Cuore Nero

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CUORE NERO di emiliano bertocchi

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una raccolta di racconti, 2011

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CUORE NERO

di emiliano bertocchi

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1. PENNY penny era tornata da amsterdam. si era fatta un paio di settimane in olanda, per spassarsela un po', per parlare con alcuni distributori, per fumarsi della buona erba. volevo molto bene a penny, era una ragazza magica, i suoi sorrisi erano fontane di luce, i suoi occhi universi nei quali perdersi. un paio di volte avevamo preso dell’acido insieme, non ricordo esperienze altrettanto emozionanti. adesso era seduto su una sdraia vicino alla piscina della villa nella quale vivevo. un amico me l’aveva data in prestito per tutta l’estate, era un luogo perfetto per lavorare, la luce donava infinita grazia al corpo delle ragazze che fotografavo. alcune di loro erano talmente belle che mi toglievano il respiro, nei momenti in cui riuscivo a svelare i loro segreti avevo sempre l’impressione di assistere ad un miracolo. quello della vita, della gioia, dell’amore. chiesi a penny di accavallare le gambe, lei sorrise maliziosa e complice, si sfilò le infradito e iniziò a giocare con le sue gambe. io fotografavo. il pomeriggio stava per lasciare posto alla sera, i capelli di penny avevano riflessi infuocati, i suoi occhi sprofondavano nella mia anima, le chiesi altre pose, quelle in cui le si vedevano i piedi erano le mie preferite. penny si stava divertendo sul serio. rideva e iniziò a toccarsi, si accarezzava la fica, piano, dolcemente e mi fissava negli occhi. io continuavo a scattare. la guardavo negli occhi. un vibratore entrava ed usciva dalla sua fica. eravamo sdraiati sulle poltrone di vimini, sorseggiavamo white russian, la notte era arrivata, l’odore dei gelsomini apriva possibilità infinite ai nostri sensi, chiacchieravamo e ridevamo. lei si fece più vicina. la presi tra le braccia, la sua testa si piegò sopra la mia spalla, le accarezzai un seno, aveva i capezzoli duri. mi fece uno dei suoi sorrisi. scolai il white russian e le sussurrai dolci parole nell’orecchio. il suo odore era lo stesso della notte. la presi per mano e le stelle mi sembrarono per un attimo ancora più brillanti. andiamo – disse. rimasi in silenzio e la seguii.

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2.GRANDI OCCHI AZZURRI Le ombre della notte si stavano allungando, si insidiavano tra i vicoli e le crepe dei muri, avevo una busta stretta in una mano, dentro un paio di bottiglie di vodka e una stecca di sigarette, qualche giornaletto pornografico. avevo freddo e stavo male, forse l’astinenza si stava facendo sentire, le gambe erano molli e lo stomaco un vortice di succhi gastrici impazziti. guardavo le altre persone che mi passavano accanto, le ragazze sorridevano ai loro amori ma sapevo bene che si trattava solo di una squallida illusione, appena si sarebbero annoiate dei loro ragazzi avrebbero cercato altri uomini con cui ridere e cantare, con cui farsi belle e seducenti. Poi letti vari in cui scopare, le prime rughe e tutta una serie di merdate che avrei fatto bene a dimenticare il più presto possibile. Eppure il gioco era questo. Io mi ero tirato fuori. Le luci dei lampioni iniziarono ad accendersi, la notte avanzava, il freddo aumentava. Continuavo a camminare, solitario, angosciato, perso. La ragazza aveva grandi occhi azzurri e il suo sguardo era molto dolce. I denti risplendevano e il suo sorriso era oro. Le labbra si aprirono, delicate e si chiusero intorno alla cappella. La succhiarono con molta cura, poi la ragazza baciò la cappella e ci fece colare sopra un po' della sua saliva. Ogni tanto guardava in camera e sorrideva, era veramente meravigliosa, il suo modo di succhiare il cazzo mi devastava l’anima, era una cosa così naturale e semplice e allo stesso tempo piena di passione e vita, il modo in cui riusciva a far scomparire la cappella nella sua gola, le labbra lucide di saliva e sperma, era una visione incantevole, i suoi occhi erano pura poesia. una volta credevo che questo fosse l’amore. una volta ero una persona molto stupida. l’imbarazzo e il silenzio dei loro sguardi. la tristezza della perdita. imparare ad amare una persona, passare anni con lei, essere traditi, essere riempiti di bugie, essere feriti nella maniera più dolorosa possibile e continuare a sperare. che l’amore esista. continuo a camminare. tra le ombre e il buio. mi viene da vomitare. poi tutto passa.

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mi accendo una sigaretta. inizia a piovere. guardo il cielo. la strada verso la mia camera è ancora lunga.

3. DIMENTICANDO VARSAVIA La neve ricopriva le strade, i fuochi nei bidoni, i cani che fiutavano l’aria. Intrappolati dentro cappotti troppo grandi i bambini scappavano dall’orrore, i loro occhi avrebbero visto l’abisso. La morte e la follia che si contendevano il declino della razza umana. La notte di Norimberga. Le braccia tese. Piramidi di luce e libri in fiamme. Oceaniche adunate. lo sciamano che galvanizza le folle. I gesti, il delirio, la voce roca. La massa e il corpo. Il saluto. I tumulti del cuore. In un bordello poco lontano dalla stazione avevo conosciuto puttane di tutte le età, alcune molto giovani, bellissime, dai capelli color del grano, dagli occhi di pura acqua. cercavo protezione nei loro corpi, sotto la loro pelle, nelle profondità del loro essere. Mi sentivo a casa tra le loro braccia. I vortici di neve, il vento che penetrava le ciglia, gli squarci d’amore tra le fitte nebbie, l’odore del ferro battuto, i rumori delle esplosioni in lontananza, la campagna grigia, la sterminata vastità dell’universo, la quiete del marmo funebre, gli angeli immobili, la grazia delle ballerine, i bicchieri d’assenzio, una Venere in pelliccia, le fruste e i tacchi, il pallore di una bambina, il carbone finito, lo scricchiolio del legno, i fiori calpestati dai soldati, un cappotto rosso, le pire funerarie, l'odore della carne bruciata, l’abominio senza nome. La guardavo salire le scale con il suo prossimo cliente. Si girò per un attimo e mi sorrise. L’amore andava dimenticato.

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4. MUSCAT DU CAP CORSE

Bevevo muscat du cap corse seduto su una sedia di legno e paglia. Guardavo il mare in lontananza. Accecato dalla luce. Protetto da un panama. Indossai un paio di occhiali da sole. Pensai all’oppio. Poi alla morfina. Poi mi accesi un cigarillo e tirai una lunga boccata. Assaporai il fumo. Lo buttai fuori con piccoli soffi. Nell’aria si formarono anelli. Avevo una stanza sopra rue du portone. Un amico pittore me l’aveva lasciata per qualche mese. Lui era in viaggio. Polinesia. Tailandia. Le tavolozze con i colori e le sue tele ornavano pavimenti e pareti. Cucinavo pesce. Bevevo dell’ottimo vino bianco. Del Rosé. L’oppio lo potevo comprare al porto. Avevo conosciuto alcune persone. Me le aveva presentate il pittore. Fumare oppio sulla piccola terrazza che dava sul mare all’arrivo della notte era un'esperienza unica. Galleggiare nei misteri dell’oriente guardando l’accendersi delle stelle. Espandersi in un flusso vorticoso di fantasie proibite. Essere abisso e universo. Stella e roccia marina. Sentire le correnti del mare, l’immutabile movimento degli astri. Riempirsi di inutili consapevolezze e con un soffio farle diventare polvere di cosmo. Io ero vivo. Riappacificato. Lieve. I libri di Baudelaire, Coleridge, De Quincey, London, Poe. Accatastati in un angolo. Porte su altri mondi. Entrare nelle menti di questi scrittori era un’esperienza unica. Avevo i capelli grigi. Il corpo scavato. Ero vivo. Finito il muscat spensi il cigarillo ed uscii dal caffè pagando il conto ad una ragazza. I suoi lunghi capelli biondi, la dolcezza del sorriso. I suoi vent'anni. La sua giovinezza. Tutto racchiuso in un corpo, nella voce, nelle delicate movenze delle sue mani. Come in un miracolo. In un dono di Dio. Il tramonto si spostava verso il buio. Il mio cuore si apriva alla malinconia e ai dolci ricordi e ai sogni di mondi dorati. I fantasmi attendevano nel cuore oscuro della notte. La vita era fatta per essere sprecata. Secondo dopo secondo. Mi misi una mano in bocca. Un altro dente era caduto.

