IL CONTRIBUTO DEL COGNITIVISMO - unibs.itun terzo paradigma, quello cognitivista, che pare...

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GIANCARLO PROVASI OLTRE IL MODELLO DI RAZIONALITÀ LIMITATA. IL CONTRIBUTO DEL COGNITIVISMO "a parte l'uomo, tutti gli animali sono razionali" H.W. Johnstone, 1970 L'ipotesi di lavoro (o se si vuole l'ambizione) di "andare oltre il paradigma della scelta razionale" si può dire sia all'origine stessa della sociologia, eppure in anni recenti si assiste ad un imperioso ritorno all'interno delle spiegazioni sociologiche dell'individualismo metodologico e dei modelli rational choice. Le ragioni di tale ripresa sono da imputarsi principalmente ai limiti sempre più evidenti degli approcci olistici e normativistici - approcci che sino ad ora hanno costituito l'unica alternativa teorica al modello della scelta razionale. E' comprensibile pertanto che da qualche tempo si guardi con grande interesse ad un terzo paradigma, quello cognitivista, che pare potenzialmente in grado di ovviare ai limiti dei due sino ad ora dominanti. Per altro l'approccio cognitivista nel mentre sembra risolvere alcuni problemi del passato ne apre di nuovi ugualmente intricati. Ci sono almeno tre domande che meritano di essere affrontate in maniera sistematica, dipendendo dalle risposte che si saprà dare loro la consistenza o meno di un nuovo approccio teorico per le scienze sociali. La prima riguarda la natura stessa del modello cognitivista. In cosa esso si differenzia dal modello della scelta razionale (almeno in quella accezione debole che sembra prendere ormai il sopravvento anche all'interno delle scienze economiche)? e se da quell'approccio si differenzia per davvero non rischia poi di uniformarsi nella sostanza con i modelli di stampo behaviorista che hanno per lungo tempo dominato le scienze dell'uomo così come quelle della società? Parte dei problemi sottesi a queste domande sono da imputarsi ad alcune ambiguità dell'originale proposta di Herbert Simon in tema di razionalità limitata: a quella proposta infatti è possibile far risalire l'avvio del paradigma cognitivista all'interno delle scienze economiche e sociali, ma quella stessa proposta - come spesso accade per le idee seminali - conteneva diverse e non sempre univoche

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GIANCARLO PROVASI

OLTRE IL MODELLO DI RAZIONALITÀ LIMITATA.IL CONTRIBUTO DEL COGNITIVISMO

"a parte l'uomo, tutti gli animali sonorazionali"

H.W. Johnstone, 1970

L'ipotesi di lavoro (o se si vuole l'ambizione) di "andare oltre il paradigmadella scelta razionale" si può dire sia all'origine stessa della sociologia, eppurein anni recenti si assiste ad un imperioso ritorno all'interno delle spiegazionisociologiche dell'individualismo metodologico e dei modelli rational choice. Leragioni di tale ripresa sono da imputarsi principalmente ai limiti sempre piùevidenti degli approcci olistici e normativistici - approcci che sino ad ora hannocostituito l'unica alternativa teorica al modello della scelta razionale. E'comprensibile pertanto che da qualche tempo si guardi con grande interesse adun terzo paradigma, quello cognitivista, che pare potenzialmente in grado diovviare ai limiti dei due sino ad ora dominanti. Per altro l'approccio cognitivistanel mentre sembra risolvere alcuni problemi del passato ne apre di nuoviugualmente intricati.

Ci sono almeno tre domande che meritano di essere affrontate in manierasistematica, dipendendo dalle risposte che si saprà dare loro la consistenza omeno di un nuovo approccio teorico per le scienze sociali. La prima riguarda lanatura stessa del modello cognitivista. In cosa esso si differenzia dal modellodella scelta razionale (almeno in quella accezione debole che sembra prendereormai il sopravvento anche all'interno delle scienze economiche)? e se daquell'approccio si differenzia per davvero non rischia poi di uniformarsi nellasostanza con i modelli di stampo behaviorista che hanno per lungo tempodominato le scienze dell'uomo così come quelle della società? Parte deiproblemi sottesi a queste domande sono da imputarsi ad alcune ambiguitàdell'originale proposta di Herbert Simon in tema di razionalità limitata: a quellaproposta infatti è possibile far risalire l'avvio del paradigma cognitivistaall'interno delle scienze economiche e sociali, ma quella stessa proposta - comespesso accade per le idee seminali - conteneva diverse e non sempre univoche

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chiavi di lettura. Dedicherò pertanto il primo punto di questo saggio ad alcuneosservazioni nel merito delle differenze tra razionalità assoluta e razionalitàlimitata, cercando soprattutto di mettere in luce la dimensione cognitivista che ilmodello della razionalità limitata presuppone. Seguirà un secondo punto nelquale cercherò di fornire alcune caratteristiche che qualificano il paradigmacognitivista rispetto a quello behaviorista (o di prima cibernetica). Come dirò,non tutti i problemi sottesi a questo complesso rapporto sono stati risolti, anche(ma non solo) per l'impostazione individualista che ha caratterizzato sin qui imodelli cognitivisti, frequentati soprattutto dalle discipline psicologiche,linguistiche e dell'intelligenza artificiale.

E veniamo così alla seconda domanda che merita una risposta piùsistematica: non è forse l'approccio cognitivista troppo segnato in sensopsicologico per poter essere utilmente impiegato nei modelli delle scienzesociali? Alla base dell'interesse delle scienze sociali per i modelli della rationalchoice vi è il rinnovato e non più eludibile problema del rapporto tra attore esistema, tra dimensione micro e dimensione macro delle teorie sociali. Ma qualereale contributo in merito possa venire da un approccio che, ancor più di quellodella scelta razionale, sembra qualificarsi per un sostanziale individualismo, èproblema che non può non essere posto al centro della discussione. Dedicheròpertanto il terzo punto di questo paper ad una prospezione delle possibilità (senon, come cercherò di argomentare, della necessità) di una variantecontestualista1 del modello cognitivista e dei contributi che da tale variantepossono venire.

Una terza ed ultima classe di domande riguarda infine l'esatta natura diquello che può essere considerato il contributo (teorico ed operazionale) piùinteressante del modello cognitivista: il concetto di belief system (nelle suenumerose e non sempre coincidenti varianti, quali le mappe cognitive, i frame,gli script o gli schemata). Le legittime perplessità riguardano, da un lato,l'eccessiva staticità di tali sistemi di credenze (in particolare nellaformalizzazione suggerita da Schank-Abelson, 1977 e dal primitivocognitivismo simbolico) e, dall'altro, con una paradossalità solo apparente,l'eccessiva fragilità e variabilità di strutture che, aperte all'esperienza biograficadi ciascun attore, rischiano di risultare troppo idiosincratiche per poter costituireil fondamento di una qualsivoglia teoria che abbia ambizioni predittive. In veritài due rilievi sono figli di un medesimo problema di fondo: quello della

1 Per la definizione di un approccio contestualista "che mantiene l'orientamentometodologico del modello intenzionalista ... ma contrasta la tendenza di ispirazionecartesiana e mentalista ad interiorizzare ... i determinanti dell'azione" si veda Sparti,1992. Della proposta di Sparti, per altro, condivido le intenzioni, non invece tutte lesoluzioni avanzate.

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debolezza dei modelli oggi disponibili sulla struttura e le dinamiche interne aisistemi di belief. A questo problema dedicherò qualche osservazione finale.

1. Razionalità assoluta vs. razionalità limitata

E' noto che uno dei problemi di fondo dell'approccio della scelta razionaleconcerne la struttura delle preferenze (o funzione di utilità): perchè il modellodella razionalità assoluta possa essere applicato in tutta la sua potenza formale ènecessario che l'ordinamento delle preferenze sia unico, completo e transitivo.Molto rozzamente (mi perdonino i lettori di formazione economica) credo sipossano distinguere all'interno dell'approccio della scelta razionale due varianti:una che chiamerò forte ed una che chiamerò invece debole2. La prima sicaratterizza appunto per il presupposto dell'unicità, completezza e transitivitàdella struttura delle preferenze; mentre la seconda - di fronte alle obiezioni edifficoltà crescenti che tale presupposto sembra sollevare - si è caratterizzata peril suo progressivo abbandono. La variante debole non comporta pertanto alcunasostanziale restrizione sui fini o preferenze dell'attore e cerca soprattutto didimostrare la deducibilità delle azioni da una qualsivoglia struttura di preferenzedata.

