni dopo, a uscire vincente dalla guerra di mafia fu proprio "il partito che voleva Moro morto".

E fu Calò l'ago della bilancia dei nuovi equilibri mafiosi: palermitano doc, capofamiglia di Porta

Nuova, decise che era venuto il tempo di tradire la vecchia mafia per schierarsi con i viddani, ovvero

i corleonesi di Totò Runa. E questo avrà un riflesso anche sui delitti politici di Palermo. Bontate,

che voleva Moro vivo, venne invece ucciso nel settembre '81, la notte del suo quarantunesimo

compleanno, mentre era solo alla guida della sua auto. Un agguato che segnò la fine di un'era e

l'inizio di un nuovo ciclo mafioso, quello di Totò Riina, culminato con le stragi di Capaci e via

D'Amelio.

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I giudici di Palermo hanno chiesto ai pentiti, e in particolare a Giovanni Brusca, che per un certo

periodo tenne i rapporti tra Riina e i cugini Salvo, come mai i corleonesi nella guerra di mafia

avessero risparmiato sia i cugini di Salemi che lo stesso Lima, legati al vecchio schieramento. La

risposta fu che erano troppo preziosi per i loro rapporti con Andreotti e la possibilità di intervenire a

Roma, direttamente, su questioni di interesse mafioso. Furono salvati per tentare di instaurare

quegli agganci con la politica che i corleonesi non avevano, ma di cui la mafia non poteva fare a

meno. È un altro dei tanti teoremi sostenuti dall'accusa contro Andreotti. Un teorema in parte

caduto con l'ultima sentenza: i giudici d'appello di Palermo ritengono che i corleonesi non avessero

un loro "referente" in grado di dialogare con Andreotti: Lima e i Salvo non erano affidabili e

Ciancimino non era all'altezza. E infine Andreotti non era più disponibile: aveva capito quanto

fosse pericolosa la mafia! Falcone, negli ultimi tempi, usava ripetere una frase che è stata spesso

equivocata, o forse volutamente equivocata, come spesso gli accadeva: «E la mafia ora a comandare

la politica, è lei che impone le regole perché è più forte». C'è chi lesse in queste parole una sorta di

"assoluzione" della politica da parte del giudice. Falcone aveva invece intuito come il

coinvolgimento dei boss da parte dei poteri forti nei misteri e nelle trame di Stato avesse dato spazio

a manovre di ricatto che avevano finito per invertire i rapporti di forza, rompendo quel tacito patto

tra DC e mafia sancito nel '48.

Nel Carcere del Popolo, mentre lo Stato (e la mafia) facevano un passo indietro, allontanandolo

dalla salvezza, Moro sembrava perfettamente informato di quello che accadeva all'esterno, sapeva

che più nulla poteva sottrarlo alla morte e che gli spazi di trattativa per la sua liberazione si erano del

tutto chiusi; in una lettera alla moglie, il 5 maggio scrive: Mia dolcissima Noretta, credo di essere

giunto all'estremo delle mie possibilità e di essere sul punto, salvo un miracolo, di chiudere questa

mia esperienza umana. Gli ultimi tentativi, per i quali mi ero ripromesso di scriverti, sono falliti [?]

Non sembra ci sia via d'uscita. Mi resta misterioso perché è stata scelta questa strada rovinosa, che

condanna me e priva di un punto di riferimento e di equilibrio. Già ora si vede che vuoi dire non

avere una persona in grado di riflettere. Questo dico senza polemica, come semplice riflessione

storica [...] pacatamente dirai a Cossiga che sono stato ucciso tre volte, per insufficiente protezione,

per rifiuto della trattativa, per la politica inconcludente, cosa che in questi giorni ha eccitato l'animo

di coloro che mi detengono.

Via Montalcini, la presunta prigione La scoperta del covo di via Gradoli avrebbe avuto, come

immediata conseguenza, il trasferimento di Moro in un'altra prigione. Questa almeno era la voce

che circolava in quei giorni e che trova riscontro nelle indagini. «Questi calabresi dissero che il 18

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aprile lo statista fu spostato da una prigione all'altra. Prima sarebbe stato tenuto sulla Salaria, a

Vescovio, in un covo scoperto soltanto nel 79. Poi durante la farsa del Lago della Duchessa lo

avrebbero portato alla Magliana», è ancora Cazora che parla.

Le sue fonti, infatti, gli avrebbero indicato una prima prigione, successivamente identificata con un

casolare attrezzato per i sequestri di persona. Il covo fu scoperto il 21 luglio 1979 a Piani di

Vescovio, in provincia di Rieti;ma si riuscì a provare soltanto che la base era frequentata da militanti

dei COCORI, i Comitati Comunisti Rivoluzionari, un gruppetto della galassia eversiva romana.

Non è ben chiaro se, a dire dei "calabresi", il trasferimento fosse in qualche modo coordinato alla

duplice messinscena del 18 aprile o più semplicemente accelerato, per timore che la prigione venisse

scoperta. Resta il fatto che, a un quarto di secolo da quei terribili giorni, è ancora un mistero quale

sia stata la prigione dove lo statista è rimasto per ben cinquantatré giorni. O le prigioni, se vogliamo

seguire la mappa dei sassolini disseminati lungo il percorso da seminatori ignoti, al puro scopo di

confondere le acque. Anche i giudici di Perugia esprimono il rammarico di non aver potuto scoprire

la prigione del presidente DC.

Al momento ci occuperemo della prigione presunta, quella in via Montalcini, su cui alla fine è stato

"aggiustato"un pateracchio giudiziario il cui scopo era evidentemente quello di distrarre l'attenzione

dalla prigione vera. Dal punto di vista della nostra storia (che non è la ricostruzione del delitto

Moro, ma dei riflessi che questo ha avuto nella vicenda processuale di Andreotti), la prigione

assume un ruolo molto importante perché, secondo Pecorelli, Dalla Chiesa l'avrebbe scoperta. E

con essa il santuario dov'era custodita una verità terribile per le sue implicazioni politiche e per la

sicurezza del paese. Un segreto "inconfessabile", che il generale forse tentò, qualche mese dopo, di

utilizzare per garantirsi la sopravvivenza.

A Roma, nella zona della Magliana, in via Montalcini 8, interno 1, c'è un appartamento al primo

piano con pesanti inferriate alle finestre e un giardinetto. La prigione dei misteri è in quest'anonimo

palazzo della periferia romana. Nonostante le contraddizioni dei brigatisti e le molteplici, negative

testimonianze dei funzionari dell'uci GOS che avevano controllato la zona durante il sequestro, che

la prigione Moro sia questa è ormai una certezza giudiziaria blindata. Ma di fatto è una certezza

molto labile, visto che, quando è stato finalmente individuato, l'appartamento era già stato venduto

e ristrutturato, e con la "cella" interna era stata cancellata ogni possibile prova.

Della prigione alla Magliana si cominciò a parlare nel giugno '78, un mese dopo la morte di Moro.

La signora R, che abitava al secondo piano di via Montalcini, era da molti giorni insonne e agitata.

La mattina del 9 maggio, scendendo nel garage, aveva intravisto il parafango di una vettura che le

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sembrò quello di una Renault rossa con a fianco due uomini. Altri segnali l'avevano convinta che

all'interno 1 si nascondessero ancora indisturbati gli assassini di Moro. Quando in televisione

apparve una Renault, con il cadavere di Moro nel bagagliaio, la donna fu colta da un sospetto che

finì per contagiare anche i vicini di casa. Fu così che si confidò con un parente, l'avvocato Mario

Martignetti, che a sua volta si rivolse a un autorevole amico, il ministro per il Mezzogiorno Remo

Gaspari, democristiano, che a sua volta ritenne opportuno informare Virginio Rognoni, da pochi

giorni subentrato ad Andreotti nell'incarico di ministro degli Interni che il presidente del Consiglio

aveva ricoperto ad interini per circa quaranta giorni. A proposito, i malvagi sostengono che tutti i

documenti raccolti dal Comitato di Crisi nei cinquantacinque giorni del sequestro Moro sparirono

proprio in questo interregno.

Il ministro Rognoni prese in considerazione la segnalazione. Questa un fondamento in effetti

l'aveva: l'appartamento era di Anna Laura Braghetti, una studentessa che all'epoca risultava

schedata come estremista di sinistra; si scoprirà poi che faceva parte delle BR. Rognoni affidò

all'uciGOS le indagini, ma un mese dopo andò a trovarlo Dalla Chiesa, che si aggirava per le stanze

del Viminale cupo e meditabondo, soprattutto disoccupato. L'UCIGOS non aveva scoperto

granché, così Rognoni fu fulminato da un'idea: «Tempo fa c'è stata una segnalazione interessante,

perché non te ne occupi tu?». È una versione ufficiosa, forse data per giustificare quello strano

incarico a Dalla Chiesa che in quel momento non rivestiva alcun ruolo ufficiale, anche se di lì a poco

avrebbe riottenuto le redini dell'Antiterrorismo. Naturalmente all'uciGOS, ufficio diretto da

Umberto Improta, s'infuriarono, ma sono cose che accadono nelle migliori famiglie.

Il problema è che sulla zona della Magliana si erano nell'ultimo mese coagulate troppe voci

convergenti e ora si aggiungevano anche i sospetti dei vicini di casa: tutto congiurava per rendere

credibile la pista della prigione in via Montalcini. Fu così che Dalla Chiesa all'inizio di agosto andò

in quello stabile, interrogò tutti gli inquilini, ma si fermò di fronte alla porta chiusa dell'incensurata

Braghetti. Gli inquilini non l'avevano più vista: era estate, la studentessa poteva essere in vacanza,

insomma nessuno si assunse la responsabilità di abbattere l'uscio, neppure il generale. Strano,

perché i controlli non avevano risparmiato privati cittadini, meno sospettabili di Anna Laura. Alla

fine di settembre, l'indagine fu conclusa con un rapporto che venne misteriosamente retrodatato alla

fine di agosto: «Nulla di sospetto in via Montalcini». E il generale riebbe la nomina di capo

dell'Antiterrorismo.

Il 4 ottobre, Anna Laura Braghetti fece fagotto, smantellando la prigione, se mai c'era stata. In ogni

caso pannelli insonorizzati, telecamere, video a circuito interno e quant'altro facesse parte della

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"struttura" non sono stati mai più trovati. Quando arrivò il camion dei traslochi, un inquilino

telefonò all'uciGOS per dare l'allarme. «Spiacente, non siamo più noi a occuparci dell'indagine»,

rispose piccata una funzionaria.

Moretti, il capo delle "vere" BR Di via Montalcini nessuno più si occupò per almeno un paio d'anni.

L'appartamento fu venduto e nell'82 quando Imposimato, condotto lì da Valerio Morucci, suonò

finalmente quel campanello, trovò all'interno soltanto due anziane signore che avevano

completamente ristrutturato l'immobile. Morucci, il postino delle BR, che fino a quel momento

aveva detto di ignorare dove il commando avesse portato Moro dopo l'agguato in via Fani,

improvvisamente fu in grado di offrire un'indicazione precisissima. Di tutta questa storia non

restavano che un paio di rapporti di polizia e la certezza che l'appartamento fosse appartenuto ad

Anna Laura Braghetti. Nessuno dei vicini aveva mai incontrato Prospero Gallinari, indicato come il

«carceriere» fisso dello statista, e neppure Moretti. Il primo non sarebbe mai uscito dall'alloggio

durante i cinquantacinque giorni, l'altro raccontò di essere andato in via Montalcini quasi ogni

giorno: «Ma entravo in ore in cui nessuno poteva incontrarmi». Quali prove abbiamo oltre ai

sospetti degli inquilini e alla parola dei dissociati? Nessuna, in verità. Se non che nella sua

autobiografia, affidata alla penna di due giornaliste, Carla Mosca e Rossana Rossanda, Moretti

fornirà una versione inedita della pagina più tragica del sequestro Moro assumendosi la paternità

dell'esecuzione: «Sono stato io a sparargli», ha detto scagionando definitivamente Prospero

Gallinari.

Il capo delle Brigate Rosse ha confessato "privatamente" quello che non aveva mai voluto raccontare

ai magistrati, ovvero l'intera sequenza dell'omicidio Moro, a suo dire avvenuto nel garage di via

Montalcini. Fino a quel momento, ben quattro processi si erano basati sul teorema che l'esecutore

materiale fosse Prospero Gallinari, il migliore dei possibili killer, il più autentico dei brigatisti

storici, il più adatto al copione di un rapimento interamente gestito dalle BR. Moretti raccontò di

aver sparato quando Moro era già sdraiato nel bagagliaio della Renault rossa, alla presenza dei soli

Gallinari e di un terzo brigatista che più avanti si rivelerà essere Germano Maccari. Neppure a un

professionista del crimine o a un delinquente abituale sarebbe stato facile sparare a sangue freddo a

un uomo con il quale si era condivisa un'esperienza tanto drammatica: era stato proprio Moretti a

raccontare di essere stato l'unico interlocutore del presidente DC durante i cinquantacinque giorni.

La cupa scenografia del delitto che ci ha consegnato il capo delle BR per tanti motivi non è

considerata veritiera: i periti hanno sempre affermato che a infliggere il colpo di grazia era stato un

secondo sparatore. Moretti afferma invece di aver cambiato arma, passando dalla mitraglietta

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Scorpion a una pistola calibro 9 lunga. E dice, particolare importante, che tutte e due le armi erano

munite di silenziatore. La Braghetti, chiamata in seguito a confermare la versione, ha fornito altri

dettagli: «Io non sono scesa nel garage, ma ho sentito distintamente sparare un paio di colpi d'arma

da fuoco, mentre ero in casa». Come poteva Anna Laura Braghetti udire i due colpi di pistola,

mentre si trovava nell'appartamento al piano superiore, se le armi erano state silenziate? La

brigatista in realtà è stata costretta ad attenersi al risultato della successiva perizia, secondo la quale

due dei nove colpi erano stati sparati senza silenziatore. Il rischio delle rivelazioni postume, quando

troppi dettagli sono noti, è che qualche volta il rammendo rivela che si tratta di verità concordate.

Le perizie affermano anche che Moro sarebbe stato ucciso in un'ora successiva a quella indicata

dalle BR, ed era in piedi, non sdraiato all'interno della Renault. Moretti, il capo "visibile" delle vere

BR, potrebbe essere stato costretto a coprire, nel tragico epilogo, un compagno di cordata di quel

"partito invisibile" la cui ombra affiora costantemente soprattutto nell'ultima fase del sequestro.

Ma chi ha deciso che Moro doveva morire? Anche a questa scelta Moretti, che si presentava alle

riunioni con i comunicati già scritti, afferma di essere approdato da solo. Dice Valerio Morucci: «Se

il 30 aprile, quando si riunì il Comitato in Toscana, la telefonata non era ancora stata fatta [quella

che annunciava l'avvenuta sentenza di morte], allora vuole dire che è stata presa dal Comitato». I

brigatisti della Direzione Strategica si erano limitati a ratificare una decisione che veniva presentata

dal capo delle BR come l'unica possibile, benché Morucci e Faranda si fossero dichiarati contrari

all'esecuzione e all'esterno i leader dell'autonomia capeggiassero la rivolta nelle assemblee per

scongiurare il delitto. Da chi prendeva ordini Moretti? Non ho mai pensato che il capo delle BR

fosse un infiltrato, un avventuriero e tantomeno un imbecille. Era solo il capo delle "vere" Brigate

Rosse, cadute in una trappola alla quale non erano riuscite a sfuggire. E forse questa trappola si

chiamava Hyperion.

Il "quarto uomo" Sul citofono di via Montalcini compariva, accanto al nome della Braghetti, anche

quello dell'ingegner Altobelli. Per anni, attorno alla misteriosa identità del coinquilino si è andata

costruendo la leggenda del "quarto uomo", dietro il quale si celava quel misterioso personaggio di

cultura e preparazione superiori che avrebbe condotto l'interrogatorio di Aldo Moro. All'inizio degli

anni Novanta, grazie alla testimonianza di Adriana Faranda, si scoprì che Altobelli era in realtà

Germano Maccari, un nome fino a quel momento rimasto nell'ombra. All'inarca nello stesso

periodo, Moretti, nell'autobiografia, associò Maccari alla fase esecutiva del delitto Moro: era lui

l'altro uomo che, senza sparare, aveva presenziato alla fucilazione dello statista; poi in compagnia di

Moretti si era accodato al corteo funebre diretto dalla Magliana a via Caetani.

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A dire la verità, la biografia di Maccari, non è esattamente quella di un brigatista doc: borgataro, al

momento dell'arresto viveva di espedienti. In anni giovanili aveva bazzicato ambienti estremisti, ma

non risulta abbia mai fatto parte organicamente delle BR. Molto probabilmente era un amico della

Braghetti e per un certo periodo aveva condiviso con lei l'appartamento assumendosi anche l'onere

del contratto della luce: la perizia calligrafica risultò positiva. Dirò subito, per sgomberare il campo

dagli equivoci, quello che penso: Maccari era certamente il signor Altobelli, ma non il quarto uomo.

Risulta che via Montalcini, non molto tempo prima del sequestro Moro, fosse una delle tante case

dell'autonomia romana frequentate dai "compagni" del movimento. Erano in molti a partecipare

alle riunioni che ogni tanto si facevano lì, ma anche ad andarvi a cena per una pizza in compagnia.

Molto probabilmente Maccari ci abitò per qualche tempo: ma proprio questa circostanza rende

molto difficile credere che Moro possa essere stato tenuto prigioniero in un ambiente come questo,

noto a moltissimi. Anche il giudice Rosario Priore di recente ha avanzato dei dubbi sul fatto che via

Montalcini fosse la vera prigione: Bisogna riesaminare l'autopsia di Moro. Gli esami peritali hanno

escluso che il presidente DC possa aver alloggiato in un luogo tanto angusto per cinquantacinque

giorni, come quella cella due metri per due di cui ha parlato la Braghetti. Il prigioniero, certamente,

aveva a disposizione uno spazio abbastanza ampio da stare in piedi e camminare: i suoi muscoli

erano in stato soddisfacente, il suo aspetto curato, come quello di chi ha la possibilità di fare una

doccia.

Del resto, molto confuse sono state le testimonianze dei tre brigatisti anche sull'arrivo di Moro in

via Montalcini; il quarto, Gallinari, per fortuna non ha mai parlato. Secondo Moretti, sarebbe stata

addirittura la Braghetti da sola a caricare in auto la cassa con l'ostaggio e a guidare fino a casa. Lei,

poveretta, smentisce: dice di aver pazientemente atteso i compagni, seguendo l'esito del rapimento

in televisione, e di essere andata loro incontro quando ha sentito arrivare la macchina. Per primo

sarebbe sceso Maccari, il quale sostiene invece di essere arrivato da solo, a piedi.

Anche Pecorelli sentiva puzza di bruciato nella storia del quarto uomo e, anche se all'epoca a

nessuno era ancora venuto in mente di indicare Maccari, qualcuno ne aveva già fatto l'identikit:

«Un'equipe di esperti ha analizzato il testo del messaggio consegnato dalle BR. L'autore dello scritto

è un italiano», scriveva Mino il 28 marzo 1978, «l'uomo, probabilmente il cervello delle BR, è di

intelligenza e di conoscenze superiori alla media, estremamente lucido nel pensare come nell'agire.

Confrontato con alcuni testi prodotti da Renato Curcio, il messaggio dei rapitori di Aldo Moro

presenta un linguaggio più evoluto, consapevole di più ampi scenari politici, economici e militari».

Una delle sue solite azzeccate premonizioni. Poco tempo dopo, quando cominciarono a circolare i

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nomi di Patrizio Peci e Alvaro Loiacono, il quale, a quanto pare, era in effetti in via Fani anche se

all'epoca aveva poco più di diciotto anni, Pecorelli, con il suo tipico sarcasmo, scriveva: «Cultura

superiore, quoziente intellettuale altissimo, estrazione medio borghese, tale da far presumere

trattarsi del vero cervello delle BR, età presumibile: diciotto anni».

Sull'equivoco iniziale, Altobelli - cervello delle Brigate Rosse - si era giocato troppo a lungo e per

una mirabile geometria delle rivelazioni, lo stesso giorno in cui il pentito Morabito, nel '92, disse

che in via Fani c'era il boss Nirta, l'ex brigatista Adriana Faranda, pur con qualche rimorso, fece

finalmente il nome dell'ex militante dei FAC, un gruppo terroristico minore. Il povero Maccari

all'inizio ha negato ogni coinvolgimento, poi improvvisamente ha accettato di calarsi nei panni del

"quarto uomo", anche se non sempre la sua interpretazione è risultata convincente. Fin quando, nel

2002, un infarto lo ha stroncato di notte, in una cella di Rebibbia dove dormiva da solo, un paio di

mesi dopo la conferma della condanna a ventisei anni di reclusione che lo avrebbe tenuto in carcere

per molto tempo. I giudici non avevano considerato il suo "tardivo" pentimento di tale rilevanza da

concedergli più sostanziosi sconti di pena; le cose che aveva raccontato non aggiungevano nulla a

quanto già detto da altri collaboratori. Se Maccari aveva ricevuto delle promesse, queste non erano

state mantenute. È morto portando con sé il suo segreto, se mai ne ha avuto uno.

Decreto Nomine Qual è stato il vero ruolo di Dalla Chiesa in questa vicenda? Il suo comportamento

in quel periodo è un vero rebus. Il rapporto con il quale archiviò l'indagine su via Montalcini era

datato alla fine d'agosto, in coincidenza con la nomina che lo reintegrava a capo dell'Antiterrorismo.

Ma uomini della sua squadra continuarono a interrogare gli inquilini anche nei primi giorni di

settembre. Scriveva Pecorelli che Dalla Chiesa applicava il principio «meglio la gallina domani, che

l'uovo oggi»: preferiva non intervenire subito, per fare poi un colpo più grosso. Ma in via Montalcini

«la gallina domani» non funzionò e la Braghetti fu libera di traslocare, nonostante le telefonate dei

suoi sospettosi condomini. L'unica spiegazione è che Dalla Chiesa sia intervenuto non per scoprire

il covo, ma per mettere tutto a tacere. Lui sapeva benissimo che la vera prigione di Moro era

un'altra, e non sarebbe mai stata trovata. Quella base alla Magliana poteva anche essere "congelata"

a futura memoria! Nel luglio 78 la Braghetti non ci viveva già più; ma davvero si può immaginare

che nessuno dei tanti spioni dei vari apparati, che si sono affollati attorno a quell'appartamento,

abbia sentito la curiosità di fare una capatina all'interno? La verità è che non c'era niente di

interessante: anzi, se avessero fatto irruzione sarebbe sfumata la possibilità di offrire una soluzione

postuma al problema della prigione, visto che era "impossibile" scoprire quella vera. Che Anna

Laura facesse pure il suo trasloco! E torna alla mente l'appunto trovato sul block-notes di Pecorelli:

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«Dalla Chiesa, Senato, Decreto Nomine firmato dal 318 [...]. Cose grosse si muovono nel campo

delle Brigate!». Il 31 agosto, la stessa data del rapporto su via Montalcini... Anche al giornalista

riusciva difficile raccapezzarsi. In quella situazione caotica, Dalla Chiesa, diavolo di un uomo, era

tornato a capo dell'Antiterrorismo. Come aveva fatto? Il mancato blitz, la mafia e i servizi Le

indagini attorno alla presunta prigione di via Montalcini si svilupparono dunque nell'arco di tre

mesi, tra l'inizio di luglio e la fine di settembre del 78; la scoperta del covo di via Montenevoso a

Milano avvenne invece nella prima settimana di ottobre. Ed è lì che Dalla Chiesa trovò le "carte

segrete". Se ci addentriamo nei meandri di questa ricostruzione, alla quale mostrano di credere i

giudici di Perugia, ci rendiamo conto che il ritrovamento del Memoriale era l'ultimo anello di una

lunga serie di intrighi di cui il generale era ormai depositario. Forse per questo molte delle sue

azioni appaiono incomprensibili all'esterno. Dalla Chiesa si era reso conto che era in gioco il suo

onore, forse anche la sua pelle, mentre la sicurezza dello Stato doveva apparirgli sull'orlo dell'abisso.

Anche se dopo via Montalcini si era illuso di poter vincere il nemico scendendo a patti con esso,

un'illusione che lo ha accompagnato fino alla morte. Una morte annunciata da Pecorelli,che aveva

previsto il "suicidio" del generale Amen senza sapere che lo avrebbe preceduto nella sua tragica

sorte.

Dalla Chiesa aveva chiuso i suoi segreti in una cassaforte mentre il giornalista andava spifferandoli

ai quattro venti: il gioco si era fatto insostenibile. In questo capitolo cercheremo di gettare qualche

luce sugli ultimi segreti del rapimento Moro, a partire da quel blitz che avrebbe dovuto consentire la

salvezza dello statista con un atto di forza senza dover trattare con i terroristi; un blitz che Dalla

Chiesa era pronto a compiere, stando a quello che afferma Pecorelli. Appena due anni dopo, del

resto, il generale americano James Lee Dozier fu liberato dai NOCS senza troppi problemi. Ma, nel

caso di Moro, chi si oppose e per quali motivi? Nell'ultima fase del sequestro, dopo il 18 aprile,

s'intravede la scesa in campo dei servizi segreti. E negli ultimi tre giorni circolò anche

insistentemente la voce che le Brigate Rosse, sotto assedio, non fossero più in grado di gestire

l'ostaggio e l'avessero ceduto alla malavita organizzata e che la trattativa fosse passata dal piano

politico a quello economico. È stato proprio Andreotti a confermare di recente, nel venticinquesimo

anniversario di via Fani, che il Vaticano era pronto a pagare il riscatto. Non è una storia nuova:

all'epoca si parlò di cinque miliardi. Il senatore, recentemente, ha invece rivelato che si trattava di

cinquanta miliardi, e a quel che si è riusciti a capire avrebbe dovuto consegnarli padre Enrico Zucca,

uno dei nomi che compaiono nella misteriosa struttura Anello. Padre Zucca è sempre stato uomo di

intelligence: alla fine della guerra trafugò la salma di Mussolini.

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La vedova di Moro disse di aver parlato personalmente con il pontefice, da tempo amico del marito:

«Mi disse che avrebbe fatto l'impossibile, e so che lo fece, ma trovò notevoli opposizioni. All'inizio

sembrò che si potesse fare qualcosa, poi improvvisamente... non so chi intervenne e ogni iniziativa si

bloccò». Paolo VI giunse a scrivere una lettera «agli uomini delle Brigate Rosse», chiese «in

ginocchio» di lasciare libero Aldo Moro, quel suo amico buono e giusto. Ma qualcuno suggerì al

papa di aggiungere due parole alla fine della lettera: «senza condizioni». E così il suo intervento fu

vanificato, si tramutò in un inutile appello. Il 9 maggio a Paolo VI non restò che recitare la

preghiera finale: «Ed ora le nostre labbra, chiuse come dalla grossa pietra rotolata all'ingresso del

sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il De Profundis, il grido cioè e il pianto

dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce».

L'ombra del ricatto della criminalità organizzata compare in questa fase e influirà pesantemente

negli anni successivi sulla vita politica italiana. Come peserà la mancata salvezza di Moro all'interno

della DC. Nulla in Italia sarà più come prima.

Gli ultimi tre giorni Far ricadere l'intera responsabilità del sequestro sulla manovalanza brigatista

consentiva di eliminare Moro dalla scena politica senza che venisse pagato un prezzo troppo alto dal

paese. Pecorelli aveva intuito che nella fase finale, forse gli ultimi tre giorni, gli oscuri manovratori

del sequestro avevano nuovamente messo in moto la malavita organizzata: «Moro può ancora

tornare... se la mafia non c'entra», scriveva. Poi, quando il governo a cose fatte decise di riaffidare

l'incarico al generale, Mino, superato il primo stupore, commentò: Era noto a molti che Dalla

Chiesa aveva conservato canali privilegiati, informazioni e contatti avviati a suo tempo. Perché non

lo si è chiamato dopo la strage di via Fani, quando Moro era ancora vivo nelle mani delle BR? Prima

di rivolgersi all'Arma dei Carabinieri, prima di unificare nelle mani di un tecnico

dell'Antiterrorismo, hanno preferito attendere che l'uva fosse matura e si compisse il peggio.

Il giornalista considerava un bluff tardivo il reincarico a Dalla Chiesa, perché così si continuava a

eludere il movente "politico": nessuno era davvero interessato a capire "perché" Moro era stato

rapito e ucciso.

Si limitano a correre dietro alle pistole cecoslovacche, alle borse tedesche, ai berretti

dell'Aeronautica, alle targhe diplomatiche e a tutti gli altri sassolini che Puccettino vorrà

disseminare [...]. Perché non si vuole che indagando sul passato di Moro si scoperchi una pentola il

cui contenuto potrebbe scottare la classe dirigente.

Il reincarico a Dalla Chiesa era stato accettato solo a patto che esso escluda la pista politica e

correndo dietro alle borse, ai berretti e agli appartamenti permetterà di mettere al fresco molta

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manovalanza, lasciando dormire sonni tranquilli ai politici che contano nel nostro paese e fuori. Ma

allora perché non affidare le indagini al commissario di quartiere? Quanto ai manovali del

terrorismo, non c'era troppo da preoccuparsi: «Interverrà l'amnistia che tutto verrà a lavare e a

obliare». Un'altra premonizione, che il tempo ha confermato.

E quando negli ultimi giorni del sequestro, girò la voce che il prigioniero fosse stato consegnato alla

malavita dalle BR, nel numero in edicola il 9 maggio 1978, proprio il giorno in cui Moro fu ucciso,

Pecorelli affermava: «E misterioso quello che potrebbe essere accaduto in questa fase. [...] Si dice

anche questo, che i malavitosi, i NAP, avrebbero voluto cedere il prigioniero per alcuni miliardi». I

NAP, Nuclei Armati Proletari, erano una formazione terroristica minore operante a Napoli,

fortemente infiltrata dalla camorra. Era stato il "lucido manovratore" a spostare l'attenzione, nelle

ultime ore, sull'ipotesi di una trattativa non più politica con le BR, ma di denaro con la malavita

organizzata? Certo, Cossiga reagì nel modo più drammatico alla notizia che Moro era stato ucciso e

che il suo corpo si trovava in via Fani: la sua fu autentica disperazione, incanutì di colpo e alcuni

testimoni gli attribuiscono una frase che non ha poi mai spiegato fino in fondo: «Mi avevano

assicurato che lo avrebbero liberato». Ma chilo doveva liberare? Negli ultimi giorni era sceso in

campo un mediatore abile, enigmatico e dal nome altisonante; ma la trattativa fallì quando ormai

Moro stava per essere liberato, perché «qualcuno aveva tradito i patti». Ne parleremo nelle pagine

successive.

L'Ufficio R in via Foà L'UCIGOS nei NAP aveva un informatore, nome in codice "Cardinale". Il 28

marzo, dodici giorni dopo il rapimento, Cardinale aveva inviato la seguente informativa: Teodoro

Spadaccini, anni trentacinque circa, pregiudicato, certo Gianni che lavora al Poligrafico, auto FIAT

126 targata Roma S04929, certo Vittorio, anni venticinque-trenta, auto AMI 8 targata Roma

F74048, Proietti Rino, attacchino del comune di Roma: tutti abitano nella zona della Prenestina e

frequentano la Casa della studentessa.

Furono disposte indagini, ma il rapporto arrivò al dottor Luigi Fariello, capo dell'UClGOS,

soltanto il 19 aprile, quando l'ufficio era sottosopra a causa della simultanea scoperta di via Gradoli

e della messinscena della Duchessa. L'informatore dei NAP aveva dato un'indicazione preziosa: fin

dai primi accertamenti risultò che le persone indicate da Cardinale frequentavano una tipografia di

via Pio Foà. Ma per una serie di dannatissimi ritardi la polizia arrivò a quest'indirizzo soltanto il 17

maggio, una settimana dopo l'uccisione di Moro: soltanto allora scoprì che proprio li le Brigate

Rosse stampavano i loro Comunicati. Scriveva Pecorelli, proprio sull'ultimo numero di «OP», sotto

il titolo "Aldo Moro un anno dopo": «La tipografia di via Pio Foà era conosciuta dagli investigatori

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prima di marzo, lo rivela il questore in una conversazione non ufficiale con i giornalisti: lì i brigatisti

manovravano con macchine offset, inchiostro e carta. Perché non si intervenne?».

Ma c'erano ben altri misteri in via Foà. Ad esempio la tipografia era dotata di macchinari che

risultarono provenire da apparati dello Stato. La stampatrice, una Ab Dik 360, valore di mercato

dieci milioni, cifra considerevole per l'epoca, risultava di proprietà del RUS (Raggruppamenti Unità

Speciali), una struttura i cui uomini venivano addestrati a Capo Marrargiu, la base segreta di

Gladio. Interrogato dalla Commissione Moro, su quali fossero i compiti del RUS, il capo del SISMI

Giuseppe Santovito fornì una spiegazione rassicurante: «L'ufficio RUS non ha niente di speciale,

addestra personale di leva, autisti, marconisti, per questo si chiamano unità speciali. Quella

macchina era fuori uso e venduta come rottame, sappiamo tutto: chi se n'è disfatto, chi l'ha venduta,

chi l'ha comprata, chi l'ha rimessa in ordine». Il colonnello Federico Appel, dell'Ufficio R, fu infatti

accusato di peculato per aver venduto al cognato, a 30.000 lire la stampatrice da 10 milioni poi finita

alle BR: il "rottame" aveva soltanto un anno di vita. Le indagini non ebbero seguito perché nel

frattempo il povero Appel passò a miglior vita, e la vicenda si concluse per morte del reo.

Un'epidemia, in quegli anni, stroncava prematuramente i migliori uomini della nostra intelligence.

Parliamo dunque dell'Ufficio R, misteriosa struttura il cui nome ricorre spesso nella vicenda che

stiamo raccontando. A riferirne per primo alla Commissione Stragi fu l'ex para Umberto Ravasio,

che raccontò di aver fatto parte di una squadra di sei persone addestrata ad entrare in azione in caso

di gravi disordini di piazza, capace di disattivare i centri di telecomunicazione in tutt'Italia in

brevissimo tempo e di compiere attentati anche all'estero. La sua squadra faceva capo proprio

all'Ufficio R del SISMI, una struttura di quattrocento persone, che dipendeva dall'Ufficio Controllo

e Sicurezza.

La squadra di Ravasio ha tutte le caratteristiche di un'"unità speciale" di Gladio. Ogni cellula di

gladiatori era infatti formata da sei persone. E dal luglio '77, data della riforma dei servizi segreti,

l'ufficio Controllo e Sicurezza era diretto dal generale Musumeci, lo stesso che aveva mandato in via

Fani il colonnello Guglielmi. Il colonnello era uscito molto provato, a quel che sappiamo, da quella

vicenda, così attivò la squadra di Ravasio alla ricerca della prigione Moro. Disse l'ex para che tra gli

infiltrati nelle BR, c'era anche tal Mauro B., un vigile del fuoco che lavorava all'aeroporto di

Fiumicino e che si era fatto vivo affermando di aver saputo che Moro si trovava in un casale poco

distante dal mare, messo a disposizione dalla Banda della Magliana. La squadra di Rambo sarebbe

riuscita a localizzare la prigione nella zona Aurelio-Boccea. Ma quando la notizia fu riferita "più in

alto" sembra abbia provocato reazioni violentissime all'interno del SISMI e, sempre a quanto

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racconta Ravasio, la squadra sarebbe stata immediatamente sciolta proprio per impedire che

proseguisse l'indagine. Musumeci assicurò che sarebbe intervenuto personalmente, ma a questo

punto il racconto del para finisce perché non ha mai più saputo niente dell'operazione.

Di un piano di attacco per la liberazione di Moro, proprio nella zona Aurelio-Boccea, si parlò in

varie occasioni. L'episodio ha un autorevole testimone nell'ex capo dello Stato Francesco Cossiga.

Nel '91, quando era ancora presidente della Repubblica, nel corso di una delle sue esternazioni,

mentre si trovava a La Spezia, rivelò che a un certo punto era sembrata imminente la liberazione di

Moro e che era stato allertato il Reparto Incursori della Marina. (Di questa vicenda restano agli atti

solo alcuni fax spediti dal Ministero della Difesa, mentre non ce n'è traccia al Viminale. La cosa non

deve stupire perché tutte le carte relative ai cinquantacinque giorni del sequestro risultano

scomparse). Fu in quell'occasione che Cossiga rivelò che erano stati elaborati due piani, "Mike" e

"Victor": "Mike" in caso di morte del prigioniero; "Victor", in caso di liberazione. In previsione di

questa seconda ipotesi, il reparto medico degli Incursori della Marina avrebbe avuto il compito di

trasferire immediatamente Moro in un centro clinico, prima di ogni contatto con i familiari e i

colleghi di partito. Proprio come accadrà tre anni dopo all'assessore Ciro Cirillo.

Della presunta irruzione e della possibilità di intervento del Reparto Incursori della Marina, agli

atti c'è un solo accenno del dirigente dei NOCS, i nuclei speciali antiterrorismo della Polizia di

Stato, Pasquale Schiavone,che raccontò di una riunione al ministero della Marina alla quale aveva

incontrato anche Dalla Chiesa. A che titolo era lì il generale, dal momento che non ricopriva ancora

alcun incarico ufficiale? Il sospetto, rimasto nel cassetto, è che fosse presente proprio perché era

stato lui a indicare il luogo dove Moro era detenuto. Anche il sottosegretario Francesco Mazzola

accenna a questa riunione nel libro Il giorno del diluvio, che in chiave fantastica racconta molti

retroscena del sequestro BR: nella sua storia l'irruzione fallisce perché si sa che Moro era già stato

trasferito in un'altra prigione.

Pecorelli in quei giorni manda dal suo «OP» pericolosi messaggi: «Sì, la trattativa c'è stata come per

i feddayn, Cossiga sa tutto e non parla, non parlerà mai, altrimenti...». E il 10 maggio 1978,

all'indomani dell'uccisione di Moro, scriveva: «Cossiga rimosso e forse promosso». Mino alludeva al

fatto che l'aver dato le dimissioni da ministro dell'Interno non poneva fine alla sua carriera politica,

che in effetti è poi arrivata al massimo vertice: la nomina a capo dello Stato. Sulla vicenda della

mancata irruzione nel covo mai individuato e sul dossier consegnato da Pierluigi Ravasio

all'onorevole Cipriani, la Commissione Stragi oppose il segreto di Stato. In seguito, convocato dai

magistrati, l'ex para del RUS rispose solo in parte alle domande del PM Luigi De Ficky, che riuscì

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però ad aggirare l'ostacolo convocando gli altri cinque che facevano parte della sua squadra. Alcuni

rifiutarono di rispondere, ma un paio confermarono di aver fatto parte di un'unità speciale

"antiguerriglia" addestrata a Capo Marrargiu. Dal racconto di Ravasio per la prima volta emergono

due componenti interne alla gestione del sequestro Moro: Gladio e la Banda della Magliana.

Pecorelli sosteneva che, dopo la conclusione del rapimento, le "vere Brigate" apparivano molto

ridimensionate rispetto alla «geometrica potenza» dimostrata in via Fani; sembravano anzi essersi

volatilizzate: Tanto prodighe di documenti e volantini seminati dal 16 marzo al 9 maggio, in quasi

tutte le cabine telefoniche della capitale, così arroganti e intemerate da sfidare severi posti di blocco,

disposti da Cossiga, pur di recapitare a mano ogni lettera dello statista rapito, quanto prudenti e

mute sono ora che almeno formalmente ogni allarme sembra cessato. Forse polizia e magistratura

negli ultimi mesi hanno fatto qualche sostanziale passo avanti, o forse non avendo più Moro nelle

loro mani i terroristi sanno di correre più rischi di ieri.

Non aveva torto. Solo dopo il 9 maggio la polizia cominciò finalmente a scoprire i covi e ad arrestare

i brigatisti: ma fu soprattutto nell'autunno successivo, quando Dalla Chiesa riprese il comando

dell'Antiterrorismo, che furono assestati i colpi più importanti. Pecorelli torna all'attacco contro

Andreotti, anche se indirettamente, quale responsabile della distruzione dei servizi segreti

additando l'anomala situazione che ha permesso ad un potere politico deviante di utilizzare i servizi

di sicurezza e dissociarsi quando lo ha ritenuto opportuno. Dissociarsi e sconfessarlo, quando un

servizio segreto non ha inteso allinearsi ai perfidi giochi politici a danno della Nazione.

"Vergogna buffoni" La sentenza di Perugia cita l'editoriale "Vergogna Buffoni" che Pecorelli aveva

scritto due mesi prima di morire, sul numero in edicola il 16 gennaio '79, asserendo che la fonte delle

informazioni contenute nell'articolo non poteva che essere Dalla Chiesa. Un paio di giorni prima i

due si erano infatti recati nel carcere di Cuneo e avevano incontrato Incandela. "Vergogna buffoni",

è il titolo di una paginetta che raccoglie notizie inedite e minacciosi messaggi ai "veri" responsabili

del rapimento (che dovettero trarne la fondata convinzione che il giornalista sapesse molto più di

quanto non scriveva). L'articolo, di cui solitamente vengono citati brevi stralci, è il bilancio di un

anno di crisi e di violenza: le rivelazioni sono nell'ultima parte, che riportiamo per intero. Lo stile è

meno curato del solito, la punteggiatura disordinata, come se a un certo punto, preso dall'emozione,

il giornalista non riuscisse più a custodire segreti troppo pesanti. Torna al nodo della trattativa

tradita, del patto violato all'ultimo minuto, con una "descrizione" dell'atto finale molto diversa da

quella che ne ha fornito Moretti nell'autobiografia, se non in un punto: anche Pecorelli sapeva che

era stato lui a eseguire la "sentenza", ma non in via Montalcini. Ma sapeva anche che non aveva fatto

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tutto da solo. Ecco il testo: quasi uno sfogo, per quanto è irruento e disordinato. Per i giudici

rappresenta una delle prove dell'intreccio Pecorelli-Dalla Chiesa, svelato da Buscetta: Perché

Cossiga era sicuro crediamo (?) che Moro sarebbe stato liberato e forse la mattina in cui è stato

ucciso era insieme agli altri notabili DC a piazza del Gesù in attesa che arrivasse la comunicazione

che Moro era libero. Moro invece è stato ucciso in macchina. A questo punto, vogliamo fare anche

noi un po' di fantapolitica, le trattative con le Brigate Rosse ci sarebbero state come per i feddayn.

Qualcuno però non ha mantenuto i patti. Moro, sempre secondo le trattative doveva uscire vivo dal

covo al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un santuario? I carabinieri (?) avrebbero dovuto

riscontrare che Moro era vivo e lasciarlo andar via con la macchina rossa. Poi qualcuno avrebbe

giocato al rialzo, una cifra inaccettabile perché si voleva comunque l'anticomunista Moro morto. E

le BR avrebbero ucciso il presidente della DC in macchina, al centro di Roma con tutti i rischi che

un'operazione del genere comporta. Ma di questo non parleremo. Non diremo che il legionario si

chiamava De e il macellaio Maurizio.

giudici di Perugia, nelle motivazioni della sentenza, danno molto valore al fatto che Pecorelli fosse a

conoscenza del nome di battaglia di Ma rio Moretti, ovvero Maurizio, cosa all'epoca sconosciuta

anche alle forze dell'ordine. Questo dettaglio, assolutamente riservato, conferma la veridicità delle

altre informazioni contenute in "Vergogna buffoni", alcune del le quali restano incomprensibili,

mentre altre hanno trovato conferma nel le indagini.

legionario che ha partecipato all'uccisione di Moro (forse infliggendo gli ultimi due colpi con la

pistola Nagant, senza silenziatore) è quel Giustino De Vuono che alcuni testimoni hanno già

indicato come presente in via Fani: se fosse vero, vorrebbe dire che la 'ndrangheta ha partecipato

anche nella fase finale. Ma "Vergogna buffoni" contiene anche altre riflessioni non meno

interessanti: La violenza politica ha raggiunto il suo apice con l'uccisione di Aldo Moro. Aldo Moro

che pensava di essere liberato dalle Brigate Rosse e che temeva di rimanere ferito in un conflitto a

fuoco tra i carabinieri e i suoi carcerieri, come ha pubblicato «Panorama» in un articolo non firmato,

notizia che avrebbe attinto dai documenti sequestrati nel "covo" del brigatista (?) Alunni. Notizia

che viceversa dal Memoriale del ministero degli Interni non risulta.

Ancora riferimenti a parti scomparse e mai recuperate del Memoriale. Neppure nella versione del

'90 c'è traccia di questi timori dello statista. Il paragrafo successivo è ancora più denso di allusioni:

Torneremo a parlare di questo argomento, del furgone, dei piloti, del giovane dal giubbetto azzurro

visto in via Fani, del rullino fotografico, del garage compiacente che ha ospitato le macchine servite

per l'operazione, del prete contattato dalle BR, dell'intempestiva lettera di Paolo, del passo carrabile

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al centro di Roma, degli sciacalli che hanno giocato al rialzo, dei partiti politici che si sono arrogati

il diritto di parlare in nome del Parlamento, dei presunti Memoriali, degli articoli redazionali

cervellotici scritti in funzione del fatto che lo stesso Moro, che avrebbe intuito che i carabinieri

potevano intervenire, aveva paura di restare ferito. Parleremo di Steve Pieczenik rientrato in

America prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da Cossiga

in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare.

Ancora oggi non sappiamo chi fosse il giovane dal giubbetto azzurro; ma c'è un altro passaggio

sibillino, quello sul «passo carrabile al centro di Roma», cui dedicherà altre pungenti note. Quel

passo carrabile sarebbe stato finalmente individuato e fa parte degli ultimi misteri scoperti in questi

anni.

caso Viglione Sulla vicenda della mancata irruzione, avvenuta proprio negli ultimi giorni del

sequestro, si registra un'altra straordinaria fantastoria che nessuna inchiesta ha mai chiarito fino in

fondo, neppure il processo di Perugia. Nell'autunno 78, le cronache dei giornali titolavano a tutta

pagina i retroscena del caso Viglione. Giancarlo Viglione era un giornalista di Radio Montecarlo,

finito in carcere con l'accusa di depistaggio a scopo di lucro nell'ambito delle indagini sul sequestro

Moro. Viglione apparteneva allo stesso ambiente di Pecorelli: aveva collaborato al «Settimanale»,

aveva intervistato Stefano Delle Ghiaie a Madrid, era insomma un giornalista navigato e bene

informato. Il 6 maggio, giorno dell'ultimo comunicato delle BR, Viglione aveva chiesto un incontro

a Flaminio Piccoli, dicendo di essere stato contattato da un emissario delle BR che gli aveva

proposto d'intervistare Moro nel Carcere del Popolo. Il senatore, emozionatissimo, lo invitò a

caldeggiare l'incontro, dicendosi perfino disposto a seguirlo nel covo. Ma l'emissario alla fine si

dileguò.

È solo l'inizio di una vicenda del tutto surreale, che tuttavia impegnò per mesi esponenti DC, il

ministro degli Interni Rognoni, i generali Dalla Chiesa e Ferrara. La magistratura fu informata

dell'accaduto solo mesi dopo e al PM Sica, in autunno, Viglione raccontò soltanto una parte della

storia. Il magistrato ne ricavò il forte sospetto che questa versione fosse di comodo e che tutte le

persone coinvolte nel complotto «investigativo» fossero a conoscenza di ben altri fatti. Tra i politici,

oltre Piccoli, c'erano personaggi di primo piano della DC: dal senatore Vittorio Cervone, molto

amico di Moro, a Oscar Luigi Scalfaro che sarebbe divenuto presidente della Repubblica nel '92.

Anche persone appartenenti al comitato di crisi del Viminale, come il criminologo Franco

Ferracuti, alla fine confessarono di esserne stati informati.

Qualche tempo dopo la morte dello statista, Viglione tornò dai suoi interlocutori asserendo che il

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"contatto" si era rifatto vivo. Di lui fornì solo il nome di battaglia: Francesco, lo stesso nome

dell'informatore del generale Musumeci. Una coincidenza? Il brigatista gli aveva confessato di

essere rimasto deluso dalla conclusione del sequestro e di essere pronto a far arrestare i vertici delle

BR.

Sono un brigatista rosso, ero in via Fani ma non ho sparato, appartengo al gruppo che non ha

sparato, hanno sparato altri che temevano di essere riconosciuti dalla scorta. All'interno delle BR

eravamo spaccati. Tutta l'operazione è stata guidata da due parlamentari e da un personaggio del

Vaticano: sono stati loro a volere che Moro fosse ucciso.

I dettagli non sembravano credibili, ma l'opinione di Dalla Chiesa era che il personaggio

stesse mandando messaggi consistenti. Del resto anche i fa miliari di Moro avevano avanzato

l'ipotesi che il maresciallo Leonardi non avesse aperto il fuoco perché tratto in inganno da qualcuno

che conosceva.

Secondo "Francesco" non bisognava coinvolgere la magistratura della vicenda, perché la stessa era

pericolosamente infiltrata. Ma quando i fatti di vennero di dominio pubblico, fu inevitabile

informare la Procura di Roma; Viglione rifiutò di rivelare la sua fonte e preferì l'arresto. In un primo

momento affermò di aver affidato a un notaio svizzero l'intera documentazione in suo possesso, poi

cambiò idea e gli avvenimenti successivi assunsero il sapore della beffa. Messo alle strette il

giornalista esibì il nome di un tal Pascal Frezza, uno psicolabile che aveva mandato a memoria le

cose da raccontare, ma che finì con l'ammettere di aver ricevuto ordini precisi per re citare quella

commedia. Il processo si concluse con la condanna per tentata estorsione di Viglione e Frezza e

tutto venne messo rapidamente a tacere.

Mi confidò a suo tempo il PM Sica: Il comportamento del giornalista di Radio Montecarlo era

improntato al la più manifesta reticenza. Se Viglione aveva raccontato ai parlamentari quello che ha

detto a me, non è assolutamente comprensibile il motivo di tanto interesse, soprattutto da parte di

ufficiali di grande esperienza come Dalla Chiesa e Ferrara. Penso in realtà che Viglione abbia

fornito qualche prova dell'attendibilità de] suo vero informatore, che a sua volta deve aver

raccontato cose ben più serie.

La vicenda Viglione, riletta oggi, potrebbe essere il primo pesante tentativo di ricatto da parte di

settori malavitosi coinvolti nel sequestro Moro. C'è chi pensò che il "brigatista Francesco" fosse un

personaggio imbeccato da qualcuno che intendeva mandare minacciosi segnali, altri un autentico

brigatista di grado abbastanza elevato da essere a conoscenza di segreti pericolosi che lo avrebbero

indotto a temere per la propria incolumità. La cosa strana è che Viglione, a quanto si seppe,

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successivamente avrebbe trascorso qualche tempo in Calabria, sulle tracce di un gruppo legato ai

sequestri di persona e all'estrema destra: un'iniziativa a quanto sembra sollecitata da Dalla Chiesa.

L'ipotesi di un coinvolgimento della mafia nella sua sezione calabrese ricorre fin dai primi giorni

dell'inchiesta su via Fani, per via di quel rullino fotografico in cui si presume comparisse un

calabrese, cui accenna anche Pecorelli in "Vergogna buffoni", rullino che poi scomparve dall'ufficio

del giudice Infelisi. Anche questo magistrato si recò in Calabria, nella prima metà di maggio, pochi

giorni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani. Infelisi disse che aveva bisogno

di qualche giorno di riposo; a molti sembrò inopportuno che il titolare dell'indagine si allontanasse

proprio in quel momento. A tal punto inopportuno che furono in pochi a credere che si trattasse di

una vera vacanza. Cosa andò a fare in Calabria, Infelisi non lo ha mai spiegato: è probabile che fosse

sulle tracce di qualcosa di molto importante, forse la pista indicata da "Francesco"; però non se ne è

saputo più nulla.

Nonostante la sentenza, nessuno ha mai veramente creduto che Viglione fosse un semplice

truffatore. Durante il processo, cinque parlamentari e tre uomini dei servizi segreti testimoniarono a

suo favore. Sono interessanti le affermazioni fatte dal parlamentare democristiano Vittorio Cervone

che, a quanto sembra, è stato il solo a incontrare "il brigatista Francesco". Scrive Cervone in un libro

di memorie: Liberare il proprio partito dal sospetto è un dovere. Ma non si dica che di sospetti non

se ne deve parlare, che è pura fantasia, che di questo o di quel governante della DC. non si dica in

pubblico o in privato quello che piace, che non si parli di possibilità esistenti all'epoca di salvare

Moro, di conoscenza del suo covo, di squadra pronta a intervenire, di veto e di contrordine.

Il senatore Cervone non era l'unico ad avanzare l'ipotesi del mancato blitz. Un'agenzia stampa di

Milano, l'ANIPE, pubblicò la notizia che il governo conosceva l'ubicazione della prigione Moro: I

carabinieri avrebbero individuato la prigione e sembra anche che conoscessero il negozio di

alimentari presso il quale si rifornivano i brigatisti, una rosticceria vicino piazza Nicosia. Secondo

quanto ci viene comunicato avrebbero manifestato l'intenzione di intervenire con un'operazione

militare per liberare il prigioniero. La proposta non sarebbe stata accettata dal governo.

I segreti di Firenze Nelle prossime pagine ci sposteremo a Firenze per esaminare alcune vicende che

si sono svolte nel capoluogo toscano durante i cinquantacinque giorni del sequestro Moro, e che per

molto tempo sono rimaste avvolte nell'ombra. Non che oggi sia completamente chiaro quale sia

stato il ruolo del Comitato Esecutivo delle BR con sede a Firenze, per quale motivo questa città sia

stata scelta come cabina di comando dell'intera operazione, e neppure quali altri terminali si fossero

messi in moto nel capoluogo toscano in appoggio alla gestione terroristica del sequestro. Ma sono

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stati fatti molti passi avanti, grazie al lavoro d'inchiesta svolto dalla Commissione Parlamentare

presieduta da Giovanni Pellegrino nel corso di due legislature, anche rispetto alle risultanze del

processo di Perugia, nel tentativo di accertare la verità che ancora si cela dietro l'oscura strategia

dell'operazione Moro. Ad esempio è stata la Commissione Stragi a scoprire dove si è riunito durante

i cinquantacinque giorni del sequestro Moro il Comitato Esecutivo delle BR: era la casa di un

architetto, Giampaolo Barbi, membro del Comitato Toscano delle BR, che in quel periodo sembra

fosse interamente composto da brigatisti "irregolari", ovvero non identificati e perciò non latitanti;

nella vita di tutti i giorni svolgevano la loro attività lavorativa e si incontravano periodicamente

nell'appartamento di Barbi. Ma durante il sequestro vi fu ospitato anche il Comitato Esecutivo,

delegato dalle BR a prendere ogni decisione relativa alla vicenda Moro. L'appartamento era stato

individuato dal PM fiorentino Gabriele Chelazzi, all'interno di un'indagine giudiziaria mai

trasmessa al processo Moro.

C'è chi in questi anni ha continuato a combattere contro il muro di gomma, chi non si è rassegnato

all'opportunismo di ricostruzioni omertose perché riteneva importante non tanto perseguire

penalmente i responsabili, quanto acquisire una conoscenza del passato che potrebbe aiutarci a

difenderci, in futuro, da altre simili e pericolose trame. Noi cercheremo di scoprire cosa è accaduto a

Firenze, nella primavera-estate del '78, per poi tornare di nuovo a Roma, dove concluderemo questa

terribile storia laddove si è realmente conclusa, e cioè in via Michelangelo Caetani.

Comitato Rivoluzionario Toscano Anche nelle carte scoperte in via Gradoli c'era un filo che

portava a Firenze, ma l'indicazione era stata ignorata dagli inquirenti. Nel covo vicino alla Cassia

erano stati trovati documenti, su cui non ci dilungheremo, del Fronte Logistico Nazionale delle BR

(di cui soltanto Moretti faceva parte) che indicavano stretti collegamenti tra il capo delle BR e il

Comitato Rivoluzionario Toscano. Quest'ultimo contava su una struttura più vasta rispetto alle

altre colonne brigatiste: aveva sede a Firenze con diramazioni a Pisa, Livorno e Massa Carrara, ne

facevano parte personaggi come Stefano Bombaci, Paolo Baschieri e Dante Cianci; la cellula era già

attiva fin dal 1976. L'Esecutivo Nazionale aveva demandato a Moretti l'esclusivo compito di tenere i

rapporti con l'organizzazione toscana. Tra tutti i ruoli che il capo delle BR aveva concentrato su di

sé in quel periodo, questo era il più importante, perché costituì l'unico anello di congiunzione tra la

colonna romana che gestiva operativamente il sequestro, e la direzione strategica del sequestro

stesso, ovvero quel Comitato Esecutivo che si riuniva in casa di Barbi.

Tra i personaggi di maggior rilievo che facevano capo al Comitato Rivoluzionario Toscano c'era il

criminologo Giovanni Senzani, ma il suo ruolo rimase a lungo nell'ombra. Di lui all'epoca si sapeva

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soltanto che era un consulente del ministero di Grazia e Giustizia, un esperto delle carceri stimato

anche negli USA per le sue analisi sulle nuove forme di detenzione. Di tutti i capi BR, Senzani resta

la figura più enigmatica e ambigua, destinata ad assurgere a notorietà soltanto un paio di anni dopo

il rapimento Moro quando, con la scissione dell'organizzazione, lo troveremo a capo dell'ala

movimentista (contrapposta a quella militarista). Quando fu arrestato a Roma nell'81, in via Ugo

Pesci, un giovane che era in sua compagnia, Roberto Buzzati, da poco tempo reclutato nelle BR,

raccontò di aver accompagnato Senzani ad Ascoli Piceno e di aver assistito a incontri con un

personaggio piuttosto austero che in un primo momento ritenne di riconoscere nelle foto del

generale Musumeci. Poi Buzzati ritrattò, ma indagando nella biografia del criminologo contatti con

il SISMI emergono in più occasioni.

Ad esempio risulta che Senzani abbia diviso per tre anni l'appartamento in via della Vite a Roma,

dove abitava, con un collaboratore del servizio segreto militare, tal Luciano Bellucci. Ed è accertato

il suo coinvolgimento nel sequestro Cirillo: il rapimento dell'assessore napoletano della DC

costituisce forse il punto più basso nell'inquinamento della vita politica italiana, con la sua macabra

riedizione del sequestro Moro che serviva a coprire ricatti intrecciati tra imprenditoria camorrista e

la corrente del ministro Antonio Gava. Per la liberazione di Grillo lo Stato scese a patti con le BR e

pagò un riscatto, rinnegando la "linea della fermezza", che soltanto due anni prima era stata adottata

riguardo al sequestro del presidente DC. All'ala delle BR capeggiata da Senzani, nella spartizione

con la camorra toccarono cinquecento milioni, somma ingentissima all'epoca. E per motivi mai del

tutto chiariti, durante il sequestro Cirillo, i contatti con il capo della Nuova Camorra Organizzata,

Raffaele Cutolo, furono sottratti al SISDE e gestiti da agenti del SISMI, poi delegata all'Anello, la

supercellula del colonnello Adalberto Titta, a quanto sta emergendo dall'inchiesta del PM Ionta.

Durante la detenzione Senzani ha condiviso la cella con Ali Agca, il giovane turco che attentò alla

vita di Giovanni Paolo Il in piazza San Pietro, gli ha insegnato a parlare italiano e lo avrebbe anche

convinto a collaborare con la giustizia. Un'operazione evidentemente ispirata dal controspionaggio.

Ce ne sarebbe già abbastanza per considerarlo un agente sotto copertura, ma c'è di più. Nel covo di

via Ugo Pesci furono trovate prove dei suoi frequenti viaggi a Parigi, dove risultò in contatto con

l'Hyperion, ma anche dell'uso di tecniche di comunicazione, tipiche dell'intelligence, come

messaggi miniaturizzati scritti con inchiostro "simpatico" e nascosti all'interno di penne

stilografiche. In una cassapanca trovata in via Pesci fu rinvenuto anche il "film" dell'esecuzione di

Roberto Peci, fratello di Patrizio, vittima di una "vendetta trasversale" compiuta con modalità

vicine a quelle della criminalità organizzata. Una condanna a morte decisa dal gruppo vicino a

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Senzani per motivi, come vedremo, non del tutto chiari.

L'inchiesta della Procura di Roma ha escluso la presenza di Senzani in Italia durante il sequestro

Moro: anzi si è dato per certo che il criminologo fosse in USA per un corso di aggiornamento

professionale. A Roma in effetti non c'era, ma in molti pensano che fosse a Firenze, e vi svolgesse un

compito ben più importante, partecipando alle riunioni del Comitato Esecutivo del sequestro. Che

quest'ultimo abbia assolto un ruolo di reale "direzione strategica" durante il sequestro Moro è stato

confermato da brigatisti del calibro di Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Patrizio Peci. Valerio

Morucci, della colonna romana, raccontò: «Tutti i comunicati emessi dalle BR durante il sequestro

Moro ci vennero dati dal responsabile del Comitato Esecutivo, nel cui ambito venivano discussi».

Moretti si recava a Firenze ogni settimana e ne tornava con i comunicati già scritti, che venivano

letti ma non potevano essere messi in discussione dagli appartenenti alla colonna romana. Ma

quando, nell'ottobre 78, la DIGOS di Firenze fece irruzione nell'appartamento di Barbi, sette mesi

dopo la conclusione del sequestro Moro, non trovò nulla. Troppo tardi: tutto il materiale cartaceo

era stato trasferito a Milano, in via Montenevoso, da Bonisoli. Risulta anche che Mario Moretti e

Barbara Balzerani, dopo l'epilogo del sequestro, nell'estate 78, si trasferirono a Firenze e

alloggiarono, fino a ottobre, in un appartamento di via Unione Sovietica affittato da Sandro Ciucci,

un brigatista incensurato. Il capo delle BR evidentemente riteneva che il capoluogo toscano

garantisse maggiore sicurezza.

C'è un giallo che collega le riunioni toscane con via Montenevoso e con il ritrovamento del

Memoriale. L'irruzione nel covo milanese da parte degli uomini di Dalla Chiesa fu resa possibile

dalle chiavi trovate in un borsello smarrito da Lauro Azzolini (poi arrestato con Bonisoli e Nadia

Mantovani proprio in via Montenevoso): nel borsello c'erano, oltre alle chiavi, una pistola, un

documento falso, la fattura di un dentista, che portarono i carabinieri all'appartamento gremito di

brigatisti. Sul giallo del borsello, soprattutto sui tempi e le modalità dello smarrimento, esistono

almeno quattro o cinque versioni diverse, fornite dagli ufficiali coinvolti nell'operazione e dallo

stesso Azzolini. Secondo il colonnello Niccolo Bozzo, stretto collaboratore di Dalla Chiesa, il

borsello fu lasciato su un autobus dell'ATAF, linea 28, alla fine di luglio. Azzolini raccontò invece

di averlo perso su un treno ad agosto. Di fatto l'irruzione avvenne pochi giorni dopo che Bonisoli,

come poi raccontò, aveva trasferito a Milano tutta la documentazione del sequestro, tra cui anche i

verbali dell'interrogatorio Moro. Per dirla con Pecorelli, il generale aveva aspettato che «l'uva fosse

matura».

Via Sant'Agostino 3 Molti anni dopo, a Firenze, nel monolocale di un palazzo nobiliare in via

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Sant'Agostino 3, grazie ai benedetti lavori di ristrutturazione, che ogni tanto consentono svolte

impreviste anche in indagini coperte da segreti di Stato, saltarono fuori da un soppalco armi lunghe

da guerra avvolte in carta di giornale, caricatori per fucili mitragliatori, una notevole quantità di

cartucce ancora chiuse in sacchetti di plastica e confezioni di esplosivo vuote. Era il 3 marzo 1993,

una data molto vicina a quel terremoto che stava per sconquassare l'Italia e che nel giro di poche

settimane sarebbe culminato nell'incriminazione di Giulio Andreotti. Il proprietario dell'immobile

era il marchese Bernardo Pianetti Lotteringhi della Stufa. 11 padre Alessandro, ormai defunto,

parecchi anni prima aveva messo l'appartamentino a disposizione di un amico molto speciale che, in

questo libro, abbiamo già avuto occasione di conoscere: Federigo Mannucci Benincasa, il

capocentro del controspionaggio di Firenze, incarico che l'alto ufficiale ricoprì per vent'anni, dal

1971 al 1991, prima di passare alla direzione nazionale del sismi a Roma.

Il nucleo dei carabinieri di Firenze fu incaricato di inventariare le armi, ma stranamente lo fece

soltanto il 10 marzo, una settimana dopo. Nel frattempo erano spariti i giornali che le avvolgevano,

dai quali si sarebbe potuto risalire alla data dell'occultamento. Pazienza. Nel corso del processo a

suo carico, Mannucci Benincasa sostenne che il monolocale era stato utilizzato per un'attività

estranea al servizio, «diversa da quella istituzionale di raccolta di informazioni sul fenomeno

terroristico: di fatto sono state detenute in modo occulto armi e munizioni che sicuramente non

hanno mai costituito dotazione legittima del SISMI o dell'Arma dei Carabinieri». Un'ammissione

che costerà al capocentro di Firenze una condanna a tre anni di reclusione per detenzione e porto

abusivo di armi da guerra e munizioni.

Ma è la lettura della motivazione della sentenza, emessa il 23 aprile 1997, a essere illuminante:

«L'imputato ha spiegato che nel 77 il centro SISMI di Firenze ebbe la possibilità di realizzare

contatti con una persona che si riteneva vicina alle Brigate Rosse. Per questa attività si richiedeva

una particolare riservatezza, per cui si rese necessario acquisire la disponibilità di un luogo specifico

con adeguate misure di sicurezza...». Quel luogo fu individuato nel monolocale di via

Sant'Agostino. Era lì che l'informatore lasciava messaggi a una segreteria telefonica, cui era

possibile accedere dall'esterno attraverso un numero in codice. Ma poiché era troppo rumorosa, a

seguito dell'intervento di personale tecnico di Roma fu necessario trasferirla in un altro locale al

primo piano, dove abitava lo stesso marchese Pianetti Lotteringhi, dove fu collocata all'interno di

un armadio. La segreteria fu staccata alcuni anni dopo, nell'82, ma risulta da altre testimonianze che

il SISMI ha mantenuto la disponibilità di questa sede occulta, anche se «ufficialmente autorizzata»,

per circa tredici anni, dalla fine del 1977 al 1990. Dunque, tra i mesi immediatamente precedenti il

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sequestro Moro e il periodo in cui si rese necessario smantellare le strutture militari della cosiddetta

Gladio, a seguito delle rivelazioni di Andreotti alla Commissione Stragi.

Il centro di controspionaggio di Firenze disponeva dunque di un infiltrato ad alto livello, rimasto

attivo per tutto il tempo del sequestro Moro, che presumibilmente aveva possibilità di accedere alle

riunioni del Comitato Esecutivo delle BR. Per facilitare contatti e incontri riservati con questa

persona, fu allestita addirittura una sede occulta. Mannucci non rivelò l'identità dell'informatore,

ma molti indizi fanno ritenere che potesse trattarsi proprio del criminologo Giovanni Senzani, che

in quel periodo abitava in Borgo Ognissanti, a pochi passi da via sant'Agostino. Il contatto

s'interruppe (e anche la segreteria telefonica fu smantellata) nel 1982, l'anno in cui il brigatista fu

arrestato.

Antonio Savasta, all'epoca capo della colonna romana delle BR, raccontò che Senzani si era

trasferito a Roma nel '79: «Aveva problemi di clandestinità legati a una situazione familiare;

precedentemente aveva dato un contributo di approfondimento teorico sulla strategia della

differenziazione del carcerario, avvalendosi degli studi che aveva svolto per la sua attività

lavorativa». Un'attività per la quale il criminologo fu molto sospettato negli anni '80-'81 come

possibile talpa negli omicidi dei giudici Palma, Minervini e Tartaglione, magistrati che si

occupavano del sistema carcerario. I suoi "problemi logistici", a quanto sappiamo, furono poi risolti

in via della Vite, dove per tre anni coabitò con l'informatore del SISMI, fino al trasferimento in via

Ugo Pesci, dove fu arrestato. In ogni caso, l'esistenza di uno o più infiltrati, in stretto contatto con il

Comitato esecutivo, è confermato dal fatto che l'irruzione nel covo di via Montenevoso, preparata

da settimane, fu attuata i primi di ottobre, solo quando Dalla Chiesa ebbe conferma che Bonisoli

aveva trasferito lì l'intera documentazione su Moro in possesso delle BR.

Il Grande Vecchio Molti anni dopo il sequestro, sul finire degli anni Novanta, cominciarono a

trapelare strane notizie sulla presenza alle riunioni del Comitato Esecutivo delle BR di un

personaggio di altissimo livello. Il primo a confermarne l'esistenza fu il dissociato Valerio Morucci,

che parlò di un «anfitrione»; a suo dire il misterioso interlocutore avrebbe messo a disposizione delle

Brigate Rosse per le riunioni una villa nei dintorni di Firenze. Da una serie di elementi che

vedremo, emerse l'ipotesi che l'«anfitrione» potesse essere identificato con Igor Markevitch, un

nobile di origini russe,con amicizie altolocate nella comunità angloamericana di Firenze, un artista

di fama internazionale, un direttore d'orchestra e per finire un partigiano dei GAP. Ma anche un

amico della comunità israelita, cognato di Hubert Howard, il generale americano che nel '44 aveva

partecipato alla liberazione di Firenze dall'occupazione tedesca. A mano a mano che prendeva quota

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la leggenda del Grande Vecchio, il presidente della Commissione Stragi Pellegrino riaprì le indagini

su alcune segnalazioni che le inchieste giudiziarie avevano tralasciato, e a poco a poco prese corpo la

storia straordinaria che stiamo per narrare.

Il ritratto dell'ex comunista, nostalgico e simpatizzante che ne aveva dato Morucci, per un

personaggio di quella statura risultava un po' riduttivo:Pellegrino lo considerò un "bigliettino da

visita" da esibire ai brigatisti. Il presidente della Commissione affidò le indagini al maggiore

Massimo Giraudo dei ROS (il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri), uno degli

uomini migliori dell'allora comandante Mario Mori, oggi capo del sisde. L'indagine, che si concluse

nel 2001, portò alla scoperta di un intreccio di poteri forti, intelligenze segrete, massonerie

internazionali che sarebbero a un certo punto subentrate nella gestione del sequestro Moro.

Igor Markevitch Il nome del musicista Igor Markevitch era già noto al SISMI dal 1978. Ma le

indagini condotte su di lui dal nostro servizio segreto furono interrotte da una mano scesa

"dall'alto". Era il primo maggio 1978, mancava ancora una settimana al compimento della tragedia,

quando due agenti del nostro controspionaggio, Antonio Ruvolo e Giuseppe Corrado, si recarono a

Palazzo Caetani, nella stessa strada dove otto giorni dopo sarebbe stata parcheggiata la Renault

rossa con il corpo di Moro. I due agenti, su richiesta del loro superiore, generale Demetrio

Cogliandro, cercavano informazioni su un certo Igor Caetani, ma non c'erano discendenti maschi

nella nobile famiglia romana. L'ultimo era Michelangelo che aveva avuto soltanto una figlia

femmina, Topazia, sposata con il musicista Igor Markevitch, direttore dell'Accademia di Santa

Cecilia, dal quale però era ormai divorziata. Il dominus di Palazzo Caetani era da tempo Hubert

Howard, vedovo di Leila, la cugina di Topazia morta da un anno. Ma Howard preferiva vivere in

campagna, nella tenuta di Santa Ninfa, e all'apparenza si presentava come niente più che un

gentiluomo americano imparentato con la nobile famiglia romana.

Non fu il lignaggio dell'indagato a scoraggiare gli agenti del SISMI, allertati da una «fonte molto

attendibile», come spiegò Cogliandro. Anzi, Ruvolo e Corrado si spinsero fino a Santa Ninfa,

l'antico feudo dei Caetani che Howard nel corso degli anni aveva trasformato in una regale

residenza. Dai resti di un borgo medievale, immerso tra l'incolta campagna del basso Lazio e la

palude di un acquitrino, aveva creato una lussureggiante oasi naturale, abitata da una moltitudine di

specie protette. Il castello era da tempo circondato da leggende su misteriose riunioni notturne, riti

magici e sedute spiritiche, cui partecipavano oltre ai fantasmi della Storia, anche politici e

diplomatici di alto rango. Una fama che non era ignota al SISMI, come anche il fatto che la tenuta

fosse meta in ore diurne di capi di Stato, uomini dell'alta finanza e dell'intelligence. Tra le amicizie

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più antiche di Howard c'era quella con Kermit, il figlio di Theodore Roosevelt, sostenitore della

"sinarchia" o governo globale (una teoria che puntava alla disgregazione degli Stati nazionali in più

minuscole comunità etniche) e che, a cavallo della seconda guerra mondiale, aveva svolto un'intensa

attività nell'oss.Ma l'ex generale Howard era anche molto amico di Enrico Mattei, che negli anni

Cinquanta-Sessanta era un assiduo della tenuta, dove si recavano spesso Pertini, alla cui liberazione

dalla prigionia nazista Hubert aveva collaborato, e molti uomini politici italiani. Tra i più assidui, i

ministri Taviani e Andreotti.

Le indagini si bloccarono per colpa di un non meglio identificato "ordine superiore", forse impartito

dal capo del SISMI Giuseppe Santovito (p2), e ai due agenti, il 9 maggio, non restò che constatare

che la missione era fallita proprio lì, in via Caetani, quando si stava per aprire la "porta segreta". Nel

momento in cui il SISMI bussò a Palazzo Caetani, ufficialmente i rapporti tra Howard e

Markevitch si erano interrotti da anni. A legare l'americano e il russo, che il destino aveva anche

imparentato, era stata una strana trattativa svoltasi alla fine della seconda guerra mondiale, quando

Firenze assediata dai tedeschi era in attesa di essere liberata. Markevitch era già un musicista di

fama internazionale, dalle molteplici relazioni in ogni parte del mondo, reduce dalla Parigi anni

Trenta dove aveva stretto amicizia con Jean Cocteau. A Firenze era ospite nella villa di Bernard

Berenson, il miliardario critico d'arte protagonista nel dopoguerra della rinascita culturale della

città. Una villa bazzicata da sovrani, diplomatici, agenti segreti, politici, faccendieri e artisti di ogni

parte del mondo. Un ambiente che calzava a pennello alla poliedrica e inafferrabile personalità di

Igor che, già negli anni Quaranta, alla sua agenzia artistica aveva fatto scrivere di se stesso: «Ora

diabolico, ora angelico, egli ci rivela di sé la scintilla del genio».

Nella Firenze occupata dai tedeschi, il quarantenne Igor aveva dato una mano a Hubert, facendo la

spola in bicicletta tra la villa dei Tatti, il rifugio segreto di Berenson e l'ufficiale nazista Dollmann,

rappresentante di Himmler, con cui era riuscito a fraternizzare e che definiva «un vero parigino». Di

lì raggiungeva i partigiani dei GAP comandati dal suo amico Carlo Sinigaglia, con i quali era

entrato in contatto e collaborava. Un intenso periodo che a questo raffinato intellettuale e artista

aveva dischiuso le porte della passione politica e della lotta antifascista, di cui a lungo scriverà in un

libro di memorie, Made in Italy. Al centro della difficile trattativa c'era la salvezza dei tesori di

Firenze, la città santa dell'arte.

Secondo una ricostruzione che presenta ancora molti elementi fantastici, nel 1978 i due ultimi

Caetani, divisi dalla vita, dai lutti e forse anche dallo schieramento ideale, stranieri in patria, si

sarebbero ritrovati insieme alle prese con un'altra difficile trattativa: l'ostaggio questa volta non era

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il patrimonio artistico della città più bella del mondo ma il presidente della DC Aldo Moro. A

conclusione dell'indagine, il presidente Pellegrino appare oggi propenso ad affidare a Markevitch il

ruolo di semplice "intermediario", lo stesso che aveva ricoperto durante l'occupazione nazista. Ma

forse stavolta l'operazione si era svolta su piani ancor più complessi e stratificati. Anche se era stato

proprio il Comunicato numero 4 delle BR ad avvertire che erano scesi in campo «misteriosi

intermediari».

Il genio musicale, ormai sordo, negli ultimi anni di vita dirigeva l'orchestra seguendo una partitura

immaginaria senza sentire i suoni: Fellini si ispirò a lui per il suo film Prova d'orchestra. La

mutilazione, provocata dalla malattia di Méniere, che porta prima alla perdita dell'equilibrio e poi

alla sordità, obbligò Igor ad abbandonare a poco a poco la musica e a privilegiare la scrittura. Ma

forse anche a tornare alla "politica". Nel suo secondo libro di memorie, Etre et avoir été, scrivendo di

sé in terza persona, manderà un sottilissimo segnale sulle sue ultime scelte: Costui si è applicato da

quarant'anni a servire il suo tempo con mezzi completamente diversi da quelli della sua prima

esistenza. Mostrerò più tardi quanto questi mezzi fossero appassionatamente creatori, cosa che ha

lenito ogni rimpianto di essermi zittito come ordinatore di suoni, per congegnarli in un'altra

maniera. 11 sentimento di inutilità di comporre della musica "musicante" nel deserto m'appariva

irreversibile [...]. Appartenevo ogni giorno di più a un nuovo mondo di cui la Resistenza antinazista

appariva l'apprendistato.

L'antifascismo lo aveva portato a diventare grande amico del popolo di Israele; Ben Gurion lo aveva

invitato per un ciclo di concerti a Tel Aviv dove per un certo periodo era rimasto, ricoprendo un

altro ruolo di rilievo come direttore artistico della radio di Stato. Secondo una recente biografia (Il

misterioso Intermediario, di Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca), proprio in questo periodo

avrebbe riattivato antichi contatti con il priorato di Sion, una sorta di Opus Dei ebraico, cui lo aveva

iniziato il suo amico Jean Cocteau, che era cocchiere di quest'ordine molto potente.