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La mia piccola terrazza mi stava aspettando. Le dolci maree dell’immaginazione iniziarono a sommergermi. Pregai per la luna. E il suo volto d’argento. Mi accesi una sigaretta e mi incamminai verso il porto.

5. DISSONANZE arrivo sotto casa di francesco verso le dieci. citofono. lui dice di salire. gli dico che è impossibile trovare posto di sabato sera a san lorenzo. gli dico scendi. lui dice aspetta cinque minuti. i cinque minuti di francesco sono un tempo variabile. un’incognita. torno verso la macchina. prendo una lattina di heineken da 50cl, stappo e inizio a bere lentamente. non ho cenato, sono arrivato a pesare sessantasei chilogrammi e mezzo, il peso di quando avevo sedici anni, guardo la gente che passa davanti a me. le coppiette di tutte le età. le tipologie umane. tutte le persone di cui non me ne frega un cazzo. mi scivolano davanti. mi sento bene. sono vestito con un paio di adidas blu ai piedi, levi’s 507, un maglioncino di cotone a strisce larghe, blu, azzurre, grigie e bianche. guardo la mia immagine nei finestrini della matiz. mi piace quell’immagine. almeno questa sera. continuo a bere. francesco scende. ci salutiamo, anche lui è vestito bene. metto in moto e accendo lo stereo. l’ultimo album dei franz ferdinand. ci lasciamo san lorenzo alle spalle, porta maggiore, san giovanni, poi verso la colombo, ce la facciamo tutta fino all’obelisco. intanto stappo un’altra heineken da 50 cl e offro una sigaretta a francesco. parliamo dei nostri lavori. Arriviamo al suo studio, saliamo e ci facciamo un canna. Poi di nuovo in macchina, verso il palazzo dei congressi. Poca fila, pago i miei trentasei euro di ingresso. dissonanze. entro. incontriamo un’amica di francesco, parlano un po', la guardo. è molto carina, fumo una sigaretta. saliamo la scalinata del palazzo dei congressi. luci rosa. la musica che

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mi romba nello stomaco. ci dirigiamo verso il bar. prendo una birra, andiamo nella sala dove il dj sta mettendo musica elettronica. bevo e mi guardo intorno. saliamo in terrazza. noto con disappunto che la birra è finita e ne prendo un'altra. musica elettronica, ancora. la sento nel basso ventre, poi che sale nel cuore. continuo a bere e mi accendo una sigaretta. mi metto a ballare. francesco incontra un’altra amica, poi ne arrivano altre due. sono preso dalla musica, dalle vibrazioni, dall’alcol. ballo ad occhi chiusi, muovendo le mani nell’aria. i ricordi della psilocibina, quelli della salvia divinorum. è una sensazione magnifica. scendiamo verso la sala di prima, con il mio bicchiere in mano continuo a scivolare tra le persone. francesco mi dice di salire nel privé, lui ha il pass, io no, gli dico come cazzo faccio a salire? mi dice non ti preoccupare in qualche modo facciamo. gli dico allora non c’è nessun problema, ti aspetto qui. lui sale da una scala insieme alla sua amica. io vado a prendere un’altra birra e mi perdo le altre due ragazze. ritorno verso la scala. un gorilla in maglietta nera e sguardo truce (ma forse è solo l’effetto dell’alcol) controlla i pass che le persone hanno al polso. io mi appoggio al muro, bevo e mi guardo intorno. mi sento bene, tranquillo. vedo francesco venirmi incontro. mi dà il pass. provo a metterlo al polso ma è dannatamente stretto. dico a francesco se me lo metto al cazzo è la stessa cosa? lui ride. continuo a spingerlo sul polso. il braccialetto si rompe. porco dio esclamo. il braccialetto cade per terra. francesco lo raccoglie. e adesso? prendo il braccialetto e lo rimetto intorno al polso. tiro fuori dalla bocca la gomma che sto masticando e l’attacco nel punto in cui il braccialetto si è rotto. perfetto. sorrido. ci avviciniamo al gorilla e tutto contento con il mio ghigno ebete in faccia gli mostro il polso. lui grugnisce e mi lascia salire. al piano di sopra salottini privati, fiche varie in abiti da fiche con comportamenti da fiche. tipi che bevono seduti., me ne sbatto il cazzo di tutto questo, non ha nessun potere su di me. mi avicino alla ringhiera e continuo a ballare. francesco è vicino alla sua amica. non vedo le altre due ragazze. mi perdo nella musica, nei suoni, nel mio magnifico stato di alterazione psicofisica indotto da alcol e hashish. francesco rolla un'altra canna che ci fumiamo appoggiati alla ringhiera. continuo a ballare. apro gli occhi e non vedo più francesco. sotto di me una folla di persone che balla. illuminata da luci di tutti i colori. mi sto perdendo in un sogno. vado a prendere un’altra birra. striscio lungo i muri. con i miei sguardi allucinati a sorridere alle persone. arrivo al bar. ordino. un bicchiere pieno di birra si materializza nella mia mano. torno al posto di prima. scrocco una sigaretta. mi appoggio di nuovo alla ringhiera. bevo e fumo. il tempo non ha più nessuna importanza. guardo di sotto. francesco mi sta facendo segno di scendere. gli dico va bene. mi sposto verso le scale e scendo nella sala. lui è con le due ragazze che avevo perso di vista. mi avvicino, le guardo bene, sono davvero belle, forse più piccole di me. andiamo verso il bar e parliamo un po'. le guardo entrambe. mi piacciono tutte e due.

