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1 DIDATTICA GENERALE Dott.ssa Santoro A. La didattica è “la parte della teoria e dell’attività educativa che concerne i metodi dell’insegnamento”. G. Proverbio, nell’Enciclopedia Pedagogica (in Laeng M., 1989) definisce la didattica “scienza e arte dell’insegnamento” e, dopo i riferimenti a Comenio (fondatore di una didattica come teoria e metodo dell’educazione), a J.F. Herbart (che distingue l’educazione dall’istruzione) e a O. Willmann (che ricompone il processo nell’osmosi tra educazione e istruzione), presenta le differenti teorie “storiche” della didattica: a) Idealistico-gentiliana (centrata sull’insegnante e sull’insegnamento) b) Positivistico-sperimentalista (per l’elaborazione di tecniche di insegnamento sempre più raffinate, rigorose e convalidate sperimentalmente) c) Attivistica (attenta alla partecipazione attiva e diretta dell’allievo, percorre il metodo globale, i centri di interesse, l’attività spontanea, l’individualizzazione e la socializzazione dell’apprendimento, il lavoro di gruppo, il metodo della ricerca, l’espressività, il gioco e il lavoro) d) Strutturalista-cognitivista (attenta all’avvicinamento progressivo, “a spirale”, della struttura evolutiva della mente con la struttura delle discipline) e) Comportamentistico-tecnologica (con il primato dell’istruzione programmata e delle tecniche didattiche supportate dalle “tecnologie dell’istruzione”). La didattica generale è una idea organizzativa che possiede la capacità di modificarsi, pur mantenendo ben salde le strutture fondanti; si può dunque, a ragione parlare di una didattica generale che si delinea come didattiche particolari per far fronte alle incessanti sfide educative derivanti dalle conformazioni sociali e culturali. In riferimento ai singoli compiti educativi dei molteplici enti, occorre elaborare una pedagogia particolare, in modo da precisarli sempre meglio nelle loro caratteristiche e modalità di attuazione. In altri termini, i corpi sociali intermedi sono richiamati ad operare pedagogicamente sui loro associati. Ciascun ente o istituzione deve mirare ad assolvere il compito educativo che gli è proprio, identificando specifici obiettivi, quindi, metodi e didattiche precise contro qualsiasi generalizzazione. In generale possiamo allora definire la didattica come un ambito conoscitivo che si occupa criticamente dell’allestimento, consolidamento e valutazione di “ambienti di apprendimento”, cioè di specifici contesti risultanti da opportune integrazioni di artefatti culturali, normativi, tecnologici e di specifiche azioni umane, ritenuti atti a favorire processi acquisitivi.

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DIDATTICA GENERALE

Dott.ssa Santoro A.

La didattica è “la parte della teoria e dell’attività educativa che concerne i

metodi dell’insegnamento”.

G. Proverbio, nell’Enciclopedia Pedagogica (in Laeng M., 1989) definisce la didattica “scienza e arte dell’insegnamento” e, dopo i riferimenti a Comenio (fondatore di una didattica come teoria e metodo dell’educazione), a J.F. Herbart (che distingue l’educazione dall’istruzione) e a O. Willmann (che ricompone il processo nell’osmosi tra educazione e istruzione), presenta le differenti teorie “storiche” della didattica:

a) Idealistico-gentiliana (centrata sull’insegnante e sull’insegnamento) b) Positivistico-sperimentalista (per l’elaborazione di tecniche di insegnamento

sempre più raffinate, rigorose e convalidate sperimentalmente) c) Attivistica (attenta alla partecipazione attiva e diretta dell’allievo, percorre il

metodo globale, i centri di interesse, l’attività spontanea, l’individualizzazione e la socializzazione dell’apprendimento, il lavoro di gruppo, il metodo della ricerca, l’espressività, il gioco e il lavoro)

d) Strutturalista-cognitivista (attenta all’avvicinamento progressivo, “a spirale”, della struttura evolutiva della mente con la struttura delle discipline)

e) Comportamentistico-tecnologica (con il primato dell’istruzione programmata e delle tecniche didattiche supportate dalle “tecnologie dell’istruzione”).

La didattica generale è una idea organizzativa che possiede la capacità di modificarsi, pur mantenendo ben salde le strutture fondanti; si può dunque, a ragione parlare di una didattica generale che si delinea come didattiche particolari per far fronte alle incessanti sfide educative derivanti dalle conformazioni sociali e culturali.

In riferimento ai singoli compiti educativi dei molteplici enti, occorre elaborare una pedagogia particolare, in modo da precisarli sempre meglio nelle loro caratteristiche e modalità di attuazione. In altri termini, i corpi sociali intermedi sono richiamati ad operare pedagogicamente sui loro associati. Ciascun ente o istituzione deve mirare ad assolvere il compito educativo che gli è proprio, identificando specifici obiettivi, quindi, metodi e didattiche precise contro qualsiasi generalizzazione.

In generale possiamo allora definire la didattica come un ambito conoscitivo che si occupa criticamente dell’allestimento, consolidamento e valutazione di “ambienti di apprendimento”, cioè di specifici contesti risultanti da opportune integrazioni di artefatti culturali, normativi, tecnologici e di specifiche azioni umane, ritenuti atti a favorire processi acquisitivi.

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La didattica è una delle forme in cui si analizza, si progetta, si attua, la vicenda

dell’educazione. Essa si prospetta come concentrazione riassuntiva finale in direzione operativa dell’intero processo, attraverso il quale l’intelligenza pedagogica affronta le problematiche della formazione in senso lato, e dell’istruzione in senso stretto.

“Scienza e arte dell’insegnamento”, come tale rientra a pieno titolo nella pedagogia come scienza e arte dell’educazione, costituendone una sezione o branca specifica. La didattica, pertanto, è questo: un dominio culturale che si propone di elaborare la trasmissione della cultura, del pensare strutturato.

Da didassi = azione dell’insegnamento (in correlazione con matesi); didattica = scienza dell’insegnamento: scienza sintetica che ha come quadro

teorico fondativo la filosofia che informa la psicologia umanistica e si avvale del prodotto di tutte le scienze dell’educazione.

La definizione classica la vede come un insieme di regole metodologiche al di fuori delle quali tutto è sbagliato.

Il principio fondamentale di una moderna didattica, consiste nel fatto che non esistono procedimenti validi sempre e ovunque; ciò che importa non è tanto migliorare i metodi, quanto realizzare le condizioni più idonee all’esplicazione dell’attività del discente.

La didattica non è scienza autonoma, tutta protesa all’individuazione di contenuti specifici e delle possibili tecniche della trasmissione culturale, ma è quella parte della pedagogia che si occupa esplicitamente e organicamente degli aspetti tecnici e strumentali dell’esperienza educativa e della loro coerenza con la “direzione intenzionale originaria”.

Dire cultura didattica significa avventurarsi all’interno dei contenuti che la didattica custodisce e che vanno dalla sua definizione alla individuazione degli elementi che nella situazione didattica entrano in gioco: l’alunno, le procedure metodologiche, gli obiettivi, le tecniche, lo stile d’insegnamento del quale è testimone colui che compie l’azione formativa. Una cultura didattica comporta, quindi, la conoscenza della genesi di questo sapere disciplinare, della sua storia, dei contributi di metodo portati da chi è stato portavoce di esperienze, di studi, di ricerche che hanno contribuito all’elaborazione di teorie, anche tra loro differenziate e, tuttavia giustificative sul piano epistemologico di comportamenti.

E’ un sapere che parla alla coscienza di chi educa; suggerisce percorsi; indica, non prescrive; dialoga con le altre scienze dell’educazione.

La didattica si occupa della didassi, ossia dell’insegnare, ma assumendolo nelle sue proprie interconnessioni con l’apprendere. Quali sono gli elementi della didattica?

Un sistema didattico comprende soggetti e oggetti; i soggetti sono gli uomini in formazione e quelli che professionalmente aiutano gli altri a formarsi. Gli oggetti riassumono testi, contenuti disciplinari, saperi, linguaggi, persino concettualizzazioni e nozioni. Ogni teorizzazione didattica prevede di fornire risposte al duplice interrogativo del “che cosa si insegna” e “che cosa si apprende”.

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Il metodo non è identificabile con le tecniche: “il metodo si ripropone nella sua

classicità come insieme di ragioni che legittimano l’intervento didattico ed educativo, e aprono la via che conduce al successo i processi di insegnamento-apprendimento.

Collocandoci intenzionalmente in un sistema complesso in cui saper pensare e saper porre relazioni è fondamentale, che interpretiamo la didattica:

� come un complesso di saperi teorico-pratici; � scienza contemporaneamente autonoma e strettamente correlata rispetto alla

pedagogia; � dotata di una forte marcatura progettuale, metodologica, valutativa, la cui

consapevolezza critica, assunta quale guida dell’agire educativo trasforma in azione, la riflessione sui processi educativi e culturali, per ritornare ad essa in un processo di circolarità ricorsiva.

1) La didattica come scienza dell’educazione

In Italia all’incirca fino a metà anni ’70 con “didattica” s’intendono le azioni che il docente compie per tradurre il programma in conoscenze (allora considerate comprensive di sapere, saper fare e saper essere) degli alunni nell’ambito scolastico: azioni strettamente connesse e consequenziali alla teoria pedagogica che risulta decisamente prevalente, almeno nelle dimensioni che prende in considerazione, sulla realizzazione pratica (che invece continua a rimanere largamente autonoma nelle dimensioni non teorizzate pedagogicamente).

L'espressione scienze dell'educazione è divenuta comune solo da pochi decenni, da quando lo studio della formazione si è generalizzato a tutte le scienze umane, sociali e comportamentali. Ciò è dovuto anzitutto all’estendersi dell'interesse sociale per i problemi formativi, sino a diventare prioritario nelle politiche nazionali e internazionali.

I ruoli e le funzioni formative si sono ampliate, complesse e specializzate. La pedagogia, prima di allora sostanzialmente imperniata sullo studio del bambino e sulla preparazione del maestro, è stata spinta ad aprirsi alle diversità della vita (educazione permanente, educazione continua, educazione della terza età), ai differenti ambienti e situazioni dell'esistenza sociale oltre la scuola (enti e strutture locali, strutture di assistenza, situazioni di handicap, emarginazione, devianza, condizione giovanile, educazione della donna, formazione e aggiornamento professionale, formazione scuola-lavoro, impatto formativo dei mass-media, tempo libero, sport).

Nuove esigenze sociali hanno richiesto alla scuola nuovi contenuti educativi (convivenza democratica, ecologia, pace, sviluppo, diritti umani, qualità della vita, salute, benessere, interculturalità, informatica, culture e lingue europee, ecc.), di nuove competenze (programmazione, lavoro in équipe e secondo un progetto di comunità formativa, utilizzo di nuove tecnologie educative multimediali, ecc.) e di nuove figure formative oltre alle tradizionali (educatore professionale, équipe

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psico-pedagogica, orientatori scolastici e professionali, animatori socio-culturali,

operatori formativi del territorio, ecc.). La Didattica in quanto scienza dell’educazione comprende studi e indagini,

teorie e pratiche del processo di insegnamento, il cui fine consiste nel dar vita a nuove forme di apprendimento.

In quanto scienza, la didattica ha un oggetto, un campo e un metodo. L'oggetto della didattica è l'insegnamento che punta all'apprendimento, ma non lo determina. L'azione di insegnamento, pur mirando l'acquisizione, in modo sistematico, di conoscenze e nozioni, di capacità e abilità, di significati e valori, non ha la pretesa di produrre direttamente effetti di apprendimento. Se così fosse, essa si identificherebbe con l’indottrinamento. L'insegnamento, invece, costruisce le condizioni favorevoli affinché si verifichi un apprendimento da parte del destinatario. Si tratta di condizioni mirate a ottimizzare l'apprendere dello studente. L'apprendimento si verifica soltanto con il consenso e la volontà di quest'ultimo. Pertanto l'insegnante non determina l'apprendimento, ma produce soltanto lo studenting, ovvero le mediazioni ed i mezzi per fare del soggetto uno studente.

Il campo della didattica comprende sia lo scolastico che l’extrascolastico. Tutte le situazioni della vita in cui si organizzano azioni finalizzate intenzionalmente all'apprendimento sono situazioni didattiche. Oggi, il settore extrascolastico è in forte espansione: nella società della conoscenza l'apprendimento continuo, in tutte le età dell'uomo, necessita di azioni formative efficaci e controllate. In questa sede ci interesseremo di un particolare settore del campo didattico, quello scolastico secondario: un settore che richiede approfondimenti specifici giustificati per un verso dalle caratteristiche peculiari dell’utenza dell’azione formativa (gli studenti-adolescenti), e per l'altro dalle caratteristiche metodologiche ed epistemologiche dei saperi, rigorosamente sistematizzati in discipline.

Il metodo della didattica - come approccio scientifico l'insegnamento, si avvale di procedure quantitative e qualitative, strumenti di osservazione, di analisi comparativa, di misurazione, di descrizione, di narrazione. Metodologie sperimentali classiche e nuovi modelli di indagine (come ad esempio la ricerca-azione) sono utilizzati, con modalità integrate e/o coordinate, per valorizzare e validare la pratica didattica e nel contempo per provare e falsificare i modelli teorici.

2) Il rapporto tra pedagogia e didattica

È un rapporto in continua ri-costruzione, con scambi reciproci strettissimi pur con continue rivendicazioni di autonomia scientifica e di delimitazioni di campo, tra loro e con le altre scienze dell’educazione.

Una prima distinzione, riservava alla didattica il versante prasseologico dell’azione educativa, e alla pedagogia il versante teoretico.

“La didattica indica l’arte di insegnare come l’attività di esporre in maniera facilitata, con procedure adatte ai destinatari, giovani o adulti, i contenuti di apprendimento; in ciò distinguendosi dai termini pedagogia e pedagogico che

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designano piuttosto l’attività teoretica di riflessione, fondazione e ricerca che concernono in generale l’educazione, l’istruzione e la formazione”.

Ciò non significa che, con semplicistica equazione, la pedagogia sta alla teoria come la didattica sta alla pratica. Come in ogni scienza, anche nella didattica la processualità pro-attiva e retro-attiva tra azione e riflessione, tra prassi e teoresi, supera l’antinomia teoria-pratica (detto banalmente, tra chi pensa e chi agisce), per comprendersi in un processo di sviluppo insieme scientifico e produttivo.

In sintesi, la pedagogia riguarda i fini, i perché dell'educazione, mentre la didattica ha come suo campo d’indagine lo studio dell'interpretazione e la progettazione dell'insegnamento per ottimizzarne i processi, per ottenere risultati sempre migliori quantitativamente e qualitativamente.

LA METODOLOGIA DIDATTICA

La metodologia didattica indaga sui mezzi che si mettono in atto, sulle condizioni che si creano, sui principi didattici e sulle strategie che si seguono nel processo dell’insegnamento/apprendimento.

Nella sua configurazione di “scienza”, essa è un’acquisizione recente in campo pedagogico, giacché è solo di recente che, conformemente allo spirito razional-scientifico del pensiero moderno, ha assunto configurazione di “teoria” come riflessione critica e, pertanto, elaborazione di principi o “categorie”, che possano servire da guida e orientamento ai metodi che si mettono in atto, in maniera specifica, nella prassi educativa e didattica.

Tali principi rappresentano la razionalizzazione della prassi, in quanto, da un lato permettono di svolgere in maniera razionale il processo educativo-didattico e, dall’altro sono essi stessi razionalizzazione degli elementi desunti dalle esperienze educative, e quindi sono da esse “astratti”.

Una riflessione sulla problematica metodologica la si è avuta sempre lungo il corso dello sviluppo del pensiero pedagogico, ma solo in tempi moderni i suoi principi direttivi sono stati esplicitati in maniera rigorosa, “scientifica”. Facendo ricorso anche alla psicologia, sono state individuate le leggi che regolano l’apprendimento e il comportamento dell’uomo, prima in generale, poi nelle varie fasi della vita e nelle diversità individuali, e si sono quindi, date delle indicazioni procedurali per l’insegnamento, nella consapevolezza che questo si deve adeguare alle caratteristiche del soggetto educando.

Progressivamente si è compreso che le caratteristiche e le diversità soggettive dipendono anche dalle condizioni socio-culturali, per cui si è fatto ricorso alle descrizioni e interpretazioni sociologiche. Inoltre, si è compreso che il concetto stesso di uomo e della sua formazione è relativo alla cultura sociale propria dei vari gruppi etnici e sociali nelle varie epoche storiche, per cui si è accettato il contributo dell’antropologia.

Così in sede di metodologia didattica è caduta la vecchia illusione che possa esserci un metodo universale, avente validità a-storica e a-sociale; in questo, come in altri campi del sapere si è imposto il principio della “relatività”.

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Il carattere scientifico è conferito alla metodologia didattica dalla razionalità e generalizzabilità dei suoi principi.

I principi fondamentali, dai quali discendono tutti gli altri, sono due: quello della congruenza del metodo con l’oggetto, con il fine e gli obiettivi che si intendono raggiungere; e quello della sua applicabilità alle situazioni specifiche. Da ciò emerge la formalità dei principi: le determinazioni contenutistiche del metodo si precisano nell’atto della sua concreta applicazione alle situazioni particolari e specifiche. Ciò significa che il punto di partenza di ogni atto educativo è l’analisi della situazione.

La metodologia è quindi, teoria formale; e in questa formalità consiste la sua autonomia. In ordine ai contenuti, essi sono strettamente legati ai contenuti delle cosiddette scienze umane, ivi comprese la pedagogia, la filosofia dell’educazione e le diverse scienze dell’educazione.

Dei principi che abbiamo indicato ebbe chiara consapevolezza J.J.Rousseau. Quest’ultimo infatti, individuò esplicitamente i criteri del metodo nella sua adeguatezza all’oggetto e alla finalità, che egli chiamò “bontà assoluta” del metodo, e nella sua applicabilità alle situazioni particolari che chiamò impropriamente “facilità di esecuzione”. Egli affermò, ancora, la “formalità” della metodologia, allorché rilevò che le situazioni particolari sono impossibili da determinare e precisare a priori, e richiedono l’analisi delle condizioni specifiche. Con ciò stesso enunciò anche il principio della non-neutralità o relatività del metodo. A quest’ultimo principio egli tenne fede, tant’è che, nel tracciare il suo progetto di educazione naturale, tracciò il modello dell’educando al quale essa era adatta: un bambino di sana costituzione, ricco, nobile, senza famiglia, senza particolari doti e senza particolari carenze. Emilio, appunto. E nel corso stesso del romanzo andrà modificando il metodo educativo, da naturale, ossia adeguato alla “costituzione umana” in generale, a “individualizzato”, allorché con la crescita Emilio andrà assumendo caratteristiche individuali e quindi, da “indiretto” a “diretto”.

METODI DIDATTICI

"Metodo didattico" viene considerato quello sul quale si costituisce l’attività dell’insegnante. Si tratta di un insieme di regole, consciamente ordinate, che dirigono una attività didattica in classe. Numerosi sono i metodi, se si considera che sin dai tempi più remoti qualcuno ha cercato di insegnare qualcosa a qualcun altro. Tra i numerosi metodi sono da rilevare, nel campo della scienza, il metodo deduttivo e induttivo.

Il primo, il metodo deduttivo è quello classico legato al procedimento che passa dal generale al particolare, da una premessa a una conclusione. Il metodo deduttivo, tipico della filosofia scolastica, venne chiamato anche "a priori", ideale, soggettivo, sintetico.