Ma come è stato notato (si veda tra gli altri Brennan, 1990: 53) la variantedebole rinuncia - insieme alle restrizioni formali sulla funzione di utilità - anchea buona parte delle capacità predittive e normative del modello forte della sceltarazionale. La struttura delle preferenze risulta infatti a tutti gli effetti esogena almodello e chiede ulteriori ed indipendenti ipotesi per essere spiegata. Invero,dietro alle restrizioni formali della variante forte, si cela (come è stato del restogià rilevato da molti critici di quella variante) una ipotesi (forte per l'appunto)sulla determinazione dei fini degli attori razionali. Ciò che le restrizioni formalisulla funzione di utilità implicano è la derivabilità della medesima da un unicoprincipio: quello dell'economic self interest. Dato il rilievo del punto per leargomentazioni successive mi sia concesso dedicare ad esso qualcheosservazione più circostanziata.

2 Qui gli aggettivi forte e debole si riferiscono alla valenza dei presupportsi

fondativi delle due varianti e alle conseguenti capacità normative e predittive che da talipresupposti possono derivare. Non è raro per altro tra gli economisti contemporaneiconstatare un rovesciamento nell'uso dei due termini qui usati per individuare le duevarianti: quella che qui viene appellata come debole è spesso ritenuta infatti più forte inquanto indipendente da qualsiasi ipotesi sulla struttura delle preferenze e in virtù di unasuperiore sofisticatezza delle procedure di derivazione logico-matematica.

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Weber in un passo assai noto3 sembra suggerire una distinzione tra trediversi momenti della razionalità: (1) la razionalità tecnico-strumentale che siidentifica nell'impiego di mezzi adatti in rapporto agli scopi; (2) la razionalitàdella scelta che consiste nella definizione di scopi consistenti con il sistema deivalori, i mezzi e le condizioni concomitanti; (3) infine la razionalità materiale(o dei postulati di valore) che Weber contrappone ai primi due tipi di razionalità(la cui combinazione egli chiama razionalità formale) e che dovrebbe attenerealla valutazione del sistema stesso dei valori che stanno alla base dellepreferenze e della scelta degli scopi dell'azione (per questa distinzione derivataappunto da Weber, si veda Habermas, 1986: 258 ss.). Ora, se applichiamo loschema weberiano all'approccio della scelta razionale possiamo - credo con uncerto fondamento - affermare che, mentre la variante debole si limita alla primaaccezione di razionalità (tecnico-strumentale), quella forte copre anche laseconda (razionalità della scelta) in forza della presunta derivabilità razionaledegli scopi da un unico principio (o valore) che caratterizzerebbe l'homooeconomicus: quello dell'economic self interest. Tale principo non è, sottoquesto profilo, una categoria vuota (se non forse nel senso della metaforapirandelliana di Vestire gli ignudi: come la cipolla privata dell'ultimo stratonon è più niente, così la verità ultima quando viene rilevata è priva di ognicarattere). E' piuttosto un principio generale, in ultima istanza di adattamentoall'ambiente, da cui derivare gli scopi razionali dell'attore4.

Eppure ciò che rende di difficile accettabilità la variante forte della teoriadella scelta razionale non sono soltanto i requisiti formali della sua funzione diutilità, quanto i presupposti sostanziali da cui tali requisiti vengono derivati.Questi sono: (1) la totale conoscibilità del mondo (o dell'ambiente) a cui l'attoreappartiene e (2) la calcolabilità sinottica di tutte le alternative disponibili. Soloinfatti se il mondo è una realtà trasparente e perfettamente conoscibile all'attoree le alternative d'azione possono essere valutate nella loro globalità, la funzionedi scelta può essere ricondotta ad un processo di adattamento razionaleall'ambiente. L'azione, sotto queste condizioni, è sempre (e solo) azione

3 "Agisce in maniera razionale rispetto allo scopo colui che orienta il suo agire allo

scopo, ai mezzi e alle conseguenze concomitanti, misurando razionalmente i mezzi inrapporto agli scopi, gli scopi in rapporto alle conseguenze ed infine i diversi scopipossibili in rapporto reciproco" (Weber, 1974, vol. I: 23).

4 In questo senso il fondamento intellettuale più significativo del modellodell'economic self interest è, prima ancora che Adam Smith, Charles Darwin con ilsuo Sull'origine della specie. Il tema filosofico del rapporto tra modello economicodella scelta razionale e modello evoluzionista è un tema di grande interesse che qui nonpuò che essere solo segnalato (anche se tocca in verità da vicino l'oggetto di questenote). Si veda in proposito R. H. Frank, 1988: 23 ss.

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efficiente: i fini sono di fatto determinati dalla disponibilità e dall'uso razionaledei mezzi necessari al loro perseguimento. Alla funzione di utilità possonoessere assegnati i requisiti formali necessari al modello in quanto è essa stessa ilrisultato di una derivazione razionale (dunque consistente, completa etransitiva) di preferenze da un unico principio o fine ultimo (quellodell'adattamento). Dagli stessi principi sostanziali dipende poi anche laperseguibilità di ottimi globali a partire da razionalità locali e individuali. Sel'ottimo paretiano è conoscibile a priori, non può che essere nell'interesse deisingoli il raggiungerlo e gli strumenti di coordinamento e di ordine socialepossono di conseguenza essere prodotti e mantenuti spontaneamente.

Non c'è chi non veda il rilievo di questi risultati per l'intera problematica dicui le scienze sociali si occupano: definizione dei fini (non solo dei mezzi) erapporto tra dimensione micro (individuale) e dimensione macro (sociale) dellarazionalità vengono risolti insieme con un unico (e, in sè, assai elegante)movimento teorico. E' importante comunque ribadire come tali risultati sianoraggiungibili solo alle condizioni della variante forte del modello. Nel dibattitoche ha portato al progressivo indebolimento del paradigma utilitarista nonsempre le conseguenze di tale processo sono consapevolmente esplicitate. Ci sideve rivolgere alla riflessione di Herbert Simon (che è rimasta per altro a lungominoritaria, et pour cause, all'interno delle discipline economiche) per trovareun ragionamento conseguente sugli effetti dirompenti dell'indebolimento deipresupposti del modello assoluto della scelta razionale.

Simon, come è noto, giunge a definire il concetto di bounded rationalitycontestando innanzitutto la legittimità del secondo presupposto sostanziale dellavariante razionalista forte: quello che postula la calcolabilità sinottica dellealternative disponibili (Simon, 1982). Tale presupposto sembra a lui eccessivoper le capacità di calcolo umane: anche se si fosse in presenza di situazioni aperfetta informazione, al decisore umano sarebbe impossibile indagareesaustivamente tutte le alternative disponibili e le conseguenze di ciascuna diesse. Ci si deve pertanto accontentare di una razionalità limitata: vale a dire sideve interrompere la ricerca di alternative (che non si trovano già date in unquadro sinottico ma devono essere raggiunte onerosamente in modosequenziale) alla prima che supera una determinata soglia di accettabilità (cheSimon chiama livello di aspirazione).

Ma una volta accettata la definizione simoniana di razionalità limitata leconseguenze sono ben più radicali di quanto forse lo stesso Simon fosseinizialmente disposto a concedere5. Mi soffermerò brevemente su tre di esse:

5 Per una buona ricognizione dell'approccio simoniano alla luce della più recente

scienza cognitiva si veda Egidi, Marris, 1992.