Igor alla fine del suo secondo libro era sul punto d'illuminarci su quanto era realmente accaduto in

quella terribile primavera del 78, questa almeno la congettura dei due biografi: «Un segreto istinto

mi suggerisce che io non sarò vissuto che in funzione di un capitolo finale, che darà valore e

giustificazione agli altri capitoli riuniti», stava scrivendo sui suoi diari quando la morte

sopraggiunse improvvisa, il 7 marzo 1983, prima che potesse mantenere la sua promessa. Ma forse

ancora più interessante di Igor era in realtà la figura di Hubert Howard, il dominus di Palazzo

Caetani, al punto da far ipotizzare ai periti della Commissione Stragi e ai biografi di Markevitchche

fosse lui il Signore di Gladio.

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Sulla base di tanti elementi emersi nel corso delle indagini, quelle fallite della Procura di Roma e

quelle condotte con più successo dal maggiore Giraudo per la Commissione Stragi nel '91, non è da

escludere. Anche noi, che abbiamo seguito la vicenda dai piani bassi, alla fine siamo arrivati in via

Caetani, a quel palazzo con il passo carrabile su cui vegliano due leoni di marmo dove Hubert

Howard ha vissuto fino al 1987, data della sua morte. A condurci fin lì è stata l'attenta lettura di

quell'articolo "Vergogna buffoni", scritto da Mino dopo l'incontro con Dalla Chiesa che certamente

ha accelerato la data della sua morte.

archivio di Craxi La fonte «molto attendibile» che aveva rivelato il ruolo di Markevitch al generale

Cogliandro era stato il suo segretario, il capitano Antonio Fattorini, detto "mezzo-ebreo" per i suoi

ottimi rapporti con il Mossad. Oltre a indicare il figlio di Margherita Caetani (in realtà, suocera di

Hubert e zia acquisita di Igor), la fonte aveva fornito un indirizzo, via Sant'Elena numero 8,

un'abitazione alle spalle di Palazzo Caetani, dove in quel periodo si era notata una particolare

animazione. Gli agenti del SISMI indagarono anche su quell'appartamento, ma la solita mano

superiore li fermò: dietro Santovito doveva nascondersi qualche altra entità nazionale o

internazionale, ben consapevole che se l'indagine avesse imboccato questa strada sarebbe incappata

in un groviglio di rovi. Il generale Cogliandro aveva messo le mani su qualcosa di troppo grande:

non solo doveva fermarsi lui, ma davanti a quel portone doveva fermarsi chiunque altro, perché

quella soglia non poteva essere valicata. E tra questi poteva esserci anche il generale Dalla Chiesa, se

ben ricordiamo lo scritto di Mino noto come "Amen". Ma Pecorelli fa riferimento anche in altri

articoli a una prigione al centro, non lontana da Campo de' Fiori.

Forse l'unico a poter sapere di che natura fosse il groviglio di rovi e a volerne parlare era Bettino

Craxi, almeno nell'ultima fase della sua vita. Il presidente Pellegrino propose di ascoltarlo: lui

acconsentì, ma una delegazione della Commissione avrebbe dovuto recarsi in trasferta a

Hammamet, un'ipotesi che trovò molti ostacoli. Anche a sinistra si riteneva inopportuna l'audizione

di un latitante su possibili segreti di Stato, e alla fine Pellegrino rinunciò. Ma il presidente della

Commissione Stragi aveva visto giusto. Nel periodo in cui Craxi è stato presidente del Consiglio, a

capo del SISMI c'era l'ammiraglio Fulvio Martini, che gli fornì informazioni sulla struttura militare

segreta Stay Behind, di cui aveva diritto di essere a conoscenza. Craxi era molto curioso: voleva

capire i retroscena dei misteri italiani. Nel suo archivio di via Boezio furono trovate abbondanti

tracce di informative, attorno alle quali ci fu il forte sospetto che fossero state redatte da Cogliandro,

all'epoca fedelissimo dell'ammiraglio Martini. Anche perché, durante la successiva perquisizione

nello studio del generale furono trovate decine di veline, ancora in bozza, il cui contenuto

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coincideva con quello già recuperato nell'ufficio romano dell'allora presidente del Consiglio. La

scoperta risale all'8 luglio 1995, quando il PM Paolo Ielo della Procura di Milano fece irruzione

nella sede di via Boezio della Giovine Italia, un'organizzazione vicina al PSI.

Fu lo stesso Bettino Craxi a informare i magistrati che i locali dell'associazione erano ospitati nel

suo ufficio e che pertanto tutte le carte là rinvenute erano a lui riconducibili. Bastò poco al

magistrato milanese per rendersi conto che aveva messo le mani su una vera e propria miniera:

furono raccolti in tre faldoni 3849 pagine per lo più provenienti dai servizi segreti.

C'era di tutto: documenti ufficiali, soprattutto del SISDE, e riguardanti il terrorismo rosso; un

documento secretato dal CESIS sul terrorista nero Augusto Cauchi e i suoi rapporti con Gelli e

anche molti documenti sulla . LIBRO NERO DELLA PRIMA loggia P2. Dalle carte si scoprì che

sul professor Franco Tarantella ucciso dalle BR il 27 marzo 1985, erano state stilate dal SISDE

numerose informative in cui venivano elencati perfino i convegni ai quali aveva partecipato

nell'ultimo periodo di vita e le critiche che erano state avanzate alle sue tesi durante una tavola

rotonda. La futura vittima delle Brigate Rosse era sotto attenta osservazione da parte dei servizi

segreti, ma questo non è servito a proteggerlo e non ha impedito ai terroristi di ucciderlo quando è

stato il momento! Ma ad allertare l'attenzione degli inquirenti furono una miriade di appunti,

foglietti anonimi, che avevano tutta l'aria di provenire da un'alta fonte dei servizi segreti e che

potevano essere utilizzate da Craxi a fini di lotta politica. Neanche a dirlo, il bersaglio di queste note

era proprio Andreotti, nel tempestoso periodo che seguì la sua decisione di rivelare l'esistenza di

Gladio nell'estate '90. A capo del SISMI c'era allora l'ammiraglio Martini e s'intuiscono, dal

contenuto delle veline, i pessimi rapporti che intercorrevano tra lui e l'allora presidente del

Consiglio, che sfoceranno nel suo allontanamento dalla direzione del SISMI il 26 febbraio 1991.

Fu uno dei motivi per i quali la Procura di Milano informò tempestivamente il COPACO -

presidente in quel momento era il senatore Massimo Brutti - che dopo un'attenta valutazione inviò

una relazione al Parlamento. La tesi di fondo che emerge dalle informative trovate nell'archivio di

Craxi è che Andreotti nel '90 abbia rivelato l'esistenza di Gladio con uno scopo del tutto

strumentale: avviare un'operazione simile a quella che negli anni Settanta aveva portato alla

defenestrazione di Miceli-Maletti per affidare la gestione dei servizi segreti a mani amiche e

riacquistarne il controllo.

Dalle informative anonime trapelava la volontà di minimizzare l'attività di Gladio; ma l'anonimo

estensore sembrava soprattutto voler convincere Craxi che c'era sì un "superservizio" cui andavano

attribuite gravi deviazioni, ma queste non andavano identificate con le finalità di Gladio, bensì

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erano mirate alla lotta politica interna e a tirarne le fila era proprio Andreotti. Ci torneremo più

avanti, quando affronteremo questo capitolo. Per ora ci sembra interessante sottolineare come una

parte del SISMI, rappresentata da uomini che ebbero una parte attiva durante il sequestro Moro,

negli anni successivi fosse entrata in forte contrasto con Andreotti e avesse cercato una sponda nel

nuovo presidente del Consiglio Craxi, che in più occasioni mostrò di essere piuttosto informato.

Forse all'origine della sua profonda conoscenza dei misteri d'Italia c'erano le veline trovate nel suo

ufficio, anche se i documenti più importanti Craxi li aveva trasferiti ad Hammamet, e dall'esilio

aveva fatto molte allusioni al Grande Vecchio. Segreti che conosceva e che ha portato con sé.

Di tutta questa vicenda agli atti del controspionaggio è rimasta un'informativa, postdatata al 14

ottobre 1978, cinque mesi dopo i falliti tentativi di penetrare i segreti di Palazzo Caetani: Il 14

ottobre 1978 una fonte del servizio segnalava che un certo Igor della famiglia dei duchi Caetani

avrebbe avuto un ruolo di primo piano nell'organizzazione delle BR e che, in particolare, avrebbe

condotto tutti gli interrogatori di Moro, della cui esecuzione sarebbero stati autori materiali certi

Anna e Franco. La persona veniva identificata con Igor Markevitch, direttore di orchestra di fama

internazionale, oriundo russo e ora cittadino italiano, coniugato con Topazia Caetani. Da

accertamenti svolti, anche con l'intervento di servizi collegati, non emergevano peraltro elementi di

conferma della notizia.

Quella di collocare in data diversa rapporti di servizio "imbarazzanti" sembra una consuetudine

della nostra intelligence: in questo caso si voleva evidentemente allontanare lo spettro che la

mancata indagine fosse costata la vita di Moro.

Zucor e l'Oroscopone Ma alcuni servizi stranieri dovevano essere a conoscenza del segreto e non

passò molto tempo che cominciarono ad arrivare segnali. Nell'ottobre 1978 il Partito Operaio

Europeo, piccolo movimento politico dietro il quale si nascondeva forse il KGB, diffuse un dossier

dall'esplicito titolo Chi ha ucciso Aldo Moro. La tesi era che il presidente della DC fosse rimasto

vittima di un complotto internazionale le cui fila erano tirate da Henry Kissinger.Secondo il POE,

la Renault rossa, prima di essere trovata, era stata tenuta all'interno di un palazzo del Ghetto. Forse

quello, sosteneva il POE, dove abitava il principe Johannes Schwarzenberg, ambasciatore

dell'Ordine dei Cavalieri di Malta in Vaticano, cioè proprio Palazzo Caetani. Il principe si era

sorpreso che, dopo il ritrovamento di Moro, la polizia non avesse preteso di interrogarlo, visto che il

dramma si era concluso sotto casa sua. Ma il principe, insinuava il dossier del POE, non ha avuto il

tempo di ottenere risposta ai suoi dubbi perché era morto pochi giorni dopo con la moglie in un

incidente stradale. Non fu la sola morte sospetta: poco dopo anche il capitano Fattorini fu stroncato

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da un infarto, proprio mentre all'aeroporto di Ciampino attendeva l'arrivo di Fulvio Martini, il

nuovo capo del SISMI: qualcuno temeva un passaggio di consegne su quel delicatissimo capitolo?

Due mesi dopo - siamo nel dicembre 78 - la figura di Markevitch sembra ispirare un lungo racconto,

pubblicato sul mensile «Penthouse» (finanziato da Bob Guccione, mafioso italoamericano), dello

scrittore Pietro Di Donato, dal titolo Cristo nella plastica, nel quale per la prima volta si accreditava

una pista sovietica dietro il rapimento Moro. Sembra quasi il frutto di uno scambio di cortesie fra

intelligence. Il Cristo nella plastica era uno strano reportage, dove realtà e finzione venivano

mescolati insieme, non privo di errori grossolani (Scelba era una città, Pannella un ministro), ma

denso di allusioni che il tempo ha confermato. Dopo il sequestro, racconta Di Donato, Moro viene

condotto in un garage in via della Balduina, dove già da un anno era stato predisposto un locale

dotato di infermeria cui si accedeva da una porta segreta. In via della Balduina 323 c'è in effetti

l'accesso privato all'autorimessa di via Massimi 91, di proprietà dello IOR, cui aveva alluso Pecorelli

in "Vergogna buffoni", e nei cui pressi era stata ritrovata la 132 utilizzata in via Fani.

Dopo una visita medica, lo statista sarebbe stato condotto da tal Zucor, personaggio descritto con

dettagli straordinariamente coincidenti con la biografia di Igor: la perdita dei beni familiari, la

morte dell'anziana madre a novantacinque anni, l'amicizia con Elena Croce. Ma c'è un'allusione

ancora più precisa: al primo incontro Moro e Zucor a quanto sembra si riconoscono e ricordano di

essersi incontrati a casa di Primo Levi. Igor aveva messo in salvo lo scrittore ebreo proprio durante il

periodo fiorentino, quando collaborava con i GAP. Per finire, a interrogare il presidente della DC

erano sono stati proprio un'Anna e un Franco, gli stessi nomi che compaiono nell'informativa del

SISMI, all'epoca assolutamente segreta.

Il sottile gioco di allusioni non è finito. Nel secondo numero di «Metropoli», rivista

dell'Autonomia, pubblicato nell'aprile 1980, in un articolo anonimo dallo strano titolo,

"Oroscopone", viene consultata la maga Ester circa la sorte dei dirigenti di Autonomia Operaia,

accusati di far parte della direzione strategica delle BR, nel processo "7 aprile": «Va a finire in niente,

in due anni da adesso escono e tornano a casa», risponde la sibilla. Si ripresenta alla mente

«quell'amnistia che tutto verrà a lavare, ad obliare» di Pecorelli. Ma la maga parla anche di un

Nemico, di un Grande Signore, che ha a che fare con l'estero e prevede: «È legato a

un'organizzazione, ci sarà sempre un buon esito per lui, resterà senza nome». La rivista satirica «Il

Male» annunciò invece la pubblicazione di un libro: Malta, Cavalieri e testine rotanti. Ma non uscì

mai. Gli imputati del "7 aprile" invece sono usciti, proprio due anni dopo.

Palazzo Caetani Anche i magistrati romani hanno dato a lungo la caccia alla prigione nel Ghetto. Il

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primo a credere a quest'ipotesi fu il giudice Ferdinando Imposimato. Un pentito toscano, Elfino

Mortati, gli aveva confidato di aver dormito un paio di notti durante il sequestro Moro in un

appartamento al centro di Roma, proprio nella zona vicina a via Caetani. Non conosceva la città e

non sapeva indicare la via precisa. Durante sopralluoghi notturni Imposimato e l'ex terrorista si

aggirarono per le stradine adiacenti a piazza Argentina: il giovane riconobbe luoghi familiari ma

non riuscì a localizzare l'appartamento. Un secondo magistrato fu il PM Luigi De Ficky che era

rimasto colpito dal passaggio di una lettera di Moro al nipotino: «Ricordi quando ti ho regalato i

pompieri spagnoli?». Ai familiari non risultava che avesse mai fatto un simile dono al bambino e la

frase fu interpretata come un messaggio. De Ficky individuò uno stabile in via dei Pompieri, vecchia

sede di un'ambasciata spagnola, che è proprio alle spalle di via Caetani. Ma le indagini alla fine

s'interruppero senza arrivare a nulla di concreto.

All'inizio degli anni Novanta una serie di indizi ha nuovamente portato la magistratura nel Ghetto

ebraico: stavolta le segnalazioni indicavano palazzo Orsini, della famiglia Rossi di Montelera, un

imponente complesso che sorge alle spalle del Teatro Marcello, proprio di fronte all'isola Tiberina.

Anche lì c'è un cancello con il "passo carrabile" e due orsi all'ingresso, simbolo della casata, proprio

su largo di Monte Savello. Due orsi e non due leoni, come scriveva Pecorelli, si badi bene. Palazzo

Orsini è ora un complesso residenziale, completamente ristrutturato, dove sono ospitati uffici,

rappresentanze diplomatiche, banche, agenzie: si trova a duecento metri dalla Sinagoga e non

lontano da via Caetani. C'erano perfino alcuni spunti investigativi che in passato avevano già

condotto gli inquirenti alla dimora dei Montelera. Nel covo di via Gradoli la Polizia aveva trovato

degli appunti, scritti da Moretti, con il recapito telefonico dell'Immobiliare Savellia, un'agenzia che

gestiva i contratti di affitto dei residence e degli uffici di Palazzo Orsini. In un altro foglietto c'era

scritto: «Marchesi Liva mercoledì 22, ore ventuno e quindici, atropina». La Marchesi era la titolare

della Savellia e l'atropina è un alcaloide con proprietà anestetiche. La data sembra corrispondere al

22 marzo, sei giorni dopo il sequestro Moro.

Tra le carte di Morucci, al momento dell'arresto, fu anche recuperata una piantina topografica

dell'intero palazzo, corredata di tutte le indicazioni utili, dai vari ingressi allo spessore delle mura.

Rintracciata dai giornalisti in Svizzera, la contessa Rossi di Montelera, che gestiva l'immobile per

conto della famiglia, si mostrò sorpresa: «Sono tutti uffici molto importanti, a chi può essere venuta

un'idea del genere? Sono state compiute indagini? Siamo in grado di dare tutte le informazioni

necessarie». Ma nessuno fino a quel momento le aveva mai chieste, se si esclude un'intercettazione

sull'utenza telefonica di un appartamento, disposta per soli cinque giorni dal consigliere istruttore

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Cudillo, nel marzo '79. L'indagine fu archiviata, ma è rimasto il sospetto che in quel palazzo potesse

esserci la sede di un organismo riservato in qualche modo collegato al quartier generale delle BR.

Elfino Mortati, al termine del suo girovagare, condusse gli inquirenti alla base di via dei Bresciani 4,

dove si svolgevano le riunioni delle BR, ma gli inquirenti non riuscirono a localizzare l'altra, e più

importante, dove aveva pernottato. Anche il brigatista raccontò di aver conosciuto una certa Anna,

durante la sua permanenza a Roma, che dopo la scoperta di via Gradoli lo aveva rassicurato: «Non ti

preoccupare, non cambia niente. Moro è detenuto in città, ma non ci sono problemi perché è in un

luogo di massima sicurezza, non verrà trovato». Una sera, durante uno dei sopralluoghi, qualcuno

fotografò Mortati, Imposimato e anche il giudice Priore che si era accodato al sopralluogo. La foto

fu scattata dall'alto, forse dalla sede sotto copertura del SISDE, poi individuata all'interno di

Palazzo Antici Mattei. I tre furono ripresi mentre erano all'angolo tra Palazzo Caetani e via de'

Fu-nari. Il magistrato lo considerò un avvertimento e le indagini s'interruppero. Pochi giorni dopo -

Mortati era intanto tornato a Firenze - «La Nazione» pubblicò un ampio servizio in cui si dava

notizia del suo pentimento, con la sibillina aggiunta che le BR lo avevano condannato a morte. Il

giovane brigatista intuì che si trattava di una minaccia seria, che i servizi segreti avevano pilotato

l'uscita della notizia e da quel momento rifiutò di rispondere alle domande dei magistrati. Un anno

dopo il fratello del giudice Imposimato, imprenditore a Napoli, fu assassinato dalla camorra.

L'indagine del ROS È stata la Commissione Stragi, negli anni Novanta, a individuare il covo BR di

via Sant'Elena 8, al Ghetto, mai scoperto nel corso delle inchieste disposte dalla magistratura nel

corso di venti lunghi anni. Il presidente Pellegrino affidò la nuova indagine al maggiore dei ROS,

Massimo Giraudo che, sulla base di elementi già emersi nel 78 e di successive testimonianze e

perizie, riuscì finalmente a localizzare la base BR più vicina a via Caetani e cioè al luogo dov'è stato

trovato il corpo di Moro: in una zona dove lo statista sarebbe stato trasferito negli ultimi giorni di

vita e dove con tutta probabilità sarebbe stato anche ucciso. Questa ormai è la convinzione

prevalente: del resto nessun inquirente aveva mai creduto fino in fondo alla versione data da Mario

Moretti, e cioè che il capo delle BR avesse ucciso il presidente della DC in via Montalcini,

all'interno della Renault rossa, per poi attraversare Roma con un cadavere sanguinante nel

bagagliaio. Ma per molti motivi, come vedremo, il vero luogo dell'esecuzione non doveva essere

scoperto. Forse per questo il 9 maggio, quando non era passata neppure un'ora dal ritrovamento di

Moro, il "lucido manovratore" aveva già elaborato il messaggio che serviva a distrarre l'attenzione

dal vero motivo per il quale le Brigate Rosse avevano scelto quella strada. Il messaggio diceva che il

corpo di Moro era stato lasciato lì, al crocevia tra la sede della DC in piazza del Gesù e quella del

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PCI in via delle Botteghe Oscure, per sottolineare in modo simbolico che lo statista era la vittima

sacrificale di quel compromesso storico che non si sarebbe mai dovuto fare. Ma era soltanto l'ultimo

raffinatissimo depistaggio.

Nell'appartamento in via Sant'Elena 8, potrà sembrare strano, ci erano arrivati per primi i vigili

urbani, dopo una segnalazione che forse proveniva dal SISMI, ma di cui non è rimasta traccia al

processo. I carabinieri agli ordini del colonnello Antonio Cornacchia (p2), fallirono nell'impresa. Il

comandante dei vigili Francesco Russo, con il pretesto di un controllo su eventuali abusi edilizi, il

16 settembre 1978 si recò con i suoi uomini all'interno 9, terzo piano, dove abitavano due giovani

coniugi, Laura De Noia e Raffaele De Cosa. Suonò il campanello ma non rispose nessuno. La

portiera raccontò che durante i mesi del sequestro la coppia si era allontanata, lasciando un recapito

telefonico che avrebbe dovuto usare per avvertirli soltanto «se la polizia avesse fatto irruzione».

L'appartamento aveva continuato a essere frequentato da un viavai di giovani; in particolare la

portiera ricordava una donna di nome Anna. Da accertamenti dei vigili urbani, Anna fu identificata

con tale Anna Bonaiuto, a quanto ci risulta mai rintracciata o perseguita. Anzi, il rapporto risultò

censurato in alcune pagine, che probabilmente la riguardavano, come si poteva desumere dai

passaggi successivi.

Nell'inchiesta Moro emerge dunque per la prima volta un'area di militanti BR mai identificati o, se

identificati successivamente, mai perseguiti, come se il covo di via Sant'Elena 8 fosse off-limits.

Prima di addentrarci nei segreti di quest'ultima postazione BR, molto vicina a Palazzo Caetani, va

ricordato che le ultime perizie, quelle consegnate dal comando ROS alla Commissione Stragi,

hanno stabilito che lo statista era stato ucciso a non più di cinquanta metri dal luogo dov'era stato

trovato, e non oltre mezz'ora prima del ritrovamento della Renault, dunque in un orario successivo

alle dieci di mattina, quattro ore in più rispetto alla versione fornita da Moretti. Sulle scarpe e sugli

abiti dello statista furono poi trovati moltissimi frammenti di fibre tessili di vario colore. Gli stessi

elementi "volatili" sono stati rinvenuti anche sui copertoni dell'auto, dettaglio che ha consentito di

stabilire che la vettura che ha trasportato il corpo di Moro ha proceduto lentamente per un percorso

non superiore a cinquanta metri. Yinsula Mattei,parallela a Via Caetani, è piena di negozi e di

magazzini di tessuti e drapperie: in particolare c'è un grande deposito di stoffe in piazza Paganica

con passo carrabile proprio alle spalle di Palazzo Caetani. E Laura De Noia, la donna di via

Sant'Elena 8, è la figlia del proprietario, anzi era, perché sembra che sia morta di cancro nell'estate

del '79. Non si esclude però che possa essere stata allontanata e magari aver trovato rifugio in

Israele, dove aveva parenti e amici.

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All'epoca la De Noia, diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia, lavorava come

documentarista. Dall'inchiesta emerge la figura di una donna inquieta, introversa, alla ricerca di

un'identità politica: espulsa dal PCI, ha gravitato per qualche tempo nei circoli femministi della

Maddalena, poi si è avvicinata ad Autonomia, infine è entrata nel FUORI, l'organizzazione di

liberazione omosessuale candidandosi nelle liste del Partito Radicale. In questo periodo sembra che

Laura abbia riscoperto il suo ebraismo e abbia cominciato a collaborare alla rivista «Shalom»:

andava spesso in Israele dove viveva una sua cugina; di quei viaggi non parlava con nessuno,

soltanto al marito confessò di essere entrata nella rete di Simon Wiesenthal, specializzata nella

caccia ai nazisti, e per questo suo legame pericoloso era costretta ormai a circolare con una pistola. Il

maggiore Giraudo, nel già citato rapporto alla Commissione Stragi, sostiene che il Mossad usa

reclutare i suoi agenti nella rete Wiesenthal.

I brigatisti dissociati, come Adriana Faranda e Valerio Morucci, hanno sempre ripetuto una sorta di

ritornello: «Tutto è chiaro, se qualcosa non si è ancora scoperto riguarda qualche compagno,

coinvolto marginalmente nel sequestro Moro, che se l'è cavata, cioè non è stato indagato o arrestato.

Non vale la pena parlarne, a distanza di tanto tempo». Del resto i dissociati, a differenza dei pentiti,

non hanno mai fatto i nomi di persone non note agli inquirenti (ad esclusione del povero Maccari!).

Fatto è che il silenzio riguarda, evidentemente, tutto un gruppo di persone aderenti alle Brigate

Rosse sulle quali già nel 79 esisteva un rapporto del SISMI, a firma di Cogliandro, in cui veniva

indicata l'origine israelita di alcuni appartenenti all'organizzazione e anche i possibili contatti delle

stesse con il Mossad o organizzazioni limitrofe. Lo stesso Markevitch, indicato come uno dei capi

delle BR, e non come semplice intermediario, aveva avuto relazioni amichevoli e profonde con il

governo israeliano. E in questo rapporto si scopre anche quale fosse l'informatore di Fattorini,

l'agente del SISMI detto Mezzo Ebreo: era un senatore del PCI (proprio come in Cristo nella

plastica dello scrittore italoamericano Di Donato) che avrebbe riferito come in un locale di via

Arenula venissero reclutati giovani della zona per essere poi addestrati, ideologicamente ma forse

anche militarmente, nella tenuta di Santa Ninfa, proprio l'oasi meravigliosa di Hubert Howard, il

signore di Palazzo Caetani, punto d'incontro, come già sappiamo, anche di uomini di Stato e

dell'economia che vengono considerati tra i fondatori di Gladio, ovvero la "rete parallela"

organizzata in funzione anticomunista, e cioè il ministro Paolo Emilio Taviani e il presidente

dell'ENI Enrico Mattei.

Una tragedia, vent'anni dopo, almeno secondo un'altra ipotesi, avrebbe consentito di identificare

chi fosse la misteriosa Anna di cui aveva parlato anche Elfino Mortati, il brigatista toscano. Il 6

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febbraio 1990, all'interno di un'auto parcheggiata nei pressi di Chieti, fu trovato il cadavere di

Marco Tirabovi, suicidatosi con i gas di scarico. Elfino fu in seguito interrogato e disse che in effetti

all'epoca Tirabovi era noto con il soprannome di "Anna", anche negli ambienti del Comitato

Rivoluzionario Toscano, per via dei capelli lunghi. Sull'agenda trovata in tasca al suicida c'era il

numero di Massimo Carloni, ex appartenente al servizio d'ordine di Lotta Continua, poi confluito

nelle BR e indagato nell'88 con esito negativo dalla Procura di Bologna nell'ambito delle indagini

sull'uccisione del senatore Roberto Ruffilli. Fili di un'indagine che collegano le zone più in ombra

dell'organizzazione, il ghetto ebraico e la "cupola toscana".

Amico della Di Noia era Bruno Sermoneta, un altro commerciante di tessuti con negozio in via

Arenula, indagato dopo la scoperta di via Gradoli a causa di un mazzo di chiavi di una sua vecchia

Jaguar ritrovate nel covo. Anche lui era un frequentatore di via Sant'Elena, come i fratelli Settimio e

Osvaldo Cecconi, che possiedono una casa sul lago di Bracciano. Una villetta poco lontano da

quella della Di Noia e del marito. È questa una zona dove nuovamente ci conducono le perizie del

maggiore Giraudo: sulla suola delle scarpe di Moro c'erano tracce di un terriccio vulcanico, che

viene localizzato nella zona dei Monti Sabatini intorno a Bracciano. Nei risvolti dei pantaloni c'era

invece della sabbia, tipica di una parte del litorale tirrenico, compresa tra la zona a nord di Focene e

Marina di Palidoro. Proprio in quell'area, secondo Carlo Alfredo e Giovanni Moro, per due volte le

forze dell'ordine si erano dette certe di aver individuato una prigione e avevano predisposto un blitz.

Un blitz che per misteriose ragioni non si è mai fatto.

Villa Odescalchi, la prigione sul litorale Le ipotesi a questo punto sfumano nel fantasmagorico.

Anche perché la Commissione Stragi, nella nuova legislatura, ha chiuso i battenti lasciando

incompiuta l'indagine sul punto più controverso e più oscuro del caso Moro: la prigione, o le

prigioni, dove lo statista ha trascorso gli ultimi cinquantacinque giorni di vita. Il governo

Berlusconi ha ritenuto che sulle stragi d'Italia fosse stata fatta sufficiente chiarezza e la domanda più

angosciosa che ci insegue fin da quel 16 marzo 1978, quando il presidente DC fu rapito, è destinata

per ora a restare senza risposta. La Procura di Roma non sembra particolarmente interessata a

riaprire il capitolo della prigione Moro, mettendo a rischio la verità accertata nei tre processi finora

celebrati, che poggiano tutti sull'assunto ipotetico che l'unica prigione sia stata quella di via

Montalcini.Assunto ipotetico, appunto: perché la versione dei brigatisti dissociati non può trovare

né conferme né smentite, dal momento che in quell'appartamento gli inquirenti sono arrivati due

anni dopo e quando l'alloggio era stato restaurato. Mentre l'anello debole della catena, Germano

Maccari, il presunto "quarto uomo", è uscito di scena stroncato da un infarto in una cella di

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Rebibbia nell'agosto 2002, quando forse si paventava che l'inchiesta sulla prigione di Moro potesse

venire riaperta. Per il momento la Procura di Roma si è limitata a riaprire il fascicolo su Innocente

Salvoni, non tanto per scoprire quali fossero i suoi rapporti con l'Hyperion, ma per accertare la

presenza e il ruolo in via Fani di questo brigatista, finora scagionato da Morucci.Ho la sensazione,

anche se nulla è ancora trapelato dell'indagine, che Salvoni possa essere identificato come uno dei

due brigatisti a bordo della moto, rimasti finora senza nome. E il cerchio si chiuderebbe per sempre.

Non resta dunque che fare un po' di fantastoria sulla base dei fatti accertati dal ROS. In quali e

quante prigioni è stato detenuto Moro? Personalmente ritengo che il Presidente in via Montalcini

non abbia mai messo piede, ma solo di recente questa mia fissazione ha trovato qualche timida,

seppur autorevole conferma, ad esempio nei dubbi manifestati in un'intervista su un numero di

«Panorama» della primavera 2003 dal giudice Rosario Priore. Molti pensano che Moro sia stato in

via Montalcini per un certo periodo: qualcuno soltanto per pochi giorni, altri fino all'ultima

settimana, quando le BR avrebbero ceduto 1'"ostaggio" alla malavita perché non erano più in grado

di gestire il sequestro. Ma sono in molti a non rinunciare alle molteplici segnalazioni su una

prigione vicino al mare, lungo la via Aurelia.

Un'ipotesi confortata dalla perizia sulla sabbia, che, come abbiamo detto, sarebbe di una qualità che

conduce al tratto di litorale tirrenico che va dal settore nord di Focene a Marina di Palidoro: una

decina di chilometri del lungocosta raggiungibili dalla capitale in non più di mezz'ora. La sabbia

trovata sulle ruote della Renault, sotto la suola delle scarpe di Moro e perfino nei risvolti dei

pantaloni, scrivono i periti, è «reperibile a una distanza dal bagnasciuga molto ridotta, variabile da

pochi metri a un massimo, ma solo per limitatissimi settori del litorale indicato, di non più di un

centinaio di metri». L'analisi peritale così prosegue: Una parte del materiale rinvenuto sotto la suola

delle scarpe indica che la vittima, in epoca anteriore a quella in cui è transitata sulla sabbia del

litorale, ha camminato su un terreno vulcanico tipico delle zone interne e peritirreniche del Lazio:

detto [materiale] per alcuni caratteri è simile a quello osservato sui parafanghi della Renault 4 [...].

La conclusione è la seguente: L'area di provenienza di parte del materiale componente queste

incrostazioni è la regione occupata dai prodotti dei vulcani Sabatini, compresa tra Roma e l'area del

Lago di Bracciano o, in via subordinata, il territorio dei Colli Albani [...]. Il materiale vulcanico non

ha subito trasporto e quindi deve aver aderito ai parafanghi direttamente dalla sua ordinaria area di

provenienza.

E questo vale anche per i pneumatici dell'auto.

La perizia sembra confermare l'ipotesi che Moro sia stato tenuto prigioniero fuori Roma, proprio in

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una zona del litorale compresa tra Focene e Marina di Palidoro. Per una di quelle coincidenze

straordinarie tipiche dei misteri d'Italia, nel 1990 si scoprì che nei pressi di Marina di Palidoro, a

Palo Laziale, dieci anni prima la residenza italiana di Paul Getty, il miliardario americano, era stata

venduta a una catena alberghiera di proprietà della società svizzera Cobajar ed era stata trasformata

nell'esclusivo hotel La Posta Vecchia. La pubblicità ne esaltava la collocazione: il nuovo albergo era

situato su un promontorio, a ridosso della spiaggia, ed era circondato da uno splendido parco e da

boschi protetti del WWF, mentre nei sotterranei era possibile visitare un museo romano.

Procedendo si scoprì anche che Paul Getty aveva acquistato dalla famiglia Odescalchi un'antica

stazione di Posta del Seicento, edificata su ruderi romani, già denominata Villa Odescalchi, che si

trovava all'interno di un terreno ancora di proprietà della nobile famiglia romana.

I vecchi proprietari, alla fine degli anni Sessanta, avevano dato in gestione al WWF il parco naturale

trasformandolo in un'oasi protetta. Il WWF è la stessa associazione naturista che gestisce l'oasi di

Ninfa, in base a un accordo con la Fondazione Caetani, ed è stato fondato nel 1966, insieme al

Gruppo Natura di Italia Nostra, che è la prima associazione di tipo protezionista sorta attorno alla

metà degli anni Cinquanta su iniziativa di Giorgio Bassani, Elena Croce e... Hubert Howard (che

ne fu anche consigliere nazionale dal 1962 al 1972). Due nomi, questi ultimi, che riconducono a

Markevitch. Con un'ultima postilla che consente di chiudere il cerchio della fantastoria: il nome di

Hubert era annotato anche sull'agenda di Laura Di Noia, la brigatista che abitava in via Sant'Elena

8 ed era figlia del proprietario del negozio di tessuti che si trova alle spalle di Palazzo Caetani.

Prima di tornare al Ghetto, bisogna aggiungere che nel 78 Villa Ode-scalchi era ancora di proprietà

di Paul Getty, che l'aveva trasformata in una residenza sfarzosa, dotata perfino di una pista di

atterraggio per elicotteri e velivoli privati. L'antica allusione di Pecorelli sul fatto che Moro potesse

essere stato trasferito in elicottero troverebbe così una surreale giustificazione.

Certamente Howard e Getty si conoscevano. E sembra anche che dietro la nascita dell'oasi di Palo

Laziale, come per Santa Ninfa, si nasconda la passione naturista del dominus di Palazzo Caetani.

Insomma quel luogo ricco di anfratti, ruderi, capanni, vasto migliaia di ettari, ma chiuso all'esterno,

con i suoi numerosi nascondigli naturali era particolarmente adatto a occultare una prigione che

poteva rimanere ignota perfino ai custodi della villa dove il magnate del petrolio si recava di rado.

Dopo la vendita dell'80, come in via Montalcini, provvidenziali lavori di restauro hanno

completamente alterato la struttura dei luoghi dove Moro potrebbe essere stato tenuto prigioniero,

anche se le coincidenze che hanno condotto la Commissione Parlamentare d'Inchiesta a Villa

Odescalchi restano molto suggestive.

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La località coincide con l'indicazione data dall'uomo della 'ndrangheta Rocco Varrone all'onorevole

Cazora: la prigione nella zona Aurelio-Boccea che era, per la sua collocazione, sotto il controllo

della Banda della Magliana:potrebbero essere stati proprio i boss della gang romana a proteggerla da

intrusioni durante il sequestro. Anche Pippo Calò abitava in quel periodo in una villa sull'Aurelia,

ha raccontato Buscetta.

C'è di più: com'è avvenuto per Palazzo Caetani, l'indagine del ROS ha portato alla luce una serie di

segnalazioni fatte all'epoca, e volutamente ignorate, sulla presenza di brigatisti nella zona di

Focene. Il 26 marzo 1978, dieci giorni dopo il rapimento Moro, due addetti al lavoro di ripristino

dei canali, i cosiddetti "spalatori", notarono nei pressi dell'argine di Focene un gruppo di giovani,

forse due ragazze e due ragazzi, intenti a seppellire qualcosa sulla spiaggia. Appena si

allontanarono, gli spalatori videro che dalla sabbia spuntavano volantini delle Brigate Rosse.

Dunque avvisarono una pattuglia della Guardia di Finanza segnalando in particolare la presenza di

una ragazza bionda che faceva parte del gruppo. Prese avvio un'indagine alquanto strana, anche

perché quasi subito la Guardia di Finanza entrò in conflitto con l'UCIGOS che non ritenne

attendibile la testimonianza degli "spalatori" e anzi invitò le Fiamme Gialle a ritirare le pattuglie

dalla zona perché, così confermò l'uciGOS, potevano suggestionare altri eventuali testimoni e

indurii a riconoscere erroneamente la ragazza. Dalla nota emergeva che la bionda era stata

identificata, ma per qualche motivo FuciGOS riteneva non fondato il riconoscimento, anzi

sosteneva la «completa estraneità ai fatti» della stessa perché «persona legata ad elementi al di sopra

di ogni sospetto». L'UCIGOS metteva anche in dubbio il fatto che il gruppo di persone viste dagli

"spalatori" sulla spiaggia fossero coloro che avevano seppellito i volantini. Il sospetto è che i due

operai abbiano riconosciuto la ragazza non dalle foto, ma de visti, perché si trattava di una persona

nota nella zona.

Nonostante la diffida del ministero dell'Interno, la Guardia di Finanza continuò a indagare. Nelle

mie memorie di cronista questo episodio ha fatto riemergere un lontano ricordo: nell'autunno '78

lavoravo all'ANSA e il mio capo mi spedì a Focene perché aveva saputo da un amico della Finanza

che in quella zona era stato scoperto un covo delle BR. Non ne cavai molto, ma è evidente che la

notizia dell'indagine trapelò già allora. Il 2 settembre 1978 il giudice Rosario Priore finalmente

interrogò gli "spalatori" che confermarono la loro versione. Al primo fu mostrato un album di un

centinaio di foto di individui che gravitavano in ambito brigatista e l'uomo indicò nella foto numero

7 una delle quattro persone notate sul litorale di Focene. «L'ufficio da atto che trattasi della

fotografia di Mario Moretti», è scritto nel rapporto. Ma della ragazza bionda non si è più avuta

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notizia. Non solo: lo spalatore aggiunse di aver notato in quello stesso periodo una Renault

parcheggiata lungo il canale con all'interno due giovani con i baffi. L'indagine fu archiviata e fino al

2000 della presunta prigione sul litorale romano non si è saputo più niente.

Per tornare all'ipotesi che Moro abbia trascorso gli ultimi giorni di prigionia nella zona del Ghetto,

esaminiamo la seconda parte della perizia del ROS: nella Renault 4 c'erano soprattutto filamenti

tessili, sovrastanti sia la sabbia che il terriccio, e quindi deposti successivamente: Un assortimento di

varie strutture filamentose a caratteri molto eterogenei, presenti sia in elementi di alcuni centimetri

di lunghezza sia dispersi anche nelle classi granulometriche più fini della frazione sabbiosa, con

lunghezze inferiori al decimo di millimetro. Sono stati identificati [...] fibre e frammenti di fibre con

caratteri di diametro, di pennello terminale e di superficie analoghi a quelli propri delle fibre

artificiali. Tra le altre sono state osservate di colore rosso e azzurro, molto sottili, avvolte in fitti

aggregati; rosso di diametro maggiore; marrone, giallastro e arancione e bianco di diversi diametri e

caratteri di dettaglio.

Ma l'elemento più importante è che la presenza di questi filamenti sulle ruote e sul parafango è così

massiccia da far ritenere che la vettura non abbia percorso più di cinquanta metri, a bassa velocità,

dal luogo dov'è entrata in contatto con il materiale descritto, a via Caetani dov'è stata ritrovata. Con

l'inevitabile deduzione che Moro sia stato ucciso in un luogo molto vicino a palazzo Caetani.

Quale può essere stato dunque, in questa sarabanda di brigatisti, cacciatori di teste e agenti segreti,

il percorso immaginario compiuto dal presidente DC dal momento della sua cattura in via Fani? Le

perizie del maggiore Giraudo, intrecciate alle grandi connection evocate dal musicista

Markevitch,consentono di individuare alcune possibili tappe.

Dopo la strage di via Fani, la 132 con a bordo Moro arriva in via della Balduina, entra dal lato

posteriore nella rimessa dello IOR di via Massimi 91, dove - se prendiamo per buona la fiction di Di

Donato - nell'apposito locale attrezzato da più di un anno, gli vengono prestate le prime cure.

Ricordiamo che la 132 nella mezz'ora successiva al sequestro, viene vista parcheggiare nei pressi di

via Massimo, in via Licinio Calvo, da due uomini e una ragazza, quando dell'ostaggio non c'è più

alcuna traccia.

Dopo una breve sosta nel garage, Moro, a bordo di un furgone, sarebbe stato trasferito per vie

secondarie in una villa nei dintorni di Bracciano,zona che dista appena dieci minuti dalla sfarzosa

residenza di Paul Getty dove, secondo questa ipotetica e ardita ricostruzione, lo statista avrebbe

trascorso buona parte dei cinquantacinque giorni: l'assoluta sicurezza dell'ambiente avrebbe

addirittura consentito ai suoi carcerieri di fargli compiere qualche passeggiata sulla spiaggia. A

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confortare quest'ipotesi, che ha dell'incredibile, agli atti della Commissione Stragi ci sono, come

abbiamo accennato, le testimonianze di Carlo Alfredo e Giovanni Moro, rispettivamente fratello e

figlio dello statista, che raccontano di aver appreso in due differenti occasioni e da fonti diverse che

le forze dell'ordine avevano individuato una possibile prigione di Moro vicino Palo Laziale e

stavano preparando un blitz per liberarlo. Era stato Dalla Chiesa a scoprire il rifugio segreto, e per

questo l'ostaggio fu nuovamente trasferito per la terza e ultima volta nella zona del Ghetto? Di

questa ricostruzione non c'è traccia nella versione data dai dissociati delle BR. E soltanto la

magistratura potrebbe riaprire questo capitolo di indagine. Il presidente Verrina, nelle motivazioni

della sentenza sull'omicidio Pecorelli, manifesta rincrescimento per non essere riuscito a localizzare

la prigione di Moro che Dalla Chiesa avrebbe scoperto quando propose di fare quel blitz che non gli

fu consentito. Eppure i risultati delle indagini compiute dalla Commissione Parlamentare che ha

pieni poteri d'inchiesta, pari a quelli della magistratura, erano già noti. Perché la Corte d'Assise

d'Appello di Perugia non ne ha tenuto conto? Gli atti non sono stati trasmessi? Forse dobbiamo

rassegnarci, ancora una volta, all'incomunicabilità tra poteri dello Stato e organi inquirenti.

I misteri del Ghetto Non deve stupire la chiave surreale cui ricorriamo per tentare di forzare l'ultimo

baluardo che si oppone alla piena comprensione di quella terribile primavera del 78. Ma è un

personaggio insospettabile che a un certo punto ci viene in aiuto: Peter Tompkins, vicecapo del

Comando Alleato durante la Liberazione, che ci da un'indicazione, forse non del tutto casuale,

dell'ultima possibile prigione di Aldo Moro nella sua biografia: Una spia a Roma scritta negli anni

Sessanta, ma recentemente ripubblicata con una presentazione. Del resto Tompkins è un esperto di

guerra psicologica e ha sempre mostrato di saper calibrare i suoi interventi nei fatti italiani di cui è

grande conoscitore. Tompkins conosce bene Palazzo Caetani, visto che nel '43 vi aveva stabilito la

sua base segreta. E conosce bene anche Markevitch:si erano incontrati durante la guerra, quando

Igor, su consiglio di Carlo Sinigaglia, entrò in contatto con l'ORI, il servizio segreto della

Resistenza, organizzato dall'avvocato torinese Raimondo Craveri, che era per altro marito di Elena

Croce. La rete Craveri operò in stretto contatto con l'oss e dunque con il generale William

Donovan, ma soprattutto con Peter Tompkins.

In quel periodo la "spia americana" è già all'interno di Palazzo Caetani, dove svolge la sua attività di

intelligence in stretto contatto con alcuni comandanti partigiani, come Giuliano Vassalli, da lui

incaricato di organizzare la liberazione dal carcere nazista dei prigionieri politici. Tra questi ci sono

anche due futuri capi di Stato, ovvero Saragat e Pertini. Nel libro di memorie Tompkins racconta un

episodio avvenuto nel '43 in un interno di Palazzo Antici-Mattei (lo stabile fa parte dello stesso

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complesso occupato dagli alleati e chiude alle spalle Palazzo Caetani): Cervo mi fece salire i gradini

che portavano alla terrazza: da qui per un corridoio tortuoso mi condusse in una piccola camera da

letto, ove, spostato un comodino apparvero i contorni di un pannello segreto largo circa quaranta

centimetri e alto altrettanto. Lo aprì e si cacciò dentro a carponi[...] varcato il pannello mi trovai in

una piccola camera da letto dove tutte le porte erano state murate e coperte da carta da parati, l'unica

finestra era celata da pesanti tendaggi [...]. Quella stanza così ben nascosta all'ultimo piano di

Palazzo Antici-Mattei doveva servire come rifugio temporaneo per i prigionieri liberati dalle carceri

tedesche in attesa di poterli estradare verso la salvezza.

Anche Moro è stato trattenuto in quella stanza, in attesa di essere estradato, come i prigionieri

liberati dai tedeschi? Scriveva il nostro Pecorelli in quei giorni: «Moro era certo di essere liberato,

ma temeva di essere ferito in un conflitto a fuoco dei "carabinieri"...». I carabinieri di Dalla Chiesa,

che avevano scoperto il suo ultimo domicilio e premevano per intervenire? O erano altri i

"carabinieri" che Moro temeva? E veramente difficile riuscire a immaginare quello che è accaduto

negli ultimi giorni e soprattutto nelle ultime ore. I brigatisti dissociati, ad esempio, assicurano che

Moro non sapeva di essere stato condannato a morte, al contrario, era convinto che l'ultimo

trasferimento avrebbe preceduto di poche ore la libertà. Anna Laura Braghetti arriva a descrivere il

commiato, i saluti, lo scambio di reciproci auguri, prima che il Presidente si calasse nella cesta per

essere portato via. Forse dobbiamo soltanto retrodatare di qualche giorno questa foto, a quando i

brigatisti, o almeno alcuni di loro, sono usciti definitivamente di scena e l'ostaggio è stato

consegnato ad altri protagonisti, ancora sconosciuti, della fase finale del sequestro. Ma credo che

almeno Moretti abbia incontrato Moro, nei giorni successivi, quando era ancora in corso l'ultima

possibile trattativa prima che qualcuno, come scriveva Pecorelli, «alzasse il prezzo e tradisse il

patto».

Una cosa è certa: Moro era costantemente informato di ogni decisione che lo riguardava. E perciò

anche della condanna a morte, quando questa fu decisa. Lo conferma l'ultima straziante lettera alla

moglie: «Mia dolcissima Noretta...». Ma anche la telefonata che fece Morucci al professor Franco

Tritto, un amico dello statista. Un colloquio drammatico, che abbiamo ascoltato tante volte in tutte

le commemorazioni, anno dopo anno. Morucci dice al professore che il corpo di Moro è in via Fani,

nella Renault rossa: «Lei deve informare la famiglia, sono le ultime volontà del Presidente, non

vuole che lo sappiano da altri, vada subito da loro». Il professor Tritto, un vecchio allievo

dell'università, piange al telefono, sussurra: «Non me la sento, non ce la faccio...». Morucci insiste:

«Professore, io non mi posso trattenere a lungo, faccia come le ho detto, sono le volontà del

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Presidente, nell'auto ci sono anche alcuni effetti personali da consegnare alla famiglia».

Morucci temeva che potesse essere localizzata la cabina da dove stava telefonando, aveva paura di

essere arrestato. Il nastro della registrazione è pieno di fruscii: anche il brigatista sembra

emozionato e sullo sfondo si sentono distintamente i singhiozzi di Tritto. Dunque a Moro era stato

comunicato che la sentenza doveva essere eseguita, aveva avuto il tempo di manifestare le sue ultime

volontà e, immaginando la disperazione della moglie e dei figli, preferiva che fosse un amico di

famiglia a portare la notizia. Non il presidente del Consiglio Andreotti, non gli ex amici della DC,

quel partito da cui aveva dato le dimissioni, uomini che aveva accusato di averlo condannato a

morte. E nella sua solitudine, consapevole di essere stato tradito, si è avviato verso l'estremo

sacrificio dopo aver maledetto per l'ultima volta i nuovi nemici e i vecchi amici.

La perizia del ROS afferma che neppure la versione dell'esecuzione è compatibile con quanto ha

rivelato l'autopsia: Moro era in piedi quando gli hanno sparato o, se davvero era all'interno dell'auto

(ipotesi considerata molto improbabile) il killer che ha imbracciato la mitraglietta Scorpion, per la

particolare inclinazione dei colpi, doveva essere seduto al posto di guida e dunque doveva avere

un'elevata capacità nel manovrare l'arma, in quella posizione scomoda e in quello spazio angusto.

Anche la tragica pagina finale sembra tutta da riscrivere.

In assenza di ogni possibile certezza, sullo scenario dell'assassinio troviamo un altro degli scritti

oscuri, visionari e sibillini di Pecorelli. Il passo è tra i meno conosciuti, forse perché soltanto da

poco tempo è stato possibile coglierne interamente il significato. Esso suggerisce come il giornalista

fosse tra i pochi ad aver capito immediatamente perché il corpo di Aldo Moro era stato abbandonato

in via Caetani e quali segreti nascondessero quelle mura. Su «OP» del 23 maggio 1978, dunque,

Mino si avventura in un'altra fantacronaca, quella del ritrovamento del presidente DC, e immagina

tra la folla una contessa romana che sull'onda dell'emozione si abbandona a sinistre riflessioni. Di

fronte al muro dov'è parcheggiata la Renault con il corpo di Aldo Moro, la nobildonna ha come

un'allucinazione e sussurra: Oltre quel muro ci sono i ruderi del teatro Balbo, il terzo anfiteatro di

Roma. Ho letto in un libro che a quei tempi gli schiavi fuggiaschi e i prigionieri vi venivano condotti

perché si massacrassero tra di loro. Chissà cosa c'era nel destino di Moro perché la sua morte fosse

scoperta proprio contro quel muro? Il sangue di allora è il sangue di oggi, quel sangue ricade anche

su di noi.

La risposta all'ultimo rebus non è, oramai, troppo difficile: quegli antichi guerrieri costretti a

scendere nelle arene erano i gladiatori.

ruolo del KGB Molti anni dopo il professor Franco Tritto è stato protagonista di un'altra

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testimonianza. Quando fu pubblicata in Italia la lista della rete di spie del KGB elaborata

dall'archivista del servizio segreto sovietico Vassilij Mitrokhin, il professore si accorse che

nell'elenco c'era un nome che gli suonava familiare: quello di Sergej Solokov, uno studente russo

che negli ultimi mesi aveva seguito assiduamente le lezioni di Aldo Moro all'università. Tritto

ricordò anche che, familiarizzando con la cerchia di assistenti, tra cui lui, Solokov di tanto in tanto

chiedeva informazioni sugli spostamenti del presidente della DC o sulle misure di sicurezza

adottate per proteggerlo. Il 15 marzo 1978, il giorno prima del sequestro, il presidente DC, dopo

essersi intrattenuto a parlare con lo studente russo per qualche minuto, lo aveva invitato a

presenziare all'insediamento del governo Andreotti previsto per il giorno successivo, dicendogli che

poteva passare nel suo studio in via Savoia quel pomeriggio per ritirare l'invito. Con sorpresa il

professor Tritto, leggendo le memorie dell'archivista Mitrockhin, scopriva che lo studente era

partito da Roma il 24 marzo 1978, ma era tornato in Italia nell'81, dov'era rimasto fino all'85 per

svolgere attività di spionaggio sotto la falsa copertura di giornalista della TASS.

L'episodio ha molto avvalorato la pista sovietica nel sequestro Moro ed è stata recentemente

sponsorizzata dalla Commissione Parlamentare che si occupa delle liste Mitrokhin. Qualche

riflessione. Probabilmente lo studente russo era un informatore del KGB, un'aspirante spia che

cercava di raccogliere informazioni su personalità politiche per accreditarsi presso il servizio ed

essere assunto quale agente, com'è poi avvenuto. Ma sembra strano che il KGB, per quanto

possiamo averne una cattiva opinione, si esponesse al punto da mandare un suo agente nello studio

di via Savoia sapendo quel che bolliva in pentola per il giorno dopo. Per giunta, proprio il 15 marzo,

in via Savoia era accaduto un fatto che aveva messo in subbuglio tutti gli apparati di sicurezza e

aveva creato molto allarme tra gli uomini della scorta, in particolare nel maresciallo Leonardi che da

tempo temeva potesse accadere qualcosa di molto grave. Ci fu un furto, o un tentativo di furto,

comunque l'intrusione di due uomini nell'appartamento che avevano prelevato o tentato di

prelevare documenti riservati. Cosa sia successo in via Savoia quel giorno con esattezza non si è mai

capito: il capo della polizia Parlato andò sul posto assicurando che si trattava di semplici ladruncoli,

cosa che non rassicurò nessuno.

Il caso Solokov dimostra ben poco, tutt'al più che il KGB era all'oscuro di quanto stava per accadere,

oppure aveva informazioni molto imprecise: potrebbe aver mandato un agente al seguito del

Presidente, ma credo più probabile che si sia trattato di iniziative, anche maldestre, di un

collaboratore esterno. Detto questo, abbiamo già visto, come il KGB fosse interessato al sequestro

Moro, come a sua volta temesse l'ascesa del PCI e il compromesso storico per i contraccolpi che

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l'ingresso nell'area di governo del maggior partito comunista europeo poteva provocare nell'impero

sovietico, rafforzando il "comunismo democratico". Sappiamo anche che il KGB era certamente in

grado di controllare almeno un nucleo di militanti delle Brigate Rosse, come appare evidente dal

rapimento del generale americano James Lee Dozier, avvenuto a Verona nell'82 quando ormai le

Brigate Rosse si erano spezzate in due: da un lato l'ala movimentista di Senzani, gestita

dall'Hyperion e pertanto dal blocco occidentale (anche se sono personalmente convinta che Yécole

sia stata la casa madre degli agenti tripli), e dall'altro l'ala militarista formata prevalentemente dalle

colonne BR del Nord-Est e da un gruppo di brigatisti romani, capeggiati da Antonio

Savasta,all'interno della quale prevalevano le manipolazioni dei servizi segreti dell'Est. E

certamente il KGB poteva contare su informazioni che venivano da uomini a lui legati da tempo,

per quel che ne sappiamo: persone come quel Giorgio Conforto che, pur essendo stato un

funzionario della polizia segreta fascista di Mario Roatta, risultò essere in contatto con il servizio

sovietico fin dal 1930. Ma "Dario" era anche molto vicino ad ambienti del Viminale e in ottimi

rapporti con uomini dell'apparato, tra cui il memorabile capo dell'Ufficio Affari Riservati Federico

Umberto D'Amato. Insomma, abbiamo di fronte personaggi di spessore più consistente di Solokov,

persone che sembravano svolgere un ruolo di tramite tra Est e Ovest negli anni della guerra fredda.

Uno scenario all'interno del quale sembra collocarsi perfettamente anche Markevitch.

Il PCI, accusato dalla destra di aver ricevuto finanziamenti dal KGB (non diversamente da quanto

accadeva in quegli anni tra DC e CIA), non era nel 78 in rapporti idilliaci con l'URSS ed era molto

preoccupato degli appoggi che potevano essere forniti dai paesi dell'Est a organizzazioni

terroristiche non certo per sostenere l'insurrezione armata in Italia, quanto per boicottare quella

linea politica di compromesso storico alla quale aveva lavorato, oltre Moro, anche Enrico

Berlinguer.

Penso dunque che non sia un caso che la fonte «altamente qualificata» del SISMI, a quanto

confermò il generale Demetrio Cogliandro alla Commissione Stragi il 12 luglio 1999, fosse un

senatore del PCI (proprio come 1 racconto dello scrittore italoamericano De Donato). Il SISMI lo

considerava una fonte «molto attendibile»: era un'indicazione di affidabilità altissima, quasi mai

usata dal servizio. Ma, se leggiamo l'informativa scritta dal funzionario dei servizi segreti,

comprendiamo anche quale sofisticato scenario apra la comparsa del KGB nel caso Moro.

Fonte molto attendibile riferisce: 1. Un senatore del PCI (non identificato) sarebbe a conoscenza

dell'identità del capo delle Brigate Rosse. Questi si chiamerebbe Igor e sarebbe figlio o nipote di

Margherita Caetani, già direttrice della rivista edita da Feltrinelli intitolata «Botteghe oscure». Igor,

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coetaneo di Moro, avrebbe partecipato agli interrogatori del leader DC. I Caetani, già da oltre dieci

anni, avevano un ufficio in via Arenula dove provvedevano al reclutamento di giovani che

successivamente partecipavano a riunioni politiche nei possedimenti Caetani, in particolare nella

tenuta di Ninfa e della «stanza del Cardinale» nel castello di Sermoneta. Accertamenti. Gli

accertamenti condotti hanno permesso di identificare Igor Markevitch, marito di Caetani Topazia e

nipote di Margaret Chapin in Caetani.

2. Presso il Comune di Roma sono stati assunti molti fiancheggiatori delle Brigate Rosse, che

suddivisi successivamente in piccoli gruppi hanno dato vita a vere e proprie cellule eversive. A

conforto di tale tesi [la fonte] ha citato la Balzerani e la Mariani Gabriella (inquisite per la vicenda

Moro) e ha riferito che in via Gradoli fu trovata la chiave dell'autovettura Jaguar targata H via

Aurelia n. 701 [sic]. L'auto era appartenuta originariamente a tale Sermoneta, amico di una

brigatista residente in via di Sant'Elena 8. A questo indirizzo è stata più volte notata Buonaiuto

Anna, facente parte del gruppo in argomento. Al tempo della vicenda Moro, gli occupanti

dell'appartamento si allontanarono da Roma per evitare perquisizioni e lasciarono il recapito di un

bar di Trevignano. Accertamenti. Gli occupanti dell'appartamento sono stati identificati nei

coniugi Di Noia, residenti in via Sant'Elena e i corrispondenti di Trevignano sono Cecconi

Settimio, professore di filosofia [...]; Franchini Antonio [...] al momento non identificato.

Questa l'informativa. Il SISMI era dunque già in possesso, tra la fine di aprile e i primi di maggio

del 1978, di tutte le informazioni cui è faticosamente giunta la Commissione Stragi venti anni dopo.

Forse qualcuno potrà dire che ad alimentare la leggenda del Grande Vecchio sono state le paranoie

di un senatore comunista che aveva la cattiva abitudine di frequentare i servizi segreti, amplificate

da uno scrittore americano cui qualcuno aveva raccontato questa storia. Ma ci sono troppi riscontri

incrociati: le ammissioni di Morucci, messo di fronte a fatti incontestabili; le perizie del ROS, la

vecchia indagine della Guardia di Finanza; gli articoli di Pecorelli e tanti, tanti altri piccoli e grandi

indizi di cui abbiamo parlato perché questa storia non sia ignorata.

Non si vuole processare il passato: solo ricostruire la verità utile a capire il presente. Quella delle

Brigate Rosse non è una storia chiusa. Pochi mesi fa, il 2 marzo 2003, due brigatisti sono tornati a

sparare su un treno, erano diretti ad Arezzo, facevano capo ad un covo che non è stato ancora

scoperto a Firenze. Erano Nadia Desdemona Lioce e Mario Galesi, accusati degli omicidi di

Massimo D'Antona e Marco Biagi. Ci sono in giro ancora schegge impazzite delle Brigate Rosse

che ruotano attorno al Comitato Rivoluzionario Toscano, dietro il quale si cela una centrale occulta

che nessuno finora ha voluto scoprire.

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Storia di un agente «triplo» Il maggiore Giraudo, per dare una risposta a tanti interrogativi, ha

esplorato anche l'altra carriera di Igor Markevitch, quella di uomo di intelligence che si era

evidentemente intrecciata agli sviluppi della sua straordinaria ascesa di artista; ma fin dall'inizio è

stato difficile districarsi tra i mille legami "importanti" della sua vita. Il musicista era divenuto

amico del nazista Dollmann mentre trattava con gli americani per la liberazione di Firenze; era stato

amico fraterno di Michael Noble, il capo del PWB, la struttura che si occupò della rinascita della

vita culturale in Italia dopo il fascismo: ci aveva addirittura coabitato, e l'americano gli aveva aperto

le porte più importanti della sua carriera di direttore di orchestra. Ma a Roma Markevitch, mentre

era in contatto con Tompkins per conto di Craveri, era entrato anche in confidenza con alcuni

ufficiali sovietici accreditati presso il comando alleato. E la prima moglie del musicista, Latjana

(detta Kyra) Nizinskij, era stata allontanata dalla polizia fascista come sospetta spia

dell'URSS:perché il musicista non fu altrettanto indagato? Forse le sue "credenziali" erano già note.

Scrive Giraudo che, se era viscerale il suo legame con la Madre Patria, altrettanto forti erano i

rapporti che aveva stabilito con Israele, tanto da dichiarare la sua totale adesione alla cultura e al

destino della nazione ebraica.

Nel periodo in cui la sua malattia all'orecchio esordì, quando già il matrimonio con Topazia Caetani

vacillava, Markevitch accettò per la prima volta di fare concerti in URSS. Un'esperienza da cui era

uscito furibondo e prostrato. È in questo periodo che vengono collocati i suoi primi contatti con

l'intelligence sovietica. La conferma arriva dalla Francia: nel 76, a Parigi, Markevitch frequentava

intensamente Juri Borissov, antenna del KGB in Francia, sotto la copertura di addetto culturale

all'ambasciata sovietica di Parigi. Ma per comprendere il suo ruolo di straordinario doppiogiochista,

dobbiamo tornare ai suoi rapporti con il bulgaro Jordan Wessilinoff, che già conosciamo: un agente

al servizio di molte bandiere, americani, russi e bulgari, che avrebbe finanziato attraverso il Noto

Servizio anche il MAR di Carlo Fumagalli allertando la Procura di Brescia. Claudia Wessilinoff,

figlia di Jordan, ha sposato nel '66 Vaslaw Markevitch, primogenito di Igor e Kyra Nizinskij. Il

cerchio si chiude: anche Markevitch faceva parte del Noto Servizio o perlomeno era in contatto con

esso.

Nelle sue memorie La verità di un generale scomodo, 1998), il generale dei Carabinieri Francesco

Delfino scriverà che il musicista Igor «era persona di grande esperienza nel campo dell'intelligence:

è possibile decifrare l'affare Moro solo pensando all'interazione di interessi tra USA, URSS e Israele

in quel particolare periodo politico cui fu possibile assistere al gioco di opposti e coincidenti

estremismi». Una fase collaborativa che anticipava di un decennio lo scenario che sarebbe stato

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determinato dalla fine degli equilibri stabiliti a Yalta nel 1945. Delfino più avanti spiega: Per capire

la storia recente del nostro paese bisogna tornare al 78. Il 1978 è l'anno cruciale del terrorismo [...]

l'assassinio di Moro maturò al culmine di una parabola, da quel momento sarebbe iniziata la discesa

[...]. Ebbene, mi sono detto, in mezzo a questo marasma c'è o non c'è chi tira le fila, c'è o non c'è il

Grande Vecchio in grado di muovere i fili del burattino Italia? La mia idea guida è il caso Moro del

quale non mi sono mai occupato: mi si sono aperti nella mente in modo casuale, ripescati nel cestino

della memoria, quattro file. Primo file: una foto di Henry Kissinger; secondo file un vocabolario

russo-italiano; terzo file l'attentato alla questura di Milano di Gianfranco Bertoli, un individuo che

si professa anarchico. Ma non proviene da Israele? Quarto file: il corpo dilaniato di Feltrinelli a

trecento metri da uno dei covi di Carlo Fumagalli. Ecco dunque i quattro file: USA, URSS e Israele;

se il Grande Vecchio che ha attraversato la lunga stagione di sangue del nostro paese non ha la barba

lunga di Noè o il pelo orripilante dello Yeti venuto dalle pendici dell'Himalaya, potrebbe ritrovarsi

nella storia dei rapporti internazionali tra queste tre potenze.

Nella Relazione sul musicista russo Igor Markevitch, stilata nel 2001 per la Commissione Stragi dal

giudice Silvio Bonfigli (poi autore con Iacopo Sce di un libro: Il delitto infinito, ultime notizie sul

sequestro Moro) viene esplicitamente scritto che Markevitch è un "agente triplo". Una definizione

che ci fa sorridere, perché ci riporta a un'altra delle tante premonizioni di Mino che durante il

sequestro Moro scriveva: Siamo in presenza di agenti doppi, tripli, rossi, gialli, arancioni, che si

agitano sullo sfondo di diverse bandiere, qualcuno alla fine sperando di poter ricavare anche qualche

incarico ministeriale.

L'ennesima premonizione di Pecorelli non sembra riguardare soltanto Markevitch, il cui ruolo nella

vicenda gli era probabilmente già noto, ma una folla di protagonisti che in parte abbiamo

incontrato, in parte ancora ci sfugge. Partiamo dall'Hyperion, Vécole francese, che nei quattro mesi

del rapimento Moro aveva aperto una sede in via Nicotera, poco distante dal Ghetto. Era una

dépendance della CIA? Lo stesso giudice Rosario Priore nutre qualche dubbio: «Difficilmente il

governo francese avrebbe tollerato una simile ingerenza sotto il suo ombrello, all'interno della

scuola erano senz'altro ospitati più cartelli». E torniamo a Laura De Noia, estremista di sinistra ma

filoisraeliana: la presunta brigatista aveva sulla sua agenda il numero di Hubert, ma anche quello

dell'astrofisica Giuliana Conforto, figlia come abbiamo già visto di quell'agente segreto "Dario" il

cui nome compare contemporaneamente sulla lista Mitrokhin e in testa al fascicolo del Noto

Servizio.

L'astrofisica, proprietaria dell'alloggio dove furono arrestati Morucci e Faranda, amica a sua volta

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della proprietaria dell'appartamento in via Gradoli,politicamente si collocava tra gli ex comunisti

"secchiani", ovvero seguaci di Pietro Secchia, il dirigente espulso dal PCI di Togliatti per

estremismo e stalinismo, morto avvelenato nel 73. All'interno delle BR, soprattutto tra gli emiliani,

esisteva un nutrito gruppo di "secchiani": Franceschini, Gallinari e altri. Ed è dietro questo

"autentico" profilo comunista delle Brigate Rosse che s'intravedono rapporti che possono aver

accreditato l'autenticità" di Markevitch partigiano comunista. Il capo partigiano di Firenze, Gino

Tagliaferri, nella sua autobiografia Comunista non professionale racconta: «il 14 settembre 1943

venne a Firenze il compagno Secchia, facemmo una riunione in cui furono assegnati gli incarichi

[...] il lavoro militare venne affidato al Sinigaglia quale responsabile principale». E di quello stesso

periodo Markevitch racconta il forte legame che aveva stretto con Sinigaglia: «Appartenevo ogni

giorno di più ad un nuovo mondo, di cui la resistenza antinazista appariva l'apprendistato».

Il musicista era entrato a far parte di un mondo circolare dove alla fine gli estremi si toccano. Come

nel caso di "Dario", agente doppio e forse triplo: già in contatto con i russi da quando era nel Tovra,

poi spia del KGB, ma senza tralasciare rapporti con gli angloamericani. Anche Dario, come

Markevitch, era cultore di pratiche esoteriche, una passione che la figlia Giuliana ancora coltiva e

che condivide con Tompkins: la "spia americana" negli anni è diventata uno dei massimi conoscitori

dei misteri egizi. Tutti e due frequentano l'associazione Uomo Natura Energia. Strane comunanze,

che non devono stupirci, perché la Guerra Fredda è davvero finita.

Forse c'è davvero stato quel tacito accordo all'interno delle grandi potenze sul rapimento Moro di

cui parlava Mino nel suo articolo Yalta in via Fani", e che molti recenti indagatori dei misteri italiani

danno ormai per certo. Ognuna delle tre potenze, indicate dal generale Delfino, era a suo modo

interessata a bloccare i disegni politici di uno statista troppo indipendente: gli americani contrari

all'apertura del governo ai comunisti; i sovietici preoccupati dall'influenza che poteva avere oltre il

Muro un modello di comunismo democratico; gli israeliani indignati per la sua politica filoaraba.

Ma è nel corso del sequestro, di fronte all'imprevedibile sviluppo di un Moro che decide di

collaborare, che durante l'interrogatorio rivela segreti di Stato e militari, che si riattiva la guerra di

intelligence tra Est e Ovest. E nelle BR si moltiplica il gioco degli specchi, perché ognuna delle

parti in causa ha i propri rappresentanti al suo interno: ci sono i secchiani, i cacciatori di teste e i

gladiatori. Categorie che Markevitch nel corso della sua straordinaria vita tocca tutte, essendo al

tempo stesso angloamericano, filosovietico e amico di Israele. Forse è davvero lui 1'"intermediario",

sfuggito al controllo dei suoi molti committenti, dominus di un interrogatorio che soltanto lui è in

grado di dirigere, con quella pluralità di suoni che gli viene dall'esperienza di direttore d'orchestra.

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Un piano che confessa poco prima di morire nella tarda revisione di uno scritto giovanile, La

Métaphysique de Piace de Ternes, che metaforicamente cita nelle sue memorie: Come gli attori

delle antiche tragedie, questi personaggi di Piace de Ternes (dove non c'è nessun uomo intero, ma

gambe senza pensiero, busti senza gambe, piedi senza addome e molte teste senza corpi) sembrano

manovrati senza sapere quale senso abbia l'azione, né se davvero ce ne sia uno [...]. La messa in

ordine si svolge in nome di un personaggio principale che è presente solo se si crede in lui. Ora è

questo il punto: essi credono ancora al Grande Vecchio, in nome del quale tutto è stato fatto da così

gran tempo.

Parte terza L'Agenzia del Crimine

Credo che esista un'organizzazione composta da pochi uomini che sono in grado di ricattare molte

persone. Sono più potenti dei servizi di sicurezza. Da dieci, quindici anni funziona in Italia una vera

e propria agenzia, composta da un numero limitato di persone in grado di gestire le grandi linee del

crimine, ricca di elementi di informazione con i quali può influire su ambienti diversi ad ogni livello.

A fare questa strana rivelazione è stato, nell'89, l'ex pm Domenico Sica, ormai divenuto Alto

Commissario per la lotta alla mafia. La dichiarazione destò scalpore, ma alla richiesta di

precisazioni avanzate da alcuni parlamentari Sica rispose con frasi altrettanto sibilline: «La destra?

La destra è stata adoperata, era facilmente utilizzabile». I servizi segreti? «Possono essere stati

adoperati anch'essi». L'organizzazione era dunque più forte dei servizi? «Sì». Il prefetto ricordò che

era stata proprio quella che lui definiva Agenzia del Crimine a fornire documenti con lo stesso

timbro, rubato allo stesso ufficio postale, a Pippo Calò, a un terrorista rosso e a un guerrigliero

dell'OLP.

Una struttura che assomiglia molto a quel Noto Servizio o all'Anello che abbiamo già incontrato

nella strage di Brescia e durante il sequestro Moro, o alla misteriosa struttura di cui l'anonima fonte

del SISMT riferiva a Craxi,i cui agenti sembravano in contatto con una centrale superiore

all'interno della quale si parlavano più lingue straniere, proprio come aveva intuito anche il generale

"scomodo" Francesco Delfino. Al vertice di questa agenzia sembra annidarsi un grande burattinaio

in grado di manovrare organizzazioni terroristiche di diverso colore, ma anche varie organizzazioni

terroristiche e mafiose. Dal MAR di Carlo Fumagalli alle Brigate Rosse di Mario Moretti, dalla

mafia siciliana di Pippo Calò alla camorra di Cutolo: processi "aggiustati", perizie addomesticate,

passaporti ai latitanti, timbri per falsificare documenti, aerei dei servizi segreti, armi e munizioni per

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ogni uso. Qual era la natura di questa strana e potente organizzazione? Nel fare le sue sconcertanti

dichiarazioni Sica non lo ha precisato, ma i suoi ultimi anni alla Procura di Roma li aveva trascorsi

occupandosi di inchieste che in un modo o nell'altro, che si trattasse delle BR di Senzani o di alcuni

omicidi avvenuti nella malavita romana, portavano diritto a quella sorta di Spectre nostrana il cui

braccio operativo era la Banda della Magliana,la misteriosa gang della capitale divenuta potente tra

la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta.

Quando la Banda della Magliana ebbe il suo periodo di massimo splendore, la P2 aveva iniziato il

declino che culminerà con la fuga all'estero del Venerabile. Ma dietro l'agenzia del crimine descritta

da Sica s'intravede lo stesso patto tra massoneria e lobby criminali che aveva caratterizzato la P2.

Un'agenzia che aveva il compito di eliminare avversari scomodi e lanciare messaggi intimidatori

attraverso attentati e stragi. Da alcuni spezzoni di indagine emerge il sospetto che i criminali romani

fossero stati arruolati in una particolarissima "rete parallela" di Gladio, quell'esercito clandestino

finalizzato alla lotta al comunismo che con gli anni si era dilatato. A combattere "dietro le file",

c'erano ormai "Er Negro", "Saponetta "e "Zanzarone", poveri gladiatori di serie B, cui la storia non

riserverà altra gloria che morire ammazzati.

La Banda della Magliana La mala romana, fino a tutti gli anni Sessanta, aveva vivacchiato all'ombra

di piccoli traffici: prostituzione, riciclaggio, contrabbando di "bionde", qualche rapina. Ogni

quartiere aveva i suoi boss e i contrasti si risolvevano ancora a coltellate. Ma all'inizio degli anni

Settanta, con l'avvento dei Marsigliesi, gangster italofrancesi come Turatello e Bergamelli

trasferitisi nella capitale, e il diffondersi sulla piazza romana della droga pesante, gli irruentiboss

locali cominciarono a sentirsi stretti sul loro "territorio". E a un certo punto schizzarono alla

conquista dell'intera città, grazie a un patto tra gang, "paranze" o "batterie", come venivano definite

in gergo, che fino a quel momento si erano spartite in modo abbastanza pacifico i quartieri di Roma

Sud: da Trastevere a Testaccio, dalla Magliana all'Ostiense fino al litorale romano da Ostia ad

Acilia. Un'avventura che ricorda la nascita delle gang criminali nella Chicago anni Trenta, anch'essa

destinata a finire in un bagno di sangue. In questi ultimi anni la saga della Banda della Magliana sta

diventando oggetto di rivisitazioni narrative e cinematografiche, segno che si può cominciare a

guardare a quel sanguinario periodo con gli occhi della memoria.

I giovani lupi della Magliana erano riusciti a spartirsi la città, ma avevano anche cambiato pelle. I

trasteverini e i testaccini venivano chiamati "mafiosi" per il loro legame con Pippo Calò. Quelli

della Magliana e di Ostia "camorristi", per i loro rapporti con i luogotenenti di Cutolo, il capo della

Nuova Camorra Organizzata: pronti a scannarsi per spartirsi le zone d'influenza, lo "sgarro" veniva

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ormai punito con l'omicidio, come a Palermo. Ma c'erano variabili ancor più pericolose

nell'avventura della Magliana, come il legame con i terroristi di destra (i vari Alibrandi,

Fioravanti,Carminati), cominciato con un mutuo scambio di favori su armi e documenti e

proseguito con la partecipazione dei neofascisti alle rapine (e dei malavitosi agli attentati). E per

questa strada che i lupi stringono relazioni politiche, massoniche e con ambienti dell'intelligence,

fino a stabilire un patto scellerato con il nucleo più occulto dei servizi segreti. Prima di essere

eliminati, dopo il supposto, oscuro coinvolgimento nelle vicende Moro, riuscirono a firmare altri

delitti eccellenti: come quello di Roberto Calvi, il presidente dell'Ambrosiano. E un paio di stragi: la

bomba alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, e quella al treno di Natale del dicembre '84, che

segna l'esordio di Calò e di Cosa Nostra nell'avventura stragista. Per quanto riguarda l'omicidio

Pecorelli, la Banda della Magliana continua a ricoprire un ruolo che la motivazione della sentenza

non ha cancellato: chiunque sia stato a sparare in via Tacito quei quattro colpi di pistola contro

Pecorelli è passato prima in via Liszt 34, l'ambigua armeria che abbiamo già incontrato, da cui

certamente è stata prelevata la pistola che lo ha ucciso.

Vita e morte della gang romana La nascita della Banda della Magliana va collocata attorno alla metà

degli anni Settanta, quando con gli arresti di Albert Bergamelli, Jacques Be-renguer e Maffeo

Bellicini uscirono dalla scena romana i Marsigliesi. La sua fine è più incerta: c'è chi fa sopravvivere

la gang fino agli anni Novanta, ma l'arresto di Pippo Calò nell'85 può essere considerato un buon

punto di riferimento per stabilire il declino della holding criminale. Nell'84 Buscetta, come ormai

sappiamo, aveva avviato la sua collaborazione con Falcone e stava mandando in carcere centinaia di

boss: sotto assedio era finita anche quell'ala della camorra che era in rapporti d'affari con la mafia

siciliana e la stessa Banda della Magliana. La notte del 23 dicembre 1984, una bomba fu fatta

esplodere a distanza, tramite un telecomando molto sofisticato, sul treno Napoli-Torino

provocando quindici morti e un'ottantina di feriti. Calò aveva tentato di sottrarsi all'assedio

mandando un segnale ricattatorio. Tre mesi dopo sarà arrestato.