Il metodo induttivo, che prevalse nella prima metà del secolo XVII ed è considerato tipico della scienza (Bacone, Galilei), fu definito "a posteriori", sperimentale, analitico. Ma vediamo l’impiego di questi metodi a scuola.

Con il metodo induttivo si cercano le leggi partendo dal particolare e ricostruendo il tragitto (tipico delle scienze applicate); con il metodo deduttivo si parte da un

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assioma, che si dà per certo e assoluto, o da una ipotesi di lavoro, e si deducono le leggi implicate (tipico delle leggi filosofiche e matematiche).

Ci sono anche metodi più direttamente collegati alla didattica, come quelli per l’apprendimento della lettura e della scrittura. Di questi, i metodi più antichi risentono di una impostazione deduttiva, mentre quelli più moderni hanno premesse di carattere induttivo e risentono molto degli studi di psicologia dell’apprendimento.

Tra i metodi per l’insegnamento della lettura: il metodo alfabetico, o metodo fonico, perché inizia l’apprendimento dalla conoscenza dei suoni e delle lettere dell’alfabeto o il metodo sillabico, in quanto ritiene che la prima struttura conoscitiva sia la sillaba, non la vocale o la consonante, separate; o il metodo proposizionale: come dice il nome, l’apprendimento partiva dalla conoscenza mnemonica di una proposizione che conteneva tutte le possibili composizioni dei suoni. Oggi il metodo globale, è quello più in uso: si parte dalla parola, legata alla figura che l’allievo conosce, e si apprende a leggere "globalmente", per l’appunto, per parole, unendo il suono al segno e al significato; quindi non più per suoni o segni che non hanno alcun significato e servono solo per esercizio ideofonico.

I metodi per l’apprendimento della scrittura affondano nella notte dei tempi e si differenziano dal tipo di supporto, dallo stilo e dall’inchiostro. Ancora all’inizio del secolo XVII l’apprendimento della scrittura iniziava riproducendo a ricalco le singole lettere su carta o su altro materiale (sabbia, lavagna), seguendo una traccia prefissata, lettera per lettera.

Nell’Ottocento la scrittura preferita era il corsivo pendente, come veniva chiamato il corsivo obliquo; non mancavano studiosi che cercavano di introdurre nelle scuole il metodo della scrittura diritta, sempre in corsivo, però, che ha continuato a dominare fino ai nostri giorni. Soltanto quando gli studi dell’età evolutiva si sono diretti a evidenziare come il bambino percepisce lo spazio intorno a lui e in rapporto con il proprio corpo, si è arrivati a comprendere tutte le difficoltà che si può incontrare nell’apprendere a scrivere.

Diversamente dall’apprendimento della lettura, in quello della scrittura s’inserisce il fattore motorio. Allo scolaro è, in più, richiesta la capacità di una coordinazione oculo-motoria correlata alla percezione dello spazio. Dal punto di vista cibernetico (inteso in senso di autoregolazione), lo scolaro non deve soltanto saper cogliere visivamente la differenza caratterizzante i diversi elementi che compongono i segni grafici (sia la struttura delle singole lettere, sia quella più complessa della parola intera), ma deve anche saper percepire la differenza tra i relativi schemi motori, onde poter riprodurre tali differenze graficamente. Il problema, così stabilito, si collega: 1) ai principi topologici, secondo le teorie psicologiche di Piaget, relativi agli elementi grafici che lo scolaro deve riprodurre; 2) ai principi cibernetici, relativi sia alla comprensione e misurazione dello scarto, per cui si rende necessario offrire allo scolaro il carattere grafico più facilmente percepibile; sia al feedback e al rinforzo, per dare allo scolaro la possibilità di rilevare lo scarto e di verificare il proprio prodotto man mano che apprende a scrivere.

Lo studio dello sviluppo delle nozioni di spazio s’impone per più ragioni nella psicologia dell’età evolutiva.

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Nel lavoro fondamentale su tale argomento di Piaget, è emerso chiaramente che nell’evoluzione delle diverse forme del pensiero infantile, dal pensiero pre-operatorio a quello reversibile, il problema dello spazio presenta un’importanza fondamentale. Come ha osservato Merleau-Ponty, "il mio corpo non è il corpo che ho, cioè l’oggetto dell’anatomia e della fisiologia, ma il corpo che sono, che io esperisco attualmente, che io vivo".

Nello studio sulla rappresentazione dello spazio nel bambino, che si richiama al grafismo come principale rivelatore della capacità da parte del bambino di cogliere tale rappresentazione, Piaget divide lo spazio in: percettivo e rappresentativo. Lo spazio percettivo è caratteristico dei bambini al di sotto dei due anni ed è dato solo dalle percezioni; quello rappresentativo, inizia verso i tre anni, quando il bambino comincia a "costruirsi" la figura percepita, a rappresentarla.

Ecco allora il punto di partenza degli esperimenti fatti da Piaget: studiare il passaggio dalla percezione di certi rapporti spaziali alla rappresentazione degli stessi, per comprendere quali vengano compresi per primi. Ancora una volta vediamo presentarsi prima i rapporti topologici, quindi i proiettivi e da ultimi gli euclidei. Infatti lo spazio del disegno spontaneo e delle prime forme geometriche si struttura topologicamente. Accade, cioè, che il bambino, pur conoscendo già le forme euclidee attraverso la percezione visuale, nei suoi disegni dimostra di cogliere solo i caratteri topologici (specialmente quelli di vicinanza e separazione) di tali figure, non i loro caratteri di "forma regolare". Quindi interviene la rappresentazione intuitiva dell’ordine e la trasposizione dell’ordine intuitivo in ordine lineare; anche questa intuizione lineare è basata sul rapporto topologico fondamentale della vicinanza prima di diventare articolata (per cui il bambino riuscirà a stabilire delle corrispondenze complesse od operatorie).

Ciò porta alla distinzione del punto e del continuo: i soggetti arrivano ad una sintesi dei rapporti topologici che trovano la loro espressione generale nel continuo, il quale fornisce così un fondamento razionale alle loro manifestazioni intuitive.

Le prime espressioni prospettiche, rovesciamenti e svolgimenti, sono significative della struttura proiettiva dello spazio: solo a partire da qui il bambino giungerà ad una strutturazione euclidea dello spazio stesso.

Cronologicamente le intuizioni topologiche si situano verso i tre anni: il passaggio all’ordine proiettivo a sua volta non può esser considerato completo prima dei sette anni: la costruzione euclidea infine si realizza dai sette ai nove anni. Tutto ciò significa che tra la percezione dei rapporti spaziali intercorrenti fra parti di figure e la loro rappresentazione corre una significativa differenza, necessaria per comprendere la distinzione fra intelligenza senso-motoria e intelligenza rappresentativa.

Un bambino anche molto piccolo (due anni) è in grado di apprezzare differenze fra la forma di un cerchio e quella di un quadrato, ma, anche se non vi sono particolari difficoltà grafiche, non è in grado di riprodurre queste differenze; la spiegazione di ciò sta appunto nella distinzione tra spazio percettivo e spazio rappresentativo. L’apprendimento della scrittura passa tra queste difficoltà di carattere spaziale ed è stato comprovato che l’apprendimento è possibile, dal punto di vista motorio e intellettivo, quando la capacità intellettivo-percettiva del bambino supera la percezione topologica e acquisisce quella euclidea.

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Si è arrivati alla conclusione che il tipo di scrittura che meglio risponde a questa esigenza è lo stampatello.

Nella storia dell’apprendimento della scrittura i passaggi sono stati molti e alcuni anche eccessivi: basti pensare che la cultura anglosassone si è fermata alla scrittura con lo stampatello minuscolo, che ha molte qualità di quello maiuscolo con, in più, la possibilità di essere usato correntemente e non soltanto durante l’età scolare, ma anche dopo, da adulti, mentre nella nostra cultura ha inciso l’uso dell’amanuense medievale che ha "inventato" il corsivo, che altro non è che il legame tra le lettere al fine di accelerare la scrittura in quei tempi. Ancora oggi, sebbene sempre più raramente, il corsivo è rimasto il carattere grafico che viene impiegato all’inizio della scolarità (a sei anni), mentre nel medio evo era considerato la massima espressione della capacità di scrivere. Da qui le note difficoltà.

INSEGNAMENTO E APPRENDIMENTO Secondo i recenti orientamenti pedagogici, l’insegnamento è finalizzato non

all’acquisizione da parte del discente di contenuti, bensì della capacità di auto-apprendere.

Pare opportuno rilevare che la funzione attribuita all’atto intenzionale dell’insegnare, non solo è mutata nelle diverse epoche storiche, ma varia anche nella stessa epoca, in funzione della cultura oggettiva esplicita (i valori sociali) e di quella implicita, data dall’assimilazione personale di quei valori. Storicamente si è passati dalla preminenza ascritta al momento dell’insegnare ed educare, a cui consegue una ricezione più o meno attiva e proficua da parte del discente, riflesso di strutture sociali verticistiche e autoritarie, alla rilevanza data al momento dell’apprendere, che viene a configurarsi come atto soggettivo, creativo e dinamico, che viene stimolato, non prodotto dall’insegnamento, riflesso di una società partecipativa.

Dall’insegnamento organizzato, programmato in maniera razionale, si distinguono quegli insegnamenti occasionali dati dall’ambiente fisico e sociale, che producono apprendimenti spontanei. Questi esercitano un influsso indiretto sugli apprendimenti scolari, ne costituiscono i presupposti; a loro volta gli apprendimenti scolari ampliano quelli spontanei, in quanto ampliano la visione del mondo e fanno recepire elementi che prima non si coglievano.

L’insegnamento è autoapprendimento anche per l’insegnante, sia perché richiede da parte di questo un continuo aggiornamento teoretico, al fine di innovare i suoi metodi, sia perché egli apprende dalla situazione scolare stessa. Pertanto, la capacità di insegnare non è soltanto questione di formazione iniziale, ma anche di formazione continua, che si realizza anche attraverso l’esperienza scolastica quotidiana. Posto infatti, in situazioni sempre nuove per il variare dei discenti, delle situazioni scolastiche ed extrascolastiche, l’insegnante è sollecitato dalla situazione stessa a mettere in atto procedimenti sempre diversi, a modificare il suo comportamento. Ammettiamo per ipotesi che l’insegnante voglia mantenere sempre costante nel tempo il suo modo di procedere didattico (ciò avviene quando

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l’insegnamento è diventato routine): le reazioni di risposta dei discenti lo costringono a mutare atteggiamento, anche se non in ordine ai contenuti dell’istruzione, certamente sul piano delle relazioni interpersonali, ossia nel rapporto docente/discenti.

Anche il mutamento delle condizioni oggettive, organizzative della scuola induce il docente al mutamento, come induce al mutamento i discenti.

Di volta in volta, quindi, l’insegnante si adegua alle nuove situazioni. Tra docenti, discenti, scuola si stabilisce una situazione di feedback, per cui le tre variabili si modificano l’un l’altra per ridurre gli squilibri, ove essi si presentano. In tal modo l’insegnante “apprende ad insegnare”.

E’ da tenere presente, inoltre, che la classe è un microgruppo pressoché omogeneo per età cronologica, ma non omogeneo per età mentale, per caratteristiche di personalità dei suoi membri, per problematiche sociali che si riflettono nella rete di relazioni interpersonali che si stabiliscono all’interno di essa. Ogni individuo ha una sua personalità che è unica e irripetibile e risente anche dello status sociale della famiglia in cui egli è inserito, dell’ambiente fisico in cui vive, ecc.. Le relazioni che si stabiliscono tra alunni diversi, fanno si che la classe sia sottoposta alle dinamiche di gruppo, e fanno si anche che la classe come tale sia formativa per gli individui che in essa convivono.

Possiamo dire, pertanto, che la prima coordinata che si presenta sul piano metodologico-didattico è quella insegnamento-situazione oggettiva, e che qualsiasi attività didattica non può prescindere dalla preliminare osservazione o analisi della situazione oggettiva.

La situazione oggettiva comprende in sé molte variabili. Essa può essere paragonata ad un campo di forze, in cui interagiscono discenti, insegnanti, discipline d’insegnamento, scuola, richieste della scuola e della società. Ognuna di queste forze ha una sua valenza e direzione.

La situazione varia col mutare dei discenti, ma anche col mutare del docente, sia in ordine alla sua maturazione professionale, sia in ordine alle sue contingenti, soggettive condizioni, che suscitano risposte diverse nei discenti: l’insegnante agisce sul discente non solo col suo comportamento palese, verbale e non-verbale, ma anche con i suoi atteggiamenti affettivi, consci ed inconsci.

Il comportamento infatti, di docenti e discenti è in correlazione a quanto l’istituzione richiede e a come lo richiede; e il come dipende dal tipo di organizzazione: se è verticistica, autoritaria o, viceversa, di tipo collaborativo, democratico. Ed è pure in correlazione con gli spazi fisici, con gli strumenti a disposizione.

Il comportamento scolare è in funzione della disciplina di insegnamento: l’insegnamento/apprendimento della lingua ad es. richiede atteggiamenti diversi da quelli richiesti dall’insegnamento/apprendimento della musica, dall’educazione fisica, ecc.. i linguaggi, gli strumenti didattici, le prestazioni, le richieste sono diversi in rapporto ad ogni singola disciplina, anche se possiamo dire che ci sono atteggiamenti di fondo inerenti alla posizione di insegnante e di alunno come tale.

L’azione di ognuna di queste variabili, struttura in una certa maniera la situazione, e la modificazione di una di esse dà una strutturazione diversa alla

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situazione globale. Tre sono le componenti fondamentali della situazione scolare: l’insegnante, l’alunno, la scuola come istituzione ed organizzazione.

Sul piano metodologico si possono elaborare delle categorie generalizzabili, ma esse, appunto perché categorie hanno un valore formale. Dal punto di vista del contenuto esse possono essere riempite solo nel momento in cui vengono messe in atto nella pratica educativa.

Se ad es. possiamo dire che l’insegnante deve adeguare il suo comportamento alla situazione della classe, e questa tesi ha una sua universalità e generalizzabilità , non altrettanto universalizzabile è il discorso sul come in concreto un insegnante deve comportarsi con i suoi discenti, con ciascuno dei suoi discenti, giacché questo dipende dall’effettiva situazione dei discenti medesimi, e dall’effettiva, reale situazione dell’insegnante.

Si possono indicare delle linee direttive che poi devono essere “tradotte” in ordine allo specifico, nell’atto concreto del far scuola.

Si ripresenta sul piano metodologico la stessa tensione che si ha a livello pedagogico, tra teoria pedagogica e prassi educativa. Nell’uno e nell’altro caso è necessaria l’elaborazione di una teoria che si traduca in modello operativo che sorregga e orienti la prassi, e comunque, teoria e modelli non possono essere che formali. I modelli devono essere verificati nella prassi (e se è il caso, mutati) da ogni singolo insegnante, in rapporto a quelli che sono i “suoi” discenti, la “sua” scuola, ecc..

Non si può prevedere a priori quale sarà il comportamento reale di “quei” dati alunni, in “quella” data contingenza, in “quel” dato momento della loro carriera scolastica. Il modello generalizzato fornisce delle ipotesi, può simulare una situazione in cui entra in campo un gioco di forze, può indicare quali di queste forze possono variare quando ne varia una, se la nuova forza richiede o no la ristrutturazione di tutto il campo, ma non può dire a priori quali siano le forze che di volta in volta entreranno in gioco. Occorre, pertanto, che il docente metta in atto una preliminare indagine ricognitiva che gli dia un quadro della situazione reale, quadro che deve essere costantemente verificato. Un’indagine di tale tipo, in realtà l’insegnante la svolge, a livello intuitivo tutte le volte che fa il punto della situazione della sua classe. Si tratta di esplicitarla e organizzarla con consequenzialità razionale, cogliendo la connessione tra le diverse variabili.

Tipi di apprendimento In linea generale possiamo definire l’apprendimento “processo psichico che

consente una modificazione relativamente durevole del comportamento per effetto dell’esperienza”.

L’apprendimento avviene in quattro modi principali: per trasmissione, per acquisizione, per accrescimento e per emergenza.

La trasmissione è il metodo predominante di insegnamento, attraverso il quale informazioni, conoscenze, idee e competenze vengono trasmesse al discente. Nel corso di una vita esso rappresenta il metodo che incide solo per circa il 10% nell’apprendimento generale.

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L’acquisizione è la scelta consapevole di imparare. Questo metodo è fondato sulla ricerca e la curiosità generale che si esplicita attraverso l’esplorare, lo sperimentare, l’auto-istruzione. Costituisce circa il 20% di quello che impariamo.

L’accrescimento, spesso inconscio o subliminale, è un processo mediante il quale impariamo le cose, come la lingua, la cultura, le abitudini, i pregiudizi, le regole sociali e i comportamenti. Viene anche definito apprendimento sociale e rappresenta circa il 70% di ciò che sappiamo.

Emergere è il risultato di patterning, la strutturazione e la costruzione di nuove idee e di significati che prima non esisteva, ma che emerge dal cervello attraverso la riflessione, il pensiero, l’intuizione e l’espressione creativa o le interazioni di gruppo. Questa forma di apprendimento prevede capacità di sintesi, creatività, intuizione, problem-solving. Rapppresenta solo 1-2% di ciò che sappiamo.

I DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO I disturbi specifici di apprendimento raccolgono una varietà di problematiche

nell’apprendimento scolastico non attribuibili ad una difficoltà intellettiva generale. Ma quali sono gli indicatori principali che consentono di individuare le difficoltà di apprendimento ?

Un criterio per l’individuazione è il criterio della discrepanza, dove per discrepanza si intende la differenza tra una stima delle abilità intellettive generali del bambino e l’effettivo successo scolastico.

Altro principio chiave è il criterio della disomogeneità, ovvero, il bambino può avere buone prestazioni nelle discipline matematiche, ma non in quelle linguistiche, oppure anche nell’ambito della stessa disciplina può presentare delle difficoltà specifiche solo in alcuni ambiti quali ad esempio, adeguate abilità di soluzione dei problemi, ma difficoltà nel calcolo mentale ecc.

La dislessia

Dislessia: è un disturbo specifico dell’apprendimento che interessa il 3% della popolazione infantile Italiana.

Un soggetto è definito in DLS quando nonostante possegga normali qualità organico-intellettive, risulta possedere carenti capacità d’apprendimento e comportamento in relazione alla sua età.

La DLS NON E' una malattia o un'alterazione organica; ma un alterato apprendimento nel tempo che ha deteriorato il comportamento dell'individuo. Da ciò si evince che un soggetto in DLS possiede normali capacità intellettive, ma non è in grado di utilizzarle in modo appropriato; possiede normale acutezza visiva, ma non sa "dove" guardare; possiede normali capacità di usare mani e piedi, ma non sa coordinarle, ecc.

La dislessia colpisce bambini dotati di intelligenza normale che, pur non presentando problemi affettivi, psicologici e sensoriali, mostrano difficoltà a comprendere il significato di ciò che è scritto. I primi segnali compaiono già in prima elementare: l’alunno confonde le lettere che si somigliano anche se capovolte o speculari come ad es. la “b” con la “d” o con la “p”, la “m” con la “n”. Spesso tali

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bambini leggono in modo incompleto le parole, così da renderne incomprensibile o diverso il significato. Si ritiene che alla base di questo rallentamento nell’acquisizione della scrittura ci sia una difficoltà nello scomporre la parola nei suoni che la compongono e quindi, quando i bimbi devono tradurla nel linguaggio scritto, fanno confusione. Inoltre tali soggetti hanno anche difficoltà nella memorizzazione delle letture oltre che nella loro comprensione. E’ importante intervenire subito in quanto l’insuccesso scolastico legato a questo deficit può diventare doloroso e frustrante sia sul piano psicologico sia su quello sociale.