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1. innanzitutto l'impostazione simoniana pone il problema di stabilire quale siala soglia delle informazioni sufficienti a prendere una decisionesoddisfacente. Si noti che la valutazione di tale soglia non può dipenderedalle informazioni stesse ma solo da una rappresentazione a priori chel'attore si fa del campo di incertezza o di rischio connesso alla decisione.Qualsiasi calcolo costi-benefici di una informazione aggiuntiva (come hateso a fare l'economia dell'informazione per cercare di ricondurre a buonmercato il modello di Simon entro l'alveo del paradigma neoclassico) apreinfatti un regresso all'infinito, trattandosi pur sempre di una decisione cherichiede a sua volta la definizione di un livello di aspirazione delleinformazioni necessarie per prenderla;

2. in secondo luogo le stesse informazioni, proprio perchè scelte in funzione diuna rappresentazione soggettiva a priori, non possono essere considerate insè esaustive ed autoesplicative. L'attore attribuisce loro un valore decisionalesolo inserendole all'interno di un quadro di riferimento (o modello di realtà)che gli è proprio e che egli ha costruito sulla base dell'esperienza passata e/odi regole che gli derivano dalla cultura di appartenenza. Per questo Simonsente il bisogno di definire la propria razionalità non solo come limitata maanche come procedurale, intendendo con questo secondo termine richiamarel'attenzione sugli schemi e le routine che gli attori adottano in presenza dicondizioni di complessità e incertezza ambientale;

3. infine postulare una razionalità limitata e procedurale comporta doverrinunciare alla possibilità di derivare (come nella variante debole dellarational choice theory) i fini tramite un principio di razionalità efficiente.Non solo gli attori non possono raggiungere a priori la certezza della bontàdelle loro scelte tecnico-strumentali, ma a fortiori non possono neppurefondare un giudizio di razionalità sui fini da loro perseguiti. I fini - come imezzi - possono essere valutati solo a posteriori, innescando quel processo diapprendimento per tentativi ed errori che Simon ritiene di poter porre allabase dell'intelligenza umana.

Tutte e tre le conseguenze implicate nel modello simoniano sembrano andaredunque nella direzione dei presupposti epistemologici e teorici propri delcognitivismo: la necessità di schemi e rappresentazioni mentali a priori;l'inderivabilità delle decisioni unicamente dalle informazioni provenientidall'ambiente esterno; la concezione processuale della razionalità (ma sarebbeforse più corretto dire dell'intelligenza) umana, intesa non tanto come metodoperfetto di scelta quanto come capacità di apprendere dai propri errori e di trarreinsegnamenti dall'esperienza. Lo stesso Simon del resto viene comunemente

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considerato, soprattutto per i suoi contributi nell'ambito della intelligenzaartificiale, tra i padri del cognitivismo.

Personalmente ritengo che il modello della razionalità limitata non possache fondarsi su di un paradigma cognitivista. Il venir meno dei presuppostidella variante forte della teoria della scelta razionale richiede infattinecessariamente un paradigma alternativo, pena l'indeterminazione del modello.

Eppure l'argomentazione di Simon non va esente da ambiguità proprio suquesto versante. Talvolta infatti (soprattutto nella produzione di tipoorganizzativo) egli sembra fondare il suo modello su di un paradigma di primacibernetica; talaltra - quando pare rendersi conto dei limiti di staticità deirepertori e delle routine d'azione da lui ipotizzate - approda ad un paradigmaneo-positivista piuttosto che ad uno coerentemente cognitivista e costruttivista(come appare chiaro dalla impostazione da lui data al tema del problem solvinge della heuristic search: per una critica condivisibile in proposito si vedaLanzara, 1985).

Come ha rilevato con intento critico Elster (1990: 42), la forza ma anche laprincipale debolezza della teoria di Simon sta nel suo realismo. Essa descrivecon molta maggior precisione e verosimiglianza della rational choice theory iprocessi di decisione umana ma non riesce poi a spiegarli realmente, se nonrifacendosi a ipotesi esterne (di stampo istituzionalista o behaviorista). E' danotare come questi limiti continuino a pesare anche presso quel filone di studieconomici di impostazione neo-istituzionalista che ampiamente si rifannoall'approccio simoniano (Heiner, 1983 e 1988; Hodgson, 1988). Questi, se da unlato, richiamano giustamente l'attenzione sugli aspetti istituzionali e culturaliche sottendono le scelte economiche (soprattutto in condizioni di incertezza),dall'altro mancano di una adeguata teoria per spiegare come i sistemiistituzionali e i repertori di azione da essi derivati si formino e - soprattutto - simodifichino. Ne conseguono dei modelli esplicativi statici quando nonmeramente descrittivi.

Ma i limiti e le ambiguità dell'approccio simoniano sono in larga misurariconducibili ai problemi di fondo che ancora inficiano il paradigmacognitivista. A questi dunque è necessario rivolgere ora l'attenzione.

2. Contributi e limiti del paradigma cognitivista

L'idea di fondo del cognitivismo è che l'attore decida a partire da un sistemadi convinzioni o credenze (belief system) sulla cui base interpreta gli eventi delmondo e da cui deriva le azioni che ritiene più opportune per il perseguimentodei sui fini. In prima battuta, la differenza con il paradigma della scelta

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razionale appare netta: questi infatti si fonda sul presupposto di una capacitàalgoritmica di calcolo delle azioni più convenienti a partire da una analisioggettiva della realtà esterna. Il cognitivismo di contro afferma l'esistenza dirappresentazioni interne all'attore che non sono il frutto di un rispecchiamentodella realtà esterna bensì il risultato di costruzioni mentali prototipiche.Costruzioni sedimentate attraverso l'esperienza passata (personale e culturale)che permettono di prendere delle decisioni per default: "come se" (fino a provacontraria) la realtà andasse effettivamente come noi ci rappresentiamo che essavada.

Questa idea di fondo del cognitivismo ha per altro avuto origini diverse ed èstata (e continua ad essere) soggetta ad interpretazioni anche divergenti. Il vero(ed unico) punto di convergenza (che giustifica l'attribuzione delle diverseposizioni al medesimo approccio) è fornito dalla necessità (che è alla baseanche del modello della razionalità limitata di Simon) di ovviare all'esplosionecombinatoria che graverebbe su qualsiasi sistema cognitivo (umano oartificiale) nel momento in cui sia chiamato ad operare entro ambiti nonrigorosamente predefiniti in senso assiomatico. La necessità pertanto di forniretali sistemi non solo di capacità algoritmiche di calcolo ma anche di unasufficiente quantità di conoscenze specifiche con cui selezionare e semplificarela realtà apparve evidente sin dai primissimi contributi dell'intelligenzaartificiale e da lì ben presto si impose anche agli studi di psicologia cognitiva edi linguistica. Ma l'interpretazione filosofica ed epistemologica di questanecessità e le implicazioni teoriche che da essa si possono derivare hannocostituito (e continuano a costituire) uno dei punti di maggior dibattitoall'interno delle scienze cognitive.

Non mi è possibile nei limiti di questo lavoro seguire nel dettaglio le varieposizioni teoriche che si dividono il campo cognitivista (si veda per untentativo in tal senso Provasi, 1991). Una distinzione è comunque importante aifini del ragionamento che intendo svolgere qui. La ricavo da Elster (1983: 2 ss.),che distingue una thin theory da una broad theory of belief.

Nel primo caso siamo in presenza di un teoria che si limita ai problemi - diper sè niente affatto banali - di derivare le decisioni e l'azione da un sistema dicredenze dato. Si possono ricondurre a questa categoria sia i primitivicontributi del cognitivismo simbolico (a cui appertiene buona parte dellariflessione risalente alla metà degli anni '70 su script, schemata e mappecognitive: Schank-Abelson, 1977; Axelrod, 1976), sia le varianti più recenti delmedesimo fortemente connotate invece in senso logico (per una buona raccolta:Georgeff-Lansky, 1987). Ma al di là dei contributi che possono venire dalfilone logico del cognitivismo è sempre più evidente la sua inadeguatezza difronte ai problemi esplicativi dell'azione e dell'intelligenza umana.