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di nuovo la vita con i suoi imprevedibili regali. di nuovo la vita a farmi sorprese. di nuovo questi corpi e questi occhi che mi riempiono di una gioia che non ha nome. di una felicità che avevo dimenticato. una delle ragazze si avvicina al barista e lo bacia sulle labbra. poi m guarda. io le sorrido. nelle mani della ragazza si materializzano due cocktail. penso dentro di me ecco una persona che sa come funziona il mondo. la ragazza mi allunga un cocktail. lo porto al naso, rum e cola, do una sorsata, ottimo. parliamo un altro po', chiedo il nome alla ragazza, federica, lei mi chiede il mio, emiliano, francesco intanto parla con l'altra ragazza e insomma siamo noi quattro e continuiamo a bere e fumare sigarette e io e federica ci sorridiamo e il cuore mi va più veloce e inizio di nuovo a perdermi in quegli occhi, è una sensazione unica e il suo sguardo è magico e io decido, in quel momento, che voglio lei, che voglio passare il resto della serata con lei e tutta la gente, ogni singola persona, scompare, non esiste, svanisce il mondo intero, federica prende per mano la sua amica e ci dicono che devono andare in bagno, io dico va bene e le seguiamo e loro camminano davanti a noi e attraversiamo stanze e sale e luci stroboscopiche che fanno cambiare la prospettiva del mio sguardo ma io sono esattamente dove vorrei essere e cammino sorridendo e seguo i movimenti di quei corpi magici, poi loro si allontanano e io e francesco ci buttiamo da una parte e continuo a bere il cocktail e dico a francesco questa è la morte ma non è vero, questa è la vita, questa è un’illusione meravigliosa e lui rolla un’altra canna e beviamo e fumiamo e poi le due ragazze tornano e noi ci alziamo e francesco va avanti con l'altra ragazza e io guardo di nuovo federica negli occhi e ci baciamo e poi ci abbracciamo e uniti scivoliamo sui pavimenti pieni di luci colorate e passiamo tra le persone e sento il calore del suo corpo e questo è tutto quello che voglio, niente di più, niente di meno, un contatto, un dolce contatto, e allora le prendo la mano e intreccio le sue dita con le mie e le do un altro bacio sulle labbra e poi andiamo a ballare e mi stringo a lei e sento il suo profumo e l’odore dei capelli e le accarezzo la pancia, è liscia e calda e continuiamo a ballare per secondi e secoli senza fine, prendendoci e lasciandoci, ridendo, guardandoci negli occhi, sfiorandoci le labbra, poi succede qualcosa, non so cosa e forse è tardi e loro se ne devono andare e allora ci salutiamo e do un ultimo bacio sulle labbra a federica e i nostri corpi si staccano e lei mi dice che ho bevuto troppo e io sorrido e l’abbraccio un'ultima volta, la stringo forte e tengo quelle sensazioni tutte dentro, protette, in quel luogo misterioso e lucente, oscuro e profondo che è il mio cuore e poi loro come erano apparse svaniscono e francesco non so dove va e io mi ritrovo da solo e mi sento stanco e felice e credo che sia il momento di andarsene a casa ed esco e torno verso la macchina e apro e monto e sono quasi le cinque e chiamo francesco e gli dico che lo aspetto in macchina e lui dopo quindici minuti arriva e metto in moto e di nuovo sulla colombo, cinture allacciate, junior boys nello stereo e poi è l'asfalto e il cielo che schiarisce e la notte che ci abbandona, come i sogni e l’amore e le tue mani e i tuoi occhi che non vedrò mai più.

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6. TORADOL I dolori iniziano lunedì mattina, a lavoro. Durante la lezione mi tocco il lato destro della bocca e sento crescere una lieve sensazione di fastidio che diventa sempre più intensa. Durante una pausa vado in farmacia e compro una confezione di Oki. Nel pomeriggio prendo due bustine a distanza di qualche ora. Il dolore diminuisce. Riesco a tornare a casa. Chiamo francesco, che lavora come dentista presso lo studio di suo padre e gli chiedo se può consigliarmi qualche antidolorifico per il mal di denti, visto che il dolore è riapparso più intenso di prima. Mi consiglia il Brufen in soluzione da 600 mg. Intanto ho preso un altro Oki e un Aulin, che però non stanno facendo effetto. Alle nove di sera monto in macchina e vado in una farmacia notturna su via appia, dove chiedo ad un farmacista indiano di darmi il Brufen. Lui mi domanda a cosa mi serve e se è la prima volta che lo prendo. Rispondo si. Mi dice che è abbastanza forte, chi me lo ha consigliato? Dico il mio dentista. Ho un forte mal di denti, aggiungo. E intanto mi massaggio la mascella. Lui si allontana e va a prendere il Brufen. Ritorna, mi dà la confezione, pago, prendo la confezione, esco e torno a casa. Preparo il Brufen e lo bevo. Mi sdraio sul letto. Aspetto che il Brufen faccia effetto. Il dolore rimane lo stesso, anche se in alcuni momenti sembra diminuire. Dopo un’ora inizia ad aumentare in maniera esponenziale. Diventa costante. Una presenza dentro la mia bocca che richiede la massima attenzione. Il dolore batte sul dente del giudizio in fondo alla mandibola e si propaga per tutta la metà destra del mio volto. Su per la testa. Giù per la gola. Alle quattro di mattina non ce la faccio più, sveglio mia madre e le chiedo di accompagnarmi all'eastman. Parcheggiamo su viale regina elena, scendiamo ed entriamo. Barcollo lievemente, il dolore è intenso e pulsante, mai provato prima. Si è impossessato di me. Ho cercato di controllarlo, di regolare il respiro, di ignorarlo, di combatterlo. Niente da fare. Il dolore persiste. Ci dirigiamo verso il pronto soccorso all’interno dell’ospedale. Mi siedo su una panca. Un ragazzo prima di me. Aspetto una ventina di minuti. La testa fra le mani. Poi la porta si apre, un tizio in camice dice avanti il prossimo. Mi alzo ed entro. Mia madre aspetta fuori. Il tizio in camice mi chiede un documento per la registrazione. Dico che non ho un documento. Lui mi chiede nome, cognome, dove abito. Rispondo. Poi mi fa accomodare su una poltroncina. Arriva il dentista. Buongiorno. Buongiorno. Cosa succede mi fa lui. Il dente del giudizio dico io. Apro la bocca, lui controlla qualche secondo, poi dice che si sta formando del pus tra il dente del giudizio (che ancora non è uscito) e la gengiva e che devo prendere degli antibiotici. Gli dico che ho un dolore atroce in bocca., Mi dice di prendere degli antidolorifici fino a quando l’antibiotico non inizi a fare effetto. Gli dico che ho preso sei sette Oki dal pomeriggio del giorno prima e che non mi stanno facendo niente. Lui dice prendili ancora fino a quando