Come si interviene? attraverso attività di gioco, strutturando laboratori pensati per favorire nei bambini la scoperta di alcuni dei principi della struttura del linguaggio scritto, e in genere le attività ritenute importanti per l’apprendimento della letto-scrittura.

I laboratori scolastici possono offrire la possibilità di compiere osservazioni continue e dettagliate degli stili di apprendimento dei bambini e di effettuare uno screening per la rilevazione di eventuali comportamenti che suggeriscono un futuro rischio di problematiche di apprendimento. Molti bambini sono vittima di un senso di grande frustrazione nel momento in cui entrano a fare parte del sistema scolastico e tale sentimento è spesso dovuto ad una serie di malintesi che coinvolgono insegnanti, genitori, specialisti e gli stessi bambini.

L’insegnante si interroga sull’impegno del bambino e richiamandosi al modello di apprendimento secondo cui l’acquisizione di una abilità è funzione della qualità dell’esercizio, ritiene che il bambino si eserciti poco e lo invita a moltiplicare lo sforzo. I genitori sono perplessi e spesso oscillano fra comportamenti severi e punitivi con inviti all’impegno e lunghi periodi di attesa impotente sperando che il tempo aggiusti ogni cosa.

Disgrafia Disgrafia è la difficoltà di realizzare il gesto grafico. Ciò può essere dovuto a varie

cause come un difetto di percezione del movimento del braccio, della mano e della matita, da disturbi visivi ed a difficoltà motorie o visuo-motorie legate alla programmazione dell’atto grafico. I bambini hanno problemi nel dosare la pressione per tracciare un segno sul foglio e la scrittura appare molto leggera o calcata. Hanno difficoltà a controllare le dimensioni e la grandezza delle lettere, ad orientare la scrittura sul foglio: la grafia è obliqua oppure spostata troppo in alto o in basso. Tali soggetti hanno, inoltre, grande difficoltà nel rileggere ciò che essi stessi hanno scritto. Nella disgrafia si trova la disortografia che rappresenta la difficoltà a tradurre in simbolismo grafico la sequenza di suoni in cui è composto il linguaggio orale, pur sentendolo perfettamente. Alla disortografia si associano di frequente difetti del linguaggio verbale (disfasia) o della lettura (dislessia) che quando non sono causati da problemi di vista, udito o intelligenza, dipendono da anomalie dei centri nervosi in cui si forma l’espressione verbale.

Disfasia Deficit che tendenzialmente migliora con il tempo, soprattutto se segnalato

precocemente. Si tratta della difficoltà di articolare il linguaggio verbale ed il terapista deve lavorare sull’articolazione dei suoni, sull’espansione della frase e sul rapporto tra contenuto e forma. In tal modo insegna ad usare il linguaggio per esprimere contenuti

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diversi. Se diagnosticata in ritardo, produce impoverimento cognitivo con alterazione permanente del linguaggio.

La discalculia

La discalculia implica una specifica compromissione delle abilità aritmetiche, la difficoltà riguarda la padronanza delle capacità di calcolo fondamentali, come addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione. Le difficoltà aritmetiche che possono presentarsi sono varie, ma tra esse sono incluse: un’incapacità a comprendere i concetti alla base di particolari opzioni aritmetiche; una mancanza di comprensione dei segni matematici; il mancato riconoscimento dei simboli numerici; la difficoltà ad attuare le manipolazioni aritmetiche standard; la difficoltà nel comprendere quali numeri sono pertinenti al problema aritmetico che si sta considerando; la difficoltà ad allineare correttamente i numeri o ad inserire decimali o simboli durante i calcoli; la difettosa organizzazione spaziale dei calcoli aritmetici; l’incapacità di apprendere in modo soddisfacente le tabelle della moltiplicazione.

Si pensa che si tratti di una difficoltà a rappresentarsi mentalmente i vari passaggi delle operazioni in uno spazio bidimensionale (il foglio) che è spesso associata ad un problema di coordinazione motoria. Così, ad esempio, questi bambini sono spesso distratti, possono essere goffi nel saltare gli ostacoli, non vanno bene in bicicletta e non sanno fare i nodi (hanno anche difficoltà ad allacciarsi le scarpe).

In ogni caso, importante è sottolineare che non è sufficiente avere generiche difficoltà in matematica per essere definiti discalculici, ma occorre che siano rispettati alcuni specifici parametri, condivisi dalla comunità scientifica.

Iperlessia

Se un bambino impara a leggere perfettamente tra i 2 ed i 5 anni, può essere un bambino normale che padroneggia in anticipo uno strumento di apprendimento. Ma se questa è l’unica attività che sa fare bene, allora si potrebbe essere in presenza di un primo segno di iperlessia. In tal caso il bambino è bravissimo nel leggere e nello scrivere, mentre ha forti difficoltà a capire ciò che legge o scrive. C’è in pratica una padronanza dello strumento senza alcun controllo del suo significato.

E’ difficile che l’iperlessia sia un disturbo isolato, bensì si accompagna spesso ad altre forme di DLS o peggio a qualche ritardo mentale od ad una sindrome autistica. Spesso ciò dipende da una forzatura fatta sul bambino affinchè impari argomenti a cui non è ancora pronto; in tal modo ha finito per acquisire solo l’aspetto meccanico del compito che gli veniva richiesto e non il motivo reale alla base della lettura che è quello di leggere per sapere cosa c’è scritto.

Disprassia Si tratta di un disturbo dello sviluppo che impedisce al bambino di compiere

attività manuali complesse. Non è un problema motorio in senso stretto, ma una difficoltà a programmare e controllare la sequenza dei movimenti. Il segnale di questo deficit è una goffaggine generale: i bambini svolgono faticosamente alcune azioni con risultati scarsi rispetto ai loro coetanei. E’ disprattico un bambino di 3-4 anni che non riesce ad imparare a vestirsi da solo o che ha difficoltà a scavalcare ostacoli, uno di 6 anni che non sa ancora allacciarsi le scarpe o che non riesce a disegnare ed a ritagliare.

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Questo disturbo si associa spesso alla discalculia. Il terapista rappresenta il movimento con l’ausilio di giochi o attraverso la verbalizzazione, così da aiutare, con un canale diverso da quello motorio, la programmazione del movimento. Se avviata in tempo, una prassi educativa evita impatti emotivi e psicologici frustranti (l’essere inferiore dei coetanei). In tal modo si recuperano le attitudini di base anche se permangono difficoltà nelle attività più complesse. Ciò significa che seppur non diventerà un super sportivo, da adulto non avrà alcun problema.

Disattenzione E’ lo scarso sviluppo delle capacità di mantenere la concentrazione. Un disturbo

dell’attenzione, che alcuni studiosi imputano ad un’alterazione della biochimica cerebrale, si rivela in genere in età scolare. In pratica i bambini hanno difficoltà a rimanere attenti a lungo o a concentrasi su obiettivi precisi, faticano a rimanere seduti a seguire le istruzioni. La facile distraibilità diventa un problema quando interferisce con le altre funzioni come il linguaggio, il movimento, il pensiero e lo sviluppo cognitivo. Non è ancora chiaro se questo problema debba essere considerato come un disturbo specifico o se si tratta di un sintomo di altre anomalie. In questa situazione, così come in alcune altre, alterazioni delle funzioni visive possono giocare un ruolo determinante nella nascita e nello sviluppo di tale problematica legata all’apprendimento. Un difetto dell’attenzione pesa poco sullo sviluppo del bambino se tale problematica è isolata; ben più grave è la situazione quando essa è collegata ad altre anomalie. E’ per questo che spesso si decide di consultare uno specialista solo quando, oltre al deficit di attenzione, si riscontrano disturbi linguistici o motori.

Trattamento dei disturbi dell’apprendimento Quando si prospetta la necessità di strutturare un percorso abilitativo ogni

intervento va commisurato al bambino prendendo in considerazione sia l’età di sviluppo sia la tipologia della difficoltà presentata. L’intervento più utile e diffuso è l’abilitazione delle competenze meta-fonologiche, meta-linguistiche, lessicali, grafiche ed ortografiche sia in lettura che in scrittura, mentre, riguardo al calcolo l’intervento sarà mirato al rinforzo delle abilità di calcolo con l’utilizzo di idonee strategie che aiutino il bambino a compensare la difficoltà.

Trasversalmente alle varie disabilità rilevate si accompagneranno interventi orientati al rinforzo metacognitivo, dell’autostima e della motivazione scolastica. Gli strumenti da proporre per favorire le acquisizioni dovrebbero tenere conto sia delle modalità di acquisizione uditiva, sia di quella visiva, per superare le difficoltà di decodifica della letto-scrittura.

Alcuni strumenti compensativi molto validi sono quegli strumenti in grado di trasformare un testo cartaceo in testo digitale/orale, come: lo scanner, la sintesi vocale, il libro digitale, l’audiolibro, il libro parlato, la costruzione digitale di mappe concettuali e di quelle mentali.

L’utilizzo della videoscrittura è importante e di efficace aiuto in quanto la segnalazione dell’errore è concomitante all’errore stesso e la correzione avviene in tempo reale; inoltre il computer è un segnalatore imparziale e non giudicante, quindi è meglio tollerato dal soggetto e considerato una risorsa abilitante, non frustrante.

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L’insegnamento differenziale Nell’insegnamento ai bambini portatori di handicap cambiando lo stato di

ricezione del soggetto educando e diversificando le finalità di esso, le confluenti didattiche si focalizzano sull’esaltazione delle residue capacità dell’alunno, a cui si commisurano costantemente in maniera adattiva non solo rispetto al singolo alunno, ma perfino volta a volta. Ciò significa che in tale insegnamento, dominante è la singolarità dell’alunno, con il quale il docente intesse un rapporto didattico tanto più individualizzato e personalistico quanto più grave è il deficit che lo affligge e meno efficace è il coordinamento operativo col gruppo o col gruppo classe, e comunque l’insegnamento corale. Ovvio, infatti, che sia i fini istruttivi e gli insegnamenti formali e mnestici, sono tanto più difficili da attuare quanto più il deficit tocca le regioni cerebellari, e mediatamente o direttamente ne blocca le funzioni cogitative, quelle delle iniziative riflesse e volute, e quelle delle motivazioni all’azione. In questo quadro clinico-possibilitario il concetto stesso dell’insegnamento come trasmissione del sapere si attenua fino a diventare in taluni casi un filo sottile più di speranza che di realizzabilità. Allora esso ricorre, più che al metodo strutturalista, a quello associazionista e dei riflessi condizionati, tentando graduali passaggi e costruzioni di tessuti di sensazioni esperenziali collegate con procedimento a piccoli passi costantemente riferiti ai dati originariamente primordiali e vitali, per passare gradualmente a funzioni fisio-psichiche significanti di esigenze empiriche.

Qui, non appena si accende un barlume di capacità astrattiva, può iniziarsi la sollecitazione all’esercizio cogitativo, mediante dialogo imperniato su quel concreto che sia di possesso percettivo dell’alunno e che con domande e risposte, sulla base delle cose, anzicchè dei loro simboli linguistici, avvia alla problematizzazione e alla soluzione pratica.

Ma già a questo livello il grado deficitario dell’attività cerebellare si configura di media portata e gravità, sì che l’insegnamento assume più consistente fluidità cognitiva e può attuarsi mediante forme più varie. In questo caso, infatti, le attività di gruppo, le modalità di drammatizzazione e più avanti ancora il problem solving possono dare un valido impulso all’apprendimento cognitivo e allo sviluppo cogitativo del soggetto con handicap, in cui è possibile una ricezione di contenuti che portano l’atto del docente a un grado di apprezzabile efficacia.

Le ricompense

La ricompensa in educazione è un problema pedagogica vero e proprio, poiché gli insegnanti hanno sempre distribuito premi e castighi.

La psicologia del comportamento si fonda su tre concetti: le azioni degli animali (uomo incluso), nascono da funzioni vitali istintive o casuali; la psiche è un tessuto di riflessi condizionati emersi da azioni esistenziali; l’animale apprende, conserva e ripete le azioni rafforzate mediante ricompense, evita le azioni punite o andate a vuoto. Di qui le due conseguenze: l’importanza fondamentale del rinforzo nell’apprendimento: ogni azione fatta dall’alunno secondo le aspettative va rinforzata; ogni comportamento base appreso va collegato alla richiesta di un altro comportamento, in modo da costituire una catena ramificata di comportamenti, ovvero il tessuto dei fenomeni di cui consta la psiche.

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Ma come rinforzare e indurre a ripetere l’azione bene accetta? Kozloff, per il quale “le ricompense sono la parte più importante di qualsiasi

programma di insegnamento”, distingue quattro tipi di ricompense: naturali o primarie (cibo, leccornie, acqua e simili), sociali (amorevolezza, elogi, voti e simili), generalizzate o strumentali (denaro, buoni acquisto, premi di consumo e simili), dinamiche o di azioni dopo delle quali sopravvengono stati di benessere (metto il soprabito e non sento più freddo, prima lavo i piatti e poi gioco a bridge e simili).

Coi bambini con handicap egli dice di iniziare dalle ricompense primarie, e di sostituire queste gradualmente con quelle di altri tipi, in relazione al recupero ottenuto dall’alunno. Suggerisce poi, alcune norme da seguire attentamente nel ricompensare: a) non dimenticare di ricompensare a momento opportuno; b) non ricompensare sempre allo stesso modo, ma variamente, onde evitare l’assuefazione; c)evitare la saturazione compensatoria; d) adattare la compensazione all’indole, all’interesse, al tipo di esercizio dell’alunno; e) ricompensare prima ogni volta, poi con graduale accorta intermittenza. Però tali indicazioni pur utilissime mostrano limiti interpretativi molto marcati del comportamento dell’alunno. Non è la meccanica compensatoria a fare impegnare l’alunno, ma l’interiore soddisfazione per il fatto che si sente bene accetto e dal fatto che operando realizza un suo stato esigenziale interiore. Che tra l’altro gli consente di esprimersi e di realizzarsi come persona che è insieme valore a sé e valore sociale.

La valutazione: aspetti problematici

Quanto sia complesso il problema della valutazione è noto a chi è chiamato a esercitarla, vuoi per motivi occasionali, vuoi per ragioni professionali. Esso infatti, ha una pluralità di sfaccettature, in quanto l’atto del valutare coinvolge le variabili soggettive di chi giudica le condizioni e gli obiettivi socio-culturali per cui la valutazione avviene, le variabili soggettive del valutando, il profitto oggetto di esso.

Sull’incidenza della soggettività dell’esaminatore nelle conclusioni giudicative non ci sono dubbi, dato che sono stati condotti molti esperimenti in proposito. Ed è ovvio. La valutazione, infatti, dipende dalla storia e dalla realtà attuale dell’esaminatore, dalle sue certezze, dalla sua cultura, dalla sua capacità problematica, dal suo buon senso, dall’adattività e apertura della sua intelligenza, dai suoi ideali, dalla prospettiva nella quale inquadra e vede l’esaminando.

Rilievo e base alla valutazione danno le condizioni e gli obiettivi socio-culturali per cui essa è condotta. E’, infatti, preliminare conoscere le finalità della stessa, onde stabilire le modalità e i contenuti dei quesiti da fare al valutando, in rapporto ai fini della preparazione da lui dovuta. Un elemento da considerare attentamente è quello costituito dalle condizioni socio-culturali ambientali in cui e per le quali la valutazione avviene, allo scopo di evitare eccessività o lassismo nella conduzione degli esami e nella valutazione finale. E’ necessario, cioè, correlare l’esame all’ambiente in cui avviene, oltreché all’obiettivo finale.

Altra confluente da tenere in conto, sia ai fini metodologici dei procedimenti, sia allo scopo di rendere oggettivi al possibile esami e giudizio, è la considerazione delle variabili soggettive dell’esaminando. Una valutazione, infatti, non è mai fine a se stessa, ma ha una funzione di attività futura del valutando; essa, pertanto, è predittiva,

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in quanto vede l’esaminando nel suo divenire, non come accumulo di cognizioni ma come capacità noetiche, ancorché l’ampiezza dell’orizzonte cognitivo sia uno strumento utile delle capacità operative. Questo però, presuppone che chi valuta abbia una prospettiva dinamica degli obiettivi, di futuribilità operazionale e che sia convinto che i dati formalmente definiti vanno commisurati sempre al fluire multiforme degli aspetti e degli obiettivi medesimi.

In questo senso il profitto degli impegni dell’esaminando diventa strumentale rispetto alle capacità e alle articolazioni operative specifiche che nell’esame e nella valutazione si evidenziano, risultando così non il vero oggetto dell’esame, ma il materiale per l’accertamento delle capacità e delle abilità acquisite dall’educando.

La valutazione docimologica La valutazione avviene mediante un rapporto diretto tra la personalità di chi valuta

e quella del valutando, e pertanto, può definirsi personalistica. E’ evidente che la valutazione personalistica porta impliciti i pericoli del soggettivismo, poiché in essa le variabili soggettive di chi valuta possono inconsapevolmente avere la prevalenza su tutte le altre concomitanti, poiché in ultima analisi il giudizio è dato dall’esaminatore, ed è questa la ragione per la quale gli specialisti dell’argomento sono andati alla ricerca e hanno indicato vie diverse da quelle personalistiche per realizzare una valutazione non infirmata dal soggettivismo e dall’arbitrio di chi giudica. E’ nata così la docimologia, scienza degli esami e della valutazione, che con strumenti oggettivi da adottare nei riguardi di tutti gli esaminandi indiscriminatamente mira ad attuare un esame e una conseguente valutazione quantificabile oggettivamente, sulla base del conteggio statistico degli errori commessi dell’esaminando nel rispondere ai quesiti proposti.

Tali quesiti non sono verbali e non vogliono risposte orali, ma sono indicati sottoforma di asserti chiari e ben definiti, a cui l’esaminando deve far seguire un si o un no (se ritiene o non ritiene esatto il quesito), segnando una crocetta sul quadratino del si o su quello del no tracciati a lato di esso. Altra volta al quesito si accompagnano cinque risposte prefatte di diverso significato; l’esaminando ne segnerà una indicandola come a suo parere valida. Dal conteggio degli errori viene assegnato un voto numerico e/o un giudizio, sulla base di una quantificazione valutativa degli errori già concordata e stabilita dalla commissione esaminatrice.

Ma le prove oggettive non sono tutte quante di questo tipo; esse, infatti, sono anche relative ad attività manuali, cinetiche, etiche, ecc. tendendo in siffatto modo a sondare i vari aspetti della persona e della personalità.

Delle prove docimologiche si può dire che difettano del rapporto personale esaminando-esaminatore, sì che nascondono nella loro oggettività l’incomprensione per una valutazione in prospettiva di futuribilità del valutando; esse si attengono al una presenzialità che dà poche garanzie per il futuro, perché del soggetto vedono ciò che ha fatto non ciò che potrà fare in seguito. Tuttavia non mancano in essi i lati positivi, quali per esempio l’evidenziazione della memoria, dell’impegno e del profitto, della volontà di riuscire, dell’intuizione dell’esattezza e simili del valutando.

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Come valutare l’alunno portatore di handicap Nella valutazione dell’alunno portatore di handicap va tenuto conto del fatto che

la valutazione oggettiva dovrà essere sempre accompagnata dal rapporto personale dell’insegnante con il minorato. Essa, infatti, non ha scopi giuridici e formali, giudicativi e selettivi, ma metodologici e predittivi: metodologici perché dall’esame dei risultati l’insegnante può valutare la (non) bontà del suo metodo; predittivi perché dagli stessi, nelle linee generali, si può prevedere il futuro andamento e profitto dell’alunno.