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La vera sfida che il paradigma cognitivista ha di fronte (e che il dibattito piùrecente, suscitato soprattutto dalle critiche connessioniste al cognitivismosimbolico, ha fatto emergere con forza) è quella di fondare una broad theory ofbelief: una teoria che sia in grado non solo di derivare decisioni e azioni dacredenze o convinzioni date ma anche di spiegare come tali belief si formino e,soprattutto, si modifichino a fronte delle sfide e dei cambiamenti della realtà.Non a caso - sotto questo profilo - uno dei punti più critici della ricercacognitivista rimane quello dell'apprendimento6. Detto in termini diversi, unmodello cognitivista che voglia cogliere le sfide sostanziali poste da una teoriadell'azione e delle decisioni umane deve potersi contrapporre non tanto allavariante debole ma a quella forte del paradigma della scelta razionale e per farequesto deve innanzitutto potersi liberare dall'idea che gli esseri umani agiscanoa partire da una valutazione esatta a priori delle condizioni di possibilità e diconvenienza delle loro azioni.

Minsky (1989) ha sintetizzato con rara efficacia la sostanza di un possibileapproccio cognitivista forte affermando che "non abbiamo bisogno di metodiperfetti perchè siamo in grado di ricordare come falliscono quelli imperfetti".Gli esseri umani operano sulla base di meccanismi cognitivi che non possonogarantire a priori (come fanno invece quelli algoritimici presupposti dal modellodella rational choice) il risultato dell'azione e che coprono tale scarto con unaassunzione soggettiva di responsabilità che innesca ed alimenta un processo diapprendimento. Si noti come questo modo di impostare il problema non solorisponde in maniera più realistica alle condizioni empiricamente riscontrabilidella presa di decisione (il che - sin dagli aggettivi usati per qualificarla - hasempre connotato in maniera negativa piuttosto che positiva la razionalitàumana, giudicata appunto debole o limitata), ma permette anche (e soprattutto)di render conto dei tratti che differenziano in positivo le doti di intellligenzanon puramente adattiva messe in gioco dagli attori umani. Come ci rammenta(solo con un pizzico di paradossalità) la citazione di Johnstone posta in epigrafea questo saggio, mentre gli animali sono razionali (perseguendo per viaevolutiva la soluzione più efficiente di adattamento all'ambiente), gli uomininon lo sono in quanto, grazie ai loro metodi cognitivi imperfetti, possonoadottare comportamenti pro-attivi, che modificano attivamente piuttosto cheadattarsi passivamente alla realtà. Sono le capacità immaginative dell'uomo(derivate dalla possibilità di manipolare i sistemi simbolici di credenze di cui èdotato) a permettergli di liberarsi dai vincoli dell'adattamento e dell'evoluzionenaturale e a rendere fallaci ma anche creative ed innovative le sue azioni.

6 Una buona overview dei più recenti contributi in tema di apprendimento applicati

ai processi sociali ed organizzativi si trova in Di Bernardo-Rullani, 1994

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Ma per dare una qualche consistenza teorica ad un tale approccio ènecessario possedere una valida teoria dell'apprendimento. Che cosa ci induce -talvolta - a modificare le nostre convinzioni e ad adattare le nostre intenzionialle resistenze e ai vincoli incontrati, mentre - talaltra - perseguiamo condeterminazione progetti anche a fronte delle difficoltà che ci vengono opposte?Che cosa ci fa ritenere in alcuni casi saggia una decisione adattiva (che consistecioè nell'adattare i fini a dei vincoli assunti come dati), mentre altre voltericonosciamo il valore di risultati perseguiti contro ogni previsione razionale eraggiunti in forza di una speranza o di un desiderio che a priori potevano esseregiudicati irrazionali?

Il solo fatto che interrogativi come questi possano essere legittimamenteposti dimostra come nessun meccanismo semplice del tipo per tentativi ederrori potrà mai reggere una convincente teoria cognitiva dell'apprendimento(nonostante quanto potesse pensare Simon al riguardo). Come ci ricorda vonGlasersfled (1988:35):

"Le possibilità di costruire un ordine [cognitivo] vengono sempredeterminate dai passi precedenti nella costruzione. Ciò significa che ilmondo "reale" si manifesta esclusivamente laddove le nostre costruzionifalliscono. Poichè, tuttavia, possiamo ogni volta descrivere e spiegare ilfallimento soltanto con quei concetti che abbiamo utilizzato per lacostruzione delle strutture poi fallite, questo processo non potrà mai fornirciun'immagine del mondo che potremmo rendere responsabile del lorofallimento".

La realtà nulla ci può insegnare se non attraverso il filtro di quello stessosistema di credenze che potrebbe dover essere cambiato. Capire dunque imeccanismi che sovraintendono al mantenimento - anche contro le falsificazioniche vengono dalla realtà - o al cambiamento dei sistemi di credenze è la sfidapiù difficile (ma probabilmente risolutiva) della cognitive science.

La questione è resa poi ancora più complessa se si considerano i processi diapprendimento che hanno come oggetto la realtà sociale. Questa è costruita nonsolo in senso cognitivo ma anche normativo. In altri termini, conferme osmentite di un certo sistema di credenze dipendono da una realtà che è a suavolta il precipitato dell'interazione di quelle medesime credenze con quelle dialtri partner con cui si entra in relazione. Valgono qui, in altri termini, quelleche la sociologia, sin dai tempi di Thomas, ha imparato a conoscere comeprofezie che si auto-adempiono (ma che poi ha troppo spesso dimenticato: peruna ripresa del tema, da parte comunque di un non sociologo, si vedaWatzlawick, 1988). Il mantenere con determinazione un certo corso di azione(anche a fronte di iniziali difficoltà e smentite) è condizione spesso necessaria

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(anche se, ovviamente, non sufficiente) per imporre il proprio punto di vista edunque relazioni sociali conformi al proprio sistema di valori e credenze.

Se questa è la latitudine dei problemi messi in gioco dai processidell'apprendimento sociale, non mi pare esistano per il momento in letteraturasoluzioni teoriche in grado di prenderli adeguatamente in conto. Due le piste diricerca sin qui marginali all'interno dell'approccio cognitivista e che meritanoinvece - a mio avviso - una particolare attenzione.

La prima riguarda il rapporto tra sistemi personali di credenze e quadriculturali-normativi. L'approccio individualista che ha caratterizzato sin qui lacognitive science (Gilberth-Heath, 1985) ha finito per trascurare questo aspetto.Peggio: ha spesso portato surrettiziamente dentro le scienze cognitive unapproccio al problema di tipo funzionalista. Come nel caso dellaformalizzazione del concetto di script da parte di Schank (e di tutti coloro che atale concetto si sono poi rifatti, compresi - come si è detto - gli epigoni neo-istituzionalisti di Simon). La relazione tra dimensione cognitiva e normativa(quando viene presa in conto) è concepita unidirezionalmente: ci si interrogacioè unicamente su come le norme possano essere "interiorizzate" dai sistemi dibelief, mentre l'elemento che dovrebbe qualificare l'approccio cognitivistarispetto alle teorie normative dell'azione sta proprio nella capacità di prendere inconto la necessaria dialettica tra belief "soggettivi" e norme culturali"oggettive".