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l’antibiotico non fa effetto. Il tizio in camice di prima dice devi aspettare ventiquattro ore. Io sorrido, sicuro che mi stia prendendo in giro, Altre ventiquattro ore di quel dolore non possono essere che uno scherzo. In macchina con mia madre verso la farmacia notturna, dove la sera prima avevo comprato il Brufen, per acquistare gli antibiotici. Mia madre scende, io sono in macchina, con il dolore che continua a pulsare. Mia madre citofona alla farmacia, si palesa l’indiano dopo abbondanti dieci minuti. Sono le cinque di mattina. L’indiano chiede a mia madre se è un’emergenza. Mia madre risponde sono le cinque di mattina, se non fosse un’emergenza starei a casa a dormire. L’indiano infastidito va verso lo sportello e chiede a mia madre cosa vuole. Dopo alcuni minuti sento mia madre che inizia ad incazzarsi con l’indiano. Dentro di me penso – porco dio sono le cinque di mattina possibile che qualcuno abbia la forza di rompere i coglioni a questa ora. Che sia madre o l’indiano a creare casini non mi interessa, voglio quel cazzo di antibiotico, mettermi a letto e riuscire a dormire. Prendo l'antibiotico alle cinque e mezza di mattina, nel mio letto. La bocca è un inferno. Provo ad addormentarmi. Passano quattro ore di pensieri deliranti, visioni, ragionamenti irrazionali, preghiere, disperazione. Tutto inutile. Alle nove sono in piedi accanto a mia madre. Torniamo al pronto soccorso le dico. Io così non resisto. Intanto la bocca mi si è gonfiata e non riesco quasi più a parlare. Di nuovo nella corsia del pronto soccorso, non capisco più niente, mi dondolo su una panca, la parola emergenza in questo luogo non sembra esistere, nessuno che mi faccia passare avanti, aspetto stoicamente il mio turno. Di nuovo il dottore di prima, questa volta faccio entrare anche mia madre, mi siedo sulla solita poltroncina. Inizia una disquisizione filosofica tra mia madre e il dentista sulla terapia del dolore. Sento mia madre dire dategli qualcosa o io a casa così non lo riporto. Il dottore ironico, e cosa gli diamo? un po' di morfina? Dentro di me l’idea suona allettante, almeno così riesco a provarla in una situazione controllata, la morfina. Mia madre continua a ripetere dategli un antidolorifico. Esce fuori un altro nome magico, Toradol in gocce. Il dottore, forse capendo finalmente che non sono un tossico in crisi di astinenza che cerca di rimediare un palliativo alla sua mancata dose di roba giornaliera, si impietosisce e mi spara in bocca trenta gocce di Toradol. Tempo di arrivare a casa, sdraiarmi sul letto e la sostanza inizia a fare effetto. Il dolore lentamente svanisce in un caldo abbraccio. Come le onde del mare che arrivano sulla sabbia, lente, una dietro l’altra. Finito il dolore mi libero in volo, mi alzo dal letto leggero e penetro in una dimensione onirica senza accorgermene. Sono per le strade di una cittadina spagnola, la sera, al tramonto. Ci deve essere una festa, un piccolo circo allestito in una piazza, tra le macchine, giostre rudimentali. E’ estate. Porto una maglietta e un paio di calzoni corti. Mentre passeggio tra le giostre il corpo di una ragazza si sfiora contro il mio. (A distanza di cinque giorni ho ancora

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nitide le sensazioni di quel contatto). Sento i suoi piccoli seni contro il mio torace. Poi ci guardiamo negli occhi. La ragazza ha qualcosa di zingaro e selvaggio. Una gitana dalla pelle bruna. Ha qualche anno meno di me. E’ bellissima. La ragazza mi prende per mano e passo con lei la nottata. Attraversiamo tendoni e strade, incontriamo persone, mi presenta ai suoi amici, beviamo del vino rosso. Ogni cosa è reale, lucida. In una tenda lei mi sbottona i pantaloni e strofina i suoi piedi sul mio cazzo. Io mi avvicino e la bacio in bocca. La notte continua, altre cose accadono. Poi la perdo e mi ritrovo a vagare da solo, sotto le stelle, alla ricerca di strade che avevo dimenticato. Rientro nel mio corpo, il dolore di nuovo pulsante nella bocca, l’effetto del Toradol diminuisce, sono passate sei ore. Gli antibiotici ancora non sono entrati in circolo. Durante le ore successive prendo altre venti e diciotto gocce della sostanza e l’effetto è altrettanto bello, una volta che il dolore svanisce. Anni di droghe e sperimentazioni mi hanno insegnato veramente qualcosa. A sapermi confrontare con il dolore. Imparando che ogni cosa inizia, cresce e finisce. Così come ogni viaggio. Così come l’assunzione di ogni sostanza. L'attesa che l’effetto inizi, l’apice, la discesa. Nei giorni seguenti gli antibiotici iniziano a fare effetto ed abbandono il Toradol. Per quattro giorni non riesco a mangiare cibo solido. In bocca entrano solo liquidi, succhi di frutta, brodo, omogeneizzati. Penso a chi soffre veramente, a chi ha il cancro, a chi ha malattie terminali. Penso alla stronzata del diritto alla vita. Quando soffri in questo modo dovresti essere solo tu a decidere quali sono i tuoi diritti. Una vita piena di questo dolore fisico, lancinante, espanso in settimane e mesi, lenito solo dal contatto diretto con la morfina, l’eroina e derivati degli oppiacei, non è vita. E’ una lenta e inesorabile tortura. Per quanto l’effetto del Toradol mi abbia affascinano il prezzo che il mio corpo paga è molto alto. Spossatezza, debolezza, i due giorni successivi di completo rincoglionimento. Per aiutare chi soffre veramente non ci vorrebbero medici, ma sciamani. Persone che sappiano accompagnare nel viaggio che va dal dolore alle visioni e dalla vita alla morte i malati e coloro che il destino ha derubato della stessa gioia che ogni singolo respiro dovrebbe portare con sé. La morte è solo un passaggio. E tutti vorrebbero, in quel momento, avere qualcuno che li prenda per mano e li accompagni fino a quel vasto oceano, dorato e pieno di calma, nel quale abbandonerai il tuo corpo terreno per diventare pura luce.

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7. LA SCOPERTA DI ME STESSO

ero legato alla croce di sant’andrea. mani e piedi. ero nudo. delle mollette mi stringevano i capezzoli e il dolore era qualcosa di molto eccitante. avevo una laccio intorno ai coglioni e il cazzo duro. lei iniziò a frustarmi e i primi colpi mi tolsero quasi il respiro. sentivo la pelle della schiena bruciarmi. urlai. lei continuò. ascoltavo il rumore dei suoi tacchi sul pavimento e i colpi di frusta che si susseguivano. implorai che smettesse. il dolore stava diventando parte di me. lei cessò all’improvviso. feci un lungo respiro e sentii le sue mani sfiorami la schiena, fui invaso da brividi indescrivibili, le sue mani accarezzavano i miei capezzoli e le mollette che li stringevano. volevo piangere. sentii il suo profumo ed era incredibile quanto l’amassi in quel momento, quanto le emozioni fossero così pure, dense, eterne. il tempo non aveva più dimensione, era qualcosa di incalcolabile. c’era il mio corpo e la mia anima e quanto di più intimo possedevo. messo a nudo e torturato mi stavo spingendo nell’abisso. mi muovevo nelle tenebre con una sicurezza che mi lasciava incredulo. era tutto quello che volevo, era un luogo in cui la libertà diventava reale. poi i colpi di frusta iniziarono di nuovo a lacerarmi la schiena, continuavo a cadere dentro l’abisso sentendomi sempre più leggero. sembrava quasi di volare. lei era dietro di me. il mio amore non aveva più confini. tutto quello che mi avrebbe dato sarebbe stato un dono. gli sputi, il dolore, le carezze, gli schiaffi, gli insulti, gli sguardi. avevo il cazzo ancora duro. non sapevo più nulla eppure ogni cosa mi appariva nitida e reale. nel momento in cui venni, mentre mi masturbavo ai suoi piedi, con le mollette ancora sui capezzoli e i lividi su tutto il mio corpo fu come se nascessi di nuovo. risi forte. così forte che i muri stessi della casa sarebbero potuti crollare.

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nel buio più profondo del mio cuore avevo trovato una luce così brillante che ebbi paura di diventare cieco. non ero mai stato così puro. vivo. consapevole. la sborra si asciugava sul pavimento, lei mi guardava negli occhi. non avevo più paura di nulla. in quel momento capii che l’amore era un sentimento indefinibile. in quel momento capii chi fossi veramente.