E’ ovvio che ora non stiamo discutendo della valutazione dell’handicap e della sua portata, poiché essa è la conclusione della diagnosi, e appartiene pertanto, all’aspetto clinico della minorazione. La valutazione della quale ci stiamo interessando ora, è relativa all’attività didattica dell’insegnante e al profitto e allo sviluppo della personalità dell’alunno.

Ai fini di una corretta valutazione scolastica del soggetto portatore di handicap è opportuno tenere presente quanto segue:

a) il docente deve poter disporre di una scheda dalla quale risultino l’entità della patologia, i gradi e i tempi dell’evoluzione di essa, della personalità e del profitto del discente, possibilmente schematizzati in uno o più grafici. Sulla stessa egli scrive lo stato attuale dei vari aspetti ora indicati, annotandone a lato la situazione rispetto al momento della più recente valutazione.

b) Il rapporto personale tra il docente e il discente durante le prove di esame dev’essere costante e affettuosamente sollecitativo, quali che siano le prove in cui l’alunno è impegnato.

c) Questo personalismo non deve far pensare all’esclusione preconcetta delle prove docimologiche che possono invece attivarsi nella misura e nei casi in cui si ritiene utile il loro utilizzo. Bisogna però precisare che le prove docimologiche concernenti i quesiti e le risposte sono di possibile utilizzo solamente nei casi di alunni svantaggiati e/o disadattati, e solo per gli aspetti cognitivi dell’andamento didattico; mentre altre sono le prove che vanno adottate per gli handicappati medi e gravi. Indichiamo, a titolo di esempio prove fondate su musica-canzoni, parole incrociate, costruzioni, esercizi ritmici, richieste cinetiche, piccoli lavori, spiegazioni di immagini (di vario tipo) e simili. Vale a dire, l’insegnante può utilizzare le attività concernenti modi e mezzi di passatempo, non esclusi i giochi del domino, della dama europea e cinese, dai quali non è difficile evincere la quantità di errori e il grado di maturità acquisita, le abilità manuali e cinetiche, lo sviluppo delle capacità raggiunte dal discente con handicap.

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Bibliografia Piaget, soprattutto: J. Piaget, B. Inhelder, La répresentation de l’espace chez l’enfant, Paris, PUF, 1947 D. Gasparini, Da Ickelsamer a Comenio, Roma, Armando, 1984; M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, Milano, Bompiani, 1963, p. 345 Rayala Martin – Cambiare la mente: verso una teoria di apprendimento – Wisconsin 1996 Bruno Fichera L., 1970 Pedagogia e Psicologia dell’apprendimento Musumeci Editore, Catania

F.Frabboni et Alter, Manuale di pedagogia generale, Laterza Bari 1994 Frabboni, Manuale di didattica generale, Laterza Bari 1997 FF. E. Erdas, Didattica e formazione. Armando Roma 1991 G.Catalfamo, Il globalismo, Milano, Viola, 1954 L.Smeriglio, “Il globalismo” in La pedagogia, a cura di L.Volpicelli, Milano, Vallardi, 1970 S. Mandolfo, Compendio di pedagogia speciale, CUECM, Catania ,1989

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LA RICERCA

COME ORGANIZZARE UN PERCORSO DI RICERCA? Ogni indagine ricognitiva o ricerca, di qualsiasi tipo essa sia, pura o applicata ha

dei presupposti logico-epistemologici. Per essere efficace, essa deve seguire un determinato svolgimento, secondo uno schema di riferimento che indica le varie fasi da seguire, interconnesse tra di loro.

Le fasi essenziali: definire

• L’ambito di ricerca, in maniera puntuale, sulla base di un’ipotesi formulata • Le finalità e gli obiettivi in maniera articolata • Il rispetto dei tempi • Le metodologie e le procedure.

Selezionare • Il materiale inerente all’ambito di indagine

Confrontare • L’ipotesi di partenza con le conclusioni raggiunte

Verificare • I risultati conseguiti • La capacità di comunicare in linguaggi diversi i risultati, le tappe del

percorso effettuato • La capacità di trasferire in ambiti diversi le conoscenze e le abilità acquisite

METODI E FORME DELLA RICERCA

Il dizionario specializzato di Horace B.English e di C.English dà la seguente definizione della ricerca: “tentativo sistematico, dettagliato e relativamente prolungato di scoprire o confermare i fatti riguardanti un certo problema o certi problemi e le leggi o i principi che li governano”.

La ricerca quindi, potrà condurre a confermare dei fatti, che si ritiene esistano, oppure a scoprire o rilevare fatti inosservati fino a quel momento e a stabilire delle relazioni fra questi fatti. Così le constatazioni o i risultati dei lavori di ricerca possono confermare, modificare o allargare il campo delle conoscenze su di un problema. La ricerca incide sull’attività didattica, nel senso che maggiore è il tempo dedicato

alla ricerca, maggiore potrà essere la qualità dell’insegnamento impartito. Come scienza, del resto, la didattica è in continua costruzione tramite la ricerca. In generale la ricerca sperimentale procede secondo un percorso già definito nel 1938 da J. Dewey in “Logica, teoria dell’indagine” che parte con l’incontro di una situazione problematica, procede poi attraverso le fasi di definizione del problema, immaginazione della possibile soluzione, formulazione delle ipotesi di ricerca,

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approdando allo sviluppo dell’intervento (esperimento) e alla conseguente validazione o invalidazione delle ipotesi. A questa procedura si possono aggiungere vari approfondimenti: come nella fase di definizione del problema con B. Vertecchi che si è occupato della costruzione di un sistema di variabili (assegnate, indipendenti e dipendenti) per determinare il rigoroso controllo dell’esperimento medesimo; o con M. Corda Costa che ha lavorato alla specificazione dello sviluppo dell’intervento, dopo l’identificazione delle ipotesi, con l’organizzazione di una situazione sperimentale tale da mantenere costanti tutte le diverse variabili, eccettuata quella non dipendente che va, invece, adeguatamente manipolata per osservarne gli effetti sulla dipendente (alla presenza di più variabili attive la costruzione dell’esperimento sostanzialmente non cambia, ma si dovrà realizzare l’analisi della covarianza in fase d’elaborazione dei dati).

Il termine di ricerca abbraccia una grande varietà di significati. Si va dal livello didattico, cioè da una particolare organizzazione dei processi di apprendimento a scuola, al lavoro degli scienziati nei vari campi, dall’attività dei progettisti e dei tecnici a quella dei consulenti di operatori economici e politici.

In tutti questi casi l’uso del termine è corretto, ma indica operazioni, atteggiamenti, scopi molto diversi, per cui occorre di volta in volta precisare il valore che esso assume.

Esistono due metodi di fare ricerca: 1) Ricerca in senso tradizionale, cioé fatta a livello universitario

all’interno delle scienze matematiche, biologiche o altre e che non ha come obiettivo un intervento sulla realtà. In questo tipo di ricerca la neutralità è il requisito più importante, cioè lo studioso si accosta e studia il fenomeno dall’esterno senza influire in alcun modo, possiamo dire, quindi, che la ricerca nella sua origine nasce neutrale.

2) Al metodo tradizionale si contrappone la ricerca sociale, che il sociologo Gilli definisce come: “un’attività conoscitiva di analisi e di riflessione, che si svolge nella pratica su un problema pratico e reale e precede un determinato intervento nella realtà”.

Le differenze tra i due metodi sono: il principio di neutralità e la possibilità di applicazione concreta nella realtà sociale.

I personaggi della ricerca. – in ogni ricerca c’è un soggetto – il ricercatore -, un oggetto – gli individui, meglio il gruppo sociale su cui la ricerca viene fatta. – i committenti – la persona o il gruppo che ha commissionato la ricerca e ne metterà in pratica i risultati: non esiste alcuna ricerca in cui non siano presenti queste figure e se non si individuano esattamente per ogni situazione concreta di ricerca queste tre figure, la ricerca è destinata a fallire.

Il soggetto è colui che essendo in possesso di determinate conoscenze e tecniche, riceve l’incarico o si assume il compito di svolgere una determinata indagine.

Il committente è colui - persona o gruppo – che per prendere determinate decisioni ha bisogno di informazioni sull’oggetto stesso e affida tale funzione al ricercatore.

L’oggetto sono gli individui o il gruppo sociale su cui la ricerca viene fatta. Le forme della ricerca, secondo De Bartolomeis sono:

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1) Ricerca scientifica: a) Storica b) Descrittiva c) Sperimentale

2) Ricerca tecnologica. 3) Ricerca come programmazione e realizzazione di interventi. 4) Ricerca filosofica. 5) Ricerca artistica. La ricerca storica ha come oggetto ciò che è già accaduto, perciò essa è possibile

solo quando l’accaduto (il passato) abbia lasciato indizi e documenti di varia natura. Compito dello storico è quello di ricostruire sulla base degli elementi a sua disposizione.

Nell’ambito di questo tipo di ricerca, un primo problema da affrontare è quello delle fonti, cioè quali strumenti si hanno a disposizione per poter fare una ricostruzione. Armi, utensili, edifici, dipinti, monete ed altri oggetti oppure le testimonianze orali e scritte di partecipanti ad un evento, possono fornire una chiara testimonianza riguardo al passato, per cui questa tipologia di elementi viene definita come fonte primaria.

Le fonti secondarie sono, invece, le relazioni di una persona che riferisce la testimonianza di chi ha realmente partecipato all’evento. Di solito le fonti secondarie sono di limitato valore, a causa degli errori che si generano quando una informazione passa da una persona ad un’altra.

Quando si hanno a disposizione, dopo un lavoro di reperimento, dati di diversa origine e natura, essi non vanno presi come validi e significativi, ma occorre sottoporli ad una duplice analisi critica.

La critica esterna è volta a stabilire l’autenticità o la genuinità dei dati, mentre la critica interna stabilisce l’accuratezza e il valore di questi dati. Solo se i documenti in questione resistono alla prima critica, possono essere sottoposti alla successiva.

La ricerca descrittiva può essere definita come: interpretazione di eventi,

situazioni, atteggiamenti, opinioni, tendenze, sviluppi attraverso un pertinente e controllato rilievo di dati direttamente presenti al ricercatore o ricavabili mediante l’analisi di una documentazione statistica.

Il ricercatore non interviene, cioé non manipola o predispone variabili, ma lavora su quello che trova e a cui si interessa in rapporto ai problemi che intende risolvere: l’oggetto della ricerca descrittiva, lo studio di relazioni attraverso procedure che giustificano le sue differenze dalla ricerca più propriamente sperimentale.

Si possono avere due tipi di relazioni: causale e stocastica. Si può parlare di relazioni causali a proposito di ricerche descrittive, quando si analizzano fattori per stabilire se tra essi c’è o no una relazione, nel senso che un fattore o un gruppo di fattori è entrato nella determinazione di un certo evento.

Il termine relazione stocastica, sta ad indicare l’esistenza di una relazione a cui però va attribuito un significato probabilistico, in quanto dati certi fattori non dobbiamo aspettarci che in ogni caso ad essi se ne associno altri.

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Naturalmente è significativa la frequenza di tale associazione per la previsione che si può trarre.

La ricerca sperimentale vuole stabilire mediante un esperimento, se esiste o no un

rapporto, e quanto diretto esso sia, tra due ordini di fenomeni in condizioni di controllo che sia il più rigoroso possibile, tenuto conto delle circostanze di fatto in cui opera il ricercatore, degli strumenti di cui dispone e della natura del problema in questione. Cioè il ricercatore deve fare il meglio che può riguardo al livello tecnologico raggiunto dai sistemi di misurazione.

Il primo ordine di fenomeni è costituito dalle variabili indipendenti, che sono chiamate così, perché esse nell’apprestamento sperimentale non subiscono influenze per effetto di altre variabili.

Il secondo ordine è costituito dalle variabili dipendenti, cioé dalle modificazioni osservabili e misurabili di comportamenti, fenomeni, eventi, situazioni che possono conseguire alle variazioni delle variabili indipendenti.

Quando tali modificazioni si realizzano, si può descrivere la corrispondenza tra le variazioni dei due ordini di variabili come un rapporto causale o di vario grado probabilistico. Praticamente nella ricerca sperimentale le variabili indipendenti sono quelle che vengono predisposte o manipolate intenzionalmente, per vedere quali effetti connessi ad esse si producono, e quale è la dimensione di questi effetti.

In termini più formali, vengono manipolate certe variabili indipendenti e si osserva l’effetto sopra una variabile dipendente.

Nella ricerca tecnologica, non si tratta solo di far ricorso semplicemente a

strumenti tecnologici, come ausili, ma di avere in vista l’oggetto tecnico come prodotto, cioé come scopo specifico della ricerca. Per cui si può dire che si tratta sempre di ricerca, perché occorre individuare bene il problema, fare ipotesi, scegliere o produrre mezzi adatti, elaborare un piano di lavoro, procedere a prove e a verifiche.

La ricerca operativa, invece, in generale, può essere definita come uno studio per

individuare, reperire, organizzare ed applicare i mezzi e i materiali che consentano di ottenere i migliori risultati in un determinato campo.

La ricerca operativa considera il campo di applicazione nel suo insieme, cioé come un sistema di metodi, di materiali, di mezzi e di processi interagenti.

La caratteristica dominante di questo tipo di ricerca è l’approccio sistematico e pianificato ai problemi, che si intendono studiare.

Ricerca filosofica ed artistica. Dal piano metodologico della ricerca non restano

esclusi settori essenziali, sia dell’inventività, sia del lavoro scolastico, quali la filosofia, la poesia, la letteratura, le arti ed altre. Esiste, infatti, una metodologia nell’affrontare problemi di natura filosofica: possono essere affrontati mediante ricerca sistematica, ed esiste pure una metodologia per l’uso di valori estetici e per la loro produzione.

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Il processo di ricerca consiste in due procedimenti strettamente legati, che si influenzano costantemente nello stadio della definizione del tema della ricerca e nello stadio d’esecuzione.

Questi due procedimenti sono: uno teorico e l’altro pratico. Partendo da un problema che merita di essere studiato, si enuncia il tema della ricerca e se ne sceglie il campo, si riflette su questo problema, si fanno delle osservazioni e si forma un concetto. Al medesimo tempo, ci si occupa dei dati concreti ed osservabili, necessari sia per il lavoro di ricerca, che per i metodi di osservazione. I due procedimenti sono strettamente correlati, ma l’uno non precede necessariamente l’altro.

Lo schema orientativo della ricerca è una definizione concettuale, strutturale del

metodo e serve a dare un’idea di insieme fissando una successione razionale di fasi. Lo schema proposto è del De Bartolomeis, nel quale, le fasi della ricerca sono

poste in termini sequenziali per introdurre un metodo con caratteri di intenzionalità e sistematicità:

1) Determinazione dell’argomento o del compito, cioé indicazione generale del settore di ricerca in termini di conoscenze, di oggetti tecnici, situazioni che richiedono interventi.

2) Individuazione e selezione del problema o dei problemi particolari da fare oggetto di ricerca.

3) Scopi della ricerca. La soluzione dei problemi può mirare a nuove conoscenze o interpretazioni di fenomeni, eventi, comportamenti o alla progettazione e alla produzione di oggetti tecnici o a interventi.

4) Esame critico degli studi e delle realizzazioni precedenti nel campo in questione.

5) Formulazione di ipotesi riguardanti la spiegazione di fenomeni, eventi, comportamenti o la caratterizzazione degli oggetti tecnici da produrre e degli interventi da effettuare.

6) Programma di lavoro. 7) Progettazione dettagliata come scelta metodologica. 8) Costruzione e messa a punto o studio critico degli strumenti di ricerca. 9) Raccolta dei dati, produzione sperimentale di oggetti tecnici, prova del

progetto di intervento con gli strumenti precedentemente apprestati e secondo prestabilite modalità.

10) Tabulazione, analisi, elaborazione, interpretazione dei dati, valutazione di procedimenti, di prodotti, di interventi.

11) Fissazione dei risultati in maniera che siano chiaramente comunicabili e rappresentino una spiegazione o una documentazione attendibile nei limiti dell’oggetto della ricerca e dei procedimenti adoperati.

12) Nel caso di ricerche non specificamente volte all’applicazione e all’intervento, eventuale valutazione dei risultati, in vista di possibili applicazioni e interventi.

RICERCA QUANTITATIVA E RICERCA QUALITATIVA

Nei due approcci è fondamentalmente diverso il rapporto instaurato tra teoria e ricerca.

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Nel caso della ricerca quantitativa neopositivista, il rapporto è strutturato in fasi logicamente sequenziali, secondo un’impostazione sostanzialmente deduttiva (la teoria precede l’osservazione), che si muove nel contesto della giustificazione, cioè di sostegno, tramite i dati empirici, della teoria precedentemente formulata sulla base della letteratura.

Nel caso della ricerca qualitativa interpretativista, elaborazione teorica e ricerca empirica procedono intrecciate, in quanto il ricercatore vede nella formulazione iniziale di una teoria un possibile condizionamento che potrebbe inibirgli la capacità di comprendere il soggetto studiato. In questo modo la letteratura ha una minore importanza. Anche i concetti sono usati in modo diverso dai due approcci. I concetti sono gli elementi costitutivi della teoria, e tramite la loro operativizzazione (trasformazione in variabili empiricamente osservabili) permettono alla teoria di essere sottoposta a controllo empirico.

Nell’approccio neopositivista la chiarificazione dei concetti e la loro operativizzazione in variabili avvengono prima ancora di iniziare la ricerca. Questo metodo, se da un lato offre il vantaggio di poter rilevare empiricamente il concetto, dall’altro comporta anche lo svantaggio di una forte riduzione e impoverimento del concetto stesso, con il rischio ulteriore che la variabile sostituisca il concetto (reificazione). Un ricercatore qualitativo avrebbe invece utilizzato il concetto come orientativo (sensitizing concept), che predispone alla percezione, ancora da definire non solo in termini operativi, ma anche teorici, nel corso della ricerca stessa. I concetti diventano quindi una guida di avvicinamento alla realtà empirica, non riduzioni della realtà stessa in variabili astratte.

Per quanto riguarda il rapporto generale con l’ambiente studiato, l’approccio neopositivista non ritiene che la reattività del soggetto possa rappresentare un ostacolo di base, e crede che un certo grado di manipolazione controllata sia ammissibile. Viceversa la ricerca qualitativa si basa sull’approccio naturalistico, vale a dire che il ricercatore non manipola in alcun modo la realtà in esame. I due modi di fare ricerca trovano illustrazioni tipiche e opposte nelle tecniche dell’esperimento e dell’osservazione partecipante.

Se passiamo alla specifica interazione psicologica con i singoli soggetti studiati, il ricercatore quantitativo assume un punto di vista esterno al soggetto studiato, in modo neutro e distaccato; inoltre studia solo ciò che egli ritiene importante. Il ricercatore qualitativo invece si immerge il più completamente possibile nella realtà del soggetto e quindi tende a sviluppare con i soggetti una relazione di immedesimazione empatica. Ma in questo modo sorge prepotentemente il problema dell’oggettività della ricerca.

Anche l’interazione fisica con i singoli soggetti studiati è differente per i due approcci. La ricerca quantitativa spesso non prevede alcun contatto fisico tra studioso e studiato, mentre nella ricerca qualitativa il contatto fisico è una precondizione essenziale per la comprensione.

Il soggetto studiato quindi risulta passivo nella ricerca quantitativa, mentre ha un ruolo attivo nella ricerca qualitativa.