Nè del resto gli stessi contributi critici verso il cognitivismo simbolicoriescono a prendere in conto in modo convincente questo rapporto tradimensione soggettiva di costruzione del senso e dimensione oggettiva diproduzione dell'ordine sociale. Anche se hanno richiamato opportunamente ildibattito sul problema epistemologico della inevitabile "contestualizzazione" diqualsiasi primitiva simbolica (Dreyfus, 1989), il loro orizzonte restasostanzialmente incapace di valorizzare in positivo la natura eminentementesociale del contesto di senso dell'attore. Quegli stessi contributi che più siavvicinano per sensibilità e impostazione teorica al problema (si vedaWinograd-Flores, 1986 e Varela, 1987), ne forniscono poi - attratti dalparadigma auto-poietico - una soluzione filosoficamente dubbia e - soprattutto -operativamente sterile. Non è tanto importante cercare un fondamentocompletamente auto-sufficiente (o auto-organizzato) alla produzione umana disenso, quanto piuttosto riuscire a prendere in conto la dialettica tra il contesto disenso che si eredita dalla propria cultura e l'autonoma produzione dello stesso dicui ciascun attore è capace. In questo senso assai più utili mi sembrano queicontributi che cercano di formalizzare (spesso in concreti progetti software) taledialettica di interazione degli attori tra loro e con il sistema normativo-culturaleche hanno ereditato e che definisce le regole (mutabili) della loro interazione

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(Doran, 1982 e 1985; Banerjee, 1986; Arthur, 1991; Holland, 1988 e 1992).Con un occhio di riguardo dunque a questo filone di riflessione, dedicherò ilpunto successivo ad un preliminare abbozzo di come tale problema possa essereaffrontato.

La seconda pista di ricerca riguarda la struttura interna dei sistemi di belief e,in particolare, la dinamica del rapporto tra valori, credenze e obiettivicontingenti dell'azione. Come ho sostenuto in precedenza, una parte rilevantedella tradizione cognitivista ha teso ad assumere come dati gli scopi degli attorie si è concentrata sul problema di come derivare dal sistema di credenze delleazioni coerenti con gli scopi prefissati. Nei fatti il probema risulta assai piùcomplesso, e non solo per le implicazioni che anche su questo punto derivanodai condizionamenti della dimensione sociale. Esistono anche problemispecifici, interni alla dinamica dei belief, come la riflessione sulle preferenzeadattive o contro-adattive ha mostrato (si veda in particolare Elster, 1983). Lanecessità di prendere in conto dinamiche motivazionali altrimenti inspiegabiliha indotto (a partire da Sen, 1974) ad introdurre una distinzione tra preferenzedi primo e secondo livello: mentre le prime identificano scopi contingenti(solitamente perseguiti in modo consapevole e nel rispetto delle condizionidefinite dal sistema di credenze), le seconde attengono a ideali, valori,convinzioni morali, religiose o estetiche che condizionano dall'interno lastruttura delle preferenze di primo livello. Ma la distinzione rischia di aprire unregresso all'infinito qualora venga concepita secondo uno schema lineare-gerarchico (se le preferenze e gli scopi di primo livello dipendono da quelle disecondo livello, da quali altre - di livello ancora superiore - dipenderannoquest'ultime?). In questo senso - come cercherò di argomentare nel quartopunto di questo saggio - diventa essenziale prendere in conto in modo nonlineare il rapporto che caratterizza la dinamica tra credenze, obiettivicontingenti e auto-ideali di un attore.

3. Cognitivo e normativo: il difficile rapporto tra micro e macro

Il campo problematico di cui intendo occuparmi in questa sezione costituisceun topos ormai classico delle scienze sociali (per una ottima discussione deltema da un punto di vista sociologico si veda Alexander et al., 1987). Non saràdunque possibile, nel breve spazio di questa nota, darne conto in modosoddisfacente. Nei limiti dunque di un punto di vista molto preliminare, talecampo mi pare delimitato da due riferimenti principali.

Il primo deriva dalla tradizione etnometodologica e potrebbe sinteticamenteessere definito come la necessità di un fondamento cognitivo dell'ordine sociale

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(per tale definizione si veda Giglioli, 1989: 122-123). E' soprattuto Garfinkel(1967) a sviluppare questo ragionamento in opposizione all'approccionormativi-sta parsonsiano dell'azione: anche ammettendo (con Parsons e inormativisti) che i membri di una società abbiano interiorizzato le normevigenti, non sarebbe possibile derivare, da ciò soltanto, aspettative certed'azione. E' necessario infatti presupporre anche che gli attori interpretino inmodo simile le situazioni di contesto a cui applicare tali norme. Qualsiasideterminismo normativo sembrerebbe pertanto fuori luogo, trascurando ladimensione cognitiva impiegata dall'attore per interpretare la situazionecontingente entro cui è chiamato ad applicare le regole sociali e a decidere diconseguenza i suoi corsi di azione.7

Il secondo riferimento deriva da Wittgenstein il quale afferma - anticipandoin questo la stessa problematica etnometodologica - che "una regola non puòdeterminare alcun modo di agire, poichè qualsiasi modo di agire può esseremesso d'accordo con la regola" (1967: 108). Ma aggiunge subito dopo:

"Per questo 'seguire la regola' è una prassi. E credere di seguire la regolanon è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola 'privatim'':altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire laregola" (1967: 109).

A partire da questa statuizione un importante filone di filosofia del linguaggio(si veda in particolare Kripke, 1982) ha creduto di poter affermarel'impossibilità di un qualsiasi linguaggio privato e, di conseguenza, la necessitàdi un fondamento sociale normativo per qualsiasi forma di cognizione umana.

Si direbbe dunque che, da un lato, qualsiasi sistema normativo necessiti diun terminale cognitivo a livello micro, mentre, dall'altro, qualsiasi processocognitivo debba necessariamente postulare l'esistenza di una dimensionenormativa. Di qui - a parere di chi scrive - le difficoltà che da sempre hannosegnato le scienze sociali quando hanno teso a indagare il rapporto tradimensione micro e dimensione macro, tra attore e sistema sociale. Entrambe lestatuizioni ritengo esprimano esigenze teoriche legittime, anche se necessitanodi una diversa curvatura interpretativa per evitare il circolo vizioso chesembrano aprire. Mi proverò pertanto - nei limiti di un contributo molto

7 In verità poi l'approccio etnometodologico - dopo aver affermato l'irrinunciabilità

teorica della dimensione cognitiva - la riduce alla dimensione della cultura dominante,con la conseguenza di eliminare quasiasi autonomia dell'attore individuale e di ridurlo(alla stregua dell'approccio normativista) a semplice "membro competente" (cfr.Giglioli-Dal Lago, 1983: 24; Santoro, 1991: 295). E' questa, come si vedrà, laconseguenza non voluta di un approccio che, pur affermando l'irrinunciabilità di unadimensione cognitiva, non è poi in grado di fondarla nell'autonomia dell'attore.

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preliminare - a sgrossare tale possibile interpretazione, formulando (con pocheargomentazioni a sostegno) alcune ipotesi in proposito.

Una prima ipotesi concerne il fatto che la dimensione cognitiva appartieneesclusivamente al soggetto individuale. Perchè si dia un processo cognitivo èinfatti necessario che il soggetto della cognizione possa interagire fisicamentecon la realtà e sperimentare (in ultima istanza anche in termini materiali) leconseguenze del successo o del fallimento delle sue credenze8. In questo sensoqualsiasi sistema di livello più alto (gruppo, comunità, società, ecc.) conosce edapprende solo ed esclusivamente attraverso i suoi membri individuali.

Per altro questa dimensione costitutiva della cognizione è comune a tutti gliesseri viventi (per una definizione di cognizione in senso latamente biologico siveda Bateson, 1976) ed implica un processo puramente adattivo. Ma ciò chedifferenzia l'uomo dagli altri animali sono - lo abbiamo visto - le sue capacitàpro-attive9. La seconda ipotesi che intendo avanzare afferma che tali capacitàderivano all'uomo dal suo vivere in società. Innanzitutto perchè è solo attraversola società, intesa come fatto strutturale (la divisione sociale del lavoro), che eglipuò controllare risorse materiali eccedenti e destinabili ad attività diinvestimento. E in secondo luogo perchè è attraverso la società, intesa comefatto simbolico (il linguaggio), che egli è in grado di immaginare (e costruire)azioni non meramente adattive.