A metà degli anni Settanta, decaduta l'egemonia marsigliese, i "capoccia" della inala romana

assumono l'iniziativa e decidono di proseguire nella strada dei sequestri di persona, intrapresa dai

colleghi d'oltralpe all'ombra della P2. Ma i rapimenti sono un capitolo perdente della holding. Del

primo nucleo della Banda della Magliana, a detta degli storiografi, facevano parte Franco

Giuseppucci, Enrico De Pedis detto Renatino, Raffaele Pernasetti, Ettore Maragnoli e Danilo

Abbruciati. Stiamo parlando della "batteria", che si muoveva tra Trastevere e Testaccio. Al gruppo

ben presto si aggregarono Maurizio Abbatino, Marcello Colatigli, Enzo Mastropietro, che facevano

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capo proprio alla zona della Magliana. La grande occasione arriva nel 77, quando la banda rapisce

Massimiliano Grazioli Lante Della Rovere, esponente dell'antica nobiltà papalina: l'ostaggio viene

dato in gestione a una "famiglia" di Montespaccato, ma qualcosa non funziona e dopo' quattro mesi

di violenze e vessazioni il duca muore, quando parte del riscatto era già stato pagato. Non è una gran

cifra, due miliardi e mezzo, ma quanto basta al gruppetto per lanciarsi nell'avventura: acquistarono

una grossa partita di droga per cominciare a trattare "alla pari" con altre gang presenti nella capitale,

a cominciare dalla camorra di Cutolo.

La seconda "batteria", che si associò, fu quella di Acilia-Ostia, i cui big erano Edoardo Toscano, i

fratelli Carnovale, Giovanni Girlando e Nicolino Selis, uomo della NCO, un cutoliano di ferro

trasferitosi a Roma proprio per allargare la sfera dei traffici napoletani. La fusione nasce con il

consueto patto di sangue. Selis, in una delle sue brevi pause extracarcerarie, si rivolge ai capi delle

altre batterie, e pone il problema di eliminare un "infame": Franco Nicolini, detto Franchino,

allibratore clandestino sospettato di essere un confidente della polizia. Comincia così la scalata dei

boss romani, passati dalle risse a base di vino e coltello alle sparatorie coi mitra nei ristoranti di

lusso. Per gli usurai, i contrabbandieri, i borseggiatori e i ricettatori era la grande occasione, la loro

ascesa nell'Olimpo criminale: dalle rapine a mano armata ai sequestri di persona, e poi via via

sempre più su fino alle holding finanziarie e ai santuari del riciclaggio in Svizzera.

Poi la mala capitolina, grazie alle conoscenza di faccendieri ben introdotti al Vaticano, come Flavio

Carboni, approdò alla speculazione edilizia sulla Costa Smeralda. Alle spalle agivano società

fantasma, pure scatole finanziarie come la SOFINT, proprio quella che aveva messo nei guai Giulio

Andreotti per aver inghiottito nelle sue casse i «piccoli» assegni dati al Presidente da Nino Rovelli.

Alla base del patto tra le "paranze" malavitose, c'era soprattutto lo spaccio di droga e la divisione

degli utili a "stecca para" anche con i detenuti. Una sorta di democrazia criminale, che garantiva la

pace interna.

La droga pesante facilitava i contatti con mafia e camorra. Il primo camorrista che trasferì a Roma i

suoi traffici fu Enzo Casillo, luogotenente di Cutolo. Tutto era cambiato nel giro di pochi anni, solo

i nomignoli erano rimasti quelli tradizionali della Roma malandrina: Er Negro, Er Zanzara, Er

Secco, Er Rospo, Er Banana. Quello che distingueva la Banda della Magliana da una pura gang

criminale erano gli intrecci con ambienti politici e imprenditoriali. Il pentito nero Rolando

Battistini raccontò: «Nell'ambiente sapevamo, lo si diceva tra pochi intimi, che c'erano avvocati,

magistrati e uomini importanti a fare da trait d'union tra ambienti politici e la Banda della

Magliana». Un altro terrorista, Paolo Bianchi, disse: Il professor Aldo Semerari era una figura di

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spicco come ideologo e per le conoscenze che aveva con il mondo giudiziario e politico, ma

partecipava anche a riunioni di vertice sull'organizzazione di attentati. Il suo lavoro di perito

psichiatra gli consentì di assicurare contatti tra la destra eversiva e grossi personaggi della mafia,

della camorra e della delinquenza comune.

L'identikit di Semerari assomiglia molto a quello di un agente sotto copertura: comunista in giovane

età, diviene massone negli anni Sessanta, poi grazie all'intervento del Gran Maestro Gamberini

approda alla P2. Nell'80, poco prima della tragica morte, lo troviamo impegnato a organizzare

attentati con l'estrema destra, ma anche in un'altra straordinaria attività: pensate un po',

l'indottrinamento ideologico dei boss della Magliana, una vera scuola per quadri, organizzata dal

massone Fabio De Felice (lo stesso che aveva sollecitato l'ex para Saccucci del golpe Borghese ad

indagare sulle nascenti formazioni di sinistra). I "corsi di formazione" si svolgevano in una villa del

reatino. Sembra fossero presenti uomini dei servizi segreti. Anche il povero Zanzarone, al secolo

Alessandro D'Ortensi, eccellente rapinatore che aveva al suo attivo ottantaquattro rapine a mano

armata, ma senza spargere una goccia di sangue, come si è sempre vantato, era costretto a seguire i

corsi di studio: raccontò poi che i contatti tra Semerari, De Felice e Licio Gelli erano tenuti dal

neofascista Paolo Aleandri, che confermerà l'accusa.

Il 25 marzo 1982 Semerari venne decapitato davanti al Castello di Cutolo,a Ottaviano; la testa fu

trovata poco distante in un secchio. Molto probabilmente era rimasto vittima di un regolamento di

conti: nella sua qualità di psichiatra forense si era adoperato per la scarcerazione di un boss della

NCO quando era già passato come consulente alla fazione contraria. Ma è ancora più probabile che

sia stato eliminato perché a conoscenza dei loschi retroscena del sequestro Grillo.

Altri intrecci pericolosi conducono all'entourage andreottiano. Per fare un esempio, le ricchezze

accumulate in maniera illecita erano talmente ingenti da richiedere l'intervento di veri banchieri ed

esperti riciclatori di denaro sporco. Il migliore era Enrico Nicoletti che, nel mandato di cattura del

giudice Lupacchini, fu definito detentore dei patrimoni della Magliana. «Nicoletti funziona come

una banca, nel senso che svolge un'attività di deposito e prestiti e attraverso una serie di operazioni

di oculato reinvestimento moltiplica i capitali illeciti dell'organizzazione», spiega il giudice

nell'ordinanza con la quale ha rinviato a giudizio una novantina di boss. Imprenditore e costruttore,

Nicoletti era da sempre in affari con Giuseppe Ciarrapico, personaggio di spicco della gens Giulia.

Rapporti tempestosi, in qualche caso. Nel dossier legato all'operazione "Colosseo", che ha portato

in carcere il costruttore, si accenna a una riappacificazione tra Nicoletti e il re delle acque minerali,

amico di Andreotti, nell'affollatissimo studio di Franco Evangelisti.

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Ma in un rapporto dei Carabinieri dell'88 Nicoletti viene anche indicato come personaggio legato

all'ultimo capo della Banda della Magliana, Enrico De Pedis, detto Renatino, ucciso nel febbraio

'90. Il costruttore ebbe in eredità alcune proprietà immobiliari che appartenevano al boss. La morte

non colse di sorpresa Renatino; il boss era stato tanto previdente da organizzare per sé una sepoltura

prestigiosa in una cripta nella chiesa di Santa Agnese in Agone, in piazza Navona, e sta ancora lì tra

principi e grandi artisti. Quella di De Pedis è la storia più prodigiosa della gang romana: sembra che

il privilegio di starsene sepolto tra i grandi della storia sia stato concesso al boss della Magliana da

un cardinale che lo aveva in grande stima.

A Renatino i soldi non mancavano: con l'operazione "Colosseo" la polizia sequestrò ai boss della

Magliana ottanta miliardi di beni mobili e immobili, un fiume di denaro sporco, frutto del

riciclaggio del traffico di armi e droga, poi reinvestito in affari e appalti resi possibili dagli appoggi

politici. E l'ultimo grande boss della gang romana: trasteverino purosangue, proprietario di note

trattorie, fu ucciso in pieno giorno in via del Pellegrino, tra la folla del mercato di Campo de' Fiori.

Con lui può considerarsi esaurita la vecchia guardia della mala romana coinvolta nei misteri d'Italia.

Roma è una piazza bastarda, che non accetta regole e neppure gerarchie:Renatino era considerato

uno "sbirro". Molti rivali in affari sapevano che aveva rapporti con i servizi segreti; in realtà, come

tutti i veri big della Magliana, aveva sempre contato su protezioni importanti. Secondo Fabiola

Moretti, la pentita ondivaga del processo Andreotti, De Pedis era amico di Vitalone, tanto che

nell'86 lo avrebbe convinto a pilotare la fuga di un imputato dall'aula Occorsio di piazzale Clodio

durante il processo. Ma la cosa andò storta: l'evasione era stata organizzata a favore di Edoardo

Toscano, un pezzo da novanta, ma quando venne il momento a guadagnare la porta fu Vittorio

Carnovale, un pesce più piccolo. Fuori del portone di piazzale Clodio c'era un'auto ad aspettarlo. Il

pesce piccolo fu scaricato senza troppi riguardi in aperta campagna. Il pesce grosso, Toscano, fu

ammazzato due anni dopo, appena uscito dal carcere. Secondo la Procura di Perugia la fuga sarebbe

stata organizzata da Vitalone, che avrebbe inteso sdebitarsi in questo modo per il favore ricevuto,

ovvero l'omicidio Pecorelli.Ma la Corte non ha ritenuto provata l'accusa.

Il primo della banda storica a cadere era stato "Er Negro", alias Franco Giuseppucci, assassinato il

13 settembre 1980 in piazza San Cosimato. L'omicidio fu attribuito al clan rivale dei Proietti,

sterminati nei mesi successivi. Ma non è affatto escluso che "Er Negro" sia rimasto vittima dei suoi

troppi segreti: sono in molti a pensare che sia stato lui a indicare la vera prigione di Aldo Moro agli

intermediari di Benito Cazora. Due anni dopo, il 13 aprile, in uno scontro a fuoco, Danilo

Abbruciati cadrà ucciso dalla guardia del corpo del vicepresidente dell'Ambrosiano Renato Rosone,

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che stava collaborando un po' troppo con Ambrosoli, il curatore del fallimento e meritava quindi

una punizione. Negli anni a venire, i giovani lupi si sono sbranati senza riguardo. Chi è riuscito a

sopravvivere della vecchia guardia? Forse soltanto Ernesto Diotallevi, ma da molti anni è sparito

dalla circolazione, e la pattuglia di pentiti, come Mancini, Abbatino e Carnovale, che abbiamo visto

sfilare al processo di Perugia, è sopravvissuta grazie all'arresto. Uno dopo l'altro i lupi del branco

sono stati tutti fatti fuori.

11 armeria di via hiszt Il deposito di armi di via Liszt, quando Pecorelli fu ucciso, era gestito da

Franco Giuseppucci, "Er Negro". In seguito la gestione passò a Maurizio Abbatino, oggi pentito

numero uno dell'organizzazione, ma le sue rivelazioni sui segreti dell'organizzazione non sono state

sufficienti ai giudici di Perugia per condannare Massimo Carminati, l'ex terrorista nero che secondo

alcuni pentiti dei NAR la sera del delitto era in via Tacito. Nonostante la raffica di assoluzioni, una

perizia balistica molto interessante inchioda il delitto Pecorelli a questa pista: per assassinare il

giornalista furono utilizzati proiettili Gevelot, appartenenti a una partita rarissima in dotazione alla

NATO. Due anni dopo, nell'81, quando la polizia fece irruzione all'interno dell'armeria di via Liszt,

ne furono trovati duecento esemplari. Non basta, sui bossoli recuperati in via Tacito c'erano tracce

dei feltri utilizzati per attutire il colpo: un espediente inventato proprio da Carminati per silenziare

le armi.

L'ex terrorista di destra rappresenta il nodo irrisolto del processo Andreotti di Perugia, poiché è

l'unico imputato comparso sia nella prima che nella seconda inchiesta. Indagato insieme a Giusva

Fioravanti come presunto killer di Pecorelli, era stato prosciolto nel '91 dal giudice istruttore

Francesco Monastero. Ma il suo nome è riaffiorato nel '93, dopo l'incriminazione di Andreotti,

proprio a causa della pistola attutita. Giusva è invece uscito di scena anche grazie a Buscetta che lo

ha scagionato in base a un sillogismo: Cosa Nostra non ha bisogno di far ricorso a killer estranei

all'organizzazione. Ma l'omicidio di Pecorelli, anche sulla base di voci fatte circolare ad arte dopo il

delitto, doveva apparire all'esterno come un attentato terroristico e non come l'eliminazione di un

giornalista pericoloso.

C'è poi il capitolo che lega l'armeria di via Liszt al Supersismi. Le armi trovate nel gennaio '81

all'interno di una valigia collocata dal controspionaggio sul rapido Taranto-Milano provenivano

proprio da lì. A detta dei pentiti era stato Carminati a fornire quel mitra Stern al generale

Musumecie al colonnello Belmonte, che poi fu prontamente ritrovato grazie a una falsa informativa

che incolpava quattro neonazisti tedeschi di voler inaugurare una strategia del terrore compiendo

attentati sui treni.

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Un depistaggio il cui scopo era allontanare i sospetti dai neofascisti romani, in particolare Giusva

Fioravanti e Gilberto Cavallini, accusati dai magistrati di aver messo la bomba alla stazione di

Bologna il 2 agosto 1980. Prima che Buscetta li scagionasse, Giusva e Cavallini erano stati anche

sospettati di aver assassinato a Palermo il presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella e, a

Roma, Pecorelli. Fu Sica a imboccare questa pista, convinto che Fioravanti fosse legato a Musumeci

e al Supersismi.

Il giudice Verrina, però, non ha creduto sufficientemente dimostrata l'ipotesi che nel delitto romano

fosse coinvolta la Banda della Magliana e ha dimezzato la sentenza evitando di tornare su piste già

battute senza esito. Forse ha pensato che se era già difficile congetturare un legame tra Andreotti e

la mafia, ancor più complicato sarebbe risultato lo scenario inserendo anche la P2, il team dei servizi

e i terroristi neri.

L'armeria era il punto di riferimento delle varie anime della Magliana, organizzazione brulicante di

faccendieri senza scrupoli, agenti segreti, malavitosi di grosso calibro, mafiosi in trasferta. Nella

prima fase dell'inchiesta sul delitto Pecorelli fu esaltato soprattutto l'aspetto di "struttura di

servizio" della gang, e dunque le sue relazioni con i servizi deviati e 1'"Agenzia del Crimine",

secondo la definizione di Sica. Ma proprio per questo la Procura di Roma fu accusata di non essere

andata fino in fondo nell'inchiesta sull'omicidio Pecorelli, forse per timore di dover sollevare il velo

che copriva le responsabilità politiche: eventualità in quegli anni impensabile.

Gelli in affari con i boss L'ombra del Venerabile, nella storia della Banda della Magliana, ha fatto

una fugace apparizione dietro il centro studi reatino del professor De Felice dove, all'ombra di mitra

e svastiche, venivano indottrinati i boss. Ma quali erano i rapporti tra Gelli e la Banda della

Magliana? Molteplici, complessi, come sempre indecifrabili. Sappiamo con certezza che sono

sopravvissuti fino allo scioglimento della Loggia. Dieci anni dopo, tra la fine degli anni Ottanta e

l'inizio degli anni Novanta, troviamo ancora l'ineffabile Licio aggirarsi tra banche, toghe e rapporti

fiduciari con i governi sudamericani, come ai bei tempi della sua amicizia con Peron e Lopez Rega,

sempre con le mani in pasta in affari miliardari, assieme a qualche boss superstite della grande gang.

Nel rapporto che il sostituto procuratore Franco Ionta ha inviato alla Commissione Antimafia nel

marzo '90, pochi giorni dopo l'omicidio di De Pedis, si legge: La malavita romana può definirsi

mafia dei colletti bianchi per il suo ruolo di riciclaggio di ingenti somme di denaro in immobili,

pelliccerie e gioiellerie, ristoranti e locali notturni gestiti attraverso un reticolo di società a

responsabilità limitata [...]. Il "Jachie 'O", noto locale notturno della capitale, può considerarsi la

base logistica dell'organizzazione. Gli assegni sono riciclati con la compiacenza di funzionari del

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Banco di Santo Spirito e della Banca del Cimino.

Ma il passo più interessante della relazione è il seguente: «L'organizzazione è in grado di investire

negli appalti di grandi opere edilizie in Sudamerica e in Africa grazie al Venerabile Licio Gelli e

nell'acquisto di grandi alberghi a Milano e a Roma». A fare da intermediario era uno sconosciuto, tal

Pasquale De Tornasi, detto '"o chiattone", immobiliarista. Nell'83 fu denunciato per associazione

mafiosa a causa dei i suoi rapporti con la famiglia palermitana Barbarossa. Ma nel '91, De Tornasi

(stando alla ricostruzione storiografica della Banda della Magliana fatta dal giudice

Lupacchini)ancora costituiva «il canale più importante attraverso il quale la criminalità organizzata

ricicla all'estero i miliardi delle attività illecite costruendo strade, edifici e ponti in Argentina».

Appare più che evidente, a questo punto, che la Banda della Magliana non è stata soltanto una gang

criminale, ma una struttura molto importante di un'organizzazione ben più vasta che godeva di

ampie protezioni in Italia e all'estero grazie ai rapporti con i servizi segreti e la grande massoneria.

Anche i rapporti con la mafia, come stiamo per vedere, non sono quelli di un semplice gruppo

affiliato.

La mafia nelle stanze romane I boss della mala romana erano satelliti minori che ruotavano

attorno a una stella di prima grandezza, all'interno di un'immensa galassia di cui non riuscivano a

distinguere i contorni. La stella era Pippo Calò, il numero tre di Cosa Nostra dopo Totò Riina e

Bernardo Provenzano. Nel 1954 il boss palermitano aveva conosciuto in carcere Domenico

Balducci, un faccendiere romano di origini siciliane. Una ventina di anni dopo, quando Calò andò a

cercarlo a Roma, lo strano personaggio gli disse di avere amici molto importanti: magistrati,

poliziotti, uomini dei servizi segreti e una certa Eccellenza, di cui non siamo mai riusciti a scoprire

l'identità, ma il cui nome de ve avere favorevolmente colpito il boss, che proprio in quel periodo

aveva deciso di trasferirsi nella capitale, con il consenso di Totò Riina; quest'ultimo non era ancora

il capo di Cosa Nostra ma studiava per diventarlo.

Totò "'u Curto" voleva aprirsi un varco nei centri di potere romani, fino a quel momento esclusiva

zona di caccia del Principe, ovvero Stefano Bontate:cominciò così una singolare avventura che ha

consentito al boss che "voleva Moro morto" di centuplicare il patrimonio mafioso, infiltrando i

tentacoli della Piovra nelle stanze più importanti della capitale, attraverso uno spregiudicato gioco

di alleanze con la politica, i servizi segreti, la malavita comune e il terrorismo. Fu anche grazie a

questi appoggi che i viddani riuscirono a vincere la guerra di mafia a cavallo degli anni Ottanta:

ormai forti del loro coinvolgimento nei "grandi segreti", erano in grado di rilanciare la sfida nei

confronti dello Stato.

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Il punto più alto della sfida fu la strage del 23 dicembre 1984, che salutò l'arrivo di Buscetta in

Italia e l'inizio della sua collaborazione. E da allora Cosa Nostra farà ricorso alle stragi ogni qual

volta nello scontro tra mafia e Sta to salteranno le mediazioni. Soltanto dopo l'arresto di Riina,

Cosa Nostra ha tentato di tornare "invisibile", di ricucire i rapporti con la politica, di cancellare un

lungo periodo di errori che si è concluso con la sconfitta del par tito armato. Ma è un percorso molto

difficile, raccontano gli ultimi pentiti: il passato molto probabilmente non tornerà.

Mimmo il "Cravattaro" Quali siano stati i patti tra Calò e Balducci nei primi anni romani non è del

tutto chiaro. Le cronache cominceranno a occuparsi di loro soltanto alla fine degli anni Settanta.

Balducci in quel periodo era noto, nel colorito mondo che ruota attorno al Monte di Pietà, con un

soprannome che tradisce le sue origini: Mimmo il "Cravattaro", cioè l'usuraio. Quando Calò

approdò a Roma, Mimmo era proprietario di un modesto negozietto di elettrodomestici, in una

stradina adiacente a Campo de' Fiori. Tra frigoriferi e lavatrici spiccava un inequivocabile cartello:

«Qui si vendono soldi». Ad attaccarlo era stato Oberdan Spurio, un altro "cravattaro" amico di molti

personaggi della mala romana poi confluiti nella Banda della Magliana.Nella bottega di Mimmo,

Oberdan aveva aperto un vero sportello bancario, dove oltre al denaro venivano venduti argenteria,

preziosi, tappeti pregiati, frutto naturalmente di refurtiva.

Allo "sportello" era di casa anche Flavio Carboni, un faccendiere sardo, ex impiegato della Pubblica

Istruzione e imprenditore discografico, che si era improvvisato speculatore edilizio e aveva perciò

urgente bisogno di liquidi. Il faccendiere era un personaggio brillante, spregiudicato, ma a causa di

operazioni affaristiche mal riuscite era finito in un vortice di protesti cambiari. A indirizzare

Carboni al negozio di Campo de' Fiori era stato un imprenditore edile, Danilo Sbarra, che con

Rosario Nicoletti costituiva il riferimento finanziario della mala romana. Insomma, attorno al

negozietto di Balducci si formò una connection molto potente e destinata a grandi successi. Fu

Sbarra a presentare Balducci a Carboni, che ai magistrati dirà di lui: «Era un procacciatore di

finanziamenti eccezionale, uomo ignorantissimo quanto intelligente».

Per Mimmo il Cravattaro trovare somme ingenti in breve tempo non era difficile: alle sue spalle

c'era Calò che non aveva problemi di liquidità. Carboni ebbe i suoi ottocento milioni, che gli

servirono per acquistare un terreno edificabile nel siracusano a cui erano interessati anche

personaggi in odore di mafia: oltre al costruttore Sansone (che molti anni dopo sarà arrestato con

Totò Riina), anche Giuseppe Di Cristina, un boss nisseno molto potente. Di Cristina si trovava

nella necessità di riciclarsi: fino a quel momento era stato guardaspalle di Graziano Verzotto, ma il

finanziere era fuggito all'estero nel '75 per una serie di reati finanziari e il boss era

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momentaneamente disoccupato. In seguito Calò avrà una ricompensa: fu grazie a Carboni se il boss

riuscì ad entrare nel giro immobiliare, dopo aver conosciuto Sbarra. All'epoca si spacciava per un

uomo d'affari siciliano, di nome Mario Aglioloro o Mario Salamandra, a seconda delle situazioni, e

viveva in un'elegante villa sull'Aurelia.

La mafia a Roma cominciò a investire nelle costruzioni e tutto andava per il meglio. L'ingresso di

Carboni nel giro si era rivelato un ottimo affare: il faccendiere sardo era in buoni rapporti con alti

prelati in Vaticano ed esponenti democristiani come Benito Cazora, Clelio Darida e Mauro

Bubbico. Nel precedente capitolo, abbiamo tralasciato di raccontare che Cazora, nel tentativo di

salvare la vita a Moro, si rivolse anche a Carboni. Al ritorno da un viaggio in Sicilia, almeno così

disse, 0 faccendiere incontrò il deputato DC all'hotel Nazionale e senza troppi giri di parole lo

informò che la mafia non avrebbe mosso un dito, «perché Moro intendeva aprire ai comunisti e la

mafia era un'organizzazione molto anticomunista». Disse poi: «Sono andato di qui e di là, ma non

sono riuscito a ottenere nulla». Molto probabilmente non si era mosso da Roma: si era limitato a

parlarne con Calò, che sappiamo come la pensava.

Il vero asso nella manica di Carboni era un altro: vantava di essere socio d'affari del finanziere

italosvizzero Fiorenzo Ravello (alias Florent Ravello Ley), gestore di grandi e oscuri patrimoni, che

abbiamo già incontrato nella vicenda Italcasse. Carboni si assicurò in questo modo la

considerazione di Balducci e per tramite suo anche del potente Calò. Ma tutto questo spiega,

almeno in parte, come sia potuto accadere che un personaggio modesto come il "Cravattaro" sia

riuscito a diventare, nel volgere di pochi anni, un importante collettore di capitali: «Il tramite di un

mondo imprenditoriale romano, ancora ufficialmente legale, e una malavita organizzata interessata

a investire quanto lucrato illegalmente», come scrive il giudice Lupacchini nella sua ordinanza.

Ma fu proprio a causa delle strette relazioni tra le società di cui Balducci era prestanome e quelle di

Ravello Ley, che le indagini sull'Italcasse s'intrecciarono con l'inchiesta sulla Banda della Magliana.

Quando Di Cristina fu ucciso, nell'estate '80, addosso al cadavere del boss nisseno furono trovati

due assegni di cinque milioni, emessi dalla SIR di Nino Rovelli e girati alla SOFINT, società che

faceva capo a Carboni, Balducci e Florent Ravello Ley e dietro cui si celava come "socio occulto"

Pippo Calò. Gli assegni facevano parte di un'operazione legata all'acquisto di un terreno sulla Costa

Smeralda in Sardegna, cui era interessato il giovane Paolo Berlusconi,ma rientravano anche in

quella vicenda di "Assegni del Presidente" di cui Pecorelli, la sera in cui è stato ucciso, si accingeva a

pubblicare la seconda puntata. I magistrati romani, nel chiedere l'autorizzazione a procedere nei

confronti di Andreotti, hanno sottolineato che il giornalista aveva scoperto come «intorno alle

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vicende Italcasse e assegni della SIR si fosse determinata la convergenza di gruppi mafiosi

riconducibili a Giuseppe Calò e Domenico Balducci [...]. Dalle indagini è emerso che Andreotti

aveva la disponibilità di questi assegni, che negoziò personalmente cedendoli a diverse persone».

Il 20 marzo 1979 Pecorelli stava per tornare sull'argomento, con nuove travolgenti rivelazioni, ma

l'articolo sparì. Rimase soltanto la copertina con la foto di Andreotti; poi è sparita anche quella. Il

direttore di «OP» sapeva che il Presidente aveva ricevuto finanziamenti in "nero" da Rovelli, sotto

forma di assegni di piccolo taglio, parte dei quali erano stati riciclati in società in odore di mafia,

come la SOFINT, una scatola finanziaria che aveva terminali nell'ufficio di Lugano di Florent

Ravello Ley, in piazza Pepine, come avevamo già anticipato nel capitolo sullo scandalo Italcasse.

Prima di congedarci da lui, dobbiamo raccontare altri passaggi della sorprendente ascesa del

"Cravattaro" ai piani più alti e insospettabili della città. Il suo ruolo di boss della malavita romana

era ormai di dominio pubblico. Era Balducci il capo «visibile» della Banda della Magliana, ed era

stato perfino raggiunto da un ordine di cattura. Ma, come niente fosse, Mimmo continuava a vivere

tranquillamente a casa sua, una bella villa sull'Aventino,dove era andato a stare con la famiglia: lì

faceva le sue riunioni "di affari" e perfino feste alle quali partecipavano persone al di sopra di ogni

sospetto. L'ordine di cattura non aveva cambiato di una virgola le sue abitudini di vita: prima di

recarsi nel suo negozietto di elettrodomestici, passava al primo distretto di polizia dove lo riceveva il

vicequestore Pompò, con cui intratteneva rapporti cordiali. E almeno una volta alla settimana era a

piazza Cavour, nell'austero palazzo che ospita la Procura Generale, per perorare la causa di qualche

amico nei guai.

Non si trattava mica di delinquentelli: Balducci era in grado di "raccomandare" perfino il generale

della Guardia di Finanza Donato Lo Prete perché venisse trasferito dal carcere in una clinica. E si

diede da fare per 1'"aggiustamento" dei guai giudiziari di Carlo Ponti e Sofia Loren, sotto accusa per

esportazione di capitali all'estero. Parlando al telefono con un intermediario del produttore,

Balducci assicurava: «Dica pure che la cosa è fatta, purtroppo c'è stato qualche intoppo perché ci

sono giovani magistrati che non capiscono un e..., ma stiamo risolvendo». Quella di Ponti e della

Loren fu una vicenda assai ingarbugliata, che sarà così riassunta da Emilio Pellicani, il segretario di

Carboni: «Carboni conosceva la famosa coppia, perciò Balducci gli aveva chiesto aiuto. Insieme si

recarono a Parigi e alloggiarono all'hotel George V, dove incontrarono Ponti. Carboni e Balducci lo

sollecitarono a versare un anticipo sulla somma complessiva di un miliardo, pattuita come

compenso dell'interessamento». Ponti depositò un traveller'scheque di trecento milioni in una

banca in Svizzera. Fu una scelta prudente, quella del produttore, perché alla fine sia lui che la Loren

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furono condannati e Carboni se ne tirò fuori scaricando ogni responsabilità dell'insuccesso su

Balducci.

Ma il "Cravattaro" non se ne curò. In quel periodo era sulla cresta dell'onda, faceva molti viaggi

all'estero: andava spesso a Parigi, a Zurigo e perfino in Argentina e altri paesi del Sud America per

stringere non meglio identificati rapporti d'affari, sempre per conto di Calò naturalmente (e anche

di Gelli, sembra di capire). Ma agli aerei di linea preferiva di gran lunga quelli del CAI, in uso al

servizio segreto militare, con i quali poteva muoversi senza rischio di incappare in alcun controllo.

Una cautela necessaria, visto che in quel periodo era latitante.

L'amico americano Il "passaporto" di Balducci, che lo accompagnò spesso nei suoi viaggi, anche

oltreoceano, era Francesco Pazienza, uno dei più oscuri e potenti faccendieri italiani, che godeva di

altolocatissimi protettori negli USA. I rapporti con la Magliana rientravano probabilmente nei suoi

compiti d'ufficio. È il 1980 quando questo giovanotto approda a Roma dagli Stati Uniti, con un

borsone di coccodrillo che traboccava di documenti segretissimi. Il personaggio vantava buoni

rapporti con i servizi francesi e arabi, ma anche con ambienti americani: a New York era amico dei

boss della mafia italoamericana e a Washington di alcuni funzionari del dipartimento di Stato,

all'epoca diretto da Alexander Haig. Era un avventuriero della miglior schiatta, ma a Carboni non

piaceva granché: «Certamente era uomo dalle molteplici attività e dalle notevoli entrature nei più

svariati ambienti; non ebbi difficoltà a ritenere che avrebbe potuto promuovere le mie attività sia in

Italia che negli Stati Uniti, ma ben presto mi resi conto che era inaffidabile, un interlocutore che

sfuggiva a tutte le richieste prendendo tempo e mancando agli appuntamenti più importanti»,

raccontò a Lupacchini.

Appena arrivato in Italia, Pazienza ebbe la fortuna di entrare nelle grazie del capo del SISMI

Giuseppe Santovito, di cui divenne in breve tempo il braccio destro, al punto da usufruire di una

scrivania nel suo ufficio. Il capo del SISMI, per giustificare la sua presenza invadente, inventò che si

trattava di un nipote in vacanza di studio. Ma fu proprio Santovito a introdurlo in ambienti

importanti della sicurezza: lo presentò anche all'ex capo dell'Ufficio Affari Riservati, l'inossidabile

Federico Umberto D'Amato. Il vecchio spione rimase impressionato dalla megalomania del

giovanotto che andava in giro dicendo: «La CIA sono io». Poi però dovette ricredersi. Aveva

effettivamente relazioni di primo piano sia negli USA che in Vaticano ed era meno sprovveduto di

quel che si potesse pensare.

Appena arrivato, avendo saputo dai suoi amici americani che il sistema piduista stava per essere

liquidato, Pazienza puntò le sue carte sul Supersismi,dove sperava di subentrare al ruolo che aveva

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svolto Gelli (ormai in procinto di fuggire all'estero), e cioè fare da tramite tra servizio segreto e

massoneria. Il 7 maggio 1980 si affiliò al Grande Oriente, dove per i suoi meriti tre mesi dopo venne

insignito del III grado di Maestro. All'interno del STSMI i rapporti più stretti li strinse con

Musumeci, ormai numero due del servizio. Un'amicizia che gli costerà la condanna a dieci anni di

carcere per il falso attentato sul treno Taranto-Milano, dove fu collocata quella valigia, contenente

mitra ed esplosivo, per depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna. Alcune di queste

armi provenivano dagli scantinati del deposito di via Liszt; ma, quel che è peggio, erano avvolte

nelle pagine di alcuni giornali stranieri, tra cui un quotidiano argentino che purtroppo Pazienza

aveva sottobraccio la stessa mattina, quando era stato fotografato all'aeroporto di Fiumicino.

Un'imperdonabile disattenzione.

signor Salamandra Balducci era un personaggio quasi pubblico. Calò conduceva invece una vita

piuttosto riservata, ma era lui a tirare le fila delle molteplici attività delle Banda della Magliana. Di

quel periodo ci resta la testimonianza di Tommaso Buscetta, che nell'autunno '80 andò a trovarlo a

Roma dove fu suo ospite per qualche tempo nella villa sull'Aurelia. Masino apparteneva alla sua

stessa famiglia, quella di Palermo centro, ed era appena uscito dal carcere di Cuneo: l'incontro

segnava una ripresa di rapporti. Ma Badalamenti l'aveva messo in guardia: «Ritieniti espulso da

Cosa Nostra. Calò non apprezza che hai lasciato tua moglie e ti sei risposato». Forse Buscetta era

venuto a Roma anche per chiarire la sua posizione. Racconterà al processo Andreotti: «Lui non mi

disse niente, anzi fu molto ospitale [...] ma io, ripensandoci ora, ci vedo una strategia nel suo

comportamento, forse sapeva quello che stava per succedere».

Quello che stava per succedere era la guerra di mafia, la più sanguinaria e crudele che si ricordi. La

famiglia di Don Masino fu sterminata: i corleonesi gli ammazzarono due figli, due fratelli, un

cognato. Ma l'estate dell'80 era scivolata in quella calma che precede la tempesta; ed è proprio grazie

a questa vacanza che abbiamo una testimonianza diretta dei rapporti che Calò aveva stretto con la

mala romana.

Masino raccontò che il boss palermitano era diventato compare di Ernesto Diotallevi: aveva cioè

tenuto a battesimo il primo figlio maschio del malavitoso romano, al quale fu dato il nome di Mario

in suo omaggio. Un rituale inequivocabile che indicava l'uomo prescelto dalla mafia siciliana come

capo della Banda della Magliana. Un segnale che avrebbe dovuto mettere in allarme Balducci, visto

che era lui in quel momento il leader della gang romana. Ma il "Cravattaro" non si rese conto che la

sua sorte era segnata. Fu ucciso il 21 ottobre 1981: due colpi sparati nel buio di fronte al cancello

della sua villa all'Aventino. Quella sera avrebbe dovuto esserci una festa in casa sua. Gli invitati? A

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Roma, non si è mai saputo quale sia il confine che separa il bene dal male. Tra i primi ad accorrere

sul luogo del delitto fu un magistrato, un personaggio grigio che pochi ricordano, non in veste di

inquirente ma come amico di famiglia: abbracciò la moglie in lacrime, chiuse alle spalle la porta

mentre le diceva, in faccia ai giornalisti: «Adesso stai calma».

La donna fu poi costretta a recarsi a Palermo e per le molteplici attività finanziarie del marito fu

liquidata con quaranta milioni. «Tutte le società che erano state fiduciariamente intestate a lui o alla

moglie, comprese le partecipazioni in società, cambiarono immediatamente intestazione», scriveva

il giudice Lupacchini. Fu lei a spiegare a Sica che il prestigio del marito era legato alla misteriosa

amicizia con la mai identificata "Eccellenza". Il movente ufficiale fu che Balducci sarebbe stato

eliminato per uno sgarro: quando Carboni restituì a rate gli ottocento milioni che aveva avuto per il

villaggio turistico, ne aveva trattenuti per sé una parte, sembra centocinquanta,accampando come

motivo un precedente credito. Un movente "minimo", per un omicidio ai vertici di quel connubio tra

mafia, servizi segreti e ambienti politici, che non convince completamente. Anche perché,

nell'ottobre '81, Balducci aveva appena finito di saldare il suo debito. E alla festa, quella sera,

sarebbe dovuto arrivare anche Calò, per la cosiddetta "paciata" alla siciliana.

Il processo Pecorelli ha fatto affiorare nuovi particolari sulla morte di Balducci, e lo spettro

dell'Italcasse torna anche in questo omicidio. Balducci era il personaggio più vicino a Calò nella

vicenda del riciclaggio degli assegni SIR. Da tempo c'erano rapporti tesi tra Calò e Florence Ravello

Ley, che proprio in quel periodo aveva fatto un precipitoso rientro in Svizzera. Nei consigli di

amministrazione delle società del "gruppo" erano entrati a far parte nuovi soci, come Vito Bosco e

Raffaele Ganci, due palermitani legati ai corleonesi, i "vincenti". Il "Cravattaro" era invece legato

alla vecchia mafia, era amico di Di Cristina, ucciso dopo che era andato dai carabinieri a vuotare il

sacco sui traffici dei corleonesi.

L'omicidio del "Cravattaro" s'inserisce probabilmente in quel bagno di sangue fra clan che si svolse

simultaneamente in Sicilia, in Campania e anche a Roma. Nell'81, nella lotta tra Cutolo e i clan

Nuvoletta e Bardellino legati ai siciliani, furono uccisi più di mille uomini. Alla mattanza non

poteva rimanere estranea la mala romana, e i primi a essere eliminati furono proprio gli alleati di

Cutolo: Nicolino Selis, boss di Acilia, ed Enzo Casillo, saltato in aria con un'autobomba. La morte

di quest'ultimo ha forse un'altra spiegazione: dirà molti anni dopo Frank Di Carlo, boss di

Altofonte emigrato a Londra, accusato di essere l'autore materiale dell'omicidio Calvi, che era stato

Casillo a strangolare il banchiere prima di appenderlo a una corda sotto il ponte dei Frati Neri. Per

questo il napoletano doveva essere eliminato.

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L'ultima estate di Roberto Calvi Nell'estate dell'81 Flavio Carboni era molto impegnato nello

stabilire buone relazioni con Roberto Calvi (che aveva conosciuto l'anno prima), in quel momento

assillato da torme di creditori e alla ricerca di contatti importanti. Il presidente dell'Ambrosiano era

stanco e depresso: il 20 maggio 1981 era stato arrestato per reati valutari, l'8 luglio aveva inscenato

un tentativo di suicidio nel carcere di Lodi, il 22 luglio gli era stata finalmente concessa la libertà

provvisoria. Tra i suoi desideri c'era quello di conoscere il Gran Maestro Armando Corona, che

stava per prendere le redini del Grande Oriente d'Italia. Per qualche motivo Calvi riteneva

indispensabile ottenere, tramite il Gran Maestro, l'appoggio della Loggia d'Inghilterra: si era poi

convinto che il faccendiere sardo avesse relazioni politiche che potevano tutelarlo anche

dall'intenzione di Carlo De Benedetti di impossessarsi della sua banca. Era stato Pazienza, appena

reduce da un'opera di mediazione nel sequestro Grillo, a presentare Calvi a Carboni e si adoperò

anche per organizzargli una vacanza distensiva. Balducci, ancora vivo, mise a disposizione la sua

villa in Sardegna, ma non fu ritenuta all'altezza: la scelta cadde sul Monastero, una tenuta di

proprietà dell'immobiliarista milanese Gian cario Cabassi a Porto Rotondo. Sarà lì che Calvi

trascorrerà le ferie con la moglie in compagnia di Pazienza e della fidanzata di questi, Marina De

Laurentis.

Non lontano, a Porto Cervo, c'era Flavio Carboni, che presentò a Calvi il consigliere economico di

Andreatta, Carlo Binetti, l'editore Carlo Caracciolo e lo stesso Corona. Ma al Monastero andavano

e venivano anche Calò, Abbruciati, Diotallevi e Balducci. Passi per Pazienza e Carboni, ma questi

ultimi... in che mani era finito il povero Calvi? E come potevano tutti costoro muoversi in tanta

libertà, addirittura sotto l'ombrello dei servizi segreti? Siamo in presenza di una situazione di

assoluta illegalità, che dimostra come la mafia a Roma fosse riuscita a diventare parte integrante di

un sistema di potere degenerato, che per gestire i propri interessi aveva bisogno di una struttura

occulta, di un braccio armato in grado di intervenire nei conflitti di interesse in un contesto di

complicità e ricatti al più alto livello. Perfino la "rete parallela" del Supersid degli anni Settanta,

nelle sua varie articolazioni fasciste e terroristiche, rischia di apparire una nobile istituzione,

rispetto alla degenerazione di quest'intreccio politico, criminale e di intelligence.

Frequentazioni innominabili, quelle di Calvi nella sua ultima estate, che costituiscono l'antefatto

della tragica morte avvenuta il 18 giugno 1982. Soltanto di recente, dopo vent'anni, la Procura di

Roma ha finalmente riaperto le indagini sulla fine del banchiere, affermando per la prima volta che

si trattò di omicidio. Le perizie hanno dimostrato ciò che a tutti appariva logico fin dall'inizio, e cioè

che un uomo di oltre sessant'anni e dal peso superiore agli ottanta chili non avrebbe mai potuto

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arrampicarsi sull'impalcatura sul Tamigi, e tantomeno impiccarsi con complicate acrobazie. Il crack

dell'Ambrosiano e il delitto Calvi sono una storia molto lunga, che meriterebbe un libro a parte. A

noi interessa per il ruolo che vi ha giocato la Banda della Magliana e per quella rivelazione di

Buscetta, durante il processo Andreotti, che ha impresso una svolta nelle indagini anche

sull'omicidio del presidente dell'Ambrosiano.

Il contesto è lo stesso dell'omicidio Pecorelli: il colloquio in Brasile tra Masino e Don Tano, davanti

alla televisione, la sera che Dalla Chiesa fu ucciso a Palermo, il 2 settembre 1983. A un certo punto

Badalamenti, dopo aver parlato dell'omicidio del giornalista, gli confida: «Anche nella morte di

Calvi, Calò c'è dentro fino al collo». Nel '94 a Londra fu arrestato Frank Di Carlo che altri pentiti

avevano indicato come l'esecutore dell'omicidio del banchiere. E l'inchiesta ha preso finalmente

corpo, dopo vent'anni. Proprio in questo periodo, inizio estate 2003, il PM Luca Tescaroli è alle

ultime battute: si attendono sensazionali sviluppi. Durante un recente viaggio a Roma, Carlo Calvi,

il figlio del banchiere, mi ha detto: «Lo scenario della morte di mio padre è lo stesso di Pecorelli:

mandanti politici, il Vaticano, la Banda della Magliana».

È molto probabile che anche quello di Calvi sia stato un delitto su commissione. Calò è stato

certamente il tramite, ma anche fatti precedenti avevano portato a galla la terribile connection che

circondava il banchiere. Ad esempio quando Danilo Abbruciati, il 27 aprile 1982, andò a Milano a

sparare due colpi di pistola contro il vicepresidente dell'Ambrosiano che stava uscendo di casa.

Roberto Rosone, che aveva assunto le veci di Calvi dopo l'arresto, rimase ferito alla gamba ma la sua

guardia del corpo fu più veloce: estrasse la pistola e colpì a morte uno dei due uomini in moto. A

terra rimase proprio Abbruciati; su una scatola di fiammiferi aveva scritto il numero di telefono di

Ernesto Diotallevi, il nuovo capo della Banda della Magliana, che forse doveva chiamare a cose

fatte. Ma perché un boss di prim'ordine era andato di persona a fare un attentato di quel genere?

Maurizio Abbatino ha spiegato ai magistrati: «Dopo la morte ne chiedemmo conto ai testaccini. De

Pedis e Pernasetti si limitarono a dire che si era trattato di un'iniziativa personale di Abbruciati che

doveva dei favori personali a gruppi di mafiosi siciliani, con cui era entrato in contatto tramite Calò

e Diotallevi».

Un mese e mezzo dopo l'attentato a Rosone, Roberto Calvi seppe che erano in arrivo nuovi

provvedimenti giudiziari nei suoi confronti. Disperato, decise di fuggire dall'Italia. In un primo

momento aveva pensato di riparare in Svizzera, alla fine optò per Londra. Quando circolò la notizia

della sua scomparsa, tutti pensarono che potesse essere stato rapito. Ma non si trattava di un

rapimento: il banchiere aveva intrapreso volontariamente quello che sarebbe stato il suo ultimo

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viaggio. Il segretario di Carboni, Emilio Pellicani, lo accompagnò a Trieste e durante il viaggio

Calvi si confidò con lui: «Mettermi tra i piedi Pazienza è stato un errore di Piccoli. Quello è un

bambino viziato: si è perfino dato da fare con Cutolo per liberare Cirillo a nome dei servizi segreti».

Ad aspettarlo all'aeroporto di Ronchi dei Legionari c'era Ernesto Diotallevi, il delfino di Calò, che

gli consegnò un passaporto falso, intestato a Gianroberto Calvini. La tappa successiva fu l'Austria,

poi l'aereo lo portò a Londra dove lo raggiunse Carboni al residence Chelsea Cloister. «Sono qui

perché devo incontrarmi con importanti rappresentanti della massoneria inglese che mi hanno

promesso almeno trecento milioni di dollari», gli disse Calvi. Invece, incontrerà la morte. La

mattina dopo, il 18 giugno, il banchiere fu trovato impiccato sotto il ponte dei Black Friars.

Dietro l'uccisione di Calvi c'è la mafia, come dietro l'omicidio Pecorelli.Ma perché il banchiere è

stato ucciso? Dicono i pentiti: «Una grande quantità di denaro dei mafiosi era stato investito in

attività immobiliari e in operazioni di riciclaggio attraverso il Banco dell'Ambrosiano, soldi che

erano stati perduti. E poi il banchiere sapeva troppe cose, le preoccupazioni giudiziarie lo avevano

mandato fuori di testa e minacciava di parlare. Andava eliminato». Proprio come accadrà a Sindona

cinque anni dopo, quando nel carcere di Novara bevve la sua tazzina di caffè al cianuro.

I delitti di Palermo Tra gli ultimi Settanta e i primi Ottanta, Cosa Nostra non si limitò alla gestione

dei propri interessi criminali, ma intervenne anche nella soluzione di contrasti "esterni" per

assicurarsi protezione e impunità. Qualcuno potrà dire che questo è nella natura stessa della mafia,

ciò che la distingue da qualunque altra organizzazione criminale. Ma è anche vero che mai, come tra

il '79 e l'82, i boss alzarono il tiro: sotto i colpi di lupara e kalashnikov caddero poliziotti, magistrati,

politici, giornalisti, in un vortice che culminerà con l'omicidio del generale Carlo Alberto Dalla

Chiesa, nominato pochi mesi prima Alto Commissario Antimafia. La maggior parte di questi

omicidi fu compiuta dalla mafia in nome e per conto di un movente "politico": lo stesso copione che

la Corte d'Assise d'Appello di Perugia ha individuato nell'uccisione di Mino Pecorelli. Il 21 marzo

1979, il giorno dopo l'omicidio di Mino, fu ucciso a Palermo Michele Reina, un andreottiano amico

di Salvo Lima: fu il primo omicidio politico in Sicilia. Le indagini non sono mai riuscite a ricostruire

fino in fondo la matrice di questo delitto, che già all'inizio aveva l'aria di una faida maturata

all'interno della DC siciliana, sullo sfondo di un pacchetto di appalti pubblici, per l'esattezza la

costruzione di sei scuole.

I sospetti caddero su Vito Ciancimino, che dopo un breve transito nella corrente andreottiana era

entrato in forte contrasto con Lima e lo stesso Reina. Del resto, la guerra di mafia era alle porte e lo

scontro di "interessi" contrapponeva le famiglie palermitane e corleonesi. Don Vito in quel periodo

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era assessore agli Enti locali. Nel 70 era stato sindaco di Palazzo delle Aquile, sia pure per una

dozzina di giorni: fu proprio Lima a farlo decadere dalla nomina. Un sindaco «nelle mani dei

corleonesi», dirà Buscetta nell'84, perché Ciancimino era nato a Corleone, era figlio di un barbiere,

ma proprio grazie all'appoggio dei viddani per una lunga stagione politica assurse al ruolo di

"signore degli appalti", di ago della bilancia degli equilibri politico-mafiosi al Comune di Palermo.

Era l'uomo di fiducia di Provenzano da sempre considerato la mente politica di Cosa Nostra.

Dei delitti avvenuti nell'estate successiva, la sanguinosa estate del 79, abbiamo già parlato a

proposito di Sindona. A luglio fu ucciso il capo della Mobile Boris Giuliano, a ottobre Cesare

Terranova, deputato comunista e membro della Commissione Antimafia. L'omicidio del

commissario Giuliano, come abbiamo già visto, s'intreccia con quello di Giorgio Ambrosoli a

Milano, avvenuto a poche ore di distanza. Sindona era ancora a Palermo, ed erano passati appena

tre giorni da quel colpo di pistola alla gamba che il chirurgo massone Miceli Crimi gli aveva sparato,

quando fu assassinato Cesare Terranova, magistrato eletto come indipendente nelle liste del PCI,

tornato a Palermo dopo due legislature durante le quali aveva svolto un ruolo di un ruolo di rilievo

all'interno dell'Antimafia. Al suo rientro si accingeva a tornare in magistratura, da giudice

integerrimo e di grande competenza, con l'incarico di consigliere istruttore. Lo uccisero i corleonesi

e si disse che era una vendetta di Luciano Liggio, che Terranova aveva fatto condannare al processo

di Catanzaro. In realtà i tempi non consentivano che il posto di consigliere istruttore andasse a un

magistrato di sinistra e impegnato nella lotta alla mafia.

È stata questa stagione, e quello che poi ne è seguito, a fare dell'Italia un caso unico al mondo e a

giustificare la nascita di un «processo anomalo» come quello nei confronti di Giulio Andreotti,

considerato non soltanto un grande leader nazionale della DC, ma anche il responsabile politico

della corrente siciliana del partito e pertanto responsabile di quell'inconfessabile connubio tra

politica e mafia di cui ha finito per pagare il prezzo più alto.

La nascita della corrente andreottiana Prima di affrontare il capitolo dei delitti politico-mafiosi, è

dunque necessario parlare della nascita della corrente andreottiana, che è all'origine di tanti successi

e tante sciagure di Andreotti. La decisione di fondare una propria corrente seguì il X congresso di

Milano, del novembre '67, in cui Andreotti, forse per la prima volta, apparve in difficoltà: la sinistra

tentava di escluderlo dal vertice democristiano, la corrente dorotea (cui fino a quel momento aveva

aderito) si era frazionata in vari sottogruppi, tra "colombei" e "pontieri"; Taviani cercava di

spingerlo a destra. L'ex pupillo di De Gasperi darà questa valutazione sul suo isolamento: «Avendo

appreso a Bombay che nel governo indiano c'era un ministro paria, chiesi quanti ve ne fossero e

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appresi che dai tempi di Gandhi mai più un paria era stato ministro. Io mi trovai a essere il

rappresentante dei paria in un governo globale di bramini» (la frase è citata nel recente libro di

Giorgio Galli, Il prezzo della democrazia).

Fu così che Andreotti decise di compiere il suo malaugurato viaggio in Sicilia, alla vigilia delle

elezioni politiche del 18 maggio 1968 che consentirà tanti anni dopo al pubblico ministero di

Palermo Roberto Scarpinato di affermare, in una veemente requisitoria, che il senatore andava

condannato per il reato di partecipazione ad associazione mafiosa, il famigerato 416 bis, proprio per

la sua qualità di capocorrente della DC siciliana. Nel corso del processo, Andreotti ha dato questa

versione del viaggio siciliano: «Era stato Rumor, allora presidente del Consiglio, a pregarmi di

andare a vedere cosa stava accadendo tra Lima e Gioia, che stavano litigando per una questione di

preferenze. Se nel '68 fossero rimasti tutti e due nella corrente fanfaniana, io avrei continuato la mia

vita politica lo stesso». In realtà Rumor, a capo di un governo debole, non aveva alcuna autorità per

imporgli quel viaggio, se lui non vi avesse intravisto una personale opportunità politica. E non fu

una questione di voti a spingerlo ad accogliere Lima nella sua nascente corrente, tutti i preti e le

monache del Lazio avrebbero in effetti continuato a votarlo: il problema era il suo potere all'interno

della DC, messo a rischio dallo scontro sotterraneo che da sempre lo contrapponeva a Moro e che si

era ancor più radicalizzato negli anni del centrosinistra.

Andreotti era consapevole di cosa comportasse l'accordo con Lima, lui conosceva bene la realtà

siciliana e gli antichi patti sotterranei che da sempre avevano caratterizzato questa particolarissima

realtà politica. Fin dal primo maggio 1947, quando la mafia spostò voti a destra con la strage di

Portella delle Ginestre, guidata da Salvatore Giuliano. Il 6 luglio 1950 il bandito fu ucciso dal

luogotenente e cognato Gaspare Pisciotta, poi a sua volta avvelenato con la solita tazzina di caffè al

cianuro, perché mai si sapesse chi aveva ordinato quel bagno di sangue. «È stato Bernardo

Mattarella a volere Portella della Ginestra», ha gridato Buscetta durante il processo di Palermo.

Andreotti conosceva bene anche Mattarella padre, sapeva quali fossero i legami di questo vecchio

amico dell'Azione Cattolica con gli ambienti americani fin dallo sbarco alleato gestito da Lucky

Luciano. Molto probabilmente non ignorava il ruolo di due deputati monarchici, Gianfranco

Alliata e il principe Leone Marchesano, nella preparazione della strage (del primo si sapeva che era

coinvolto nell'attentato a Togliatti del 14 luglio 1948). Andreotti era accanto a De Gasperi quando

questi si congratulò con il ministro dell'Interno Scelba per la «brillante operazione», cioè l'omicidio

di Giuliano.

Conosceva tutti i grandi misteri siciliani, anche i retroscena della morte del presidente Enrico

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Mattei: aveva disposto la Commissione d'Inchiesta che, per quanto sbrigativa, individuò un legame

tra il sabotaggio dell'aereo e il boss Carlos Marcelle Nel Memoriale, Moro non a caso attribuisce la

spregiudicatezza di Andreotti in questo frangente politico alla conoscenza di «qualcosa di molto

antico».

In ogni caso il viaggio di Andreotti in Sicilia si concluse con l'elezione di Lima alle politiche del '68

come deputato nazionale nelle liste della DC; Lima battè Gioia di un buon numero di preferenze. Il

neodeputato entrò nella sua corrente, evento di cui Franco Evangelisti darà in seguito questa

versione: «Lima disse: "Se vengo con Andreotti non vengo da solo, ma con i miei luogotenenti, i

colonnelli, le fanfare e le bandiere". E quando venne la data fissata, nell'ufficio di Andreotti a

Montecitorio arrivò davvero alla testa di un esercito». La prima conseguenza di questo accordo fu

che Andreotti, grazie al 18 per cento di tessere messe insieme dalla sua corrente, fu in grado di

influire su alleanze e rotture tra le varie correnti e ottenne l'incarico di capogruppo della DC, che gli

consentì ancor-più di influire sugli equilibri di partito: insomma, era di nuovo alla guida dei

bramini.

Ma l'ala siciliana non poteva non entrare in contatto con la parte più compromessa di quella laziale,

dove gli esponenti della gens Giulia non disdegnavano accordi economici con boss mafiosi del

calibro di Frank Coppola, Italo Jalongo e Natale Rimi confinati nella zona di Latina. Gli avversari

lo accusarono di essere non il capo di una corrente, ma di una «carovana maleodorante», cosa di cui

Andreotti non si preoccupò né tanto né poco, fino a quando sul finire degli anni Novanta i nodi non

vennero al pettine. Il pettine, per Andreotti, e non soltanto per lui, fu la caduta del Muro di Berlino,

con la nascita di un nuovo mondo dove le antiche alleanze, sancite in nome dell'anticomunismo,

andavano spazzate via.

L'omicidio Mattarella Il 6 gennaio 1980 venne assassinato in via Libertà Piersanti Mattarella,

presidente della Regione siciliana. Aveva soltanto quarantacinque anni, ma era l'uomo di spicco

della DC siciliana, l'unico leader che nell'amministrazione regionale manifestava una linea di

rinnovamento, di apertura alla sinistra. Molti lo consideravano un erede di Moro. L'artefice del

cambiamento era proprio lui, il figlio di Bernardo, potente democristiano negli anni Cinquanta,

ministro di tutti i governi regionali, il presunto "mandante" di Portella della Ginestra. Ma Piersanti

faceva parte di una nuova generazione politica: allievo dei gesuiti, erede di Dossetti e di La Pira,

aveva cercato di prendere le distanze dall'ingombrante eredità paterna.

Di tutti i delitti politico-mafiosi, l'omicidio di Mattarella è quello che più ci interessa non soltanto

per il significato di spartiacque che questo delitto assume nella sentenza di appello di Palermo tra

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l'Andreotti amico dei boss e l'Andreotti che gli dichiara guerra, ma anche perché nelle indagini fu

coinvolto il terrorista Giusva Fioravanti, presunto killer di Pecorelli nella prima inchiesta della

Procura di Roma.

Mattarella aveva avuto sentore di quanto stava accadendo, infiniti segnali stavano a indicare che era

in pericolo; era corso a Roma dall'amico Virginio Rognoni, allora ministro dell'Interno, per

raccontargli cosa stava avvenendo nelle file del partito in Sicilia. Prima di partire aveva detto alla

sua segretaria, Maria Grazia Trizzino: «Se mi dovesse accadere qualcosa si ricordi di questo

viaggio». Che cosa abbia detto Piersanti a Rognoni, quali nomi abbia fatto, quali accuse abbia

rivolto agli amici di partito con esattezza non si sa, ma al centro dei suoi sospetti c'era ancora una

volta Ciancimino.Non a caso la difesa di Andreotti ha puntato a ridimensionare i rapporti tra il

senatore e l'ex sindaco di Palermo: «Ho incontrato Ciancimino non più di due o tre volte e in

occasione di alcuni suoi viaggi a Roma». E i giudici d'appello gli hanno creduto.

In verità erano molto complessi i rapporti tra Don Vito e gli uomini della sua corrente siciliana.

Salvo Lima lo considerava da sempre un rivale nella complicata rete di interessi politico-mafiosi

della DC siciliana: fu lui nel 70 a farlo decadere dall'incarico di sindaco, dopo soli dodici giorni,

grazie all'accordo con la corrente di Gioia. Ma dietro lo scontro politico c'era anche uno scontro di

interessi mafiosi: Lima era legato a Bontate e ai Salvo, Ciancimino a Riina e Liggio. Nel corso del

processo di Palermo, ha certamente pesato nei confronti del senatore quel contributo di quaranta

milioni offerto dai suoi amici romani che consentì al barbiere di Corleone di dare la scalata alla DC

siciliana a metà degli anni Settanta. Ma ciò avvenne nel 77, prima che Don Vito giocasse il suo

supposto ruolo nei delitti di Palermo, ciò che rendeva imbarazzante il riconoscimento di ogni

possibile rapporto con lui.

Ma cosa lega l'uccisione del presidente della Regione siciliana a quella di un giornalista romano

troppo intraprendente e in cattiva fama? Il "movente politico", sostiene una tesi: tutti e due sono

delitti di mafia dove il mandante non doveva comparire, per questo i due omicidi dovevano essere

camuffati come "terroristici". Uno scenario complicato, se vogliamo, ma che regge all'usura del

tempo, anche se a mettere un bastone tra le ruote a questa ricostruzione è stato proprio Buscetta,

che, per una sorta di orgoglio mafioso, non è stato disponibile ad accettare il fatto che omicidi

compiuti da Cosa Nostra potessero essere stati commissionati a ragazzotti che agivano al di fuori

dello stretto controllo mafioso: «Signor giudice, mi creda, i terroristi non c'entrano niente, quello di

Mattarella è stato fatto da Cosa Nostra, andate a vedere a chi furono affidati gli appalti dopo la sua

morte, cose che fanno paura!».

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La pista nera Eppure, a distanza di tanto tempo, i sospetti su Giusva sopravvivono. Da piccolo

Fioravanti aveva raggiunto una certa notorietà come attore di uno sceneggiato televisivo; a

vent'anni maneggiava mitra e pistole con la rapidità di Tex Willer, ma gli era rimasta la faccia tonda,

il ciuffo ribelle e quel naso schiacciato che lo avevano reso famoso durante i pestaggi davanti alle

scuole di Monteverde. Nonostante la condanna all'ergastolo per la strage di Bologna, Fioravanti è

ormai in semilibertà, si è sposato con Francesca Mambro, sua collega di disgrazie: hanno un bimbo

piccolo. Tutti e due hanno chiuso con il passato: hanno commesso molti delitti, tutti confessati. Ma

Giusva ci tiene a far sapere tre cose: non è stato lui a sparare a Pecorelli;non è stato lui a uccidere

Mattarella; non è stato lui a mettere la bomba alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980. Ammettere

la partecipazione anche a uno solo di questi tre episodi equivarrebbe ad accettare la patente di killer

al servizio del Supersismi; e questo non farebbe comodo a Gelli, Pazienza, Musumeci e Belmonte

che si sono beccati una condanna a dieci anni di reclusione per quel depistaggio che doveva servire a

coprire proprio lui e i suoi amici. Del resto, come abbiamo già detto, anche i magistrati del processo

Andreotti hanno preferito limitare lo scenario all'accordo tra il senatore e Cosa Nostra.

Ma il ruolo della Banda della Magliana, all'interno di questi due delitti, è difficilmente eliminabile.

Tra i primi ad accusare Giusva Fioravanti dell'omicidio Pecorelli fu il fratello Cristiano, che

raccontò: «Non mi risulta nulla, ma quando appresi dai giornali del delitto ebbi la convinzione che a

commettere questo omicidio fosse stato proprio Valerio, non solo perché in quel periodo i NAR

prendevano di mira redazioni e giornalisti, ma la zona del delitto, il modo di operare, mi fecero

intravedere qualcosa di molto familiare». Cristiano parlò anche del delitto Mattarella: «Ho sempre

avuto la convinzione, senza averne le prove, che a Valerio sia attribuibile l'omicidio di un

personaggio siciliano, che venne ucciso in una strada di Palermo in presenza della moglie». E fu

proprio la moglie, Irma Chiazzese, a riconoscerlo senza mai avere ombra di dubbio.

A convincere Falcone del coinvolgimento di Fioravanti nell'omicidio Mattarella, oltre alla

somiglianza ravvisata da alcuni testimoni, fu il fatto che il terrorista nel periodo dell'omicidio era

effettivamente a Palermo ospite di un camerata palermitano, Gabriele De Francisci, che aveva casa

nelle vicinanze di via Libertà. Di tutte le testimonianze contro Fioravanti, la più interessante è forse

quella dello "stupratore del Circeo" Angelo Izzo, non sempre attendibile, ma che stavolta ha

raccontato retroscena interessanti: «Ancor prima di rivelarmi di essere l'autore dell'omicidio

Pecorelli, Valerio aveva detto che era stato lui a uccidere Mattarella [...]. Era consapevole dei

rapporti che c'erano tra fascisti romani, mafia siciliana e massoneria palermitana. A Palermo i

collegamenti con ambienti massonici erano tenuti da Francesco Mangiameli». Mangiameli era un

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ex di Avanguardia Nazionale legato alla massoneria, poi trovato morto con un sasso al collo nel lago

di Nemi: qualcuno disse che si era voluto eliminare un testimone scomodo.

Racconta ancora Izzo: «Dietro la morte di Mattarella, Concutelli mi disse che c'erano la mafia e

ambienti imprenditoriali, ma anche esponenti romani della corrente democristiana avversa a quella

di Mattarella. Valerio aggiunse che si erano fidati di lui perché aveva garantito la Banda della

Magliana».Un professore neofascista, Alberto Volo, aggiunse: «Mangiameli mi raccontò che

l'uccisione del presidente dell'Assemblea Regionale Siciliana era stata decisa a casa di Gelli per via

delle aperture al PCI che stavano maturando in Sicilia in quel periodo e di cui Mattarella era il

principale sostenitore». Come per il delitto Moro, anche per gli omicidi politico-mafiosi sarebbe

scattato l'ombrello di sicurezza teso a coprire il "livello superiore".

L'incontro negato con i boss Un'appendice dell'omicidio Mattarella è costituita, all'interno del

processo di Palermo, dal corposo capitolo sui presunti incontri tra Andreotti e i boss, sempre

disperatamente negati dal senatore che, in risposta alle accuse, ha fornito vari alibi, chiamando

anche a testimonianza la sua scorta. Come sappiamo fu Francesco Marino Mannoia a raccontare

che nell'estate dell'80, Andreotti s'incontrò con Stefano Bontate, allora capo di Cosa Nostra, in una

villa alla periferia di Palermo. Mannoia era il guardaspalle del boss: non partecipò al colloquio, ma

assicurò di aver visto arrivare Andreotti in macchina: era l'auto blindata che i Salvo mettevano a sua

disposizione quando scendeva a Palermo. Quando lo riaccompagnò a casa, il Padrino gli raccontò

che avevano parlato dell'omicidio Mattarella. Il boss non fornì molti dettagli sulla conversazione,

ma Bontate si vantò di una sola cosa: «Ho detto al Presidente che in Sicilia comandiamo noi, siamo

noi a decidere cosa dobbiamo fare».

Nel delitto Mattarella si assommano componenti che troviamo in quasi tutti gli altri omicidi

politico-mafiosi, secondo la tesi dell'accusa: mafia, massoneria, corrente andreottiana. Gli interessi

politici, ovvero l'apertura ai comunisti, erano entrati in contrasto con quelli massonici, contrari alla

svolta, e con gli interessi mafiosi che invece puntavano sugli appalti. Se il senatore avesse accettato

di ricostruire, sotto il profilo politico, alcune vicende che riguardavano i suoi rapporti con Gelli o la

sua corrente siciliana e avesse raccontato cosa era realmente accaduto in quegli anni ora tutto

sarebbe molto più chiaro; ma è stato proprio il suo silenzio, la sua totale negazione a consentire ai

giudici di Perugia di scrivere a pagina 228 della motivazione della sentenza: Questa Corte non

intende avventurarsi in analisi politiche, ma non può escludersi alla stregua delle risultanze

processuali che alcuni gruppi politici siano stati alleati a Cosa Nostra per un'evidente convergenza

d'interessi. E non è un caso che la mafia abbia colpito servitori dello Stato, che lo Stato non ha

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adeguatamente protetto [...]. Cosa Nostra, in caso di bisogno, sa fare politica in maniera violenta

assassinando gli uomini che danno fastidio a uomini politici [...]. Le connessioni tra politica

"affaristica" e criminalità mafiosa sono ormai un dato storico come è altrettanto vero che la mafia ha

controllato gran parte dei voti in Sicilia. Il sistema mafioso è un sistema complesso e ha i suoi

referenti anche nelle istituzioni e nei partiti per assicurare la propria sopravvivenza.

Da La Torre a Chinnici Il questore di Palermo, Giuseppe Nicolicchia, era piduista e, pare, amico di

Gelli. Forse per questo nessuno disturbò la "prigionia" del latitante Sindona, che circolava

liberamente in città e provincia nell'estate del 79. Ma era anche in buoni rapporti con Ciancimino.

Una sera il questore era in macchina, in giro per Palermo, proprio con Don Vito e insieme

riflettevano sulla catena di delitti che si erano scatenati in città. A un certo punto Ciancimino,

parlando del delitto Mattarella, se ne sarebbe uscito con una battuta che è poi diventata una sorta di

macabro tormentone: «Secondo me sono state le Brigate Rosse». Bruno Contrada, in seguito

arrestato e processato per concorso in associazione mafiosa, era all'epoca capo della Mobile.

Nicolicchia lo spedì a Londra, dove si era rifugiata da parenti la vedova del presidente della Regione

siciliana, Irma Chiazzese, per fargli riconoscere in foto il boss Salvatore Inzerillo, che gli fu indicato

come possibile killer del marito. Ma la vedova disse che no, non gli somigliava affatto, e anche in

seguito non ha mai cambiato opinione, convinta che il giovanotto che aveva sparato fosse

Fioravanti. Un'indicazione poco gradita al questore, che non ne tenne conto.

Furono molti i delitti politici in quegli anni. Nell'82 fu ucciso Pio La Torre, deputato comunista,

segretario regionale del PCI, impegnato contro l'installazione dei missili a Comiso, ma anche nel

varo di una legge, poi approvata, che prevedeva il sequestro dei beni mafiosi. Poco prima di morire,

in un'intervista all'«Espresso», La Torre dichiarò: Gli omicidi di Palermo sono stati decisi da un

tribunale internazionale composto da gente di altissimo livello. Sono omicidi pesanti, di uno stile

molto diverso da quello mafioso tradizionale. Sono una sfida allo Stato e alla società civile. Mi

rifiuto di pensare che un uomo politico del peso di Mattarella sia stato ammazzato per decisione di

qualche costruttore mafioso.

Il segretario regionale del PCI intravedeva nei delitti siciliani una convergenza di interessi che

andava al di là di moventi puramente mafiosi. Proprio in quel periodo andavano intensificandosi le

indagini sulle logge massoniche che, come abbiamo visto, fiorivano in città.

Nel febbraio '83, su ordine di Falcone, la polizia pedinava Giovanni Lo Cascio, imprenditore tessile,

sospettato di traffico di droga. Il trafficante entrò in un palazzo di via Roma, al numero 391, interno

4. La targa indicava un non meglio conosciuto «Centro Sociologico Italiano». Gli agenti all'interno

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scoprirono gli elenchi degli affiliati a ben sei logge diverse. Nello stesso stabile, per una strana

coincidenza, c'era anche una sede dei servizi segreti. Pochi giorni dopo fu arrestato il commercialista

Giuseppe Mandalari, per associazione a delinquere di stampo mafioso. Il suo nome era nell'elenco

della Loggia Carnea trovato in via Roma. I giudici lo accusarono di riciclare i proventi di Cosa

Nostra, ma Falcone non riuscì a trovare le prove e finì per scarcerarlo. Nei diari del consigliere

istruttore Rocco Chinnici la decisione fu commentata con disappunto: il giudice sospettava un

intervento dall'alto. E dopo la sua morte quelle parole servirono ad alimentare i veleni di Palermo, a

spargere ingiusti sospetti su Falcone. Eppure, le velate accuse di Chinnici, anche se errate, non

erano incomprensibili in una città che viveva lacerata dall'odio, dai sospetti, con il fiato della mafia

sul collo, dove i servitori dello Stato cadevano come mosche in un'Italia ormai sudamericanizzata.

Il 29 luglio anche Rocco Chinnici saltò in aria davanti al portone di casa in via Pipitene Federico.

Era stata usata la tecnica libanese dell'autobomba:ci furono quattro morti e diciannove feriti.

Cominciò così a Palermo l'era dello stragismo mafioso. Una strage annunciata, quella di via

Pipitene: tre giorni prima Bou Chebel Ghassan, libanese e informatore dei servizi segreti, aveva

telefonato ad Antonio De Luca, della Criminalpol palermitana, per dirgli che era in preparazione

un grosso attentato. Ma nessuno pensò a Chinnici, che invece in quei giorni stava lavorando proprio

attorno ai mandanti del delitto La Torre ed era arrivato a clamorose scoperte. Sono le vedove di

Palermo a raccontarlo: Giuseppina Zacco, moglie del segretario regionale del PCI, e Rita Bartoli,

moglie del procuratore Gaetano Costa, assassinato nell'agosto '80: anche lui impegnato in indagini

sugli omicidi politico-mafiosi. Racconta Zacco: «Chinnici ci venne a trovare, disse: "Siamo arrivati

al punto, il caso La Torre è chiaro. Dica alla sua amica Irma Mattarella che queste novità riguardano

anche lei. Si tratta di qualche settimana e si saprà tutto"». E invece fu ucciso.

Il Memoriale di Ciancimino Vito Ciancimino non ha mai mandato giù l'arresto che ha messo fine

alla sua carriera politica. Dal novembre dell'84 alla fine dell'anno successivo, il Signore degli

appalti, il sindaco nelle mani dei corleonesi, ormai miliardario, proprietario di numerose proprietà

immobiliari a Palermo e anche in Canada, rimase in carcere ai Cavallacci. Un'esperienza traumatica

per un uomo che, venuto dalle arse colline di Corleone, era riuscito a costruire la sua fortuna a

ridosso dei complessi equilibri di Palermo, una città che ha sempre considerato il centro del mondo.

Don Vito era culturalmente rozzo, un autodidatta, ma aveva un'intelligenza acutissima e un fiuto

politico che lo accomunava a Salvo Lima, che era però silenzioso quanto lui era loquace. Per molti

lustri si sono contesi la città e la corrente andreottiana in Sicilia. Dopo la condanna al

Maxiprocesso, per Don Vito seguì l'assoluzione in appello; nel frattempo trascorse almeno un anno

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al soggiorno obbligato, in un paesino sui Nebrodi.

Nel '91 fu nuovamente arrestato, su ordine del suo eterno nemico Falcone. Dopo una notte in

carcere, fece la sua comparsa nell'aula del Tribunale di Palermo dov'era in corso il processo sugli

appalti. Si rivolse ai giornalisti che affollavano l'aula e chiese: «Cosa hanno scritto i giornali del mio

arresto?». Qualcuno gli rispose che era accusato di aver manovrato, nell'interesse di alcune famiglie

mafiose e di alcuni imprenditori, appalti per decine di miliardi quando era assessore al Comune. La

cosa sembrò metterlo di buonumore e scoppiò in una sonora risata: «Io... da solo!». Fu dopo la

scarcerazione che decise di mettere nero su bianco le sue trentennali memorie politico-giudiziarie,

che mandò in varie versioni alla Commissione Antimafia, senza mai riuscire a essere convocato per

un'audizione.

La tesi che emerge dal memoriale di Ciancimino sugli omicidi di Palermo (di cui era considerato

l'ispiratore) era più o meno questa: «L'aspetto peculiare che unisce questi delitti è che secondo

mormoni validi e insistenti (vox populi) riteniamo che essi non siano classificabili come delitti di

mafia e ciò a onta di tutte le indagini giudiziarie». Anche Don Vito distingue tra mandanti e pedine,

lasciando intendere che a sparare può essere stata la mafia, ma per conto di entità superiori: «Chi ha

sparato è solo un problema di polizia giudiziaria», afferma in tono allusivo. Le argomentazioni sono

del tipo: come si può pensare che la mafia, ritenuta organizzazione intelligente e ben addentellata

nelle stanze del potere, abbia ucciso La Torre sapendo che la sua morte avrebbe accelerato

l'approvazione della legge da lui proposta sul sequestro dei beni ai mafiosi? Ma è sull'omicidio del

generale Dalla Chiesa che il colluso Ciancimino manda messaggi consistenti: Cosa conosceva il

generale Dalla Chiesa che potesse far tremare il Palazzo? Conosceva ad esempio le deviazioni dei

servizi segreti e fino a che punto erano stati deviati? È possibile che siano stati deviati fino al punto

da fargli compiere "interessati" delitti? Ma il generale poteva anche conoscere l'esistenza di Gladio

[a lui evidentemente nota già nel '90] che per quarantacinque anni è stata nascosta al popolo

italiano, mentre i depositi di armi belliche si sono volatilizzati.

Ciancimino sembra dare per scontata l'esistenza di una Gladio siciliana: «Bisogna prestare

attenzione al fatto che una base Gladio, per combattere il comunismo, è stata impiantata proprio in

Sicilia dove si dice che governi la mafia, che non è proprio filocomunista. O serviva ad altri scopi,

come quello di eliminare avversari scomodi?». Un altro interrogativo "allusivo" riguarda Dalla

Chiesa: perché è stato mandato a Palermo a fare il prefetto? Risposta: Per combattere la mafia?

Sciocchezze, un appuntato dei Carabinieri ha più poteri di un prefetto. Poi si disse che si sarebbe

rimediato dandogli poteri speciali. Falso. Pure le pietre a Palermo sapevano che questi poteri al

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Generale non sarebbero stati concessi mai. Dalla Chiesa era un uomo liquidato, lo sapevano tutti,

magistrati compresi. E come si può pensare che la mafia tanto potente non sapesse quello che tutti

sapevano? Perché doveva uccidere "un uomo morto"? Non è più lecito pensare che Dalla Chiesa sia

stato assassinato per ordine di qualcuno del Palazzo per risolvere alcuni problemucci strategici? Ad

esempio eliminare un uomo che sapeva troppo? Ma la sua rimase vox damantis in deserto, come egli

stesso scriveva nel memoriale. Soltanto due anni dopo, in un contesto diverso e altamente

drammatico, seguito alle stragi di Palermo, finalmente si aprì un varco. Il memoriale aveva lasciato

intuire che Ciancimino era un uomo in crisi: l'esperienza del carcere, l'emarginazione dalla politica

(la DC lo aveva espulso nell'83), la fine del suo ruolo di signore di Palermo, di pontiere tra politica e

mafia, e ormai anche l'avanzare degli anni sembravano averlo prostrato.