Rilevazione (disegno della ricerca)

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Nella ricerca quantitativa il disegno della ricerca (decisioni operative che sovrintendono all’organizzazione pratica della ricerca) è costruito a tavolino prima dell’inizio della rilevazione ed è rigidamente strutturato e chiuso. Nella ricerca qualitativa invece è destrutturato, aperto, idoneo a captare l’imprevisto, modellato nel corso della rilevazione. Da queste diverse impostazioni deriva la diversa concezione della rappresentatività dei soggetti studiati.

Nella ricerca quantitativa il ricercatore è più preoccupato della rappresentatività del pezzo di società che sta studiando piuttosto che della sua capacità di comprendere, mentre l’opposto vale per la ricerca qualitativa, alla quale non interessa la rilevanza statistica bensì l’importanza che il singolo caso sembra esprimere.

Anche lo strumento di rilevazione è differente per i due tipi di ricerche. Nella ricerca quantitativa esso è uniforme o uniformante per garantire la validità statistica, mentre nella ricerca qualitativa le informazioni sono approfondite a livelli diversi a seconda della convenienza del momento. Allo stesso modo, anche la natura dei dati è diversa.

Nella ricerca quantitativa essi sono oggettivi e standardizzati (hard), mentre la ricerca qualitativa si preoccupa della loro ricchezza e profondità soggettive (soft).

Analisi dei dati

L’analisi dei dati è completamente differente per le due impostazioni della ricerca, a partire dall’oggetto dell’analisi.

La ricerca quantitativa raccoglie le proprietà individuali di ogni soggetto che sembrano rilevanti per lo scopo della ricerca (variabili) e si limita ad analizzare statisticamente queste variabili.

Il soggetto non viene quindi più ricomposto nella sua unitarietà di persona. L’obiettivo dell’analisi sarà spiegare la varianza delle variabili dipendenti, trovare cioè le cause che provocano la variazione delle variabili dipendenti.

La ricerca qualitativa invece non frammenta i soggetti in variabili, ma li considera nella loro interezza, sulla base del ragionamento che l’individuo è qualcosa in più della somma delle sue parti. L’obiettivo è quindi quello di comprendere le persone, interpretando il punto di vista dell’attore sociale.

Le tecniche matematiche e statistiche sono fondamentali per la ricerca quantitativa, mentre sono considerate inutili e dannose nella ricerca qualitativa. Risultati

I risultati dei due tipi di ricerca sono naturalmente diversi. Già nella presentazione dei dati notiamo che la ricerca quantitativa si serve di tabelle, mentre quella qualitativa di narrazioni.

Le tabelle hanno il pregio della chiarezza e della sinteticità, ma presentano il difetto di presentare uno schema mentale proprio dei ricercatori che può non corrispondere alle reali categorie mentali dei soggetti; inoltre impoveriscono inevitabilmente la ricchezza delle affermazioni dei soggetti. Le narrazioni riescono ad ovviare a questi difetti, perché riportano le parole degli intervistati e quindi si pongono come una “fotografia” dei loro pensieri.

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Per quanto riguarda la generalizzazioni dei dati, la ricerca quantitativa si pone l’obiettivo di enunciare rapporti causali tra le variabili che possano spiegare i risultati ottenuti. La ricerca qualitativa, invece, cerca di individuare tipi ideali (nel senso weberiano), cioè categorie concettuali che non esistono nella realtà, ma che liberano i casi reali dai dettagli e dagli accidenti della realtà per estrarne le caratteristiche essenziali ad un livello superiore di astrazione; lo scopo dei tipi ideali è quello di essere utilizzati come modelli con i quali illuminare e interpretare la realtà stessa.

La ricerca qualitativa non si preoccupa di spiegare i meccanismi causali che stanno alla base dei fenomeni sociali, cerca invece di descriverne le differenze interpretandole alla luce dei tipi ideali. All’opposto, il fine ultimo della ricerca quantitativa è proprio quello di individuare il meccanismo causale.

Un’ultima questione è quella della portata dei risultati. A questo proposito notiamo che la profondità dell’analisi e l’ampiezza della ricerca sono inversamente correlate, vale a dire che ad un maggior numero di casi esaminati corrisponde un minore approfondimento dei singoli casi. Data la maggiore quantità di casi necessariamente esaminati dalla ricerca quantitativa, risulta indubbiamente una maggiore generalizzabilità dei risultati rispetto a quelli della ricerca qualitativa.

STRUMENTI DELLA RICERCA

Le principali fonti documentarie della ricerca qualitativa sono: l’osservazione partecipante come strumento di rilevazione del dato sociale, e

mezzo per la completa immersione nel segmento di società studiata. L’intervista qualitativa: si pone l’obiettivo di rilevare i dati interrogando le

persone e cercando di vedere il mondo descritto attraverso gli occhi dell’intervistato. I documenti che producono gli uomini e le istituzioni: si intendono i materiali

informativi su un dato fenomeno sociale, che esistono indipendentemente dall’azione del ricercatore.

Fra le diverse tecniche approntate ed impiegate nella ricerca sociale qualitativa si segnalano:

storie di vita, ossia il racconto autobiografico centrato sui vissuti personali. Diverse possono essere le modalità di raccogliere le autobiografie, di utilizzare ed interpretare tali testimonianze.

Storie orali. In questo caso il ricorso a testimoni è motivato più dall’intenzione di raccogliere informazioni sulla società attraversata dal soggetto, che da quella di rilevare il suo vissuto personale.

L’approccio quantitativo alla ricerca sociale è assai più formalizzato di quello qualitativo rispetto alla procedura di rilevazione ed analisi dei dati, alla sequenza dei passi da compiere nell’itinerario della ricerca. Infatti le fonti più diffuse ed utilizzate nella ricerca quantitativa sono:

inchiesta campionaria, ossia raccolta di informazioni mediante interrogazioni. La tecnica delle scale, ossia l’insieme delle procedure messe a punto dalla ricerca

sociale per misurare l’uomo e la società. Fonti statistiche ufficiali, ossia una fonte ineguagliabile di conoscenza sociale

nonché materiale empirico della ricerca sociale.

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La ricerca sanitaria. – L’obiettivo della ricerca sanitaria è di rafforzare ed allargare le conoscenze attuali riguardanti l’assistenza, al fine di contribuire al miglioramento delle prestazioni. Essa inizia quando si vuole passare da un’assistenza semplice, basata su tecniche e su procedure normali, ad un’assistenza complessa, basata sulla capacità di prendere delle decisioni ponderate, partendo dalle informazioni possedute, dalle conoscenze del proprio lavoro e la capacità di un giudizio autonomo che presuppone doti di creatività e di iniziativa.

Oggetto di studio della ricerca sanitaria sono i problemi relativi alle varie professionalità, mentre nella ricerca sull’assistenza, oggetto di studio sono le attività di assistenza diretta nei diversi settori in cui si esplica.

Il ricercatore qualificato è colui che, in possesso di un dottorato, e dopo aver seguito un corso specifico, dirige e supervisiona la ricerca, dando istruzioni a coloro, per esempio, che raccolgono dati, ed è responsabile dell’elaborazione statistica dei dati e dei risultati illustrati definitivamente per iscritto.

E’ evidente che questo gruppo rappresenta una minoranza. Un secondo gruppo è composto da operatori sanitari che vivendo la realtà

operativa hanno la capacità di riconoscere alcuni problemi che meritano di divenire oggetto di ricerca: gli operatori di questo gruppo hanno una specifica preparazione e assistono i ricercatori nella realizzazione degli studi, come osservatori o intervistatori.

Il gruppo dei “consumatori” della ricerca è composto da tutti i professionisti che operano, perché sono coloro che possono applicare i risultati delle ricerche nella pratica quotidiana.

I metodi di raccolta-dati più usati sono: l’osservazione, l’intervista, il questionario, il test.

Il questionario, in particolare, è uno strumento metodologico di misurazione e analisi, costruito sulla base dell’ipotesi di ricerca e consente di raccogliere le informazioni sulle variabili qualitative e quantitative oggetto di indagine.

Bibliografia F.L. Carroll, Linee guida per le biblioteche scolastiche, Traduzione italiana a cura dell’AIB Commissione Nazionale Biblioteche scolastiche. Roma, Associazione italiana biblioteche, 1995

Casolo P.–Miani A.–Vetere C., 1991 L’infermiere professionale, Società editrice Universo, Roma

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INTEGRAZIONE E PEDAGOGIA SPECIALE

Premessa. E' necessario partire dalla stima dello studio del bisogno: dal momento che esiste il bisogno, si dovrà trovare una risposta. La prospettiva della integrazione parte da una forte spinta egualitaria, ma questo non può portarci a dire che tutti hanno bisogno solo di una educazione generalizzata.

L'educazione deve rispondere alle differenze, non più come omogenea e rispondente a strutture separate, ma capace di integrarsi nelle Pedagogia di tutti, cioè nella pedagogia generale, senza perdere le proprie specificità: dare risposte ai bisogni, proprio là dove si trovano e non raggruppati in categorie separate. La pedagogia speciale va ricercata in modo diverso tenendo però presente la prospettiva della integrazione, dovrà inoltre, affrontare le differenze che derivano dalle disabilità e dai deficit, a cui è possibile aggiungere altre differenze (di genere, di cultura, di provenienza,….) che non sono però da confondere tra loro e tanto meno da identificare.

La pedagogia speciale comunque non vuole rinunciare a dare risposte speciali, però non in contesti separati.

Questo cammino dimostra che anche la Pedagogia speciale entra nel contesto delle scienze e che è relativa ad un particolare contesto e ad un determinato tempo. Non vuole essere una scienza stabilita una volta per tutte, ma come scienza di ricerca.

Inevitabilmente, e necessariamente ogni intervento speciale e ogni intervento generale si intersecano costantemente.

Lo studio non può essere ridotto all'esperienza di un unico paese, ma allargato a dimensioni più vaste, come è ormai la dimensione di ogni scienza o esperienza degna di questo nome: la dimensione del nostro paese è ormai il mondo intero. (Le classi differenziali e le scuole speciali in Italia, in auge alcuni decenni fa, hanno creato nel nostro paese una cultura particole dell'handicap precisa e particolare).

La diversità alla quale guarda la pedagogia speciale è dunque quella comprensibile su un piano genetico-funzionale, come risultante di processi mentali, psicologici e/o comportamentali che, per la presenza di una condizione handicappante, hanno avuto una loro strutturazione che si è allontanata dalla normalità, cioè si è discostata dalle linee con le quali tali processi evolvono e si strutturano nel soggetto considerato normo-dotato".

La pedagogia speciale non può dunque limitarsi a porre attenzione all’handicap ufficialmente riconosciuto e “certificato”. Se questo è un atto dovuto, è pur vero che il suo compito è più esteso e delicato. Senza invadere il campo della psicoterapia, il suo compito sembra proprio quello di individuare le aree problematiche e le questioni che

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richiedono una interpretazione per mettere in atto un intervento speciale intendendo con questo termine un intervento non comune in attesa di diventare comune, ricorrente, e condiviso.

Sintesi. Formazione integrale della persona. Sia dell'operatore (insegnante, pedagogista, medico, psicologo….) sia dello scolaro, o dell'utente in un rapporto di reciproca crescita. Pedagogia della positività Motivazioni e aspettative sia della persona in situazione di handicap che dell'operatore: è necessario che la persona in situazione di handicap ha una sua dimensione globale e aspetti molteplici e non ha solamente la dimensione dell'handicap con cui spesso è invece identificato e che non è neppure la caratteristica principale.

Approccio sistemico. Per una continuità di intervento è fondamentale la sostenibilità (un sistema) delle operazioni, sia per conoscere l'evoluzione sia per un approccio di continuità: fare un progetto, verificare i cambiamenti……..

Informazione e flessibilità.

Le informazioni non passano spesso, molte volte a causa della mancanza di comunicazione tra gli operatori, ma anche per mancanza di flessibilità per comportamenti rigidi, che non dovrebbero invece rimanere sempre uguali.

I compiti della Pedagogia Speciale nella realtà odierna

Come abbiamo già in parte annunciato un compito importante della pedagogia speciale è quello di dare risposte specifiche a problemi particolari o, come dice Montuschi, non comuni. Nella prospettiva dell’integrazione tali risposte hanno bisogno di essere ampiamente ripensate e riformulate per poter essere maggiormente adatte alle necessità del singolo in rapporto al contesto e allo sviluppo, quindi, della sua interazione con il contesto. La specificità dei compiti attuali della pedagogia speciale derivano dal fatto che proprio la Pedagogia dell’integrazione ha sempre più sottolineato la multi causalità di una situazione di handicap. Affrontiamo in particolare la situazione di handicap, ossia gli svantaggi, cerchiamo di ridurre gli handicap e dobbiamo renderci conto che essi sono provocati non da una causa sola ma da più cause, e quindi esigono più risposte. La multicausalità si collega con la multimodalità: diversi modi per rispondere alle esigenze di un individuo.

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La pedagogia speciale è uno degli elementi componenti di un intreccio ampio di più aree disciplinari e l’apporto che può dare la Pedagogia Speciale è quello relativo alla riformulazione e all’individuazione di risposte in un contesto integrato che permetta la scomparsa dello strumento specifico. Questa forse è la peculiarità della pedagogia speciale moderna: l’affrontare problemi non comuni e desiderare di fare scomparire la “Specialità”; nello stesso tempo il volere, ed è questo il punto più paradossale, mantenere la propria specificità. Probabilmente chi è molto lontano dalle nostre tematiche può smettere di leggere, e forse siamo noi a non farci capire bene. Potrebbe dire: ma questi cosa vogliono? E in effetti la Pedagogia Speciale vuole esistere in quanto tale ma scomparire il più possibile nelle pratiche, riuscendo ad essere una risposta competente nei contesti ordinari.

Se questo modo di porre il tema può sembrare solo una originalità paradossale, è più semplice, però, rintracciarne la sua autenticità facendo riferimento alle necessità: necessità di risposta a problemi di comunicazione che non sono riducibili alla buona volontà. Esigono delle tecniche, esigono degli ausili, problemi di apprendimento, sia formalizzato che informale, di comportamenti sociali, problemi che riguardano la sfera dell’intimità, la sessualità, aspetti importanti che riguardano la differenza che può esservi tra le conoscenze che si avevano quando molti soggetti vivevano in istituzione chiusa e le nuove conoscenze che si devono raccogliere, negli stessi tipi di soggetti che vivono una realtà aperta. Si pensi, ad esempio, alla Sindrome di Down. La Sindrome di Down aveva delle caratteristiche molto legate al tipo di vita che veniva proposto, se si può dire così, o imposto, come forse è più giusto dire, ai soggetti. Ad esempio (esempio nell’esempio) l’invecchiamento: Qualche decennio fa non era neanche un problema perché non esisteva, o esisteva talmente raramente da non costituire un elemento di particolare studio e ricerca. Oggi, nel nostro mondo europeo, la presenza di persone adulte Down che raggiungono i sessanta anni è una realtà… ed esige nuove ricerche.

Dove vanno fatte queste ricerche? Vanno fatte nella realtà di vita delle persone, delle loro famiglie, nei luoghi di lavoro, protetto o non protetto, nei centri di socializzazione, nelle strutture, quindi, della vita sociale che hanno molte caratteristiche comuni a soggetti che non hanno la Sindrome di Down. Cambiano le esigenze di ricerca, cambiano i profili dei problemi da affrontare, devono cambiare certamente anche le risposte, ma non possono perdere quella specificità che deve essere peculiarità della pedagogia speciale; non possono riprendere, però, la separatezza. Specificità non equivale a separatezza. E’ per questo che riteniamo fondamentale ragionare sulle competenze che la Pedagogia Speciale ha il dovere di avere. Come ogni compito difficile, anche la pedagogia speciale può incontrare non pochi rischi.

IDENTITÀ, DIFFERENZA, DIVERSITÀ Una Pedagogia della complessità, com'è senza altro definibile la Pedagogia

speciale, non può esimersi dal far riferimento ad un pensiero complesso, in grado di non chiudere mai i concetti, di rompere gli schematismi, le simmetrie, di cogliere possibili articolazioni fra elementi apparentemente disgiunti, di “comprendere la multidimensionalità, di pensare con la singolarità, con la località, con la temporalità e di non dimenticare mai le totalità integratrici”….

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La pedagogia speciale, come pedagogia della complessità e della diversità finalizzata alla “riduzione dell'handicap”, individua ed elabora prospettive modelli conoscitivi che connotano e legittimano di senso il suo statuto epistemologico. L'emergenza del bisogno educativo speciale richiede conoscenze in molteplici settori del sapere, non escluse le pratiche legate alla quotidianità. …

L'attuale prospettiva epistemologica ha spostato l'attenzione dai procedimenti della generalizzazione al campo delle teorie e dei modelli, ai dispositivi di osservazione, alla esplicitazione di quadri metodologici che guidano la ricerca delle variabili sottoposte ad osservazione, fino alla relazione esistente tra queste ed il contesto in cui l'evento si realizza.

La complessità della pedagogia speciale scaturisce dal fatto che si tratta di una scienza i cui contorni non sono definiti una volta per tutte, in quanto vengono rielaborati nella incessante ricerca di possibili soluzioni, in cui la potenziata capacità di interpretare le situazioni di deficit e di handicap rappresenta il principio basilare della prospettiva dell'integrazione. Saper leggere le diversità significa infatti individuare le possibilità e le risorse per ricondurle a comuni territori di appartenenza. La pedagogia speciale si presenta come scienza di ricerca, per eccellenza scientifico-operativa, ove le conoscenze acquistano senso il valore poiché il loro significato è connesso alla logica dell'integrazione delle diversità. …

La pedagogia speciale si dimostra scienza che parte dall'analisi della finitezza plurale dell'esistente, dal carattere originale, irripetibile dell'identità personale del soggetto con “bisogni educativi speciali”, per rivalutare l'imprevisto fenomenico, inteso come esperienza del limite ma, soprattutto, come ricchezza conoscitiva. … Si tratta, quindi, di attivare processi di distinzione-differenziazione in teatri-sfondi interattivi, capaci di riconoscere e di legittimare la pluralità e la diversità di esseri unici, “speciali”, …Il raccontarsi, come capacità di accettare la propria identità nel confronto necessario con gli altri, presuppone sempre e comunque un riconoscimento, una narrazione elaborata in funzione di un destinatario, frutto di relazioni educative basate sulla reciprocità e sull'assenso di accoglienza e di appartenenza, che aiutano il soggetto “diverso” a cogliere il valore del suo “esserci nel mondo”.

La ricerca in pedagogia speciale ha bisogno di comprendere meglio i diversi, effettivi comportamenti di ogni essere in formazione, nessuno escluso, in una dimensione di riconoscimento reciproco a partire dal fatto che questa struttura non può essere data una volta per tutte … ma che riemerge ogni volta come situazione potenziale, modo di fare possibile in rapporto a una data situazione in un determinato momento: quel momento in cui può divenire possibile un incontro. Lo “specifico” epistemologico

Nell’incessante sforzo di pensare l'altro in termine di storie, la pedagogia speciale assume all'interno delle scienze dell'educazione il provocatorio ruolo di “coscienza anticipatrice ed orientante”, agendo sugli orizzonti della prossimità e della solidarietà, come costante ed intenzionale capacità di far dialogare memoria e futuro del soggetto “diverso”, al fine di riconoscerlo autentico protagonista del suo percorso di umana autorealizzazione. … Il rispetto della complessità delle tematiche del deficit e dell'handicap, prioritari oggetti di indagine della pedagogia speciale, esige la

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conoscenza dei paradigmi interpretativi e dei molteplici modelli, secondo cui tali diversità vengono percepite e recepite. … si tratta di adottare una pedagogia della diversità promozionale di ricerca e di scoperta, rispettosa della complessità dei problemi esistenti, in grado di attivare strategie di intervento educativo-didattico realmente motivanti ogni educando, … capace di bandire ogni dogmatica, stagnante paideia educativa, mediante l'utilizzazione di modelli di intervento che esaltano il valore dell'autonomia personale, …

La pedagogia speciale apporta un essenziale contributo per il suo consolidato metodo di ricerca-azione, di approccio positivo alla diversità mediante la fondamentale esigenza di valorizzazione dei potenziali di ciascun soggetto. Il campo di indagine della pedagogia speciale non si limita soltanto ad affrontare il problema del deficit

certificabile, che richiede interventi educativi e sociali del tutto particolari e l'attivazione di metodologie e di tecniche incentrate, soprattutto, su approcci rieducativo-riabilitativi, ma si allarga all'interpretazione delle esigenze formative per la persona alle radici della sua esistenza ed alla elaborazione di qualificate risposte. La diversità va interpretata come categoria storico-esistenziale valorizzante la vita di tutti gli esseri umani.