In questo senso - terza ipotesi - il linguaggio e i materiali simbolici dellacognizione individuale sono sempre e necessariamente dei prodotti sociali. Losono in quanto le possibilità pro-attive dell'uomo passano necessariamenteattraverso la concreta soluzione dei problemi di cooperazione sociale che larealizzazione di tali possibilità comportano. L'attuazione di qualsiasi azione nonmeramente adattiva richiede il coordinamento e la cooperazione di più attori eciò comporta la statuizione di regole di reciprocità che strutturino aspettative evincolino a prestazioni. La dimensione normativa è pertanto essenziale per lacognizione umana: progettare e decidere condotte di azione senza tener contodella "realtà" normativa entro cui si opera può andare incontro all'insuccesso ealla falsificazione pratica - sarebbe come progettare una macchina inviolazione di una qualche legge della fisica (anche se le regole sociali possonoessere modificate, come dirò tra breve, attraverso l'azione e la negoziazione

8 L'idea che l'azione (intesa anche e soprattutto come fatto materiale) sia alla basedei processi cognitivi umani è stata sviluppata da J. Piaget nell'arco di una intera vita diriflessione.

9 E' Leibniz che per primo riconosce la natura non meramente adattiva dell'uomo,unico essere capace di "reculer pour mieux sauter", di fare cioè un passo indietro perpoterne fare due avanti. Dobbiamo ad Elster una delle riflessioni più ricche econvincenti su questo punto.

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degli attori). La società dunque, nella sua dimensione essenzialmente normativa,è imprescindibile per qualsiasi processo cognitivo umano.

Ma affermare una dimensione irriducibilmente sociale del linguaggio e deimateriali simbolici della cognizione individuale non comporta negare - quartaipotesi - la possibilità di autonomia cognitiva degli attori umani. La statuizionedi Wittgenstein, nel mentre mette avanti con forza la necessità di unadimensione pubblica di verifica pragmatica delle azioni, non nega affatto - anzipresuppone - la possibilità di immaginare privatim (mediante cioè lamanipolazione cognitiva autonoma delle proprie rappresentazioni interne) deicorsi di azione non necessariamente conformi al senso letterale e codificatodalle regole sociali. Come egli afferma con chiarezza in un altro passo delleRicerche filosofiche: "... nel linguaggio gli uomini concordano. E questa non èuna concordanza delle opinioni, ma della forma di vita" (1967: 117). E' dunquela condivisione pragmatica di una forma di vita comune e non il rispettoletterale degli usi linguistici (l'uso socialmente conforme dei materialisimbolici) che permette di confermare o falsificare le nostre azioni e pone cosìle premesse per la codifica di un linguaggio comune.

Tale condivisione di una forma di vita comune è innanzitutto - quinta ipotesi- un fatto biologico-esistenziale. Wittgenstein ci aiuta a capire questo passaggioquando afferma che: "se un leone potesse parlare noi non potremmo capirlo"(1967: 292). Ciò mi pare debba significare che, al di sotto e prima dellacondivisione di materiali simbolici socialmente codificati, è necessariocomunque un sostrato comune perchè due parlanti possano intendersi. Cosìcome noi non potremmo mai capire un leone (anche se possedesse unlinguaggio) perchè la sua struttura biologica e i suoi sentimenti non ciappartengono, potremmo invece sempre comprendere un uomo, seppure ad unlivello molto basso di comunicazione (e, dunque, di cooperazione possibile)anche in assenza di un linguaggio codificato ma grazie alla condivisione di uncorpo e di un ambiente comuni. E ' anzi proprio questo sostrato minimo che haforse permesso l'innesco iniziale del linguaggio e del vivere in società10 ed èquesto sostrato minimo che funziona da livello inviolabile (è Hofstadter, 1984:404 ss. che ha per primo rifletttuto convincentemente su questo punto), al disotto del quale la società non può andare e da cui può sempre ripartire qualoradovesse cadere in un circolo di degrado entropico.

10 Dobbiamo a Lakoff-Johnson, 1982 il tentativo più convincente di derivare i

simboli linguistici dalla condivisione di una esperienza (prima ancora che culturale)biologico-esistenziale comune. Assai interessante per questo filone di riflessione èanche Frank, 1988 per il rilievo che attribuisce alle emozioni quale fondamento dellacooperazione sociale.

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Ma se la condivisione di una forma di vita (biologico-esistenziale) comune èla "pietra d'angolo" di qualsiasi linguaggio e di qualsiasi possibilità (purminima) di cooperazione sociale, è l'uso metaforico del linguaggio chepermette - sesta ipotesi - di sviluppare una cultura non minimale - chegarantisce cioè la possibilità di una dialettica tra dimensione sociale dellinguaggio e suo uso privato, da cui scaturisce quella dinamica di ordine emutamento che contraddistingue le società evolute.

Usiamo letteralmente i materiali simbolici quando attribuiamo loro unsignificato sulla base di teorie codificate e condivise socialmente. Li usiamoinvece metaforicamente quando ci discostiamo da attribuzioni condivise edelaboriamo nuove teorie per nuovi significati. Ma come ci ricorda R. Rorty(1989: 53), la produzione di nuove metafore, cioè l'usare in modo inconsuetovecchi simboli e parole stabilendo nuovi nessi di significato, "è possibile solosullo sfondo di altre vecchie parole che continuano ad essere impiegate nei modiconsueti. Un linguaggio che fosse 'tutto una metafora' non servirebbe a nulla, eperciò non sarebbe neanche un linguaggio ma solo un balbettio". Ciò significache qualsiasi innovazione (linguistica e cognitiva) da parte di un attoreindividuale passa attraverso un riutilizzo non consueto dei materiali simboliciesistenti, la statuizione di nuovi nessi di significato in forza di connesioni cheappartengono all'esperienza personale e non a quella socialmente codificata. Ilriferimento a valori e abiti normativi esistenti è comunque necessario e permettedi giustificare socialmente l'innovazione normativa che si intende perseguire.Una nuova metafora può essere infatti rifiutata o apprezzata socialmente. Nelprimo caso, il corso di azione che si voleva con essa giustificare risulta privo diqualsiasi legittimazione normativa e va incontro alla falsificazione pratica perl'opposizione degli altri partner sociali. Nel secondo caso, la nuova metaforadiviene a poco a poco abituale e struttura, insieme a nuove possibilitàlinguistiche, nuovi corsi di azione, legittimi ed efficaci. E' attraverso questadialettica (implicitamente se non esplicitamente negoziale) che passa la maggiorparte dei processi di innovazione sociale.

L'uso metaforico del linguaggio e i vincoli di competenza linguistica checomunque impone ai parlanti ben colgono la doppia dinamica che lega attoriindividuali e sistema sociale. Da un lato, gli attori attraverso una miriade diprocessi comunicativi concorrenti, resi possibili da una base linguistica comune,interpretano (o reinterpretano) le situazioni in cui sono inseriti e strutturano (oristrutturano) le condizioni della loro cooperazione sociale. Dall'altro econtemporaneamente, la società - per il tramite delle sue istituzioni - introduceelementi di serializzazione e determinazione di tali processi inter-individuali eaccresce, nel momento stesso in cui le rende possibili, i costi di espressionesociale di interpretazioni private non codificate. Da un punto di vista sistemico

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si è dunque in presenza di un sistema complesso che non può essere ricondottonè ad un approccio riduzionistico - che lo intenderebbe come la semplicesomma delle sue parti - nè ad uno olistico - che non solo lo concepirebbe comepiù della somma degli individui che lo compongono ma che in forza di talesuperiorità affermerebbe un rigido determinismo sui comportamenti individuali.Nè l'uno nè l'altro approccio coglie il rapporto tra individui e società checonsegue dalle osservazioni precedenti.

Sono i modelli più recenti, sviluppati dall'intelligenza artificiale e dallascienza dei sistemi complessi11, a fornire - ed è un'ultima ipotesi di lavoro su cuibisognerà tornare con impegno più sistematico - i riferimenti più interessantiper una formalizzazione anche nell'ambito delle scienze sociali del rapporto traindividui e società. Le società sono organizzazioni ricorsive che si reggono suuna sofisticata combinazione di meccanismi di controllo locali e globali.Soprattutto sono organizzazioni a determinismo variabile (Hofstadter, 1985:313 ss.) in cui il grado di autonomia degli attori dipende sia dall'adeguatezzaadattiva delle soluzioni di alto livello disponibili, sia dalle soluzioni alternative(in sè entropiche ma anche potenzialmente innovative e pro-attive) che possonoemergere dai livelli di organizzazione più bassi.