8. LA STANZA ROSSA la stanza ha delle pareti di velluto rosso. dei mobili di legno antico con sopra delle candele accese. c’è una sedia di pelle nera, sulla quale sono seduto. completamente nudo. delle corde legano i miei polsi e le mie caviglie alla sedia. c’è un letto, grande, ricoperto di tessuti preziosi. ci sono cuscini rossi con ricami dorati. c’è l’odore di un incenso che brucia, nascosto, da qualche parte. la ragazza è seduta sul letto. le gambe piegate verso sinistra, sotto di lei. ha delle calze bianche. un bustino di altri tempi. una maschera bianca che le nasconde il viso. i capelli sono lunghi e neri. e mentre è seduta, in silenzio, si accarezza piccole ciocche di capelli. le sue dita si muovono con grazia. la ragazza compie un gesto ipnotico e seducente mentre i suoi occhi iniziano a scrutarmi. poi si alza dal letto e si avvicina. mi gira intorno, facendo passare un dito intorno al mio collo, poi mi si ferma davanti, ha due anelli, uno al medio e l’altro all’anulare della mano sinistra.

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le sue unghie scivolano sul mio petto, arrivano vicino ai capezzoli, ci girano intorno e poi risalgono di nuovo verso il collo. lo accarezzano. le mie gambe sono aperte. lei si inginocchia nel mezzo. guardandomi negli occhi. due perle scure mi osservano. entrano nella mia anima, sprofondano nel mio cuore, un fuoco arde in un deserto sconosciuto sotto miliardi di stelle in un ancestrale silenzio, un uomo attende, la scia del profumo della ragazza rapisce i miei istinti, tra la dolcezza e la bestialità del nostro essere c’è un luogo in cui i sogni diventano reali. lei mi bacia la punta del cazzo, poi lo prende in bocca, sento le sue labbra morbide scivolare mentre lo assaporano. le sue mani risalgono sulle mie gambe, mentre il mio cazzo è ancora nella sua bocca. poi si alza e si siede a gambe aperte sopra di me. le sue mani dietro al mio collo. in un antico abbraccio. la sua bocca così vicina. “esistono luoghi in cui la notte è un mistero senza fine” – sussurra, baciandomi poi delicatamente sulle labbra. sento la consistenza delle sue calze contro le mie gambe, la durezza del mio cazzo che spinge contro di lei, ancora il suo profumo, la profondità invitante dei suoi occhi. non posso toccarla. mani e caviglie legate. lei mi bacia un’altra volta, piano. poi si alza e va di nuovo a sedersi sul letto, le gambe piegate sotto il suo corpo. rimango silenzioso. lei prende uno specchio, si guarda, si accarezza di nuovo i capelli. quel gesto mi incanta. “esistono luoghi in cui la notte è un mistero senza fine”

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alcune candele si spengono, le ombre iniziano a danzare, lei si alza, comincia a muoversi lentamente, seguendo una melodia che suona solo nella sua mente, le movenze fluide e calde del corpo, si avvicina, una luce inizia a espandersi intorno alla sua figura, le sue mani di nuovo sul mio corpo. “hai paura?” – mi sussurra. non rispondo. è dietro di me, la sento mettermi le mani sugli occhi, come sono calde le sue dita (dove le ho già sentite?), poi con un nastro di stoffa pregiata benda i miei occhi. mi bacia, sulla base collo. il suo profumo. brividi. milioni di brividi. lei si toglie la maschera e la posa su un tavolino intagliato di legno, tra i ricordi di antichi rituali, tra oggetti pieni di segreti e dimenticate verità. “non avere paura, amore, la notte è dietro di te”

9. LABIRINTO I muri dei palazzi erano screpolati, l’intonaco cadeva a pezzi, i tetti erano sfondati, entravo dentro alcuni vecchi edifici, fabbriche, costruzioni militari, c’era silenzio e odori sconosciuti e fantasmi che si muovevano nello spazio pieno di detriti, le voci dei morti risuonavano ancora, mute e dolorose, le antiche preghiere, i tentativi di fuggire la morte, che sarebbe arrivata comunque, sotto le forme più strane, bombe che cadevano dal cielo, una pistola puntata su una tempia, gli occhi di una donna, quella forse sarebbe stata la morte più dolce, guardare gli occhi di una donna amata e poi andarsene via, per sempre, le strade passavano attraverso boschi oscuri, in cui

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animali grotteschi emettevano suoni da incubo, strade che si perdevano nel buio della notte, in cui le stelle erano incandescenti e le costellazioni ridisegnavano nell’universo le forme allucinate di quei grotteschi animali, come se fossero uscite fuori dagli schizzi di qualche folle pittore, un attimo prima del suicidio, un attimo prima della prossima dose di oppio. guardavo attraverso i tetti sfondati di quegli edifici e il cielo era nuvoloso, poi mi trovavo nella mia stanzetta, in una città di mare, il corpo scavato e le dita sporche di nicotina, le siringhe sul tavolo, le candele spente, i ricordi che danzavano macabri balli sui tappeti che avevo steso sul pavimento, i libri di baudelaire, la morfina, il teschio ghignante, la macchina da scrivere, le bottiglie di vino, quelle dei liquori, le foto dei miei amori chiuse in una scatola, ne bruciavo una per notte e con loro ardevano i ricordi, mentre avevo voglia di piangere e bruciare io stesso e diventare polvere e scomparire e porre fine a questa continua sofferenza, ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno che dio aveva concesso agli uomini non era altro che una stupida presa in giro, uno scherzo atroce, un’illusione malinconica come le luci della sera, che si riflettevano sulle acque del porto, mentre aspettavo di iniettarmi la prossima dose, di raggiungere l’oblio e il caldo mare interiore e i viaggi in luoghi sconosciuti che mi avrebbero aspettato. quante donne ho amato, quanto tempo ho aspettato le loro parole e i loro sguardi, non è rimasto più nulla, non so più dove sono, quante poesie ho scritto, quante lacrime ho pianto, quante volte sono entrato nel mio cuore per cercare frammenti dei loro sorrisi, dell’odore della loro pelle, del profumo dei loro capelli, se almeno una di loro avesse capito quanto in profondità mi ero dovuto spingere per trovare quella forma di amore, quanto lontano avevo dovuto viaggiare per raggiungere quella purezza. la nebbia sale dalle acque del porto, è notte, vago silenzioso in un mondo senza confini, possano le stelle bruciare ancora nelle mie vene, possano queste preghiere trovare qualcuno che le ascolti, possano le mie dita smettere di tremare.

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10. NICE TO MEET YOU

la sala era piccola e affollata e sulle pareti c’erano dei poster con delle belle frasi che stavo leggendo mentre qualcuno iniziava a sistemare i piatti e a mettere su musica reggae e dub e rocksteady e sono andato al bancone dove si poteva prendere da bere e una ragazza mi ha riempito un bicchiere di birra, le ho sorriso e sono uscito fuori dalla sala e c’era una terrazza con dei divani e mi sono seduto e c’erano anche davide e matteo e un paio di ragazze e ho ascoltato un po' i loro discorsi mentre la notte sembrava così magica con le sue ombre e i suoi misteri e la luna era alta nel cielo, un magnifico occhio bianco che guardava i nostri stupidi tentativi di vivere ed amare e ho bevuto la mia birra e poi ne sono andato a prendere un’altra e intanto osservavo una ragazza, dentro la sala, i suoi capelli, il volto, le labbra, mentre muoveva lentamente il suo corpo al ritmo della musica e ho continuato a bere e a guardarla e sono finite nel mio stomaco vuoto, senza cibo, quattro, cinque birre con l’aggiunta di un paio di gin lemon che un ragazzo mi aveva preparato e a cui avevo detto di abbondare con il gin e di stare calmo con la lemonade, poi tornavo nel centro della sala e mi perdevo nei suoni e nelle luci, chiudevo gli occhi ed era come tornare a quando avevo sedici anni, alle feste, ai centri sociali, a tutte le serate in cui mi sono sbronzato e sono stato libero e felice e orgoglioso della persona che ero e il tempo e lo spazio avevano quella stessa morbida consistenza e la ragazza continua a ballare e a girarsi e iniziamo questo gioco in cui sono i nostri occhi a cercarsi, non le dico una parola per tutta la sera mi limito ad aspettare che si volti e mi guardi, la mia anima la ringrazia per questo semplice gesto, prima di andarmene le passo vicino, lei è accanto alla porta, le sfioro la schiena con la punta delle dita, una dolce carezza, poi esco dalla sala e torno verso la macchina.