La principale finalità della pedagogia speciale consiste nella “riduzione dell’handicap”, ovvero nell'adeguata socializzazione del deficit e nella valorizzazione del potenziale educativo, dipendenti dalla capacità dei micro e dei macro contesti sociali di rispondere concretamente e significativamente alle esigenze partecipative del soggetto con deficit. Il problema centrale resta, comunque, quello educativo ed il compito specifico della nostra disciplina consiste nel rendere gli interventi educativi sempre più speciali, senza, tuttavia, cadere in logiche psicologistiche o medicalistiche. … Il rischio delle scienze recenti, operanti in situazioni-limite, speciali e quindi non codificabili in modelli precostituiti, è rappresentato dalla chiusura delle conoscenze in ambiti marginali o settoriali, autoreferenziali. La sfida, la provocazione della pedagogia speciale avviene nella lettura dei limiti possibili della realtà e delle risorse esistenti, allo scopo etico e storico-culturale di migliorare la qualità della vita del disabile, scoprendo nuovi orizzonti di possibilità in grado di consentire il superamento della visione in negativo della diversità.

Al confine per “trasgredire”

La pedagogia speciale è autentica disciplina di frontiera, di natura interdisciplinare, ... permette di scoprire marginalità ed emergenze, di cogliere articolazioni di significato altrimenti poco visibili o trascurate, ...

La funzione epistemologica della ragione critica [è] attenta non solo alle situazioni limite, ma [è] in grado di leggere le possibilità della realtà conoscibile nell'intento di scoprire e di attivare ogni azione capace di superare gli ostacoli posti dalla situazione contingente.

Se la categoria della differenza viene indagata dall'educazione generale, le diversità del deficit e dell'handicap rappresentano lo specifico oggetto di indagine della pedagogia speciale. ... La cura educativa non è cura sanitaria, né terapia, ma si risolve in un sistema in-fieri di regole comunicative, sociali, relazionali in grado di permettere ad un soggetto di divenire ciò che può. Di formarsi, appunto. ...

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La pedagogia speciale come pedagogia del prendersi cura ... La cura è una dimensione formativa insita nella pratica educativa ... Come relazione di aiuto racchiude, spesso, rischiosi elementi di ambiguità ma è rivolta funzionalmente alla progressiva emancipazione di ogni soggetto. L'attivazione di relazioni di aiuto competenti, non compensative o addirittura invadenti, autenticamente valorizzanti il potenziale umano, si fonda sulla capacità di collegare, nell'incontro educativo, individui diversi, con la loro particolare storia, generando nuove trame di significato esistenziale, in modo intenzionale e soprattutto, mantenendo viva la consapevolezza della contestualità della richiesta d'aiuto o di cura. La ricerca-azione in pedagogia speciale non è tanto sequenze, obiettivi, dispositivi tecnico-strumentali ma condizioni di fattibilità realizzabili nella quotidianità dell'esperienza educativo didattica.

IL VALORE DELLA DIFFERENZA, IL LIMITE DELLA DIVERSITÀ Il problema centrale messo in evidenza dalla discussione attorno ai temi

dell'interculturalità è quello della differenza. Il presupposto da cui partire per comprenderne appieno gli aspetti è quello di offrire un'adeguata distinzione sulle nozioni di “persona” e “individuo”. … Bisogna innanzitutto stabilire che l'essere umano è sostanzialmente soggetto e sede vivente di valori i quali non possono venire considerati strumentali, neppure per un altro essere umano. Proprio in ragione di ciò, l'uomo è persona, vale a dire valore in sé e di per sé, portatore di valori, in qualsiasi età e in qualsiasi stato psicofisico.

Il concetto di “persona” fa riferimento ad una realtà senza connotare tratti fisici o corporei, mentre il termine “individuo” fa riferimento a specifiche caratteristiche fisiche. Si può perciò dire che il concetto di persona è comprensivo del concetto di individuo. Scrive a tal proposito Maritain: “L'uomo è sì un animale ed un individuo, ma non come gli altri. L'uomo è un individuo che si guida da sé mediante l'intelligenza e la volontà; esiste non soltanto fisicamente, c'è in lui un esistere più ricco ed elevato, una sopraesistenza individuale nella conoscenza e nell'amore. E' così, in qualche modo, un tutto e non soltanto una parte, un universo a sé, un microcosmo in cui il grande universo può, tutt'intero, essere contenuto per mezzo della conoscenza; mediante l'amore può darsi liberamente ad altri esseri che sono per lui come altri se stesso, relazione questa di cui non è possibile trovare l'equivalente in tutto l'universo fisico”. Etimologicamente “differenza” deriva da dis-ferre, che significa “portare da una parte all'altra”, “portare oltre, in varie direzioni”, “portare qua e là”.

Proprio per la sua differenza, ogni persona deve poter realizzarsi ed espandersi in tutta la sua originale pienezza, affermandosi come “differente” non solo dagli altri ma anche da se stessa, dai propri limiti, dal proprio vissuto, dal proprio ambiente. Al fine di non deteriorarsi nel conformismo e nella ripetizione, deve coltivare le proprie doti, fare tesoro delle proprie esperienze, costruire rapporti interpersonali arricchenti, anche impegnarsi perché l'umanità tutta possa differenziarsi dal suo modo di essere attuale.

Il concetto di “diversità” (da dis-vertere, cioè volgere in opposta direzione) accentua quello di “differenza”. Esso richiama l'idea di dissomiglianza, di discostamento da una norma, da ciò che è più comune, diffuso, condiviso e che, nella sua accezione più negativa, può richiedere talora interventi compensatori.

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La diversità pertanto, ancor più della differenza, richiede riconoscimento e rispetto, piuttosto che ambigue forme di aiuto e di sostegno, che più o meno consapevolmente tendono all'assimilazione. …

Se riportiamo il discorso alla persona umana, definire “diverso” lo straniero, l'handicappato, l'anormale, è ricorrere ad una categorizzazione generica per indicare una particolare diversità etnica, culturale, fisica, facendo così torto alla sua natura unica ed irrepetibile. …

All'interno dell'antropologia personalista cui facciamo riferimento, non possiamo che esaltare la magnifica diversità dei simili. Ed il luogo in cui la similitudine sorprende e si trascende nel diverso lo si trova nella magnificenza di ciò che chiamiamo “anima”, “spirito”. Qui la differenza impera sulla ripetizione, qui il diverso sorprende e specifica in singolarità irrepetibili. “Non c'è possibilità di scambiare la propria anima”, scrisse a questo proposito Gilles Deleuze.

LA DIVERSITÀ È LA VERA OPPORTUNITÀ

Ogni evento umano è costruito sopra una linea ideale: quella del significato. Pietro Giordano parlando della ricerca di significato dice che la persona “nel presente, tende all’attuazione dei progetti individuali, calibrati secondo le attitudini personali, gli interessi, le aspirazioni, le qualità del carattere, mediandoli con i compiti diversi e apparentemente meno significativi che la vita ci propone nella quotidianità”.

Le opportunità, le “capabilities”, che esistono nella natura di ogni uomo, diventano più forti, ampie e mature proprio se la persona si trova ad affrontare il “limite”, la barriera. In questa prospettiva la diversità, la difficoltà, sono dei vantaggi e la disabilità può essere vista in un’ottica rovesciata. E’ importante non guardare al problema, non porre l’accento su ciò che risulta impossibile, ma accogliere il soggetto così com’è. Accoglienza e considerazione

Perché questo avvenga appare indispensabile che ognuno, venendo al mondo, abbia qualcuno che si prenda cura di lui, con cui costruire relazioni privilegiate e che lo aiuti nella scoperta dell’identità individuale.

La presenza di una realtà “diversa” può arricchire i quadri di riferimento e dare sfumature particolari all’immaginario e al reale.

L’intelligenza rende possibile la costruzione di categorie e classificazioni, ma, anche, il loro superamento; è uno sforzo che ognuno deve fare per giungere sempre più a considerare la particolarità e l’unicità di ciascuna realtà umana e individuale.

Accoglienza significa anche considerare ogni individuo come persona che deve essere salvaguardata nella dignità, che ha bisogni propri, primari e secondari, derivanti dalla storia soggettiva; è necessario perciò tener conto del modo in cui ognuno vive il tempo e lo spazio, perché queste sono le dimensioni essenziali in cui viene costruita la relazione con sé, con l’ambiente, con gli altri. Elaborazione e accettazione del “limite”

Certo, i limiti creano rifiuto, dolore, enorme frustrazione, grande fatica! Questo sperimentano i genitori quando nasce un figlio disabile.

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Ciò vale, anche se in maniera diversa, quando un figlio sano cambia: non ha più le capacità che aveva (a seguito di traumi, lesioni o malattie), ha nuovi limiti.

Non bisogna far finta di non vedere le oggettive limitazioni e i problemi del disabile.

A questo si collega la necessità di una diagnosi approfondita e una buona trasmissione di informazioni: è più facile aiutare il disabile, sia da parte dei genitori che degli operatori, se c’è una corretta conoscenza dei limiti e delle potenzialità.

Sarebbe importante che non solo i parenti e i tecnici fossero informati delle difficoltà e delle capacità del disabile ma che anche fossero date alla persona stessa delle spiegazioni semplici, delicate, ma, nel medesimo tempo, realistiche, sulle sue condizioni. Importanza dell’esperienza

Uno dei diritti e dei bisogni che vanno riconosciuti al disabile è quello di poter conoscere sempre più il mondo che lo circonda, di potersi sperimentare, per quanto possibile, in nuove realtà.

Bisogna riconoscere alle persone disabili il diritto all’esperienza, a occasioni che possono anche farle soffrire o renderle più consapevoli delle difficoltà. La realtà contingente può essere molto difficile, ristretta e povera di stimoli, ma l’immaginare, il fare piccoli progetti, il realizzare qualcosa che si è desiderato è sempre possibile e può essere d’aiuto, può dare un senso diverso del tempo, creare gioia e allegria. E’ importante che il diversamente abile possa immaginarsi in una storia, in un tempo, possa cercare il proprio ruolo; questo è l’unico modo corretto per farlo crescere, ma deve essere l’altro a cominciare a sognare e progettare “su lui”.

Anche il diversamente abile ha il diritto di diventare adulto e di costruire la propria storia. Il diritto di relazionarsi

Un altro diritto è quello della relazione affettiva; è importante imparare a distinguere tra il bisogno di affetto, di tenerezza, di riconoscimento e ciò che è, invece, pura ricerca di soddisfazione sessuale.

E’ possibile che si creino tra i disabili delle alleanze particolari, relazioni di amicizia e affettuosità; queste esperienze arricchiscono il mondo interiore delle persone e vanno accolte e accettate, fanno crescere, gratificano, corrispondono a bisogni importanti. Certo, nel campo delle relazioni affettive e sessuali, come in altri, è necessario anche dare delle regole, fare in modo che la vita personale abbia una sua armonia e non sia centrata solamente in una particolare forma di soddisfazione.

La sessualità è tuttavia un elemento fondamentale nella crescita e nell’acquisizione dell’identità personale; non è possibile svilupparla senza poter sperimentare sia i meccanismi dell’identificazione che quelli dell’opposizione. Identificarsi e competere con il padre e la madre, cioè con le figure primarie di riferimento del proprio e dell’altro sesso, è difficile proprio per il problema dell’handicap, che porta a sé e all’altro dolore e crea un rapporto, a volte, molto coinvolgente o, viceversa, lontano, magari assente. Così i disabili non imparano a

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“riconoscere” le modalità con cui possono competere, conquistare l’attenzione e cercar piacere.

A questo si collega qualcosa di maggiormente intimo e personale: il bisogno di rispetto, di salvaguardare i propri spazi: la privacy, il riconoscimento del pudore, dell’intimità; quando un disabile ha bisogno costante dell’altro o è ritenuto sempre un bambino, questi diritti essenziali, gli vengono frequentemente negati.

Il diritto di agire e proporsi

Un atteggiamento in cui il diversamente abile dovrebbe essere accettato e riconosciuto come persona attiva è la sua possibilità di opporsi; esercitare questa capacità lo può aiutare a sentirsi maggiormente sé stesso, a sviluppare la propria identità, a far valere necessità, desideri e gusti.

Bisognerebbe comprendere che un valido modo per riconoscere l’identità personale è accogliere e interpretare anche i comportamenti aggressivi e oppositivi.

Un altro bisogno importante, è quello di sviluppare il più possibile l’autonomia. Tuttavia, per divenire autonomi è necessario conoscere realtà diverse sia riguardo al mondo, sia riguardo a sé.

Il confronto, la consapevolezza, sono a volte faticosi, dolorosi. Ma il diversamente abile ha diritto di sperimentarsi anche in situazioni non protette, rischiose, di provare a sopportare attivamente la sofferenza. Così imparerà ad affrontare gli ostacoli, a sopportare le frustrazioni, a sentirsi, a volte, rifiutato.

Un’altra necessità che la nostra cultura riconosce poco alle persone diversamente abili è quella di rivestire un ruolo attivo.

Molte volte, proprio perché sono messe al primo posto le difficoltà e non le capacità, le azioni lavorative che il diversamente abile deve svolgere, e che sono state scelte e imposte dagli altri, risultano sterili e ripetitive, non hanno un valore in sé, né uno sbocco produttivo.

Bisognerebbe che al disabile fossero garantite alcune soluzioni perché i timori del futuro, della solitudine, della necessità di aiuto (che aumenta con l’età), possano essere neutralizzati; così sarebbe più facile immaginare e costruire un avvenire.

Il problema dell'integrazione. La lettura dell'integrazione deriva dalla percezione che ognuno di noi possiede, ed è opportuno leggere la situazione partendo dalla sofferenza di coloro che, handicappati, vivono in una situazione di isolamento: la sofferenza di un handicappato che si trova a confrontarsi nella scuola o in altri ambienti sociali con coloro che non lo sono; la sofferenza di coloro che, non handicappati, vivono accanto ad un handicappato. Esistono molto rilevazioni su handicappati che soffrono in una situazione di isolamento scolastico. Spesso però il problema è vissuto in maniera differente e individuale secondo il modo in cui la scuola lo presenta e lo vive, cioè secondo la cognizione cognitiva della scuola stessa, ma anche il modo in cui è presentato e viene introdotto nella singola scuola.

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L'assistenzialismo dalla sua parte rischia di ridurre e anche di vanificare l'esperienza a scuola della integrazione. Innanzitutto non si può parlare di integrazione in senso generale, quasi fosse un dettato scientifico, o un problema filosofico, ma è da tener in considerazione come il problema di quella bambina o di quel bambino particolare, su cui prendere delle decisioni e assumere delle responsabilità.

Non può esistere la considerazione teorica di un problema del genere, ma come noi siamo coinvolti direttamente o meno, e quale deve essere l'esperienza in cui veniamo trasformati e determinati. L'esperienza personale e soggettiva entra a far parte e in modo determinante della realtà.

Sono quindi da valutare attentamente sia l'eccesso di zelo protezionistico sia la collocazione di abbandono in una situazione ordinaria.

Gravi e gravissimi per chi l’integrazione? La chiave di lettura pedagogica insegna che la situazione di gravità è un concetto

sistemico, dipendente dall’intersezione di una molteplicità di fattori personali, relazionali e contestuali, quindi non unicamente insediata nel soggetto: è certamente riferibile all’entità della compromissione, all’età, alla capacità comunicativa da parte del soggetto disabile, al grado di motivazione all’apprendere (…); ma anche alla qualità e alla quantità, al grado di integrazione dei sostegni personali, familiari e sociali e dei servizi messi a disposizione dall’ambiente, nonché alle aspettative di quest’ultimo.

Integrazione (e integralismo).

E' necessario arrivare ad una apertura positiva verso ogni evento, verso ogni situazione,anche verso quello che noi chiamiamo integralismo educativo, riabilitativo e questo ci aiuta a ridimensionare la percezione che noi abbiamo dell'handicap.

Integralismo significa pretesa di unità in tutto ciò che si presenta invece dissociato in ambiti differenti. Sono strutture integraliste quelle che vengono sotto il nome di istituzioni totali (v. Caserme, ospedali, scuole, manicomi,….) perché sono riservate ad alcune categorie e non possono entrare altre persone se non le "addette ai lavori".

Razzismo è la volontà di percepire una razza o un aspetto di una razza come fondamentale superiorità rispetto ad un'altra.

Fondamentalismo: tutti hanno bisogno di fondamenta, ma diviene negativo se si pretende fare di un fondamento la base portante per tutti.

E' necessario uscire fuori da ogni aspetto integralista o fondamentalista. Per esempio è inaccettabile la universalizzazione della ragione utilitaristica individuale ed è una delle difficoltà per la integrazione in ambiente comune delle persone in situazione di handicap.

L'eliminazione o la diminuzione del valore culturale dell'integrazione significa aumento quasi inevitabile dell'handicap, mentre la riduzione dell'handicap significa dare un grande apporto ad una cultura che deve avere fondamenti simbolici importanti: è necessario mantenere la carica etica di una scelta che va al di là dell'operazione tecnica sulle teorie del deficit.

Ridurre l'handicap significa permettere un' organizzazione flessibile dei sostegni, che permettono una pluralità di riferimenti e di aiuti. Tutta la società dovrà essere

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coinvolta perché possa essere prevista una pluralità di sostegni con vari moduli. La modulazione dei sostegni è necessaria per permettere alla persona in situazione di handicap la necessaria continua evoluzione, con un conseguente cambio di sostegni secondo le origini i tempi e gli spazi attraverso i quali la persona in difficoltà si trasforma.

Le risposte totali o totalizzanti infatti sono sempre pericolose perché non interessano tutti, ma solamente un numero limitato, e rischiano di chiudere ogni possibilità di intervento ulteriore. In genere nelle istituzioni totalizzanti la risposta è sempre monolitica, mentre la realtà è sempre molto articolata, e quindi le risposte flessibili maggiormente aderente alla alle esigenze di una vita che è evoluzione.

Ridurre l'handicap è quindi possibile anche mettendo in atto una continua ricerca delle risposte e scegliendo sostegni che siano rispettosi della pluralità. Per questo riteniamo sia più giusto non tanto parlare di sostegno all'handicap, ma di sostegni al plurale, o meglio di una pluralità di sostegni modulabili. Gli aiuti non vanno decisi una volta per tutti, ma vanno articolati secondo le epoche, le stagioni dell'esistenza, anche perché l'handicap è composto di vari fattori, non riconducibili tutti ad un' unità.