4. Abiti, credenze, motivazioni: la dimensione micro della scelta

Le ipotesi sul rapporto micro-macro - così rapidamente sgrossate al puntoprecedente - ci permettono ora di tornare con nuovi elementi interpretativi alconcetto di razionalità della scelta da cui eravamo partiti.

I limiti simoniani della razionalità sono - alla luce delle osservazioniprecedenti - da interpretarsi più propriamente come vincoli che derivano dalcontesto sociale entro cui la decisione deve essere compiuta. Il contesto socio-normativo opera - almeno in condizioni normali12 - come un potente riduttore dicomplessità: i problemi di scelta a cui siamo messi di fronte normalmente civengono presentati come già predefiniti (la loro definizione essendo il risultatodel processo di framing che il contesto culturale e normativo di appartenenzaopera su di essi). In questo senso, in condizioni abituali le alternative disponibili

11 Sono soprattutto i tentativi di mettere insieme il meglio del cognitivismosimbolico con il meglio del connessionismo e dei sistemi auto-organizzati ad offrire leprospettive più interessanti al riguardo. Mi riferisco principalmente ad autori comeDoran, 1982; Hofstadter, 1984 e 1985; Holland, 1988 e 1992; Athur, 1991.

12 Nel senso kuhniano di paradigma normale: vale a dire all'interno di un contestoin equilibrio e comunemente accettato (Kuhn, 1969). E' questa, in verità, una situazionepiù idealtipica che reale (come avremo modo di dire fra breve).

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sono largamente predeterminate, così come socialmente definite sono le classidi informazioni ritenute sufficienti per prendere una decisione soddisfacente egli schemi interpretativi entro cui collocare propriamente tali informazioni13.Non è difficile prefigurare persino situazioni dove la decisione è il fruttodell'applicazione meccanica di un abito, di una routine di azione che scatta(behavioristicamente) a fronte di un evento che agisce da stimolo (la variazionedi un prezzo, ad esempio, all'interno di una struttura di consumi fortementepredefinita e che rimane indiscussa).

Come ha rilevato giustamente Heiner (1983:570) è l'incertezza a stimolarecomportamenti rule-governed. Ma tale incertezza ha, per così dire, unadimensione che non è - come sembra ritenere invece Heiner - individuale bensìsociale. Non è cioè il risultato dello scarto esistente tra competenze individuali edifficoltà della scelta a cui si è di fronte. Se così fosse le regole o i repertori diazione necessari per rendere possibile la decisione potrebbero non esseredisponibili o essere il risultato di adattamenti meramente evolutivi (come è forsenel caso degli animali). L'incertezza per l'uomo è, invece e soprattutto, il fruttodel suo agire pro-attivamente attraverso la cooperazione sociale (la complessitàattiene infatti principalmente all'ambiente sociale e non a quello naturale ed è,proprio per questo, perennemente rinnovata dall'agire umano). L'uomo simisura dunque con l'incertezza sempre e solo attraverso la cooperazione socialee, nel mentre accresce così la complessità, opera anche socialmente per una suariduzione. L'incertezza a livello personale viene in condizioni normali ridotta(ancor prima di configurarsi come tale) da schemi di azione socialmentenormati - schemi che per altro "tengono fuori" l'incertezza dai confini dellasocietà ma non la eliminano definitivamente.

Al punto precedente ho sostenuto che questo processo di creazione e insiemeriduzione della complessità passa attraverso il rapporto circolare tra dimensionesociale normativa e momenti cognitivi individuali. Senza la divisione socialedel lavoro e la specializzazione nessuna società sarebbe in grado di far frontecon successo al livelli di complessità (e di possibilità) da lei stessa creati. E alivello individuale nessuno sarebbe mai in grado di reggere lo stressconseguente se non operasse per larga parte delle sue azioni sulla base diroutine codificate. Come assai efficacemente ha colto A. Rorty Oksenberg(1991:132):

13 Tipici al riguardo possono essere considerati - ad esemppio - gli schemi

ragionieristici sulla cui base molte decisioni aziendali vengono prese. Ma altrettantodicasi degli schemi che usualmente impieghiamo per selezionare le informazioni cheriteniamo sufficienti nell'acquisto - ad esempio - di un auto.

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"Un agente capace di rispondere in modo appropriato alle esigenzepotenzialmente contrastanti di un ambiente ricco e in rapido cambiamento è unagente dai tratti potenzialmente contrastanti. Da un lato ha bisogno di robusti abitirelativamente conservatori di comportamento e pensiero, di interpretazione e dicomprensione - di abiti che assicurino gli esiti delle sue azioni anche quando il suoschema motivazionale è indeterminato o fluido. Dall'altro ha bisogno di capacitàcritiche che gli consentano di indagare senza limiti di sorta e di condurre un pensierorazionale che non sia plasmato, determinato o diretto dai suoi abiti. Un agentevolontario ha bisogno di possedere gli abiti dei conservatori e le capacità critiche deiprogressisti."

Da un lato dunque è importante riconoscere il rilievo non marginale che glischemi abituali d'azione svolgono nelle decisioni razionali. L'analisi degli scripto delle mappe cognitive abitualmente utilizzate dagli attori è sotto questo profiloun passaggio necessario. Ma due ulteriori passi sono indispensabili perricomprendere il lascito cognitivista entro un più complessivo approcciocontestualista.

Il primo riguarda l'analisi della genesi di tali schemi. Esistono schemi cheappartengono alla cultura generale della società entro cui viviamo, altri che sonospecifici di una sotto-cultura o di una ideologia, altri ancora che possono farparte della nostra peculiare e idiosincratica storia personale. Una ricostruzionedegli schemi cognitivi di un attore (utilizzando ad esempio le metodologienotazionali suggerite da Schank o dal cognitive mapping che pure - per leragioni attinenti al secondo passaggio di cui diremo - non sembrano del tuttoadeguate) non è per questo sufficiente: solo possedendo una genealogia di talischemi è possibile avanzare ipotesi sulla loro concreta attivazione da parte delsoggetto che li partecipa. Spesso la vera decisione che ci compete è quellarelativa alla scelta dello schema da applicare in una determinata situazione; etale decisione viene presa sulla base di diversi parametri che una analisiempirica potrebbe aiutarci a mettere meglio a fuoco.

Uno di questi parametri è certamente il successo ottenuto in passato daidiversi schemi di cui disponiamo. Parametro che - in condizioni normali -tenderà a coincidere con quello della diffusione e condivisione sociale delloschema in questione (per una interessante prospettiva epidemiologica didiffusione delle credenze si veda Sperber, 1994). E' probabile infatti che unoschema sia tanto più diffuso quanto più risponde adeguatamente agli scopi percui è stato creato. Ma non solo: per il principio già enunciato del self-fulfilling èprobabile che uno schema funzioni proprio perchè comunemente accettato eseguìto. In molti casi potranno comunque crearsi conflitti tra grado didiffusione e grado di efficacia di uno schema. Ciò è quasi sempre sintomo di undisequilibrio che si è venuto a determinare tra la dimensione cognitiva deimembri di una società e la dimensione normativa della stessa. La soluzioneproposta dalla società non risponde più nel migliore dei modi al livello di attese

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e di complessità che si è realizzato. In questi casi è probabile che si adottinoschemi che scontino un minor grado di diffusione a fronte di una loro (reale opresunta) maggiore efficacia. Di nuovo: efficiacia e diffusione non sonocompletamente disgiunte, anche se le valutazioni divengono in questo caso assaipiù complesse. Soluzioni già adottate da una minoranza con relativo successopossono diffondersi in virtù della loro passata sperimentazione positiva, mentreschemi che possono contare solo sull'esperienza di pochi o di un singolosaranno adottati con assai maggiore parsimonia, solo a fronte di situazioni dipalese inadeguatezza degli schemi più ampiamente condivisi e in virtù di unaloro intrinseca capacità, per così dire, persuasiva.