Facciamo un salto, per un momento, alla terribile estate del '92, pochi giorni dopo la strage di via

D'Amelio che si era portato via anche Borsellino. Al generale Mario Mori, ufficiale di grande

esperienza investigativa, oggi capo del SISDE, ma all'epoca comandante del ROS, venne un'idea:

bisognava riaprire un dialogo con gli uomini di Cosa Nostra, chiudere quella terribile stagione

facendo intravedere alla mafia una contropartita. L'obiettivo di Mori era soprattutto mettere le

mani su Totò Riina; con Provenzano era forse possibile ragionare, in ogni caso bisognava far presto,

c'era qualcosa di impazzito nelle dinamiche che si erano messe in moto con le stragi. Per prima cosa

mandò il suo fedele aiutante, il tenente colonnello Giuseppe De Donno, alla Salita di San

Sebastianello, nei pressi di piazza di Spagna, dove era la splendida casa romana di Don Vito.

L'avvio fu faticoso; agli incontri successivi partecipò anche Mori. Ciancimino, dopo aver capito il

piano (del resto era sempre stato un fedelissimo di Provenzano), disse: «Si può fare». Qualche

tempo dopo ritornò con un foglietto pieno di appunti, quello che in seguito fu chiamato Papello.

Totò Riina, e ancor di più Leoluca Bagarella, si erano entusiasmati per l'iniziativa di Mori: lo Stato

aveva capito, era disposto a trattare; queste erano le richieste: via il 41 bis (il carcere duro per i

mafiosi), via la legge Rognoni-La Torre sul sequestro dei beni, via la normativa sui pentiti, revisione

delle sentenze già pronunciate. Mori sbiancò: «Ma questo non si può fare, l'unica cosa è che i

mafiosi si consegnino e noi tratteremo bene le loro famiglie».

A sbiancare è stato allora Ciancimino: «Generale, lei mi vuole morto, anzi vuole morire anche lei. Io

questo discorso non lo posso fare a nessuno». Il Papello fu messo nel cassetto; Ciancimino disse a

Riina che non erano i Carabinieri a poter garantire una cosa del genere, bisognava rivolgersi alle

forze politiche: c'era qualcosa che si stava muovendo. Ci sarebbero state le elezioni. Ci fu ancora

qualche incontro con Mori: don Vito sapeva che Riina abitava a Palermo, ma riuscì a dare soltanto

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qualche indicazione sulla zona: per ore furono studiate le mappe stradali dell'Uditore. Nel

frattempo il generale Delfino aveva arrestato Balduccio Di Maggio, un ex fedelissimo di Riina; i

fatti andarono come andarono e il 13 gennaio 1993, su indicazione di Di Maggio, il capitano Ultimo

riuscì a bloccare il boss dei boss all'uscita dal cancello di casa.

Per Ciancimino ci furono altri processi, ma non tornò più in carcere: troppo anziano e malato. il 20

novembre 2002, appena quarantott'ore dopo la sentenza di condanna di Andreotti a Capanne, la

morte lo colse nel sonno nella sua casa di San Sebastianello. Il Signore degli Appalti se ne era

andato di notte da solo, come solo era rimasto negli ultimi anni. A settantasei anni lo aveva

stroncato un infarto. La Procura di Roma ha però disposto un'autopsia. Non si sa mai.

Morte di un generale Nei mesi successivi al delitto Moro, come si ricorderà, Dalla Chiesa ci era

apparso in preda a una grande agitazione: un"'inquietudine cospiratoria"sembrava averlo

contagiato, dai giorni della scoperta del covo in via Montenevoso ai colloqui con il maresciallo

Incandela, nel carcere di Cuneo. Nella primavera dell'82 lo ritroviamo più sereno: era tornato se

stesso, di nuovo all'attacco. I successi che aveva ottenuto nella lotta al terrorismo lo avevano rimesso

in sella. Il generale aveva perfino accantonato, almeno nei rapporti ufficiali, la forte diffidenza che

aveva sempre manifestato nei suoi rapporti con Andreotti. L'emergenza terrorismo era scemata, ma

i bagni di sangue in Sicilia, politici e non, avevano riportato a galla un'altra, antica emergenza: la

mafia. E il 30 aprile, dopo l'assassinio del segretario regionale del PCI Pio La Torre, maturò nel

governo la decisione di mandare Dalla Chiesa a Palermo.

Quale fosse in proposito l'opinione di Andreotti non è dato sapere, ma ufficialmente appoggiò

quella scelta. Nei diari di Dalla Chiesa troviamo traccia di un incontro tra lui e il generale svoltosi

nell'aprile '82. Un appunto che sarà poi oggetto di indagini, polemiche e interrogatori quando

qualche mese dopo Dalla Chiesa cadrà sotto i colpi dei kalashnikov: Ieri anche Andreotti mi ha

chiesto di andare e naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via

indiretta interessato al problema. Sono stato molto chiaro e gli ho dato la certezza che non avrò

riguardo per quella parte dell'elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori [...]. Sono

convinto che la mancata conoscenza del fenomeno [...] lo ha condotto e lo conduce a errori di

valutazione e circostanze.

Il neoprefetto si riferiva a una battuta di Andreotti su un boss mafioso, Inzerillo, ucciso negli USA e

trovato nella bara con una banconota da diecimila lire in bocca: un messaggio legato alla vicenda

Sindona di cui aveva mostrato di non comprendere il significato.

Nei mesi successivi, quando si accorse che i pieni poteri che aveva chiesto per far fronte alla lotta alla

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mafia forse non gli sarebbero mai stati concessi, Dalla Chiesa scrisse che la maggiore opposizione

veniva proprio dagli uomini della DC siciliana: Lima, Martellucci, Ciancimino, D'Acquisto,

Rosario Nicoletti. Quest'ultimo, l'unico che non apparteneva alla corrente andreottiana, morì

suicida o, per essere precisi, "precipitò" dalla finestra della sua abitazione al quarto piano di via

Lincoln. Con sorpresa, il generale annotava anche che il ministro Marcora, esponente della sinistra

DC, gli remava contro. E non gli era sfuggito un convegno a Catania, nel quale il ministro aveva

esaltato l'imprenditore Costanzo come salvatore dell'economia siciliana. Nei diari Dalla Chiesa

scriveva: «Anche Catania sta diventando molto importante». Nel corso del processo, il figlio Nando

raccontò: «Di quell'incontro mio padre fece in famiglia una rapida menzione: "Sono stato da

Andreotti e quando gli ho parlato della sua corrente in Sicilia è sbiancato"». Andreotti ribattè in aula

che, essendo per sua natura molto pallido, gli era difficile sbiancare.

Ma è proprio in questo scorcio dell'82, in quei cento giorni trascorsi a Palermo da Dalla Chiesa, che

molti hanno visto avverarsi (se non per le modalità) la profezia di Pecorelli, pubblicata nell'anonima

lettera al direttore del 17 ottobre 1978: «C'è solo da immaginarsi, caro direttore, chi sarà l'Anzà della

situazione, quale generale dei carabinieri sarà trovato suicida con la classica revolverata che fa tutto

da sé». Il generale Anzà, candidato al posto di comandante dell'Arma, fu trovato morto nel '77: la

pistola era sulla scrivania e aveva sparato due volte. Dalla Chiesa fu ucciso la sera del 3 settembre, in

via Isidoro Carini, con la moglie e un agente. Per la sua morte sono stati recentemente condannati

due boss di primo piano, Giuseppe Marchese e Raffaele Ganci, ma oggi la Procura di Palermo sta

valutando l'ipotesi di riaprire nuovamente le indagini su possibili mandanti esterni.

Cento giorni a Palermo I cento giorni di Dalla Chiesa a Palermo, dal 20 maggio al 3 settembre del

1982, sono stati oggetto di film, libri, inchieste. Sappiamo ormai praticamente tutto delle speranze e

delle inquietudini vissute in quei mesi dal generale che, a sessantatré anni, era sceso in Sicilia con un

ardore da seconda giovinezza. Aveva meno di trent'anni quando, capitano in Sicilia, aveva ispirato

uno dei migliori romanzi di Sciascia, Il giorno della civetta. Dopo gli anni bui del terrorismo e della

solitudine (era rimasto vedovo dell'adorata moglie), Dalla Chiesa stava per cominciare una nuova

vita: si era risposato con una bellissima ragazza, Emanuela Setti Carraro, che aveva soltanto

trentatré anni, e quasi nello stesso periodo si erano create le condizioni per quell'incarico prestigioso

cui aveva sempre aspirato.

La nomina a prefetto di Palermo era un'investitura che gli consentiva di riprendere l'esperienza

della lotta alla mafia dove l'aveva lasciata venticinque anni prima, forte dell'esperienza dei corpi

speciali antiterrorismo. Ma secondo Dalla Chiesa essere prefetto a Palermo doveva significare

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assumere i pieni poteri nel coordinamento delle indagini e in ogni altra iniziativa di contrasto a

Cosa Nostra. Fu subito chiaro che la legge non lo consentiva e questo rischiava di vanificare i suoi

sforzi, trasformando quell'esperienza in un boomerang: lo stavano trattando come un pensionato

che voleva chiudere la carriera con l'ultima medaglia al petto.

Di quei cento giorni sappiamo tutto. Sappiamo che a palazzo Whitacher il generale aveva fatto

allontanare la sua scrivania dalla finestra, da dove temeva potesse entrare quel proiettile che, in tanti

anni di prima linea, aveva sempre schivato. Sappiamo che impediva alla giovane moglie di stringere

relazioni, di accettare inviti di società: forse era geloso, ma si giustificava così: «In una città come

Palermo non si sa mai a chi stringiamo la mano». All'inizio era entusiasta; ma fu uno stato d'animo

che durò poche settimane, o addirittura pochi giorni, via via subentrò il sospetto di essere caduto in

una trappola, forse la peggiore delle trappole. Ogni tanto voltava lo sguardo verso la cassaforte,

erano lì i suoi segreti... Ma l'inquietudine era tornata: perché lo avevano mandato a fare il prefetto

Antimafia se poi non era messo nelle condizioni di operare? Nei suoi diari appariva consapevole dei

rischi che la sua nuova posizione implicava: «Io che sono certamente il depositario più informato di

tutte le vicende di un passato non lontano, mi trovo a essere richiesto di un compito davvero

improbo e perché no pericoloso».

Di quella città aveva imparato a leggere i segnali, i sorrisi allusivi, quelle frasi a doppio taglio di cui

diffidava: «Che vuole fare, generale, la Sicilia è sempre la stessa, questa città non cambierà mai».

«Generale, si goda la vita, se ne vada con la sua bella moglie a Mondello, accetti gli inviti, davvero

pensa ancora di sconfiggere Cosa Nostra?». A Roma i telefoni squillavano inutilmente; dopo le

promesse dei primi giorni ad agosto era calato il silenzio. Il primo settembre si decise a chiamare il

suo amico Giorgio Bocca e concordò un'intervista che doveva essere uno squillo di tromba: «Sono

stato mandato in Sicilia, ma lo Stato mi ha lasciato solo». Negli ultimi giorni si era occupato

soltanto di acquedotti. La mattina del 3 settembre, quando ormai la sua sorte era segnata, gli venne

un'idea: chiese e ottenne un incontro urgente con Ralph Jones, il console generale degli USA a

Palermo. Il colloquio, ricostruito nell'ordinanza di rinvio a giudizio del Maxiprocesso, è altamente

drammatico: «Soltanto il governo americano a questo punto può fare un intervento ad alto livello: io

chiedo soltanto di poter lavorare seriamente».

Ma non ce ne sarà il tempo. Alle sette di sera di quello stesso giorno, la moglie lo raggiunge in

Prefettura. Salgono in auto: guida l'agente Domenico Russo. La vettura sfreccia in via Roma,

supera piazza Politeama, imbocca via Isidoro Carini, rallenta perché c'è una moto e due persone in

mezzo alla strada. È solo un attimo: i kalashnikov cominciano a crepitare. I corpi di Dalla Chiesa, di

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Emanuela e dell'agente Russo saranno trovati nell'auto con le portiere spalancate riversi sui sedili,

in un bagno di sangue. Uccisi in auto da ignoti sicari come Pecorelli.

È finita così la storia del generale, in una Sicilia ambigua come in un romanzo di Sciascia. Era stata

una trappola? L'ultimo atto di una storia cominciata tanti anni prima con la caccia a quei documenti

di Aldo Moro mai più ritrovati? Carte che, stando alla leggenda popolare, Dalla Chiesa aveva

portato con sé a Palermo. Quella sera, quando la polizia andò a prendere un lenzuolo per coprire

quei corpi orrendamente massacrati, nella residenza del generale a Villa Pajno la cassaforte fu

trovata aperta e vuota. Un carabiniere, suo stretto collaboratore, disse tremando che non c'era più la

chiave: fu ritrovata sette giorni dopo in un cassetto già perquisito. Una domestica riferì di aver

sentito Dalla Chiesa dire alla moglie: «Se mi dovesse succedere qualcosa, tu sai dove trovare quello

che ho messo nero su bianco».

Nella richiesta di rinvio a giudizio del Maxiprocesso, Falcone e Borsellino tre anni dopo

scriveranno: Di fronte a Cosa Nostra il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa impersonava soltanto

se stesso e non già, come avrebbe dovuto essere, l'autorità dello Stato [...] era consapevole di essere

stato destinato in Sicilia nelle condizioni peggiori [...]. In alcuni settori il suo arrivo a Palermo fu

accolto con un sospiro di sollievo, perché l'irruento e generoso generale era diventato troppo

ingombrante per le strutture centrali dello Stato.

Venerabile accusa: «Non solo mafia» Potrà sembrare strano, ma anche Celli sostenne tra i primi che

c'era un movente "politico" nell'assassinio di Dalla Chiesa: Artefice di quel massacro fu la mafia, ma

non soltanto essa. Altri sono i responsabili dell'esecuzione di un uomo che si era impegnato a

riportare l'ordine e la democrazia in Sicilia: mandare sul fronte un generale promettendogli mezzi

che poi non gli vengono dati, è come mandare in guerra qualcuno senza munizioni [...]. Un giorno

sapremo se si è trattato di un delitto mafioso o politico.

La sorprendente affermazione è contenuta in un documento la cui stesura fu affidata a un

giornalista dell'ANSA di Firenze, Marcello Coppetti, a lui molto vicino, scomparso di recente. Il

documento fu il frutto di un lungo colloquio svoltosi durante un incontro a tre: il Venerabile,

Coppetti e il maggiore del servizio segreto dell'aeronautica Umberto Nobili. In quell'occasione,

l'inesauribile Licio inviò consistenti segnali anche sul possibile legame tra il delitto Dalla Chiesa e il

caso Moro, a partire dalla scomparsa del Memoriale: Strano, hanno arrestato i colpevoli, li hanno

condannati, hanno fatto un primo processo, poi un secondo, un terzo, un quarto e i documenti non

sono venuti fuori. Ma si voleva davvero recuperare l'interrogatorio di Moro? Le spiegazioni sono

due: o non li hanno trovati o non li volevano trovare, ma credo che domani o fra cinquant'anni il

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materiale salterà fuori [.,.]. E poi loro erano abituati a filmare tutto, l'avranno filmato anche mentre

lo uccidevano, non credo che lui si aspettasse di morire, così mi hanno detto.

Nella tasca della giacca di Moro furono trovate poche migliaia di lire. E, proprio nei giorni in cui

Gelli avanzava i suoi sospetti, Corrado Guerzoni fece l'ipotesi che quei soldi potevano servire per

pagare un taxi: le vere BR lo avevano rilasciato vivo e "altre br" lo avevano massacrato? Nel

documento Gelli-Coppetti c'è una parte non virgolettata in cui il capo della P2 fa sapere: 11 caso

Moro non è finito, Dalla Chiesa aveva infiltrato un carabiniere giovanissimo nelle BR; sapeva che le

BR avevano anche materiale compromettente di Moro. Dalla Chiesa andò da Andreotti e gli disse

che il materiale poteva essere recuperato se gli dava carta bianca, costui [Dalla Chiesa] recuperò

quel che doveva così il materiale è incompleto, anche quello che ha la magistratura, perché è segreto

di Stato.

E in una nota, aggiunge: «Il materiale era stato preso dalle BR: è stato recuperato dall'infiltrato (il

carabiniere) oppure il carabiniere è una scusa?».

Nel]'82, la prima Commissione Moro, proprio a causa di questo testo, convocò sia Coppetti che

Nobili. Il primo si dilungò in una deposizione, di oltre cento pagine, totalmente evasiva. La

testimonianza del secondo, lunga invece soltanto trentanove pagine, fu interrotta bruscamente forse

a causa della gravita di alcune affermazioni. Ne citiamo una riassuntiva: «Sia Gelli che le BR

perseguono il comune interesse di destabilizzare il paese, per questo ritengo che siano parenti

prossimi, anche se questa è soltanto una mia valutazione».

Il brigatista «Francesco» Il misterioso riferimento di Coppetti-Gelli sul "carabiniere infiltrato"

sembra alludere a un altro grande segreto di Dalla Chiesa, che ci riporta ai misteri del sequestro

Moro. Secondo alcune malelingue, il generale si sarebbe avvalso della collaborazione di Patrizio

Peci (sì, proprio il primo pentito delle Brigate Rosse) per alcuni mesi prima di arrestarlo. Peci fu

arrestato "ufficialmente" nel febbraio '80 e fu mandato nell'ormai famoso carcere di Cuneo, dove il

maresciallo Incandela lo avrebbe convinto a collaborare.Ma questa sarebbe soltanto una parte della

verità. L'ipotesi che il brigatista abbia agito da infiltrato dei carabinieri, fin dall'estate del '78,

assunse forma di rivelazione in un articolo a firma del giornalista Massimo Caprara, ex segretario di

Togliatti, su un periodico di sinistra, «Pagina», nel quale si affermava che in realtà Peci era stato

arrestato «due volte». E il «Corriere della Sera», dopo l'arresto ufficiale, attribuì al brigatista pentito

la seguente frase: «Anch'io ero in via Fani, ma non ho sparato». L'affermazione fu smentita ma,

nella ricostruzione dei misteri di Moro a cui in questi mesi mi sono dedicata, mi ha colpito il fatto

che quella attribuita a Peci fosse la stessa frase del brigatista Francesco, il misterioso protagonista

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del caso Viglione. E questo nome, Francesco, compare anche, come ricordiamo, nella soffiata

ricevuta da Musumeci la mattina del 16 marzo, poco prima della strage di via Fani, quando il capo

dell'Ufficio Sicurezza del SISMi spedì il colonnello Guglielmi sul luogo della strage; Musumeci

asserì che la segnalazione proveniva dall'infiltrato "Francesco". Forse è soltanto una coincidenza,

tuttavia è singolare che tutti gli infiltrati nelle BR si chiamassero Francesco e avessero la comune

caratteristica di essere presenti in via Fani senza avere sparato.

Viglione, prima di esibire il povero Pascal Frezza, aveva descritto il brigatista che lo aveva

contattato come un giovane in crisi, molto, molto spaventato. Sappiamo anche che "Francesco" era

entrato in contatto con il giornalista di Radio Montecarlo la prima volta durante il sequestro Moro,

la seconda un mese o due dopo la sua tragica conclusione. Un sospetto: dietro Viglione c'era forse

Dalla Chiesa? Sappiamo che il generale difese strenuamente il giornalista dall'accusa di truffa, anzi

si scoprì che in seguito lo avrebbe mandato in Calabria. Non conosciamo il motivo, ma sembra

volesse verificare in modo riservato alcune circostanze emerse dalle indagini sul rapimento Moro.

Non dobbiamo dimenticare che nell'autunno 78, nel periodo in cui Dalla Chiesa e Pecorelli avevano

preso a frequentarsi, Mino scrisse su «OP» uno strano trafiletto dal titolo: «I capi delle BR risiedono

in Calabria». Segno che il generale stava battendo una pista purtroppo rimasta inesplorata. Una

pista che aveva preso avvio dalle anomale presenze in via Fani, segnalate al DC Cazora dall'uomo

della 'ndrangheta Rocco Varrone. Una di queste presenze, ricordiamo, era quel "legionario De" di

cui Pecorelli aveva parlato nella sua ultima invettiva, "Vergogna buffoni", e cioè Gustino De Vuono,

poliedrico soggetto criminale che aveva al suo attivo un periodo nella Legione Straniera,

l'appartenenza a una cosca calabrese e la successiva politicizzazione in carcere dov'era divenuto un

simpatizzante delle BR. De Vuono era stato anche riconosciuto da alcuni testimoni, nelle

sembianze di uno spazzino notato in via Fani nei giorni precedenti il rapimento. E, per concludere,

la sua cosca di appartenenza impose alla famiglia di un rapito di pagare un contributo di venti

milioni, cifra all'epoca rilevante, alla misteriosa Hyperion.

Tutti questi elementi, via via che affioravano, hanno indotto nel tempo il sospetto che "Francesco"

fosse in realtà proprio Gustino De Vuono e che Viglione sia stato usato da Dalla Chiesa come

paravento per far emergere un pezzo di verità sulla vera regia del sequestro Moro coprendo al

contempo la fonte. Non dobbiamo dimenticare che il brigatista "Francesco" spunta in quell'ultima

fase del sequestro, quando Dalla Chiesa avrebbe scoperto la vera prigione. Viglione raccontò che

"Francesco" gli aveva confidato di non aver sparato in via Fani e che «quelli che avevano sparato

temevano di essere riconosciuti dagli uomini della scorta e che l'intera operazione era diretta da due

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uomini della DC e da qualcuno del Vaticano». Di tutto questo abbiamo già parlato: ma

nell'affrontare il capitolo dell'uccisione del generale, eliminato a causa dei troppi segreti che aveva

portato con sé a Palermo, dobbiamo sottolineare che l'intreccio Pecorelli-Dalla Chiesa potrebbe

essere legato, oltre che al Memoriale, anche a questa zona oscura della regia del rapimento Moro, e

cioè la scoperta della vera prigione mentre il presidente della DC era ancora nelle mani delle BR.

Che Dalla Chiesa avesse un informatore nelle Brigate Rosse, del resto, era evidente: come avrebbe

potuto, altrimenti, avere informazioni di prima mano considerato che dal 75 non si occupava più di

terrorismo? Ma devo dire che l'ipotesi che l'informatore di Dalla Chiesa fosse De Vuono non mi ha

mai convinto, per una serie di motivi. Il legionario, nonostante i molteplici indizi che portavano alla

sua identificazione, fu fortemente protetto da «altri carabinieri», quelli del Supersismi, che lo

esclusero da ogni conseguenza giudiziaria grazie a un'informativa che garantiva la sua presenza

all'estero durante il sequestro Moro. Secondo tale versione lo 'ndranghetista sarebbe riparato in un

paese straniero, dopo l'evasione dal carcere, in un periodo molto vicino alla strage di via Fani. Un

uomo coperto dal Supersismi difficilmente sarebbe passato di campo.

Alcune coincidenze avvalorano l'ipotesi che l'informatore fosse invece Patrizio Peci: la ripresa dei

contatti da parte di Viglione con il medesimo "Francesco" nel corso dell'estate 78, coincide a livello

temporale con le indagini svolte da Dalla Chiesa su via Montalcini e con quel rapporto, datato 31

agosto, che farà calare un silenzio di due anni sul covo BR, grazie alla lapidaria conclusione del

generale: «Nulla di concreto è emerso». Non era vero: alcuni inquilini avevano riconosciuto, nelle

foto mostrate da funzionari dell'IGOS, proprio Patrizio Peci che veniva indicato come il primo

signor Altobelli della lista. Dopo l'arresto ufficiale, Peci disse che non era mai stato a Roma, almeno

dal 76, ma per il ruolo che ricopriva all'interno delle BR la circostanza apparve poco credibile. Dalla

Chiesa era dunque entrato in contatto con uno dei carcerieri di Moro durante il sequestro? Questa

eventualità, che porterebbe a riscrivere l'intera storia del processo, si fonda naturalmente

sull'assioma che la prigione Moro fosse quella di via Montalcini. Ma se invece in quella strada,

ormai tristemente famosa, ci fosse stata soltanto una base logistica delle BR, un covo dove si fossero

rifugiati brigatisti di altre colonne venuti a dare man forte durante il rapimento? Anche Caprara, in

quel vecchio articolo, sembra propendere per questa seconda ipotesi. In nessuno dei due covi

individuati, né in via Gradoli né in via Montalcini, c'è mai stata la prigione, sostiene il giornalista:

«Dalla Chiesa ne conserva la confessione [di Peci], ne ha decifrato le conseguenze, non può

sbagliare: uno dei massimi segreti della Repubblica va tutelato, né l'uno né l'altro».

Fin dall'inizio il luogo dove Moro era stato tenuto prigioniero era considerato dunque «uno dei

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massimi segreti della Repubblica». Ma anche se in via Montalcini non c'era mai stata la prigione,

perché Dalla Chiesa non ha arrestato Anna Laura Braghetti nell'ottobre 78, quando la brigatista fu

libera di traslocare, nonostante le molte segnalazioni degli inquilini del palazzo? La risposta è

semplice: Peci stava collaborando. Nei mesi successivi consentirà l'arresto di ottantacinque

brigatisti: uscire allo scoperto equivaleva bruciare l'intera operazione. Meglio la gallina domani, ha

sempre sostenuto il generale che, a quanto sembra, pur avendo firmato il rapporto conclusivo

dell'indagine il 31 agosto, per tutto il mese di settembre e forse anche dopo ha continuato a tenere il

palazzo sotto osservazione. Credo che se in quell'appartamento a piano terra ci fossero stati pannelli

insonorizzati, registratori, cassette e quant'altro, difficilmente Dalla Chiesa avrebbe consentito alla

brigatista di fare fagotto. Il fatto è che lui sapeva bene che in via Montalcini la prigione non c'era

mai stata: era meglio archiviare l'intera vicenda per coprire un informatore che lo stava aiutando a

smantellare le Brigate Rosse.

Ultima appendice. Roberto Peci, il fratello di Patrizio, fu ucciso il 3 agosto 1980 al termine di un

"regolare" processo condotto dalle BR di Giovanni Senzani. L'esecuzione fu perfino filmata e

diffusa tra i militanti per indicare quale potesse essere la pena per gli "infami". Il film fu poi trovato

in un baule, nel gennaio '82, quando il criminologo fu arrestato in un appartamento di via Ugo Pesci

a Roma. In un servizio apparso su «Il Borghese» si disse anche che in quel baule c'erano le bobine

girate durante l'interrogatorio Moro, mai ritrovate. Se davvero è andata così, vuoi dire che Senzani

non soltanto era riuscito a sconfiggere Mario Moretti, non soltanto aveva spaccato in due le BR, ma

aveva "recepito" i più importanti documenti del sequestro Moro che, a quanto si ipotizza,

potrebbero essere stati oggetto di diverse trattative con i servizi di intelligence di vari paesi. E a

quanto sembra era subentrato nei suoi contatti parigini con l'Hyperion (sempre che non l'abbia

preceduto!): il giorno dell'arresto era appena tornato da Parigi, dove aveva allacciato rapporti con

Paul Baudet, un funzionario del ministero degli Interni francese che si spacciava per estremista di

sinistra e con quel Corrado Simioni che Franceschini descrisse così: «Mi ricorda l'Inglese del film

Queimada, che incita alla rivolta e poi la fa reprimere nel sangue».

Nel 79 apparve su «Metropoli», la rivista dell'Autonomia, un articoletto in cui si affermava che a

trasmettere l'ordine di uccidere Moro era stato Blasco, un nome di battaglia dietro il quale si

nascondeva in quel periodo proprio Senzani. Un particolare che avvalora i sospetti sul vero ruolo di

"raccordo" del criminologo tra BR e altre entità.

Con la feroce esecuzione di Roberto Peci - una vendetta trasversale di stampo mafioso - punendo un

"infame", Senzani voleva forse riconquistare una patente di verginità rivoluzionaria, di uomo al di

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sopra di ogni sospetto? E un'ipotesi. L'altra è che l'omicidio Peci fosse in realtà un messaggio rivolto

a Dalla Chiesa, da qualcuno ben più importante del criminologo: «Attenzione a cosa dice il tuo

"infiltrato" contro i nostri "infiltrati"». Ipotesi che ricalca lo scenario proposto da Pecorelli, quando

sosteneva che Moro aveva paura di rimanere ucciso durante una sparatoria tra "carabinieri": quelli

che lo tenevano prigioniero e quelli che volevano liberarlo. In ogni caso il criminologo è oggi un

uomo libero, ha scontato interamente la sua pena, e non è mai stato indagato per il delitto Moro.

Per il SISMI era negli USA, all'estero, come De Vuono. Un rapporto sulle indagini condotte sul

conto di Senzani dalla Commissione Stragi è stato inoltrato due anni fa alla Procura di Roma dal

presidente Pellegrino, ma a tutt'oggi non risulta che i magistrati abbiano riaperto il fascicolo sul

criminologo del ministero di Grazia e Giustizia.

Fu Leonardo Sciascia l'unico a cui il generale espresse i suoi dubbi sulla vera identità delle BR,

pochi giorni prima di morire, durante l'audizione alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul

sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Lo scrittore siciliano gli chiese se davvero pensava che Moretti

fosse il "cervello" delle Brigate Rosse. «In questi giorni mi è sorto un dubbio», rispose. «Mi chiedo,

oggi che sono da tempo un po' fuori dalla mischia e faccio in qualche modo l'osservatore che ha un

po' di esperienza sulle spalle, dove sono le borse e dov'è la prima copia dei documenti Moro, noi

trovammo soltanto la battitura». Pensa che siano in qualche covo? chiese Sciascia. Dalla Chiesa

scosse la testa: «Penso che ci sia qualcuno che possa aver recepito tutto questo». «Sono contento che

le sia venuto questo dubbio», replicò lo scrittore. Dalla Chiesa concluse: «Dobbiamo anche pensare

ai viaggi all'estero che questa gente faceva; Moretti andava e veniva». Da Parigi, naturalmente.

Le stragi di mafia degli anni Ottanta Il 2 agosto 1980 una bomba esplose alla stazione di Bologna

mentre arrivava il treno proveniente da Roma: ottantasette morti e oltre duecento feriti. Una strage

senza precedenti, la più grave mai commessa in Italia, ancor più grave di piazza Fontana. In una sala

d'aspetto della stazione era stata lasciata una valigia con duecentocinquanta chili di tritolo. Perché

fu fatta esplodere quella bomba? Non si è mai chiarito. Ma dopo vent'anni di indagini, sia le

inchieste della magistratura sia quelle delle commissioni parlamentari, sono approdate a un'ipotesi

non dimostrata, ma, alla luce di molte considerazioni, ormai condivisa da parecchi: un mese prima,

il 27 giugno, nei cieli di Ustica era scomparso un aereo con ottantuno persone a bordo. Come dopo

anni di indagini, sotterfugi e depistaggi apparve chiaro, l'aereo era stato abbattuto per errore

durante "un'operazione di guerra" non ortodossa. Il vero obiettivo era uccidere Gheddafi, il leader

libico, che, secondo una segnalazione, in quelle ore sarebbe transitato con un piccolo velivolo sui

cieli del Mediterraneo, diretto da Tripoli a Varsavia. Un'operazione top secret di cui il governo, o

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perlomeno il Parlamento, non era stato informato. La causa di quel tragico incidente, avvenuto nel

corso dell'operazione militare più segreta e importante che fosse mai stata tentata dalla fine della

seconda guerra mondiale, non doveva essere scoperta: bisognava camuffare l'abbattimento

dell'aereo in attentato terroristico.

All'inizio si parlò di una bomba collocata a bordo, forse da un terrorista di destra; si fece il nome di

Marco Affatigato, che ormai collaborava con i servizi segreti francesi. Invece, quasi due mesi dopo, i

resti di un altro aereo, un "caccia" libico, furono ritrovati sulla Sila assieme ai cadaveri dei due piloti.

Un altro inquietante indizio della battaglia! Per coprirlo fu tentato di tutto: si disse perfino che un

aereo militare andò a bombardare quella zona della Sila, il 18 settembre, per tentare di spostare la

data dell'incidente. Attorno alla strage di Ustica, dunque come sappiamo, furono inscenati

mastodontici depistaggi. Ma forse il più eclatante fu proprio la strage di Bologna: bisognava fare

qualcosa, qualcosa di molto forte per distrarre l'opinione pubblica. Cosa c'era di meglio di

ottantasette morti? Non staremo a ricostruire l'intera, complessa vicenda del processo sulla strage di

Bologna, che si è concluso con la condanna all'ergastolo di quattro neofascisti: Giusva Fioravanti,

Francesca Mambro, Sergio Piccia-fuoco e Massimiliano Fachini, due romani e due bolognesi.

Quello che a noi interessa è che le sentenze su Bologna per la prima volta confermano la

connessione tra neofascisti, piduisti e uomini dei servizi segreti. Un legame che affondava, come

abbiamo già visto, all'interno di quella strana Agenzia del Crimine, denunciata dall'alto

commissario Domenico Sica e di cui è tornata a interessarsi la magistratura di Brescia. I terminali

del gran botto andavano cercati a Roma e proprio in quell'armeria di via Liszt che ormai conosciamo

bene, in quel groviglio di relazioni malavitose-mafiose-terroristiche che ruotavano attorno alla

Banda della Magliana.

Fin dai giorni immediatamente successivi alla strage di Bologna, i servizi segreti si misero in moto

per depistare le indagini anche su questo secondo, gravissimo attentato. E impegnato in

quest'operazione troviamo ancora una volta il generale Pietro Musumeci, ormai responsabile del

misterioso Reparto 7 del SISMI, dietro il quale sembra proprio si celasse la struttura operativa Stay

Behind. Le iniziative furono molteplici; la Procura di Bologna fu subissata di informative che

segnalavano le piste più varie: anarchici, tedeschi, neonazisti con collegamenti i più diversi;

venivano citati anche Preda, Ventura e Delle Ghiaie. Il depistaggio culminò nel gennaio '81, con il

ritrovamento di una valigia contenente mitra ed esplosivo sul treno Taranto-Roma, accompagnato

da un'informativa del SISMI, denominata "Terrore sui treni", che avvalorava la pista

anarco-tedesca.

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Ma tra le armi recuperate sul treno, c'era un mitra Mab con una lunga storia che riportava al centro

studi reatino di Semerari e De Felice: il mitra faceva parte di uno stock, ceduto anni prima dal boss

della Magliana Franco Giuseppucci al neofascista Paolo Aleandri e poi finito nelle mani di

Massimo Carminati, che lo aveva ripulito e collocato nell'armeria del ministero della Sanità. Il

SISMI tentò anche di accreditare la tesi che la gestione dell'armeria era passata alla sinistra: si fece il

nome di Egidio Giuliani, che era in realtà un provocatore con un passato marcatamente neonazista,

anche se aveva fornito armi e documenti falsi a un'organizzazione dell'estrema sinistra. Il PM Sica

dubitò fortemente della pista indicata dal SISMI. Poi la scoperta che i giornali utilizzati per

avvolgere le armi ritrovate nella valigia appartenevano a Francesco Pazienza rese tutto più chiaro.

Ed è in definitiva l'ex dinamico giovanotto del Supersismi ad aver pagato il prezzo più alto: è tuttora

in carcere e nel gennaio 2003, quando la sentenza è divenuta definitiva, ha attuato un duro sciopero

della fame, ma inutilmente.

Non a caso Pazienza, dopo aver preso coscienza, in seguito alla condanna, che per lui la partita era

ormai persa, ha attaccato frontalmente, con una serie di esposti, l'ala del SISMI che faceva capo

all'ammiraglio Fulvio Martini e al suo braccio destro Demetrio Cogliandro, cui attribuisce le sue

disgrazie, sostenendo che l'informativa trasmessa al PM Sica nell'84 era soltanto il frutto di una

faida interna al controspionaggio. Ma i giudici hanno archiviato le sue denunce.

Pazienza ha allora battuto un'altra strada. A un certo punto sostenne che un legame tra Ustica e la

strage di Bologna in effetti c'era, perché erano stati proprio i libici a collocare la bomba alla stazione

per vendicare il tentativo che si era consumato nei cieli di Ustica di uccidere Gheddafi. Ma

all'attentato di matrice libica i giudici di Bologna non hanno mai creduto: troppi elementi

conducevano a una pista casalinga.

Restava un dubbio: perché il servizio segreto si era tanto mobilitato per coprire quattro fascistelli? Il

motivo sarà compreso meglio, nei mesi e negli anni successivi, quando le indagini sulla Banda della

Magliana portarono alla luce quella commistione mafia-terrorismo nero-servizi segreti che era

all'origine della strage alla Stazione. Una strage compiuta da terroristi neri, con l'ausilio della mafia,

per coprire un affare internazionale. La Procura di Roma inviò il fascicolo a Bologna e furono

emessi tre ordini di cattura nei confronti di Gelli, Pazienza e Musumeci per il reato di depistaggio.

Anche il Venerabile finì nel calderone dell'inchiesta, ma nel frattempo era riparato all'estero,

inseguito da numerosi provvedimenti giudiziari; evidentemente Gelli non gradiva dover rendere

conto ai magistrati della sua attività in difesa dell'Italia dal pericolo comunista. La prima volta che si

rese irreperibile fu nel marzo '81, subito dopo la scoperta delle liste P2 a Villa Wanda. A quanto si

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scoprì in seguito Gelli trascorse almeno un anno in Sud America, poi tornò in Europa. Fu arrestato

in Svizzera il 13 settembre 1982, restò nel carcere di Champ Dollon fino al 10 agosto 1983, quando

riuscì a corrompere un agente carcerario che l'aiutò a evadere. Per qualche anno scomparve dalla

circolazione, ma fu di nuovo arrestato in Svizzera il 21 settembre 1987 da dove fu finalmente

estradato in Italia il 17 febbraio 1988. Nel frattempo, oltre alla leggina che rendeva facoltativo

l'arresto per le persone di età superiore ai sessantacinque anni, la Cassazione aveva dichiarato gli

imputati estradati da paesi stranieri perseguibili soltanto per quei reati riconosciuti validi nel paese

di provenienza. E Gelli, sulla base della sua estradizione, era imputabile soltanto per reati valutari e

non per la strage di Bologna, per la quale, ricordiamo, è stato condannato a dieci anni con l'accusa di

depistaggio insieme a Musumeci e Pazienza. In ogni caso, in attesa di chiarire la sua posizione, fu

trattenuto fino all'11 aprile 1988 in un carcere costruito apposta per lui all'interno della Certosa di

Parma. Da quel momento in poi il Venerabile ha goduto di una totale impunità, se si esclude

l'ordine di cattura firmato nel '98 da un magistrato romano, Giuseppe Saieva, che tentò di arrestarlo

per il reato di procacciamento di documenti riservati, per il quale era stato condannato

definitivamente a tre anni. Ma l'estradizione di Gelli era a prova di bomba: neppure questo reato

poteva essergli contestato e dopo una breve fuga a Nizza fece ritorno a Villa Wanda, dove tuttora

vive tranquillo e in ottima salute.

Comunque sia, quello che non era stato possibile dimostrare con i delitti politico-mafiosi di

Palermo appariva con tutta evidenza nello scenario della strage bolognese: attorno al mafioso Pippo

Calò si era creata a Roma una "struttura di servizio", cui apparati dello Stato potevano far ricorso

ogni qualvolta fosse necessario, in nome di interessi superiori di cui la massoneria si faceva garante.

Fatta questa premessa, non deve stupire che quattro anni dopo, il 23 dicembre 1984, a gestire

direttamente un attentato terroristico siano stati proprio uomini di mafia, coinvolti nella gestione di

affari sporchi. Quell'antivigilia di Natale, sul rapido Roma-Bologna gremito di gente che si

spostava per le festività, esplose un ordigno ad alto potenziale che provocò altri sedici morti e

centotrentanove feriti. Le indagini portarono a una connection fra mafia-camorra ed estremismo

neofascista: con Calò furono incriminati un camorrista, Giuseppe Misso, un parlamentare missino,

Pasquale Abbatangelo, accusato di aver fornito l'esplosivo, e un personaggio romano, Guido

Cercola, nella cui villa fu trovata una scatola con undici detonatori con comando a distanza:

mancava il dodicesimo usato per il treno.

Ma a volere quella strage era stato Calò, il più potente e misterioso dei boss siciliani. In questo

attentato, che rivela l'ausilio tecnico di artificieri di altissimo livello, non compaiono, almeno non

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direttamente, uomini dei servizi segreti. Fu una strage voluta, preparata e attuata interamente dalla

mafia: era un segnale, la prima consistente minaccia nei confronti di quegli apparati che si stavano

mostrando irriconoscenti nei confronti dei boss di Cosa Nostra (fra poco vedremo perché). I

mafiosi, così sembravano voler affermare nel loro messaggio, non si erano tirati indietro quando si

era trattato di «dare una mano» per risolvere intrighi di Stato: da Pecorelli al sequestro Moro, da

Dalla Chiesa alla stazione di Bologna.

L'obiettivo "politico" di Calò L'ordigno, lasciato all'interno di un vagone, fu fatto esplodere con un

telecomando a distanza: una tecnica militare usata per la prima volta in Italia. Il telecomando, che

mancava dalla scatola trovata nella villa di Cercola di Poggio Mirteto, era state fornito a Calò da un

artificiere tedesco, nato a Zagabria, Friedrich Schaudinn, condannato poi a ventidue anni ma

fuggito dall'Italia nell'88 mentre era al soggiorno obbligato. In un rapporto della Guardia di

Finanza del '92, Schaudinn veniva segnalato in Croazia e in Istria come uno dei punti di riferimento

di trafficanti che, ne- gli ultimi due anni, avevano introdotto in Italia ingenti quantitativi di armi

non convenzionali ed esplosivo Semtex T4, di produzione cecoslovacca, che poi ritroveremo anche

nelle stragi dell'estate '93 di Roma, Milano e Firenze. Un filo collega dunque le stragi di mafia degli

anni Ottanta e quelle degli anni Novanta.

Socio di Schaudinn era un trafficante d'armi siciliano, Giovan Battista Licata, coinvolto in un

mastodontico traffico di armi e droga da cinquanta milioni di dollari tra Israele, Italia e Croazia: sia

l'artificiere tedesco che il trafficante siciliano risultarono legati a gruppi paramilitari fascisti

Usta-scia, ma anche ben tollerati dalle autorità locali croate, tolleranza dietro la quale ci sarebbero

stati i buoni auspici della GIÀ e del Mossad. Schaudinn era dunque un elemento di spicco di

un'organizzazione internazionale, a metà guado tra mafia e servizi segreti, cui faceva riferimento

anche Pippo Calò. Forse per questo il boss, a cavallo degli anni Ottanta, era diventato anche fuori

dall'Italia un punto di riferimento dei "poteri forti".

«Il gruppo ruotante attorno a Calò», scriveva il giudice istruttore Gianfranco Viglietta a conclusione

dell'inchiesta sul treno di Natale «ha costituito non solo un livello di coordinamento della malavita

romana, ma anche della destra eversiva, all'interno del quale operavano ambienti deviati dei servizi

segreti e della massoneria, e da molteplici indizi sembra essersi posto più volte obiettivi politici».

Ma è proprio sull'individuazione di questi obiettivi politici autonomi di Cosa Nostra che per anni ci

si è interrogati inutilmente. Qual era il piano di Calò? Scriveva Sciascia, in quegli anni, che nelle

azioni "eversive" della mafia c'era la preoccupazione di perdere le protezioni politiche di cui aveva

goduto fino a quel momento. Insomma la mafia attaccava perché si sentiva meno sicura: Andreotti

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non era più disponibile come un tempo, scrivono i giudici d'appello di Palermo. La strage di Natale

fu soprattutto un messaggio ricattatorio nei confronti di ambienti che mostravano di non essere in

grado di garantire i "patti". Quali patti? Primo fra tutti l'impunità, almeno nei confronti di quanti

avevano contribuito a risolvere qualche problema di Stato.

Un ricatto che verrà respinto non da coloro cui era diretto, ma da altri uomini di Stato - che

operavano nella magistratura, nella polizia, nell'intelligence- che in quello stesso periodo erano

intervenuti per smantellare il nucleo dei servizi segreti più compromesso. Non solo Calò sarà

arrestato nel marzo dell'85, appena tre mesi dopo la strage, ma con lui finirono in carcere numerosi

boss e alcuni vip dell'aristocrazia romana, tra cui il conte Vittorio Guglielmi Lante della Rovere.

Gli arresti provocarono un terremoto all'interno dei clan romani: si aggravò la frattura con i mafiosi

che si era aperta con l'omicidio Balducci. Dirà Maurizio Abbatino: «Ci sentivamo coinvolti nei

regolamenti di conti tra mafiosi. I testaccini con il loro comportamento avevano utilizzato la banda

ai propri fini; adottammo la decisione di eliminarli non appena se ne fosse presentata

l'opportunità». Sarà una faida cruenta che si risolverà con la morte o l'arresto di tutti gli

appartenenti alla gloriosa banda.

Contro Buscetta Un passo indietro: torniamo al movente della strage di Natale. Il 24 marzo 1983 era

stato arrestato in Brasile Tommaso Buscetta. Nel carcere sudamericano "il boss dei Due Mondi",

come veniva chiamato in codice per la sua lunga permanenza oltreoceano, aveva tentato due volte il

suicidio. Pippo Calò, che Masino considerava una sua creatura, il suo pupillo, lo aveva tradito: gli

aveva ucciso due figli e il fratello. Ma a farlo disperare era soprattutto la morte di Antonio, il

primogenito: come aveva potuto fare una cosa del genere, quell'infame? Lo aveva battezzato lui, lo

aveva cresciuto lui, era il suo figlioccio, come poteva essere stato tanto feroce? Cos'era accaduto

dentro «alla Cosa Nostra», come la chiamava Masino? Cosa aveva trasformato gli uomini d'onore in

belve feroci? Il tradimento di Calò lo aveva portato a invocare la morte. E dopo l'arresto, in Brasile,

avvenuto il 24 ottobre 1983, che lo avrebbe separato per sempre dalla sua amata Cristina, la

giovanissima moglie brasiliana, e dall'ultimo figlio appena nato, davvero non voleva più vivere.

Ingoiò barbiturici, si tagliò le vene: tutto inutile. Lo salvarono i poliziotti italiani che erano andati a

prelevarlo, gli furono vicini, gli dimostrarono umanità. Buscetta decise che sarebbe vissuto, visto

che non gli era riuscito di morire, ma con un unico scopo: distruggere Cosa Nostra. Mafioso era

nato e mafioso sarebbe morto, ma la dovevano pagare tutti: soprattutto la doveva pagare lui,

l'infame Calò.

La prima foto che abbiamo di Buscetta lo ritrae al suo arrivo a Roma, pochi giorni dopo l'arresto in

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Brasile, nel novembre 1983, all'aeroporto di Ciampino, mentre scende dall'aereo avvolto in una

coperta: è un uomo distrutto, il suo viso da indio è gonfio, non ce la fa a stare in piedi. Al suo fianco

c'è il giovanissimo Antonio Manganelli, allora funzionario della Criminalpol,oggi vicecapo della

Polizia. Quel flash scattato per caso da un fotografo fece il giro del mondo: era l'inizio di una grande

avventura, di quel braccio di ferro tra mafia e Stato che ha portato a grandi vittorie e ad altrettante

sconfitte, all'arresto in massa di quattrocento mafiosi ma anche alla morte di Falcone e Borsellino.

Un'epopea durata vent'anni e che ha avuto forse il suo apice con la condanna di Andreotti nel

bunker di Capanne.

Fu proprio Falcone il primo giudice che Buscetta incontrò a Palermo. Il magistrato intuì che

quell'uomo distrutto era disposto a parlare, ma bisognava rispettare i suoi tempi, conquistarne la

fiducia. Erano nati a poche centinaia di metri, in un quartiere popolare di Palermo, alle spalle della

stazione: Giovanni in uno dei palazzi borghesi primo Novecento di piazza della Magione, Masino a

Porta Termini, una zona popolare. Ma parlavano la stessa lingua, conoscevano gli stessi gesti, gli

stessi silenzi. Per indurlo a collaborare Falcone fece una sorta di accordo personale con gli USA:

promise la collaborazione di Buscetta con l'fbi, in cambio di una protezione che il governo italiano

in quel momento non poteva garantire a nessuno. E Buscetta parlò: per mesi e mesi, senza che nulla

trapelasse all'esterno della Procura, fece nomi e cognomi, disegnò il vertice di Cosa Nostra, fornì la

prima mappa della più potente organizzazione criminale del mondo. Nell'84 rifiuterà, come

sappiamo, soltanto di rispondere alle domande su mafia e politica «perché i tempi non erano

maturi». Racconterà Falcone: Prima di lui non avevamo che un'idea superficiale del fenomeno

mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarci dentro, ci ha fornito informazioni sulla struttura,

sulle regole di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra nella società siciliana. Ma soprattutto ci

ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un

professore di lingua straniera, ci ha insegnato a parlare con i turchi passando dai gesti alla parola.

Forse altri pentiti ci hanno fornito notizie più importanti, ma solo lui ci ha insegnato 0 metodo per

valutare quelle notizie. Con Buscetta ci siamo accostati all'orlo del precipizio, dove nessuno si era

voluto avventurare [...]. Alcuni miei colleghi, e anche certi poliziotti, che sostengono di occuparsi di

mafia e non hanno mai letto un verbale di Buscetta, con tono spocchioso mi rinfacciano «il teorema

Buscetta» o il «teorema Falcone», che per loro è la stessa cosa.

Anche Masino era entusiasta dei colloqui con il "suo" giudice. Dirà di lui dopo la morte: «Era il mio

faro, ci capivamo senza parlare. Era intuito, intelligenza, onestà e voglia di lavorare. Io godevo a

parlare con lui».

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Poi le cose sono andate come sappiamo. Ma all'inizio, in quel terribile scorcio degli anni Ottanta,

per capire cosa è accaduto dentro Cosa Nostra bisogna ritornare a quest'incontro, alla nascita della

straordinaria "amicizia" tra un giudice e un boss, destinata a sparigliare per sempre le carte del gioco

tra Stato e mafia. La prima cosa che fece Buscetta fu accusare Calò dei delitti più infami: disse che

era un boss sanguinario e senza scrupoli, che aveva gestito per conto dei corleonesi i sequestri di

persona, come quello del figlio di Arturo Cassina, che era stato capace di uccidere un uomo perché si

era presentato tardi a un appuntamento. Non deve stupire che l'anno successivo, quando ormai i

suoi amici a Palermo erano finiti in carcere, Calò abbia deciso di scendere in campo, di dare una

risposta "forte", di fare il terrorista. Ormai nella sua mentalità di spione, se Buscetta parlava voleva

dire che qualcuno glielo aveva consentito: non restava che ricorrere alle bombe.

Ma la sua sconfitta era dietro l'angolo: Masino gli aveva preparato la trappola. Due anni dopo,

nell'astronave verde", l'aula bunker dell'Ucciardone dove si svolgeva il Maxiprocesso, finalmente

faccia a faccia, Buscetta gli griderà il suo furore: «Te lo ricordi Giannuzzi Lallicata, povero ragazzo,

l'hai ucciso tu... L'hai scannato con le tue mani. Sei tu che hai attirato in un tranello i miei figli!».

Calò non uscirà più dal carcere: condannato a ventitré anni per associazione mafiosa, a ventiquattro

per traffico di armi e droga, all'ergastolo per la strage di Natale; è ancora un detenuto sottoposto al

carcere duro, regolato dal cosiddetto 41 bis. Negli ultimi anni si è fatto promotore di un cauto

progetto di "dissociazione" dalla mafia, ha mandato una lettera per annunciare che non fa più parte

di Cosa Nostra. Ma continua a tacere e forse, per questo, a essere ancora vivo.

I ricatti della Magliana La sera del 23 marzo 1984 fu messo a segno il colpo del secolo. Una rapina da

trentacinque miliardi alla Brink's Securmark, un deposito che faceva capo a una catena bancaria

privata di Michele Sindona. Quattro uomini, con il volto travisato, prelevarono verso l'ora di

chiusura una delle guardie giurate, Franco Parsi, lo condussero a casa, lo tennero in ostaggio fino

all'alba della mattina successiva insieme alla moglie e ai figli. Poi uno restò nell'abitazione per

tenere a bada i familiari, gli altri tre condussero la guardia giurata, che aveva le chiavi, al caveau dove

disarmarono altri due agenti e senza sparare un colpo portarono via denaro liquido, traveller's

cheque, oro e preziosi per una cifra astronomica, che fu stimata intorno ai trentacinque miliardi.

Non fu una rapina qualsiasi: sul bancone gli ignoti lasciarono una serie di oggetti che stavano

simbolicamente a rappresentare il vero significato dell'impresa. Una granata Energa, sette proiettili

calibro 7,62, sette piccole catene e sette chiavi. La bomba Energa era dello stesso tipo usato durante

l'agguato al colonnello Antonio Varisco e proveniva dalla solita armeria di via Liszt. Le sette chiavi e

le sette catene furono lette come un chiaro riferimento al falso Comunicato numero 7 sul Lago della

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Duchessa. I sette proiettili calibro 7,62 riportano all'omicidio Pecorelli, e c'erano anche le cinque

schede, identiche a quelle fatte ritrovare nel borsello sul taxi da Toni Chichiarelli una ventina di

giorni dopo l'omicidio, che stavano a indicare lo stretto collegamento tra il delitto Moro e quello del

giornalista.

E in effetti uno degli autori del colpo, a quanto si scoprirà, era proprio Chichiarelli. Il falsario della

Banda della Magliana, specializzato nei falsi De Chirico, era tornato alla carica con un'inesauribile

gamma di ricatti, che proseguirono anche nei giorni successivi: furono fatti ritrovare nei cestini dei

rifiuti, sullo stile delle BR, frammenti autentici di volantini BR e perfino due frammenti di una foto

di Moro, scattata con la Polaroid nel Carcere del Popolo. A chi erano indirizzati quei messaggi e da

chi realmente provenivano? Molte risposte a questi interrogativi verranno dopo la morte, altrettanto

gravida di significati, di Toni il Falsario. Il 26 settembre 1984 Chichiarelli fu ucciso in macchina:

con lui c'era la giovane compagna, una ragazza di ventiquattro anni, che rimase gravemente ferita, e

la figlia di tre anni. Nel corso di una perquisizione nell'attico dove la coppia viveva, all'interno di

una cassaforte, fu trovata una bobina, etichettata «B-OK», con il filmato della rapina alla Brink's.

Un suo "amico", Luciano Dal Bello, informatore dei servizi segreti e dei carabinieri, durante la

perquisizione aiutò la polizia nel repulisti: furono trovati anche documenti che sembravano

provenire dalle Brigate Rosse, altri a quanto sembra, scomparirono. Commenterà Dal Bello con un

agente, che poi riferirà al magistrato: «Toni era un pazzo di destra, se l'è andata a cercare».

Il suo commercialista Osvaldo Lai mi raccontò che negli ultimi tempi Toni gli aveva confidato di

essere entrato a far parte delle Brigate Rosse, quanto alla rapina però «gli sarebbe stata

commissionata da un membro della P2, legato a Michele Sindona». E in effetti altre due rapine,

compiute nei mesi successivi, alle sedi della Brink's Securmark di Parigi e Londra fanno pensare a

un piano che va più in là della corruzione di qualche agente di custodia. L'avvocato Pino De Gori,

legato a Flaminio Piccoli (che in quel periodo frequentava intensamente Pazienza), fece un'altra

sorprendente dichiarazione: «È stato il Mossad ad autorizzare la rapina, era una ricompensa per il

volantino del Lago della Duchessa, poi però l'hanno fatto fuori».

E comunque c'erano nelle mani degli investigatori quei due frammenti autentici di foto, il cui

significato era gravissimo: un uomo legato alla malavita romana e ai servizi segreti era entrato nella

prigione Moro, mentre era vivo. Furono riesaminati tutti i documenti trovati nel borsello cinque

anni prima, e l'attenzione si appuntò su un biglietto del traghetto Reggio-Messina. La moglie

Chiara Zossolo non seppe dare una spiegazione: Toni era andato qualche mese prima in Sicilia per

il matrimonio di un amico carabiniere, che però non c'entrava niente in tutta questa storia. Forse era

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un messaggio: Sicilia, Calabria, Carabinieri. Cosa voleva dire? I dissociati racconteranno che

Moretti, subito prima e subito dopo aver affittato l'appartamento di via Gradoli, era stato una volta

in Calabria e l'altra a Catania. Ancora la Calabria. Quale ruolo ha avuto la 'ndrangheta nel sequestro

Moro? Un interrogativo che si poneva anche Pecorelli quando scriveva su «OP»: «I capi delle BR

risiedono in Calabria». E in Calabria si sarebbero recati sia il PM Infelisi, due giorni dopo la morte

di Moro, sia Viglione per conto di Dalla Chiesa: una pista come altre rimasta inesplorata. Anche

Morucci e Faranda fecero un viaggio in Sicilia prima del 78.

La moglie di Chichiarelli sosteneva che Toni non aveva certo fatto tutto da solo. Anche la storia del

falso comunicato della Duchessa non poteva essere un'idea sua: lo aveva visto scrivere a macchina

copiando da un blocchetto di appunti. La Zossolo diffidava di Dal Bello e raccontò che aveva visto il

marito in compagnia di una persona che parlava molte lingue straniere, le era sembrato un

personaggio pericoloso, non capiva cosa volesse e aveva pregato il marito di non frequentarlo. Di

Pecorelli una volta Toni le aveva detto: «Era una brava persona, non meritava di morire». Sappiamo

però che Franca Mangiavacca ritiene di aver visto Chichiarelli, il giorno prima dell'omicidio, sotto

la redazione in via Tacito. Ma gli inquirenti non esclusero che il giornalista potesse averlo

conosciuto e anche il commercialista Lai sostenne che si frequentavano. Toni ad esempio era in

contatto con l'impresario Ezio Radaelli, che gestiva una nota galleria d'arte ed era stato coinvolto in

un commercio di falsi De Chirico (erano di Chichiarelli?),che aveva messo nei guai anche Franco

Evangelisti. Ricordiamo che l'argomento di conversazione con Pecorelli alla "Famija Piemunteisa",

secondo la difesa di Andreotti, non riguardava gli "Assegni del Presidente", ma il traffico di quadri

De Chirico.

Insomma siamo all'interno di un giro molto stretto: Radaelli era amico di Evangelisti, ma anche di

Flavio Carboni, il "faccendiere" della Magliana,e conosceva sia Mino che Chichiarelli. Dall'agenda

di Pecorelli risultano incontri frequenti con Radaelli, negli ultimi mesi di vita, anche in compagnia

di altre persone. Era allora Toni la fonte "molto vicina" alle Brigate Rosse che gli aveva fornito tante

informazioni sul Carcere del Popolo? Questa del falsario delle BR è forse la storia più strana, più

torbida dell'intera vicenda. Un estremista di destra, evidentemente legato ai servizi segreti e alla

Banda della Magliana, aveva avuto contatti diretti con i carcerieri di Moro. Un suo amico, Gaetano

Miceli, confermò al giudice istruttore che era stato Toni a fotografare Aldo Moro con la Polaroid;

gli aveva anche promesso di mostrargli le foto e alcuni documenti, poi sostenne di averli distrutti.

L'idea della rapina alla Securmark dicono sia stata sua, ma in realtà poteva far parte di una partita

molto complessa di ricatti e ricompense, sullo sfondo del sequestro Moro, gestita da Calò.

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Toni conosceva infatti il boss siciliano: la sorella della sua compagna, che era con lui la mattina in

cui l'hanno ucciso, era legata a Nunzio La Mattina, luogotenente di Calò. Nella scheda su Pecorelli,

Toni mostrava di sapere che il documento recuperato dopo la morte del giornalista era incompleto:

«Purtroppo sprovvisto dei paragrafi 162, 168, 174, 177», come aveva scritto nelle false schede BR

trovate nel famoso borsello. Tutto ruota attorno al Memoriale Moro, finito nelle mani di Mino. Un

documento, come Pecorelli confidò a un amico pochi giorni prima di morire, che qualcuno voleva

che pubblicasse a tutti i costi. Mentre qualcun altro a tutti i costi voleva impedirglielo.

Il Capocorrente Una delle accuse più pesanti che la magistratura di Palermo ha rivolto ad Andreotti

in questi anni è che avrebbe accettato l'appoggio elettorale di uomini legati alla mafia per accrescere

il suo potere personale e quello della propria corrente. Insomma, il suo ruolo di ago della bilancia

all'interno della DC e della vita nazionale lo avrebbe assunto grazie all'alleanza con Salvo Lima.

L'epiteto "capocorrente", che è ricorso spesso nella requisitoria della pubblica accusa, non era

soltanto dispregiativo, ma ebbe come conseguenza la trasformazione del capo d'imputazione, da

concorso esterno a partecipazione nel reato di associazione mafiosa: Andreotti non sarebbe colluso

con la mafia, ma direttamente partecipe delle sue finalità eversive e delle sue decisioni criminali.

Una motivazione che, a suo tempo, provocò scalpore e furenti polemiche: nessuno sembrava

ricordare che nella Procura di Palermo prevalse questa scelta quando altrettanto furiose erano le

polemiche sul reato di concorso esterno: una tipologia di reato inesistente, si disse, in altri paesi

occidentali, che era sintomo dell'imbarbarimento della nostra giustizia. In ogni caso, colluso o

partecipe che fosse, il trauma di avere un sette volte presidente del Consiglio indicato come mafioso

agli occhi dell'opinione pubblica mondiale provocò malumori ovunque, anche in ampi settori della

sinistra. Lo stesso Giovanni Pellegrino (DS), che nel '93 era a capo della Giunta delle

Autorizzazioni a Procedere del Senato, appreso che il capo di imputazione era stato modificato,

s'infuriò: «Se avessimo saputo che sarebbe stato contestato ad Andreotti il 416 bis, forse a dare

l'autorizzazione ci avremmo pensato di più».

Da De Mita a Craxi Ma davvero la corrente siciliana è stato il perno attorno al quale è ruotata

l'ascesa politica di Andreotti? Il senatore lo nega, i politologi sono divisi, anche se alla fine sono in

molti a pensare che il teorema dei magistrati non sia del tutto infondato. Se all'inizio degli anni

Settanta l'aver costituito una corrente personale gli aveva consentito di diventare per la prima volta

presidente del Consiglio, fu nel periodo successivo all'omicidio di Dalla Chiesa che l'apporto risultò

decisivo: in quegli anni la DC perdeva consensi elettorali, al suo interno si rafforzava il "correntone"

di De Mita, all'esterno cresceva già l'astro Craxi. Disporre di una ciambella di salvataggio del 18 per

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cento consentì ad Andreotti di restare alla guida del ministero degli Esteri per quasi sette anni e di

condizionare fortemente le scelte della DC. Anche se, in termini di immagine, il prezzo pagato per

le sue "relazioni sicule" fu alto soprattutto dopo che la componente siciliana aveva riaccolto nelle

proprie file, per quanto in modo non organico, Vito Ciancimino.

I siciliani pesavano come non mai, nel periodo successivo all'omicidio Dalla Chiesa, e il 29 ottobre,

nella sua prima apparizione pubblica a Palermo dopo la strage di via Carini, Andreotti affrontò

l'assemblea DC con un discorso memorabile: «Voi democristiani siciliani siete forti e per questo

dicono male di voi. Se foste deboli nessuno se ne curerebbe. Respingiamo il falso moralismo di chi

ha la bava alla bocca mentre voi aumentate i consensi». L'aggressività dei toni, inconsueta in

Andreotti, andava letta come una replica alle accuse che Nando Dalla Chiesa gli aveva mosso in

alcune interviste, nelle quali affermava che i mandanti dell'omicidio di suo padre andavano cercati

nella DC e soprattutto nella corrente andreottiana. Nella sala del Don Orione, Andreotti replicò

con durezza all'accusa: «Dalla Chiesa era uno dei tanti servitori dello Stato caduto

nell'adempimento dei propri doveri, e perciò non monopolizzabile da nessuno».

Non era stato un anno tranquillo, l'82, neppure in altre parti d'Italia. Il 18 luglio, lo sappiamo, Calvi

era stato trovato impiccato sotto il ponte dei Black Friars; non era soltanto la famiglia Dalla Chiesa

a provare risentimento verso Andreotti, anche la vedova del banchiere non faceva che rilasciare

dichiarazioni furenti: «Mio marito aveva paura di Andreotti, disse che era stato minacciato di morte

perché il presidente era legato a una fazione del Vaticano che si opponeva al salvataggio

dell'Ambrosiano voluta dall'Opus Dei». Fu lo stesso faccendiere del SISMI Francesco Pazienza,

che come sappiamo aveva seguito Calvi nel suo peregrinare a caccia di protezioni nei mesi

precedenti la morte, a dare una spiegazione alle inconsuete accuse della vedova in un suo libro di

memorie ( disobbediente, 1999), in cui ribadisce quanto aveva già raccontato ai magistrati: La

vicenda dell'Ambrosiano finì per diventare uno strumento di potere in mano a persone e gruppi che

attorno al crack strinsero alleanze, condizionarono scelte di governo, fecero ottimi profitti.

Andreotti era molto soddisfatto perché la battaglia si era risolta a favore di monsignor Agostino

Casaroli. Il suo scudiero Ciarrapico, grazie al fallimento dell'Ambrosiano, aveva messo le mani

sull'Acqua Fiuggi, preziosa per le sue miracolose proprietà diuretiche, ma anche per l'ottimo

business che ne derivava, visto che la località termale era una roccaforte strategica del feudo

elettorale andreottiano.

Il crack dell'Ambrosiano e la morte di Calvi sono attualmente oggetto di una nuova inchiesta

giudiziaria. Ma alcune vicende, riemerse di recente, hanno finito per interessare anche il processo

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Andreotti. Un pentito, Vincenzo Calcara, ha raccontato che il notaio Antonio Albano, palermitano

residente a Roma, «avrebbe riciclato i miliardi di Cosa Nostra affidandoli al presidente

dell'Ambrosiano, che li avrebbe persi in speculazioni sbagliate, motivo per il quale è stato ucciso». Il

notaio Albano è un personaggio di rilievo nella geografia delle accuse mosse ad Andreotti, non

soltanto perché era il notaio personale del senatore e al tempo stesso del boss Luciano Liggio e di

Frank Coppola, ma perché sarebbe stato proprio lui a consegnare il famoso vassoio d'argento alla

figlia di Nino Salvo andata sposa al medico Gaetano Sangiorgi: secondo la difesa si trattò di un

regalo del notaio, secondo l'accusa Albano lo avrebbe consegnato per conto del senatore.

Nell'84 un'altra tegola per Andreotti. L'affare Sindona approda alle Camere e i radicali partono

all'attacco chiedendo le dimissioni del ministro degli Esteri. Il relatore di minoranza della

Commissione P2, Massimo Teodori,affermò che Sindona aveva «potuto contare su una banda

costituita da settori della DC, della Banca d'Italia, dello IOR Vaticano, della Banca di Roma e da

appendici della P2». Ma il maggior responsabile era proprio lui: «Il grande imputato è Giulio

Andreotti, amico e sostenitore di Sindona dal 74». Se Andreotti in quel difficile frangente si salvò,

lo deve all'astensione del PCI che gradiva la sua politica estera. L'ex pupillo di De Gasperi era stato

accolto alla Festa nazionale dell'Unità come un trionfatore, per via di alcune dichiarazioni a favore

dei palestinesi. Intanto procedeva nella manovra di avvicinamento a Craxi, che si trasformerà in

un'alleanza strategica nella seconda metà degli anni Ottanta, fino al famoso CAF (dalle iniziali dei

tre animatori: Craxi, Andreotti e Forlani), che gli consentirà di tornare alla guida del governo,

proprio all'inizio degli anni Novanta, quando un ciclone spazzerà via la Prima Repubblica. Ma

questo Andreotti, in quel momento, non lo poteva prevedere.

Gli anni Ottanta furono comunque un difficile banco di prova, anche per le collaudate capacità

politiche del sempiterno Giulio, che forse riuscì a superare i peggiori ostacoli restando fedele a se

stesso in un mondo che andava rapidamente cambiando. La comparsa sullo scenario politico di

personaggi nuovi, più giovani e aggressivi, come Craxi, la progressiva perdita di consensi elettorali

(nell'83 la DC scese al minimo storico del 32 per cento, Andreotti perse centomila preferenze), ma

soprattutto i segnali poco' rassicuranti che arrivavano dalla terra di Sicilia avrebbero messo in crisi

qualsiasi leader politico. Invece nulla sembrava scalfirlo: la sua corrente andava irrobustendosi. Più

tardi, al XVIII congresso della DC del 1989, il ruolo di Andreotti fu decisivo per liquidare De Mita

e la sua concezione "monocratica" di segretario DC. Il partito si avviava verso una nuova primavera

"correntizia": la novità fu sancita dalla nascita del "grande centro" nel quale confluiscono Forlani,

Fanfani, Zamberletti, Donat Cattin e la corrente del Golfo (Gava e Scotti) fino a sfiorare il 50 per

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cento. De Mita poteva contare sul 32 per cento: quel 18 per cento della corrente andreottiana fu

ancora una volta decisivo. Andreotti ripetè, in senso inverso, l'operazione che aveva portato a

termine nell'82, garantendo un'amplissima maggioranza che affonderà De Mita. A ingrossare le file

della sua corrente aveva contribuito l'operazione Fiuggi, con l'ingresso ufficiale di Ciarrapico.

La risposta del pool antimafia Ma, a giudicare con il senno di poi, erano già presenti in nuce i germi

che stavano erodendo le radici del potere andreottiano. Il passato con i suoi grandi scandali

inseguiva il senatore. Nell'82 Gelli fu arrestato in Svizzera; nell'84 Sindona fu estradato in Italia.

Ma era soprattutto la Sicilia a non dare tregua.

Nel gennaio '83 era stato ucciso a Trapani il giudice Ciaccio Montalto, che stava indagando sulle

relazioni politiche e imprenditoriali dei Minore, una famiglia mafiosa appartenente alla nuova

oligarchia corleonese. Proprio alla "corrente andreottiana" di Trapani, già largamente attiva negli

anni Ottanta, è dedicato un capitolo del processo di Palermo, che stigmatizza la partecipazione di

Andreotti - nel luglio '91 al Palagranata di Trapani, alla presenza di 2500 persone - alla chiusura

della campagna elettorale di Giuseppe Giammarinaro, candidato all'Assemblea Regionale. Un

personaggio, Giammarinaro, come scrivono i magistrati, «noto agli organi di polizia che lo avevano

più volte denunciato per i suoi rapporti con esponenti mafiosi, sospeso dalla direzione provinciale

della DC, che era consapevole dei suoi rapporti con i cugini Salvo».

Il 4 agosto 1983 come sappiamo, fu ucciso a Palermo Rocco Chinnici. Questi omicidi accrebbero

l'attenzione sul fenomeno mafioso e sul suo retroterra politico, e fortissima si fece la tensione

all'interno del tribunale di Palermo, dove cominciò a prendere corpo il progetto di un gruppo di

giovani magistrati che ritenevano finito il periodo dell'acquiescenza e del silenzio nei confronti della

mafia. Una mafia che, peraltro, manifestava una aggressività prima sconosciuta. All'interno di

questo gruppo cominciò a emergere la forte personalità di un sostituto procuratore arrivato da

Trapani. Era Giovanni Falcone che, proprio con Chinnici, aveva avviato la prima grande inchiesta

sul traffico di droga e sulle centrali di riciclaggio.

L'arresto di Buscetta in Brasile fu la grande occasione per imprimere alle indagini un salto

qualitativo fino a quel momento inimmaginabile: stava nascendo un mondo nuovo, non più fatto di

silenzi, di omertà, di logge coperte dove venivano sanciti patti di cui nessuno sarebbe venuto a

sapere. E nacque anche il pool antimafia, reso possibile dall'arrivo da Firenze del nuovo consigliere

istruttore Antonino Caponnetto, uomo estraneo ai condizionamenti e alle compromissioni della

società palermitana. Falcone andò a lavorare nel suo ufficio.

Il 29 settembre '84 la Procura di Palermo firmò 366 ordini di cattura, basati sulle accuse di Buscetta:

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fu arrestato anche Vito Ciancimino. Proprio in quei giorni era stato estradato Sindona dagli USA. Il

26 ottobre cominciò a collaborare un nuovo pentito, Totuccio Contorno, e il mese successivo

Caponnetto ratificherà altri 128 ordini di custodia cautelare. Il 12 novembre anche Nino e Ignazio

Salvo, gli uomini più potenti della Sicilia, furono prelevati e condotti in carcere. Un evento che

segnava la fine di un'era e che naturalmente accrebbe l'attenzione sulla corrente andreottiana di cui i

cugini erano considerati i grandi elettori. Pochi giorni dopo, il 23 dicembre, la vendetta di Calò si

abbattè sulle quindici vittime del "treno di Natale".

La guerra ''della" mafia La risposta di Cosa Nostra si fece ancora più cruenta e i suoi delitti

assunsero una valenza "eversiva" proprio perché, come diceva Sciascia, i boss avvertivano che era

cambiato il vento e che stavano cadendo le protezioni di cui avevano fino a quel momento goduto.

Dalla "guerra di mafia" dell'80-'81, tesa a ridisegnare il nuovo gotha di Cosa Nostra, la mattanza

proseguì con la "guerra della mafia" contro imprenditori, magistrati e poliziotti. Tra febbraio e

marzo '85 furono assassinati, per vendette legate ad appalti, tre imprenditori, Roberto Parisi, Piero

Patti e Giovanni Carbone. Il 2 aprile una bomba, azionata a distanza con la stessa tecnica usata da

Calò nella strage di Natale, uccise sull'autostrada all'altezza di Pizzolungo una donna e due

bambini. Ma l'obiettivo era Carlo Palermo, un altro magistrato di stanza a Trapani. Il giudice era

stato appena trasferito in Sicilia da Trento, in seguito a un esposto di Craxi al Consiglio superiore

della Magistratura, con il quale il presidente del Consiglio aveva chiesto e ottenuto l'apertura di un

procedimento disciplinare nei confronti del magistrato che aveva aperto un'inchiesta, la prima di

quel genere, su un traffico di armi e droga, capitali sporchi e tangenti ai politici, nel quale risultava

coinvolto anche il suo stretto collaboratore, Ferdinando Mach di Palmestein.

Dopo la strage di Pizzolungo, la mafia alzò ancora il tiro: a Porticello, il 28 luglio 1985 fu ucciso il

commissario della Mobile Beppe Montana; dieci giorni dopo, l'8 agosto fu assassinato il

commissario Ninni Cassarà, insieme all'agente Roberto Antiochia, mentre rientrava a casa

dall'ufficio. Due omicidi che colpivano il cuore investigativo del pool antimafia, di cui Falcone era il

cervello e la Mobile di Palermo il braccio. Non si può escludere che Cosa Nostra fosse intervenuta

per ristabilire un'alleanza con gli antichi protettori: le indagini condotte dalla Mobile stavano

portando alla luce compromissioni e complicità ad alto livello.

Nel processo palermitano ad Andreotti si è parlato di un'agenda trovata in possesso di Ignazio Salvo

al momento dell'arresto, dove alla voce Giulio corrispondeva un numero riservato dell'allora

ministro degli Esteri. I nuovi pentiti di mafia degli anni Novanta, da Giovanni Brusca a Nino

Giuffrè, alla domanda sul perché i corleonesi non abbiano ucciso durante la guerra di mafia Lima e i

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cugini Salvo, che appartenevano allo schieramento contrario, hanno risposto in modo univoco: «Era

un tramite troppo importante per le questioni di Cosa Nostra che andavano risolte a Roma; i

corleonesi non avevano gli agganci politici di Stefano Bontate, speravano perciò di utilizzare Lima e

i Salvo per arrivare ad Andreotti». Un'accusa che il senatore ha costantemente respinto, come

sappiamo, negando non solo di essere a conoscenza del coinvolgimento di Lima con ambienti

mafiosi, ma anche di ogni rapporto, perfino di semplice conoscenza, con gli esattori siciliani.

Tuttavia i giudici non gli hanno creduto, neppure quelli che lo hanno assolto.

L'uccisione di Beppe Montana e Ninni Cassarà era destinata ad aprire una triste stagione, quella dei

veleni di Palermo. Per anni tutte le crudeli vicende, che hanno anticipato gli omicidi di servitori

dello Stato, sono state lette e rilette attraverso la lente del sospetto, l'incubo della talpa ha

attanagliato la vita degli uffici giudiziari e investigativi. Per quel che riguarda la Mobile di Palermo,

i sospetti si sono alla fine concentrati su un alto funzionario della Polizia di Stato, Bruno Contrada,

arrestato a Natale del '92, condannato in primo grado, assolto in appello. Ma sarà necessario un

quarto giudizio, perché la Cassazione di recente ha annullato la sentenza chiedendo nuovi

accertamenti.

Sigonella Nell'ottobre '85, il sequestro della nave Achille Lauro da parte di un commando

palestinese, e l'uccisione di un passeggero ebreo di nazionalità americana, Leon Klinghoffer, furono

all'origine di una frattura politico-diplomatica tra Italia e Stati Uniti che portò il governo Craxi

sull'orlo della crisi. Non si capì mai perché la furia dei palestinesi si accanì contro un uomo

handicappato, che viveva su una sedia a rotelle; tuttavia sembra che non si sia trattato di un

incidente, ma di un delitto mirato per quanto misterioso. Il leader del commando palestinese Abu

Abbas, cui gli americani stavano dando la caccia, era stato autorizzato a lasciare l'Italia a bordo di un

aereo egiziano che, in seguito alle pressioni provenienti da oltreoceano, fu fatto atterrare alla base

militare USA di Sigonella. Gli americani chiesero il rilascio di Abbas, Craxi mostrò i muscoli, ci fu

addirittura un duro confronto tra carabinieri italiani e militari statunitensi. Insomma, per un

momento sembrò che l'amicizia tra Italia e USA stesse per precipitare, ma il decisionismo craxiano

ebbe la meglio: Abbas ripartì con l'aereo egiziano, i rapporti fra Italia e USA non degenerarono.