Si può parlare di sostegno di accompagnamento, che possa essere dare un aiuto per affrontare una difficoltà insieme ad altri, ed è giusto limitare l'aiuto al momento della autonomia dell'altro.

Si può parlare di sostegno di contro risposta per dare la possibilità di raggiungere un oggetto posto fuori della portata fisica della persona in situazione di handicap. Questa risposta può essere attuata con sostegni umani o con sostegni ausiliari (strumenti).

Sostegno di mano anonima: la situazione occasionale di una persona che si trova "per caso" a prestare aiuto ad una persona in difficoltà. A volte può essere particolarmente difficile perché la non conoscenza crea diffidenza.

Reciprocità. E' forse la proposta più difficile e si può cadere facilmente nell'artificiosità: dare

un aiuto in modo tale da poterlo anche ricevere. E' questa una indicazione educativa importante non solo in vista di una crescita, ma anche per una educazione permanente sia dell'insegnante che degli allievi.

Sostegno di confine. Si intende la possibilità di creare un rapporto attraverso la molteplicità di

strumenti e di persone, però avendone uno privilegiato a cui ricorrere nei momenti di particolare difficoltà. Può apparire un rapporto ambiguo perché spesso non si comprende quali siano i limiti entro i quali è necessario rimanere, forse sarebbe necessario pensare ad un limite a cui fare ritorno dopo essersi allontanati.

Sostegno di sfondo. C'è la necessità di una struttura di riferimento per la connessione ad una pluralità

di azioni: la realtà comprende sia elementi materiali che culturali e simbolici. Sarà necessario chiedersi:

Quale sostegno a livello professionale si ritiene necessario per il nostro intervento di operatori? Quale intervento a livello personale? Quale sfondo sarebbe necessario per la vita di una persona in situazione di handicap? E di quella situazione particolare di

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handicap? E di quella persona in particolare? Quale sostegno per la vita di un gruppo, o di una classe di scuola?

Quali sono gli oggetti che fanno da sfondo integrativo? (Il bosco, il fiume, gli animali, la strada, il traffico, il parco, il giardino, l'appartamento……)

Ogni oggetto può avere differenti consistenze simboliche, proiettive, evocative. Altri invece preferiscono prendere come sostegno di fondo la istituzione:

come spazio di incontro, come funzione protettiva, come funzione di maternage, come funzione di spazio potenziale o di transizione…….Comunque ogni aiuto dovrà essere una risposta ai bisogni, ed essere consapevoli che solamente la pluralità dei sostegni può ridurre l'handicap.

Educarsi nel rapporto con l'alterità.

Chi è l'altro, e qual' è stato il nostro rapporto con l'altro, chiunque e qualunque cosa sia.

L'altro come storia, quando nel confronto non ci viene restituita l'immagine speculare che abbiamo di noi stessi: le nostre categorie, le nostre certezze, che sarebbero poi le nostre affezioni, le nostre idee e i nostri modelli. L'altro abita dentro di noi, l'altro ci obbliga a verificare i valori con cui ci confrontiamo, ci fa scoprire i desideri senza volto che abbiamo nel nostro intimo, la voce della speranza e dei nostri ricordi lontani, e sono tutte componenti di una storia diversa rispetto a quella che ci appartiene.

L'altro come irruzione o invasione, quando non è possibile sottrarsi ad una presenza da cui non è possibile sfuggire senza conservare la traccia della presenza o della diserzione. Non potersi sottrarre alla responsabilità è mancanza di libertà.

Il collasso educativo. La famiglia no è più punto di riferimento, ma lo sono divenuti i bar, i mass media, il gruppo di amici, il supermercato, o il campo di calcio, che sono ormai i luoghi dell'aggregazione. La scuola non è più luogo di aggregazione, a cui riferirsi per avere aiuto o comprensione (v. gioco della relazione dove erano stati messi come punto di riferimento la famiglia, il luogo di lavoro, il luogo di divertimento, e la scuola. Ma alla scuola quasi nessuno si è rivolto per qualche problema). Il collasso educativo lo si individua in ciò che si chiama deprivazione esperienziale, cioè "quando l'individuo non è più radicato in una tradizione o in una esperienza viva. L'individuo esperimenta la frattura della continuità del sapere sapienziale" .

Identità e stereotipia. Idem, cioè sempre uguale a se stesso Στερεο, cioè duro, solido, fisso Τυποσ, cioè immagine, segno.

1. Identità plurale (o flessibile). Composizione di elementi mai rigidi e sempre aperti a riceverne altri, e a trasformare gli esistenti. E' ben diverso trattare la sindrome di Down e occuparsi invece di singole persone che sono colpite dall sindrome di Down: non tutte le persone cha hanno questa sindrome hanno le stesse caratteristiche, e le caratteristiche specifiche possono essere ridimensionate con l'aiuto, o la semplice presenza delle caratteristiche personali.

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2. Stereotipo. Non sempre è una dimensione negativa, ma a volte può essere utile per superare certi atteggiamenti, però non può essere un elemento costante, sino a farlo divenire l'elemento determinante di una personalità, o addirittura un assoluto. Il tema dell'assoluto è veramente un elemento presente nella nostra cultura, e viene normalmente usato nella quotidianità, ma viene rifiutato dalla scienza: un assoluto nella scienza inevitabilmente chiude tutto e non permette nessuna evoluzione. Gli stereotipi, o assoluti, sempre approssimazioni che non nascono dalla realtà, anche se influiscono sulla realtà. La scienza, e quindi anche la scienza della pedagogia speciale è un continuo superamento dei limiti che sembrano o sono presentati come assoluti.

3. La personalità si trasforma nella relazione, non è tanto l'aiuto, ma la relazione che

può cambiare e trasformare le capacità o i comportamenti. Tuttavia i cambiamenti si ottengono nella misura in cui avvengono nella reciprocità sia di colui che riceve l'aiuto e di colui che lo offre.

4. Ipertrofia identitaria. Spesso si rischia di costruire una categoria e proporla con le stesse caratteristiche di una etnia Non è vero che tutta la popolazione del mondo affetta dalla sindrome di Down sia di una stessa valenza culturale, intellettuale o affettiva, soprattutto per ciò che concerne le caratteristiche personali, si può parlare di analogie, ma non è mai da vivere come una realtà. Per questo motivo non vogliamo mai usare il termine "portatore di handicap", perché non è da identificare con il suo handicap e non esiste una "persona in situazione di handicap" uguale ad un'altra in situazione dello stesso handicap. Per lo stesso motivo non possiamo accettare di annullare in un'unica denominazione "persone in situazione di handicap" i maschi e le femmine, perché prima di tutto hanno caratteristiche maschili e femminili con cui è necessario mettersi in relazione. Proprio per lo stesso motivo non possiamo accettare di parlare di "mussulmani", di "cultura mussulmana" o "cristiana" perché è ben diverso un mussulmano del Marocco e un mussulmano dell'India o della Cina; proprio come è diverso un cristiano del Sud America e un cristiano della Danimarca o della Russia, e della Grecia. Abbiamo costruito identità assolute, che sono solo stereotipi innestati nei nostri rapporti etnici o di relazione con persone che hanno una situazione di handicap, che abbiamo purtroppo tutti identificati in un'unica categoria, escludendo le proprietà e le caratteristiche particolari di ognuno e del singolo gruppo.

L'identità è invece ricca di commistioni, di invasioni culturali e di contaminazioni. Spesso ci facciamo guerra in nome delle identità fisse, e allora ogni presenza dell'altro viene considerata sempre come una invasione, e come una minaccia contro la nostra persona e la nostra identità culturale. L'altro diviene così una minaccia contro noi stessi, e ogni persona estranea è vissuta come un inquinamento. Tutto questo ci porta ad una duplice soluzione: a. E' bene che ognuno rimanga quello che è e come la natura l'ha fatto, escludendo

ogni intervento di miglioramento ("l'identità è quello che uno possiede") e fare in modo che rimanga sempre uguale a se stesso.

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b. E' invece più opportuno impegnare tutto ciò che è possibile, mettere in atto ogni tecnica per cancellare ogni elemento di differenza, ogni disabilità e portare l'individuo conforme ad una immagine normativa, per lo meno ad una immagine accettata dalla maggioranza. In questo modo non si opera per realizzare se stessi, ma per conformare l'immagine fisa che abbiamo in un modello precostruito.

L'identità che coincide con l'elemento biologico (per handicap, per etnia, per cultura……)rappresenta una vera e propria trappola. Il pretesto di una identità da salvare può divenire un fatto drammatico perché opera su un fatto che non era previsto, e potrebbe anche sfociare in una tragedia perché si realizza in una affermazione assoluta: "IO mi affermo, negandoti".

La tecnica

Per superare il deficit fortunatamente sono state scoperte e attivate molte tecniche che hanno potuto ridimensionare e diminuire il deficit, e hanno trasformato il deficit in una potenzialità. Tutte le tecniche possibili vanno utilizzate per diminuire o, se fosse possibile, annullare il deficit. Senza assolutizzare la tecnica e senza farne il testo di riferimento per valutare la persona ("Non apprende una tecnica….., e quindi è grave!"). E se ci fosse un'altra tecnica? Se si potesse potenziare la tecnica? La tecnica quindi, pur essendo utilissima, può divenire un nuovo pregiudizio, a cui dobbiamo fare attenzione. E' necessario inoltre capire che la tecnica non può significare necessariamente un condizionamento per il nostro intervento, cioè non può essere usata come risoluzione per qualunque difficoltà. Una cosa è infatti l'intervento per un cieco, un'altra è per un debole mentale: c'è un limite che varia da individuo a individuo. Si tratta di accettare forse di mettere insieme diverse tecniche per creare sempre nuove possibilità. E' necessario avere l'apertura mentale verso un continuo superamento personale e anche tecnologico, disponibili a notare ogni trasformazione per adattare la relazione più opportuna e utilizzare gli strumenti adatti alla nuova situazione, e al nuovo reale. L'attenzione alla crescita di tutti componenti del gruppo (persone in situazione di handicap e non) dovrà essere il punto di riferimento per chi ha dei limiti come anche per chi non è in situazione di handicap.

L'attenzione si deve trasformare in una capacità di interpretazione del simbolo: il simbolo è la rappresentazione della realtà, e che quindi c'è un diverso modo di rappresentarla secondo le capacità individuali di elaborare il simbolo stesso. Il simbolo da interpretare può essere l'ironia, lo scherzo, l'opinione critica, la fragilità, che spesso non è nient'altro che una richiesta di aiuto, o anche l'animismo con cui la persona può rendere vivo il proprio vissuto.

Il rapporto tra identità e proposte educative può anche scivolare per costituire un assoluto, e quindi da ridimensionare, ma questo non significa esimerci dal dover conoscere tecniche e proposte educative nuove, ancor meglio da elaborare.

L'identità non può essere fermata ad un'unica dimensione, ma si realizza attraverso diverse dimensioni: 1. la dipendenza da un obiettivo (o oggetto) che spinge la persona ad adeguarsi, 2. la dipendenza dagli altri 3. la dipendenza da se stesso: capacità di assumere dati e critiche per poi organizzarli.

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E' necessario costruire l' identità della persona in situazione di difficoltà partendo

dalla concretezza e dalla singolarità e dal rapporto con il reale. Partendo invece da elaborazioni teoriche si creano dipendenze fisse e stereotipate, da cui è difficile liberarsi.

Ugualmente si creano stereotipi quando viene considerata la variante con altri solo in modo esclusivo, mentre le varianti creano identità più flessibili e capaci di costruire una memoria da parte del soggetto.

Strumenti di intervento.

La memoria. Costruire la memoria è uno strumento fondamentale per non "cominciare sempre

da capo", non è possibile intervenire come se tutto iniziasse dal nostro intervento: altri hanno lavorato prima di noi, altri sono entrati in relazione, altri hanno usato strumenti, che non possiamo ignorare sia per la persona in difficoltà sia per coloro che intervengono a dare un aiuto a livello professionale.

La memoria può essere realizzata attraverso una organizzazione (i miracoli sono rari!) di appunti, cassette, documentazione varia, schede, oggetti di riferimento, quaderni di appunti,…. Che servono a mantenere fissa la memoria e a facilitare le conoscenze. La costuzione di un proprio "Dossier personale" sarà fondamentale per realizzare una memoria e una documentazione del proprio percorso formativo, una esperienza che sarà utilissima per il lavoro futuro nella propria professione.

La memoria è autentica quando risulta trasmissibile, mentre rischia di essere solamente falsa quando è compresa solo da chi l' ha elaborata.

La memoria giunge ad aumentare l'autonomia attraverso gli oggetti con cui vengono trasmesse le conoscenze: la dipendenza da chi insegna infatti è continua e costante, e se il legame con il maestro è la base di un buon apprendimento, non deve però distruggere l'autonomia del discente, che deve saper mettersi in relazione con le altre componenti. L'insegnante non dovrà essere il protagonista, ma il regista che sa utilizzare tutte le proposte educative. La proposta educativa dovrà tener presente la gestione dei limiti, che dovranno essere considerati una necessità, in modo da non subirli, né negarli, ma convivere con essi e superarli.

Il contesto e l'individuazione degli ostacoli.. Non è possibile vivere alla giornata prendendo in considerazione gli ostacoli

solamente al momento in cui si incontrano per cercare così protezione in quel preciso momento o dare protezione se siamo deputati a questo compito.

E' necessario tenere in considerazione la dimensione tempo, che per una persona in situazione di handicap è inevitabilmente ridotto, anche se proprio per la sua situazione è portato a pretendere subito e il più possibile, e non accetta invece di avere un cammino da percorrere che a volte è faticoso e quasi senza fine.

La riabilitazione, o la diminuzione dell'handicap ha tempi lunghi, ed è necessario portarli a conoscenza della persona in situazione di handicap come anche dell'operatore che ha il compito di intervenire: conoscere l'handicap, il deficit e il percorso della

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riabilitazione. Per affrontare il problema delle barriere (architettoniche o di pregiudizi) non può essere solo un impegno meccanico o di conoscenza, ma anche di tipo culturale, è necessario cioè comprendere la dimensione culturale delle barriere; a volte non possono essere subito abbattute perché possono far parte di uno sfondo culturale o storico che deve essere ripensato e ricostruito in maniera diversa, ma non totalmente negato.

La relazione di aiuto. E' fondamentale per tutti in funzione di poter vivere bene, anche se può essere

considerata la dominante di ogni relazione, soprattutto per le persone che si trovano in situazione di handicap. La relazione di aiuto dovrebbe essere transitoria per lasciar spazio all'autonomia, e la diminuzione della relazione d'aiuto potrebbe significare riduzione dell'handicap, e questo potrebbe essere chiamato l'evoluzione dell'aiuto. Si tratta di riflettere sulla relazione di aiuto in modo da far evolvere l'aiuto. E questo significa toccare il tema delle responsabilità, che è uno dei punti di forza per la costruzione dei valori simbolici senza i quali gli apprendimenti rischiano di essere solamente di tipo meccanico e quindi senza possibilità di trasferimento.

Responsabilità significa appartenenza (ad una struttura, ad un territorio, ad una storia, ad un tempo,…) e la responsabilità non può essere individuata solamente in vista dell'autonomia, ma l'altro diventa fondamentale quanto l'io per realizzare una crescita matura. L'autonomia è sempre in funzione di una relazione, e quindi di un rapporto.

Il tempo e lo spazio. Integrazione significa anche darsi del tempo e dare del tempo a colui che deve

evolvere: tempo per scoprire le risorse che una persona in situazione di handicap ha in se stesso, ma che deve usare per realizzare un rapporto più consono con l'ambiente e la comunità che ha attorno.

E' necessario riflettere sulla relazione di aiuto perché possa evolvere l'aiuto stesso. L'aiuto che viene dato in un determinato periodo o in un determinato contesto non può

rimanere uguale per sempre e uguale per ogni situazione. E' necessario che l'aiuto sia adatto alla situazione, ma tentando che non sia un apparato solamente per la persona in difficoltà, ma che si pone come un servizio adatto per tutti, altrimenti vorrebbe dire una maggiore manifestazione della emarginazione.

Si tratta di realizzare la modifica dei contesti. E' infatti importante tener presente il contesto generale: personalizzazione e ampliamento generale non sono tra loro in contrasto, anzi devono evolvere insieme. E' necessario tener presente l'aiuto specifico, ma in funzione dell'obbiettivo principale, che per la scuola è certamente l'alunno e non l'insegnante e per la struttura sanitaria è certamente l'ammalato e non il medico.

Avere tempo per pensare e per riflettere. La pretesa di avere risposte e soluzioni immediate è deleteria perché non si ha il tempo e lo spazio per prendere coscienza della realtà nel modo appropriato e più confacente ad una persona in difficoltà.

Ammettere l'originalità.

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E' stato più volte ripetuto "l'individuo non può essere identificato con il suo deficit", però il riconoscimento del deficit porta anche a constatare l'originalità in cui operare per la riduzione dell'handicap. Per fare questo è necessario un dialogo e quindi uno scambio autentico, cioè privo di interferenze. Le interferenze nella relazione sono sempre all'ordine del giorno: . accelerare i tempi (fare fretta a raggiungere un obiettivo) . imporre azioni per trasmettere un addestramento (sollevare una persona in

situazione di handicap, piuttosto che attendere perché faccia da solo un gradino). Per un'autentica relazione d’aiuto è necessario capire bene la differenza tra un

aiuto e una interferenza questa attenzione è uno strumento fondamentale per ridurre l'handicap, o almeno per non aumentarlo. Tutto questo è possibile solo in uno scambio dialogico tra chi aiuta e chi invece è aiutato.

La persona in situazione di handicap, come tutti, ha inoltre la necessità di poter sbagliare e mantenere così rispetto di se stesso e degli altri. Inoltre è necessario sapere e far sapere la differenza tra errori fattibili ed errori irreversibili, cioè con conseguenze estreme. Gli errori non sono sempre insuccessi, ma possono essere ipotesi diverse per cui a volte diventano anche necessari per imparare a rimediarli: c'è evidentemente una grande differenza cadere in uno spazio privo di pericoli e cadere in mezzo ad una strada.

La necessità della documentazione

In sé il termine “documentazione” ha la possibilità passiva di essere utilizzato da chi vuole documentare e vuole documentarsi solo secondo le proprie aspirazioni e le proprie convinzioni. Vorremmo qui, invece, richiamare la documentazione come la necessità particolarmente importante per la Pedagogia Speciale e la sua area disciplinare, di vivere la documentazione come uno scambio multiplo e quindi, per questo, l’abbiamo riferita e raccordata anche alle molteplicità dei committenti. Questa pluralità di committenti è un elemento importante in rapporto alla documentazione. E’ difficile stabilire dei confini precisi o addirittura assoluti alla documentazione utile per la Pedagogia Speciale. Ed è difficile anche stabilire dei confini precisi all’apporto della Pedagogia Speciale. Questa seconda questione è meno labile perché vorremmo ricordare il significato di Pedagogia Speciale come apporto per bisogni non comuni, e quindi come una tematica con lo studio, riflessione, ricerca, riportata sempre al contatto con una popolazione che si può anche definire “speciale”. Questo contatto è importante. Noi potremmo pensare che la documentazione è il collegamento problematico continuo fra l’esperienza e ciò che è riportato dall’esperienza: la testimonianza, il diario di bordo, il racconto, la storia di vita, ma anche, oggi più di ieri, le immagini, la rappresentazione, e la documentazione formalizzata nella ricerca. E’ un collegamento, la documentazione, fra le pratiche, e l’elaborazione teoretica. Documentazione significa anche questo: evitare che una proposta, una ricerca, assumano un carattere neutro ed assoluto. Per questo riteniamo importante, riferendosi allo specifico di progetti e metodi riabilitativi, procedere a un’indagine che permetta di avere, il più possibile, elementi di conoscenza di carattere storico e metodologico. E per

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questo riteniamo utile proporre una scheda che abbia questa caratteristica. Di ogni proposta possiamo vagliare l’albero genealogico, la collocazione nel tempo e nello spazio, i bisogni a cui ha cercato di dare risposta, la possibilità di ampliamento per altre necessità e i collegamenti, oltre che le variabili. Importante è anche conoscere i punti deboli, i limiti, le controindicazioni. E’ possibile che non si riesca ad avere tutte queste conoscenze ma anche questo è un elemento di documentazione di conoscenza. Abbiamo bisogno, quindi, di procedere con una curiosità che permetta di evitare l’enfasi o il rigetto, il rifiuto di particolari indicazioni tecniche.