In filigrana, attraverso una ricostruzione della genealogia degli schemicognitivi, sembra dunque possibile cogliere la dinamica di ordine ed entropiache scandisce - come si è visto al punto precedente - la storia delle societàumane. Gli schemi cognitivi non sono in questo senso delle mere struttureidiosincratiche sulle quali nulla si può dire se non riconoscerne l'appartenenzaalla storia biografica e alla identità di un attore. Come si è visto, sono in realtà ilportato di una cultura, il più delle volte stratificata e ricca di proposte anchecontraddittorie. Eppure, proprio in forza e in misura della complessità dellacultura, la dimensione personale (cognitiva in senso forte) continua a svolgereun ruolo determinante.

Tale ruolo si palesa e si afferma con maggior forza soprattutto nellesituazioni non-normali, di crisi o di rottura di un quadro sociale - anche se sitratta più di una questione di gradi che di due stati nettamente distinti. Eveniamo così al secondo passo necessario alla costruzione di un compiutomodello socio-cognitivo o contestualista. Come rilevava Rorty Oksenberg nellalunga citazione riportata sopra, il ricorso a "robusti abiti conservatori" nonesaurisce affatto le capacità cognitive dell'attore, anzi si può forse dire che èproprio l'adozione di tali abiti a permettere quella fluidità degli schemimotivazionali che attiva le capacità critiche e creative dell'intelligenza umana.

Ho sin qui parlato di abiti o di schemi (senza ulteriori precisazioni) proprioper sottolineare la natura per così dire "sintetica" di tali schemi. L'uso che nefacciamo è nei termini di un "prendere o lasciare": sono delle routine (talvoltaanche molto complesse e frutto di processi di elaborazione che possono averrichiesto anche lunghi periodi di messa a punto) che ad un certo puntoprendiamo come delle black-box, senza avere più la consapevolezza di cosa cisia dentro e come funzionino veramente. Da questo punto di vista ritenere cheoperino sulla base di schemi di derivazione (del tipo scopi-credenze-azioni)consapevoli è probabilmente fuorviante. E' assai più realistico concepirli comedegli statement condizionali ("se succede questo comportati così", "se riscontricerte condizioni metti in atto il seguente corso d'azione"), massime che hanno

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resi impliciti al loro interno quegli stessi fini che ne giustificano l'adozione.Come tali sono probabilmente assai diffusi e stabili ai livelli più bassi del nostrovivere in società (avvicinandosi a quel fondo che costituisce la soglia diinviolabilità del senso comune).

Credere pertanto - come fa il modello classico dell'azione, sia nella varianterazionalista debole che in quella cognitivista classica - che tutte le azioni sianol'esito di una derivazione consapevole da credenze e desideri è probabilmentefuorviante. Eppure - chi più chi meno e in una misura che può esserestoricamente variabile - tutti possediamo oltre agli "abiti dei conservatori"anche "le capacità critiche dei progressisti". Tali capacità sono quelle che cipermettono di prendere le distanze dagli schemi consolidati (e spesso obsoleti)e di dare il nostro contributo personale ai processi di innovazione sociale.

E' sulla capacità di prendere in conto questo punto - ovviamente - che sigioca la partita più importante di un approccio socio-cognitivista. Mi limito,date le difficoltà oggettive dei problemi in campo, ad alcune brevi osservazioniconclusive:

1. in questa, che costituisce la qualità costitutiva dell'intelligenza umana, gliabiti e gli schemi socialmente consolidati continuano a giocare un ruolo nontrascurabile. E' improbabile infatti che le nostre strutture cognitive siano acompartimenti stagni. E' assai verosimile pensare invece che abiti e repertoricodificati di azione costituiscano il "materiale" a cui si applica l'opera dirielaborazione innovativa e creativa della nostra intelligenza. Da un lato, talirepertori possono essere per così dire smontati e parte dei loro componentipossono essere riutilizzati a scopi diversi (per una tale ipotesi Minsky, 1989:cap. 10 e passim). Dall'altro essi possono essere semplicemente utilizzati perscopi diversi da quelli per cui erano stati pensati e sino a quel momentoimpiegati. Questa rielaborazione dei materiali simbolici codificati è concet-tualmente simile all'uso metaforico del linguaggio e passa attraverso unaesplicitazione ed una presa di consapevolezza dei fini e dei corsi di azioniche gli schemi abituali avevano automatizzato e reso impliciti;

2. l'utilizzo non letterale dei materiali simbolici e normativi da parte deiprocessi cognitivi individuali sembra passare infatti attraverso una riaperturacritica della catena di derivazione interna ai sistemi di belief. Tale catena siregge su di un complesso rapporto tra due diverse classi di elementicognitivo-motivazionali: le credenze e i desideri. Queste - ciascuna per lapropria parte - reggono e determinano gli obiettivi contingenti e i corsi diazione conseguenti. Le credenze vincolano in termini di possibilità gli scopie le azioni perseguibili; i desideri stimolano (in funzione della loro forza)alla ricerca di nuove soluzioni anche al di là della fattibilità immediata. Un

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attore razionale non si pone mai obiettivi che egli ritenga di non poterperseguire. Ma la sua dinamica motivazionale interna può ugualmentealimentare desideri che lo costringano a rielaborare le proprie credenze e aipotizzare nuovi (meno scontati e forse anche più rischiosi) corsi di azioneche rendano perseguibili tali obiettivi. Le possibili conseguenze negative ditali dinamiche sono conosciute e cominciano ad essere anche studiate(wishful thinking, auto-inganno, ecc.). Eppure sarà il caso di riconoscereanche l'enorme valenza positiva racchiusa in esse: è infatti essenzialmenteattraverso l'uso appropriato di queste possibilità che il genere umano hapotuto liberarsi dai comportamenti meramenti adattivi. Una teoria compiutadovrà prendere in conto questa dialettica: dovrà cercare di comprenderequali elementi (della dinamica interna dell'identità dell'attore) condizioninola forza dei desideri e la determinazione delle intenzioni; dovrà sforzarsi dicapire quale sottile confine divide i progetti ambiziosi ma realistici dai sogniad occhi aperti, gli usi appropriati della plasticità cognitiva delle credenze daquelli irrazionali. Non dimenticando per altro che una soluzione univoca (edeterminata a priori) è, prima che impossibile, auto-contraddittoria. Comeha detto efficacemente Umberto Eco su una Bustina di Minerva fa partedella intelligenza umana "allenarsi a rischiare errori, con la speranza chealcuni siano fecondi";

3. se quella tratteggiata al punto precedente è la dinamica interna ai processicognitivi di tipo innovativo, una teoria socio-cognitiva non potrà prescindereda essa ma non potrà neppure limitarsi ad essa. Non ne potrà prescindereperchè una parte rilevante delle dinamiche sociali passa attraverso imeccanismi cognitivi di montaggio-smontaggio e di reinterpretazione degliabiti socialmente codificati. Ma non potrà limitarsi ad essa perchè ciò cherileva socialmente non sono i milioni di idee, sogni e progetti che affollanole nostri menti, quanto quelle (relativamente) poche proposte che siimpongono e che si trasformano in nuovi modelli culturali e strutturenormative. R. Rorty (1989:49) afferma che " il progresso poetico, artistico,filosofico, scientifico o politico ha luogo quando un'ossessione privatacoincide accidentalmente con un'esigenza pubblica" (evidenziazione mia). Eda un punto di vista descrittivo egli ha assolutamente ragione. Ma ciò che cirende differenti dagli animali è proprio lo sforzo continuo di anticipare ciòche accidentalmente accadrà; la ricerca continua di un qualche modello omeccanismo che ci permetta di prevedere quale "ossessione privata" avrà piùprobabilità di rispondere ad un'"esigenza pubblica", per eventualmentefavorirla o contrastarla.

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