Per capire la portata dell'evento e il malumore che provocò in ambienti statunitensi l'episodio, basti

pensare che il palestinese Abu Abbas, considerato un terrorista da americani e israeliani, è stato

arrestato e consegnato a militari degli Stati Uniti dal governo siriano proprio nei giorni in cui sto

ultimando il mio libro e cioè diciotto anni dopo Sigonella. Costretto a fuggire da Baghdad dopo la

caduta di Saddam Hussein, Abbas sperava di trovare rifugio in Siria: anche in un diverso contesto

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politico e in presenza di una crisi bellica, ospitare il leader palestinese sarebbe stato considerato

ancor oggi dagli USA un atto di inimicizia troppo grave.

La conseguenza dell'episodio dell'85 fu che De Mita e Spadolini chiesero le dimissioni del governo;

ma Andreotti si schierò con Craxi, che il 17 ottobre pronunciò un discorso galvanizzante alla

Camera, fino a paragonare i combattenti palestinesi ai garibaldini, accolto con consenso

entusiastico perfino dall'MSI. In questa crisi diplomatica senza precedenti, c'è chi ha individuato

l'inizio dell'ostilità americana nei confronti di Craxi e Andreotti, destinata a culminare nel '92-'93

con la loro liquidazione dalla scena politica. Insomma Sigonella sarebbe stata per i due leader

l'inizio della fine: gli USA da quel momento non si sarebbero più fidati della vecchia classe politica

italiana, troppo filoaraba, e i successivi avvenimenti, a partire dalla caduta del Muro di Berlino, che

avevano fatto venire meno il pericolo del comunismo, avrebbero ancor più convinto gli alleati della

necessità di favorire la nascita di nuove forze politiche. È una lettura un po' dietro-logica, che molti

respingono perché attribuirebbe a un'ipotetica congiura internazionale la messa sotto accusa di

Craxi e Andreotti, e non all'inevitabile risultato di una degenerazione ormai intollerabile del sistema

politico italiano. Come scopriremo tra poco, in realtà Craxi riuscirà a ricucire lo strappo con gli USA

in maniera del tutto irrituale.

Ma per tornare al motivo che lo spinse a schierarsi con Craxi, va detto che in quel momento

Andreotti era convinto che una crisi di governo avrebbe portato a elezioni anticipate, elezioni che la

DC rischiava di perdere. E non era questa l'unica preoccupazione: nel '91 De Mita rivelerà di aver

candidato Andreotti al Quirinale nel 1985, prima ancora di Cossiga. L'operazione non era andata in

porto, per l'opposizione del PRI ma soprattutto per la diffidenza dei socialisti e dei comunisti,

disposti a salvarlo dagli scandali ma non fino al punto di eleggerlo capo dello Stato. Andreotti si era

perciò reso conto che, se voleva riuscirci in futuro, doveva consolidare i suoi rapporti con PSI e PCI;

oltretutto l'appoggio della sinistra lo tutelava dai contraccolpi provocati dalle vicende siciliane, che

rimanevano preoccupanti.

Il 27 febbraio 1986 al Maxiprocesso, gli avvocati di parte civile avevano chiesto l'audizione di

Andreotti quale «persona informata dei fatti». Il senatore fu ascoltato il 4 marzo in Cassazione: un

interrogatorio drammatico, citato nel processo di Palermo, i cui momenti più difficili riguardarono

proprio i suoi rapporti con Dalla Chiesa. Il 20 marzo a Vogherà "si suicidò" Sindona e anche le

alleanze politiche cominciarono a traballare. A giugno il governo fu messo in minoranza su un

provvedimento finanziario: Claudio Martelli, il delfino di Craxi, lanciò una durissima accusa alla

DC, sostenendo che faceva ricorso ai franchi tiratori per mettere in crisi il governo. Andreotti vide

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in pericolo la sua poltrona di ministro degli Esteri, in cui oltremodo confidava come trampolino per

la massima carica dello Stato, e da quel momento in poi cominciò a mostrare una grinta e un

dinamismo eccezionali. Della sua corrente entrò a far parte lo spregiudicato Vittorio Sbardella,

detto lo Squalo, ma furono cooptati anche i giovani di Comunione a Liberazione. Insomma apriva a

destra in politica interna, mentre a sinistra faceva il "feddayn" e diffidava De Mita da ogni progetto

di elezioni anticipate. Ad agosto Craxi ricostituì il governo, su basi precarie, e riconfermò Andreotti

agli Esteri. Di doman non v'è certezza; ma al momento la situazione era salva.

Epilogo Il tramonto della Prima Repubblica

Prima e dopo il Muro La fine del decennio culminò nella caduta del Muro di Berlino che, a

novembre dell'89, chiuse simbolicamente l'era della guerra fredda. L'Italia, in verità, non sembrò

neppure accorgersene, presa com'era dai grandi scandali e dalle sue guerre di mafia. Le previsioni di

Andreotti sembravano confermate, le elezioni europee avevano dato ragione al suo pessimismo: la

DC non era più in grado di grandi sussulti, il PSI era in crescita, ma l'alleanza PLI-PRI-PSDI era

franata. Quest'ultima cosa non gli dispiacque particolarmente, perché metteva in crisi la coalizione

di De Mita e lui ambiva a prenderne il posto. Alle amministrative del '90 le cose andarono peggio:

un oggetto misterioso, la Lega Nord, sfondò a Milano con il 15 per cento e diventò di colpo il quarto

partito italiano. Era il primo effetto del dopo Muro. Qualcuno cominciò ad accorgersene, ad

esempio il PCI che dopo la "svolta" del segretario Achille Occhetto crollò al 24 per cento.

Andreotti era talmente infastidito dai mutamenti del quadro internazionale, da cui temeva

potessero venirgli soltanto guai, che fece perfino una gaffe dichiarando di essere contrario alla

riunificazione della Germania «perché poteva essere pericolosa». Questa del resto era una sua

vecchia convinzione. Alla Festa dell'Unità dell'87, dove era stato acclamato come un trionfatore,

aveva già detto: «Voglio tanto bene alla Germania che preferisco che ce ne siano due». Forse la sua

fu un'intuizione, una premonizione di quanto stava per abbattersi su tutti noi, ma soprattutto su di

lui, che più di altri si rendeva conto della freddezza degli USA per la sua politica estera e che, in quel

frangente, temeva particolarmente la crisi del PCI sul cui appoggio aveva puntato molto in vista

delle elezioni al Quirinale. Il settennato di Cossiga scadeva nel 1992, data che coincideva con la fine

della legislatura, ma Andreotti capì che era assolutamente necessario accelerare i tempi. L'unica

possibilità che aveva di diventare presidente della Repubblica era arrivare alla scadenza come

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ministro degli Esteri o come capo del Governo, e, soprattutto, con il vecchio Parlamento. La sua

maggiore preoccupazione erano le elezioni anticipate, che De Mita reclamava a gran voce, perché

avrebbero inevitabilmente prodotto nuovi equilibri politici: i comunisti sarebbero stati molti di

meno e i leghisti molti di più.

La manovra numero uno fu dunque liquidare De Mita, nell'estate '89, dando vita al proprio sesto

governo grazie a una rinnovata alleanza con Craxi e Forlani (il già citato CAF). La seconda

manovra, che secondo i più malevoli consisteva nel provocare le dimissioni anticipate di Cossiga per

essere eletto capo dello Stato, non ebbe però successo. E quando a maggio del '92 stava forse per

riuscirci, il «gran botto» di Capaci mise per sempre fine alle sue ambizioni.

Questo, in breve, il quadro politico del turbolento tramonto della Prima Repubblica: gli anni fra

l'87 il '92 furono per questo segnati, come vedremo nei prossimi capitoli, da tragici eventi destinati a

cambiare il corso della vita pubblica italiana.

Il 1987, anno cruciale Il 1987 fu un anno molto difficile per la politica italiana. La DC alle elezioni

non riuscì a sbaragliare il PSI, che anzi uscì rafforzato e raggiunse il 14,3 per cento; le previsioni

davano il PCI vincente, anzi sull'orlo del sorpasso, e invece scese al 26,6 per cento. Nonostante la

vittoria elettorale dei socialisti, però, il governo Craxi entrò in crisi e Andreotti a stento salvò la sua

poltrona di ministro degli Esteri, sia nel breve governo Fanfani che nel successivo governo Goria.

Quest'ultimo fu il risultato di un durissimo scontro tra Craxi e De Mita: l'oggetto della lite fu la

mancata "staffetta" alla guida del governo, un accordo fatto nell'86 al quale Ghino di Tacco, quando

fu il momento, si sottrasse con un colpo di coda: «Il patto della staffetta è un abuso». E non ci fu

niente da fare.

Ma, a quanto raccontano i pentiti di mafia, il 1987 fu anche l'anno del braccio di ferro tra DC e Cosa

Nostra, e certamente vide impegnato Totò Riina nella difficile battaglia del Maxiprocesso: la

sentenza era prevista per la fine dell'anno e si annunciava durissima. I vecchi referenti non erano in

grado di garantire niente, dicevano i boss; bisognava cambiare cavallo, e alle elezioni di giugno Cosa

Nostra spostò un pacco consistente di voti dalla DC ai socialisti e ai radicali (impegnati nella

promozione di un referendum sulla responsabilità politica dei giudici da cui la mafia sperava di

trarre benefici). Fu un anno di bizantini mutamenti, nei quali si potevano intravedere i primi segnali

di future catastrofi, mentre sul fronte internazionale l'impero sovietico cominciava a scricchiolare

sotto i colpi della perestrojka e della glasnost di Gorbaciov.

Dal nostro modesto osservatorio, sono tre gli eventi che ci interessano. La rottura di quella sorta di

"patto" elettorale sancito nel '48 tra DC e mafia, di cui parlano decine di pentiti. Il documento di

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alcuni analisti della CIA che, per motivi del tutto diversi, giunsero alla stessa conclusione di Totò

Riina:Craxi era meglio di Andreotti (in questo caso perché dava agli USA maggiori garanzie

filoccidentali). E, per concludere, il surreale incontro che sarebbe avvenuto tra Andreotti e Totò

Riina ad agosto, di cui ha parlato il pentito Balduccio Di Maggio, al quale però i giudici non hanno

creduto.

L'analisi della CIA Sono quindici pagine dattiloscritte datate 8 giugno 1987, dal titolo Italy: The

Election and its Implications. Il documento, recentemente desecretato, fu redatto da alcuni analisti

del Directorate of Intelligence, i cui rapporti finiscono ogni giorno sulla scrivania del Presidente.

Dall'analisi si evince che gli USA, alla vigilia delle elezioni italiane, erano sostanzialmente

favorevoli a una riedizione del pentapartito di centrosinistra, ma presero in esame anche la

possibilità che il PCI conquistasse nuovi spazi elettorali (cosa che poi non avvenne). Scrive

l'anonimo osservatore: «Sebbene le elezioni non dovrebbero produrre drammatici cambiamenti di

equilibri politici, il PCI potrebbe emergere come il maggior partito se la DC dovesse cedere molto».

Nel documento viene apprezzata la decisione favorevole all'installazione degli euromissili in Sicilia

(contro cui si era inutilmente battuto il segretario del PCI siciliano Pio La Torre, ucciso nell'82,

secondo Ciancimino dalla Gladio siciliana).

Nel giudizio sfavorevole verso la DC pesava il fatto «che il Pentapartito (DC, PSI, PSDI, PLI e

PRI) non era caduto per ragioni di tipo politico, ma a causa di un'aspra lotta, tra DC e PSI, su chi

doveva essere il premier». È stata insomma la crisi della "staffetta", definita bizzarra, ad aver

innervosito gli americani, i quali temevano, non a torto, che la lite Craxi-De Mita mettesse a rischio

la realizzazione di un nuovo pentapartito. Sulla base di questo ragionamento la CIA prevedeva che

la consultazione elettorale potesse penalizzare la DC e premiare il PSI, creando condizioni di forte

instabilità, trattandosi di un conflitto «non concluso e segnato da violenti attacchi personali». Di

conseguenza nel dopo voto ciascuno dei due partiti avrebbe potuto valutare la possibilità di dar vita

a un governo sostenuto esternamente dall'elettorato comunista. In questo scenario, continuava

l'analista della CIA la soluzione sarebbe in gran parte in mano al PCI, per 0 quale una coalizione

con il PSI sarebbe più attraente, perché da un lato consentirebbe di escludere la DC dal potere

politico per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, dall'altro permetterebbe al PCI di aspirare

nel lungo termine a guadagnare voti nel centro moderato, restando stabilmente sopra la soglia del 30

per cento.

Gli USA non sembravano dunque sfavorevoli a un cambio di guardia al governo italiano, e a

vantaggio del PCI di Natta giocavano altri fattori: «Fra gli italiani si sta diffondendo un'opinione

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benevola nei confronti dell'URSS, per le riforme e le iniziative sul disarmo di Mikhail Gorbaciov,

che hanno contribuito a cambiare l'immagine pubblica del PCI». Ma la questione centrale era la

politica internazionale e, incredibilmente, a Craxi sembrava essere stata perdonata la vicenda

Sigonella: «Una volta era sensibile al corteggiamento della Libia e dell'OLP, ma ora sembra

appoggiarsi alle posizioni di Giovanni Spadolini, molto scettico su queste forze nell'area del

Mediterraneo». Nessun grosso problema dunque se fosse stato il segretario del PSI a traghettare il

PCI verso l'area di governo; diversamente sarebbero andate le cose se a farlo fossero De Mita o

Andreotti. «Un simile tipo di governo sarebbe assai meno in grado di moderare l'influenza dei

comunisti su questioni come il programma di difesa spaziale e la spesa pubblica, perché i suoi leader

politici non hanno la forte capacità di Craxi». La prospettiva, a loro dire, sarebbe quella di un'Italia

instabile e incerta dentro la NATO: «Uno degli effetti dell'alleanza potrebbe essere una politica più

attiva e indipendente sul conflitto arabo-israeliano».

Il mistero di come fosse mai possibile che Craxi, a poco più di un anno da Sigonella, avesse

riconquistato la fiducia degli americani e fosse tanto risalito nella loro stima da poter essere

considerato l'unico leader politico italiano in grado di garantire gli interessi atlantici, persino se si

fosse alleato con i comunisti, ce lo ha spiegato Giuliano Ferrara in un lungo articolo pubblicato il 14

maggio 2003 su «Il Foglio», il quotidiano che dirige, in cui ha rivelato a sorpresa di essere stato per

circa un anno - dalla fine del 1985 alla fine del 1986 - un informatore della CIA. Durante alcuni

incontri al Pincio con il suo misterioso contatto, un «simpatico» agente americano, l'Elefante, come

lui stesso ama definirsi, aiutò l'intelligence americana a "capire la politica" in Italia compilando

dietro compenso alcune schede informative sui maggiori leader di DC, PSI e forse anche PCI. Fatto

sta che le quotazioni di Craxi, cui Ferrara era già legato da affettuosa collaborazione, salirono alle

stelle e quelle di Andreotti evidentemente crollarono al minimo storico. Così la racconta Ferrara:

Era l'anno di Sigonella, gli americani erano avidi di sapere chi cavolo fosse questo omaccione che gli

aveva mandato i carabinieri contro in una base USA. Erano interessati a capire la sua logica politica

e F. si profondeva in dettagli, analisi, interpretazioni dalla parte di Craxi, dicendogli quanto era fico

e quanto era occidentale.

Dopo questi incontri, che si interruppero con l'ingresso di Ferrara in televisione, a quanto sembra il

problema vero per gli americani era come liberarsi di Andreotti. Scrive ancora l'analista della CIA:

«Il principale esperto di politica estera dei democratici cristiani, Giulio Andreotti, è a favore di

questi orientamenti e verosimilmente si unirebbe con entusiasmo ai comunisti con i quali condivide

ampiamente posizioni filoarabe». L'unica possibilità alternativa, presa in considerazione dalla CIA,

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era che la DC riuscisse a formare un governo con l'appoggio dell'MSI, come negli anni Cinquanta,

ma si trattava di un'ipotesi poco probabile «per le connessioni fra l'MSI e il terrorismo e i residui

legami con il fascismo». In ogni caso, se la DC fosse riuscita a ribaltare i pronostici, a diventare

premier potrebbero essere Goria e Martinazzoli. Ed è questa l'ipotesi finalmente azzeccata dagli

analisti della CIA, perché la DC, pur perdendo voti rispetto alle precedenti elezioni, riuscì

comunque a restare partito di maggioranza relativa. Il dopovoto, com'era stato previsto dal

documento, fu gravido di liti e di incognite nel pentapartito. Fu il presidente Cossiga a risolvere la

crisi piazzando nel ruolo di presidente del Consiglio un uomo di sua fiducia, e cioè Francesco

Goria,leader di piccolo calibro, ma evidentemente gradito agli americani.

La sfida elettorale di Totò Riina Il problema di Andreotti non erano soltanto gli americani: la

pubblica accusa di Palermo ha sostenuto che il senatore dovette affrontare la questione elettorale

anche con Totò Riina durante uno storico incontro che è stato il vero colpo di teatro del processo.

Parliamo del presunto incontro con "bacio" tra Andreotti e Totò Riina. A raccontarlo fu il poco

affidabile Balduccio Di Maggio, ora di nuovo in carcere con l'accusa di aver commesso vari delitti

durante uno dei suoi permessi premio. All'epoca Balduccio era autista e guardia del corpo di Totò

Riina (che contribuirà a far arrestare nel gennaio '93). Il pentito disse di aver accompagnato, nel

settembre '87, Riina a casa di Ignazio Salvo, che era agli arresti domiciliari, e di aver visto entrare

Andreotti. A quel punto 'u Curto gli sarebbe andato incontro stampandogli due bei baci in faccia,

gesto che stava a rappresentare un segno di riappacificazione. Risparmieremo al lettore la furibonda

battaglia processuale che è seguita alle dichiarazioni di Di Maggio, ma al termine del processo la

pubblica accusa ha mantenuto la sua tesi, e l'ha riproposta in appello. Non tutti, neppure tra i

magistrati della Procura, credono al folcloristico bacio, ma non viene messo in dubbio l'incontro: il

20 settembre 1987, tre mesi dopo le elezioni di giugno, vi sarebbe un vuoto tra le quattordici e le

diciassette e trenta negli impegni che il ministro degli Esteri ebbe quel giorno a Palermo, e proprio

in quel lasso di tempo si sarebbe recato all'appuntamento con il Capo dei Capi.

Questo con Riina è uno degli otto incontri, con boss mafiosi, contestati ad Andreotti nel corso del

processo, ma cinque sono stati segnalati da pentiti come Angelo Siino, che non sono stati in grado

di dare indicazioni precise sulla data o hanno riferito questi episodi de relato. In definitiva gli

incontri importanti sono soltanto tre. Il primo, come sappiamo, risale all'estate dell'80, pochi mesi

dopo l'omicidio Mattarella, quando, a dire del pentito Francesco Marino Mannoia, Andreotti

avrebbe subito un arrogante altolà da parte di Stefano Bontate: «Qui comandiamo noi, se non volete

cancellare completamente la DC dovete fare come diciamo noi, altrimenti vi leviamo i voti della

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Sicilia, di Reggio Calabria e di tutta l'Italia meridionale. Potete contare sui voti del Nord, dove sono

tutti comunisti». Il secondo incontro sarebbe invece avvenuto nell'85 a Mazara del Vallo, nell'hotel

Hopps: secondo l'accusa Andreotti sarebbe rimasto per una decina di minuti, in una saletta privata,

in compagnia di Andrea Manciaracina, giovane boss della zona, latore di un messaggio di Totò

Riina.

Il terzo sarebbe questo, l'incontro del bacio, nel quale, a tre mesi dalle elezioni, si sarebbe discusso

proprio di voti. Un episodio che, come abbiamo detto, la Procura ha riproposto in appello,

sostenendo la seguente tesi: «Cosa Nostra tornò a sostenere elettoralmente i suoi antichi referenti

ma quando si videro traditi uccisero Salvo Lima». La Procura di Palermo ha teorizzato dunque che

Andreotti abbia fatto in quell'occasione qualche promessa esaudibile, se non nell'immediato,

almeno quando il Maxiprocesso fosse arrivato a Roma in Cassazione. Ma i giudici d'appello, come

sappiamo, non l'hanno creduto.

Va detto che Andreotti, alle elezioni europee dell'89, fu eletto in un collegio del Nord-Est con un

buon risultato: dunque era ugualmente forte anche senza l'appoggio dell'elettorato siciliano. E a

conti fatti l'ipotetica minaccia di Bontate, messa in atto da Riina, non aveva avuto esito: la mafia

non sembrava in grado di portare a termine alcuna determinante "punizione"; poteva al massimo

spostare qualche migliaio di voti, che non impediva alla DC di restare partito di maggioranza,

almeno nel contesto degli anni Ottanta.

L'analisi di Riina, come quella della CIA, si era rivelata sbagliata. O forse il boss dei boss non era

riuscito a spostare "i propri elettori" a sinistra. Racconterà nel 2002 l'ultimo pentito, Nino Giuffré,

che il cambiamento del cartello elettorale impegnò non poco i capibastone, talvolta senza successo:

«Siamo dovuti andare casa per casa a discutere con la gente umile, i contadini che non capivano

quello che dovevano fare; sempre avevano votato DC e questa era stata la nostra indicazione,

quando andavamo a prenderli con i camion in campagna». Un rito che si ripeteva a ogni elezione.

Giuffré, per rendere ancor più convincente la sua descrizione, ha aggiunto un aneddoto: «Negli anni

Cinquanta un comunista cercò di salire sul camion perché non aveva altro modo per andare a votare,

ma all'indomani lo trovarono morto».

Il vero problema di Andreotti era in realtà l'indebolimento della corrente siciliana della DC. In

quegli anni era nato a Palermo il movimento di Leoluca Orlando, in grado di raccogliere una

consistente parte dell'elettorato democristiano. Lima, alle elezioni dell'89, riuscì a essere eletto ma

perse un terzo dei voti, mentre "Leoluca 'u sinnaco" sfilava alla testa di cortei dove si gridava:

«Andreotti belzebù, il capo della mafia sei tu». Orlando aveva avuto con Caponnetto e Falcone un

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vero e proprio feeling, che successivamente s'incrinerà, ma che sarà in quella stagione all'origine del

rinnovamento culturale di una Palermo che viveva finalmente la sua "primavera". In questo clima, il

13 dicembre 1987, fu pronunciata la prima sentenza del Maxiprocesso: diciannove ergastoli e

centinaia di condanne pesantissime. I "teoremi" di Buscetta avevano vinto per la prima volta. La

reazione sarà durissima: il 12 gennaio 1988 sarà ucciso l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco.

Erano passate poche settimane dalla sentenza del Maxiprocesso e i boss tornavano in campo con

lupare e kalashnikov. La tregua era finita. Nel settembre successivo, sulla superstrada

Palermo-Caltanissetta caddero il giudice Antonino Saetta e il figlio. Il giudice era stato nominato

presidente del collegio al processo d'appello contro i quattrocento boss. Il giorno dopo, a Trapani,

fu ucciso anche Mauro Rostagno, ex leader di Lotta Continua, speaker di una locale radio privata,

dai cui microfoni quotidianamente attaccava l'imprenditoria e le collusioni politico mafiose. E

pochi giorni prima, nella stessa zona era stato ucciso il magistrato Alberto Giacomelli, anch'esso per

una vendetta di mafia. Quello dell'88, in Sicilia, fu davvero un settembre rosso sangue.

l'attentato all'Addaura Gli ultimi omicidi, la sfida della mafia che si respirava nell'aria e altri segnali

ancora invisibili, ma già operativi, spinsero nella primavera successiva il capo della Polizia,

Vincenzo Parisi, a presentare una drammatica relazione alla Commissione Antimafia, in cui la

mafia veniva definita per la prima volta un'organizzazione "antistato". Erano passati oltre tre anni

dalla strage al treno di Natale, ma le ultime iniziative di Cosa Nostra sembravano confermare che i

Corleonesi non intendevano recedere da azioni "eversive". Parisi era considerato il Fouchet della

polizia italiana, di cui rimase a capo per sette lunghi anni, fino a poco tempo prima della morte, che

sopraggiunse improvvisa la notte di Capodanno del 1994. Era stato capo del SISDE nei primi anni

Ottanta ed era divenuto capo della Polizia quando il futuro presidente Scalfaro era ancora ministro

degli Interni.

Nel momento in cui Parisi scese in campo, aprendo una nuova stagione antimafia non più delegata

ai magistrati siciliani, ma che impegnava il governo e le istituzioni, il suo ministro era Antonio

Gava. Nel marzo dell'88, il governo Goria aveva lasciato il passo a De Mita, e sorprendentemente

era stato affidato il ministero degli Interni all'esponente della DC napoletana coinvolto nel

"sequestro Grillo". Una fosca vicenda che Parisi ben conosceva, considerato che le indagini su di

essa gli furono scippate dal SISMI. Per spiegarmi come ciò potesse essere accaduto, una volta mi

disse: «Io sono un uomo dello Stato, che ubbidisce alla legge, al governo e al suo ministro».

La nuova stagione antimafia fu purtroppo contrassegnata dalla diffidenza e dagli scontri tra apparati

che finirono per penalizzare Falcone. Nel giugno '88 la prima decisione fu quella di ridare

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"ossigeno" all'Alto Commissariato Antimafia, concedendo alla struttura un ruolo d'intelligence e

quei pieni poteri che Dalla Chiesa non aveva avuto. Falcone aspirava a quell'incarico, dopo che il

CSM aveva bocciato la sua nomina a capo dell'ufficio istruzione, preferendogli Antonino Meli per

motivi di pura anzianità: un pretesto per tenere fuori il giudice italiano più famoso del mondo da

ogni incarico direttivo.

Ma per l'Alto Commissariato spuntò la candidatura di Domenico Sica che innescò il primo aspro

scontro di potere dentro l'antimafia. Attorno al PM romano si coagulò il fronte

andreottian-socialista, che con l'ausilio dell'Arma riusci a sconfiggere l'asse De Mita-PCi che

appoggiava Falcone. Non fu una scelta felice, anzi un vero disastro: l'Alto Commissariato e la

Procura di Palermo scesero in guerra, come apparve chiaramente nell'estate dell'89 con l'eclatante

vicenda del "Corvo". Una serie di lettere "anonime" sull'illegale presenza a Palermo del pentito

Contorno (cui venivano attribuiti omicidi di mafia), arrivarono a vari uffici, fra cui lo stesso Alto

Commissariato. Quelle lettere avevano l'evidente scopo di delegittimare il pool antimafia: erano un

durissimo attacco a Giovanni Falcone, accusato di tutto, perfino di coprire gli omicidi compiuti dai

pentiti. E purtroppo avevano tutta l'aria di provenire da un apparato informativo: a scriverle, per la

conoscenza di molti retroscena, non poteva che essere stato un addetto ai lavori. Per questo i

sospetti si rovesciarono ben presto sul povero magistrato della Procura palermitana Alberto Di Pisa.

Fu una vicenda per molti aspetti fantasmagorica, un giallo nazionale dagli accenti iperbolici, molto

seguito dai media che enfatizzavano la vicenda con titoloni del tipo: «Il Corvo, la Talpa e il

Falcone». Lo scenario si spostò rapidamente a Caltanissetta, dove la Procura aprì un'indagine a

carico del magistrato, che fu rinviato a giudizio come autore degli anonimi istituzionali, a causa di

un frammento d'impronta carpito su una delle lettere (che sembrava combaciare con un'altra

impronta, incautamente lasciata dal magistrato su un bicchiere d'acqua bevuto all'Alto

Commissariato). Fu una piccola guerra d'intelligence, dagli aspetti rumorosi e casarecci, che

purtroppo precedeva di pochi anni eventi ben più drammatici; un capitolo tristissimo di veleni, in

cui s'inserì abilmente la mafia che dalla delegittimazione della magistratura trasse profitto.

Ma all'inizio dell'estate c'era stato un altro episodio, ancora più grave. Il 18 giugno 1989,

all'indomani delle elezioni, furono trovati cinquantotto candelotti di dinamite inesplosi sotto le

finestre della villa all'Addaura, dove Falcone si trasferiva d'estate. Quella domenica era in

compagnia di alcuni colleghi venuti dalla Svizzera per un convegno, fra cui anche il futuro

procuratore federale Carla Del Ponte: i magistrati avevano approfittato dell'incontro per lavorare a

una rogatoria internazionale. L'inchiesta era tra le più scottanti: riguardava una "centrale" di

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riciclaggio individuata in alcune banche svizzere, uno di quei santuari di cui è proibito scoprire i

terminali, perché, come diceva Falcone, «chi tocca quei fili muore». Il giorno prima Lima aveva

perso un terzo dei voti; ora la mafia lanciava un altro pesantissimo avvertimento. Falcone lo capì

immediatamente, rimandò la moglie Francesca a casa, non voleva che corresse i suoi rischi e disse

alla sorella Maria: «Io ormai sono un cadavere che cammina». Come riveleranno alcuni pentiti,

Riina fece mettere in giro la voce che quell'attentato se l'era organizzato da solo per poter ottenere

l'incarico di procuratore nazionale antimafia. Un ufficio che era ancora nella sua mente e che

cominciò a funzionare soltanto dopo la sua morte. Per il momento si dovette accontentare di essere

promosso dal CSM viceprocuratore aggiunto al fianco di Pietro Giammanco, con il quale non c'era

alcuna sintonia. Anni dopo sarà condannato a dieci anni per il fallito attentato un poliziotto

dell'Alto Commissariato, Ignazio D'Antona, forse vittima anche lui del clima da congiura di quella

terribile estate.

Manine e manone Tra le complicate vicissitudini dell'estate 1990, ce ne sono un paio strettamente

legate ai grandi misteri che ci hanno accompagnato lungo tutto il libro: la struttura militare segreta

denominata Gladio e il Memoriale di Aldo Moro. Alla fine di luglio era cominciata a circolare la

voce che Cossiga stava per dimettersi, perché il presidente del Consiglio, ovvero Andreotti, come

sappiamo, aveva autorizzato il magistrato Veneto Felice Casson a prelevare dalla sede del SISMI

tutto il materiale relativo all'organizzazione Stay Behind. Era evidente che l'affare si sarebbe

abbattuto sul capo dello Stato, molto coinvolto nell'accordo segreto con la NATO.

Antefatto. Nell'estate '89 Andreotti aveva ripreso le redini del governo. De Mita si era dimesso e

non era riuscito a formare una nuova coalizione. Ci riuscì Andreotti, dopo che fu siglato il patto del

CAF, un'alleanza che resisterà fino alla fine della legislatura e della Prima Repubblica e che sarà alla

base del suo sesto e settimo governo. In quel periodo la corrente andreottiana era più forte che mai,

grazie all'ingresso di Pomicino, Baruffi, Sbardella e altri colonnelli dislocati al Centro-Nord. Ma in

realtà troppe cose si stavano muovendo, mentre Andreotti aveva bisogno di congelare la situazione

politica. Craxi si era fatto più aggressivo e al suo fianco era comparso un uomo nuovo, Silvio

Berlusconi, che proprio in quel periodo contendeva a De Benedetti il controllo della più importante

casa editrice italiana, la Mondadori. Tentativo che Andreotti riuscì a stoppare attraverso

Ciarrapico.

Acque tempestose e non soltanto all'interno del Palazzo: all'esterno si aggravavano gli scandali, da

quello delle "lenzuola d'oro", che seguì l'omicidio dell'ex presidente delle Ferrovie dello Stato

Ludovico Ligato, fino alla maxitangente Enimont (2 milioni e 212 mila dollari, pari a due miliardi e

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mezzo) che come affermerà la sentenza molti anni dopo fu versata a esponenti romani della DC

facenti capo proprio alla corrente andreottiana.

Andreotti era riuscito a liberarsi di De Mita, ma non di Cossiga, cui diede l'assalto nell'estate

successiva dando prova ancora una volta della sua straordinaria spericolatezza. Sappiamo già che il 3

agosto, su richiesta della Commissione Stragi, il presidente del Consiglio rivelò il sistema della

Gladio pur dandone una versione molto riduttiva: disciolta a suo dire nel 72, la struttura sarebbe

stata composta da poco più di seicento persone. Ma proprio mentre divampavano le polemiche, l'I 1

ottobre, a Milano, in via Montenevoso, nell'ex covo BR, dov'erano in corso lavori di

ristrutturazione dell'appartamento, saltarono fuori da dietro un pannello una settantina di pagine

manoscritte, che rappresentavano la versione originale del Memoriale di Aldo Moro. Un vero colpo

di teatro.

In quelle pagine, come ormai ben sappiamo, lo statista non aveva soltanto accusato Andreotti e altri

amici di partito, ma aveva rivelato alle BR l'esistenza di quei "reparti antiguerriglia" che proprio in

quei giorni erano oggetto di rovente polemica politica. La frase non era presente nel dattiloscritto

diffuso nel 78 e, in quel frangente, l'accenno fu più che sufficiente per sollevare una bufera attorno a

Cossiga, che reagì con vigore sostenendo che qualcuno lo voleva screditare per costringerlo alle

dimissioni. Pochi si accorsero che le accuse rivolte da Moro ad Andreotti erano più esplicite di

quelle divulgate dal ministero degli Interni dodici anni prima: ormai l'Italcasse era infatti uno

scandalo morto e sepolto. Il vero obiettivo di quella postuma versione del Memoriale sembrava

proprio attizzare il fuoco sulla storia di Gladio. Ma il presidente della Repubblica reagì molto

vivacemente, cominciò a "esternare" e "picconare": a dare le dimissioni non ci pensava per niente,

anzi sembrava intenzionato a essere rieletto.

Ma Andreotti non se ne curò e il 9 novembre tornò alla carica rivelando a sorpresa che Gladio, dopo

il 72, era stata in realtà riassorbita all'interno del SID e poi del SISMI e dunque era tuttora attiva:

forse si trattava di quel misterioso Reparto 7, (facente parte dell'altrettanto misterioso Ufficio R, da

cui dipendevano i RUS che abbiamo già incontrato durante il sequestro Moro) di cui non si è mai

capita la natura, perché nessuna spiegazione ufficiale è stata mai data su chi avesse ereditato i suoi

compiti. In ogni caso, le rivelazioni di Andreotti scatenarono durissime reazioni politiche, e non

soltanto dell'opposizione. L'ex presidente Giovanni Leone, mai informato dell'esistenza di Gladio,

in preda all'agitazione si lasciò sfuggire: «C'erano diecimila persone in armi e io ero il solito

presidente di merda che non ne sapeva niente». Diecimila, disse Leone, non seicento.

L'intera vicenda finì per innervosire Craxi, che fece anche un'aperta allusione alla "manina" che

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avrebbe nascosto il Memoriale. Proprio in quel periodo si era intensificato il carteggio tra il

segretario del PSI e l'anonima fonte del SISMI, che come sappiamo lo informava che Andreotti

perseguiva l'antico scopo di riappropriarsi dei servizi segreti per danneggiare l'ammiraglio Martini,

reo di aver rimosso all'inizio degli anni Ottanta tutti gli ufficiali compromessi con la P2 e le trame

del terrorismo, contrastando il potere di Andreotti. L'anonimo elogia il capo del SISMI per

l'autonomia dimostrata e al contempo informa Craxi che era stato proprio Andreotti a sottoscrivere

all'inizio degli anni Sessanta gli accordi con la NATO. Tra le carte trovate nel '95, negli uffici di

Craxi in via Boezio, c'è anche un appunto, databile tra la fine del '90 e l'inizio del '91, titolato

"Operazione Gladio": Tale presunta operazione [le rivelazioni su Gladio] che è prevista peraltro fin

dal 1949, sia pure sotto nome di codice diverso, ricorda tanto quella con cui Andreotti provvide a

mandare all'aria i servizi quando voleva riassumerne il controllo completo (Miceli-Maletti). L'on.

Andreotti sottoscrisse infatti già all'inizio degli anni Sessanta, quale ministro della Difesa, i piani

segreti NATO per contrastare un'eventuale invasione da parte russa e gli uomini che hanno seguito

questo aspetto, peraltro del tutto marginale dell'attività dei servizi, sono sempre stati uomini a lui

legati, finché l'ammiraglio Martini non provvide a sostituirli con persone diverse [...]. Un

superservizio è in realtà sempre esistito, ma non è quello di cui si parla e aveva e ha compiti non

certo assegnati agli uomini della Gladio [...].

L'appunto è citato nella relazione al Parlamento del COPACO del 26 ottobre 1995 sui documenti

trasmessi dalla Procura di Milano dopo il ritrovamento dell'archivio di Craxi. Il Comitato di

Controllo sui Servizi conferma che Andreotti era il ministro della Difesa nel giugno 1959, quando il

SID entrò a far parte dello Shape e nel 1964 quando fu creato in ambito europeo l'ACC, il Comando

Clandestino Alleato. Craxi dunque sapeva che Andreotti "sapeva", e quell'allusione sulla "manina"

non poteva che rivolgersi a lui. Ma Andreotti non se la prese e replicò con una delle sue solite,

lapidarie battute: «Manina? Forse una manona», lasciando al contrario intendere che si trattava di

un'operazione dei "poteri forti" rivolta contro di lui. Non sappiamo come siano andate in realtà le

cose, ma se davvero l'idea del fortunoso ritrovamento del Memoriale era stata sua, per quanto

audace, non fu una buona idea e non sortì i risultati sperati, ovvero le dimissioni del capo dello

Stato.

Il vero mistero di questo primo scorcio degli anni Novanta resta proprio il comportamento di Giulio

Andreotti, uomo come sappiamo accorto e assai abile nello sgusciare tra le maglie di ogni segreto,

già allora comparso di fronte al Tribunale dei Ministri una ventina di volte, capace di fronteggiare

nell'aula magna della Cassazione, appena tre anni prima, i giudici del Maxiprocesso che gli avevano

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contestato alcuni duri passaggi del diario di Dalla Chiesa sulle sue frequentazioni siciliane.

L'Andreotti che conosciamo era persona assolutamente in grado, se avesse voluto, di far fronte

anche alle richieste del giudice Casson e del senatore Gualtieri sulla vicenda Gladio, fornendo una

versione ben più ridotta dei fatti o facendo leva sul segreto di Stato, anche se per far ciò bisognava

negare ogni coinvolgimento della struttura segreta nella strage di Peteano e in ogni altra strage. Non

era la prima volta che Andreotti veniva interpellato sul ruolo dei servizi segreti nelle stragi d'Italia, e

in altre occasioni se l'era cavata benissimo. Dunque, se aveva autorizzato il magistrato veneziano a

violare gli archivi di Forte Braschi, vincendo le forti resistenze degli apparati, e se aveva deciso di

parlare a viso aperto di fronte alla Commissione Stragi, lo aveva fatto a ragion veduta e per ottimi

motivi. Di questo almeno erano tutti convinti, ma quali fossero la ragione e gli ottimi motivi ancora

oggi, a distanza di tempo, resta un mistero.

Personalmente, sospetto che Andreotti abbia intuito che qualcuno oltreoceano gli stesse

preparando qualche "piattino" e abbia perciò deciso di giocare d'anticipo. Sappiamo che aveva amici

nella CIA e, a parte Kissinger, che lo aveva sempre preferito di gran lunga a Moro, qualcuno di

questi doveva averlo messo sull'avviso su quanto si andava preparando in Italia dopo il crollo del

Muro di Berlino. Qualcuno doveva averlo informato che stavolta poteva essere lui la vittima da

immolare sugli altari dei nuovi equilibri mondiali che si andavano ricostituendo con la nascita della

nuova Europa. Il timore degli amici americani era che il vecchio continente potesse trasformarsi, da

valido alleato, in pericoloso rivale nella ricostruzione dei paesi dell'Est, nella gestione dei rapporti

con l'ex URSS e i paesi arabi. E già sappiamo come nell'87 Andreotti era poco amato dagli analisti

della CIA per la sua politica filoaraba, alla quale difficilmente avrebbe rinunciato perché in sintonia

non soltanto con i molteplici interessi del governo italiano ma anche con l'indirizzo ecumenico di

papa Wojtyla e con quel "partito" del Vaticano dei cui interessi è sempre stato il portavoce. Per

giunta, Andreotti in quel periodo non aveva evitato di manifestare le sue simpatie europeiste per

ingraziarsi il PCI, e questo era un altro valido motivo per volersi liberare di lui, anche se in quella

fase soltanto alcune menti finissime riuscivano a prevedere gli eventi che di lì a poco si sarebbero

scatenati mettendo fine alla Prima Repubblica e ai vecchi partiti.

La "vecchia volpe" doveva aver fiutato che il vento stava cambiando e probabilmente temeva che

sarebbe avvenuto quanto poi è realmente avvenuto: la sua liquidazione, se non dalla scena politica,

da incarichi istituzionali e di potere per via di quei vecchi scheletri nell'armadio, come la mafia e

Xaffane Moro, considerati peccatucci durante la "guerra fredda", ma che rischiavano di diventare

ora un insormontabile scoglio per la sua ascesa al Quirinale. Non doveva rassicurarlo neppure il

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nuovo corso "antimafia" impresso dal capo della polizia Parisi dopo il Maxiprocesso: tutto quello

che avveniva in Sicilia era ormai un tormentone insostenibile. Falcone di qui e Falcone di là, ogni

soffio di vento a Palermo conquistava la prima pagina sui giornali: se qualcuno voleva la sua pelle,

l'avrebbe venduta a caro prezzo. E se era venuto il momento di aprire gli armadi, o magari anche di

ripulire le cantine, allora sarebbe stato lui a guidare l'operazione.

Ma bisognava appunto fare presto. Fu una corsa contro il tempo e Andreotti ben sapeva che ne era

rimasto poco. Dopo essersi liberato di De Mita,che aveva commesso l'errore di chiedere le elezioni

anticipate, l'unica cosa da fare era risolvere il problema di Cossiga.

Anche il presidente della Repubblica qualche scheletruccio nell'armadio ce l'aveva. Nel '66, proprio

con il governo Moro, a soli 38 anni, era stato il più giovane sottosegretario alla Difesa. Andreotti

sapeva che a contribuire alla sua crescita politica e di potere erano state proprio certe relazioni che

aveva coltivato in quel periodo con gli apparati Stay Behind che, a fronte della nascita del

centrosinistra e della crescita elettorale del PCI, erano stati rafforzati e ristrutturati con il suo

ausilio. Non ignorava la sua amicizia di vecchia data con il generale Edgardo Sogno, l'ex mitico capo

dell'Organizzazione Franchi durante la Resistenza (che Dalla Chiesa sospettava essere l'area di

provenienza dei partigiani che avevano infiltrato le Brigate Rosse), sostenitore e organizzatore della

Rosa dei Venti, la prima rete civile di Gladio. Anche perché, a differenza di lui, Cossiga non aveva

mai fatto mistero delle sue buone relazioni con gli "spioni" e forse era venuto il momento di

presentare il conto.

Così, sul finire dell'anno, mentre in molti paesi europei i vari capi di governo e ministri della Difesa

si trovavano a fronteggiare la bufera scatenata dalle rivelazioni su Gladio, in Italia i contraccolpi

furono assai più pesanti. Nella relazione a Gualtieri, Andreotti aveva scritto che dell'esistenza della

struttura segreta erano stati informati tutti i presidenti del Consiglio nominati negli ultimi

quarantacinque anni: dunque certamente anche Craxi e Spadolini, che il 3 agosto, dopo la sua

esternazione in Commissione Stragi, avevano fatto orecchie da mercante mostrando di cadere dalle

nuvole. Ma, con il passare delle settimane e dei mesi, sia il segretario del PSI sia il presidente del

Senato ebbero qualche reminiscenza, anche se dichiararono di non aver mai saputo che la Gladio

potesse aver avuto diretta relazione con organizzazioni terroristiche e stragi, come sosteneva invece

Casson.

Cossiga, al quale non doveva essere sfuggito il vero significato della sortita andreottiana, scese in

campo e reagì molto vivacemente alle contestazioni che stavano montando attorno a lui:

imprevedibilmente decise di cavalcare la tigre a viso aperto. Fino a quel momento era stato definito

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il "presidente notaio". Gli veniva contestata soltanto l'estrema pignoleria di marca leguleia, e i

caricaturisti lo raffiguravano come il "signor nessuno" che si aggirava per le stanze del Quirinale.

Invece, durante una visita ufficiale in Scozia, diede avvio al nuovo corso di "presidente picconatore"

che caratterizzò la fase finale del suo settennato, rilasciando dichiarazioni di questo tenore: «Sono

fiero e orgoglioso di aver contribuito alla nascita di un'organizzazione interamente formata da

uomini di valore, patrioti al servizio dell'Italia, il cui unico scopo era quello di difendere le

istituzioni da nemici esterni». Quando a fronte delle sue ripetute esternazioni, e anche in seguito

alla minaccia di revocare il mandato alla Commissione Stragi, si cominciò a dubitare della sua sanità

mentale, spiazzò tutti dicendo: «In realtà io non esterno, io comunico. Io non sono matto, io faccio

il matto. E diverso. Io sono il finto matto che dice le cose come stanno».

Affermazioni che non placarono affatto gli animi. La sinistra manifestava in piazza: il 17 novembre

il PCI di Achille Occhetto organizzò a Roma una manifestazione di circa trecentomila persone che

protestavano contro l'ancora fantomatica Gladio, la mancanza di trasparenza sulle stragi e in

definitiva puntavano il dito contro di lui. Il 19 dicembre Cossiga era in Germania, in visita privata;

in quell'occasione chiese scusa «per essere andato un po' sopra le righe», promise di non parlarne

più. Ma era una falsa promessa: al ritorno annunciò che intendeva levarsi qualche "sassolino" dalle

scarpe. Cosa che fece anche durante il messaggio al paese alla vigilia di Natale. E pensare che

proprio il 23 dicembre la NATO, per arginare l'autodafé di ministri e capi di governo, aveva posto il

segreto di Stato internazionale sull'attività e i fini di Gladio. In Parlamento esponenti

dell'opposizione cominciarono a chiedere le dimissioni del capo dello Stato, soprattutto a partire dal

febbraio '91, quando divennero pubblici gli elenchi dei 622 gladiatori ormai quasi tutti in età

avanzata. Sotto la guida del principe Francesco Gironda, i "patrioti" si costituirono addirittura in

associazione, girando l'Italia per pubblici dibattiti. In tanti accusavano Andreotti di aver messo a

repentaglio la loro reputazione e sicurezza, quando l'unica colpa di cui si erano macchiati era stata

quella di aver difeso l'Italia dal pericolo comunista.

Il 1991 fu un anno memorabile. Cossiga in due o tre occasioni rischiò l'"impeachment", ma si difese

duramente e al suo fianco scese anche il generale Sogno, che in quel periodo pubblicò un libro di

memorie sull'Organizzazione Franchi. Cominciò così un'ampia pubblicistica degli ex gladiatori, che

proseguì fino al 1995, quando il generale Paolo Inzerilli pubblicò Gladio, la verità negata. Inzerilli

fu tra l'87 e l'89 l'ultimo responsabile conosciuto della "tecnostruttura" nella sua qualità di

capoufficio centrale della Sicurezza alle dipendenze dell'Autorità Nazionale della Sicurezza, e poi,

fino al '91, come capo di Stato Maggiore del SISMI, incarico al quale avrebbe dovuto seguire quello

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di generale di divisione. Ma la nomina fu bloccata da Andreotti in relazione al caso Gladio, come

Inzerilli tenne a precisare nella fascetta del suo libro di memorie. Per lui seguì il prematuro

pensionamento di cui il generale approfittò per fondare la Commissione Storica dell'Associazione

degli Ex Appartenenti alla Gladio, di cui divenne presidente.

Per tornare a Cossiga, la crisi istituzionale e di governo non tardò ad esplodere tra il Parlamento e il

Colle. La richiesta di Casson di interrogare il Presidente su una vicenda così delicata lo aveva offeso

e Cossiga reagì prendendosela con quanti a destra e a manca facevano dichiarazioni «imprudenti e

impudenti». Ma quando nei dibattiti alla Camera qualcuno cominciò ad accusarlo di alto

tradimento minacciò di autosospendersi se il governo non gli avesse rinnovato la fiducia. A

innervosire Cossiga erano soprattutto le dichiarazioni dei socialisti: i ministri del psi avevano posto

la loro riserva e Craxi aveva dichiarato di «non avere alcuna intenzione di difendere l'infallibilità di

Cossiga e Andreotti». Il capo dello Stato reagì sarcasticamente consigliando ad Andreotti di

mettersi da parte anche lui e di cedere lo scettro ai socialisti; intanto cominciò a definire Craxi "il

nuovo amico", ovviamente in senso ironico.

Fu un terremoto senza precedenti e la crisi sembrò inevitabile quando prese piede la proposta

socialista che a interrogare il capo dello Stato fosse un "comitato di saggi", composto da cinque

presidenti della Corte Costituzionale. Il picconatore insorse: «Dico come Aldo Moro: non ci faremo

processare nelle piazze». Andreotti, a quel punto, fece il gran gesto e alle Camere espresse a Cossiga

la solidarietà del governo, dichiarando la piena legittimità di Gladio.

Una solidarietà che Andreotti non poteva certo negargli, anche perché, considerata la piega che

avevano assunto le esternazioni del capo dello Stato, era sempre più chiaro che dimissioni

spontanee non ce ne sarebbero mai state; e tutto poteva fare il presidente del Consiglio ma non certo

guidare apertamente la fronda contro un presidente della Repubblica democristiano. Ma Craxi

continuava a pestare i piedi: a Cossiga sarebbe stata sufficiente la sola dichiarazione del presidente

del Consiglio? Non era affatto scontato, invece al momento bastò e le dimissioni rientrarono. Con

Andreotti fu pace fatta o così almeno sembrava: e in effetti il primo giugno 1991 lo nominò senatore

a vita. Una decisione di cui all'epoca furono date varie letture: la più semplice fu che Cossiga

intendesse sdebitarsi con Andreotti per la solidarietà offerta; la seconda era che in previsione di

quanto stava per accadere nel paese (e nelle aule giudiziarie), tramontata l'ipotesi delle dimissioni

anticipate, si fosse stabilito un patto di mutua assistenza. La nomina a senatore a vita ha certamente

aiutato Giulio negli anni a venire. Ma non mancò la terza ipotesi, naturalmente dietrologica,

secondo la quale il perfido Cossiga si sarebbe in realtà vendicato del brutto tiro di Andreotti

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"sollevandolo" dalla gestione elettorale della corrente che gli aveva consentito fino a quel momento

di tenere a bada i capitribù, i vari Evangelisti, Sbardella, Pomicino e via dicendo. In effetti, durante

il processo, sono stati proprio alcuni degli ex andreottiani a infierire nelle testimonianze contro di

lui.

Polemiche ed esternazioni proseguirono per mesi e mesi, fino all'epilogo finale. «Io sarò in strada

tra la gente, per parlare con la gente e possibilmente rappresentarla e tutelarla», diceva Cossiga

ormai accusato di qualunquismo e di cercare consensi emotivi. In autunno andò in Germania, da

dove tornò profetizzando: «Sono successe tante cose all'Est, ora speriamo anche all'Ovest». Il 26

novembre '91 mise in atto la minaccia che si protraeva da ormai un anno: Cossiga si autodenunciò

chiedendo che gli fosse contestato il reato di cospirazione politica in riferimento alla vicenda

Gladio. Il 23 gennaio 1992 con una lettera annunciò le sue dimissioni dalla DC e il 2 febbraio chiese

lo scioglimento delle Camere. Il 5 e 6 aprile si svolsero le elezioni politiche in un clima pesante e

destabilizzato. Era accaduto proprio quello che Andreotti aveva a lungo temuto e cercato di evitare:

tutti i partiti tradizionali uscirono travolti dal voto, e vinsero i partiti della protesta. C'era stato un

precedente: il 17 febbraio era stato arrestato Mario Chiesa, fatto che diede inizio all'era di

Tangentopoli. Il PSI non sarebbe stato più d'ostacolo, ma nel frattempo Cossiga aveva maturato

l'idea di cavalcare l'onda della protesta e di interpretare l'uomo nuovo, forse nella speranza di essere

rieletto presidente della Repubblica e comunque per ritagliarsi un futuro politico nella nuova Italia

che stava nascendo: così in effetti è stato.

Il 23 aprile ebbe inizio la nuova legislatura. Due giorni dopo con un messaggio televisivo Cossiga

annunciò le sue dimissioni con dieci settimane d'anticipo rispetto alla naturale scadenza del

mandato, chiedendo anche di essere interrogato da tutti i Tribunali. Ma la magistratura aveva ormai

altro da fare e la Procura di Roma archivierà l'indagine. Dopo le dimissioni, Cossiga partì per una

vacanza a Dublino, pianse nell'apprendere dei primi arresti di Mani Pulite, ma ruppe il silenzio

dal!'autoesilio e, lanciandosi in un'ultima pesantissima esternazione, dichiarò: È la DC il nemico

che ha tradito, incapace di modificare la sua arroganza, allo sbando. I dirigenti DC la gente li

prenderà a sassate per la strada. Io non li ho buttati giù dalle scale, ma la gente non avrà i miei

scrupoli [...].

De Mita è il meglio; Forlani è un ipocrita, lui non mente, nasconde la verità [...]. Ho scritto al

«Popolo» una lettera in cui spiegavo perché non mi sarei più iscritto al gruppo DC del Senato, non

l'hanno pubblicata perché era più importante la seduta della sezione Garbatella.

Era venerdì primo maggio 1992: i balletti per l'elezione del presidente erano appena cominciati e

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Cossiga lanciò la sua ricandidatura in questo modo. Nella lettera non parla del "nuovo amico" Craxi,

tanto ormai era liquidato, e neppure di Andreotti: ma esalta il principale rivale del senatore, Ciriaco

De Mita e attacca Forlani che gli è invece rimasto accanto, quanto basta per far capire a chi era

veramente diretto lo strale «contro il nemico che ha tradito». In che modo si è concluso il duello per

la presidenza lo vedremo tra poco, ma certamente non a torto la rivelazione di Andreotti sulla

struttura segreta, accusata di tanti misfatti, viene da molti considerata l'atto ufficiale della fine della

Prima Repubblica.

Soltanto nel '93, quando Ciampi divenne presidente del Consiglio, e ministro della difesa era Fabio

Fabbri, nel segno della nuova era, fu consentito ad alcuni giornalisti tra cui la sottoscritta di visitare

la base militare di Capo Marrargiu, sede operativa di Gladio. Una simpatica gita, durante la quale

dopo essere scesi dal pullman, privati di macchine fotografiche e registratori, fummo condotti in

una sala conferenze, senza mai poterci allontanare, scortati a vista anche per raggiungere la toilette.

Non avemmo la sensazione che si trattasse di una base in via di smantellamento, né ci fu modo di

capire dove sarebbero stati condotti durante i progettati golpe gli enucleandi della Lista E. Ma tanto

ormai la guerra fredda era finita.

Dimenticare Palermo Fallita l'ipotesi di mandare a casa Cossiga, le manovre di Andreotti per il

Quirinale non si erano certamente esaurite. La Sicilia intanto era sempre terra di sangue: nel

settembre '90 ad Agrigento fu ucciso il magistrato Rosario Livatino, il "giudice ragazzino": aveva

solo trentadue anni, la sua uccisione fu una feroce vendetta della stidda, la mafia della zona.

Livatino stava indagando su un boss che abitava nella sua stessa strada e ne aveva ordinato l'arresto.

A ottobre a morire per questioni di appalti saranno due imprenditori catanesi, Sandro Rovetta e

Francesco Vecchio. Andreotti capì finalmente che era venuto il momento di prendere le distanze

dalla realtà siciliana: doveva dare un segnale forte del suo impegno antimafia. Nel giro di pochi

mesi, con l'aiuto del ministro della Giustizia Claudio Martelli e del fedele Vitalone riuscì a

convincere Falcone a dimenticare le antiche ostilità e ad andare a Roma come direttore degli Affari

Penali. C'era stato un episodio che aveva contribuito ad alleggerire il clima: un pentito, Giù- seppe

Pellegriti, aveva accusato Lima di essere il mandante dell'omicidio Dalla Chiesa, ma il PM aveva

spiccato nei suoi confronti un ordine di cattura per calunnia: il pentito aveva indicato un paio di

esecutori materiali, uno dei quali era in carcere il giorno del delitto, quindi le sue accuse erano

destituite di fondamento. Un episodio sul quale i nemici di Falcone hanno molto speculato. In ogni

caso il magistrato accettò la proposta di Martelli.

Dopo anni di lotte intestine in Procura, era la prima concreta occasione che si presentava a Falcone

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per uscire dal Palazzo dei Veleni, com'era stato ribattezzato in quegli anni il Tribunale di Palermo.

Il 21 febbraio 1991 si trasferì armi e bagagli in via Arenula, convinto che avrebbe potuto sedere su

quella poltrona come soltanto lui sapeva fare, senza farsi condizionare dal potere politico: al

contrario, condizionandolo. In quell'anno lavorò con grande energia, il suo era un ambizioso

progetto di ricostruzione dell'intera rete del crimine organizzato, attraverso tutti i filoni di indagine

che aveva individuato. La sua fissazione restavano i canali finanziari di Cosa Nostra, gli intrecci tra

narcotraffico ed economia legale, che diventavano visibili nelle centrali del riciclaggio, dove

confluivano anche tangenti e affari sporchi. E naturalmente continuava a sperare che di lì a poco,

per quella strada sarebbe riuscito a ottenere l'incarico di Procuratore Nazionale e così a coordinare

le indagini antimafia di tutte le Procure. Anche Andreotti era soddisfatto, la collaborazione di

Falcone lo aiutava a cancellare i fantasmi del passato, le accuse sui suoi elettori siciliani.

Non era passato neppure un anno dall'arrivo di Falcone a Roma quando, il 15 gennaio 1992, la

Cassazione emise la sentenza confermando tutti gli ergastoli nei confronti dei capimafia, i boss della

Cupola, anche dei "vincenti". Una settimana prima a Palermo la Corte d'Appello aveva confermato

la condanna a dieci anni nei confronti di Ciancimino. «Spaccheremo le corna a tutti», era stato il

grido di guerra di Totò Rima. Quando mise in atto la minaccia, il 12 marzo, assassinando Salvo

Lima, Falcone intuì che stava accadendo qualcosa di terribile. Perché la mafia uccide un potente?

Perché è un nemico, oppure un traditore. E quella primavera-estate Cosa Nostra ucciderà nemici e

traditori: Lima, Falcone, Borsellino e Ignazio Salvo. Ma ricordiamo come Buscetta sia andato più

in là: «Lima è stato ucciso per screditare Andreotti, vedo un motivo che va oltre la spiegazione

giudiziaria».

Dunque quella di Runa, vista con gli occhi di un uomo che apparteneva allo stesso mondo, era una

scelta "politica". Come nell'87, la mafia non si sentiva più garantita, e per vendetta aveva deciso di

scendere nell'agone politico con un suo progetto autonomo: impedire ad Andreotti di diventare

capo dello Stato. Ma era davvero soltanto un progetto di Cosa Nostra? Il 17 gennaio, pochi giorni

prima della maxisentenza, fu arrestato Mario Chiesa, faccendiere craxiano: da quest'indagine

prenderà avvio Mani Pulite. Il 22 dicembre 1992 il primo avviso di garanzia metterà fine alla carriera

di Craxi, quattro mesi prima della richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Andreotti

e Gava. C'è chi vede negli omicidi e nelle stragi siciliane e nella messa sotto accusa di faccendieri,

imprenditori e politici a Milano, una manovra a tenaglia contro DC e PSI per liquidare il sistema

politico italiano per volontà di forze internazionali. Se dobbiamo fare un'analisi obiettiva, non

possiamo far finta di pensare che quegli interessi non esistessero. Ma ritengo che gli avvenimenti di

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quel periodo furono anche il risultato di una crisi endogena del nostro sistema politico, maturata,

come abbiamo visto, nel corso di lunghi anni: certamente l'occasione arrivò al momento giusto.

Capaci, 23 maggio 1992 Gli uomini sulla collina erano in attesa. Nino Gioè fumava una sigaretta

dietro l'altra. Giovanni Brusca sembrava tranquillo, guardava un punto fisso all'orizzonte dove le

onde del mare si infrangono sugli scogli neri dell'Isola delle Femmine. Gli altri si aggiravano

nervosi tra gli alberi, parlottavano. Sette uomini in tutto, vestiti come operai o contadini, che

sembravano prendere il fresco attardandosi in campagna alla fine di una giornata di lavoro. Il cavo

era stato già allacciato e anche il materasso era ormai posizionato in fondo alla condotta dell'ENEL,

un tubo del diametro di circa un metro che correva sotto il manto stradale. Pietro Rampulla era un

estremista di destra, un amico, e questi lavori li sapeva fare bene, però quel giorno non era venuto,

aveva preferito starsene per i fatti suoi. La prima telefonata era già arrivata. «Pronto, Mario?». «No,

ha sbagliato». Era il segnale, l'aereo era atterrato a Punta Raisi.

Passarono altri minuti: dieci, quindici, venti. Il cellulare suonò di nuovo. Era Gino La Barbera, di

vedetta al bar Johnny Walker, lungo la parallela della Palermo-Trapani, dove c'era un piazzale da

cui si potevano vedere perfettamente le auto che sfilavano sull'autostrada sottostante. Il corteo delle

Croma si avvicinava: quando le avvistò Gino risalì in macchina, mise in moto e prese a inseguirle

sulla strada parallela in modo da poter calcolare la velocità: ottanta chilometri, cento, centodieci.

All'altezza di uno svincolo il boss deviò in direzione di Partinico: ormai mancava poco più di un

chilometro, «Non ho neppure sentito il botto», racconterà ai magistrati.

I sette sulla collina aspettavano in silenzio. Brusca si posizionò a gambe aperte, prese la mira

puntando il telecomando con la iattanza di un arciere del re. Erano le diciassette e cinquantasei del

23 maggio 1992 sull'autostrada A-29, all'altezza di Capaci, quando la violentissima deflagrazione

spalancò il manto stradale disintegrando una Fiat Croma blu; la seconda macchina, una Croma

bianca, si schiantò contro il muro di sassi e cemento provocato dall'esplosione; la terza, un'altra

Croma blu, finì in quel groviglio di lamiere contorte, in bilico sulla bocca d'inferno che si era aperta

all'improvviso sulla strada. La prima auto si impennò come un cavallo impazzito nello stesso istante

in cui il boato spezzò l'aria: i corpi di Montinaro,Di Cillo e Schifani uscirono dall'impatto a pezzi,

orrendamente carbonizzati, irriconoscibili. L'arciere aveva sbagliato di un istante, perché il vero

obiettivo era la seconda vettura, la Croma bianca dove viaggiavano Falcone, che era al volante,

Francesca Morvillo, seduta al suo fianco, e l'autista Giuseppe Costanzo che era sul sedile posteriore.

Fu l'unico che si salvò. Anche il giudice e la moglie avrebbero potuto salvarsi, se solo la vettura fosse

stata poco più lontana dalla prima o se avessero allacciato le cinture: invece cessarono di vivere due

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ore dopo all'Ospedale Civico di Palermo.

Sono morti così il giudice, la moglie, il caposcorta e due agenti. Morti come Falcone aveva sempre

saputo che sarebbero morti: «Quelli come noi possono saltare in aria da un momento all'altro, come

il bottone di una giacca», ripeteva spesso. Sono morti in una splendida giornata di maggio, quando i

pescatori al largo della costa trapanese escono con le barche e vanno a pesca di tonni. Uno spettacolo

magnifico e cruento, con quella lunga scia di sangue che arrossa l'acqua del mare, che per Giovanni

ogni anno segnava l'inizio dell'estate. Non ci aveva voluto rinunciare alla "tonnara", anche se ormai

viveva a Roma: aveva deciso di scendere giù nella sua terra, all'ultimo minuto, lasciando sul tavolo

di via Arenula tanto lavoro da sbrigare. Ma era un'altra mattanza quella che lo accolse, la sua e dei

suoi uomini, non in mare, ma su quel grigio asfalto che per tanti anni è rimasto dipinto di rosso, in

memoria del sangue versato dai servitori dello Stato.

Falcone è morto a Palermo, dov'era nato, come Buscetta, come gli uomini appostati sulla collina.

Gli uomini che avevano imbottito la condotta ENEL di cinquecento chili di tritolo e Semtex T4,

avevano azionato il telecomando ed erano rimasti impassibili a guardare. E morto a Palermo,

siciliano tra i siciliani. Quella sera tutte le campane hanno suonato a lutto, ma ai rintocchi si

contrapponeva l'eco delle bottiglie di champagne che venivano stappate all'Ucciardone, nelle celle

dei boss che festeggiavano la vittoria, perché in Sicilia vince chi è vivo. E chi è morto ha perso, perso

per sempre.

Il 19 luglio, cinquantasette giorni dopo, un altro terribile boato scosse la quiete domenicale della

città ferita: un'autobomba esplose poco dopo le quindici, in via D'Amelio, portandosi via anche

Borsellino, l'amico fraterno, il compagno di lavoro cui Falcone era più legato. Paolo si accingeva a

prendere il suo posto, anzi quel posto che Giovanni non aveva mai avuto: voci consistenti davano

per imminente la sua nomina a Procuratore Nazionale Antimafia. Perché fu ucciso Borsellino? Per

un motivo urgente, a quanto sembra, che va cercato nelle pieghe dell'inchiesta sui mandanti occulti

delle stragi: Borsellino "aveva capito" cosa c'era dietro l'omicidio di Falcone.

Ma non era finita, anzi la guerra di Cosa Nostra era appena cominciata e avrebbe reso ancor più

evidente la sua folle strategia nella primavera-estate dell'anno successivo, quando i boss riuscirono a

portare l'attacco al cuore dello Stato fuori dalla Sicilia, fuori dal territorio dove si sentivano protetti,

a Roma, Firenze, Milano, per dare l'impressione di essere divenuti ormai onnipotenti e invincibili.

Il 14 maggio 1993 esplose un'autobomba in via Fauro, a Roma, a due passi dal teatro Parioli dove

Maurizio Costando aveva appena finito di registrare una puntata del suo show serale. L'auto era

stata parcheggiata sotto un palazzo dove, si apprese poi, c'era anche una sede "coperta" del SISDE.

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Non è mai stato chiaro in realtà quale fosse il vero obiettivo dell'attentato: quello in via Fauro era un

ufficio particolare, frequentato da uomini che avevano a che fare con le cose siciliane, come il

maggiore Antonio Canale, cognato del maresciallo Lombardo e stretto collaboratore del giudice

Borsellino. È rimasto questo dubbio, anche se alla fine è prevalsa la convinzione che la bomba fosse

destinata a Costanzo e alla moglie Maria De Filippi, perché quando è esplosa erano da poco passate

le diciotto e i due noti conduttori televisivi erano appena usciti dal teatro Parioli.

Il 27 maggio un altro ordigno ad alto potenziale (pentrite, tritolo, T4 e nitroglicerina) esplose in via

dei Georgofili, a Firenze, sotto la Torre delle Pulci, sede di un'importante accademia artistica. Ma a

due passi c'era anche la Galleria degli Uffizi: sono volate statue e sono andati distrutti tre dipinti del

Cinquecento; quindici miliardi di danni, altri trenta per ristrutturare gli edifici. E ci sono stati altri

cinque morti: la famiglia del custode e uno studente che passava per strada. Due mesi dopo a

Milano, alle ore ventitré e venti del 27 luglio, un'altra esplosione: c'era un'auto fumante in via

Palestro, quasi in mezzo alla strada, i vigili del fuoco, dopo aver allontanato i passanti, si

avvicinarono per aprire il cofano e la vettura esplose. Altri cinque morti: i quattro vigili e un

marocchino che stava attraversando il parco colpito da un pezzo di copertone trasformato in un

proiettile. Le fiamme investirono i saloni del Padiglione d'Arte Contemporanea, e fu danneggiata

anche Villa Reale, sede della Galleria d'arte moderna. Altri miliardi di danni, statue, quadri: ma

perché la mafia ce l'aveva con le opere d'arte e i monumenti? Una domanda che si ripropose un'ora

dopo, quando a Roma, quasi contemporaneamente, esplosero altri due micidiali ordigni nei pressi

della Basilica di San Giovanni e alla Chiesa del Velabro, alle spalle dei Fori Imperiali. Poi,

all'improvviso, è calato il silenzio. I boss posero fine alla guerra che avevano unilateralmente

dichiarato allo Stato: non ci sono state più bombe né omicidi eccellenti. Che cosa era successo?

Cercheremo di capirlo nelle pagine che seguono.

L!elezione di Scalfaro Quel pomeriggio del 23 maggio 1992, l'eco della terrificante esplosione di

Capaci arrivò a Roma nel giro di pochi minuti, nelle stanze dove si sta- Il libro nero della Prima va

consumando l'ultimo atto di quell'"ingorgo istituzionale" che da giorni bloccava l'elezione del capo

dello Stato. Il governo si era ufficialmente dimesso il 24 aprile, erano già state bruciate un paio di

candidature ufficiali: quella di Forlani, che per protesta si era dimesso anche lui da segretario della

DC, e quella di Vassalli, ex ministro della Giustizia, socialista. Andreotti non era ufficialmente

candidato e in realtà aveva pochissime chance: un abboccamento con il PDS di Occhetto aveva dato

esito negativo. Nessun leader del CAF sarebbe stato votato dagli ex comunisti, che in quel momento

avevano altro per la testa: il partito, dopo la scissione, era sceso al 16 per cento, non era più tempo di

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accordi trasversali. Ma lui, la "vecchia volpe", non ci aveva rinunciato del tutto e rimaneva in attesa:

se non poteva essere eletto, anche per gli altri non sarebbe stato facile. C'era solo da aspettare che,

uno alla volta, fossero bruciati tutti i candidati ufficiali.

Era circolata nel pomeriggio precedente un'agenzia di stampa che aveva fatto uno strano lancio: «Un

gran botto nelle prossime ore potrebbe accelerare l'elezione del capo dello Stato...». Era l'agenzia

Repubblica, diretta da Landò Dell'Amico, piccola agenzia bene informata, sullo stile di «OP»,

vicina ai servizi segreti. Un partito che appoggiava Andreotti del resto c'era: andava dall'MSI agli ex

comunisti, era il partito "personale" del Presidente che alla fine lo aveva sempre sostenuto, nel bene

e nel male. Se nessuna delle candidature ufficiali veniva avallata, alla fine a farcela poteva essere

proprio lui, il grande escluso. In queste riflessioni consumava l'attesa Andreotti, pronto a cogliere il

momento giusto. La notizia della strage si diffuse nelle stanze del Palazzo attorno alle diciotto. Era

una notizia terribile, che sembrava riportare l'Italia indietro di anni. Forse era davvero la fine.

Quella strage si era abbattuta sul vuoto di idee, di candidati, di segreterie e di futuro dei tre maggiori

partiti: DC,, PCI e PSI, ormai lacerati da contrasti e reciproci sospetti.

Alle diciassette del giorno dopo, il 24 maggio, a scrutinio già indetto, si muovevano come fantasmi

uomini su cui il mondo stava franando addosso. La mattinata era trascorsa all'antica, alla ricerca di

una mediazione impossibile, e con il senso che ormai fosse anche inutile. La tragedia che si era

consumata a pochi chilometri da Palermo dava il senso della precarietà di ogni decisione, come se a

tirare i fili della scelta che deputati e senatori stavano per compiere ci fosse qualcuno al di sopra di

loro. Alla fine fu partorita una proposta "istituzionale": i candidati non potevano che essere

Spadolini, presidente del Senato, e Scalfaro, presidente della Camera. Pomicino si fece sotto e

propose di aggiungere anche Andreotti, presidente del Consiglio. Ma Craxi si oppose: in quella

situazione di emergenza il partito trasversale alla fine avrebbe vinto e lui non voleva.

Il CAF si era frantumato e il segretario del PSI ormai diffidava di Andreotti, dei suoi poteri

trasversali e dei suoi dossier; soprattutto sospettava che dietro le manovre tangentizie che lo stavano

affondando ci fosse proprio lui. La sua risposta fu: la presidenza del Consiglio non è un incarico

istituzionale, se la DC voleva presentare Andreotti lo facesse pure, ma come candidato di partito.

La DC puntò invece su Scalfaro. Lima era stato ucciso soltanto da due mesi e ora la tragedia di

Palermo stava a indicare quale fosse il segno di quegli spari a Mondello che, secondo Buscetta,

servivano a «screditare Andreotti», cioè a impedire che venisse eletto capo dello Stato, com'era

ormai palese. A ventiquattro ore dalla strage di Capaci il nuovo presidente, Oscar Luigi Scalfaro, fu

eletto al primo voto e quasi all'unanimità, perfino con l'entusiastico consenso di Marco Pannella, il

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laico "mangiapreti" che aveva appoggiato il più "confessionale" dei candidati possibili. Il gran botto

di Palermo era servito a seppellire Andreotti? Dopo Falcone anche Borsellino Non è difficile capire

perché la mafia abbia voluto la morte di Falcone: era il nemico storico di Cosa Nostra, il suo più

pericoloso avversario all'interno delle istituzioni dello Stato. Durante una riunione, Totò Riina

aveva anche dato una spiegazione "contingente": era stato Falcone a impedire ad Andreotti qualsiasi

iniziativa di intervento sulla Cassazione, puntandogli addosso i «riflettori tramite agganci politici».

Il fatto che il magistrato fosse consigliere del governo, almeno così la pensava '"u Curto", gli

consentiva di essere informato in tempo reale di qualsiasi progetto "coperto" del genere e di

intervenire per bloccarlo. All'odio e al rancore di sempre, si erano dunque aggiunti motivi più

recenti, come hanno raccontato i pentiti che hanno partecipato alle stragi: Giovanni Brusca,

Calogero Ganci, Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo. La prima volta che si era parlato di

fare la guerra allo Stato era stato nel febbraio del '92, pochi giorni dopo la sentenza in Cassazione, in

una villa nelle campagne di Enna: lì fu deciso che bisognava uccidere sia Falcone che Lima, per poi

eliminare, uno dopo l'altro, tutti coloro che si fossero rivelati inutili o pericolosi per Cosa Nostra, i

"traditori" e i "nemici". Uccidere Falcone rientrava nel "gioco grande": l'odio della mafia si era

saldato al progetto dell'ignoto stratega, al «gran botto» che aveva anticipato il voto sul Quirinale per

impedire l'elezione di Andreotti.

Meno facile è spiegare come sia potuto accadere che, a meno di due mesi dalla prima strage, la mafia

abbia proceduto nel suo piano di attacco al cuore dello Stato con un altro eclatante attentato, ben

conoscendo la terribile repressione che le si sarebbe abbattuta addosso. La stessa notte della bomba

in via D'Amelio, per ordine del ministro degli Interni Nicola Mancino, tutti i boss furono trasferiti

nelle carceri speciali e all'isola di Pianosa.La strategia delle bombe aveva avuto come unico frutto il

carcere duro, poi ratificato da una norma speciale, la 41 bis, contro cui i boss stanno ancora

inutilmente combattendo. Qualcuno all'interno della mafia lo aveva previsto; c'era stato anche chi

dentro la Commissione aveva tentato di frenare il progetto. «Ma proprio la guerra allo Stato

dobbiamo fare?», aveva chiesto Salvatore Cancemi a Rina. E dure furono le reazioni dei capimafia in

carcere, perfino Calò era insorto: «A cu ci vinne 'sta bella pensata?». Ma il boss dei boss si mostrava

sicuro; rispondeva con quel lampo satanico negli occhi che ogni tanto gli illumina la faccia di

pacifico contadino della Coldiretti: «Non vi preoccupate, loro sono d'accordo». Loro, ancora loro:

ma chi sono loro? C'era qualcosa in più, che non riusciva a emergere, sul movente della strage in via

D'Amelio; gli stessi pentiti hanno detto che era stata preparata in fretta, che non faceva parte del

piano elaborato alla fine del '91, e neppure se ne era parlato alla riunione di Enna nel marzo '92.

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C'era qualcosa di poco chiaro, nel precipitare degli eventi, nell'accelerazione che avevano assunto i

piani di morte degli uomini di Cosa Nostra.

La strage di via d'Amelio sembra sia stata decisa dopo un intervento di Paolo Borsellino alla Casa

Professa, ai primi di luglio: «La pista da seguire parte dall'importanza delle indagini che Falcone

stava compiendo sugli appalti poco prima di essere ucciso», disse il magistrato. A cosa si riferiva?

Racconteranno i pentiti che a creare grande allarme, all'interno di Cosa Nostra, era stata una

dichiarazione pubblica di Falcone: «La mafia ormai è entrata in borsa», aveva detto poco tempo

prima di morire. La frase era stata pronunciata poco tempo dopo la quotazione in borsa del gruppo

Ferruzzi. Dirà al processo il pentito Siino che il boss nisseno Giuseppe Madonia,delegato a

sovrintendere alla gestione di tutti gli appalti in Sicilia, nell'apprendere quello che aveva detto

Falcone, era saltato su una sedia: «Ma allora questo ha capito tutto!».

La strage di Capaci, dunque, si salderebbe con quella di via D'Amelio sul nodo dei grandi appalti.

Una delle ipotesi è proprio questa: Falcone doveva essere indotto a lasciare Palermo perché si

arenassero certe indagini che stavano portando alla luce i nuovi referenti politici e finanziari di Cosa

Nostra. In realtà, da quando era arrivato in via Arenula, le indagini sul riciclaggio del denaro sporco

si erano invece intensificate e, grazie ai suoi colleghi in Svizzera (Carla Del Ponte e gli altri che

erano con lui all'Addaura nell'89) poteva finalmente accedere al sancta sanctorum dei conti coperti

delle banche elvetiche, dove si annidavano gli intrecci tra narcotraffico ed economia legale ma anche

i rapporti tra politica e imprenditoria mafiosa.