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11. THE DAY THAT NEVER COMES viveva in una stanza con un grande divano rosso, che poi diventava un letto. aveva un armadio con delle tende dietro le quali sistemava in suoi vestiti. le sere che camminava per la stanza, chiedendosi quali pantaloni si sarebbe messa il giorno dopo o quale maglietta avrebbe scelto. una sigaretta in mano, ogni tanto mi buttava uno sguardo e io le sorridevo e rimanevo seduto a versarmi un bicchiere di birra e a fregarle un po' di tabacco per rollarmi una sigaretta. mi piaceva guardare i suoi vestiti, mi ricordava quello che significava stare con una ragazza, quando i suoi oggetti entravano piano piano a far parte delle tua vita. era bello trovare cose che appartenevano alla persona che amavi. vedere i suoi anelli sul tuo comodino, il fermaglio dei capelli, un reggiseno scordato fra le tue lenzuola. lei studiava per diventare infermiera e questo voleva dire che la vita le aveva dato la possibilità di capire veramente gli esseri umani, di conoscere realmente come fossero fatti. nulla di noi era eterno, il nostro corpo era in continuo mutamento, eravamo destinati a un lento e inesorabile declino. le malattie acceleravano la nostra disfatta. toccare con mano il dolore, respirarlo e continuare a rimanere puri, parlare con la gente che soffriva, accompagnarla verso la fine, condividere con gli altri perdite e angosce era una strada che pochi avevano il coraggio di affrontare. lei poteva capire il significato del nostro esistere, poteva capire quanto fossero stupide le preoccupazioni di quasi tutti noi. ogni tanto la andavo a trovare e le portavo qualche birra, fumavamo canne su canne e stonati e perduti nei nostri pensieri ascoltavamo la musica dei metallica, degli ac/dc, dei foo fighters, dei franz ferdinand, mi chiedeva il nome di qualche canzone, le regalavo dei cd, le davo dei libri da leggere, la scimmia sulla schiena, il poema dell’hashish, le scrivevo poesie d’amore e la pensavo spesso, la notte, quando i ricordi galleggiavano caldi tra il cuore e i polmoni e i miei sentimenti diventavano come un mare d’oppio nel quale affogare, respiri così pieni e densi e i pensieri che rallentavano e le visioni del futuro erano così dolci, con lei accanto a me, non sapevo dove, qualsiasi posto sarebbe andato bene e la voglia di toccarla, in alcuni momenti, di scoparla, mi tornava nel basso ventre e nei brividi del corpo e credo di averla guardata in maniera diversa una sera, di aver guardato il suo corpo in maniera diversa, ma c’è stato un tempo in cui avevo così chiara e nitida la consapevolezza del sesso e di quel modo così speciale di condividere la pelle e le emozioni e la saliva e i baci e il sudore e gli occhi e pensavo che mi andava di scopare di nuovo solo con lei e che avrei aspettato quel momento e pensavo che non mi interessavano altre ragazze, altre donne ed ero orgoglioso di questa mia scelta, perché voleva dire che ero ancora libero e potevo decidere e sognare e continuare a perdermi dentro di lei.

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eravamo in un locale ed eravamo usciti di casa sconvolti e stavamo parlando, mentre la birra diminuiva dal bicchiere e aspettavamo qualcosa da mangiare e poi mi ha detto delle parole che non riuscivo a capire, allora ho cercato di andare dentro di lei, in profondità e altre parole sono uscite fuori e per un attimo il cuore ha iniziato a battere più veloce e la mia mente si è bloccata poi lei mi ha guardato ed è rimasta silenziosa e i suoi pensieri sono stati rinchiusi da qualche parte e allora sono andato a pisciare e quando sono uscito lei era ancora seduta e ho pensato a new york, ai velvet underground, a andy warhol, ho avuto la visione di un’altra vita in cui le avrei fatto migliaia di scatti, migliaia di fotografie, in un loft vicino al porto, prima di andare a qualche festa, a stordirci o semplicemente ad aspettare un pusher che ci portasse le droghe più deliziose. ero nella sua stanza e il volume della televisione era a zero e dalle casse del computer si sentiva una canzone dei metallica, stavamo in silenzio, fatti, era come ricominciare ogni volta da capo, come se si dimenticasse tutte le cose che le avevo detto, i miei sentimenti, le cose che provavo, ogni volta era come se ci incontrassimo per la prima volta, era meraviglioso starle vicino, era meravigliosa ogni cosa, quando lei era vicino a me, cominciavo ad aspettare i momenti in cui rimanevamo da soli senza nessuno intorno e il tempo rallentava e le nostre essenze diventavano più intime, si fondevano e cominciavamo a stare bene, a entrare in sintonia e ogni sguardo era come fare l’amore. non mi ricordavo da quanto tempo non riuscivo a provare una cosa simile. nel sogno ci abbracciavamo davanti ad una porta, ci ringraziavamo e con dolcezza ci siamo detti qualcosa, mentre la luce colmava di significati quella silenziosa attesa.

12. LE ULTIME VERITA’ DI UNA STANZA ORMAI VUOTA E DIMENTICATA

era seduto davanti ad una finestra, a guardare il cielo e le nuvole e il grigio di case anonime che si perdevano vecchie e stanche nello spazio circostante, le strade rovinate dal tempo e dagli uomini, gli alberi morti e anneriti, i ricordi dei fulmini, quelli delle tempeste. si toccava l’orecchio destro, mentre una crosta cadeva senza far rumore per terra, prese una fotografia, una delle poche che gli erano rimaste, una delle poche che non

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aveva bruciato, la guardò, ma non c’era niente in quell’immagine che gli fosse conosciuto, erano i volti di altre persone, ormai scomparse nel nulla, ormai inghiottite dalla nebbia della memoria. si passò una mano fra i capelli, sporchi e radi, prese un po' di tabacco, una cartina e arrotolò una sigaretta. la prima boccata si perse fuori dalla finestra, nel grigiore di quel mondo. come era toccare una donna? quali sensazioni si provavano? quale era l’odore dei loro capelli? a volte, quando era solo nel letto, improvvise reminiscenze, lei era girata di lato, il corpo caldo ed era così semplice starle vicino, accarezzarle il ventre e i seni, far scivolare le dita su quei confini. nella notte buia e desolata, fra gli echi di quella sconfitta che attende ognuno di noi, gli sembrava ancora di sentire i suoi sussurri, le parole d’amore, in quelle ore cariche di silenzio e sconforto, ricercava ancora le sue antiche illusioni. la cenere cadeva piano sul pavimento, come neve al tramonto, tra gli ultimi raggi del sole, in una giornata inutile e perduta, era stanco, i giorni passavano senza lasciare tracce, un ultimo sguardo, i ricordi che avanzavano, come eserciti impazziti, calpestando la mente, il campo di battaglia deserto, i corpi straziati, le bruciature sul petto, i tagli sulle braccia, le ultime verità di una stanza ormai vuota e dimenticata.