Nella requisitoria sulla strage di Capaci, il PM Luca Tescaroli sostiene: «Falcone seguendo questo

filone aveva la possibilità di indagare, oltre che sul fronte economico, anche nei confronti degli

imprenditori e dei politici con i quali la mafia andava a trattare, e in tal modo poteva intervenire sui

contatti che l'organizzazione per tale via instaurava con appartenenti alle istituzioni». Racconta

ancora Siino che anche Salvatore Montalto, responsabile del settore edilizio, sembrava

preoccupato: «Ma a chistu cu ci 'u pur-ta a parlare di determinate cose?». Un sospetto era che la

fonte delle informazioni di cui Falcone era in possesso potesse essere il ministro Martelli, che aveva

contatti diretti con Raul Gardini, per via di quella campagna elettorale dell'87 in Sicilia che il

Corsaro aveva finanziato e che aveva fatto decollare la carriera politica del delfino di Craxi.

Il Tavolino Quella battuta sulla mafia quotata in borsa alle orecchie dei boss stava a dire che

Falcone sapeva "chi stava seduto al tavolino". Così la mafia definisce il tavolo di trattativa tra

politici, imprenditori e capimafia. Il tavolino era in quel momento oggetto di scontro anche

all'interno di Cosa Nostra: Pino Lipari, il faccendiere di Provenzano, ad esempio, era molto

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infastidito dall'onnipotenza dei fratelli Antonino e Salvatore Buscemi. Ma Riina sosteneva che non

si potevano toccare, perché i fratelli avevano rapporti antichi proprio con il gruppo emergente, la

Ferruzzi, tramite le società CISA e COGEFAR: «Attraverso l'ingegner Panzavolta [un manager del

gruppo], i Buscemi erano in grado di raggiungere Raul Gardini», spiegherà Angelo Siino, «tenevano

in mano questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte». E anche quando Salvatore

Buscemi fu arrestato non fu possibile liberarsi di loro, perché Nino si farà appoggiare nella gestione

delle imprese da Angelo La Barbera: sì, proprio lui, il presunto killer di Pecorelli.

Tra maggio e aprile, Falcone aveva trovato un importantissimo alleato nella sua battaglia: Antonio

Di Pietro, l'allora PM di Milano impegnato nelle nascenti indagini su Tangentopoli, astro nascente

di Mani Pulite. È stato Di Pietro a parlare dei contatti avviati nella primavera del '92 tra lui e

Falcone, che si erano intensificati nei giorni precedenti la strage. «Gli imprenditori stavano

parlando, davano indicazioni, documentazione estera delle operazioni», ha raccontato Di Pietro.

Nella maggior parte dei casi la formazione della provvista avveniva estero su estero, attraverso

società estere e off-shore. E io mi chiedevo: ma come mai questi pagavano tutto fino a metà Italia e

nell'altra metà, dove guarda caso c'erano camorra, 'ndrangheta, Sacra Corona Unita e mafia, di

mazzette non se ne parlava? Il motivo me lo spiegò un imprenditore: «Dottò, mi chieda tutto quello

che vuole, sopra Napoli, al di sotto no perché lì ti ammazzano». Perché non c'è soltanto il politico e

l'imprenditore, lì i soggetti sono tre: c'è anche il mafioso, il garante della pax, quello che stabilisce

chi nelle imprese lavora e chi no.

Falcone, nell'ultima telefonata, due o tre giorni prima della strage, aveva detto a Di Pietro: «Non

bisogna perdere tempo, occorre formulare domande precise da girare alle autorità in Svizzera. Le

banche risponderanno, mi hanno dato la garanzia». Falcone sapeva che attraverso quei canali

avrebbe potuto smantellare "il tavolino", arrivare ai nuovi referenti di Cosa Nostra, in tandem con

Di Pietro. E così fu, anche dopo la sua morte: le indagini non s'interruppero, le rogatorie furono

centinaia, le risposte dalla Svizzera arrivarono puntuali, e su queste sono stati istruiti decine di

processi a Milano, anche quelli contro Previti e Berlusconi. Spiegò Di Pietro al processo di Capaci:

Quello era l'inizio, perché in questa storia ci sono sfaccettature diverse: una cosa è Mani Pulite del

'92, un'altra Mani Pulite del '93, e poi del '94 e '95. Ma l'idea di come fare la rogatoria fu di Falcone.

Fu allora che cominciai a capire il meccanismo tangentizio: la scoperta, la presa d'atto è della

primavera '92 [...]. Ho anche uno scritto di Falcone in cui mi dice: «individua l'appalto in modo che

tu, Autorità Svizzera, mi dici tutto ciò che c'è su questo conto corrente con riferimento

all'imprenditore X e all'appalto Y». La rogatoria andava personalizzata.

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Una sola volta Di Pietro vide Borsellino, dopo la morte di Falcone. Lo andò a trovare a casa, c'era

una grande tensione: «Bisogna fare presto, molto presto», gli aveva detto il magistrato. Una storia

finiva e un'altra cominciava. L'intreccio mafia-appalti poteva portare lontano, forse ai nuovi

referenti o ai mandanti stessi delle stragi. In quella terribile estate molti si resero conto che

bisognava colpire duro su questo fronte. Nei folli contatti tra il capitano De Donno e Ciancimino,

spuntò addirittura l'idea di "infiltrare" l'ex sindaco di Palermo nel sistema mafia-appalti, facendolo

partecipare al "tavolino". Poi non se ne fece più nulla. Ciancimino si tirò indietro: troppo

pericoloso.

I mandanti occulti Le stragi di Capaci e via d'Amelio, come tutte le stragi d'Italia, portano l'oscuro

segno di un "lucido superpotere", lo stesso che abbiamo incontrato a piazza Fontana, in via Fani,

alla stazione di Bologna. Dietro la violenza neofascista, dietro l'utopia rivoluzionaria delle Brigate

Rosse, dietro la rabbia di Cosa Nostra c'è sempre qualcuno capace di muovere i fili dei burattini di

turno e di trasformare i loro scomposti piani di morte in disegni strategici. Dietro Capaci, via

D'Amelio, le bombe di Roma, Firenze e Milano c'era chi inseguiva più importanti progetti di

destabilizzazione politica, che in pochi, pochissimi conoscevano. Quello doveva essere soltanto

l'inizio: poi sarebbero successe altre cose, cose terribili. Non era un'idea tutta sua, di Totò Riina; lui

doveva attuare soltanto una parte del piano, le cui linee direttive erano state definite nel

settembre-ottobre '91.

Racconta il pentito Leonardo Messina che il progetto prevedeva la nascita delle leghe al Sud Italia.

E in effetti in quel periodo ci fu un pullulare di nuove formazioni politiche di tipo leghista: la Lega

Italiana Pugliese, la Lega Centro Sud Isole, la Lega Nazional-Popolare, la Lega Calabra, la Lega

Laziale e Sicilia Libera. In quest'ultima formazione, che si presentò alle elezioni del '94, Leoluca

Bagarella, cognato e delfino di Riina, aveva piazzato un suo uomo, ancora incensurato, Tullio

Cannella. A tirare le fila delle varie leghe ci avrebbero pensato le logge massoniche, che abbiamo

visto radicarsi al Sud dopo lo scioglimento della P2, nella seconda metà degli anni Ottanta. Un

progetto al tempo stesso misterioso e palese, dietro cui s'intravede ancora una volta l'ombra

sfuggente del divino Licio.

Ma non tutti erano d'accordo. Bernardo Provenzano, la mente "politica" di Cosa Nostra, non si

fidava di queste leghe e neppure sembrava convinto che l'Italia andasse frantumata in mille pezzi.

"Binnu 'u Tratturi" inseguiva l'obiettivo più modesto e concreto di agganciare Craxi, attraverso

uomini vicini a Berlusconi: un progetto meno rivoluzionario, anche se non escludeva che fosse

necessario ricorrere ad azioni che facessero "più rumore possibile". Scrive il PM Luca Tescaroli,

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nella requisitoria al processo sulla strage di Capaci: «La linea dell'attacco ordito, a far data dal 1991,

non mirava a produrre una rottura fine a stessa, ma a una cesura protesa alla creazione di nuovi

equilibri e alleanze che garantissero nuovi referenti politico-istituzionali-finanziari».

Nel "gioco grande" degli anni Novanta una parte della mafia, quella che faceva capo a Totò Riina e

Bagarella, almeno inizialmente sembrava puntare alla separazione della Sicilia, tentazione

ricorrente ad ogni giro di boa della storia d'Italia, come abbiamo visto nel dopoguerra con Salvatore

Giuliano e alla fine degli anni Settanta con Sindona. Ma stavolta la separazione della Sicilia andava

collocata nell'ambito di un più vasto progetto di frantumazione regionale, in nome di diversi

culture, etnie, dialetti, interessi economici, come sarebbe accaduto un paio di anni dopo nella ex

Jugoslavia.

Un piano del genere non poteva essere farina del sacco di Totò Riina: appare ispirato da persone che

hanno una più ampia capacità di analisi e di progettazione politica, sembra affondare le radici nel

sogno americano della "sinarchia", il governo globale, senza più ostacoli costituiti da altre potenze

mondiali o altri governi: solo piccole realtà regionali da poter muovere agevolmente sullo scacchiere

del mondo. Che è anche il sogno di alcune tra le più potenti massonerie internazionali.

L'ala più moderata di Cosa Nostra, legata a Provenzano, inseguiva invece, come abbiamo già

accennato, un suo progetto meno ambizioso, che puntava al ricambio di alleanze politiche e

finanziarie. E sarà quello che accadrà dopo le bombe dell'estate '93, che daranno l'ultima picconata

alla Prima Repubblica. Alle elezioni del marzo '94 uscì vincente Forza Italia e Berlusconi riuscì a

formare il suo governo. Cosa Nostra, raccontano i pentiti, guardava con interesse a questa forza

politica dopo aver rotto con la DC.

I due obiettivi non erano inconciliabili e forse aveva ragione Masino, quando diceva che l'omicidio

Lima e le stragi facevano parte di un unico disegno che andava ben al di là della "sconfitta

giudiziaria" della mafia: «Vedo altre cose oltre queste», diceva. L'esigenza di Cosa Nostra di trovare

nuovi referenti politici potrebbe essersi saldata con la necessità, da parte di ben altre forze e ben altri

interessi, di dare una spallata al sistema politico italiano, in vista di una ridefinizione dei confini del

mondo dopo la caduta del Muro di Berlino: quello che oggi chiamiamo «riequilibrio geopolitico».

Insomma il dopo Yalta in Italia era cominciato con le stragi siciliane.

Ma ci sono altri segni, nella strage di Capaci, che lasciano intravedere l'intervento del "lucido

manovratore". Ad esempio l'artificiere Pietro Rampulla, catanese, legato alla cosca dei Santapaola,

ma ex terrorista di destra, è un elemento tutto sommato esterno a Cosa Nostra e non è l'unico. Sul

luogo della strage fu rinvenuto un bigliettino di questo tenore: «Guasto numero 2, portare

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assistenza settore numero 2, GUS, via Selci 26, via Pacinotti»: accanto c'è il numero di un'utenza

intestata a un funzionario del sisde. Il GUS, Gruppo Unità Speciali, come il RUS del sequestro

Moro, evoca sigle dietro cui sembrano celarsi gli ex reparti speciali Gladio, ormai stabilmente

inglobati nel nostro servizio segreto. Nell'inchiesta bis, quella sui mandanti occulti della strage di

Capaci, emergono anche tracce di forti pressioni da parte di ambienti massonici, legati al Grande

Oriente d'Italia, sul trasferimento a Roma di Falcone. In una telefonata tra il massone Salvatore

Spinello, molto vicino a Craxi, e il tesoriere di Cosa Nostra Angelo Siino, il primo afferma:

«Falcone deve essere trasferito a Roma, al più presto, se no lo ammazzano».

Però a un certo punto le stragi si sono fermate e anche i progetti di frantumare l'Italia non hanno

avuto seguito. Eppure, il 22 dicembre 1994, il "ribaltone" ha portato alla caduta del governo

Berlusconi e, in nome dell'alternanza politica, è subentrata una coalizione di centrosinistra che ha

visto, nientemeno, l'ingresso degli ex comunisti al governo. Ma non ci sono state altre bombe: come

mai? Forse per colpa dei pentiti che stavano parlando, forse per colpa dei magistrati che hanno

spedito in carcere migliaia di boss. Forse perché la mafia aveva pagato un prezzo troppo alto alla

strategia di "attacco al cuore dello Stato" e ha detto basta, liquidando Totò Runa.

Forse perché ci sono stati uomini che non si sono arresi, come il futuro capo dello Stato Carlo

Azeglio Ciampi, che la notte dei fuochi del 27-28 luglio 1993 quando era presidente del Consiglio,

ha tenuto duro contro le bombe di Milano e Roma. Quella notte ci fu un misterioso blackout

telefonico a Palazzo Chigi: Ciampi scese in piazza Montecitorio per dare agli italiani un segnale di

mobilitazione, chiamando attorno a sé con il cellulare gli uomini fidati delle istituzioni, che hanno

saputo dare una risposta incisiva. Forse siamo stati anche un po' fortunati: nel frattempo c'era stato

un mutamento nello scenario internazionale, il falco Bush senior era uscito imprevedibilmente

sconfitto alle elezioni dell'autunno '92, consentendo l'elezione del democratico Clinton, non

contrario all'ipotesi di un governo di sinistra in Italia. Cosa sia accaduto davvero nessuno lo sa.

Forse per capirlo può essere interessante riaffacciarsi per un attimo sul cratere di Cosa Nostra,

ascoltare dalla viva voce dei protagonisti come hanno vissuto quei due terribili anni che hanno

cambiato la storia d'Italia.

Storia di Nino Gioè La sera del 28 luglio 1993 un uomo se ne stava da solo, chiuso nella sua cella di

Rebibbia, a rimuginare cupi pensieri. La notte precedente era stata una notte di bombe, ma lui lo

aveva scoperto soltanto la mattina dopo, quando la televisione si era accesa da sola, come ogni

giorno, alle prime luci dell'alba. Lui non sapeva quale sarebbe stata la notte delle bombe, ma che

quelle bombe sarebbero esplose, sì, lo sapeva benissimo, anche se era in carcere da quattro mesi. Per

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tutto il giorno non uscì dalla cella, gli agenti lo videro andare avanti e indietro, come un leone in

gabbia, in quei due metri per due. Poi si mise seduto al tavolo e cominciò a scrivere: Stasera sto

trovando la pace e la serenità che avevo perduto circa diciassette anni fa. Perse queste due cose, io

sono stato un mostro e lo sono stato fino a quando non ho preso la penna per scrivere queste due

righe, che spero possano servire a salvare degli innocenti e dei plagiati che solo per la mia

mostruosità si troveranno coinvolti in vicende giudiziarie.

Due ore dopo lo troveranno impiccato alle inferriate della finestra: si era strangolato con i lacci delle

scarpe.

Quell'uomo era Nino Gioè, uno dei sette che il pomeriggio del 23 maggio 1992 si trovava sulla

collina di Raffo Rosso, sopra Capaci. La sua sarà l'ultima storia, l'ultimo grande giallo che chiuderà

la carrellata dei misteri legati all'ascesa e alla caduta di Giulio Andreotti.

C'erano pensieri che da giorni tormentavano Nino: agli amici era parso inquieto, irriconoscibile. Al

G7, il braccio di massima sicurezza, c'era anche Gino La Barbera, l'uomo del bar Johnny Walker; lo

avevano arrestato tre giorni dopo Gioè, il 23 marzo, ma lui se ne stava abbastanza tranquillo nella

cella accanto. Era preoccupato per Nino, non usciva quasi mai dalla cella. Una volta, incrociandolo

durante l'ora d'aria, lo aveva visto trasandato, con i capelli in disordine, la barba lunga, lo sguardo

allucinato, come se una segreta malattia lo stesse rodendo. Gino gli aveva mandato un biglietto:

«Perché non ti curi un po'?».

Un uomo di Cosa Nostra in carcere deve mostrarsi in ordine, curare il suo aspetto, sembrare sicuro

di sé anche quando non lo è. E Nino Gioè non era uno qualsiasi, era un capo. Anche gli sbirri se ne

erano accorti, indagando sul suo conto, che ad Altofonte al nome di Gioè la gente chinava la testa,

abbassava gli occhi. Dietro la copertura della pompa di benzina, gestita dai cognati, c'era un uomo

di "rispetto", uno che contava, un parente dei Di Carlo, il cugino prediletto di Frank, l'uomo

accusato di aver strangolato a Londra Roberto Calvi.

Tra i pensieri che tormentavano Nino c'era quello che la polizia ce li aveva tutti nelle mani. Per

colpa sua. Nove mesi dopo la strage di Capaci un pool di investigatori della DIA, fedelissimi di

Gianni De Gennaro, era riuscito a identificare l'intero commando entrato in azione a Capaci: lui,

La Barbera, Salvatore Biondino, Santino Di Matteo, Giovambattista Ferrante, Giovanni Brusca,

Nino Troia, Pietro Rampulla. E proprio per colpa sua; non perché si era pentito, ma perché aveva

parlato troppo e un uomo d'onore invece deve parlare poco, preferibilmente a gesti. Così, curvo sul

tavolo, con la sua calligrafia grande e tonda, quel 28 luglio continuò a scrivere: Io rappresento la fine

di tutto e penso che da domani o a breve i pentiti potranno tornarsene alle loro case, certamente con

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molto più onore del mio che non ho. Prima di andare chiedo perdono a mia madre e a Dio perché il

loro amore non può avere ostacoli. Tutto il resto del mondo non potrà mai perdonarmi. Il futuro del

mondo è degli esseri normali e dei pentiti veri e questi ultimi se sono davvero onesti non possono far

altro che confermare quanto ho scritto.

Quelle che aveva scritto erano frasi all'apparenza senza senso, dietro le quali s'intuiva il desiderio di

scagionare i suoi fratelli, i suoi amici, i compaesani, i boss del suo mandamento. Perché ad accusarli

era stato lui, non direttamente, ma attraverso le chiacchierate con La Barbera, quando la sera da soli

in quella maledetta mansarda dove si nascondevano, in via Ughetti, passavano ore e ore a discutere,

commentare i fatti del giorno, rievocare il passato. Senza pensare, come due cornuti, che gli sbirri

potevano sentire tutto. E ora lui non riusciva a ricordarsi quello che avevano detto, quanta gente

avevano cacciato nei guai. Era questo il rimorso, il pensiero che logorava Nino, giorno dopo giorno,

dopo aver letto il mandato di cattura, dove si parlava di intercettazioni telefoniche e ambientali. Ma

come potevano essere stati così cornuti Quella sera Gino, poco dopo mezzanotte, sentì un gran

trambusto nella cella accanto: rimase in attesa per capire cosa fosse successo. Che Nino si era ucciso

lo scoprì la mattina dopo. Anche lui si era chiesto in quei giorni cosa agitasse la mente dell'amico,

aveva cercato di tranquillizzarlo: «Quando mai abbiamo perso un processo per delle

intercettazioni?». Forse, quando aveva cominciato a scrivere la lettera, il desiderio che lo animava

era soltanto quello di rimediare a un errore. Ma perché diceva che era stato un mostro? Perché

diceva che lui era la fine di tutto? Cos'era, per uno come Nino, "tutto"? Tutto non poteva che essere

Cosa Nostra: era l'unico mondo che conosceva, l'unico al quale sentiva di appartenere.

Racconterà La Barbera ai magistrati che, dopo Capaci, non sembrava più lui. Quel pomeriggio,

quando erano scesi sotto il tunnel a sistemare l'esplosivo,lo avevano fatto in silenzio. Era stato lui a

chiedergli: «Ma cosa stiamo facendo? Dove andiamo a finire in questo modo?». Nino gli aveva

risposto con una voce che non sembrava neppure la sua: «Noi non possiamo fare niente, l'unica

scelta che abbiamo è finire all'ergastolo o ammazzati in un conflitto a fuoco con la polizia, o da Cosa

Nostra se ci rifiutiamo, oppure possiamo legarci i lacci delle scarpe al collo». Queste ultime parole le

aveva dette ridendo, però, e Gino non aveva mai pensato che lo avrebbe fatto davvero. Poi Nino, lì

sotto il tunnel, era tornato serio e aveva aggiunto: «Questo non è che l'inizio. Ricordatelo,

succederanno cose terribili». A pensarci bene, quella lettera che scrisse non era proprio una lettera

d'addio, e La Barbera non ha mai creduto, oppure non ha voluto crederci, che Gioè si fosse davvero

ucciso.

L'attentatuni Anche gli uomini della DIA, la Direzione Investigativa Antimafia, all'inizio non

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riuscivano a capacitarsi di tutto quel ben di dio che, giorno dopo giorno, dai nastri ripuliti della

Scientifica pioveva sul loro tavolo. Le intercettazioni erano fitte di nomi, qualcuno in codice, altri

no. C'era tutta la storia di Cosa Nostra degli ultimi anni: le liti, gli affari, i delitti, gli incontri.

Eppure era stata un'indagine vecchio stile, di polizia giudiziaria, classica. All'inizio, è vero, c'era

stata la soffiata di un giovane mafioso, che aveva deciso di pentirsi sette giorni dopo la strage di

Capaci. Era Filippo Marchese, fratello di Vincenzina, la moglie di Leoluca Bagarella. Un pezzo da

novanta, un uomo dell'aristocrazia mafiosa. Vincenzina si ucciderà qualche anno dopo per la

vergogna di quel tradimento. «Seguite Nino e li troverete», aveva detto Marchese a Gianni De

Gennaro. Il capo della Polizia in quel periodo dirigeva la DIA; appena Marchese gli aveva fatto

avere il messaggio, dicendo che voleva parlare soltanto con lui, era andato a Pianosa in elicottero.

«Attento, perché ora toccherà a lei», lo aveva messo in guardia. E se il cognato di Bagarella diceva

una cosa del genere bisognava crederci. De Gennaro aveva antenne sensibili: lo sospettava già, e

non era andato ai funerali del suo amico Falcone proprio per questo motivo; ma aveva giurato che li

avrebbe presi. Neppure lui però credeva che ci sarebbe arrivato così presto.

Un pizzico di fortuna ci vuole sempre. Non fu difficile identificare il covo di via Ughetti, dove Gioè

andava a dormire. Con lui quasi sempre c'era anche un altro; scoprirono dopo che si trattava di La

Barbera. La squadra che indagava era formata dal maggiore Domenico Di Petrillo, dal questore

Pippo Micalizio, ex dirigente della Mobile di Milano, e da Francesco Gratteri, l'attuale capo dello

SCO, il Servizio Centrale Operativo. Di Petrillo decise che non bisognava avere fretta, la partita era

troppo importante. Per oltre un mese un furgone della DIA era rimasto parcheggiato nei pressi di

quella mansarda, dove avevano trovato rifugio i due boss, che ormai si sentivano braccati. Vedevano

sbirri da tutte le parti: sull'autostrada, al bar, in pizzeria, ma non lì, nella casa, dove c'erano cimici

piazzate dappertutto, lì no, era l'unico posto dove si sentivano tranquilli. E parlavano, parlavano: i

discorsi più svariati sugli appalti, le tangenti, le liti interne al mandamento di San Giuseppe Jato, i

contatti con i boss catanesi, Santapaola e "'u Malpassotu", nominavano spesso anche "Franco", uno

che sembrava decidere tutto. Riuscirono a scoprire chi fosse quando fecero irruzione

nell'appartamento: c'erano numerosi documenti falsi, tutti con la foto di Leoluca Bagarella e

intestati a vari "Franco".

Una sera, mentre vedevano in televisione Colpo Grosso, Gino quasi distrattamente aveva detto a

Gioè «Ti ricordi 'u carruzziere vicinu unni aspittati a Capaci? Ddocu, ddocu, unni ci fidino 'u

attentatuni, avia l'officina» ('Ti ricordi il carrozziere, vicino a dove rimasi ad aspettare, a Capaci, che

aveva l'officina dove facemmo l'attentatone'). Quel nastro fu ascoltato e riascoltato decine di volte:

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non c'era dubbio, li avevano trovati, erano loro. Marchese aveva detto la verità. Poi arrivarono i

tabulati telefonici, i numeri dei cellulari erano gli stessi che si erano incrociati tra le 17 e le 22 del 23

maggio.

L'avventura era cominciata quando un uomo della DIA di Palermo aveva mandato a Roma questo

telex: «Oggi un nucleo armato della nostra organizzazione ha fatto irruzione nel covo nemico». Il

linguaggio era scherzoso, parodiava i comunicati delle Brigate Rosse degli anni Settanta, ma il

significato era importante: gli uomini della struttura investigativa erano riusciti a entrare nella

mansarda dei boss e a piazzare cimici e microfoni senza che nessuno se ne accorgesse. E per gli

uomini della strage di Capaci fu l'inizio della fine.

La trattativa tra Stato e boss Questo è soltanto un pezzo della storia di Nino, boss di Altofonte. La

parte più comprensibile, almeno apparentemente. È la storia di un boss in crisi, che aveva perduto

l'onore e la faccia non per scelta, ma per leggerezza, non perché era un pentito vero, ma perché era

un coglione. Ma c'è un altro pezzo di questa storia che è meno comprensibile: Gioè si è impiccato la

sera dopo le bombe; forse fu una semplice coincidenza, o forse no, perché lui di quelle bombe era il

vero responsabile. E ancora una volta, senza volerlo. Mentre scriveva la sua ultima lettera, fuori gli

uomini di Cosa Nostra ne stavano scrivendo un'altra, o meglio scrivevano un comunicato di

rivendicazione, come fossero le Brigate Rosse. Cose da pazzi! Tutto quello che è accaduto è soltanto

il prologo. Dopo queste ultime bombe, informiamo la nazione che le prossime a venire saranno

collocate solo di giorno in luoghi pubblici. Saranno esclusivamente alla ricerca di vite umane. P.S.:

Garantiamo che saranno centinaia.

Un breve messaggio, di cui due copie arrivarono a «Il Messaggero due al «Corriere della Sera».

Nino Gioè sapeva quello che doveva succedere, ma pensava che quella non era più mafia, era

terrorismo mafioso; e da tempo non capiva più niente di niente. Dopo l'arresto di Totò Riina,

raccontano i pentiti, suo cognato Bagarella sembrava uscito fuori di testa. Bisognava fare pressione

sullo Stato per ottenere quello che avevano chiesto, tutto e subito, diceva. Il 14 gennaio del 1994

doveva esserci un'altra strage senza precedenti, racconteranno poi i pentiti. Un enorme quantitativo

di esplosivo era stato pressato dentro sacchi della spazzatura, poi compattati insieme da nastro

adesivo; dentro erano stati mescolati anche pezzetti di piombo, che si sarebbero trasformati in

micidiali proiettili al momento dell'esplosione. La macchina, con questo rudimentale ordigno, era

stata collocata davanti allo Stadio Olimpico. Doveva esplodere al passaggio del pullman con i

carabinieri, tra la gente, alla fine della partita. Se non è esplosa, è stato un miracolo. Se non è esplosa

è stato soltanto perché quella volta il telecomando non ha funzionato.

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Gioè era ormai morto da sei mesi; di questo progetto non sapeva ancora niente, ma che quella

sarebbe stata la strada da percorrere era già chiaro la sera in cui si è ucciso. Quando il 28 luglio

scriveva: «Io sono la fine di tutto», forse pensava a tutte le carneficine che ci sarebbero state e di cui

lui, più di altri, era responsabile.

Per raccontare il secondo pezzo di questa storia dobbiamo introdurre un altro personaggio. Non è

un boss: è un avventuriero, forse un agente provocatore, un gladiatore, chissà. Il suo vero nome è

Paolo Bellini, risulta nato a Reggio Emilia nel '54, ma è uno di quelli che girano con tanti nomi

diversi e documenti diversi; una volta è stato perfino in carcere sotto falso nome, tal Roberto Da

Silva, sudamericano. Bellini è un ex di Avanguardia Nazionale, ha precedenti per svariati reati,

risulta coinvolto nella strage di Bologna. Nei primi anni Ottanta era un collaboratore del SISMI; il

direttore delle carceri Ugo Sisti lo stipendiava come informatore. Dopo l'are » resto Bellini ha

deciso di vuotare il sacco confessando la sua partecipazione a numerosi omicidi fin dai lontani anni

Settanta. Tra questi anche l'uccisione di Alceste Campanile, un ragazzo di 22 anni militante di

Lotta Continua, rimasta fino a quel momento avvolta nel buio.

Gioè lo aveva conosciuto in carcere, nell'81, a Sciacca. Lì avevano fatto amicizia, poi si erano persi

di vista. Dieci anni dopo, nel '91, Bellini-Da Silva - che in quel periodo collaborava con il Nucleo

Tutela del Patrimonio Artistico dei Carabinieri - andò a cercare Gioè. Il maresciallo Roberto

Tempesta lo aveva incaricato di fornire indicazioni su alcune tele scomparse dalla Pinacoteca di

Modena, che si pensava fossero state rubate dalla criminalità organizzata. Bellini chiese a Gioè di

aiutarlo, lui ne parlò con i capi ed è a questo punto che scattò l'idea. Cosa Nostra era in possesso di

altre opere d'arte rubate, e così propose uno scambio: le tele in cambio degli arresti ospedalieri per

alcuni boss come Luciano Liggio, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Giovan Battista Pullarà e

Giuseppe Gambino.

Bellini-Da Silva riferì al maresciallo Tempesta che, dopo qualche tentennamento, disse di no: non

poteva essere aperta una trattativa del genere. Bellini capì di essere andato troppo avanti; cercò di

vendersi al meglio, disse che ci stavano pensando, forse era possibile ottenere gli arresti ospedalieri

ma soltanto per Brusca. Insomma prendeva tempo, cercava di uscirne vivo. In quel periodo aveva

preso l'abitudine di telefonarmi al giornale; non ricordo più a quale proposito avevo citato il suo

nome in un articolo, del tutto inconsapevole del danno che potevo aver provocato, parlando di un

personaggio di secondo piano ma che in quel momento era impegnato in una trattativa pericolosa e

delicatissima. Forse sospettava che ne sapessi qualcosa: giocherellava, era minaccioso, una volta mi

diede un appuntamento promettendomi grandi rivelazioni, ma da quel momento scomparve. E la

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storia di uno scoop mancato: forse sono stata fortunata.

Parlando parlando, Bellini disse a Gioè una frase che fece scoccare una scintilla di luce nella mente

di Bagarella offuscata dalla rabbia: «Una persona per quanto è importante può essere sostituita,

un'opera d'arte no; quando è persa, è persa per sempre». E se facessimo saltare la Torre di Pisa, disse

Gioè, tanto per saggiare le reazioni. Bellini fece un salto: «Sarebbe una cosa terribile, come uccidere

un'intera città!». Ma ormai era fatta, i boss avevano capito che le opere d'arte, i monumenti,

potevano essere un obiettivo migliore di tanti altri. E Gioè lo sapeva, già allora, mentre stava

infilato nel tunnel di Capaci insieme a La Barbera, che sarebbero successe cose terribili.

Gli incontri segreti di Frank Di Carlo Ma dentro alla storia del suicidio di Gioè ci sono altre storie.

E come aprire una matrioska: dentro una storia di mafia ce n'è un'altra e poi un'altra ancora. Così,

quella iniziale, che appariva chiarissima, diventa via via meno nitida. Agli atti del processo sulle

stragi del '92, ad esempio, c'è la testimonianza del cugino Frank Di Carlo, ormai collaboratore di

giustizia tenuto in gran conto: ha negato di essere stato lui a strangolare Roberto Calvi, però ha

raccontato un bel po' di cose utili a ricostruire la fine del banchiere. Ma il boss di Altofonte ha

parlato anche della tragica fine del cugino, rivelando retroscena interessanti. Tra il '90 e il '91, nel

carcere di Fut-ton, nel Nord dell'Inghilterra, dov'era recluso, Di Carlo avrebbe avuto due incontri

con agenti segreti di varie nazionalità che gli parlarono della possibilità che Falcone venisse ucciso

e, sapendo del suo rancore nei confronti del giudice a causa della condanna a venticinque anni che

stava subendo, gli chiesero anche se poteva dare indicazioni utili su chi potesse collaborare al

progetto. «Ho indicato mio cugino Gioè», ha ammesso Di Carlo.

Il primo contatto tra il boss e agenti stranieri risale agli inizi del Novanta, poco tempo dopo il fallito

attentato all'Addaura. In quell'occasione era stato Nizzar Hindawi, di origine palestinese ma agente

dei servizi siriani, agli arresti per l'attentato a un aereo con trecento persone a bordo avvenuto in

Inghilterra, ad aprire il discorso. Racconta Di Carlo: Hindawi mi disse che da tempo si parlava in

Italia di fare fuori Falcone, perché era odiato un po' da tutti. E anche io, Dio mi perdoni, per il fatto

di essere stato ingiustamente condannato a venticinque anni di carcere, per colpa sua, insomma

c'ero interessato a questo discorso [...]. Perfino il giudice, quando venne a interrogarmi, mi disse che

non se l'aspettava una condanna così pesante: «Non pensavo che ci dessero tutti questi anni, dieci,

dodici al massimo», disse Falcone. E io ci risposi: «È andata così». «Io ho fatto il mio dovere».

«Dottore lei ha fatto bene così», ci dissi. Ma io ce l'avevo con Falcone, parlai a Hindawi che se c'era

quest'idea potevano rivolgersi a mio cugino Gioè. E mi risulta che questo avvenne: dissero a mio

cugino che volevano fare fuori il giudice con un finto reporter imbottito di tritolo.

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Questa storia del kamikaze mafioso, per quanto assurda possa sembrare, trova conferma nel

racconto di un altro pentito, Francesco Onorato, che prima di Di Carlo aveva raccontato ai giudici

di averne sentito parlare da Salvatore Biondino, un altro dei sette sulla collina. Non si sarebbe

trattato di un palestinese, ma del figlio di un uomo d'onore di Santa Maria del Gesù, malato

terminale. Un'idea campata per aria, che non divenne mai operativa neppure a livello di

progettazione. Ma le sorprese nel racconto di Di Carlo non finiscono qui: quello con Hindawi non

fu un incontro organizzato, almeno all'apparenza. Nizzar era in realtà un ex compagno di cella, con

il quale Frank si era ritrovato dopo un periodo di separazione. Ma è stato dopo questo primo

contatto che, nel '91, di notte gli piombarono in cella quattro agenti segreti: uno soltanto era

italiano, gli altri quasi certamente angloamericani. Volevano sapere dell'omicidio Calvi,

minacciarono, se non raccontava tutto lo avrebbero fatto sparire: questo fu l'inizio. Poi

cambiarono tono, gli fecero capire di essere andati a trovarlo per tutt'altro motivo: dopo aver parlato

con Nizzar avevano pensa to che lui potesse indicare qualcuno interessato a organizzare un attenta

to contro Falcone.

Di Carlo fece nuovamente il nome del cugino Gioè, ma il giorno dopo andò a protestare con il

direttore: «Mi rispose che quando si tratta di certe presenze, anche lui doveva tirarsi indietro, non

poteva fare niente». Di questo secondo incontro ritenne di dover informare Totò Riina, al quale

inviò una lettera tramite alcuni parenti che erano andati a trovarlo a Futton. capo di Cosa Nostra

gli rispose abbastanza rapidamente: «Non preoccuparti, presto tutto andrà a posto». La cosa

interessante è che la storia, raccontata da Di Carlo, è venuta fuori proprio per una sollecitazione del

Capo dei Capi, di Riina: è stato uno dei suoi avvocati a chiedere a Di Carlo, in aula, se era vero che a

Londra aveva subito minacce dai servizi segreti. Un messaggio da non sottovalutare.

Di Carlo all'avvocato rispose in modo evasivo, ma poi in sede istruttoria è stato più esplicito: Questa

è la storia, più avanti non vorrei andare, però visto come camminano le cose... Come è morto mio

cugino Gioè, ma è sicuro che si è impiccato? Io dico una cosa, sicuramente, se mi succede qualcosa,

non morirò per mano di Cosa Nostra. Questi mi vengono a dire che a Falcone non lo poteva vedere

mezz'Italia, anche persone che non c'entravano niente con Cosa Nostra. Io feci avere per tramite di

mio fratello una lettera a Nino, perché informasse Riina, e loro mi fecero sapere di non

preoccuparmi «perché presto finirà questa situazione». Poi mio cugino Gioè mi ha fatto sapere di

aver avuto degli incontri, anche lui mi ha detto: «Hanno mezza Italia nelle mani, possiamo fare

tante cose». Ma io gli feci dire di andare cauto. Anch'io avevo una certa esperienza di servizi segreti,

avendo avuto per amico un generale che comandava i servizi segreti a Roma... forse mi voleva

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agganciare, ma era una persona per bene, però era il capo dei servizi segreti e mi aveva raccontato

più o meno, forse per agganciarmi, cosa c'era in Italia... Ecco io, per questa mia esperienza, a mio

cugino cercavo di guidarlo un po', gli dicevo: «Beh, i favori li fanno, però vedi che al minuto

opportuno scaricano, stai attento sempre». L'unica cosa che potevo dire era questa.

Il lungo racconto di Di Carlo si conclude così: Io non so se mio cugino si era esposto tanto o poco,

però l'ultima volta che l'ho sentito, era molto giù ed era preoccupato, non l'avevo più visto

all'appuntamento, non c'erano andati più. Poi so che è stato arrestato e ha fatto la fine che ha fatto.

Ricapitoliamo. Ammesso che il boss non abbia mentito, e ammesso che io sia riuscita a capire bene

il significato di un lungo verbale di interrogatorio in siciliano stretto, dalle parole di Di Carlo

emerge uno scenario inquietante. Persone appartenenti a vari servizi segreti internazionali, ma a

quanto sembra operanti a Roma, erano entrate in contatto, tramite lui, con Nino Gioè. Il boss

suicida era dunque al centro di una duplice trattativa: quella avviata con Bellini e i carabinieri, che

ha innescato la strategia degli attentati contro il patrimonio artistico provocando, nell'estate '93,

dieci morti e danni per decine di miliardi. L'altra gestita con emissari dei servizi segreti, di varie

nazionalità, con i quali Nino si incontrava per conto di Toto riina prima delle stragi di Palermo. Il

tormento che lo logorava, s'intuisce dalle ultime parole del cugino Frank, era precedente alla

scoperta di essere stato intercettato dalla DIA ed era legato alla preoccupazione di essere stato usato

e scaricato: qualcuno non si era più presentato agli appuntamenti dopo la strage di Capaci, come

racconta Frank.

Quella frase che Di Carlo attribuisce al cugino: «Hanno mezz'Italia nelle mani, possiamo fare tante

cose», dimostra che a Cosa Nostra erano state fatte promesse, in nome di "cointeressenze" ad

altissimo livello, che finalmente rendevano possibile quello che mai i boss avevano sperato di poter

fare. Potevano «fare tante cose», potevano uccidere chi volevano: «Iddi, sono d'accordo», aveva

detto Totò Riina a Cancemi. iddi, loro. Poi erano stati scaricati: i boss venivano arrestati uno dopo

l'altro. Il folle progetto della strage allo Stadio Olimpico, come la strage al treno di Natale di Pippo

Calò, nasconde cupi sogni di vendetta da parte di chi, dopo essere stato coinvolto in operazioni

segrete, finiva per pagare da solo l'amaro prezzo della punizione.

Altri suicidi di mezz'estate Quello di Nino Gioè non fu l'unico suicidio di quella tragica estate.

Appena una settimana prima, il 20 luglio 1993, il presidente dell'ENI Gabriele Cagliari viene

trovato morto per soffocamento, con in testa un sacchetto di plastica, nei bagni del carcere di San

Vittore dov'era andato per farsi la doccia. Tre giorni dopo, alle sette del mattino, il maggiordomo di

Palazzo Belgioioso trova riverso sul letto Raul Gardini, il Corsaro della Ferruzzi, che si era appena

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sparato un colpo alla tempia con una Walter ppk.

Partiamo dal primo suicidio. Lo scandalo che aveva travolto il top-manager socialista riguardava

una maxitangente da diciassette miliardi, buona parte dei quali versati ai partiti a conclusione di un

accordo esclusivo tra Peni e la società assicuratrice SAI di Salvatore Ligresti: grazie al mazzettone

era stata esclusa l'INA. Cagliari da giorni sperava di essere scarcerato, così almeno aveva lasciato

intendere il PM Fabio De Pasquale, ma il 19 luglio era stato arrestato Ligresti che aveva fornito una

versione diversa rispetto a quella del presidente dell'ENL. La Procura di Milano temette che

Cagliari, tornato in libertà, potesse inquinare le prove e l'ordine di scarcerazione non fu emesso.

Il manager reagì male: l'arresto lo aveva particolarmente provato. Una decina di giorni prima aveva

scritto alla moglie e ai figli una lettera disperata, in cui chiedeva perdono per un «nuovo grande

dolore» che si accingeva a dare alla famiglia. Aveva scritto anche un testamento nel quale chiedeva

di essere cremato. Un suicidio a prova di bomba, ed è probabile che sia andata proprio così. Ma è

anche vero che le lettere di disperazione e le minacce di suicidio fanno parte del bagaglio di manovre

cui ricorrono tutti i detenuti, più o meno consapevolmente, per far pressione sui giudici.

Certamente, la delusione per la mancata libertà, che a un certo punto era sembrata imminente,

provocò nel presidente dell'ENl una profonda prostrazione. E gravissime furono le polemiche che

travolsero i magistrati di Milano: il procuratore capo Saverio Borrelli, non appena lo seppe, scoppiò

a piangere in ascensore.

Ma non era finita. Appena settantadue ore dopo, ecco un altro suicidio, eccellente, eccellentissimo.

Per il Corsaro Gardini la discesa era cominciata l'anno prima, nel '91, quando era stato estromesso

dalla gestione della Ferruzzi e gli erano subentrati il cognato Carlo Sama e l'amministratore

Giuseppe Garofano. Quella mattina, sul tardi, avrebbe dovuto incontrare i magistrati per definire la

sua situazione: c'era nell'aria un ordine di cattura, ma lui sperava di evitarlo mostrandosi disposto a

una piena collaborazione. A preoccuparlo era stato l'arresto di Garofano, avvenuto quarantot-t'ore

prima. Al centro delle accuse che riguardavano lui e la Ferruzzi c'era la maxitangente Enimont, quei

due miliardi e mezzo versati alla DC. Una storia che Garofano conosceva benissimo. Alle sette di

mattina, Gardini ha già fatto la doccia, è ancora in accappatoio quando gli portano i giornali, il

cappuccino e un croissant; ed è proprio mentre si accinge a fare colazione che l'occhio gli cade su un

titolo di prima pagina della «Repubblica»: "Tangenti,Garofano accusa Gardini". Il Corsaro capisce

che è finita (questa almeno è la spiegazione più semplice), apre il cassetto della scrivania, estrae la

Walter ppk e si spara un colpo in testa.

Gardini è l'unico dei tre compagni di sventura a non lasciar lettere che possano spiegare il motivo

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del suo gesto. Sul comodino fu trovato, è vero, un bigliettino con scritto sopra un semplice «grazie»,

ma si scoprì poi che risaliva al Natale precedente ed era la risposta a un regalo che aveva ricevuto

dalla moglie. Ma come mai si trovava lì, in bella vista? Tre uomini in crisi, il cui fallimento rischiava

di travolgere le rispettive famiglie, consapevoli di essere al centro di vicende per le quali l'Italia in

quel momento stava franando, avevano deciso di togliersi la vita. Tutto qui. Gioè, Cagliari, Gardini

sono uomini lontani tra loro, i cui destini non avrebbero mai potuto essere accomunati, se non dal

fatto che hanno deciso di togliersi la vita nella terza settimana del luglio 1993, mentre l'Italia stava

saltando in aria tra scandali e bombe.

Le loro storie, così diverse, hanno però in comune due elementi. Il primo è la Sicilia con i suoi

tentacoli. Il secondo, apparentemente stranissimo, potrebbe racchiudere la soluzione del mistero

della loro morte: tutti e tre si sono uccisi subito dopo essersi fatti una doccia. O subito prima, mi fa

notare una "vocina" amica. Un morto non si fa la doccia, replico io. Già, risponde la "vocina", ma

può servire a cancellare tracce, ad esempio di cloroformio.Fantasie di un giorno di mezza estate di

tanti anni fa, quando tre uomini potenti e diversi se ne sono andati per sempre portandosi via i loro

segreti.

Tornano alla mente le voci basse di due boss di Cosa Nostra, attutite dai microfoni nascosti della

DIA, che arrivano da una lontananza infinita, tra i fruscii del nastro registrato che scorre

lentamente. Sono Gioè e La Barbera, chiusi nella solitudine del covo di via Ughetti, forse sono

sdraiati, stanno fumando una sigaretta, e al termine di un'altra dura giornata da latitanti si

confidano tra loro in siciliano stretto. La Barbera dice: «C'è un certo discorso politico da fare...».

Gioè risponde sottovoce: «Gente pericolosa sono». E La Barbera: «'U reggente su' iddi, noi non

abbiamo un reggente, abbiamo un pupo». Il Reggente, il capo che può prendere le decisioni, non è

più Totò Rima, dicono i boss, lui è soltanto un «pupo». Il reggente sono loro, iddi. Iddi chi?

Conclusioni Passo dopo passo, diciamo pure omicidio dopo omicidio e strage dopo strage, siamo

arrivati alla fine della nostra storia. La storia di Andreotti che, nelle aule giudiziarie, si è via via

trasformata nel processo a un'intera epoca, quella seconda metà del Novecento che ci appare già

tanto lontana. È stato un periodo caratterizzato da profondi cambiamenti e rivoluzioni sociali che

hanno trasformato la nostra Italietta provinciale e contadina in un paese moderno e

industrializzato; ma anche da una lunga fase di odi e lacerazioni politiche che hanno spaccato in due

il paese, diviso da ideologie e schieramenti che affondavano le loro radici nella Resistenza

antifascista. In questo scenario Andreotti è stato l'uomo che ha rappresentato la crescita economica

e il progresso sociale dell'Italia, e al tempo stesso il sottile stratega delle trame occulte, lo

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spregiudicato assertore di un Potere chiamato a rispondere soltanto a se stesso. Anche lui, come

l'Italia, diviso in due tra Bene e Male. Tanto che, dopo dieci anni di processi nelle aule giudiziarie,

l'innocenza o la colpevolezza del senatore sono ancora in bilico sulla bilancia della giustizia: forse

perché l'innocenza o la colpevolezza sono valori assoluti, da confessionale e non da aula giudiziaria,

dove a determinare assoluzioni e condanne sono le alchimie dei codici o ciò che viene definito il

«libero convincimento dei giudici».

Per questo magistrati e politologi sono da tempo concordi nell'affermare che a giudicare Andreotti

ci penserà la Storia. Il giudizio storico è una categoria rassicurante, dislocato com'è nel tempo e a

debita distanza dai fatti che è chiamato a valutare. Ma è pur vero che la storia giudica su documenti e

per Andreotti non potrà prescindere dalle migliaia e migliaia di pagine prodotte dai tribunali di

Palermo e Perugia, che hanno osato mettere sotto accusa l'uomo più potente d'Italia. Sono

documenti che confermano la forte presenza nella sua corrente politica di uomini legati a Cosa

Nostra, da cui è derivato l'inquinamento della vita politica italiana e quella diffusa cultura

dell'illegalità che hanno caratterizzato la Prima Repubblica.

Quando il processo fu spezzato in due, la maggior parte degli osservatori aveva guardato con

maggiore preoccupazione all'accusa rivolta ad Andreotti dai magistrati di Palermo che sembrava

voler colpire, nel suo punto più alto e simbolico, il legame tra mafia e politica. L'altra, che lo

indicava come il mandante del delitto Pecorelli, era stata accolta con scetticismo e a moltissimi era

sembrata non soltanto "inaccettabile", ma anche assai difficile da dimostrare.

Ma per Andreotti, già lo sapevamo, non erano in ballo il voto di scambio o altri piccoli traffici tra

mafia e potere che coinvolgevano in quegli anni gran parte del mondo politico, ma i patti strategici

tra Cosa Nostra e Stato e quei grandi misteri italiani di cui lui, depositario degli inconfessabili

segreti del potere temporale, come un Borgia o un papa nero, era da sempre ritenuto il geloso

custode. Se c'era un "lucido manovratore" doveva essere assai abile, visto che dall'armadio di

Andreotti aveva tirato fuori a colpo sicuro il grande scheletro dell'affare Moro, cioè il Memoriale.

Quella cinquantina di pagine brucianti di accuse del presidente DC contro i compagni di partito,

ma soprattutto contro di lui, Andreotti.

La morte di Pecorelli e quei fogli scomparsi sono stati una perenne arma di ricatto e di minaccia

nella vita politica italiana. Probabilmente sono ancora ben al sicuro dentro qualche cassaforte

blindata, ma verranno fuori prima o poi, come ha sempre profetizzato Licio Gelli, insieme alle

bobine dei film o alle registrazioni dell'interrogatorio nel Carcere del Popolo. Per ora il Memoriale,

anzi il fantasma del Memoriale, su cui nessuno dei vivi può più testimoniare, è stato il legame

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"inconfessato" tra due processi: quello Moro e quello Andreotti. Nel primo se ne è parlato poco, e

soltanto per negarne l'esistenza. Nel processo Andreotti, vent'anni dopo, invece se n'è parlato

molto, e si è trasferito lì, di fatto, l'unico vero processo sui mandanti occulti del più grave delitto

politico della Prima Repubblica.

In questo tribunale di provincia, in una sede giudiziaria impropria, sono state celebrate tutte le

tappe del rapimento e dell'omicidio del presidente D( ;, una dopo l'altra, grazie ai segreti che il

giornalista Pecorelli aveva fatto in tempo a rivelare mentre era in vita. Il Memoriale, ma anche la

prigione dove lo statista è stato segregato, almeno nell'ultima settimana di vita. E poi il ruolo degli

"agenti tripli", della mafia e della fantomatica Gladio, che a suo dire si nascondeva dietro le mura di

Palazzo Caetani. Il canto di Mino era notturno e solitario come quello di un uccello impazzito.

Parlava di una trattativa segreta tra Stato e BR di cui nessuno era a conoscenza, proseguita fino

all'ultima ora: perché la liberazione di Moro era stata decisa, scriveva, quando all'improvviso

qualcuno «aveva alzato il prezzo e tradito il patto». Il processo di Perugia ha riportato alla luce

questi frammenti di verità che, riletti a distanza di tanti anni, sono apparsi molto più comprensibili

di un tempo.

Moro fu ucciso la mattina del 9 maggio, quando Cossiga al Viminale aspettava da un minuto

all'altro la notizia della sua liberazione, come poi ha raccontato tante volte. Nel frattempo le Brigate

Rosse avevano "eseguito" la sentenza. Ma furono davvero le Brigate Rosse a uccidere Moro, oppure

l'ostaggio era passato di mano, consegnato a sconosciuti mercenari? Nei suoi scritti corsari il

giornalista avanzava questi sospetti: l'ostaggio negli ultimi giorni non era più nelle mani delle BR,

diceva, ma in un"'altra prigione", dove temeva di rimanere ucciso in un conflitto a fuoco tra

carabinieri: quelli di Dalla Chiesa, che lo volevano liberare, e «altri» che lo volevano morto.

Il presidente della Corte d'Assise d'Appello Lino Gabriele Verrina, nelle motivazioni, ritiene di aver

dimostrato che il documento che Pecorelli si accingeva a pubblicare fosse proprio il Memoriale: e

che questo è stato il movente del suo omicidio. Il giudice di Andreotti si rammarica però di non

essere riuscito a individuare la prigione Moro. Ebbene, due anni prima della sentenza, una perizia

dei ROS agli atti del Parlamento, ha confermato, come sappiamo, che l'ultima prigione era

certamente nel Ghetto, a non più di cinquanta metri da via Caetani, dove Moro sarebbe stato

ucciso. Dove? Forse nelle segrete che circondano Portico d'Ottavia, quella rete sotterranea di

cunicoli e passaggi fatta costruire da Bonifacio Vili, in cui gli ebrei hanno raccolto nel tempo i loro

depositi di tessuti. Che storia straordinaria, vero? Peccato che il documento dei ROS non sia mai

stato trasmesso ai giudici di Perugia! Se è vero, come credo, che l'intreccio Dalla Chiesa-Pecorelli

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conduceva a una rilettura del caso Moro, bisogna capire meglio le "semplici" verità di Buscetta. Le

sue parole hanno molti strati di lettura: me ne sono resa conto ogni volta che a distanza di tempo mi

sono ritrovata a leggere i suoi verbali. Quando Buscetta ad esempio racconta di essere stato

coinvolto nella trattativa che si era aperta nel carcere di Cuneo, non ci si rende subito conto che

questa affermazione apre uno scenario che capovolge l'intera ricostruzione dei fatti: questa storia

della caccia al Memoriale da parte di Dalla Chiesa e Pecorelli, in quel penitenziario del Nord che nel

78-79 ospitava sia boss che terroristi, induce a riflettere: perché mai a un certo punto uomini vicini

ad Andreotti, come il senatore Vitalone, hanno tentato di avviare un canale con i brigatisti,

attraverso la malavita, se il governo non era disposto a concedere alcuna contropartita in cambio

della liberazione di Moro? Allora bisogna credere che il presidente del Consiglio non fosse poi così

inflessibile, che dietro la linea ufficiale della fermezza qualcosa si stava muovendo per salvare Moro:

come affermano i giudici d'appello di Palermo! Perché, allora, in quegli stessi giorni viene allestita

la mastodontica messa in scena del Lago della Duchessa che sono in molti a interpretare come un

segnale di morte, un invito alle Brigate Rosse a seppellire ogni speranza di trattativa? La risposta a

tutti questi interrogativi può essere semplice: non si voleva affatto liberare Moro, soltanto

recuperare i verbali dell'interrogatorio, cioè il Memoriale.

Frammenti di verità. Ma perché qualcuno ha voluto che tornassimo su questa sporca faccenda,

quando la ferita infetta dal terrorismo si era ormai rimarginata? A cosa serviva? Semplice: «A

denigrare Andreotti», ha detto Buscetta spiegando che l'omicidio Lima e la strage di Capaci

facevano parte di un unico piano finalizzato a impedire che fosse nominato capo di Stato. Proprio

lui, il grande vecchio della politica italiana, all'improvviso era diventato una semplice pedina dello

scacchiere internazionale. Dov'erano gli amici di un tempo, i capi di Stato che lo avevano

omaggiato? Tutti al suo fianco, pronti a testimoniare in suo favore: da Kissinger a Gheddafi. Così

era stato detto all'inizio del processo; invece, non se n'è fatto niente.

Per liquidare Andreotti è bastato tirare fuori un vecchio scheletro dall'armadio. Quello

dell'intreccio Pecorelli-Dalla Chiesa, rivelato da Buscetta. Più che un intreccio, un abisso di misteri

all'interno del quale il pentito ci ha guidato per svelare il fondale del sequestro Moro e il ruolo della

mafia nei segreti d'Italia. Allora è stato un complotto? Forse sì, anche se il senatore dice: «È una

parola che non mi piace». Ma non un complotto giudiziario, come gli interessati sostenitori di

questa teoria nell'ultimo periodo del processo sono sembrati propensi a sostenere. Neppure il

ritorno di Masino in Italia, o quanto ha detto nelle aule giudiziarie, può essere considerato un

complotto, semmai la logica conseguenza. Il complotto, a cui personalmente credo, ha assunto

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come sempre la forma della strage: è il "gran botto" di Capaci in cui hanno perso la vita Giovanni

Falcone, Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta, Montinaro, Schifani e Di Cillo, il 23

maggio 1992, quando Andreotti ancora rischiava di diventare il capo dello Stato. Un evento nefasto

per i nuovi equilibri internazionali o per i nuovi "assetti geopolitici", come si dice oggi. La strage di

Capaci, come tutte le stragi d'Italia, è stata un'operazione di guerra non ortodossa, che faceva parte

di un piano d'intervento di cui a tutt'oggi non si riesce a definire per intero le finalità ma che

certamente era destinato a riequilibrare i poteri in un paese che manteneva un ruolo strategico nel

destino del Mediterraneo. Un paese a sovranità limitata, com'era stato dalla fine della seconda

guerra mondiale e come continuava ad essere.

Dunque, gli eventi che hanno caratterizzato la fine degli anni Ottanta, a partire dallo "strappo" di

Sigonella fino alle imprevedibili rivelazioni di Andreotti sul ruolo di Gladio, già prefigurano il

tramonto della Prima Repubblica. Una partita titanica che ha visto per protagonista proprio

Andreotti, uomo troppo accorto e informato per non capire che la fine della guerra fredda avrebbe

avuto conseguenze immediate sulla politica italiana, oltre che sul suo personale destino. Con la

caduta del Muro di Berlino non stava affatto per cominciare la nuova era della pace mondiale, ma un

lungo periodo di destabilizzazione che avrebbe trasformato il mondo in un immenso campo di

guerra. In questo nuovo contesto, la politica estera dell'Italia doveva restare fortemente ancorata

agli interessi americani, ancor più che nel passato: non c'erano più spazi per manovre trasversali. E

la fine del comunismo era un'ottima occasione per assimilare nel progetto, neutralizzandola, anche

la nuova sinistra democratica.

Cosa sia avvenuto nell'ultimo decennio, nell'era post democristiana, e cosa stia avvenendo oggi,

abbiamo indicazioni ancora troppo esigue per dirlo. Certo, a partire dal '94 abbiamo visto realizzarsi

almeno parzialmente quel progetto che conoscevamo come Piano di Rinascita Nazionale. Sì,

proprio quello che il divino Licio, dal suo rifugio all'estero, ha avuto l'accortezza di farci ritrovare

nella valigia della figlia Maria Grazia. Un piano che prevedeva la fine dei partiti e la nascita di

un'Italia bipolare e presidenziale cui erano interessate forze italiane e straniere; e in questi ultimi

tempi il ruolo dell'Italia nella guerra in Iraq, i contrasti con la comunità europea, il sostegno ad ogni

operazione bellica del governo Bush dimostrano come il "lucido manovratore" avesse visto giusto.

Quando in un giorno di mezz'estate del 1990 ha svelato i piani e gli apparati della guerra segreta,

Andreotti aveva forse intuito cosa si stava preparando e il suo pragmatismo lo aveva spinto ad agire

nell'immediato progetto di assumere lui, con la nomina anticipata a presidente della Repubblica,

quelle leve di comando che avrebbero potuto dare un corso diverso agli eventi. Ma non gli è stato

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possibile.

Il dopo Andreotti non è stato così lineare per chi in questi anni ha preso il suo posto, sia a destra che

a sinistra. Molti ex democristiani, di gran lunga i più capaci all'interno di una nuova classe dirigente

scadente e rappezzata, sono sopravvissuti e scalpitano alla ricerca di nuovi spazi. Ma con Andreotti

metà assolto e metà condannato non c'è per ora il rischio che il passato ritorni.

Allora, direte, Andreotti alla fin fine è innocente? È stato un grande manovratore, fin quando gli è

stato consentito; poi anche a lui è toccato il ruolo di pedina? Se fu un abile e cinico impostore o un

grande politico vittima della Ragion di Stato, non lo sapremo mai. Se ne andrà in silenzio, con i suoi

piccoli passi felpati, verso il giudizio di Dio. Quanto alla Storia, forse di lui parlerà in un breve

paragrafo, o invece in una nota a pie di pagina, per via di alcuni strani delitti di fine millennio che

non hanno mai trovato soluzione.

Appendice

Misteri e certezze Intervista a Giovanni Pellegrino L'avvocato Giovanni Pellegrino è stato senatore

dei DS dal 1990 al 2001. In questi undici anni è stato presidente della Giunta per le autorizzazioni a

procedere del Senato e poi, dal 1994 al 2001, per due legislature consecutive, ha presieduto la

Commissione Parlamentare d'Inchiesta sulle Stragi e sul Terrorismo. Due incarichi che, in più

occasioni, gli hanno imposto di occuparsi di Andreotti o di vicende collegate ai processi di cui è

stato protagonista in questi anni il senatore a vita. Come presidente della Giunta si è trovato a

decidere se concedere o meno l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Nella veste di

presidente della Commissione Stragi ha ricostruito gli avvenimenti che per decenni hanno

insanguinato l'Italia, le infinite trame che hanno avvolto il nostro paese, dal caso De Lorenzo fino al

delitto Moro. Vicende all'interno delle quali il nome del sette volte presidente del Consiglio è

ricorso più volte. E grazie al lavoro della Commissione Stragi, da lui presieduta, che alla fine degli

anni Novanta, è stato almeno incrinato quel "muro di gomma" che ha impedito, per oltre vent'anni,

di dare una spiegazione a molti misteri. Il senatore Pellegrino ha saputo maneggiare questo

materiale incandescente con spirito garantista e con l'intelligenza di chi, nell'affrontare le

emergenze della vita e della politica, va alla ricerca del loro significato più profondo. Nel 2001 non si

è ripresentato alle elezioni ed è tornato a fare l'avvocato amministrativista nel suo studio a pochi

metri da piazza del Pantheon. Una vicinanza al Senato che sottolinea lo stretto legame che esiste

ancora per lui tra l'impegno politico e quello professionale. Nel concludere la sua esperienza

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parlamentare ha detto di voler consegnare il risultato del suo lavoro sulle stragi, e la sua proposta di

una nuova chiave di lettura del caso Moro, più alla storia che alle aule di tribunale dicendosi

convinto che per chiudere quella stagione di sangue è necessario garantire il perdono e l'impunità a

quanti finora hanno taciuto o mentito perché solo in questo modo sapremo finalmente la verità.

Presidente, il processo ad Andreotti è finito o almeno è finito il processo di merito, quello che si è

svolto in questi dieci anni nelle aule di giustizia. La vicenda si è conclusa con sentenze e giudizi

contrastanti che non hanno fatto ancora chiarezza sulle responsabilità del senatore. È rimasto

deluso? No, era in parte scontato che sarebbe stato molto difficile arrivare a una verità giudiziaria, di

piena colpevolezza o di piena innocenza, attraverso la ricostruzione di vicende storiche e politiche

così complesse e lontane nel tempo. Anche se non è confortante pensare che, dopo indagini

lunghissime, i giudici siano arrivati a una valutazione poco diversa da quella che avevamo dato noi,

dieci anni fa, quando ritenemmo che, se c'erano elementi che portavano a escludere il carattere

persecutorio dell'inchiesta, questi erano comunque insufficienti a fondare una condanna e tali,

forse, da sconsigliare persino una richiesta di rinvio a giudizio. Il processo ad Andreotti non è stato

un teorema, lo dico subito: nelle carte che arrivarono da Palermo venivano contestati degli elementi

fattuali, che dovevano essere approfonditi e chiariti. D'altro canto il senatore almeno inizialmente

non si avvalse dell'immunità parlamentare, ma neppure la rifiutò. In qualche modo disse a noi della

Giunta: decidete voi. Poi in aula, dopo le polemiche seguite alla vicenda Craxi, prese la parola per

primo e chiese che l'autorizzazione a procedere venisse concessa.

Ripeto: gli atti erano sufficienti a giustificare e a rendere dovuta l'apertura di un'indagine. Non

poteva il Senato impedire il processo perché questo avrebbe assunto un significato politico negativo.

La responsabilità tornava alla magistratura. Sono però personalmente convinto che il pubblico

ministero dovrebbe comportarsi come un attomey americano: se l'indagine al suo termine non offre

circostanze probatorie che diano una ragionevole possibilità di successo per l'accusa, allora

dovrebbe avere il coraggio di concludere per l'archiviazione.

Ma avrebbe avuto rilevanza politica anche una decisione rinunciataria da parte della magistratura.

In che modo i PM avrebbero potuto fare ricorso ai pentiti, in altri processi, se per Andreotti non

fossero stati creduti? E come potevano ignorare la chiamata in causa da parte di Buscetta per

omicidio? Quando è arrivata questa seconda accusa ho pensato: se un uomo come Andreotti, che è

stato sette volte presidente del Consiglio e più volte ministro della Difesa, è talmente mafioso da

fidarsi più di Cosa Nostra che di tutti gli altri poteri che controlla, per mettere a tacere un

giornalista, allora il reato di cui è responsabile non è associazione mafiosa, ma alto tradimento nei

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confronti dello Stato. E va giudicato in unico grado dalla Corte Costituzionale, costituita in Alta

Corte. Si sarebbe così evitata la schizofrenia dei due processi, l'uno a Palermo, l'altro a Perugia, che

si sono chiusi in appello con due statuizioni gravemente contraddittorie.

Tuttavia la sentenza d'appello del Tribunale di Palermo potrebbe riservare delle sorprese, quando

leggeremo le motivazioni.

Si vedrà. Per il processo di Perugia, che conosco meno di quello di Palermo, avevo letto a suo tempo

con attenzione la richiesta di rinvio a giudizio del PM di Roma Giovanni Salvi, che per il delitto

Pecorelli delineava due scenari, in qualche modo contrapposti: uno si fondava sull'asse Andreotti, i

cugini Salvo, Badalamenti; l'altro era più romano, coinvolgeva Vitalone e la Banda della Magliana.

La Procura di Perugia decise di unificarli all'interno di un'unica ricostruzione dei fatti, mettendo

insieme il caso Italcasse, dal quale emergeva che erano in corso trattative di carattere economico

(per evitare che Pecorelli pubblicasse alcuni articoli), e la vicenda Moro indicata da Buscetta. La

Procura umbra non ha privilegiato alcuna ipotesi, ha messo tutto insieme. La Corte d'Assise

d'Appello ha ritenuto che per lo scenario romano non sussistessero prove, mentre ha salvato lo

scenario siciliano credendo a Buscetta, con il risultato singolare che dell'omicidio Pecorelli si

conoscerebbero soltanto le responsabilità di Andreotti e Badalamenti mentre resterebbero ignoti i

passaggi ulteriori e persino l'identità degli esecutori.

Ricordo che ci fu un duro scontro all'interno della Giunta sulla decisione di autorizzare il processo

palermitano nei confronti di Andreotti. Come andarono le cose? Fu una decisione lacerante per

tutti. I fatti contestati erano particolarmente gravi e la scelta di impedire l'indagine giudiziaria nei

confronti di Andreotti avrebbe avuto ricadute su altre richieste nei confronti di altri politici. Riuscii

a convincere la DC della necessità che l'eventuale prosecuzione dell'indagine fosse frutto di una

scelta palese. Per questo misi ai voti per primo il diniego all'autorizzazione. Sulla stessa non si

formò una maggioranza; e quindi per regolamento veniva a formarsi automaticamente una proposta

di autorizzazione a procedere, che in aula fu approvata con pochissimi voti contrari, dopo che lo

stesso Andreotti chiese per primo che la proposta della Giunta venisse approvata.

Ci furono altri momenti di tensione all'interno della Giunta? Sì, quando il procuratore di Palermo,

Giancarlo Caselli, ci inviò gli atti relativi al famoso incontro tra Andreotti e Totò Riina in casa di

Ignazio Salvo e cioè la deposizione di Balduccio di Maggio. Quest'ultimo aveva fatto il nome del

custode dello stabile, che si chiamava Paolo Rabito, ma questo nome nelle carte a noi inviate era

coperto da un omissis. La Giunta a stretta maggioranza chiese a Caselli di conoscere quel nome, per

valutare l'attendibilità della testimonianza di Di Maggio. Caselli ci inviò il nominativo in una busta

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sigillata, ovviamente impegnandoci al segreto. Personalmente vissi quel momento con grande

preoccupazione, perché ritenevo che, se il nome fosse stato rivelato, Rabito potesse correre qualche

rischio. Riuscii a convincere i colleghi della Giunta che non era il caso di assumerci questa

responsabilità e quindi li convinsi a restituire alla Procura di Palermo, senza averla aperta, la busta

sigillata che racchiudeva il segreto di quel nome. La mia preoccupazione non era infondata. Appresi

poi dalla stampa che era stata registrata una telefonata tra Rabito e la madre che lo scongiurava

dicendogli: «Scappa che sono arrivate le carte». Insomma, la donna metteva sull'avviso il figlio,

informandolo che gli atti erano arrivati al Senato, e gli consigliava di fuggire. C'è però un ulteriore

particolare, che non ho mai rivelato. Caselli ci aveva inviato un'altra busta che ugualmente non

aprimmo e gli restituimmo. Dalla sua intestazione, però, risultava che la stessa conteneva una

planimetria dei luoghi palermitani circostanti la casa di Ignazio Salvo; e quindi forse dei possibili

itinerari per raggiungerla. A quanto rammento, questo particolare aspetto indagativo nel processo

palermitano non è mai venuto in luce.

Andreotti è colpevole o innocente? L'interrogativo non sembra aver trovato risposta nel processo,

neppure nelle sentenze assolutorie. Perché? Perché la verità giudiziaria ha dei limiti ben precisi

costituiti dalla prova. Anche se la risposta giudiziaria su Andreotti, al processo di Palermo, ha

confermato l'esistenza di episodi, di intrecci, di relazioni che rendono ambiguo il suo rapporto con il

ceto politico siciliano. Sono rimasto particolarmente colpito dalla durezza di una quarantina di

pagine della sentenza di primo grado, quella del presidente Ingargiola, dove non vengono soltanto

contestati rapporti e incontri che il senatore ha sempre negato, come quelli con i Salvo e con

Sindona, ma si esprimono giudizi severi sulla sua condotta processuale quantificando il numero

delle sue bugie, mi sembra, in trentaquattro. Nonostante ciò, Ingargiola lo ha assolto, perché

evidentemente anche i fatti dimostrati non erano sufficienti a motivare una condanna.

Nella sentenza d'appello, di cui in questo momento non conosciamo ancora le motivazioni, il

giudice Scaduti ha spezzato in due il verdetto: ha prescritto il «reato commesso» fino alla primavera

dell'HO, confermando la sentenza assolutoria per gli anni successivi. Cosa significa questa

decisione? La Corte, a mio avviso, potrebbe aver dato soltanto una qualificazione diversa agli stessi

fatti che motivavano i dubbi del presidente Ingargiola, ritenendoli comunque coperti da

prescrizione. Ma potrebbe al contrario aver riconosciuto provato che Andreotti ha avuto rapporti

con esponenti della mafia "palazzinara" degli anni Settanta, che viene dopo la mafia contadina, ma

non è ancora la mafia della droga. Sarebbe come dire che la giustizia è arrivata in ritardo. Bisognerà

leggere attentamente la motivazione. Certamente la prescrizione del reato è per l'imputato

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peggiorativa rispetto all'assoluzione con formula dubitativa, perché sottolinea il significato di

Appendice «non punibilità» rispetto a quello di «non colpevolezza». Comunque resta confermato

che il giudizio su Andreotti dovrà darlo la storia, come ho sempre pensato.

Il processo Andreotti ha assunto in questi anni un significato storico di assoluzione o di condanna,

che non riguarda più il senatore, ma l'intera Democrazia Cristiana che, a seconda del verdetto finale

della Cassazione, potrebbe risorgere o non risorgere. Questo teorema arriva a mettere in discussione

l'impianto dell'accusa che, secondo gli ex DC, era volto a colpire non soltanto Andreotti ma l'intera

classe politica della Prima Repubblica. E condivisibile questa equazione? Uno dei libri più

interessanti che ho letto recentemente l'ha scritto Ugo Intini. L'ex parlamentare socialista, che era

molto vicino a Bettino Craxi, propone una lettura inedita e intelligente delle vicende italiane di fine

millennio, inserendole in un processo di ridefinizione geopolitica mondiale: la liquidazione della

classe politica della Prima Repubblica andrebbe letta alla luce di un tacito patto tra magistratura e

grande impresa dal quale sarebbe scaturita anche in altre parti del mondo la stagione "giustizialista".

La messa sotto accusa della politica consentiva a entrambe le parti di assumere un ruolo più attivo

nel mondo del mercato globalizzato, sul presupposto che questo non ha bisogno di essere diretto

dalle scelte discrezionali della politica, ma necessita soltanto di poteri arbitrali, che presiedono al

rispetto delle regole.

Ma anche le imprese furono penalizzate da Tangentopoli: non è stato un prezzo troppo alto da

pagare alla liquidazione della politica? Non mi sembra che la grande impresa abbia pagato prezzi

alti. Guardiamo come i media hanno seguito le vicende di Tangentopoli: le televisioni di

Berlusconi, non diversamente dai giornali della grande stampa, a partire dal «Corriere della Sera»,

erano tutte schierate con Di Pietro e la Procura di Milano. Titoli a nove colonne, assoluta

attenzione dei telegiornali. I grandi gruppi economici vedevano di buon occhio la messa sotto

accusa della classe politica, almeno nella prima fase. E stato dopo, quando Berlusconi è entrato in

politica, che la magistratura ha messo sotto tiro anche lui perché in qualche modo aveva rotto il

patto anteriore. Tanto è vero che Berlusconi propone a Mani Pulite un nuovo patto, quando chiede

a Di Pietro di entrare nel suo primo governo. Un patto che Di Pietro rifiutò. Certo è un'analisi

molto complessa, che qui ho soltanto abbozzato e che meriterebbe una riflessione ulteriore.

Allora parliamo del complotto... Andreotti ha più volte alluso nel corso del processo a un piano per

eliminarlo dalla scena politica. Lei sembra propendere per uno scenario interno: la nascita di una

nuova classe politico-imprenditoriale, che decide di farsi protagonista, di gestire i propri interessi

direttamente scavalcando i partiti. È cosi? Non voglio delineare grandi scenari. Gli americani, la

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CIA, la caduta del Muro di Berlino... lo stesso Andreotti non è andato al di là di qualche allusione.

Il mutato quadro internazionale ha certamente fatto da sfondo ai cambiamenti radicali avvenuti in

Italia nei primi anni Novanta, ma occorrerebbero elementi più concreti per ipotizzare un complotto

ai danni di Andreotti o della DC o dell'intera classe politica. Diciamo che è più semplice individuare

la nascita di forti interessi, che avevano bisogno per affermarsi di arrivare a un nuovo ordine

istituzionale, a un diverso equilibrio tra i poteri dello Stato. Non è un fenomeno che ha interessato

soltanto l'Italia: se guardiamo ai conflitti che sono in atto nel mondo vediamo che le guerre, che

dovrebbero produrre il nuovo equilibrio mondiale, non sono più tra Est e Ovest, ma tra Nord e Sud:

allo scontro ideologico tra sistemi politici si è sostituito quello sulla gestione delle risorse

economiche. Al mondo arabo, portatore di immense ricchezze come il petrolio, non sono interessate

le Grandi Potenze nell'accezione che abbiamo sempre dato a questa definizione, e cioè gli Stati o i

governi che le rappresentano, piuttosto dobbiamo guardare ai gruppi economici che sono dietro gli

Stati. E un discorso che si era già aperto con il sequestro Moro: ritengo che la sua politica filoaraba

apparisse a molti già alla fine degli anni Settanta, più pericolosa del compromesso storico.

Il movente del sequestro Moro, ma soprattutto il movente dell'omicidio Moro: buona parte del

processo di Perugia ci induce a cercare nei segreti che Pecorelli conosceva e che hanno motivato il

suo omicidio addebitato ad Andreotti. A quali conclusioni arrivò la Commissione Stragi? Alcuni

testimoni che abbiamo ascoltato, Corrado Guerzoni ad esempio, si sono detti convinti che il

sequestro Moro sia stato un sequestro in appalto, voluto dalla CIA perché Kissinger osteggiava

fortemente il presidente DC. Ed è questa una linea ampiamente condivisa in alcuni ambienti del

mondo cattolico. Che Moro fosse inviso a una parte dell'amministrazione americana e ad ambienti

dell'oltranzismo atlantico è fuor di dubbio. Era odiato per la sua politica filoaraba e di apertura al

PCI: anche questa non è una novità. Dico più per la politica filoaraba che per il compromesso

storico; non a caso l'ammiraglio Fulvio Martini ci ha assicurato che l'ingresso del PCI nel governo

italiano veniva sì vissuto, in ambito NATO, come un problema, ma poteva essere sufficiente a

risolverlo una riforma della Presidenza del Consiglio. I risultati della nostra indagine, nonostante

alcuni interessanti sviluppi, non hanno però portato elementi che possano farci dire con certezza

che fu la CIA a organizzare il sequestro o a volere Moro morto. Resto convinto che le Brigate Rosse

siano state un fenomeno autenticamente italiano, anche se è possibile - anzi mi stupirei del

contrario - che durante il sequestro Appiedici-: i servizi americani, quelli NATO come anche il

KGB si siano messi in contatto con i brigatisti direttamente o attraverso intermediari. Anche nei

primi anni Settanta il Mossad contattò le Brigate Rosse, attraverso un esponente socialista

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milanese: a quanto ci ha raccontato l'ex capo BR Alberto Franceschini il servizio segreto israeliano

offrì appoggi senza alcuna contropartita affermando: «A noi basta che esistiate»; perché ciò che al

Mossad interessava, a detta di Franceschini, sarebbe stato il permanere in Italia di una situazione di

instabilità, che agli occhi dell'alleato americano avrebbe esaltato l'importanza strategica di Israele

nello scacchiere del Mediterraneo.

Parliamo del secondo movente: perché è stato ucciso? Il problema si è posto il 29 marzo 1978

quando le BR nel Comunicato numero 3 pubblicano la lettera di Moro a Cossiga in cui l'uomo

politico prigioniero segnalava al Governo l'opportunità di una trattativa, visto che nel "processo",

cui era sottoposto quale presidente della DC, poteva essere indotto a rivelazioni che avrebbero

potuto ledere il prestigio del partito o anche determinare rischi per la sicurezza dello Stato. Il

Comunicato numero 3 si apre con l'affermazione che il processo continuava con la piena

collaborazione del prigioniero. É a quel punto che la vicenda subisce una evidente torsione, perché è

comprensibile che un allarme sorgesse nelle istituzioni, negli apparati, nel mondo politico per ciò

che Moro avrebbe potuto rivelare alle Brigate Rosse. Per questo più che al doppio sequestro [di

Moro e delle Carte, N.d.A.] ovvero al doppio delitto [delle BR e di mandanti esterni, N.d.A.], che

restano ipotesi possibili ma non ancora verificate, è più realistico pensare allo stato delle

acquisizioni attuali a un "doppio ostaggio" nelle mani delle BR: la vita di Moro e i segreti che Moro

avrebbe potuto rivelare alle BR. Una seconda torsione della vicenda fu determinata con il

Comunicato numero 6 del 15 aprile 1978, che è quello con cui le BR da un lato annunciano che il

processo si era concluso con la condanna a morte del prigioniero, dall'altro comunicano che

contrariamente a quanto precedentemente annunciato le rivelazioni di Moro, che ne avevano

determinato la condanna a morte, non sarebbero state rese pubbliche, ma sarebbero rimaste nella

disponibilità esclusiva dell'organizzazione clandestina. Chiaramente si lancia una doppia trattativa.

La prima sulla possibile liberazione del condannato, l'altra sulla consegna della documentazione,

cui erano affidati i segreti che Moro aveva rivelato ai suoi carcerieri. Per questo, dopo l'esecuzione di

Moro, per il sistema divenne importantissimo recuperare le carte dello statista e cioè sia i documenti

contenenti le risposte che Moro aveva dato alle domande delle BR, sia i documenti riservati che

Moro aveva con sé al momento del sequestro o che a Moro potevano essere pervenuti durante il

sequestro attraverso il cosiddetto "canale di ritorno". Il generale Dalla Chiesa quando fu sentito

dalla Commissione Moro sottolineò l'importanza del ritrovamento nel covo delle BR in via

Montenevoso a Milano di documentazione relativa al sequestro. Il generale sottolineò anche che

tale documentazione non era completa e pose in termini interrogativi il problema di «chi aveva

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potuto recepire tutto ciò». E Sciascia, che era membro della Commissione, chiosò dicendo: «Sono

contento che Lei si ponga questo interrogativo». Credo che se Dalla Chiesa fosse stato ancora vivo

ci avrebbe aiutato a far chiarezza su questo aspetto della vicenda.

Dalla Chiesa invece è stato ucciso, come Pecorelli, e questo è il mistero dei misteri del delitto Moro.

Un mistero che è ricaduto su Andreotti, anche se neppure il processo di Perugia è riuscito a farci

sapere con esattezza quali fossero le carte che il giornalista stava per pubblicare. Quale idea si è fatta

del loro contenuto esplosivo? Più o meno quella suggerita da Dalla Chiesa. Si trattava certamente di

documentazione sensibile e cioè tale da allertare i timori dei servizi segreti occidentali e gli appetiti

del KGB e di altri servizi segreti dei paesi del Patto di Varsavia: cecoslovacchi, rumeni, bulgari.

Sappiamo che il servizio segreto bulgaro era abbastanza attivo e che già negli anni precedenti aveva

tentato un approccio con i brigatisti. Il fatto che alcuni documenti non siano più stati trovati fa

pensare che buona parte del materiale sia stata recuperata almeno da una delle due parti in causa, o

almeno in parte da entrambe. Certamente sono sparite le bobine e i nastri, le registrazioni filmate e

quelle vocali, gli originali dei documenti scritti da Moro. La strategia fu duplice: da un lato i servizi

segreti orientali che si posero l'obiettivo di carpire questi segreti, dall'altro l'intelligence occidentale

che tentò di coprirli, perché se Moro aveva detto qualcosa di pericoloso andava neutralizzato

rapidamente, acquisendo tutte le carte senza lasciarne in giro neppure una, oppure soltanto quelle

meno pericolose.

Per quale motivo Moro ha parlato, visto che è stato così controproducente per la sua salvezza? Moro

era convinto che la sua lettera a Cossiga non sarebbe stata divulgata all'esterno; cosa che invece

Moretti fece subito, di fatto ostacolando la trattativa o meglio rendendola più complessa, perché da

quel momento in poi necessariamente riguardava entrambi gli ostaggi. Le istituzioni reagirono

affermando che Moro non aveva grandi rivelazioni da fare, che non era al corrente di segreti

sensibili; ma si trattò di un palese espediente di disinformazione certamente giustificato dalla

delicatezza del momento. Recentemente Cossiga in un'intervista televisiva ha ammesso

esattamente il contrario, quando ha riconosciuto che Moro, assai più di altri leader democristiani,

era in possesso di segreti sensibili. L'ammiraglio Fulvio Martini, una sera a casa sua, di fronte a un

abbondante bicchiere di whisky, mi confidò un segreto dal quale mi sentii svincolato solo dopo che

Martini ne parlò anche a Maria Antonietta Calabrò in un'intervista apparsa sul «Corriere della

Sera»: durante i cinquantacinque giorni dalla cassaforte del ministro della Difesa Attilio Ruffini

sparì un fascicolo importantissimo che conteneva i piani di Stay Behind; un segreto sensibile che

riguardava non soltanto l'Italia, ma tutti i paesi NATO. Sul punto si accese tra Martini e Ruffiniun

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contrasto così aspro che fece maturare nell'Ammiraglio la decisione di lasciare il SISMI, cosa che

avvenne nei mesi successivi. I documenti di Stay Behind dopo un poco misteriosamente

ricomparvero nella cassaforte del ministero. Martini si domandava se qualcuno li avesse fotocopiati

e se quelle carte fossero state recapitate ai carcerieri di Moro.

Lei ha sempre distinto tra le Brigate Rosse prima di Moretti e le Brigate Rosse dopo Moretti. Cosa

intendeva dire? Questa era una convinzione di Dalla Chiesa, che in seguito molti altri hanno fatto

propria. La frase poteva significare almeno due cose: la prima era che Mario Moretti fosse un

rivoluzionario di spessore superiore, un cervello fine oltre che un capo militare, e quindi un

personaggio in grado di elevare la capacità offensiva delle Brigate Rosse. La seconda disegnava

Moretti come una figura ambigua del terrorismo rosso, l'uomo di contatto con qualcosa che stava al

di sopra delle BR: i servizi segreti o quella tecnostruttura che nei misteri italiani incontriamo sotto

vario nome, dove terrorismo rosso e terrorismo nero finivano per incrociarsi. La fama che circonda

Moretti è quella di un capo militare efficiente, ma culturalmente rozzo. E un errore: chi lo ha

conosciuto, tra questi anche Dalla Chiesa, ne parla come di un uomo dallo spessore culturale

notevole. Certo, rispetto a Curcio, era più operativo. Il famoso Frate Mitra che Dalla Chiesa infiltrò

nel nucleo nascente delle Brigate Rosse, ovvero Silvano Girotto, raccontò un episodio significativo

che ben descrive le personalità dei due brigatisti messe a confronto: Moretti una volta disse: «Il

nostro animo rivoluzionario è così forte che nelle nostre mani le pistole sparano da sole». E Curcio

ironicamente replicò: «Peccato che qualche volta sparano sui nostri piedi, visto che non le sappiamo

usare...».

Nonostante il sospetto che Moretti sia sfuggito, non del tutto casualmente, all'arresto in cui invece

incapparono sia lui che Franceschini, Curcio ha sempre avallato l'autenticità delle Brigate Rosse

fino a rivendicare dal carcere l'uccisione di Moro che definì, se ben ricordo, il «più alto atto

rivoluzionario mai compiuto da un'organizzazione comunista». Come lo spiega? Curcio non ha mai

voluto essere interrogato, ma nei suoi scritti manda qualche segnale, lascia intravedere una sorta di

patto implicito tra le BR e altri poteri. In Commissione abbiamo fatto di tutto per far luce su quelle

che il capo delle BR definisce «cose che noi non riusciamo a dire perché non abbiamo le parole o le

prove per dirlo, ma che tutti sappiamo». In altri passaggi Curcio si domanda: «Perché ci sono tante

storie in questo paese che vengono taciute e che non potranno essere chiarite per una specie di

sortilegio? Come piazza Fontana, come Calabresi, che sono andate in un certo modo e che per

venture della vita nessuno può più dire come sono veramente andate. Sorta di complicità tra noi e i

poteri, che impediscono ai poteri e a noi di dire cosa è veramente successo [...] in quella parte degli

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anni Settanta, quella parte di storia che tutti ci lega e tutti ci disunisce». Forse per capire a cosa

Curcio allude dovremmo conoscere il nome dei tanti intellettuali altoborghesi, uomini inseriti nel

mondo economico, politico, imprenditoriale, insomma più delle Brigate Rosse, per capire se vi fu

un'utilizzazione dell'organizzazione terrorista e di quale tipo. Credo che proprio sul sequestro Moro

gravi ancora quel patto del silenzio tra le BR e i settori dirigenti del paese, tra le BR e le-istituzioni.

C'è un'area di opacità, di invisibilità che deriva dal permanere di una sua "indicibilità".

L'Hyperion fa parte di quest'area di opacità e di indicibilità che avvolge le relazioni esterne delle

brigate Rosse? L'Hyperion è uno dei grossi nodi con cui in Commissione ci siamo misurati per sei

anni, senza giungere a risultati soddisfacenti. Sappiamo che la scuola francese era stata fondata

anche su impulso di personaggi che avevano partecipato al convegno di Chiavari, nel '69,

organizzato dal Collettivo Politico Metropolitano che segnò la nascita delle Brigate Rosse. Erano

Vanni Mulinaris, Corrado Simioni e Duccio Berio, genero di Alberto Malagugini, un esponente di

primo piano del PCI. Gli stessi fondarono il Superclan, e questo è importante: Franceschini ad

esempio ha raccontato che l'Hyperion non guidava le BR, ma aveva uno stretto rapporto con Mario

Moretti fin dall'inizio. Detto questo, continuo a nutrire una serie di dubbi e nessuna certezza:

Yécole ha certamente goduto della protezione di apparati istituzionali, non solo italiani. Quando il

giudice Guido Calogero andò a Parigi per indagare su questa struttura ottenendo la collaborazione

della polizia, Silvano Russomanno, il numero due di Federico Umberto D'Amato, fece filtrare la

notizia sui giornali. Il personale dell'Hyperion sembrava avere una matrice di sinistra, ma a un

livello superiore di responsabilità è possibile che sia stata gestita quella tecnostruttura, come la

chiama Franceschini, di cui facevano parte elementi che avevano poco a che fare con la sinistra. Il

generale Maletti ha rivelato l'esistenza di un vecchio rapporto che risale al '75-76, in cui denunciava

il rischio che le BR potessero rinascere sotto la direzione di uomini di maggior peso culturale, ma a

prezzo di mutare considerevolmente la propria matrice politica. E credo che facesse riferimento

proprio all'Hyperion.

E qual è stato il ruolo del KGB e dei paesi dell'Est nella nascita delle BR e nel sequestro Moro?

Appendice Anche su questo punto molti dubbi e nessuna certezza. Oggi sappiamo - la conoscenza

ci viene dalla lettura del dossier Mitrokhin - che il KGB avrebbe avuto un ruolo nella campagna che

tendeva ad addebitare l'intera responsabilità dell'operazione delle BR ai servizi segreti occidentali.

L'archivista del KGB sostiene che non si trattò di un'operazione di controinformazione sulle

presunte responsabilità della CIA, ma di una vera e propria campagna di disinformazione che

serviva ad allontanare i sospetti dal proprio operato. Ad esempio uomini di Prima Linea e delle

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Brigate Rosse erano stati addestrati in Cecoslovacchia: non ci è noto chi siano, ma è certo che sia

avvenuto. Il primo a sospettarlo fu il PCI. Questa attività dei servizi cecoslovacchi non era gradita al

KGB; anche la Cecoslovacchia come l'Italia soffriva di un limite di sovranità. Mosca si mostrava

preoccupata per le eventuali ripercussioni che notizie del genere potevano avere sul PCI e sulla sua

area di consenso.

Nel periodo del sequestro il ruolo del KGB si è davvero limitato alla disinformazione? No, erano

evidentemente molto interessati alle rivelazioni fatte da Moro, soprattutto quelle relative ai segreti

militari e a Stay Behind. Una delle osservazioni più interessanti le ha fatte, durante la sua audizione,

l'ex ministro socialista Claudio Signorile. Ci disse che, anche a voler credere che le BR rapirono

Moro di propria iniziativa, seguendo un proprio disegno politico (cosa che Signorile non escludeva

affatto), sarebbe stato colpevolmente ingenuo credere che tutti i servizi del mondo non si fossero

attivati una volta che in una frontiera delicata come l'Italia un gruppo terrorista aveva rapito e

teneva in ostaggio il più importante uomo politico del paese. In un'analisi assai lucida Signorile

aggiunse che il compromesso storico era stata la risposta alla strategia della tensione e che la morte

di Moro mise in crisi quella risposta. È pur vero che il terrorismo rosso fu sconfitto anche per la

capacità di tenuta del PCI, che seppe creare un argine attorno alle Brigate Rosse, isolandole

politicamente, sia pure a prezzo di qualche bugia: aveva ragione Rossana Rossanda a sostenere che

le BR facevano parte dell'album di famiglia; il PCI lo sapeva bene ma Berlinguer, se voleva togliere

acqua al loro mulino, doveva sostenere che i brigatisti erano fascisti rossi. Certamente i vertici del

PCI avevano contatti riservati con settori dei servizi d'intelligence, rapporti che erano tenuti dai

senatori Pecchioli e Arrigo Boldrini e che consentivano loro di essere tempestivamente informati

quando, in occasione dei tentati golpe, conveniva dormire fuori casa. Signorile, che come sappiamo

è stato uno dei protagonisti della trattativa avviata da Craxi con il leader di Potere Operaio Franco

Piperno, si è detto convinto che il sequestro sia durato tanto a lungo perché tutti i servizi

d'intelligence furono in qualche modo coinvolti...

Vuoi dire che con la caccia alle carte segrete si era aperta una partita che non poteva essere chiusa fin

quando tutte le parti in causa non avessero dal loro punto di vista risolto la questione? Esattamente.

Fu ancora Signorile a farci riflettere sul fatto che, nel famoso fumetto pubblicato su «Metropoli»,

tutti i protagonisti del sequestro Moro avevano un volto che consentiva di identificarli. Tutti tranne

uno: l'interrogante. Il motivo, disse, non era dovuto alla necessità di proteggere l'interlocutore di

Moro, ma al fatto che non si trattava di un soggetto unico, una persona in carne e ossa, ma di

un'entità collettiva. Le "intelligenze" interessate ad avere risposte erano dunque molteplici; questo

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spiega anche la pluralità degli argomenti affrontati, dei retroscena politici indagati, che poco o nulla

interessavano alle Brigate Rosse, ma riguardavano problematiche, scandali e segreti di Stato di cui

gli appartenenti all'organizzazione terroristica non erano neppure a conoscenza. È stato Maccari, il

quarto uomo di via Montalcini, identificato negli ultimi anni, a raccontarci come in una prima fase

l'interrogatorio fosse soltanto registrato. Erano lui e la Braghetti a trascriverne il testo

dattilografandolo. Ma la trascrizione risultava difficoltosa e imprecisa, perché non avevano un

registratore professionale, così decisero di chiedere a Moro delle risposte scritte.

Non sarà perché l'Entità interrogante non si fidava delle loro rielaborazioni? Morucci ha più volte

detto che Moretti arrivava con le domande già scritte e portava i verbali con le risposte di Moro

all'esterno: per la complessità degli argomenti trattati forse il committente considerava i giovani

brigatisti non all'altezza del compito e preferiva risposte scritte direttamente da Moro, di suo pugno.

Sappiamo che la Commissione è riuscita a identificare il luogo dove Moretti si recava

settimanalmente: era a Firenze il luogo di incontro tra il capo delle BR e il "livello superiore"

dell'organizzazione, i membri del Comitato Rivoluzionario Toscano...

E così. L'appartamento era quello messo a disposizione del Comitato Esecutivo delle BR

dall'architetto Giampaolo Barbi, in via Barbieri, ed era stato già scoperto, nel corso delle indagini

sulle BR toscane, dal PM Gabriele Chelazzi, purtroppo recentemente scomparso. Il fatto che

questa scoperta strategica non sia stata comunicata ai magistrati romani non deve stupire: in quegli

anni mancava ogni sorta di coordinamento nelle indagini sul terrorismo. Anche Pomarici, che aveva

condotto il clamoroso ritrovamento delle carte di Moro in via Montenevoso, non sembrò

consapevole del significato di questa scoperta, perché le carte interessavano l'inchiesta romana: a lui

sembrò più importante che fosse stata smantellata la base logistica della colonna milanese. Così non

diede particolare rilievo al fatto che le carte, come ci riferì il colonnello Umberto Bonaventura, uno

degli uomini di Dalla Chiesa che fece irruzione nel covo, fossero uscite da via Montenevoso per poi

tornarci, prima che Pomarici le acquisisse. Per la verità in Appendice una recente polemica con

Sofri il magistrato milanese Spataro ha reso noto che, interrogato dall'autorità giudiziaria, il

colonnello Bonaventura, purtroppo scomparso, avrebbe rettificato sul punto la deposizione resa alla

Commissione Stragi, escludendo che le carte di via Montenevoso fossero state rimosse dal covo

prima di essere state sequestrate da Pomarici, per cui le fotocopie consegnate a Dalla Chiesa

sarebbero state fatte dopo e non prima del sequestro. Conoscendo Bonaventura, a me sembra

abbastanza strano che di propria volontà, e cioè senza essere pressato, abbia consegnato alla

Commissione un proprio falso ricordo. Resto convinto che tra le due discordanti versioni quella

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riferita alla Commissione sia quella vera.

Ci incrociamo nuovamente con il processo Andreotti. Secondo quei giudici le carte furono

esaminate da Dalla Chiesa, portate a Roma, sottoposte a Evangelisti e poi al presidente del

Consiglio, per qualcosa che riguardava proprio lui. Andò così? Non fu necessariamente un atto

illegittimo quello di Dalla Chiesa, anche se ci sono state notevoli polemiche, soprattutto da parte

del figlio Nando, nei confronti di qualunque organo giudiziario e parlamentare cercasse

legittimamente di capire come erano andate le cose. Al generale erano stati conferiti poteri speciali

che normalmente vengono attribuiti a un servizio segreto. E un servizio segreto, nel momento in cui

si imbatte in informazioni che riguardano la sicurezza dello Stato, può o forse deve sottrarli

all'autorità giudiziaria per proteggere la sicurezza dello Stato, ma ha l'obbligo di riferirli all'autorità

politica e cioè al presidente del Consiglio che in quel momento era Andreotti. Del resto, dal

confronto tra la versione del Memoriale del 78 e quella del '90, ritrovata dietro il pannello in

muratura in via Montenevoso, appare evidente che Moro aveva parlato della strategia della tensione

e del ruolo di Stay Behind, che fu un segreto rimasto per decenni gelosamente custodito, sino alla

nota rivelazione che Andreotti fece appunto nel '90. Nel testo che conosciamo Moro si limita a fare

delle allusioni. Ecco, credo che l'intervento di Dalla Chiesa sia stato quello di secretare la parte

relativa agli apparati di sicurezza NATO: se si è limitato a ciò, ha compiuto un atto legittimo

compatibile con il nostro ordinamento e con i poteri eccezionali di cui il Governo lo aveva dotato.

Non è questa la ricostruzione della magistratura di Perugia. Vediamo: l'inchiesta aveva come punto

di partenza l'omicidio di Mino Pecorelli e l'intreccio tra la tragica fine del giornalista e quella del

generale, entrambi a conoscenza dei segreti Moro. Uno di questi segreti riguardava la prigione

scoperta da Dalla Chiesa. L'altro era in quel centinaio di fogli del Memoriale, recuperato nel carcere

di Cuneo, che Pecorelli stava per pubblicare e che, come ha detto Buscetta, avrebbe distrutto la

carriera politica di Andreotti. Ma, come ci fa sapere la Banda della Magliana attraverso le schede di

Toni Chichiarelli, il dossier che aveva Pecorelli era stato censurato: mancavano alcuni paragrafi.

Quelli sullo Stay Behind o sul ruolo di Andreotti nella strategia della tensione? Se è così, sembrano

dedurre i giudici, il giornalista è stato ucciso perché a conoscenza non di segreti di Stato, ma di

segreti che riguardavano soprattutto Andreotti: forse le coperture offerte ai generali golpisti durante

la strategia della tensione. È giusta questa ricostruzione? È possibile, ma Andreotti ci ha detto di

non aver mai intrattenuto rapporti troppo intensi con i servizi segreti, anche se è stato più volte

ministro della Difesa. Ma può un ministro della Difesa non avere rapporti con i servizi segreti,

mentre avviene quello che avviene? Il problema sta qui. Fino al 74 Andreotti fa certamente parte, se

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non dei "conniventi", almeno degli "indulgenti" nei confronti delle trame golpiste e stragiste.

Appare in grado di muoversi con disinvoltura nei difficili frangenti di quegli anni, quando i regimi

di destra erano l'espressione di una determinata scelta internazionale nell'area del Mediterraneo.

Del resto conosciamo la sua finezza politica; lui non aveva alcun bisogno di dare ordini precisi, non

avrebbe mai fatto come il cardinale Richelieu nei Tre moschettieri: «È per mio ordine e per mia

disposizione che il latore della presente ha fatto ciò che ha fatto...». Preferiva restare nell'ombra,

non intervenire, lasciando la briglia sciolta agli uomini dei servizi che dice di aver frequentato

sempre poco, ma che evidentemente interpretavano il suo silenzio come un preciso segnale politico.

Poi nel 74 c'è la svolta: Andreotti capisce che l'aria è cambiata e interviene, riassume il controllo

delle forze cui aveva lasciato mano libera, liquida Miceli e poi Maletti, insomma riesce a fare quello

in cui l'apprendista stregone normalmente fallisce.

Forse perché non era un apprendista. Vediamo: nel '74 comincia l'operazione pulizia nei servizi

d'intelligence, Andreotti spiana il terreno alla riforma dei servizi segreti in nome di una nuova

glasnost. E ci ritroviamo con lo staff di "incompetenti", tutti iscritti alla P2, che gestiscono il

sequestro BR. Seconda fase, secondo problema: quali erano i rapporti tra Getti e Andreotti? A

Palermo non gli è stato difficile dimostrare che lui non rappresentava l'intera DC e neppure l'intera

classe politica, e insomma, se ci furono responsabilità politiche, debolezze o peggio connivenze con

la mafia, queste erano collettive. Quanto a Gelli e alla P2, penso che Andreotti ne fosse

perfettamente informato, ma lo erano quasi tutti i politici italiani. Cossiga e Craxi erano convinti

che Gelli non fosse il vertice politico della P2, ma soltanto il segretario amministrativo. Molti

hanno ritenuto che fosse Andreotti il vertice di quella Piramide indicata dalla Commissione P2 di

Tina Anselmi. Io ritengo che rapporti possano esserci stati, ma non credo siano ormai più

individuabili o perseguibili penalmente: se la P2 era davvero il grande porto dell'oltranzismo

atlantico, allora aveva bisogno soltanto di un comandante in grado di gestire il traffico dei natanti.

Bastava Gelli. Del re- Appendici-: sto Andreotti aveva rapporti diretti con gli USA, qualche volta

conflittuali, ma che non richiedevano l'avallo di alcun intermediario. Un intermediario del quale

peraltro sembrava avere non troppa stima.

Torniamo al Comitato Rivoluzionario Toscano, al covo di Firenze e ai suoi segreti: credo sia

importante sottolineare che, proprio a Firenze, sembra annidarsi ancora il "cervello" mai scoperto

delle brigate Rosse...

Quando nel '98, nel ventennale della morte di Moro, il presidente Scalfaro fece quella strana

allusione ad «altre intelligenze» che andavano cercate nella gestione del sequestro Moro, noi

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chiedemmo di incontrarlo e andammo al Quirinale. Ma l'esito dell'audizione si rivelò deludente, il

Presidente si limitò a dire che aveva rilevato un forte divario tra la personalità dei brigatisti arrestati

e il livello di chi poteva aver gestito l'interrogatorio; così si era fatto l'idea che si fossero presi

soltanto i colonnelli e non i generali. Ma da quel momento, per oltre due anni, lavorammo quasi

esclusivamente sui misteri del sequestro Moro, partendo proprio dall'interesse costituito dal

materiale cartaceo divenuto via via una ulteriore rilevante materia di scambio nella trattativa con le

BR. Il procedimento fu più o meno questo: le carte erano state trovate in via Montenevoso grazie al

borsello che il brigatista Lauro Azzolini aveva lasciato su un autobus della linea 28 a Firenze.

Quell'autobus faceva un certo percorso e scoprimmo che passava molto vicino a un covo delle BR,

perquisito dal PM Chelazzi nel dicembre 78. Dall'incontro con il magistrato venne alla luce che la

Procura di Firenze aveva individuato l'appartamento di via Barbieri come il possibile luogo

d'incontro del vertice esecutivo delle BR durante il sequestro Moro: Morucci ne aveva parlato ma

non conosceva l'indirizzo. Quel covo era l'unica base a disposizione del Comitato Rivoluzionario

Toscano, che in realtà raccoglieva un gruppo di ventisette militanti il cui identikit era piuttosto

diverso da quello dei brigatisti che conoscevamo. Erano in realtà degli "irregolari", di età superiore

ai trent'anni, noti professionisti, quasi tutti appartenenti all'alta borghesia fiorentina, la cui

preparazione culturale e la cui collocazione sociale erano di gran lunga superiori a quella dei

personaggi a noi noti...

livello superiore delle Brigate Rosse? Questo almeno era il sospetto. Scoprimmo che tra questi

ventisette irregolari c'era anche Paolo Baschieri, figlio di un luminare della medicina, che uscì di

scena pagando un piccolo conto alla giustizia, anche se era risultato intestatario di alcuni conti di

credito e cassette di sicurezza in Svizzera, che in quegli anni erano però davvero inarrivabili. Cosa

avremmo potuto trovare nelle cassette di sicurezza? Chissà, forse anche gli originali del Memoriale,

insieme alle bobine. Ma certamente c'erano molti soldi, i fondi cui attingevano le Brigate Rosse.

Forse anche quelli che avevano ottenuto in cambio di una copia del documento nel corso delle

molteplici trattative avviate durante il sequestro. Sono convinto che anche il KGB ne abbia avuta

una copia. Fatto sta che, proprio mentre indagavamo sul covo di Firenze, a Roma le Brigate Rosse

spararono a D'Antona e si scoprì che il nucleo tornato in azione era legato agli ultimi attentati

compiuti dalle BR, ovvero gli omicidi di Roberto Ruffilli a Forlì e Landò Conti a Firenze, che

riconducevano alla colonna toscana.

Nelle cassette in Svizzera c'era insomma il prezzo del silenzio imposto alle Brigate Rosse, denaro

che forse ha consentito all'organizzazione di sopravvivere fino a oggi. E un gruppo di intellettuali

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dell'alta società fiorentina aveva un tale peso da partecipare alle riunioni del Vertice esecutivo delle

BR dirigendo dall'alto il sequestro Moro. Ma non c'era anche Giovanni Senzani all'interno di

questa "struttura irregolare" dell'organizzazione terrorista? Senzani è la figura più atipica nel

panorama del terrorismo italiano. F un personaggio di alto livello culturale, ha una vastissima rete

di relazioni negli ambienti criminologici e universitari italiani ed esteri. Come Enrico Fenzi, il

cognato, che è stato docente di Letteratura italiana all'Università di Genova. Laureato in Legge a

Bologna, Senzani era borsista del CNR all'Università californiana di Berkeley, ha insegnato nelle

Università di Siena e di Firenze fino al gennaio 79 per poi trasferirsi a Londra, dov'è rimasto fino

all'ottobre '80. In quel periodo è stato consulente del ministero della Giustizia e ha avuto rapporti

intensi anche con le realtà periferiche dell'amministrazione della Giustizia. Negli stessi anni

risultava residente a Roma, in un appartamento in via della Vite, che divideva con un collaboratore

del SISMI, e a quanto ha raccontato dopo l'arresto un giovane brigatista, Roberto Buzzati, si

incontrava anche con il generale Musumeci. Il sospetto che Senzani, sin dal suo ingresso nelle BR

databile attorno alla metà degli anni Settanta, fosse protetto da settori deviati del SISMI, quelli

legati alla P2, emerge non soltanto dalla sospetta cogestione tra BR e servizi del sequestro Cirillo,

ma anche da una precedente informativa all'autorità giudiziaria avanzata da un funzionario di

polizia di buon livello come Arrigo Molinari,all'epoca vicequestore di Genova. Come Moretti,

aveva relazioni con l'Hyperion e faceva numerosi viaggi a Parigi. Insomma è un capo BR molto

particolare, le cui relazioni nazionali e internazionali potrebbero chiarire anche molti retroscena del

caso Moro.

Anche se, per Moro, Senzani non è mai stato processato. Perché? Senzani è certamente stato il capo,

il leader del Comitato Rivoluzionario Toscano. Ce lo disse Chelazzi, e per questa ragione è stato

processato e condannato dalla Corte d'Assise di Firenze. Sappiamo che è stato il leader dell'ala più

sanguinaria delle BR, ma nel caso Moro è stato tenuto provvidenzialmente fuori da un'informativa

del SISMI secondo la quale in quei mesi il criminologo era negli USA per un corso di formazione.

Un vuoto che Appendice la magistratura non ha riempito perché - almeno a quanto ne so - non ha

mai chiesto che questo viaggio in America fosse in qualche modo documentato. Noi in

Commissione siamo riusciti a ricostruire un quadro della vicenda Moro dal quale emerge come il

leader militare del sequestro fosse Moretti. Ma Morucci ci ha chiaramente detto, sia pure senza fare

nomi, che nella casa di Firenze a guidare il processo al presidente DC e a gestirne politicamente i

risultati vi erano altre presenze che andrebbero identificate. Non solo un "padrone di casa" che

abbiamo individuato nell'architetto Barbi, ma anche un "anfitrione" e un «irregolare che batteva a

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macchina i comunicati delle BR che venivano distribuiti in tutta Italia». Noi abbiamo pensato che il

riferimento fosse a Senzani e informazioni riservate successive mi hanno confermato che Morucci

intendesse in questo senso orientare il nostro sospetto. Se Senzani effettivamente nell'aprile '78 era

negli USA si è trattato di un depistaggio, che lascia però aperto il problema di individuare soggetti

diversi. Di tutto questo abbiamo informato la Procura della Repubblica di Roma. Ma dello sviluppo

delle indagini nulla si è saputo, se non che una comunicazione di garanzia sarebbe stata inviata non

solo all'architetto Barbi, ma anche a uno dei personaggi dell'Hyperion. Sia che l'anfitrione fosse

quest'ultimo sia che fosse Senzani, si è aperta una pista indagativa che potrebbe porre in luce un

collegamento tra le BR e alcuni apparati nazionali o esteri. Riprenderebbe così quota l'ipotesi del

"delitto in appalto": Moro sarebbe stato rapito e ucciso perché la sua politica verso il PCI e la sua

politica filoaraba ne consigliavano l'eliminazione. Non deve comunque stupire che Senzani abbia

goduto di alcune coperture. Per sottolineare l'ambiguità e lo spessore del personaggio basti pensare

che l'attuale procuratore di Pistoia, Tindari Baglioni, alla domanda se in quel periodo erano più

preparate le forze dell'ordine e la magistratura o le Brigate Rosse, ci rispose ironizzando: «Non

saprei, certo è che sia noi che le BR avevamo gli stessi consulenti, cioè il Senzani».

E l'ipotesi che l'"anfitrione" fosse Igor Markevitch? Non può darsi che il musicista russo abbia avuto

un ruolo diverso da quello di semplice intermediario e abbia partecipato alle riunioni del Comitato

Esecutivo? Personalmente non credo. Né so quali sviluppi abbia avuto l'inchiesta giudiziaria che la

Commissione Stragi ha reso possibile, ripartendo proprio da qui, dal ruolo di Markevitch, dalla

prigione nel Ghetto, dai rapporti che il musicista poteva avere sia con il Mossad che con il kgb, e

andando al di là dei limiti dell'inchiesta ancora in corso sui due possibili brigatisti o appartenenti

all'Autonomia che irruppero in via Fani sparando da una moto; particolare che potrebbe non

aggiungere molto alla ricostruzione che è stata fatta finora. Il capitolo che abbiamo aperto è molto

complesso, con i mezzi che avevano i quarantuno parlamentari della Commissione non si poteva

andare molto più avanti rispetto ai risultati che abbiamo raggiunto.

Personalmente non credo che Markevitch abbia mai abitato a Palazzo Caetani,dove invece

alloggiava Hubert Howard, che è una figura molto complessa e molto importante. Quando i giudici

bresciani ci portarono sulle tracce del direttore d'orchestra ci domandammo se l'ex generale,

divenuto poi suo cugino, fosse un punto di contatto con i servizi segreti occidentali. Un nostro

consulente ha indagato negli archivi della Fondazione Caetani,che ha sede in quel palazzo, ma

stranamente non abbiamo trovato nulla, né sul musicista né su Howard. Qualcuno forse ci aveva

preceduti.

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Parliamo dei misteri del Ghetto. Moro, dunque, potrebbe aver trascorso qualche giorno in quella

zona ed essere stato ucciso lì. Come siete arrivati a questa conclusione? Sull'ultima fase del

sequestro e sull'esecuzione dello statista i brigatisti hanno mentito e raccontano fatti inverosimili.

Se rileggiamo l'audizione di Maccari si possono notare le contraddizioni e i dubbi, soprattutto sui

tempi. A parte l'assurdità di uccidere Moro in un garage condominiale e poi di attraversare Roma

con il cadavere nel bagagliaio, che è apparsa fin dall'inizio poco credibile, l'autopsia ha dimostrato

che Moro non morì subito, visse ancora un po' di tempo dopo gli ultimi colpi: i brigatisti non

potrebbero non essersene accorti. Non solo: sia Maccari che Moretti anticipano di circa quattro ore

l'esecuzione per giustificare il fatto che sia avvenuta all'alba quando nel garage non c'era nessuno.

Moro invece è stato ucciso attorno alle dieci del mattino. Ma soprattutto mentono.quando

affermano che al Presidente non avevano annunciato la condanna a morte, anzi, che gli era stata

annunciata come imminente la liberazione. Moro sapeva invece che sarebbe stato ucciso perché

dell'esecuzione parla in due drammatici passi autografi. Mentre i brigatisti, quando hanno descritto

il trasporto di Moro in una cesta di vimini dall'appartamento di via Montalcini al bagagliaio della

Renault 4 posteggiata nel box dell'immobile, forse hanno raccontato una scena realmente avvenuta,

ma qualche giorno prima di quel fatale 9 maggio.

Come è arrivato a questa certezza? Riflettendo sulle ultime lettere di Moro e su quel suo autografo

(circa tre pagine) che a torto è stato ritenuto la parte finale del suo Memoriale. Da esso viene la

certezza documentale più forte che c'era stata una trattativa e che questa si era conclusa

positivamente. Sono pagine di una chiarezza estrema, sia nell'incipit, dove Moro parla della sua

prigionia al passato prossimo, come qualcosa di già compiuto («Il periodo, abbastanza lungo, che ho

passato come prigioniero delle BR...»), sia nella parte finale, quando, dopo aver espresso la più dura

delle condanne nei confronti di Andreotti, formula i suoi auguri a Berlinguer che, essendo ormai lui

fuori dalla scena politica, ora «avrà un partner [Andreotti, N.d.A.] molto versatile in ogni politica

[...]. Pensi che per poco soltanto rischiava di inaugurare la nuova fase politica lasciando andare a

morte lo stratega dell'attenzione al Partito Comunista». Moro ritiene evidentemente che questo

rischio fosse ormai superato, tanto è vero che subito dopo ringrazia le BR: «Desidero dare atto che

alla generosità delle Brigate Rosse devo, per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della

libertà». Seguono le sue dimissioni dalla DC e la richiesta al presidente della Camera di essere

iscritto al gruppo misto, nonché l'impegno a non accettare più candidature e a non far più commenti

sulla sua personale vicenda. E un impegno che non ha senso, se assunto nei confronti delle BR, ma

che assume senso se rivolto a coloro che con le BR stavano trattando. Moro parla dunque da uomo

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che non è più nelle mani delle BR, e che ritiene di essere ormai in luogo più sicuro e in mani più

sicure e di dover attendere pochi giorni prima di essere liberato, forse soltanto per la soluzione di

questioni pratiche o in attesa del momento giusto. Datare questo scritto di Moro sarebbe molto

importante e forse non è tanto difficile. Non fa parte del Memoriale, perché questo è l'insieme delle

risposte date all'interrogante collettivo che conduceva il processo, e il processo si concluse il 16

aprile con la condanna a morte dell'imputato.

Personalmente daterei l'autografo di cui sto parlando tra il 6 e l'8 maggio del 1978. E infatti il 5

maggio Moro indirizza alla moglie una lettera in cui si dice informato della sua condanna a morte:

«Ora improvvisamente, quando si profilava qualche esile speranza, giunge incomprensibile l'ordine

di esecuzione». Si tratta dell'ultimo comunicato delle BR, che è appunto del 5 maggio, quello in cui i

brigatisti annunciano di concludere l'operazione «eseguendo» la condanna pronunciata con il

comunicato del 16 aprile, e che per questo fu chiamato il «comunicato del gerundio», che lasciava

ancora aperta un'esile finestra a una trattativa. Dobbiamo chiederci quali erano le fonti del cauto

ottimismo di cui Moro scrive nella lettera alla moglie del 5 maggio considerandolo ormai perduto. Il

3 maggio Andreotti aveva ribadito il rifiuto del governo a ogni trattativa e gli appelli alle BR del

papa (21 aprile) e di Waldheim (26 aprile) avevano lasciato le BR del tutto indifferenti. Ma il 4

maggio Moro aveva indirizzato una lettera al capo dello Stato e su questo probabilmente fondava il

cauto ottimismo di cui scrisse nella lettera del 5 maggio. Ma nell'autografo di cui sto parlando,

Moro esprime la certezza della sua liberazione e perciò dato quell'autografo in giorni successivi al 5

maggio, quando Moro doveva aver saputo, come noi oggi sappiamo, che Leone era pronto a firmare

la grazia per una brigatista in difficili condizioni di salute, Paola Besuschio, e che autorevoli

personaggi della DC, tra cui Fanfani, erano pronti il 9 maggio a discostarsi dalla linea della

fermezza. I contenuti della trattativa (nata dall'iniziativa del PSI e sviluppatasi attraverso Piperno,

Pace, Morucci e Faranda) che Moro riteneva conclusa possono così essere agevolmente ricostruiti;

degli stessi faceva parte l'impegno di Moro di uscire dalla scena politica e di astenersi, a valle della

sua liberazione, da dichiarazioni che avrebbero potuto destabilizzare il già fragile quadro

istituzionale.

Dunque stava per concludersi la trattativa: chi allora a questo punto «tradì il patto e alzò il prezzo»,

per citare ancora Pecorelli? Avvenne qualcosa che fece precipitare la situazione. E anche questo può

ritenersi non più misterioso, perché Andreotti ha più volte accennato, evidentemente pour cause,

che la Besuschio non poteva essere liberata perché detenuta per altra causa, e cioè per un mandato di

cattura emesso dall'autorità giudiziaria con riferimento a una imputazione su cui non si era formato

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un giudicato di condanna e per la quale una grazia non era quindi possibile. Sarebbe stato dunque

necessario un concorso alla trattativa della magistratura, che avrebbe dovuto concedere alla

Besuschio la libertà provvisoria, motivandola con le sue condizioni di salute. Un ostacolo non

insormontabile, ma che indubbiamente complicava le cose. E fu questa complicazione a far saltare

la trattativa che avrebbe portato la salvezza di Moro; e a far probabilmente concludere una trattativa

diversa in cui forse rientravano la consegna del secondo ostaggio [il Memoriale N.d.A.] e comunque

l'uccisione del primo.

Una giornalista, Maria Antonietta Calabrò, ci ha riferito alcune confidenze che avrebbe ricevuto dal

generale Bozzo che, come sapete, era uno dei più stretti collaboratori di Dalla Chiesa. Ebbene,

Bozzo le avrebbe detto che Dalla Chiesa sospettava che un'altra cordata di carabinieri fosse riuscita

a concludere la trattativa e a impadronirsi della documentazione. Moro ebbe comunque notizia

dell'esecuzione, quando vergò in fretta un ultimo drammatico biglietto, che non ha destinatario e in

cui è scritto: «Ormai è fatta. Hanno promesso che faranno ritrovare il corpo e alcuni ricordi».

Le perizie dicono molte altre cose, di cui lei ha già parlato nel suo libro. In molti in Commissione ci

eravamo convinti che Moro fosse stato trasferito nel ghetto ebraico, zona che era già stata oggetto di

indagine da parte dei giudici del caso Moro, Rosario Priore e Ferdinando Imposimato.

Ritiene che l'uccisione di Moro fosse frutto di uno scontro all'interno della DC sulla linea da

seguire? Non lo so. Posso soltanto dire che il governo, nella persona del ministro degli Interni, cioè

Cossiga, voleva salvare Moro, anzi per questo era stato predisposto un piano, il cosiddetto Piano

Victor. Ma qualcuno deve averlo sconsigliato di far intervenire Dalla Chiesa, perché bisognava

prima recuperare le carte che certamente non erano in via Montalcini, perché la prigione non

coincide mai con la... cancelleria di un processo. Non c'era problema: Moro sarebbe uscito

comunque vivo, ma non si dovevano correre rischi. Credo che Cossiga si sia fidato e forse dopo si è

pentito. E il suo se- Appendice greto, il segreto che da anni lo logora. Quando lo ascoltammo in

Commissione Stragi il suo comportamento fu molto aggressivo: esordì utilizzando le sue apparenti

mattane, portò con sé té e caffè, dicendo che il caffè della Commissione poteva essere avvelenato.

Ricorse alle parole di Moro quando difese la DC in Parlamento dalle accuse per lo scandalo

Lockheed: «Non ci faremo processare né nelle piazze, né nelle commissioni d'inchiesta». Poi man

mano che andavamo avanti il tono di Cossiga diventò dolente; mi accorsi che dietro doveva esserci

un autentico rovello. Penso che durante la vicenda Moro lui abbia sofferto moltissimo e che sappia

molto più di quanto ha raccontato, qualcosa che se si sapesse farebbe soffrire ancora molte persone,

senza restituire la vita a Moro. Per questo credo non parlerà mai, se non per rapidi intelligentissimi

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accenni. Così da ultimo quando, dichiarando che Moro era in possesso, più di altri, di segreti

sensibili, ha sostanzialmente convalidato la teoria del "doppio ostaggio".

Tiriamo le conclusioni: è possibile? Non ce ne sono, queste sono soltanto le linee di un'inchiesta che

potrebbe essere sviluppata dalla magistratura per tentare di chiarire definitivamente i contorni di

una vicenda che continua a gravare sulle coscienze del paese. Un'operazione di verità, il cui prezzo,

ne sono ormai definitivamente convinto, non può che essere la soluzione politica degli anni di

piombo. Per molto tempo ho pensato che, prima di perdonare, fosse necessario conoscere la verità.

Ora credo al contrario che per sapere cosa sia veramente successo bisogna prima perdonare.

Attraverso l'impunità? Non esattamente. Direi attraverso un meccanismo che esenti oggi dalla pena

delitti che hanno avuto una motivazione politica e dalla cui attuazione ci separa lo spazio di una

generazione. Anche Giovanni Moro, il figlio, pensa che una verità più completa possa essere

raggiunta soltanto neutralizzando le conseguenze penali. Fare chiarezza è necessario anche per

chiudere definitivamente con il capitolo delle Brigate Rosse, che ogni tanto riemerge dalle ombre

del passato.

Questo "meccanismo" potrebbe valere anche per Andreotti? Non penso. Già Andreotti è convinto -

e ritengo fondatamente - che la Corte di Cassazione annullerà senza rinvio la sua condanna per

l'omicidio Pecorelli. Dall'accusa palermitana è stato già assolto, sia pure con i limiti che sappiamo.

E poi di lui, per come l'ho conosciuto, mi sono fatta un'idea precisa. È come un cardinale accusato di

eresia che corra il rischio di finire sul rogo, ma che fino all'ultimo giorno leggerà il breviario e

celebrerà messa; e nemmeno al fine di assicurarsi l'impunità parlerà mai dei segreti dell'ultimo

conclave, continuando ad attribuire l'elezione del papa, a cui ha partecipato, al provvido intervento

dello Spirito Santo.

9 maggio 2003

Cronologia essenziale Nota.

Questa cronologia ha l'unico scopo di aiutare il lettore a districarsi fra i tanti episodi raccontati in

questo libro. Ne sono dunque esclusi, come risulterà ovvio a chiunque, molti momenti politici

fondamentali nella storia d'Italia.

Gennaio-febbraio. La mafia collabora con gli agenti segreti USA infiltrati in Sicilia per preparare lo

sbarco alleato.

9 luglio. I soldati americani occupano la Sicilia.

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Agosto. 11 comando militare USA insedia mafiosi e massoni come sindaci nel 90 per cento dei

comuni in Sicilia.

6 dicembre. Calogero Vizzini, l'allora capo della mafia siciliana, partecipa alla prima riunione

clandestina del movimento separatista in difesa dei feudi agrari.

settembre. Attentato a Girolamo Li Causi, leader comunista: un gruppo di maliosi guidati da

Calogero Vizzini gli spara durante un comizio.

ottobre. La rivolta di Palermo, l'esercito spara sulla folla affamata: 100 tra morti e feriti.

1 maggio. Strage di Portella delle Ginestre. Il bandito Salvatore Giuliano, alla guida di un gruppo

di banditi, spara 800 colpi di mitragliatrice contro i contadini che manifestano per il Primo Maggio:

11 morti e 71 feriti. Non fu l'unica repressione sanguinosa delle masse popolari, ma quella con il

maggior numero di vittime.

Settembre. Gli industriali (Pirelli, Piaggio, Costa, Valletta e Falk) finanziano un fondo per la lotta

al comunismo.

Ottobre. Stragi a Bellocampo e Melissa: Giuliano torna a sparare contro manifestanti e occupanti di

terre.

18 aprile. Elezioni con vittoria della DC (48 per cento) e sconfitta delle sinistre (31 per cento).

14 luglio. Attentato a Togliatti. Uccisione di Salvatore Giuliano. Secondo la versione dei

carabinieri, un maresciallo lo aveva inseguito per le strade di Castelvetrano e, rispondendo al fuoco

di Giuliano, lo aveva ucciso nel cortile di una vecchia casa rurale. Le indagini accertarono che quel

giorno in paese non ci fu alcuna sparatoria. Giuliano era stato condotto nel cortile già cadavere,

assassinato per ordine superiore molto probabilmente dal suo luogotenente, Gaspare Pisciotta.

«L'unica cosa certa è che è morto», scrisse il giornalista Tommaso Besozzi. Del resto, il maresciallo

Antonio Perenze,indicato come l'autore materiale dell'uccisione di Giuliano, quel giorno non era a

Castelvetrano, ma impegnato a sedare i tumulti seguiti all'attentato a Togliatti come risultò dalle

foto.

Nel corso dell'anno viene siglato l'accordo che costituisce l'atto di nascita ufficiale della struttura

clandestina Gladio, in ambito NATO. Il nome in codice della struttura era originariamente DUCA.

Questi avvenimenti sono la chiave di lettura del particolarissimo rapporto tra mafia e politica,

costituitosi in Italia nel dopoguerra, e del successivo, macroscopico sviluppo della criminalità

organizzata nel Sud sotto l'egemonia di Cosa Nostra, che assumerà aspetti da guerra civile negli

anni Ottanta e Novanta. Nei primi mesi del 1943 è presente in Sicilia il gangster Lucky Luciano, cui

l'oss aveva dato mandato di preparare il terreno in vista dello sbarco americano. Fu Luciano a

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riattivare i vecchi boss, come Calogero Vizzini, che lo aiuteranno a creare una rete d'appoggio agli

Alleati. Fra i sostenitori anche il giovanissimo Michele Sindona che esordisce con un commercio di

armi.

All' indomani dell'occupazione della Sicilia esplosero le lotte contadine. Il fascismo aveva utilizzato

gli uomini della mafia come "campieri" o "guardiani", veri corpi speciali in difesa dei latifondisti.

Nei cinque anni che vanno dal '41 al '48, la mafia continuerà a svolgere il suo ruolo di paladina delle

vecchie strutture agrarie contro i "granai del popolo", organizzati da socialisti e comunisti cui i

contadini avevano aderito in massa. Sul piano elettorale, i capimafia inizialmente appoggiarono i

movimenti separatisti finanziati dagli agrari. Il protagonista di questa fase fu Salvatore Giuliano.

Raccontò Gaspare Pisciotta, poi sospettato di essere l'esecutore materiale della sua uccisione, che il

bandito portava sempre con sé una lettera: «Caro Giuliano, noi siamo sull'orlo della sconfitta del

comunismo. Con il vostro e con il nostro aiuto noi possiamo distruggere il comunismo, qualora la

vittoria sarà nostra voi avrete l'immunità su tutto». Firmato Mario Scelba, ministro dell'Interno. La

lettera non è mai stata trovata e non si sono mai scoperte le modalità dell'uccisione di Giuliano.

in questo periodo Giulio Andreotti è considerato il delfino di Alcide De Gasperi.Subito dopo la

strage di Portella, a 28 anni, diventa sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Nel frattempo

coltiva ottimi rapporti con la Santa Sede, in particolare con Felix Morlion, il fondatore della Pro

Deo, un prelato legato alla CIA che aveva collaborato alla ristrutturazione dei servizi segreti

vaticani. Mezzo secolo dopo, Andreotti tornando sulla vicenda Giuliano dirà: «Era un assassino, lo

hanno catturato, lo hanno ucciso. Il ministro dell'Interno ha fatto tutto quello che poteva fare,

quello che conta sono i risultati».

9 febbraio, Gaspare Pisciotta viene ucciso con un caffè al cianuro, in carcere: aveva fatto rivelazioni

sui mandanti di Portella delle Ginestre e sembrava sul punto di vuotare il sacco sulla morte del

bandito di Montelepre.

Ottobre. Il generale Edgardo Sogno fonda Pace e Libertà, un'organizzazione anticomunista

finanziata dagli industriali del Nord che precede di un decennio la nascita della misteriosa struttura

clandestina Rosa dei Venti, che avrà un ruolo di grande rilievo nella strategia della tensione.

1956 Febbraio. Sindona apre la collaborazione con le famiglie americane tramite il boss Joe Adonis.

28 novembre. Nasce Gladio, in base a un accordo diretto tra la CIA e il SIFAR di De Lorenzo.

Ottobre. Grand hotel delle Palme: storico incontro tra i capi delle famiglie americane (Joe Bananas,

Joseph Palermo, John Di Bellis, Lucky Luciano) e i rappresentanti di Cosa Nostra Vito Vitale e

Genco Russo. Il meeting costituisce l'esordio pubblico di Sindona, che diverrà il gestore di due

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milioni di dollari messi a disposizione da Luciano.

2 agosto. A Corleone viene ucciso il medico Michele Navarra, allora capo dei corleonesi. Il presunto

assassino è Luciano Liggio, al suo fianco ci sono i suoi pupilli: Bernardo Provenzano e Totò Runa.

Liggio era stato il "campiere" dei latifondisti della zona, il suo potere si era accresciuto nel

dopoguerra grazie ai rapporti che era riuscito a stabilire con i servizi segreti italiani e americani.

L'uccisione di Navarra segna la fine della vecchia mafia e l'inizio del potere del suo "braccio armato",

cioè Cosa Nostra.

Aprile. L'Italia aderisce allo Shape, che sancisce la collaborazione dei servizi segreti dei paesi

europei in ambito NATO e l'ampliamento delle varie "strutture antiguerriglia", denominate Stay

Behind, in funzione antinvasione da parte dei paesi del Patto di Varsavia o per contrastare eventuali

sommosse interne fomentate dai partiti comunisti. A firmare l'accordo è il ministro della Difesa

Andreotti.

Ottobre. Sindona apre uno studio a Milano e uno a New York per seguire gli interessi economici

della mafia americana. Il nuovo tramite è Daniel Porgo.

Negli anni Cinquanta la mafia siciliana sembra abbandonare i vecchi progetti separatisti e appoggia

a livello elettorale i partiti di centrodestra, stabilendo un asse preferenziale con la DC. Il deus ex

machina di queste relazioni è, per circa vent'anni,il fanfaniano Giovanni Gioia, che negli anni

Sessanta diverrà anche ministro della Marina Mercantile. A metà degli anni Cinquanta, la rottura

del blocco agrario consente a Gioia di convogliare verso la DC esponenti liberali e

monarchico-qualunquisti, rappresentanti di un emergente ceto medio siciliano interessato a

progetti economico-imprenditoriali di sviluppo dell'isola. Una delle linee di difesa dei sostenitori di

Andreotti è che il rapporto mafia-politica in Sicilia è sempre esistito, ma è stato gestito localmente

da uomini politici siciliani all'insaputa o con il tacito consenso dei referenti politici a livello

nazionale, cui interessava meramente il risultato elettorale. A conclusione del processo di Palermo, i

giudici d'appello hanno invece sancito che il coinvolgimento di Andreotti nelle relazioni con i boss è

stato diretto e lo "scambio di favori" è andato ben oltre l'accordo elettorale.

1960 Primavera. Licio Gelli fa il suo ingresso nella massoneria. La loggia prescelta dal futuro

Venerabile è quella di Giandomenico Romagnosi. luglio. Fanfani vara il suo terzo governo, un

monocolore DC sostenuto da PSDl, PRl e PLI, e con l'astensione del PSI. È l'anticamera del

centrosinistra.

Autunno. L'Italia entra a far parte dell'ACC, un patto clandestino che pianifica in ambito NATO

l'accordo tra i paesi aderenti allo Shape. Anche in quest'occasione è Andreotti, ancora ministro della

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Difesa, a firmare l'accordo. Subito dopo avvia la riorganizzazione dell'intelligence e in particolare

della struttura più operativa nella "guerra dietro le linee". Molti fanno risalire a questa data la

ristrutturazione del superservizio con il nome in codice Anello. ottobre. Enrico Mattei muore in

un incidente aereo.

Gennaio. All'ottavo congresso della DC che si svolge a Napoli, nella sua relazione il segretario del

partito avvia la politica del centrosinistra. Andreotti è convinto che l'intesa DO PSI sia infausta.

Ma lo schieramento "Amici di Fanfani e Moro" risulta vincitore e dunque si accoda, parlando di

«cauti connubi».

Giugno. il primo governo Moro DO PSI entra in crisi.

30 giugno. A Ciaculli due ufficiali e cinque agenti dei CC vengono attirati da una telefonata che

segnala un'auto rubata: la vettura esplode all'arrivo dei carabinieri. E la prima strage di mafia:

racconteranno i pentiti che subito dopo, per contrasti interni, Cosa Nostra scioglierà la

"commissione".

Agosto. il capo del Sil'AR Giovanni De Lorenzo progetta il Piano Solo, un colpo di Stato militare

cui avrebbero dovuto partecipare soltanto i carabinieri, che prevedeva l'internamento di esponenti

politici e sindacali della sinistra nella base militare di capo Marrargiu in Sardegna (Gladio). Lo

scopo era quello di porre fine all'esperienza del centrosinistra e dar vita a un governo forte.

6 dicembre. Il presidente della Repubblica Antonio Segni, che sembra avesse appoggiato il progetto

De Lorenzo, colpito da ictus il 7 agosto, da le dimissioni.

27 dicembre. Giuseppe Saragat viene eletto presidente della Repubblica.

Gelli diventa Gran Maestro della loggia di Palazzo Giustiniani, dove ha già organizzato un nucleo

"coperto", denominato Propaganda 2, che segna la nascita della P2.

Sindona finanzia i colonnelli greci, tramite la Finabank, in vista del colpo di Stato del 1967.

Scoppia lo scandalo SIFAR, che ha origine dalla scoperta di contornila "schede" informative su

esponenti politici e sindacali, uomini d'impresa e intellettuali, illegittimamente raccolte dai servizi

segreti. Lo scandalo, che ha largo spazio sui giornali, porta alla luce il progettato golpe del 1964.

Pochi mesi dopo De Lorenzo viene rimosso dall'incarico e prende avvio l'inchiesta giudiziaria.

2 febbraio. Scoppia la protesta studentesca con l'occupazione simultanea delle università di Roma,

Torino, Trento e Pisa.

Marzo. Mino Pecorelli fonda l'agenzia «op».

Aprile. Andreotti, per riconquistare la maggioranza all'interno della corrente dorotea, scende in

Sicilia. Il motivo addotto è la pacificazione tra il ministro Gioia e Salvo Lima, in lite per una

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questione di preferenze in vista delle imminenti elezioni. Nei mesi successivi, Lima entrerà a far

parte della sua corrente.

19 maggio. Lima viene eletto deputato nazionale.

27 giugno. Renzo Rocca, colonnello del sii), si suicida in circostanze sospette alla vigilia della sua

deposizione sul Piano Solo. Era uno degli uomini di li-duci a di De Lorenzo.

21 agosto. Invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia.

Novembre. Roberto Calvi viene presentato a Sindona.

27 aprile. Muore il generale dei Carabinieri Carlo Ciglieri in un incidente d'auto, dopo aver

incaricato il generale Giorgio Manes di indagare sul Piano Solo.

25 giugno. Manes muore per malore, prima di deporre sul Piano Solo. Per i familiari fu omicidio.

X e 9 agosto. Scoppiano bombe su otto diversi convogli (12 feriti). La strategia della tensione, che si

era manifestata fino a quel momento in scontri di piazza tra estremisti di destra e di sinistra, fa un

salto di qualità il cui scopo è seminare il terrore tra la gente comune.

10 dicembre. La mafia da tempo non si faceva sentire quando a Palermo viene ucciso Michele

Cavataio, nel corso di un'irruzione in un appartamento di via Lazio, al termine della quale si

contano 4 morti. Il massacro chiude la sotterranea guerra di mafia in atto da alcuni anni.

12 dicembre. Esplode una bomba ad alto potenziale nella Banca dell'Agricoltura, in piazza Fontana,

facendo 17 morti e un'ottantina di feriti.

15 dicembre. Le indagini sulla strage di piazza Fontana imboccano quasi subito la pista anarchica.

Vengono fermati il ballerino Pietro Valpreda e il ferroviere Giuseppe Pinelli, che ventiquattr'ore

dopo "si suicida" precipitando dal quarto piano della questura di Milano. Il commissario Calabresi,

indicato dalle piazze come il responsabile della morte dell'anarchico Pinelli, non era in ufficio.

Negli incidenti di piazza, l'agente Antonio Annarumma viene ucciso da una bomba a mano durante

scontri di polizia.

Gli italiani ricordano gli anni Sessanta come un 'era felice. Sono gli anni del boom economico e del

centrosinistra, il paese sembra risorgere dalle macerie in cui l'aveva lasciato la seconda guerra

mondiale. La ricostruzione e lo sviluppo economico sono in pieno atto. La DC raggiunge il 40 per

cento dei consensi elettorali, ma il PO di Togliatti resta il maggior partito comunista occidentale. È

questa anomalia politica a preoccupare la NATO e il governo USA. L'apertura al PSl decisa da Aldo

Moro tende a isolare i comunisti, ma mette in allarme l'opinione pubblica moderata e gli apparati di

sicurezza.

Tre sono gli eventi di maggior rilievo che costituiscono il terreno di coltura per la nascita del

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terrorismo politico come fenomeno di massa, che nel decennio successivo finirà per coinvolgere

ampi strati giovanili sia di destra che di sinistra. Primo: la riorganizzazione dei reparti antiguerriglia

e la nascita di un superservizio segreto che, dopo il fallimento dell' ipotesi golpista di De Lorenzo,

attua nuove forme d'intervento che hanno il loro banco di prova con la strage di piazza Lontana e i

primi attentati ai treni. Secondo: l'esplodere della contestazione giovanile si salda alle lotte sindacali

nell'autunno caldo del '69, e le tensioni sociali trovano sfogo in grandi manifestazioni di piazza che

divengono teatro di violenze e provocazioni. Terzo e ultimo evento: la nascita di un conflitto

interno alla DC tra il "gruppo Moro" e il "gruppo Andreotti", cui quest'ultimo risponderà

rafforzando la propria corrente con l'ingresso di Lima. Anche la mafia siciliana si ristruttura: dopo la

strage dì via Lazio l'ala moderata dì Cosa Nostra, dei Bontate e dei Badalamenti, conquista

l'egemonia e ricostituisce la Commissione, stabilendo tramite Lima e i cugini Salvo un dialogo con

la corrente andreottiana.

28 gennaio. Muore Armando Calzolari, testimone di piazza Fontana, dirigente del Fronte

Nazionale di Junio Valerio Borghese: il suo corpo viene trovato in un pozzo.

Febbraio. È conflitto tra il ministro della Difesa Andreotti e la Commissione parlamentare sul

Piano Solo.

Aprile. Lino Salvini viene nominato Gran Maestro di Palazzo Giustiniani.

14-15 luglio. Esplode la rivolta di Reggio Calabria: a guidarla ci sono anche neofascisti di

Avanguardia Nazionale, tra cui Stefano Delle Chiaie.

22 luglio. Attentato al treno Freccia del Sud: 6 morti e 139 feriti.

6 settembre. A Palermo scompare il giornalista Mauro De Mauro.

20 settembre. Compaiono i primi volantini BR alla Sit-Siemens di Milano.

25 settembre. Morte sospetta di altri due testimoni di piazza Fontana e di tre anarchici calabresi in

vari incidenti di auto.

8 dicembre. Il principe Junio Valerio Borghese, comandante della X MAS, alla guida di alcune

centinaia di uomini occupa il Viminale: al putsch sembra abbiano partecipato anche reparti

dell'esercito. Ma il tentativo di golpe rientra in nottata per un misterioso contrordine.

3 maggio. Al Parco dei Principi si svolge un convegno che vede ampia partecipazione di politici e

intellettuali: è la prima uscita pubblica della Loggia P2, nel corso della quale si discute di un Piano

di Rinascita il cui cardine è l'accentuazione dell'impegno anticomunista della massoneria. Di li a

poco, Gelli sarà nominato segretario della P2.

5 maggio. A Palermo la mafia si fa viva e uccide il magistrato Pietro Scaglione.

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Giugno e luglio. Proseguono gli attentati a Milano e sui treni.

Settembre. L'avvocato Vittorio Ambrosini e Edgardo Ginosta, testimoni di piazza Fontana, si

suicidano. Salgono a 9 le morti sospette.

Ottobre. Edgardo Sogno fonda i Comitati di Resistenza Democratica che, come si scoprirà, entrano

a far parte della Rosa dei Venti.

Dicembre. Roberto Calvi viene nominato direttore del Banco Ambrosiano.

18 febbraio. A 53 anni Andreotti diventa per la prima volta presidente del Consiglio, grazie a un

patto con Arnaldo Forlani e al ruolo giocato nell'elezione di Giovanni Leone al Quirinale. Il suo

obiettivo è un governo a breve termine, un "governo elettorale", che prepari l'uscita del PSI

dall'esecutivo e apra a destra. Il governo durerà invece fino al 73.

15 marzo. L'editore Giangiacomo Feltrinelli muore a Segrate, dilaniato da un ordigno, ai piedi di un

traliccio dell'ENEL. Una morte oscura. Molte tracce conducono a sospettare un intervento di

Gladio: il traliccio si trova in un terreno di proprietà di Carlo Fumagalli, ex partigiano bianco,

neofascista e collegato al superservizio.

17 maggio. Il commissario Luigi Calabresi viene ucciso da un commando di due giovani a bordo di

un'auto. Indicato dall'estrema sinistra come il responsabile della morte di Pinelli, stava indagando

sui mandanti della strage di piazza Fontana e su una particolare struttura eversiva che si celava

dietro attentati di destra, camuffati come attentati di sinistra. In una prima fase, fu sospettato del

delitto il "nero" Gianni Nardi.

31 maggio. Una telefonata anonima segnala una FIAT 500 imbottita di tritolo. Accorrono quattro

carabinieri, l'auto esplode uccidendoli: è la strage di Peteano.Molti anni dopo, l'indagine condurrà

alla scoperta dell'esistenza di una "rete parallela" dei servizi segreti che fa capo a Gladio.

Giugno. La Procura di Milano incrimina alcuni funzionari di polizia per aver depistato le indagini

su piazza Fontana. Il boss Pippo Calò si trasferisce a Roma e prende contatto con Domenico

Balducci, considerato il primo capo della Banda della Magliana.

12 ottobre. Vito Ciancimino viene eletto sindaco di Palermo.

21 e 22 ottobre. Ancora quattro attentati ai treni in Calabria.

5 novembre. Il segretario della DC Arnaldo Forlani, nel corso di un comizio a La Spezia, denuncia

l'esistenza di una trama reazionaria, che gode di solidarietà «interne e internazionali». Parole

gravissime che indicano precise responsabilità della destra nella strategia della tensione.

Aprile-ottobre. Nuovi attentati ai treni.

12 aprile. A Milano, durante incidenti di piazza, viene ucciso l'agente Antonio Marino.

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17 maggio. Una bomba esplode di fronte all'ingresso della questura di Milano, dove si stava

svolgendo una cerimonia in memoria del commissario Calabresi: 4 morti. L'attentatore, Gianfranco

Bertoli, arrestato in flagranza, nel 1990 risulterà iscritto in un elenco di 620 gladiatori.

Giugno. Al processo di piazza Fontana vengono incriminati Massimiliano Facchini e Guido

Giannettini. Quest'ultimo, neonazista, risulterà essere un informatore del SiD o forse qualcosa di

più. La sua fuga dal carcere di Catanzaro e la successiva latitanza all'estero sono favorite dai servizi

segreti.

Settembre. Bankitalia ordina la prima ispezione del Banco Ambrosiano. novembre. L'aereo dei

servizi segreti Argo 16 precipita dopo il decollo: muoiono cinque militari. L'ipotesi del giudice

Mastelloni è quella del sabotaggio: l'aereo riforniva la base di Capo Marrargiu in Sardegna, dove si

addestravano i reparti Stay Behind.

14 marzo. Andreotti torna al ministero della Difesa in una situazione difficilissima:il capo del SID

Mario Miceli è sotto inchiesta per il golpe Borghese; il capo dell'Ufficio D, Gianadelio Maletti, si

trova nei guai per la fuga di Giannettini. Nel giro di un paio di anni Andreotti si libera di entrambi,

ma la defenestrazione dei due alti in grado del servizio segreto provoca malumori e lotte intestine

che trovano eco su «OP», l'agenzia di Pecorelli che apre la guerra contro il Divo Giulio.

18 aprile. Le Brigate Rosse rapiscono a Genova il giudice Mario Sossi.

14 maggio. A Milano viene arrestato il boss Luciano Liggio.

28 maggio. A Brescia, durante una manifestazione sindacale, esplode una bomba che provoca decine

di morti e feriti. E il più grave attentato dopo la strage di piazza Fontana.

8 giugno. Renato Curdo e Alberto Franceschini vengono arrestati, Mario Moretti manca

all'appuntamento. Sarà lui, da quel momento, il nuovo capo delle BR.

4 agosto. Strage sul treno Italicus: 8 morti, 94 feriti. agosto. Muore Junio Valerio Borghese a

Gaelice, ucciso da una tazzina di caffè.

Settembre. Sindona è nei guai: uno dopo l'altro si registrano i crack della FranklinBank e della

Banca Privata.

Novembre. La sindoniana Finabank finanzia la Rosa dei Venti, protagonista nei mesi precedenti di

un fallito golpe, il cosiddetto "golpe bianco", che avrebbe dovuto concretizzarsi in una riduzione

delle libertà politiche e sindacali e nell'appoggio a un governo forte.

Dicembre. La Cassazione toglie l'inchiesta sulla strage di piazza Fontana al giudice D'Ambrosio.

Il 1974 è considerato uno spartiacque nella strategia della tensione. Sarà lo stesso Vita Miceli ad

annunciarlo al giudice Giovanni Tamburino, che indagava sulla Rosa dei Venti e sul golpe

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Borghese: «Il terrorismo di destra è finito, da adesso in poi sentirete parlare soltanto delle Brigate

Rosse». Eppure il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa aveva appena arrestato Curdo e

Franceschini. Ma il vento era cambiato, non c'era più spazio per la destra eversiva. Gli ex di

Avanguardia Nazionale e di Ordine Nuovo, ampiamente utilizzati nei tentativi di golpe, negli

attentati sui treni e nelle provocazioni di piazza, erano in difficoltà per la fine dei regimi di destra

nel Mediterraneo. Il primo a cadere, in aprile, è il regime di Salazar in Portogallo; seguirà quello dei

colonnelli in Grecia. Negli USA il presidente Richard Nixon è sottoposto a impeachment. Il cambio

della guardia è simultaneo sia negli apparati di sicurezza, compromessi nelle trame nere, sia nella

galassia del terrorismo. Non e considerata una coincidenza che in questa fase Andreotti sia di nuovo

al ministero della Difesa.

24 gennaio. Mario Tuti, ricercato per la strage dell'Italicus, uccide due agenti di PS che tentano di

arrestarlo.

15 aprile. Le Brigate Rosse compiono il primo assassinio politico uccidendo a Milano l'industriale

Carlo Saronio.

9 maggio. Celli esce da Palazzo Giustiniani e fonda la v2 come loggia autonoma: tra i nuovi iscritti

Roberto Calvi, il nuovo presidente dell'Ambrosiano. Nello stesso periodo il Venerabile fonda

l'organizzazione internazionale massonica OMPAM.

22 novembre. Lo scrittore Pier Paolo Pasolini viene ucciso a Ostia durante un incontro "privato".

Ma c'è il sospetto che dietro il delitto si nasconda la volontà di eliminare una voce scomoda che in

quel periodo, dalle prime pagine del «Corriere della Sera», attaccava la De e i mandanti delle stragi.

7 gennaio. Attentato sulla linea Firenze-Roma.

30 aprile. Arrestato Albert Bergamelli. Pochi giorni dopo toccherà a Minghelli,segretario della P2:

«Se qualcuno mi ha tradito la pagherà cara, perché appartengo a una grande famiglia», si vanterà il

gangster al momento dell'arresto.

28 maggio. A Sezze Romano, durante disordini di piazza provocati dalla destra, viene ucciso lo

studente Luigi De Rosa.

5 giugno. La brigatista Mara Cagol, moglie del capo BR Renato Curcio, viene uccisa in un conflitto

a fuoco con i carabinieri di Dalla Chiesa.

8 giugno. Le BR uccidono a Genova il magistrato Francesco Coco.

8 settembre. Sindona viene arrestato a New York e condannato per la prima volta in Italia per il

crack dell'Ambrosiano.

Dicembre. Scoppia lo scandalo Petroli. A parlarne per primo è Mino Pecorelli su «OP», ma

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l'inchiesta che porterà all'arresto dei generali Raffaele Giudice e Donato Lo Presti, della cdf, sarà

aperta soltanto un anno dopo la morte del giornalista.

Il settimanale «Tempo» pubblica un servizio sulla base militare di Capo Marrargiu.

febbraio e marzo. Esplode lo scandalo Italcasse, che diverrà la prima pista imboccata come movente

dell'omicidio di Mino Pecorelli. Il giornalista, nei mesi precedenti la morte, aveva dato ampio

spazio alle rivelazioni sui "fondi neri" elargiti dalla pubblica banca a politici e imprenditori. Lo

scandalo coinvolgeva Andreotti, tanto che Vitalone aveva offerto un contributo da 300 milioni in

contratti pubblicitari al direttore di «OP». febbraio. Nuova ondata di contestazioni studentesche

che tornano a occupare le università e manifestano per le strade, esprimendo un livello di violenza

assai superiore rispetto al '68. A fare da raccordo tra il "movimento" e le organizzazioni terroristiche

sono soprattutto esponenti del l'autonomia operaia, che criticano le BR ma predicano la lotta

armata a "livello di massa".

5 aprile. Guido De Martino, il figlio del segretario del PSI, resta per tre giorni nelle mani di

un'anonima banda di rapitori che manda strani messaggi. Un rapimento che destò viva apprensione

per il sospetto che si trattasse di un messaggio intimidatorio nei confronti del padre, affinchè

lasciasse la guida del partito socialista per far posto a Craxi.

28 aprile. Le BR uccidono l'avvocato Fulvio Croce a Torino.

12 maggio. Giorgiana Masi, studentessa, muore colpita da un "proiettile vagante" mentre partecipa

a una manifestazione indetta dal Partito Radicale per i referendum.

15 maggio. Anche l'agente Antonino Custrà cade a Milano durante una manifestazione

dell'autonomia operaia.

Luglio-ottobre. Muoiono in circostanze sospette tre ufficiali dei Carabinieri: il 18 luglio, il

colonnello Pasquale Giansante si suicida a Messina; il 12 agosto si suicida a Roma Antonino Anzà;

il 30 ottobre il generale Enrico Mino muore in un incidente di elicottero sulla Sila.

14 agosto. Il criminale nazista Herbert Kappler evade dall'ospedale militare Celio e scompare nel

nulla. Di recente è stata avanzata l'ipotesi che la sua fuga sia stata organizzata dalla segretissima

struttura del superservizio denominata Anello.

20 agosto. La mafia uccide a Corleone il colonnello Giuseppe Russo, che nel '70 aveva tentato di

coinvolgere i boss nel golpe Borghese. ottobre. In Germania vengono uccisi tre esponenti della

Baader-Mein- hof, organizzazione terroristica molto vicina alle Brigate Rosse. La morte dei tre

giovani terroristi, che ha le caratteristiche di un'esecuzione, suscita in Italia grande emozione, ma

c'è chi appoggia la linea dura della Germania. 16 novembre. Il giornalista Carlo Casalegno viene

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ucciso a Torino dalle BR. febbraio. Il giudice Riccardo Palma viene assassinato a Roma dalle

Brigate Rosse.

16 marzo. In via Fani Aldo Moro viene rapito dalle Brigate Rosse. Nel conflitto a fuoco vengono

uccisi 5 agenti di scorta. Moro stava andando alla Camera per assistere al giuramento del nuovo

governo Andreotti che apriva la strada al "compromesso storico". maggio. Il corpo di Moro viene

ritrovato in via Michelangelo Caetani, all'interno di una Renault Rossa. A mezzo secolo dal più

grave delitto politico dell'Italia repubblicana, nonostante numerosi brigatisti abbiano deciso di

collaborare con la giustizia, restano ancora molte zone d'ombra nell'intera strategia del sequestro, a

partire dal luogo dove Aldo Moro avrebbe trascorso i 55 giorni di prigionia, le modalità

dell'esecuzione, la trattativa aperta da settori della DC, la scomparsa della versione originale del

Memoriale.

Nello stesso giorno dell'assassinio di Moro, a Cinisi, viene trovato morto Giuseppe Impastato, un

giornalista che dai microfoni di una radio libera attaccava Tano Badalamenti. Nell'ordinarne

l'uccisione il boss non tralascia la macabra messinscena del finto attentato, facendo trovare il

cadavere imbottito di tritolo sui binari della ferrovia. maggio. Il ministro dell'Interno Cossiga

si dimette dall'incarico. Gli subentra ad interim il presidente del Consiglio Andreotti che manterrà

l'incarico per 50 giorni, fino alla nomina del nuovo ministro Virginio Rognoni. In questo interregno

scompare tutta la documentazione sul sequestro Moro, a partire dai verbali del Comitato di Crisi.

30 maggio. A Palermo viene ucciso il boss Giuseppe Di Cristina, in affari con la Banda della

Magliana. Un delitto che annuncia la guerra di mafia. giugno. Giovanni Leone si dimette dalla

presidenza della Repubblica.

26 luglio. Il colonnello della GDF Salvatore Florio muore in un incidente d'auto: aveva ordinato

un'inchiesta ad Arezzo sul Venerabile.

6 agosto. Muore Paolo VI, il papa che aveva scritto una lettera agli uomini delle Brigate Rosse per

invocare la salvezza di Moro. Gli succede papa Albino Luciani che morirà d'infarto quaranta giorni

dopo.

10 ottobre. Assassinato dalle BR Girolamo Tartaglione, funzionario del ministero di Grazia e

Giustizia. È il terzo magistrato che lavora in via Arenula a morire sotto il fuoco brigatista. Tre anni

dopo sarà arrestato Giovanni Senzani,consulente del ministero e capo dell'ala movimentista

dell'organizzazione terroristica: era lui la talpa.

Dicembre. Bankitalia trasmette al giudice Emilio Alessandrini il dossier sull'Ambrosiano.

12 gennaio. Le BR uccidono a Genova il sindacalista Guido Rossa.

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14 gennaio. Un commando di Prima Linea uccide il giudice Alessandrini: indagava sulla strage di

Milano e sull'Ambrosiano.

29 gennaio. La mafia uccide a Palermo il giornalista Mario Francese.

12 febbraio. Le BR uccidono il professor Vittorio Bachelet, magistrato e docente universitario,

amico di Moro.

9 marzo. A Palermo viene assassinato il segretario provinciale della DC, Michele Reina: è il primo

delitto politico-mafioso. marzo. In via Tacito, a Roma, un ignoto killer assassina Mino

Pecorelli, di rettore di «OP», che si accingeva a pubblicare ampi stralci della parte sconosciuta del

Memoriale Moro: ad amici avrebbe confidato che il dossier avrebbe dimostrato che Andreotti era un

criminale. Per il suo omicidio, Andreotti e Tano Badalamenti sono stati condannati a 24 anni dai

giudici del la Corte d'Assise d'Appello di Perugia. L'unica certezza è che il proiettile appartiene a

uno stock rinvenuto in un'armeria della Banda della Magliana.