13. BRINGING ALL BACK HOME mi ero sdraiato sul letto, completamente nudo e con il cazzo già dritto per i baci che ci eravamo dati sul divano. lei era ancora vestita, portava degli stivali neri, che mi eccitavano da morire. se li è tolti e sotto aveva dei calzini da bambina, ha riso e mi ha guardato, girandosi e passandosi una mano fra i capelli, il suo volto era bellissimo, ho sorriso e ho messo le mani sotto la testa, lei si è tolta la gonna ed è rimasta in reggiseno e mutandine, aveva le mestruazioni e quindi sapevo che non avremmo scopato, ha preso un po' d’olio dalla bottiglietta che avevo portato, poi si è stesa accanto a me e ha iniziato a toccarmi il cazzo, mi piaceva molto farmi masturbare in quel modo, lei continuava a giocare con il mio cazzo, ogni tanto le prendevo la mano

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e le facevo sentire come doveva toccarlo, le facevo stringere con il pugno la cappella, poi gliela strofinavo sotto il palmo della mano, poi continuava da sola, la guardavo ed aveva gli occhi chiusi. mi piaceva avere il cazzo duro e i coglioni rasati e sentire la sua mano calda che provava piacere dal contatto con il mio corpo, la baciavo sul collo, poi allontanavo la testa e la guardavo negli occhi, poi mi perdevo nelle sensazioni che mi facevano andare oltre la realtà, i pensieri, il letto sul quale mi trovavo. mi sono messo in ginocchio sul letto, l’ho presa per i fianchi e l’ho fatta girare, con il cazzo le spingevo contro le mutandine e il culo, spingevo e lei rideva, rideva forte e ridevo anche io, era un gioco fantastico, mentre diceva lasciami, lasciami, lasciami e io le abbassavo le mutandine e cercavo di spingerglielo nel culo, ma lei era più forte di me, non ce l’avrei mai fatta, allora mi sono rigirato e lei si è avvicinata piano e mi ha messo la lingua in bocca, gliela ho succhiata, poi ha iniziato a mordermi le labbra, faceva male ma era così che mi piaceva, mi ha morso la lingua fino a quando non ho iniziato a gemere e allora ha ripreso il mio cazzo in mano e ha continuato a toccarlo. le sono salito sulla faccia a gambe aperte, massaggiandomi i coglioni, volevo che me lo succhiasse, ho iniziato a giocare con la cappella sul suo collo, ma non ne voleva sapere ed era come una fantastica lotta fra bambini e muoveva la testa e io con una mano le carezzavo i capelli e con l’altra cercavo di metterle il cazzo sulle labbra. poi l’ho baciata a lungo e le sue labbra erano così morbide, piene, con i contorni perfetti, che era una gioia immensa continuare ad assaporarle. mi sono steso sul letto e ho continuato a masturbarmi, con il cazzo pieno di olio e gonfio e duro e lei mi mordeva i capezzoli fino a quando non sono venuto e la sborra è schizzata, calda, su tutto il mio corpo e lei mi ha guardato e io l’ho guardata e il cuore mi si era fermato per un attimo, nel momento dell’orgasmo e allora tutto è tornato a galla, i ricordi, l’amore, viviana, le serate a casa mia, quello che avevo perduto, quello che mi era stato tolto e ho sentito il caldo nel cuore e nei polmoni, nella bocca dello stomaco e lei mi ha abbracciato e le lacrime sono arrivate, piano, salivano negli occhi e sono uscite, sempre di più e lei mi guardava e io non avevo niente da dirle e l’ho stretta forte perché non volevo precipitare, non più, ero stanco dell’abisso, volevo galleggiare con lei su quel letto, senza pensieri, mancava ancora del tempo, ce l'avrei fatta di nuovo, i ricordi dovevano smetterla di arrivare nella testa e nella pelle e nei battiti del mio cuore, ho chiuso gli occhi e ho respirato il suo odore ed è stato come tornare a casa.

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14. LO SCRITTORE

lo scrittore l’avrebbe guardata negli occhi e si sarebbe fatto più vicino, avrebbe fatto passare una mano sulla sua pancia e l’avrebbe sentita calda, avrebbe iniziato a baciarle il collo e a respirare il suo odore, le avrebbe sussurrato queste parole – ragazza, sei bellissima. lei avrebbe sospirato e si sarebbe girata, lo scrittore l’avrebbe baciata sulle labbra, una volta, due, tre, poi le avrebbe spinto la lingua dentro la bocca e con la mano sarebbe sceso verso la sua fica, lei avrebbe aperto le gambe e lo scrittore avrebbe iniziato a massaggiarle la fica attraverso i pantaloni, continuandola a baciare. poi le avrebbe sussurrato di togliersi i pantaloni e di rimane con le mutandine, lo scrittore le avrebbe detto di mettersi sul divano e di aprire le gambe, intanto si sarebbe spogliato, con il cazzo già duro, si sarebbe inginocchiato e avrebbe iniziato a baciarla tra le gambe, lo scrittore avrebbe scostato le mutandine e avrebbe iniziato a leccarle la fica, a scoprire il suo sapore, a sentirla già calda e bagnata, lo scrittore l’avrebbe leccata lentamente, poi sarebbe risalito con la lingua verso l'ombellico, lei si sarebbe tolta la maglietta e il reggiseno e lo scrittore le avrebbe baciato i seni e succhiato i capezzoli, prima dolcemente, poi mordendoli, poi di nuovo dolcemente, lei avrebbe sospirato di nuovo e lo scrittore avrebbe spinto il suo cazzo dentro la sua fica, guardandola negli occhi, perdendosi in quegli occhi, le avrebbe detto ti amo ragazza, è tutto quello che ho sempre sognato, ti amo ragazza e avrebbe iniziato a scoparla e a baciarla e a sentire le emozioni correre su e giù per ogni singolo nervo, ogni singolo centimetro di pelle, ogni respiro, ogni battito del cuore, lo scrittore le avrebbe morso le labbra per poi baciarle delicatamente e avrebbe continuato a scoparla con le mani intorno ai fianchi poi le avrebbe chiesto di mettersi sopra, si sarebbero scambiati le posizioni, e lo scrittore lo avrebbe di nuovo infilato con dolcezza dentro la sua fica, guardandola sempre negli occhi, lo scrittore avrebbe pensato che poteva anche morire in quel preciso istante e la sua intera vita sarebbe stata completa e così meravigliosa da poter essere raccontata, lo scrittore le avrebbe morso i capezzoli fino a quando lei non avrebbe sentito dolore, poi di nuovo li avrebbe baciati con delicatezza e le avrebbe messo le mani sul culo mentre lei si muoveva sul suo cazzo e le avrebbe detto continua, continua, continua, lo scrittore l’avrebbe scopata ancora, avrebbe visto le sue guance diventare rosse, il suo respiro farsi più veloce, avrebbe visto i sui occhi farsi più grandi, lo scrittore voleva farla venire leccandole la fica, voleva farla venire nella sua bocca e le avrebbe chiesto di mettersi sul divano con le gambe aperte e le avrebbe leccato il clitoride e le avrebbe infilato due dita nella fica fino a quando lei non fosse venuta, avrebbe sentito i suoi gemiti, lo scrittore l'avrebbe scopata ancora, dopo che era venuta, avrebbe voluto che lei gli mordesse il collo e i capezzoli, che le sue unghie lasciassero graffi e segni sulla sua pelle, lo scrittore l’avrebbe scopata ancora, poi sarebbe venuto sulla sua pancia, tirando fuori il cazzo prima di sborrare, lo scrittore si sarebbe sciolto nell'orgasmo e le avrebbe detto ti amo e poi le lacrime sarebbero arrivate calde, lente, reali e lo

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scrittore si sarebbe allontanato, insieme alle parole e ai sogni e a tutto quello che vorrei poter condividere con te senza riuscirci, lo scrittore avrebbe lasciato quei due corpi abbracciati sul divano, ancora ansimanti, lo scrittore si sarebbe seduto da una parte, in silenzio, e avrebbe scritto una poesia, una poesia d’amore, che parlasse di lei e di tutto quello che aveva visto dentro il suo sguardo.