24 marzo. Il vicepresidente di Bankitalia Mario Sarcinelli, che si era opposto al salvataggio

dell'Ambrosiano, viene arrestato dopo una riunione della loggia di Montecarlo che ordina la sua

"punizione".

3 maggio. A Catania la mafia uccide Giuseppe Calderone, capomafia e fratello del futuro pentito

Antonino.

12 luglio. Un killer solitario uccide a Milano Giorgio Ambrosoli, il curatore del fallimento

dell'Ambrosiano. Sindona è accusato di essere il mandante del delitto. luglio. Boris Giuliano,

vicequestore di Polizia, viene ucciso a Palermo men tre indagava sugli investimenti della mafia nelle

banche sindoniane.

23 luglio. Antonio Varisco, comandante del Nucleo traduzioni del tribunale di Roma, dimissionario

dell'Arma, viene ucciso dalle BR che rivendicano l'attentato. Un delitto anomalo, compiuto con

modalità che fanno sospettare l'intervento della malavita: il sospetto è che sia stato lui a consegnare

a Pecorelli il documento segreto per conto di Dalla Chiesa.

Agosto-settembre. Per cinquanta giorni Michele Sindona, dopo aver riottenuto la libertà su

cauzione a New York, si trasferisce a Palermo dove tramuta la sua fuga in un finto rapimento che

utilizza per avanzare pesanti ricatti nei confronti di Andreotti.

23 settembre. Ancora a Palermo la mafia uccide Cesare Terranova, magistrato, parlamentare ed ex

membro della Commissione Antimafia: con lui muore anche l'autista Lenin Mancuso.

Dal '74 al '79 si intensifica l'ondata di violenza che scandisce la vita degli italiani, con attentati che

vanno dalla bomba all'omicidio politico. Soltanto tra il '78 e il '79 si contano 23 morti, un'ottantina

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di feriti e oltre tremila attentati, ha matrice politica è quasi sempre di sinistra, la crescita delle

imprendibili Brigate Rosse è facilitata dall'inefficienza degli apparati investigativi. Dopo l'arresto di

Curdo e Franceschini, nel '74, Dalla Chiesa era stato rimosso dall'incarico di capo

dell'Antiterrorismo e mandato a gestire la Securpena. Gli apparati di sicurezza nei confronti del

terrorismo rosso sembravano aver adottato la politica del lais- sez faire, forse convinti che le

violenze avrebbero favorito la sconfitta del Partito Comunista. Il calcolo si rivelò sbagliato, perché il

PCI di Berlinguer nel '76 raggiunse il suo massimo storico con il 36 per cento dei consensi elettorali.

Ma alla crescita del terrorismo politico si affianca quella della criminalità organizzata: la presenza di

Sindona a Palermo rivela l'esistenza di una mafia "riorganizzata" che gode di altissime protezioni,

mentre a Roma si realizza una sorta di simbiosi tra malavita e terrorismo nero all'interno della

Banda della Magliana, che agisce con la protezione di agenti segreti e di Cosa Nostra. Nell'ultima

fase del sequestro Moro sembra essersi creata una sorta di sinergia tra le varie componenti

politico-criminali, il cui esito fu la condanna a morte del prigioniero. Così ha preso corpo il sospetto

che la crescita indisturbata delle Brigate Rosse avesse come scopo l'eliminazione dalla scena politica

di Aldo Moro.

6 gennaio. A Palermo viene ucciso il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella: un

delitto compiuto dalla mafia, ma che potrebbe avere un movente politico. È in seguito a questo

omicidio che, per i giudici d'appello di Palermo, Andreotti prende coscienza della pericolosità

criminale della mafia e avvia il suo graduale distacco dai boss di Cosa Nostra.

Marzo. Il giurì del Senato assolve Toni Bisaglia per i suoi rapporti con Mino Pecorelli.

18 marzo. Le BR uccidono il magistrato Girolamo Minervini: prosegue la mattanza nel ministero di

via Arenula.

4 maggio. A Monreale la mafia uccide il capitano dei CC Emanuele Basile.

28 maggio. Il giornalista Walter Tobagi viene assassinato a Milano dal gruppo 24 Marzo: un

omicidio che i militanti dell'organizzazione hanno attuato nella speranza di essere accolti dalle

Brigate Rosse.

4 luglio. A Milano la polizia ritira il passaporto a Roberto Calvi.

27 luglio. Nel cielo di Ustica scompare l'aereo di linea Bologna-Palermo: 87 morti. Fu un missile o

una bomba? L'inchiesta giudiziaria, come la Commissione Parlamentare d'Inchiesta, sembra

propendere per la prima ipotesi: l'aereo sarebbe stato abbattuto da un missile o, in alternativa,

esploso per una collisione, nel corso di un conflitto aereo nel Mediterraneo, il cui scopo era uccidere

Gheddafi.

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2 agosto. Un'ordigno ad alto potenziale, 500 chili di Semtex T4 stipati in una valigia, esplode alla

stazione di Bologna: 85 morti. Per questo attentato sono stati condannati all'ergastolo quattro

neofascisti, tra cui i romani Giusva Fioravanti e Francesca Mambro. Ma perché è esplosa quella

bomba? Due le alternative: un attentato libico in risposta al tentativo di abbattere l'aereo su cui era

Gheddafi, o un depistaggio che avvalorasse la pista terroristica anche per Ustica. Per la bomba di

Bologna sono stati condannati a dieci anni anche Licio Gelli, il generale Musumeci e il colonnello

Belmonte.

1 agosto. L'ala movimentista, capeggiata da Giovanni Senzani, uccide Roberto Peci, fratello di

Patrizio, il primo pentito delle BR. Una feroce vendetta trasversale, dietro cui s'intravede il

messaggio nei confronti dei pentiti di tacere sui misteri del sequestro Moro.

6 agosto. A Palermo, Cosa Nostra uccide il consigliere istruttore Gaetano Costa.

agosto. Le Brigate Rosse uccidono a Milano il magistrato Guido Galli.

15 agosto. A Castelvetrano viene ucciso l'assessore Vito Lipari.

settembre. Viene recuperato nel lago di Nemi il corpo del neofascista palermitano Francesco

Mangiameli, coinvolto nelle indagini sull'omicidio Mattarella e amico di Giusva Fioravanti.

13 settembre. In un bar di Trastevere viene assassinato Franco Giuseppucci, detto Er Negro, il

primo capo della Banda della Magliana.

Ottobre. Sindona viene condannato per il crack della Franklin Bank.

Novembre. Esplode lo scandalo Petroli con l'arresto dei generali Raffaele Giudice e Donato

Loprete.

23 novembre. Il terremoto in Irpinia provoca 2.500 morti e danni per migliaia di miliardi. Anni

dopo esploderà lo scandalo della "ricostruzione", cui parteciparono soprattutto imprese legate alla

camorra.

Dicembre. In un incidente aereo sospetto muore Serafino Ferruzzi, suocero di Raul Gardini. Negli

anni Novanta, dall'inchiesta sulla strage di via d'Amelio emergerà che l'impresa Ferruzzi concedeva

in Sicilia appalti alla mafia. dicembre. Le BR sequestrano a Roma il magistrato Giovanni d'Urso.

11 marzo. Viene assassinato il boss Salvatore Inzerillo, uno dei capi dell'ala moderata di Cosa

Nostra. marzo. In piazza San Pietro, Ali Agca, giovane estremista turco, spara a Giovanni

Paolo Il.

17 marzo. Ad Arezzo, la Procura di Milano sequestra gli elenchi della P2 custoditi a Villa Wanda, la

residenza di Licio Gelli.

23 aprile. Il capo di Cosa Nostra, Stefano Bontate, detto il Padrino, viene ucciso a Palermo dai

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corleonesi la sera del suo quarantunesimo compleanno. Siamo all'apice della guerra di mafia che ha

già provocato centinaia di morti.

28 aprile. Rapito a Napoli dalle BR l'assessore Ciro Grillo, ma dietro Giovanni Senzani s'intravede

la mano della camorra interessata a contrattare la gestione degli appalti post-terremoto. Secondo

recenti rivelazioni, nel sequestro sarebbe sceso in campo il famigerato Anello, la cellula dei servizi

segreti delegata alla gestione degli affari sporchi.

5 giugno. Luciano Rossi, colonnello della GDF, si suicida dopo essere stato convocato dalla

Procura di Milano: aveva indagato ad Arezzo sul passato di Licio Gelli.

9 luglio. Roberto Calvi tenta il suicidio nel carcere di Lodi.

Agosto. Roberto Calvi trascorre in Sardegna un periodo di riposo in compagnia di Francesco

Pazienza, che per l'occasione nomina consulente dell'Ambrosiano. Nel carcere di Novara viene

assassinato il terrorista di destra Ermanno Buzzi, agli arresti per la strage di Brescia. Anni dopo la

Procura scoprirà che il terrorista era in contatto con il Noto Servizio, la cellula segreta del Supersid.

Dicembre. Alessandro Alibrandi, legato ai NAR, figlio del giudice istruttore di Roma, muore in un

conflitto a fuoco.

17 dicembre. A Verona le BR rapiscono il generale USA James Lee Dozier, che sarà liberato dai

NOCS con un'irruzione nel covo.

1 aprile. Il criminologo Aldo Semerari viene trovato decapitato di fronte al castello di Ottaviano,

l'abitazione di Raffaele Cutolo: dietro l'omicidio la vendetta di un clan rivale o l'eliminazione di un

uomo che "sapeva troppo".

27 aprile. Muore a Milano Danilo Abbruciati: lo uccide la guardia del corpo del vicepresidente

dell'Ambrosiano Roberto Rosone che risponde al fuoco aperto dal boss della Magliana.

30 aprile. A Palermo la mafia uccide il segretario regionale del PCI, Pio La Torre, che si era battuto

contro l'installazione dei missili Cruise a Comiso.

17 giugno. Roberto Calvi viene trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, dov'era

fuggito in compagnia di Flavio Carboni. Secondo Frank Di Carlo a inscenare il delitto sarebbe stato

Vincenzo Casillo, luogotenente di Cutolo, su ordine di Cosa Nostra: la mafia nel crack

dell'Ambrosiano aveva perduto ingenti ricchezze.

15 luglio. Antonio Ammaturo, capo della Mobile di Napoli, che indagava sul sequestro Cirillo,

viene assassinato dalle BR.

3 settembre. A Palermo vengono uccisi Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti

Carraro. Tre mesi prima il generale era stato nominato Alto commissario per la lotta alla mafia, ma

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l'ipotesi emersa dal processo Andreotti è che sia stato eliminato perché in possesso di documenti

relativi al caso Moro. settembre. Albert Bergamelli viene assassinato nel carcere di Ascoli Piceno.

Ottobre. Pierluigi Pagliai, esponente di Ordine Nuovo, muore dopo la cattura in Argentina da parte

dei nostri servizi segreti. Era coinvolto in gravi episodi della strategia della tensione. novembre. A

Palermo la mafia uccide l'agente Calogero Zucchetto.

gennaio. Salta in aria con un'autobomba Vincenzo Casillo, vicecapo della Nuova Camorra

Organizzata. Il presunto omicida di Calvi è legato alla Banda della Magliana ed è a conoscenza di

molti segreti del sequestro Moro.

gennaio. A Valderice, frazione di Trapani, viene assassinato il giudice Giangiacomo Ciaccio

Montalto.

26 giugno. Le BR uccidono a Torino il magistrato Bruno Caccia.

13 luglio. A Monreale cade il capitano dei carabinieri Giuseppe D'Aleo.

22 luglio. Ancora a Palermo vengono assassinati gli agenti di polizia Mario Trapassi e Salvatore

Barlotta.

29 luglio. A Palermo, Cosa Nostra uccide il consigliere istruttore Rocco Chinnici,in procinto di

risolvere alcuni omicidi politici: forse aveva individuato i mandanti dell'omicidio Mattarella.

13 settembre. Gelli evade dal carcere svizzero di Champ Dollon.

24 ottobre. Tommaso Buscetta viene arrestato in Brasile. Tenta il suicidio ma sopravvive. La polizia

italiana, ottenuta l'estradizione, lo accompagna a Palermo e lo consegna al giudice Falcone con il

quale il pentito aveva chiesto di parlare.

5 gennaio. A Catania viene ucciso il giornalista Giuseppe Fava.

12 febbraio. Viene assassinato a Roma dalle BR il generale USA Leamon Hunt. Muore a New York,

cadendo dal nono piano del carcere, William Aricò, il presunto killer di Giorgio Ambrosoli.

24 marzo. Rapina alla Brink's Secur Mark, l'istituto di sicurezza che fa parte di una catena di

proprietà di Sindona: alcuni uomini incappucciati penetrano all'interno e si appropriano di denaro e

gioielli per circa 35 miliardi. A organizzare il colpo sarebbe stato Toni Chichiarelli, autore del falso

comunicato sul Lago della Duchessa: sul bancone vengono lasciati messaggi che collegano la rapina

al delitto Moro e all'omicidio Pecorelli. giugno. Scivola dalla barca il leader DC Toni Bisaglia.

Una morte oscura, sul la quale si sono accresciuti i sospetti quando, anni dopo, annegherà in un

laghetto del Cadore anche il fratello prete, Mario, che non aveva mai creduto alla tesi dell'incidente.

Bisaglia era stato inquisito dal giurì del Senato per i suoi rapporti con Pecorelli.

12 settembre. Il colonnello Amos Spiazzi, indagato nell'ambito dell'inchiesta sulla Rosa dei Venti,

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viene rinviato a giudizio. settembre. Sindona viene estradato dagli Stati Uniti.

28 settembre. In un agguato viene ucciso Chichiarelli, a conoscenza di troppi gravi segreti.

19 ottobre. Su ordine di cattura del PM Domenico Sica viene arrestato a Roma il generale del

SISMI Pietro Musumeci: è accusato di aver tentato di depistare le indagini sulla strage di Bologna.

novembre. L'ex sindaco Vito Ciancimino viene arrestato a Palermo.

novembre. Muore suicida a Londra anche Ugo Niutta, impresario farmaceutico, amico di Bisaglia e

del colonnello Varisco. dicembre. Esplode una bomba sul rapido Napoli-Torino: 15 morti e 80

ferì ti. La mafia scopre il terrorismo e ricorre alla strage per inviare segnali e minacce: è la risposta

del boss Pippo Calò alle rivelazioni di Buscetta.

19 febbraio. Arrestato il conte Vittorio Guglielmi, legato alla Banda della Magliana.marzo.

Francesco Pazienza viene arrestato a New York su ordine di cattura dei magistrati di Bologna. Con

Musumeci, Belmonte e Gelli anche lui è chiamato a rispondere di depistaggio nelle indagini sulla

strage alla stazione. 30 marzo. Si conclude a Roma, con l'arresto in un elegante appartamento della

Balduina, la lunga latitanza di Pippo Calò. aprile. A Trapani, con la stessa tecnica usata per la strage

sul treno - un ordigno fatto deflagrare con un comando a distanza - la mafia tenta di far saltare in

aria l'auto del giudice Carlo Palermo. Muore una donna con i suoi due bambini. 27 marzo. Le BR

uccidono l'economista Ezio Tarantelli. giugno. Francesco Cossiga viene eletto presidente della

Repubblica. agosto. A Porticello, vicino a Palermo, viene ucciso il commissario Beppe Montana.

8 agosto. Muoiono in un attentato anche il capo della Mobile, Ninni Cassare, e l'agente Roberto

Antiochia. La Mobile in quel periodo era considerata il braccio operativo del giudice Falcone e

aveva operato centinaia di arresti su indicazione di Buscetta.

7 ottobre. I palestinesi di Abu Abbas sequestrano la nave Achille Lauro e uccidono un cittadino

americano. Gli USA chiedono la testa di Abbas, che hanno individuato a Roma, ma il presidente del

Consiglio Craxi e il ministro degli Esteri Andreotti si oppongono. A Sigonella i carabinieri italiani

si fronteggiano con i soldati americani. È la più grave crisi tra Italia e USA del dopoguerra.

10 febbraio. Inizia il maxiprocesso a Palermo. Gli imputati sono più di quattrocento, quasi tutti in

carcere: è il primo processo alla mafia come organizzazione criminale. Il sindaco di Firenze, Landò

Conti, viene ucciso dalle Brigate Rosse.

22 marzo. Sindona muore in carcere a Vogherà, dopo aver bevuto un caffè al cianuro. giugno.

Francesco Pazienza viene estradato dagli Stati Uniti.

1987 2 febbraio. Il prefetto Vincenzo Parisi viene nominato capo della Polizia. febbraio. Mandato

di cattura per Paul Marcinkus, l'alto prelato coinvolto nel crack del Banco Ambrosiano.

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18 marzo. Le BR uccidono il generale Licio Giorgieri. marzo. In una rapina in via Prati di Papa

vengono uccisi due agenti: ad agi re sono ancora una volta le Brigate Rosse.

Maggio. Scompare l'economista Federico Caffè.

Luglio. I tre ex leader di Lotta Continua - Sofri, Pietrostefani e Bompressi - vengono arrestati per

l'omicidio del commissario Calabresi su indicazione del pentito Marino.

12 gennaio. Assassinato a Palermo l'ex sindaco Giuseppe Insalaco. 16 gennaio. La mafia uccide

anche l'agente Natale Mondo. 16 aprile. Nuovo omicidio BR: a Forlì un commando uccide il

senatore Roberto Ruffilli.

settembre. A Canicattì viene assassinato con il figlio il presidente della Corte d'Appello, Antonio

Saetta, cui era stato assegnato il maxiprocesso. Un minaccioso segnale dei boss affinchè siano

annullate o ridotte le pesanti condanne di primo grado.

settembre. A Trapani viene ucciso il giornalista Mauro Rostagno. giugno. Un pacco

contenente esplosivo viene ritrovato nella villa all'Addala, dove Giovanni Falcone trascorre il

periodo estivo. Gli inquirenti non credono che si tratti di un attentato di mafia, piuttosto di un

avverti- mento al giudice a non proseguire nelle sue indagini sui santuari del riciclaggio nelle

banche svizzere.

Agosto. Scompare a Palermo Giacomo Vitale, massone, cognato di Stefano Bontate,coinvolto nel

falso rapimento Sindona dell'estate 79.

3 agosto. Cade il Muro di Berlino, un evento che annuncia grandi cambiamenti negli equilibri

mondiali e che avrà ripercussioni sulla classe politica italiana non più protetta dall'alibi

dell'anticomunismo.

5 agosto. A Palermo viene ucciso Antonio Agostino, agente di polizia.

26 agosto. A Reggio Calabria la 'ndrangheta uccide l'ex presidente delle Ferrovie Ludovico Ligato.

11 settembre. La Procura di Palermo spicca un mandato di cattura nei confronti di Giusva

Fioravanti e Gilberto Cavallini per l'omicidio di Piersanti Mattarella.

19 ottobre. Arrestato a Roma Flavio Carboni.

Gli anni Ottanta sono contrassegnati dalla crisi istituzionale e politica che precede i grandi

mutamenti del decennio successivo. Dopo la crudele scomparsa di Moro dalla scena politica, la DC

appare incapace di trovare un nuovo leader che riassuma in sé le capacità di progettazione e le

finalità etiche proprie dello statista e si avvia, insieme a tutto il sistema dei partiti, verso una

degenerazione senza ritorno. Nell'81 e '82, la fine dell'emergenza terrorismo coincide con la crisi

della P2 di Lido Gelli: con il Venerabile escono di scena gli uomini più compromessi nelle trame

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rosse e nere. La macchina repressiva dello Stato riprende a funzionare: decine di capi BR vengono

arrestati e collaborano con la giustizia. Gli attentati si diradano anche se le Brigate Rosse,

ridimensionate a piccolo gruppo armato, mostrano una capacità di sopravvivenza ancora attuale,

forse dovuta al fatto che non si è mai riusciti, o non si è voluto, far luce sul "livello superiore"

dell'organizzazione terroristica e sulle sue protezioni. Alla sconfitta del terrorismo concorre

comunque la capacità di organi dello Stato di fare pulizia al proprio interno: l'arresto di alcuni

ufficiali del SISMI, come il generale Musumeci, che dal '77 dirige l'ufficio Controllo e Sicurezza del

SISMI, da cui dipende il reparto VII, cioè la struttura Gladio, coincide con il cambio della guardia

al vertice dei servizi segreti, resa possibile dalla scoperta delle liste P2 a Villa Wanda.

Ma i guai non sono finiti, una nuova emergenza è alle porte: la criminalità organizzata, forte del suo

coinvolgimento nei segreti di Stato, da Portella delle Ginestre al caso Moro, approfitta

dell'indebolimento della politica per presentare il conto. I clan della camorra, della 'ndrangheta e

della Sacra Corona usciti vincenti dalla guerra di mafia, si sono riorganizzati sotto il dominio di

Cosa Nostra, e appaiono sempre più inseriti nel mondo anche legale degli affari. «I ruoli si sono

invertiti, ora è la mafia che comanda la politica», così falcone riassume la situazione alla fine degli

anni Ottanta. Con la strage al treno del dicembre '84, Pippo Calò (un boss poco conosciuto, in

realtà assai potente e ben inserito) da inizio a quel terrorismo mafioso che sta a dire che ora è Cosa

Nostra a dettare le regole. Andreotti in questo periodo - sostengono i giudici d'appello dì Palermo -

ha preso coscienza della pericolosità criminale di Cosa Nostra e attua una linea di sbarramento, nei

confronti delle cosche, che si concretizzerà in forti misure antimafia, soprattutto alla fine degli anni

Ottanta quando, dopo un lungo periodo al ministero degli Esteri, torna alla guida del governo. Ma a

ispirare tale condotta è anche il suo eterno pragmatismo: Andreotti vuole cancellare le ombre del

passato, in vista della nomina cui aspira di capo dello Stato. Un "tradimento" cui la mafia

risponderà, nei primi anni Novanta, con una feroce vendetta.

1? marzo. La Corte d'Appello di Firenze conferma le condanne per la strage di Natale: ergastolo a

Pippo Calò.

9 aprile. Ucciso a Palermo Giovanni Bonsignore, funzionario della Regione.

Agosto. Le rivelazioni di Andreotti provocano una bufera attorno al capo dello Stato Francesco

Cossiga, coinvolto nella vicenda Gladio negli anni Sessanta, il quale reagisce vigorosamente

minacciando di ordinare la secretazione dei documenti raccolti dalla Commissione Gualtieri,

giungendo a ventilare il suo scioglimento. Cossiga definì "patrioti" i 620 gladiatori e diede inizio a

furibonde esternazioni. Lo scopo di Andreotti di provocare le sue dimissioni per giungere alla

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nomina di un nuovo capo dello Stato, prima delle elezioni politiche previste per il '92, è fallito:

Cossiga non si dimette.

3 agosto. Scoppia il caso Gladio. Il presidente del Consiglio Andreotti, in risposta a una richiesta

del presidente della Commissione Stragi Libero Gualtieri, conferma con un documento di dodici

pagine l'esistenza di reparti Stay Behind e di un Supersid cui erano delegate funzioni "antinvasione

e antisommossa" nell'azione di contrasto al comunismo. In un'intervista al TGl l'agente CIA

Richard Brenneke sostiene che gli USA, tramite la P2, avevano finanziato azioni terroristiche in

Italia e il traffico di armi e droga.

21 settembre. Uno dei tanti giudici "ragazzini" che operano in Sicilia, Rosario Livatino, a soli 32

anni viene massacrato in un agguato di mafia.

11 ottobre. Nell'ex covo delle BR, in via Montenevoso, durante lavori di ristrutturazione, viene

ritrovata la fotocopia dell'originale del Memoriale Moro, che contiene una trentina di pagine in più

rispetto alla fotocopia diffusa nel 1978. Oltre a più esplicite accuse ad Andreotti, il Memoriale

contiene informazioni su Gladio.

Novembre. Gravi ripercussioni in tutta Europa per le rivelazioni sull'esistenza di una struttura

segreta finalizzata alla lotta al comunismo. Uno dopo l'altro i governi di vari paesi, a partire dalla

Grecia di Papandreu, furono costretti ad ammettere l'esistenza di reparti Stay Behind, nonostante la

NATO avesse dato ordine di secretare ogni informazione.

9 novembre. Andreotti torna alla carica su Gladio: in un primo momento aveva sostenuto che la

struttura antiguerriglia era stata disciolta nel 72; ora precisa invece che in seguito era stata

stabilmente inglobata nel servizio segreto militare.

17 novembre. Trecentomila persone partecipano a una manifestazione indetta dal PCI di Achille

Occhetto per chiedere la verità sulle stragi e lo smantellamento di Gladio.

1 giugno. Andreotti viene nominato senatore a vita da Cossiga: tra i due è pace fatta dopo che a

febbraio, svanita la possibilità che il capo dello Stato rassegnasse le dimissioni, il presidente del

Consiglio gli aveva rinnovato la fiducia del governo.

9 agosto. Antonino Scopelliti, il PG di Cassazione che stava istruendo la requisitoria per il

Maxiprocesso, viene ucciso a Reggio Calabria in un agguato della 'ndrangheta. È la prima, concreta

minaccia messa in atto da Totò Riina:gli ergastoli devono essere annullati dalla Suprema Corte.

29 agosto. Libero Grassi, un commerciante palermitano che si era rifiutato di pagare il rachet, viene

assassinato in pieno centro a Palermo.

Novembre. Una richiesta di impeachment viene avanzata dall'opposizione nei confronti del

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presidente Cossiga per il caso Gladio.

31 gennaio. La Cassazione rigetta le richieste di annullamento dei boss e conferma tutte le pesanti

condanne della prima sentenza del Maxiprocesso.

febbraio. In una villa nelle campagne di Enna un summit di mafia decide la rappresaglia dopo le

condanne in Cassazione. «Spaccheremo le corna a tutti», annuncia Totò Riina.

12 febbraio. La Cassazione annulla anche le assoluzioni del processo di appello sulla strage di

Bologna.

17 febbraio. L'arresto di Mario Chiesa fa esplodere Tangentopoli.

12 marzo. Salvo Lima, europarlamentare DC, luogotenente di Andreotti a Palermo, viene ucciso

davanti alla sua abitazione a Mondello, mentre si accinge a partecipare a un riunione elettorale: è la

prima vendetta dei boss. Spiegherà Buscetta: «L'obiettivo è screditare Andreotti», cioè dimostrare

che aveva rapporti con la mafia.

4 aprile. Ad Agrigento viene ucciso il maresciallo dei CC Giuliano Guazzelli.

22-25 aprile. A Gorizia, in Friuli, vengono scoperti numerosi arsenali bellici della Gladio.

maggio. A Capaci, sull'autostrada che collega l'aeroporto di Punta Raisi a Palermo, con un

comando a distanza, vengono fatti esplodere 500 chili di tritolo collocati in un viadotto: muoiono il

giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e cinque agenti di scorta.

maggio. Sull'onda dell'emozione per l'eccidio di Capaci viene eletto capo dello Stato Oscar Luigi

Scalfaro.

19 luglio. In via Mariano d'Amelio, con la stessa tecnica del comando a distanza, viene fatta

esplodere una Fiat 126 imbottita di tritolo: muoiono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di

scorta. La seconda strage di mafia non sembra collegata all'esito del Maxiprocesso, ma decisa

successivamente perché il giudice sarebbe stato sul punto di scoprire i mandanti del massacro di

Capaci, e forse anche per impedire che Borsellino venisse nominato procuratore nazionale

antimafia.

Settembre. Torna in Italia il pentito Tommaso Buscetta, ormai libero cittadino americano: per

rendere giustizia a Falcone ha deciso di rivelare tutto quello che sa sui rapporti tra mafia e politica.

20 marzo. Le procure di Roma e Palermo chiedono l'autorizzazione a procedere nei confronti di

Giulio Andreotti, accusato di associazione mafiosa e come mandante del delitto Pecorelli. Chiesta

l'autorizzazione anche per l'ex ministro dell'Interno Antonio Gava.

14 maggio. In via Fauro, a Roma, esplode attorno alle 18 un'autobomba che devasta gli stabili

circostanti. Possibili obiettivi: Maurizio Costanzo e la moglie Maria De Filippi, appena usciti dal

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Teatro Parioli, o una sede del SISDE sotto copertura presente in quella stessa strada. Il terrorismo

mafioso sembra aver imboccato una strada senza ritorno: i boss chiedono l'abolizione delle leggi

speciali e la revisione dei processi.

27 maggio. A Firenze, in via dei Georgofili, un ordigno ad alto potenziale viene fatto deflagrare

sotto la Torre del Pulci, a due passi dalla Galleria degli Uffizi: 5 morti. La mafia ha deciso di colpire

monumenti e opere d'arte.

20 luglio. Il presidente dell'ENl, Gabriele Cagliari, viene trovato morto nei bagni del carcere di San

Vittore.

23 luglio. L'ex presidente della Ferruzzi Raul Gardini si spara un colpo di rivoltella alla tempia nella

sua residenza di Milano, a Palazzo Belgioioso.

luglio. In via Palestra, a Milano, salta in aria un'auto parcheggiata vicino al Padiglione d'arte

contemporanea: muoiono quattro vigili del fuoco e un marocchino.

luglio. Appena un'ora dopo la strage di Milano esplodono a Roma, in rapida successione, altri

ordigni sul retro della Basilica di San Giovanni e a San Giorgio al Velabro, alle spalle dei Fori

Imperiali. Nessuna vittima.

Nino Gioè, uno dei boss della strage di Capaci, si suicida nel carcere di Re bibbia la stessa notte

delle bombe. Racconta il cugino Frank Di Carlo che era stato contattato da agenti di servizi segreti

stranieri, su sua indicazione, per uccidere Falcone. In seguito avrebbe aperto, per conto di Runa e

Bagarella, una trattativa tra Stato e boss, tramite un suo ex compagno di cella, il neofascista Paolo

Bellini, informatore dei carabinieri.

14 gennaio. Un'autobomba, imbottita di tritolo e cubetti d'acciaio stipati in sacchi dell'immondizia,

sarebbe dovuta esplodere nei pressi dello stadio Olimpico investendo la folla al termine della

partita, ma soprattutto un pullman di carabinieri che si stava allontanando al termine del servizio di

vigilanza. A ordinare la strage, ancora un volta, il sanguinario Leoluca Bagarella.Ma il telecomando

non ha funzionato. È l'ultima strage di mafia, per fortuna non attuata; da questo momento le bombe

tacciono.

l'1 aprile. Alle elezioni politiche viene sancita la fine della Prima Repubblica e del suo sistema

politico. Vincono nuove formazioni come Forza Italia e la Lega Nord. La DC è uscita di scena e si

presenta al confronto elettorale spezzata in due tronconi. Anche il PSI di Craxi, travolto da

Tangentopoli, non c'è più.

Questo primo scorcio degli anni Novanta porta a compimento un progetto che sembra avere radici

lontane, forse già in nuce in quel piano di Rinascita Nazionale che Lido Gelli ha fatto ritrovare in

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una valigia della figlia, mentre era agli arresti in Svizzera, e che costituiva il progetto politico della

P2. Un progetto che negli anni Settanta aveva come scopo prioritario la sconfitta del PCI e dello

schieramento di sinistra e che è andato evidentemente sviluppandosi, dopo la scomparsa di Gelli,

anche nei confronti della DC e dell'intero sistema politico italiano. Tre eventi hanno accelerato

questo disegno: la caduta del Muro di Berlino, che poneva fine all'esperienza del blocco comunista,

la nascita della nuova Europa e il conflitto arabo-israeliano. Ma gli anni seguiti al '94 sono stati

contrassegnati da un'instabilità politica che in Italia sembra dura a morire. Anche la nuova classe

dirigente appare in gran parte compromessa con il passato, e reca con sé i vizi della corruzione e dei

poteri occulti che hanno caratterizzato la Prima Repubblica. Per questo, dieci anni dopo, non può

considerarsi concluso il periodo di transizione.

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Sentenza della Corte d'Appello di Palermo.

Indice dei nomi Abbatangelo, Pasquale 319 Abbatino, Maurizio 278, 281-282, 293, 320 Abbé Pierre

180 Abbruciati, Danilo 278,281, 292-293 Abbas, Abu 332 Addario, Tommaso 102,112 Affatigato,

Marco 317 Agate, Mariano 152 Aglioloro, Mario (alias Calò, Pippo) 286 Albano, Antonio 328

Aleandri, Paolo 120,280, 317 Alemi, Carlo 202 Alessandrini, Emilio 134 Alibrandi, Antonio

162,276 Alliata, Gianfranco 297 Aloja, Giuseppe 150-151, 186 Amati, Giovanna 141 Ambrosoli,

Giorgio 157, 160, 162, 166, 168-170,281,296 Anders, Wladislaw 99 Andreatta, Berniamino 292

Andreotti, Giulio 7, 11-12, 15-18, 27-53, 55-56,58-66,68-83, 86, 91-93, 97-103, 105-110, 112,

114-116, 120425, 128-136, 138-139, 147-148, 153, 155-156, 160, 162-163, 165-166, 168, 175-176,

179, 185-186, 189-199, 202-203, 212, 214, 219-223, 230, 235, 243-244, 247, 251, 265-266, 279-283,

287, 290, 293, 296-299, 301, 306-308, 311, 320-321, 325-329, 331-333, 337-343, 345-355, 359-360,

367, 378-382, 385-390, 392, 397-399,402-405 Andreotti, Livia 31 Andreuzzi, Fabrizio 141 Angelini,

mons. Fiorenzo 37 ANIPE, 239 ANSA (Agenzia Nazionale Stampa Associata) 79,132,261,310

Anselmi, Tina 92, 148, 152, 398 Antiochia, Roberto 331 Appel, Federico 232 Arcaini, Giuseppe

102, 108-109, 111-112, 142, 151 Arcaini, Rino 111 Ardizzone, Federico 151 Aricò, Joseph 168-169

Assemblea Regionale Siciliana 301, 329 Autonomia Operaia, 134, 181, 214, 225-

226,253,257,315,401 Avanguardia Nazionale 120-121, 127, 133, 300,371 Azzolini, Lauro 48, 181,

242-243, 399 Badalamenti, Gaetano (detto Tano) 29-30, 42, 47-48, 50-51, 53-55, 59, 61, 64-65,

69-70, 73, 77-79, 81-87, 136, 156, 290, 293,387 Baffi, Paolo 162 Bagarella, Leoluca 74, 84-86, 306,

364, 369-370,372 Baglioni, Tindaro 401 Balducci, Domenico (detto Mimmo) 284, 286-292, 320

Balestrieri, Giorgio 152 Balzerani, Barbara 213,242,268 Banca d'Italia 108,158,160,162, 328 Banca

del Cimino Banca Nazionale dell'Agricoltura 115 Banca Privata 156-157, 159, 162, 164 Banco

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Ambrosiano 158, 160, 278, 281, Indice dei nomi

292-294, 327-328 Banco di Santo Spirito 283 Banda della Magliana 55-56, 58, 97, 105, 112-113,

133, 138, 169-170, 201, 207, 216, 219, 222-223, 226, 228, 233-234, 261, 276-284, 286-290, 292-293,

300-301,317-318,323,325,387,397 Barbi, Giampaolo 240-242, 396, 401 Battoli, Rita 303 Baruffi,

Luigi 345 Baschieri, Paolo 241, 399 Bassani, Giorgio 260 Battistini, Giorgio 196 Battistini,

Rolando 201, 279 Baudet, Paul 315 Bellicini, Maffeo 278 Bellini, Paolo (alias Roberto Da Silva)

371-372,375 Bellucci, Luciano 241 Belmonte, Giuseppe 282, 300 Beltrametti, Edgardo 125

Bentrami, Arialdo 208 Benz, Ottimar 112 Berenguer, Jacques 278 Berenson, Bernard 248

Bergamelli, Albert 141-142, 201,277-278 Berio, Duccio 394 Berlinguer, Enrico 183, 190, 267, 395,

402 Berlusconi, Paolo 287 Berlusconi, Silvio 37-38,346,363-365,389 Berteli, Gianfranco 133, 270

Besuschio, Paola 403-404 Biagi, Marco 268 Bianchi, Paolo 279 Binetti, Carlo 292 Beolchini, Aldo,

116 Biondino, Salvatore 368, 373 Bisaglia, Antonio (detto Toni) 171 Biscione, Francesco Maria

109,193 Bocca, Giorgio 309 Boldrini, Arrigo 395 Bombaci, Stefano 241 Bonaiuto, Anna 256

Bonamico, Joseph 161 Bonaventura, Umberto 396 Bonfigli, Silvio 270 Bongiorno, Giulia 30, 32-33,

35, 50, 78, 83,193 Bongiovanni, Ivano 201 Bongiovino, Salvatore (detto Totò) 152 Bonisoli, Franco

181, 242-243, 245 Bontate, Stefano 34, 42, 47-48, 50-52, 55- 56, 64, 66-75, 77-78, 80,152, 161, 200,

219-221,285,299,301,331,342 Booth Luce, Claire 116 Borghese, Junio Valerio 117-119,136, 197

Borghi, Mario 371, 373 Borissov,Juri429 Borrelli, Saverio 376 Borruso, Andrea 191 Borsellino,

Paolo 17,41,43,305, 310,321, 354,357-358,360-361,363 Bosco, Vito 291 Bossi, Ugo

201-202,218-220 Bosso, Luigi 201-202 Bou Chebel Ghassan 303 Bozzi, Luciana 211 Bozzo,

Niccolo 204-206,243, 404 br (Brigate Rosse) 8-9, 11-13, 48, 54, 59,

76-77,81,91,96-97,125-127,130,135, 142, 150, 160, 168-169, 175-177, 179-180, 182-183, 185, 189,

191, 193, 195-196, 200, 206, 208,-210, 213-220, 223-238, 240-248, 250-259, 261, 263, 267-269, 271,

275-276, 302, 311-315, 323-325, 346, 349, 363, 370-371, 390-391, 393-396,398-403,405 Braghetti,

Anna Laura 223-228, 264, 314, 396 Brenneke, Richard 149 Brink's Securmark 323-324 Brugnano,

Francesco 85 Brusca, Bernardo 372 Brusca, Emanuele 71 Brusca, Enzo 71 Brusca, Giovanni 46, 66,

71, 84, 86-87, 221,331,356,360,368,372 Bubbico, Mauro 287 Buffa, Pierluigi 142 Bulgari, Giovanni

141,153 Buscemi, Antonino 362 Buscemi, Salvatore 362 Buscetta, Domingo 85 Buscetta, Tommaso

(detto Masino) 17,27, 34, 38,40-53,55-56,58-59,61,-62, 66-71, 73, 75-77, 79-87, 97, 99-100, 104,

119, 136,176,189,191-192, 198,200, 202, 218-220, 235, 261,278, 282, 285, 290, 293, 295, 297,299,

321-323, 330, 343, 354, 357, 360, 380-381, 386-387, 396 Bush, George 16,184, 366 Buttafuoco,

Page 373: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

Nino 151 Buzzati, Roberto 241,400 Indici: dei nomi

Buzzi, Ermanno 208 Cabassi, Giancarlo 292 Caetani, Topazia 247, 252,268-269 Caetani,

Margherita 250, 258 Caetani, Michelangelo 241 Cagliari, Gabriele 375 Calabresi, Luigi 134,394

Calabrò, Maria Antonietta 392, 404 Calcara, Vincenzo 328 Calderón de la Barca 184 Calderone,

Antonio 136, 152 Calderone, Giuseppe 152 Calò, Pippo 29-30,48,55-56,77,113,136, 219, 220-221,

261, 275, 277-278, 285- 288, 290-294, 319-323, 325, 330, 361, 372,375 Calogero, Guido 394

Caltagirone, Franco 108 Calvi, Roberto 18, 48, 278, 291-294, 327- 328,368,373 Camus, Albert 23

Canale, Antonio 358 Cancemi, Salvatore (detto Totò) 55, 361, Cannella, Tullio 364 Caponnetto,

Antonino 330, 343 Caprara, Massimo 312 Caracciolo, Carlo 292 Carbone, Giovanni 330 Carboni,

Flavio 279, 286-289, 291-294, Cardella, Fausto 47-48, 86 Cardellini, Romolo 101 Carenini, Egidio

53,102 Carli, Guido 151 Carloni, Massimo 257 Carminati, Massimo 29-30, 55, 104-105,

140,277,282,317 Carnovale, fratelli 279 Carnovale, Vittorio 281 Carobbi, Italo 143 Carter, James

Earl (detto Jimmy) 190 Casardi, Mario 123 Casaroli, Agostino 327 Caselli, Giancarlo 35-36, 205,

387-388 Casillo, Vincenzo (detto Enzo) 219, 279, Cassarà, Ninni 331 Cassina, Arturo 322 Casson,

Felice 127,131-132,345, 348, 351 Cavallaro, Roberto 207 Cavallini, Gilberto 282 Cazora, Benito

179, 213, 219, 222, 261, 281,287,312 Ceausescu, Martin 184 Ceausescu, Nicolae 153, 155, 184

Cecconi, Osvaldo 258 Cecconi, Settimio 268 Cederna, Camilia 101 Cefis, Eugenio 151 Centro

Sociologico Italiano 303 Centro Sperimentale di Cinematografia 256 Cercola, Guido 319-320

Cervetti, Giovanni 150-151 Cervone, Vittorio 237, 239 Cesqui, Elisabetta 152 Chapin, Margaret

268 Chelazzi, Gabriele 240, 396, 399-400 Chiavarelli, Noretta 182, 214 Chiazzese, Irma 300, 302

Chichiarelli, Toni 169, 171, 216, 323-325, Chiesa, Mario 352, 354 Chinnici, Rocco 152, 302-303,

329 CIA (Central Intelligence Agency) 31, 92- 93, 101, 116, 118, 121, 123, 127, 132, 138, 143,

149-150, 152, 158-159, 161, 176, 180, 184, 193, 204, 206, 267, 270, 289,320,339-342,348,390,395

Ciampi, Carlo Azeglio 353, 365 Cianci, Dante 241 Ciancimino, Vito 42, 71, 73-74, 100, 136, 221,

295, 299, 302-306, 308, 327, 330, 339,354,363 Ciarrapico, Giuseppe 138, 280, 327, 329, Cioppa, Elio

142,0212 Cipriani, Luigi 234 Cirillo, Ciro 8, 93, 128, 142, 201-202, 212, 233, 241-242, 280, 292-293,

344, 400 ClSA 362 Ciucci, Sandro 243 Ciò, Alberto 214 CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche)

Cobajar 260 Cocteau, Jean 248-249 COGEFAR362 Cogliandro, Demetrio 247, 249-250, 257,

267,318 Colatigli, Marcello 278 Collettivo Politico Metropolitano 180, 205-206, 394 Indice dei

nomi

Page 374: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

Colombo, Gherardo 155, 161 Comitato di Liberazione Nazionale di Arezzo 144 Comitato di

Liberazione Nazionale di Pistoial05 Concutelli, Pierluigi 138, 140-141, 203, 300 Conforto, Giorgio

129, 211, 267 Conforto, Giuliana 211, 271 Connally, John 143, 161 Conti, Landò 400 Continental

Illinois Bank 158 Contorno, Antonio (detto Totuccio o Totò)86, 330, 344 Contrada, Bruno 302,

331 COPACO (Comitato di Controllo sui Servizi Segreti) 251, 347 Coppetti, Marcello 310-311

Coppi, Franco 30, 33, 48,50, 78 Coppola, Agostino 150-151, 218 Coppola, Frank 150, 218-220, 298,

328 Cornacchia, Antonio 169, 256 Corona, Armando 292 Corrado, Giuseppe 247 Cosa Nostra

11-12, 16, 27, 29, 34, 39, 41-44,46-48,51,55, 64,71, 73,77, 79, 81-82, 87, 119, 133, 137, 151-152, 156,

159, 161, 171, 185, 219-220, 278, 282, 286, 290, 295, 299-303, 305, 309-310, 319-323, 328, 330-331,

338, 342-343, 354, 357, 360-366, 368-369, 371-372, 374-375,377-379,386 Cosentino, Angelo 56,102

Cosmic 202 Cossiga, Francesco 54, 133, 148,190, 197, 220, 222, 231, 233-236, 332, 337-338, 341,

345-346, 349-353, 379, 391-392, 398, 404-405 Costa, Gaetano 303 Costanzo, Giuseppe 357

Costanzo, Maurizio 358 Craveri, Raimondo 263, 269 Craxi, Benino 148,181,249-251,275,326-328,

330-333, 338-340, 346-347, 349, 351, 353, 355, 359, 362, 364-365, 386, 389,395,398 Cresci,

Giampaolo 102 Criminalpol 81,303,321 Croce, Elena 253,260,263 Cuccia, Enrico 151,162

Cummings, Samuel 152 Curcio, Renato 135,205-206,227,393-394 Cutolo, Raffaele 133, 142,

200-201, 219-220, 242, 275,277, 279-280, 291, 293 D'Acquisto, Mario 308 Dal Bello, Luciano

324-325 D'Alessio, Marina 141 Dalla Chiesa, Carlo Alberto 46-48, 50-51,

53-54,57-59,76,81-82,91-92, 97,102, 106, 115,127,149,160,170,176,181, 189, 192, 194-199,

201-206, 208-210, 222-224, 228-231, 234-235, 237-238, 243, 245, 249-250, 263-264, 293, 295,

304-305, 307,315,319,324, 327, 333, 344, 348-349, 354, 380- 381, 391-393, 396-397, 404 Dalla

Chiesa, Nando 327,397 D'Amato, Federico Umberto 102,128,137, 267, 289, 394 Danesi, Emo

102,141 D'Antona, Ignazio 345 D'Antona, Massimo 268,400 D'Argentine, Adolfo Beria 204-205

Darida, delio 287 Davi, Francesco 71 oc (Democrazia Cristiana) 11, 13, 18, 28,

32-38,41,50,53,59-60, 62, 67, 69, 72-74, 76-77, 91, 100-101, 105-106, 108-109,112,

115,120,125-126, 130,134, 136, 138,148,151,154,159-160,165, 171, 175-177, 181, 183,185-191, 193,

195, 200-202, 210, 213-218, 220-222, 225-226, 230, 235, 237, 239, 241-242, 248, 252-253, 255, 258,

262, 265-268, 287, 295-299, 305, 308, 312-313, 326-329, 332-333, 337-343, 346, 352-353, 355,

359-360,365,376,379, 387, 389-391,398,401,403-405 De Benedetti, Carlo 292,346, De Boccard,

Enrico 125 De Carolis, Stelio 191 De Cataldo, Franco 108 De Chirico, Giorgio 60,169, 323, 325 De

Cosa, Raffaele 256 De Donno, Giuseppe 305,363 De Felice, Fabio 280,253,317 De Ficky, Luigi

234,254 De Francesco, Emanuele 214 De Francisci, Gabriele 300 De Gasperi, Alcide 328 De

Page 375: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

Gennaro, Gianni 368-369 De Gori, Pino 324 De Laurentis, Marina 292 Indice dei nomi

Delfino, Francesco 179 Delle Ghiaie, Stefano 120-121, 124, 237, Dell'Osso, Luigi 155 Dell'Ulti,

Marcelle. 38 De Lorenzo, Giovanni 93, 116-117, 124, 150-151,186,193,197,208,385 Del Ponte,

Carla 345, 361 De Luca, Antonio 303 De Lutiis, Giuseppe 8,135 De Martino, Guido 142 De

Martino, Roberto 129 De Matteo, Giovanni 102,215 De Mauro, Mauro 151 De Michelis, Gianni

181 De Mita, Ciriaco 326-327, 329, 332-333, 337-340,343-346,349,353 De Noia, Laura 256,270 De

Pasquale, Fabio 375 De Pedis, Enrico 278, 280-281, 283, 293 Democrazia Nazionale 60 De

Tornasi, Pasquale 284 De Vuono, Giustino 180-181, 236, 312- 313,315 Dewey, Thomas E. 158

DIA (Direzione Investigativa Antimafia) 87, 368-370,375,377 Di Carlo, Frank 74-75,129,134,262-

263, 291,293,368,372-375 Di Cillo, Rocco 357,381 Di Cristina, Giuseppe 286-287,291 Di Donato,

Pietro 253,257,262 Diecidue, Romolo 150 Di Giovanni, Edoardo 211 DIGOS (Divisione

Informazioni Generali Operazioni Speciali) 169,211,215,242 Di Maggio, Balduccio 37, 179, 306,

339, 341,387 Di Matteo, Santino 360, 368 Diotallevi, Ernesto 281, 290, 292-293 Di Petrillo,

Domenico 370 Di Pietro, Antonio 362-363, 389 Di Pisa, Alberto 344 Dollmann, Eugen 248,269

Donat Cattin, Carlo 329 Dongo, Paolo 142 Donovan, William 263 D'Ortensi, Alessandro 280

Dozier, James Lee 229, 267 Dulles, Allenilo ENEL (Ente Nazionale per l'Energia Elettrica)

207-208, 356-357 ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) 136, 257, 375-376 Enimont 346, 376

Evangelisti, Franco 60, 77, 102, 162, 192, 194,280,298,325,352,397 Fabiani, Roberto 151 Fachini,

Massimiliano 317 Falcone, Giovanni 17, 32, 40-45, 49, 53, 56, 67, 69, 82, 87, 119, 152, 165, 221,

278, 300, 303-304, 310, 321-322, 329- 331, 343-345, 349, 353-354, 357, 360- 363,369,373-374,381

Falcone, Maria 345 Fanfani, Amintore 127,168,190,207,329, 338, 403 Faranda, Adriana

181,211,225-227,257, 271,324,403 Fanello, Luigi 232 Fasanella, Giovanni 205, 249 Fattorini,

Antonio 229,252,257 FBI (Federai Bureau of Investigation) 40, 45, 86, 93, 154, 159, 166, 322

Feltrinelli, Giangiacomo 129, 133, 207- 208, 268,270 Fenzi, Enrico 400 Ferrante, Giovambattista

368 Ferrara, Giovanni 179 Ferrara, Giuliano 340 Finabank 157, 159 Fioravanti, Cristiano 300

Fioravanti, Giusva 104,139,170,277,282, 298-300,302,317 Flaminia Nuova 112-113 Florio,

Salvatore 155 Foligni, Mario 106-107 Fondazione Caetani 260, 402 Forlani, Arnaldo 134, 328-329,

338, 353, Formisano, Edoardo 200 Francescani, Alberto 135, 182, 203, 205-

207,271,315,391,393-394 Francese, Mario 160 Franchini, Antonio 268 Franciosi, Felice 141 Franco

Bahamonde, Francisco 121 Franklin Bank 158-159,166 Freato, Sereno 98, 107, 170 Freda, Franco

115, 317 Frei, Aloisio Paul 112 Frey, Paul Roberto 112 Indice dei nomi

Page 376: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

Frezza, Pascal 238, 312 Frittoli, Luciano 149, 152 Fronte Rivoluzionario 112 Fumagalli, Carlo 129,

134, 208-209, 269- 270, 275 FUORI 257 Galesi, Mario 268 Galli, Giorgio 296 Gallinari, Prospero

181-182,206,224-225, 227,271 Gallucci, Achille 108, 145 Galvaligi, Enrico Riziero 196 Gamberini,

Giordano 150, 280 Gambino, Giuseppe 372 Gambino.John 159, 161 Ganci, Calogero 360 Ganci,

Raffaele 291, 308 GAP (Gruppi di Azione Partigiana) 118, 246, 248, 253 Cardini, Raul 362, 375-376

Garofano, Giuseppe 376 Gasca Queirazza, Giuliano 119 Gaspari, Remo 37, 223 Gava, Antonio 15,

37, 242, 329, 343, 355 Gawronsky, Jas 116 Celli, Licio 11, 91-93, 97, 100-102, 104- 105, 107,

117-119, 125, 139-148, 150- 155, 159-163, 165, 168, 250, 280, 283, 288-289, 300-302, 310-311,

318-319, 329,379,398 Gengarella, Ernest 159 Genovese, Vito 159 Getty, Paul 260,262 Gheddafi,

Muammar 316, 318, 381 Giacomelli, Alberto 343 Giammarinaro, Giuseppe 329 Giammona,

Giovanna 85 Giammona, Giusto 85 Giannettini, Guido 120-121, 123-125,135, 138, 186 Giglio,

Daniela 33 Gioè, Nino 356, 367-377 Gioia, Giovanni 297-299 Giordana, Marco Tullio 81

Giovanni Paolo il (Karol Wojtyla) 242,348 Giraudo, Massimo 246,249,255,257-258, 262,269

Girlando, Cìiovanni 279 Girotto, Silvano 393 Giudice, Raffaele 106-107 Giuffrè, Nino 38, 42, 331

Giuliani, Egidio 317 Giuliano, Boris 160,169-170,296 Giuliano, Salvatore 136,297, 364

Giunchiglia, Ezio 152-153 Giuseppucci, Franco 201, 278, 281-282, 317 Gladio 81, 85,

92,100,116,127,129,131- 133, 135-138,147,152,175, 177, 193, 207, 216, 232-234, 244, 249, 251, 257,

276, 304-305, 339, 345-353, 365, 379, Gnocchi, Carlo 163 Gorbaciov, Mikhail 184, 338, 340 Goria,

Francesco 338,341,343 Grado, Marco 85 Graldi, Paolo 110 Grande Oriente d'Italia

143,150-151,211, 220, 289, 292, 365 Grassini, Giulio 214 Grasso, Pietro 35 Gratteri, Francesco 370

Grazioli Lante della Rovere, Massimiliano Greco, Michele 151-152 Greco, Salvatore 151

Grimaudo, Giovanni 152 Gronchi, Giovanni 116,150,153 Gruppo Ferruzzi 361-362,375-376

Guarino, Philip 163 Guarrasi, Vito 151 Guccione, Bob 252 Guerzoni, Corrado 311,390 Guglielmi,

Camillo 179-180, 233, 312 Guglielmi Lante della Rovere, Vittorio 320 Gunther 208 Gurion, Ben

249 GUS (Gruppo Unità Speciali) 365 Guzzi, Rodolfo 163 Haig, Alexander Meigs jr 161, 289

Helleniki Tekniki 159 Himmler, Heinrich 248 Howard, Hubert 246-249,257,260, 402 Flyperion

180-181,205-206,226,242,258, 267,270,313,315,394,400-401 IMI (Istituto Mobiliare Italiano) 109

Immobiliare Savellia 254 Impastato, Giuseppe 81 Imposimato, Ferdinando 224, 253-255, 404

Incandela, Angelo 53,56-59, 76,170,176, Indice dei nomi

197-204,235,307,312 Melisi, Luciano 102, 108, 111, 179, 239, Ingargiola, Francesco 33, 62, 93, 388

Page 377: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

Insalaco, Giuseppe 343 Inter Arms 152 Inzerillo, Salvatore 47, 55, 99, 165, 302, Ionta, Franco

130,212,242, 283 IOR (Istituto Opere Religiose) 157-158, 161,183,253,262,328 Italcasse 60,

99-100, 102, 104, 107-112, 153, 189-190, 193-194, 196, 287-288, 291,346,387 Izzo, Angelo 300

Jalongo, Italo 298 Jones, Ralph 309 Kafka, Franz 18 Kennedy, John Fitzgerald 177 KGB (Komitet

Gosudarstvennoi Bezopa- snosti) 176, 184, 211, 213, 252, 266- 267, 269, 271, 391-392, 394-395,

400- 401 Kissinger, Henry 46, 121, 182-183, 191, 252,270,348,381,390 Klinghoffer, Leon 331

Konig, Franciscus 150 La Barbera, Gino 357, 367-370, 372, 377 La Barbera, Gioacchino 360 La

Barbera, Michelangelo (detto Angelino) 29-30,55,141,362 La Bruna, Antonio 102,121-123, 214,

217 Lai, Osvaldo 324-325 Lallicata, Giannuzzi 323 La Mattina, Nunzio 325 La Pira, Giorgio 163,

298 La Torre, Pio 161-162, 302-304, 306-307, 339,358 Lebole, Giovanni 150, 153, 184 Le Carré,

John 147,195 Lega Calabra 364 Lega Centro Sud Isole 364 Lega Italiana Pugliese 364 Lega Laziale

364 Lega Nazional-Popolare 364 Lega Nord 337 Leonardi, Giuseppe 176-179, 238, 266 Leone,

Anna Maria 33 Leone, Giovanni 101-102,189, 347, 403 Levi, Primo 253 Licata, Giovambattista 320

Ligato, Ludovico 346 Liggio, Luciano 133, 150, 296, 299, 328, Ligotti, Luigi 87 Ligresti, Salvatore

375-376 Lima, Salvo 11, 41-46, 53, 66, 69-70, 72- 75, 77, 144, 191, 221, 295, 297-299, 304, 308, 326,

331, 342-343, 345, 354, 360,365,381 Lioce, Nadia Desmenona 268 Lipari, Pino 64, 69, 71, 74, 362

Livatino, Rosario 353 Lockheed 193, 405 Lo Forte, Guido 193 Loggia Carnea 151,209 Loggia

Orion 151 Loggia Scontrino 151 Lo Giudice, Raffaele 102 Lo Prete, Donato 60, 106-107, 288

Lombardo, Antonino 83-87, 358 Lombardo, Fabio 84 Lombardo, Giuseppe 84 Lombardo, Rossella

84 Longo, Francesca Paola 161, 164 Lopez Regajosé 143, 153, 283 Loren, Sofia 288 Lotta Continua

134, 257, 343, 372 Lucky Luciano (Salvatore Lucania) 136, 158, 297 Lupacchini, Otello 201, 280,

284, 287, 289,291 Macaluso, Emanuele 135-136 Maccari, Germano 225-227,257-258,396, Mach di

Palmestein, Ferdinando 330 Madonia, Francesco 152 Madonia, Giuseppe 361 Madre Teresa di

Calcutta 163 Maggi, Carlo Maria 115 Malagugini, Alberto 394 Maletti, Gianadelio

98,101,106-107,121- 125, 135, 180, 185, 251, 347, 394, 398 Mambro, Francesca 300, 317

Manciaracina, Andrea 342 Mancini, Giacomo 121, 125 Mancino, Nicola 360 Mancuso, Lenin 160

Mandalari, Giuseppe 303 Manfra, Alfredo 199 Indice dei nomi

Manganelli, Antonio 321 Mangia, Rocco 213-214 Mangiameli, Francesco 300-301 Mangiavacca,

Franca53, 97,110,171, 325 Manni, Franco 212 Mannino, Calogero 37 Mannoia, Francesco Marino

16,34, 66-71, 76-77,217,219,301,342 Mannucci Benincasa, Federico 140, 147, 243-244 Mantovani,

Nadia 243 MAR (Movimento Armato Rivoluzionario) 129,134,208,262,269,275 Maragnoli, Ettore

Page 378: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

278 Marcello, Carlos 297 Marchesano, Leone 297 Marchese, Filippo 369-370 Marchese, Giuseppe

308 Marchesi, Liva 254 Marchisella, Giuseppe 141 Marcinkus, Paul 155,157-158, 161 Marcora,

Giovanni 308 Mariani, Gabriella 268 Markevitch, Igor 246-250, 252-253, 263, 268-270, 401

Markevitch, Vaslaw 269 Martelli, Claudio 68, 333, 353-354, 362 Martellucci, Nello 308 Martin,

Graham 118 Martin, Richard 45 Martinazzoli, Mino 341 Martinelli, Renzo 178 Martini, Fulvio

126, 205, 250-252, 318, 347, 390, 392-393 Massaro, Roberto 82 Mastella, Clemente 38

Mastropietro, Enzo 278 Mattarella, Bernardo 297 Mattarella, Irma 303 Mattarella, Piersanti 11, 34,

282, 298-302, Mattei, Enrico 136, 171, 247, 257, 297 Mauro, Eugenio 97 Mazzola, Francesco 234

Mele, Vittorio 84, 104 Meli, Antonino 344 Melzi, Giuseppe 170 Merzagora, Cesare 150 Messina,

Leonardo 152, 364 Micalizio, Pippo 370 Micciché, Moreno 152 Miceli Grimi, Joseph 161, 164, 296

Miceli, Gaetano 325 Miceli, Vito 11, 101, 106-107, 118-119, 121-123, 135, 150,159, 185, 205, 251,

347,398 Minervini, Girolamo 245 Minghelli, Gian Antonio 141-142,153-154 Minghelli, Osvaldo

141 Mino, Enrico 123 Minore, Totò 152,329 Mintoff, Don 106 Misso, Giuseppe 319 Mitrokhin,

Vassilij 211, 266,271, 395 Mobkel, Lucia 212 Molinari, Arrigo 400 Monastero, Francesco 140, 282

Montalto, Ciaccio 329 Montalto, Salvatore 361 Montana, Beppe 331 Montinaro, Antonio 44, 357,

381 Morabito, Saverio 179,227 Moretti, Fabiola 281 Moretti, Mario 178, 181, 189, 206, 211,

213-214, 218, 224-227, 235-236, 241-242, 254-256, 261, 264, 275, 314-315,

324,392-394,396,400-402 Mori, Mario 85, 246, 305-306 Moro, Aldo 7-8, 10-16, 18, 39, 42, 48-51,

.54, 57-60, 65, 74-77, 79, 81, 91-93, 98, 100, 102, 104-105, 107, 109, 112. 114-115, 117, 121-122,

125-130, 132, 138, 150, 153, 160-161, 165,168-170, 175-204, 208, 210-247, 251-268, 270-271, 275,

278, 281, 285, 287, 297-298, 301, 307, 310-315, 319, 323-325, 345-346, 348-349, 351, 365, 379-381,

385, 387, 390-397, 399-405 Moro, Carlo Alfredo 182, 258 Moro, Giovanni 258 Morris (ammiraglio)

161 Mortati, Elfino 253-255,257 Morucci, Valerio 178, 181-182, 211, 224-225, 242, 246, 254, 257,

259, 264-265, 268,271,324,396,399,401,403 Morvillo, Francesca 357,381 Mosca, Carla 224,395

Mossad 176, 206, 249,257, 320, 324, 391, 401 MSI (Movimento Sociale Italiano) 60, 118,

121,133,135,332,341,359 MSI-DN (Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale) 154

Mulinaris, Vanni 394 Indice dei nomi

Muscato, Maurizio 30 Mussolini, Benito 128,209, 230 Musumeci, Pietro 102, 179-180, 233, 237,

241,282,289,300,312, 317-318,400 NAP (Nuclei Armati Proletari) 231 -232 NAR (Nuclei Armati

Rivoluzionari) 139, 170, 282, 300 NATO (North Atlantic Treaty Organization)92-93, 119, 123,

126-127, 131-132, 148, 161,205,208, 282, 340, 345, 347,350,390-391,393,397 Natoli, Gioacchino 86

Page 379: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

Natta, Alessandro 340 NCO (Nuova Camorra Organizzata) 133, 200, 242,277,279-280 'Ndrangheta

42, 179-181, 213, 219, 236, 260,312,324,362 Nenni, Pietro 117 Niccolai, Danilo 146 Nicolazzi,

Franco 82 Nicoletti, Enrico 280 Nicoletti, Rosario 201,286, 308 Nicolicchia, Giuseppe 302

Nicolini, Franco 279 Nigro, Arturo 86 Nirta, Antonio 179-180, 227 Niutta, Ugo 102,171 Nixon,

Richard 10,118,121 Nianskij, Latjana (detta Kyra) 269 Nizzar Hindawi 373-374 Nobili, Umberto

140, 147, 311 Noble, Michael 269 NOCS (Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza) 229,234 Nuovo

Partito Popolare 106 Occhietto, Achille 337, 350, 359 Occorsio, Vittorio 139-142, 147, 203, 281

OMPAM (Organizzazione Mondiale per l'Assistenza Massonica) 142 Onorato, Francesco 373

Opus Christi 214 Opus Dei 249, 327 Ordine dei Cavalieri di Malta 252-253 Ordine Nuovo 120,

127, 130, 131, 133, Organizzazione Franchi 134,204, 349-350 Orlandini, Remo 119, 123 Orlando,

Leoluca 84, 343 Ortolani, Amedeo 142 Ortolani, Umberto 107,142, 153-154 Ortona, Ludovico 193

OSS (Office of Strategie Services) 136,158, 204,247,263 Otimski (ufficiale polacco) 209

OVRA211,271 Palazzolo, Salvatore 84 Palermo, Carlo 330 Palma, Riccardo 245 Pannella, Marco

118, 360 Panzavolta, Lorenzo 362 Paolo VI (Montini, Giovanni Battista) 187, 230, 403 Parisi,

Roberto 330 Parisi, Vincenzo 343-344, 349 Parsi, Franco 323 Partito Armato Europeo 108 Pasolini,

Pier Paolo 114 Patrizi, Paolo 96, 168 Patti, Piero 350 Patto di Varsavia 209, 392 Pavone, Rita 110

Pazienza, Francesco 162, 243, 289-290, 292-293,300,317,318,324,327 PCI (Partito Comunista

Italiano) 13,50,60, 119, 126, 135, 138, 143, 146, 148, 176, 181-182,183-187, 189, 191, 205, 217,

255-257, 267-268, 271, 296, 301-303, 307, 328, 333, 337-340, 344, 348-350,

359,390,394-395,401,403 PCUS (Partito Comunista dell'Unione Sovietica) 185 P2 8, 11, 13, 18,

91-93, 97-98, 100-105, 107, 112, 117-119, 127, 139-141. 143, 145, 147-154, 159, 162, 165, 167,

169-170, 184, 197, 212, 214, 247, 251, 256, 276, 278, 280, 283, 311, 318, 324, 328, 347, 364, 398, 400

Pecchioli, Ugo 395 Peci, Patrizio 57, 227, 242, 312-314 Peci, Roberto 242, 314-315 Pecorelli,

Andrea 96, 99 Pecorelli, Cannine (detto Mino) 7, 11, 15-16, 28, 30, 34-35, 38-39, 42, 46-61, 64-65,

69-70, 72, 76-80, 82-83, 87, 91-93, 95-96, 97-115, 122-125, 129, 134, 139-140, 143-147, 149-150,

153-155, 158-160, 167-171, 176, 180-187, 189, 192, 195-199, 201, 203-204, 211, 213, 215-217,

219-220, 222, 227-232, 234-239, 243, 249-250, 253-254, 260, 263-265, 268, 270-271, 278, 281-283,

287, 291, Indice dbi nomi

293-295, 298, 300, 308, 310, 312-313, 315, 319, 323-325, 362, 379-381, 387,

390,392,397-398,404-405 Pecorelli, Rosita 57, 101 Pecorelli, Stefano 96, 99 Pellegrino, Giovanni

19, 132-133, 137-138, 193, 208, 240, 246, 248, 250, 255, 281,315,326,385 Pellegriti, Giuseppe 354

Page 380: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

Pellicani, Emilio 288, 293 Pernasetti, Raffaele 278, 293 Peron, Isabelita 154 Peron, Juan Domingo

15, 283 Pertini,'Sandro247,263 Pesci, Ugo 241-242, 245, 314 Petrucci, Antony 45 Pianetti

Lotteringhi della Stufa, Alessandro 243 Pianetti Lotteringhi della Stufa, Bernardo 243-244 Piazza,

Gaetano 152 Picchiotti, Franco 102 Picciafuoco, Sergio 317 Piccoli, Flaminio 102, 189, 195, 237,

293, 324 Pieczenik, Steve218,236 Pinelli, Giuseppe 134 Pinochet Ugarte, Augusto 154 Piperno,

Franco 211, 395, 403 Pisciotta, Gaspare 167, 297 pli (Partito Liberale Italiano) 337 Podestà,

Roberto 186 POE (Partito Operaio Europeo) 252 Pofferi, Giovanni 150 Pomarici, Ferdinando

396-397 Pomicino, Paolo Cirino 37, 345, 352, 359 Ponti, Carlo 288 Porgo, Daniel 159 Potere

Operaio 211-212, 395 PR (Partito Radicale) 257 Preti, Luigi 150-151 Previti, Cesare 32, 35, 363

PRI (Partito Repubblicano Italiano) 131, 332,339 Prodi, Romano 214 Provenzano, Bernardo 42,

74, 285, 295, 305, 362, 364 PSDI (Partito Socialista Democratico Italiano) 82,165, 337, 339 PSI

(Partito Socialista Italiano) 68-69, 148, 165,181,250, 333, 337-340, 347, 349, 351-352,355,359,403

Puccinelli, Benito 214 Pullarà, Giovan Battista 372 Rabin, Yitzhak 27 Rabito, Paolo 387-388

Radaelli, EziollO,325 RAI (Radiotelevisione Italiana) 120 Rampulla, Pietro 356, 365, 368 Rao,

Paul 163 Rauti, Pino 124-125,133 Ravasio, Pierluigi 179-180,234 Ravasio, Umberto 233 Ravello,

Fiorenzo (alias Ravello Ley, Florent) 112-113,287-288,291 Rega, Lopez 143,153,283 Reina,

Michele 72-73,160,295 Remondino, Ennio 83,149 Reno, Teddy 110 Restivo, Franco 119 Riina,

Antonio (detto Totò) 37, 42, 46, 66, 68-69, 74, 84, 113, 152, 179, 220-221, 285-286, 298, 305-306,

338-339, 341- 342, 345, 354, 360-362, 364-365, 371, 374-375,377,387 Rimi, Filippo 69, 82-83 'Rimi,

Natale 298 Rimi, Vincenzo 69, 82-83 Rino, Proietti 111, 232 Roatta, Mario 129,208,266 Rocca,

Giuseppe 196, 249 Rognoni, Virginio 115, 223, 237, 298-299, Romualdi, Pino 118 Roosevelt,

Kermit 247 Roosevelt, Theodore 247 ROS (Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri)

85,246,254,256,258, 261-262, 264, 268,305,380 Rosa dei Venti 133-136,205-207, 349 Rosa, Mario

120 Rosati, William 152 Rosini, Gianfranco 95, 110 Rosone, Renato 281 Rosone, Roberto 293

Rossanda, Rossana 224, 394 Rossi di Montelera, Valerla 254 Rossi, Luciano 154, 190 Rostagno,

Mauro 343 Rovelli, Nino 60, 100, 108-110, 278, 287- Rovetta, Sandro 353 Ruffilli, Roberto 258,

400 Indice dei nomi

Ruffini, Attilio 126,392 Rumor, Mariano 124,133-134, 297 RUS (Raggruppamenti Unità Speciali)

232, 234, 346, 365 Russo, Domenico 309-310 Russo, Francesco 256 Russo, Giuseppe 85,136

Russomanno, Silvano 394 Ruvolo, Antonio 247 Saccucci, Sandro 120,123,141, 280 Saddam

Hussein 332 Saetta, Antonino 343 Saieva, Giuseppe 318 Salamandra, Mario (alias Calò, Pippo)

Page 381: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

286, 290 Salvatore, Luigi 112 Salvi, Giovanni 80,100,107, 387 Salvini, Guido 115, 123, 127, 133,

137 Salvini, Lino 119, 150 Salvo, Ignazio 16,42,44, 46-48, 50,52-53, 55, 61-62, 64-65, 68, 70, 73-74,

77, 79, 81, 151, 219, 221, 299, 301, 329-331, 341,354,386-388 Salvo, Nino 16, 42, 44, 46-48, 50,

52-53, 55, 61-62, 64-65, 68, 70, 73-74, 77, 79, 81-82, 151, 219, 221, 299, 301, 328- 331,386,388

Salvoni, Innocente 180, 258-259 Sama, Carlo 376 Sangiorgi, Gaetano 328 Sansone, costruttore 286

Santiapichi, Severino 182 Santillo, Emilio215 Santoro, Michele 84 Santovito, Giuseppe 232, 247,

250, 289 Saporito, Francesco 85 Saragat, Giuseppe 119, 263 Sarchielli, Mario 108,162 Savasta,

Antonio 169,244, 267 Sbacchi, Gioacchino 33 Sbardella, Vittorio 333, 345, 352 Sbarra, Danilo 286

Scaduti, Salvatore (detto Totò) 32, 65, 77, 79, 388 Scalfari, Eugenio 196 Scalfaro, Oscar Luigi 237,

343, 358-360, Scarpinato, Roberto 34,193, 297 Sce, lacopo 270 Sceiba, Mario 253, 297 Schaudinn,

Friedrich 319-320 Schiavone, Pasquale 234 Schifarli, Vito 357, 381 Schoenbach, Larry 87

Schwarzenberg, Johannes 252 Sciascia, Leonardo 16, 62, 188, 308, 310, 314,320,330,392 SCO

(Servizio Centrale Operativo) 370 Scopelliti, Antonino 42-44 Scotti, Vincenzo 329 Scottoni,

Franco 140, 142 Secchia, Pietro 271 Securpena 181,202 Segni, Antonio 116, 191 Selis, Nicolino

279, 291 Semerari, Aldo 201, 279-280, 317 Senzani, Giovanni 128, 142,241-242, 244,

267,276,314-315,400-401 Sérac, Guérin 124 Sermoneta, Bruno 258, 268 Serravalle, Gerardo 177

Setti Carrara, Emanuela 192, 204, 308 Sica, Domenico 93, 97, 100, 102-105, 107-108, 112, 139-140,

143, 167, 237-238, 275-276, 282-283, 291, 317-318, 344 SID (Servizio Informazioni Difesa) 11, 98,

101-102, 106-107, 114, 118-125, 127, 129, 135, 140, 147, 159, 180, 185, 198, 206, 208, 346-347

SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) 100, 114, 116-117, 143, 146 Signorile, Claudio

395-396 Siino, Angelo 52, 152, 340, 360, 362, 365 Silvestrini, Achille 37 Simeone, Franco 125

Simioni, Corrado 205-206, 314, 394 Sindona, Michele 34, 93, 100, 136, 151-170, 193, 196, 294, 296,

302, 308, 323-324, 328-330, 333, 364, 388 Sinigaglia, Carlo 248, 263, 271 SIOS (Servizio

Informazioni e Operazioni Speciali dell'Esercito) 118 SIR (Società Italiana Resine) 60, 100, 108,

109,287,291 SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica) 114, 119, 152,

212-214, 242, 246, 250-251, 255, 305, 343,358,365 SISMI (Servizio per le Informazioni e la

Sicurezza Militare) 114, 126-127, 131, 140, 179, 181, 212, 232-233, 241-245, 247-248, 250-253,

256-257, 267-268, 275, 289, 312, 315, 317-318, 327, 344- Indice dei nomi

347,351,371,393,400 Sisti, Ugo 371 Soffiantini, Giuseppe 179 SOFINT 112,279, 287-288 Sofri,

Addano 134, 206, 397 Sogno, Edgardo 134, 204-205, 207, 349- Solokov, Sergej 266-267 Sorrentino,

Armando 161 Sossi, Mario 182, 205 Spadaccini, Teodoro 232 Spadolini, Giovanni 332, 340, 349,

Page 382: Il libro-nero-della-prima-repubblica di-giovacchino-rita-

359 Spagnolo, Carmelo 151 Spataro, Armando 397 Spatola, Rosario 159, 161, 164 Spatola,

Vincenzo 164 Spiazzi, Amos 134 Spinella, Domenico 215 Spinello, Salvatore 365 Spurio, Oberdan

286 Stammati, Gaetano 162 Stay Behind 92, 116, 126-127, 129-130, 132, 136, 147, 170, 207-208,

216, 250, 317,345,349,393,395,397-398 Stone, Oliver 19 Stone, Randolph 152 Straullo, Antonio

169-170 Tagliaferri, Gino 271 Tamburino, Giovanni 134-135 Tartaglione, Girolamo 245 TASS

(Telegrafnoje Sovietskovo Sojusa) 266 Taviani, Paolo Emilio 216-217, 247, 257, Tempesta,

Roberto 372 Teodori, Massimo 107, 170, 328 Termini, Roberto 82 Terminio, Nicola 152

Terranova, Cesare 160, 296 Tescaroli, Luca 293, 361, 364 Testi, Carlo Adriano 60, 109 Tigani,

Claudio 141 Tinebra, Giovanni 87 Tirabovi, Marco 257 Togliatti, Palmiro 271, 297, 312 Tomaselli,

Paolo 97 Tompkins, Peter 263, 269,271 Toscano, Edoardo 279, 281 Trionferà, Renzo 99 Trisolini,

Giuseppe (detto Nik) 102, 106, 153-154 Tritto, Franco 264-266 Trizzino, Maria Grazia 299 Troia,

Nino 368 Truman, Harry Spencer 86 Turatello, Francis 142, 200-203, 218, 220, Turner, Stanfield

161 Tuscher, Francoise 180 UC1GOS (Ufficio Centrale per le Investigazioni generali e le

operazioni speciali) 210,223-224,232,261,313 udc (Unione Democristiana e di Centro) 37 Ugolini,

Antonio 97 Uomo Natura Energia 271 UTIF (Ufficio tecnico di Finanza) 106 Valori, Giancarlo Elia

102 Varisco, Antonio 102, 160, 169-170, 181, 213,323 Varrone, Rocco 213,219,261, 312 Vassalli,

Giuliano 263, 359 Vecchio, Francesco 353 Ventura, Giovanni 115, 317 Veronese, Vittorino 194

Verrina, Lino Gabriele 25-30, 47, 56, 64, 72,112,199,263,282,380 Verzotto, Graziano 286 Viezzer,

Antonio 139,144-145, 147 Viglietta, Gianfranco 320 Viglione, Giancarlo 204-205, 237-239,

312-313,324 Vigna, Pierluigi 118 Violante, Luciano 41 Vitale, Giacomo 152,161 Vitalone,

Claudio27,29-30,38,55, 60, 65, 77, 99, 102, 109, 121, 123, 139, 200- 201,220,281,353,380,387

Vitalone, Wilfredo 220 Volo, Alberto 301 Volpe, John 158 Waldheim, Kurt 403 Walters, Verner

116 Wessilinoff, Jordan 209,269 Wessilinoff, Claudia 269 Wiesenthal, Simon 257 WWF (World

Wildlife Fund) 260 Zaccagnini, Benigno 189-190 Zaccagnino, Angelo 59 Zacco, Giuseppina 303

Zamberletti, Giuseppe 329 Zorzi, Delio 115 Zossolo, Chiara 324-325 Zupo, Giuseppe 161