15. STORIA DEGLI ULTIMI DUE ANNI viviana si stava mettendo lo smalto sulle unghie e io le guardavo i piedi e avevo voglia di leccarli e baciarli, glielo ho detto ma lei mi ha risposto che non voleva, ero nervoso quei giorni, con il cazzo inquieto nelle mutande e le mie fantasie di masochismo e sottomissione che non mi davano tregua e guardavo le cose in un’ottica distorta, irreale, non accorgendomi più di nulla, di quello che mi stava succedendo intorno, guardavo viviana e la vedevo truccarsi e farsi bella e non capivo che lo stava facendo per un'altra persona, ero diventato cieco, avevo perduto negli ultimi anni qualsiasi cosa, l’amore, la consapevolezza, la mia identità. avevo accettato troppi compromessi, avevo creduto a troppe stronzate, che l’amore fosse qualcosa di immutabile, che la strada scelta non sarebbe mai cambiata, è arrivata la vita, lo stesso, mi ha preso a calci nel culo, mi ha fatto soffrire come non mai, ho aperto di nuovo gli occhi, ho visto di nuovo le cose nella loro purezza, ho conosciuto marina, ho conosciuto altre ragazze, ho provato emozioni che avevo dimenticato, la sofferenza molto lentamente è diminuita, mi sono innamorato, le cose sono diventate reali. viviana doveva tornare a roma, di sabato, è partita mentre io sono rimasto al paese, è partita con un’altra persona senza dirmi nulla, ingannandomi, non ho fatto domande, non ho chiesto niente, una mia amica, la sera, mi ha detto di averla vista in macchina con un'altra persona, non le ho creduto, non sono stato geloso, non mi interessava, non volevo vedere la realtà, la mia percezione era distorta, pericolosamente distorta, ho provato a chiamarla verso mezzanotte, il cellulare era spento, probabilmente stava scopando con un’altra persona, ho aperto la sua valigia, ho trovato un paio di mutandine, le ho odorate, mi sono sparato una sega. il giorno dopo è tornata verso le sette, sorridente, io stavo in camera a scrivere un racconto e a rileggere le ultime cose che avevo scritto, ero un po' triste, sono sceso e ci siamo salutati, sapeva fingere in una maniera incredibile, nessun rimorso, nessuna paura, le ho chiesto come era andato il sabato, bene, niente di particolare.

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ero ingabbiato, non me ne accorgevo, avevo abbandonato la mia libertà, in cambio di cosa? di qualche scopata assicurata (neanche più di tante l’ultimo periodo), qualche bocchino, una storia d’amore che esisteva solo come abitudine. dei soldi, della macchina, della casa in sardegna e di quella a roma non me ne era mai fregato un cazzo, i beni materiali sono cose che non mi interessano. un paio di settimane dopo la verità era uscita fuori, viviana la teneva nascosta dentro se stessa, incapace di dirmela, poi l’abisso si è aperto profondo e maestoso e io sono caduto, incapace di fermarmi, sempre più in basso, una caduta libera e dolorosa, per quasi un anno, a piangere, con i pensieri che graffiavano la scatola cranica e strappavano le pagine della memoria in tanti piccoli pezzi, ho buttato via tutto, vestiti, centinaia di foto, regali, tutto tranne le parole, loro erano ancora preziose, loro erano qualcosa di vero, di personale, di unico. La caduta continuava, l’amore era un’esigenza così urgente che mi bruciava l’anima, il sesso era un demone ghignante e crudele, il desiderio del suo corpo continuava e la mia pelle cercava quel contatto, in due anni ho scopato solo un paio di volte con una ragazza ed è stato triste vedere il mio cazzo che non voleva drizzarsi e sentire la paura e la malinconia mentre cercavo di conoscere un altro corpo nella mia stanza e i ricordi entravano in circolo e mi facevano cadere ancora di più. poi ci sono stati i rapporti sadomaso, le donne da cui mi sono fatto torturare, i capezzoli, i coglioni, il cazzo. la cera, le fruste, le manette, le sigarette spente, le corde, i cazzi di plastica nel culo, gli schiaffi, gli sputi. poi c’è stato l’amore, per marina, qualcosa di meraviglioso, qualcosa che mi ha guarito l’anima, insieme alle parole di osho, un libro che proprio marina mi ha regalato, ho passato delle giornate bellissime con lei, nei viaggi in macchina, al paese, a roma, alcune volte nella mia stanza, mi bastava guardarla negli occhi per sentirmi bene tre giorni di fila, mentre la pensavo disteso sul letto, poi ho dovuto pagare il prezzo anche di questo e la sofferenza è tornata, per non poterla amare come avrei voluto, per dover trattenere gesti che erano il prolungamento naturale di questo sentimento, mi sentivo amputato, le rose sbocciavano dal mio cuore, ma venivano recise e rimanevano le spine a pungermi. Ho conosciuto soledad, una donna di un’altra epoca, di un altro mondo, la sua timidezza e il suo pudore sono state delle scoperte inaspettate, la sua bellezza un nuovo dono degli dei. il passato finalmente sta sfumando, nei sogni incontro ancora i miei amori, il sole splende nel cielo, nel mio cuore la quiete è dorata, mentre attendo la prossima, inevitabile disfatta.

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16. CUORE NERO avevo il cuore nero, pieno di ferite e lividi e soprattutto avevo i coglioni pieni della mediocrità che mi circondava, dei falsi amici, degli idioti, delle parole inutili, avevo vissuto gli ultimi due anni come il protagonista di un trip andato a male, un viaggio acido che mi aveva portato in luoghi assurdi, in incontri inconfessabili, avevo dovuto attraversare i deserti della mia anima per ritrovare me stesso, era l’unica cosa che desideravo, me stesso e poi mandare a fare in culo tutti quanti, il mio cuore era nero e ancora più dell’amore, della gioia, della felicità il mio cuore voleva distruggere e far male, era un luogo buio e denso di dolore, il mio cuore bramava la sofferenza a avrei saputo come e quando colpire, era inevitabile, mi ero tenuto alla larga da tutto questo, ma l’anima non la puoi vendere o cambiare e gli antichi demoni erano tornati e danzavano nudi e ubriachi a cazzo duro intorno a me, erano fauni e draghi famelici e mostri grotteschi con maschere di animali e stanze rosse con specchi e strumenti di tortura e fruste e gabbie e candele accese. avevo il cuore nero e tagli sul ventre e strisce rosse sulla pelle e lividi violacei e sapevo che solo in quel buio poteva splendere la luce più brillante, quella fiamma silenziosa e ardente, l’unica cosa che mi tenesse in vita, sapevo che avrei di nuovo vagato da solo, chiuso dentro me stesso, non avrei fatto più avvicinare nessuno, sarebbe stato impossibile per chiunque chiamarmi o parlarmi o vedere di nuovo la bellezza di quella fiamma, avrei continuato a bruciare da solo, nella notte senza stelle che mi aspettava e che mai mi avrebbe abbandonato.