Scheda per le proposte riabilitative Ecco sinteticamente i punti importanti da prendere in esame un percorso riabilitativo. 1. Il quadro storico specifico. Cioè una precisa descrizione dell’origine di ogni metodo, del contesto in cui si è realizzato, in rapporto a quali soggetti ha avuto le prime prove pratiche, in quale realtà istituzionale; a quali precedenti si è ispirato, ed a quali precedenti storici può essere accostato; come è stato diffuso, o divulgato, in quali contesti. 2. La chiarezza delle controindicazioni. Sembrerebbe superfluo – e a volte non lo è – dire che un processo riabilitativo può dare esiti positivi per alcuni soggetti, nessun esito per altri, ed esito negativo per altri ancora. A parte il naturale ruolo che vi è sempre per l’imprevisto, è necessario avere una previsione la più possibile accertata. 3. La capacità di integrazioni congruenti. Vale a dire, la possibilità che vi sia un processo di integrazione fra le attività riabilitative e le altre attività del soggetto, e che di conseguenza possa delinearsi un progetto esistenziale che non coincida esclusivamente e totalmente con il percorso della tecnica riabilitativa. Questo punto può essere espresso anche attraverso due indicazioni: a. dal punto di vista dell’educazione, è fondamentale evitare che la vitalità venga risucchiata dall’invalidità e dalla situazione di handicap: bisogna evitare che la vita diventi l’ombra della difficoltà; ovvero: che diventi esclusivamente riabilitazione. b. La centralità dell’individuo non deve essere resa periferica da una presunta centralità della situazione di handicap. Tutto questo si riassume nella possibilità di integrazioni congruenti. 4. La chiarezza circa gli errori compatibili e la conseguente rielaborazione del percorso riabilitativo. Questo punto indica la necessità che vi sia un margine esplicitato di tolleranza all’errore, per evitare che il presupposto di un modello riabilitativo idealmente perfetto colpevolizzi oltre misura il soggetto stesso che opera.

Indicatori per la riduzione dell'handicap. E' fondamentale avere differenti punti di vista per constatare la riduzione dell'handicap: 1. accessibilità a tutti i servizi per la persona in difficoltà, 2. accoglienza 3. evoluzione delle rappresentazioni sociali 4. differenti modelli di realizzazione 5. garanzia di aiuti tecnici

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6. monitoraggio delle situazioni Queste indicazioni compongono il pacchetto di riduzione dell'handicap basato non sulle situazioni individuali, ma sulla rete istituzionale. Lo sforzo individuale non può essere lasciato a sé, ma le istituzioni devono essere sollecitate perché garantiscono una risposta adeguata, le garanzie vengono da una rete che permette di capire chi fa, cosa fa e come fa.

Tutto questo deve portare ad una rete di strutture che permetta una risposta per tutto l'arco della vita della persona in situazione di handicap, che abbiamo quindi una funzione permanente, che evidentemente solamente le istituzioni possono assicurare. "Quasi come una colomba che vola leggera nell'aria e immagina di volare meglio

senza l'attrito dell'aria, e preferisce il vuoto. Ma l'aria proprio perché fa attrito le

permette di volare. Così è l'istituzione per la vita della comunità umana" (Kant)

NOTE BIBLIOGRAFICHE

M.GELATI, Pedagogia Speciale problemi e prospettive, Corso Edit., Ferrara 1996 F.MONTUSCHI, Fare ed essere. Il prezzo della gratuità nell'educazione, Cittadella, Assisi, 1997

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METODI DIAGNOSTICI E CLASSIFICAZIONE DEGLI HANDICAPS

Metodi diagnostici

Ai fini riabilitativi e pedagogici è imprescindibile che l’handicap del minorato venga evidenziato e definito quanto prima possibile. Di tale rilevamento precoce, l’asilo nido, ma più esattamente la scuola materna è il luogo migliore per una diagnosi adeguata.

Le conclusioni di tale diagnosi permettono non solo l’immediato intervento clinico-pedagogico, ma tra l’altro, di trasmettere all’insegnante della scuola elementare indicazioni utili per valutare le capacità del bambino e, quindi, di programmare le strategie di recupero che a questa scuola compete.

La diagnosi viene operata da un’équipe di specialisti, di cui fanno parte: il medico, lo psicologo, il fisioterapista, l’assistente sociale, il pedagogista, ecc.

Zavalloni sostiene che “dati diagnostici per qualificare un individuo derivano dell’informazione completa sulle sue condizioni di vita, dall’osservazione del medesimo nella condotta quotidiana, come pure dalla sperimentazione sulle sue attitudini personali”.

L’informazione

Sono strumenti di informazione l’anamnesi, il questionario, il colloquio ed altri. L’anamnesi consiste nella raccolta di dati informativi sulla famiglia, sull’habitat,

sulle condizioni di vita, sulla situazione ambientale dell’alunno (anamnesi familiare); e di dati sulla sua maturazione organica ed intellettivo-affettiva (anamnesi personale).

Il questionario può essere inteso come un’intervista fatta agli interessati per iscritto, esso è rivolto a quanti conoscono per lunga frequenza il soggetto minorato.

Il colloquio ha una parte basilare nell’ottenere dati informativi validi, richiede sensibilità, tatto, spirito di osservazione e spiccate capacità di intuizione.

L’osservazione

I metodi di osservazione di cui possono facilmente servirsi gli insegnanti si distinguono in empirici e sistematici.

L’osservazione empirica è la descrizione dei fenomeni condotta senza rigore scientifico, servendosi di annotazioni psicologiche e didattiche, autobiografie, cronache, registri, diari concernenti il caso allo studio. Essa richiede sensibilità e preparazione.

L’osservazione sistematica è condotta secondo criteri prestabiliti e si estende a tutti i fattori che incidono sul fenomeno osservato, per darne una descrizione completa ed esatta. L’alunno viene osservato in modo minuzioso, sistematico ed obiettivo per lungo tempo, in tutti i suoi comportamenti.

La sperimentazione

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Il procedimento della sperimentazione richiede l’azione concomitante di più specialisti. Essa si avvale di metodi e strumenti che consentono una valutazione accurata della personalità dell’handicappato. Tra gli strumenti, i reattivi mentali possono giungere ad una valutazione dei vari aspetti del soggetto: l’intelligenza, le attitudini, la volontà, le motivazioni, ecc. tuttavia va evidenziato che i tests mentali, preziosi strumenti di indagine in campo psicopatologico, non hanno mai valore assoluto; né il loro uso è indicato per gli insegnanti, “poiché sono difficili da interpretare e richiedono una conoscenza approfondita della psicologia del comportamento umano”.

I tests si suddividono in due gruppi: di intelligenza e della personalità. Tra i tests di intelligenza i più usati sono: il Terman-Stanford, il test grafico della

Goodenough (disegno dell’omino) e quello di Fay (disegno: una donna cammina e piove)

Il Terman-Stanford consente un accertamento individuale e preciso del livello mentale. Il test della Goodenough e quello di Fay sono utili alla determinazione dell’età mentale del soggetto.

Tra i tests della personalità quelli più in uso per il loro indiscusso valore sono il test di Rorschach, il Baum-test, il T.A.T. (Thematic Apperception test), le favole di Duss. Il test di Rorchach, universalmente applicato e fra i più efficaci, serve per lo studio della personalità, e viene condotto mediante l’interpretazione da parte del soggetto di una serie di macchie. Il Baum-test di Koch (disegno dell’albero) e il disegno della famiglia danno preziosi elementi rilevativi sul mondo del bambino, attraverso le proiezioni che vi si possono osservare e valutare con adeguati criteri psicologici. Il T.A.T. evidenzia il mondo relazionale del soggetto (i rapporti con i familiari, bisogni, interessi allo stato inconscio). Le favole di Duss sono favolette semplici, particolarmente adatte ai bambini, attraverso le quali si cerca di scoprire quale tipo di rapporto lega i piccoli ai genitori e gli eventuali conflitti ad esso connessi.

Tutti i tests sopraccennati sono proiettivi; sono cioè basati sul principio di presentare all’esaminando una situazione-stimolo, di fronte alla quale egli proietta i contenuti inconsci della sua personalità. Gli elementi ottenuti dalle diverse proiezioni sono rilevati, studiati ed elaborati per programmare le attività didattiche ed educative in relazione ai bisogni ed alle possibilità di recupero dei singoli alunni.

Classificazione

La classificazione dei vari handicaps da un punto di vista teorico è utile in quanto permette un primo inquadramento del problema, e la conoscenza delle diversità degli handicaps che ostacolano il soggetto minorato. Tuttavia Bellomo e Ribolzi invitano a non attenersi esclusivamente ad essa nell’attività educativa, poiché le sue schematizzazioni potrebbero far dimenticare che ci si trova di fronte a situazioni umane molto più complesse di quanto può risultare da una semplice classificazione.

Del medesimo avviso sono Filippini e Pangrazio, i quali affermano che spesso nelle situazioni di disadattamento, oltre alla causa grossolanamente palese, entrano in gioco fattori molto più complicati, di ordine emotivo, sociale, ecc.

Pertanto, le classificazioni non hanno un’importanza assoluta, servono a dare una prima conoscenza del problema.

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Questi due ultimi studiosi a fini meramente didattici danno una distinzione delle minorazioni dividendole in tre gruppi: minorazioni da cause prevalentemente fisiche, da cause prevalentemente psichiche, da cause prevalentemente sociali.

Primo gruppo: minorazioni dell’udito (sordità, sordastria, ipoacusia); minorazioni della vista (cecità, ambliopia, grave astigmatismo, ecc.); disturbi o disarmonie gravi dello sviluppo fisico (grave iposomia, gigantismo, endocrinopatie varie, ecc.); minorazioni motorie (mutilazioni, esiti di poliomielite, spasticità, miopatie, ecc.) e disturbi psicomotori (disturbi prottognosici, immaturità motorie, ecc.) disturbi delle funzioni locutorie (afasie, gravi balbuzie, ecc.); infermità somatiche di altro tipo (cardioreumatismi, vizi cardiaci congeniti gravi, tubercolosi, malattie debilitanti, ecc.).

Secondo gruppo: insufficienza mentale vera (frenastenie cerebropatiche, frenastenie bioptiche, frenastenia su base disendocrinia, mongolismo, ecc.); pseudo insufficienza mentale; disturbi o immaturità della personalità (immaturità affettiva, regressioni reattive, instabilità, disturbi nevrotici, strutture caratteropatiche, ecc.); malattie mentali vere e proprie (schizofrenia infantile, epilessia con manifestazioni psicopatologiche, ecc.).

Terzo gruppo: situazioni conseguenti a gravi carenze educative familiari; o ad ambiente sociale deviante; o ad assenza di un nucleo familiare o di una struttura sostitutiva adeguata.

Molto più analitico è il raggruppamento degli handicaps fatto da M. Agerholm, che l’autore distingue in nove categorie, come segue: 1) handicap locomotorio: riduzione della capacità di spostarsi; riduzione della mobilità posturale (relazione delle diverse parti del corpo tra loro); riduzione dell’abilità manuale; riduzione della resistenza allo sforzo. 2) handicap visivo: perdita totale della vista; diminuzione (non correggibile) della capacità visiva; riduzione del campo visivo; disturbi della percezione. 3) handicap dei mezzi di comunicazione: disturbi dell’udito; disturbi del linguaggio; disturbi della lettura; disturbi della scrittura. 4) handicap organico: disturbi dell’ingestione; disturbi dell’escrezione; orifizi artificiali; dipendenza vitale da macchine o apparecchi. 5) handicap intellettivo: ritardo mentale (congenito); ritardo mentale (acquisito); perdita di capacità acquisite; alterazione delle facoltà di apprendimento; disturbi della memoria; disturbi dell’orientamento nel tempo e nello spazio; disturbi della coscienza. 6) handicap emotivo: psicosi; nevrosi; disturbi del comportamento sociale; immaturità emotiva. 7) handicap invisibile: disturbi del metabolismo che richiedono un trattamento permanente (diabete, fibrosi cistica, ecc.); epilessia e altre perdite improvvise di coscienza; vulnerabilità particolare ad alcuni incidenti o traumi (disturbi dell’emostasi, fragilità ossea, propensione a ulcerazioni da compressione, ecc.); disturbi intermittenti e incapacità (emicranie, asma, vertigini, ecc.). 8) handicap di carattere repulsivo: deformità o difetto sgradevole alla vista di una parte del corpo; anomalie o affezioni dermatologiche e cicatrici antiestetiche; movimenti del corpo anomali (atetosi, tics, smorfie, ecc.); anomalie sgradevoli alla vista, all’udito, all’odorato degli altri. 9) handicap collegato alla senescenza: riduzione della plasticità; rallentamento delle funzioni fisiche e mentali; diminuzione delle capacità di recupero.

A.Canevaro definisce “intrinseci” gli handicaps elencati da Agerholm, per distinguerli da due altri tipi che egli definisce “esterni o secondari”; questi sono

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handicaps che derivano da altri originari, di cui il soggetto è portatore, e che sono causati da carenze di infrastrutture emendative o da errori o etichettamenti di tecnici e clinici preposti alla riabilitazione.

Non è fuori luogo accennare ai cosiddetti “bambini a rischio”, ancorché l’accezione di rischio sia ampia e generica. Si tratta di bambini che, nati da handicappati o drogati o con un parto difficile o che abbiano subito malattie e traumi; o ancora, di bambini ignorati nei loro bisogni, che pagano con la loro sofferenza interiore l’inconsapevolezza degli adulti, la loro crudeltà cosciente od inconscia, spesso mascherata da sistemi educativi perversi, comportamenti e iniziative dannose, falsamente finalizzate al loro bene, tutti questi bambini sono sospetti portatori di future anomalie, sembrano normali o tali risultano alle diagnosi, mentre sono portatori inconsapevoli di anomalie ereditarie o acquisite. Questi possibili handicappati vanno attentamente seguiti e sottoposti periodicamente agli accertamenti necessari, allo scopo di intervenire tempestivamente quando il male affiora onde evitarne il peggioramento.

IL BAMBINO HANDICAPPATO E LA FAMIGLIA

L’handicap e la persona

Consideriamo l’uomo nella completezza delle sue funzioni: è facile rilevare l’interdipendenza degli organi che mediante la reciproca interazione si sviluppano armonicamente, ciascuno come un a sé che cresce e si aziona per la e della funzione degli altri, e ciascuno fonte di sensazioni sue proprie che si commisurano e consistenziano delle sensazioni degli altri organi, costituendo così l’unità del sentimento corporeo come esperienza percepita dall’individualità stessa, fondamento e principio del sentimento di sé mediante cui l’individuo sente di distinguersi dal mondo e dagli altri come essere a sé stante.

E’ implicito che il sentimento di sé non è solo dell’uomo: ne è dotato ogni animale; nel quale diventa pensiero di sé e dell’altro nella misura specifica e particolare delle sue capacità psicologiche, che dalle funzioni organiche partono e di esse si contestano, sviluppandosi per il loro continuo apporto, ma altresì per un intrinseco intersecarsi, associarsi e comporsi in unificante identità individuale. Di qui la diversità delle specie animali, e all’interno di ciascuna specie, la diversità degli individui; nella quale ultima è evidente, influiscono la completezza del corpo e la particolare capacità funzionale degli organi.

In questo quadro è collocato anche l’uomo che ha una capacità estranea agli animali, quella creativa, nella quale la completezza del suo essere si focalizza, trasfigurando il sentimento e il pensiero di sé in autocoscienza, mediante cui l’individuo si fa soggetto creativo che trova nella consociazione con gli altri un modo più idoneo a progettare, creare e realizzare. L’autocoscienza è perciò l’unità creante del soggetto, e ciò per cui egli nella sua completezza è persona.

La persona, pertanto, è il soggetto creante, nel quale si focalizzano tutte le capacità dell’uomo in quanto afferenti dinamiche ed esperenziali dell’atto del creare; sì che in sé considerata, è un valore unico e irripetibile che brilla e si illumina di quella particolarità umana che è la creatività, la quale nella sua universalità specifica è dote di ogni uomo.

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E’ ovvio che se l’atto creante focalizza in sé tutte le capacità dell’individuo, una minorazione fisica o psichica incide sull’azione del creare, sui suoi contenuti, progetti, fasi operative; ma essa, se ne depaupera la consistenza esperienziale e realizzativa, non ne intacca l’essenza, né svilisce pertanto, il valore a sé della persona, solamente ne attenua il potenziale e la operatività concreta. L’handicappato, cioè è una persona nella quale uno stato di carenza fisica o psichica attenua o limita una direzione della sua creatività, ma non la annulla, brillando essa dentro di lui come la sua stessa consistenza specifica umana, e ponendosi siffattamente come fonte al possibile vicariante ai fini della migliore completezza del suo essere ed esistere.

Relatività dell’anomalia

Né solamente come soggetto creante l’handicappato è persona, identità del suo essere come valore a sé, ma anche rispetto alle sue stesse carenze.

Queste, infatti, se naturali e non acquisite comportano l’esistenza di un individuo le cui incompletezze o malformazioni non incidono sulla sua identità; tanto più che il sentimento di sé e la consistenza delle sue sensazioni organiche e delle sue esperienze meta organiche sono la filiazione normale e conseguente del suo stato reale; la sua crescita è relativa alla crescenza delle interazioni dei suoi organi, onde la sua persona e la sua personalità sono un unico irripetibile, e per la sua costituzione, completo.

Lo stato di anormalità, pertanto, non è un in sé naturale, essendo la natura di quell’individuo quella che è, ma si evidenzia nel confronto con gli altri e con le possibilità operative degli altri. E’ cioè un fatto sociale, un posticcio per l’handicappato che viene a gravare sulla sua esperienza trasformando spesso il suo sentimento di sé in una angosciosa coscienza delle minorazioni e dell’incapacità di fare quelle cose che gli altri possono fare. Angoscia che nasce dalle ambasce visibilmente manifestate dai familiari e successivamente dal rapporto diretto del portatore di handicap con l’ambiente nel quale, lo voglia o no, lui è tratto a vivere e a relazionarsi.

L’ambiente familiare

Sull’origine di tale angoscia è evidente la responsabilità dei familiari. Questi, infatti, non appena edotti delle carenze del figlio cadono in preda a stati d’animo e a comportamenti contrastanti, talora per ignoranza e pregiudizi, talaltra per delusione delle aspettative o per malcelato confronto con gli altri bambini e la creduta felicità dei loro genitori, o per la preoccupazione del futuro del loro sfortunato bambino, o per un errato senso di colpa, o per un frustrante sentimento di incapacità procreativa o di imprevidenza.

Sotto la tempesta di tali stati d’animo i genitori ora si abbandonano al fatalismo, ora diventano freneticamente ricercatori di diagnosi, di medici e di medicine, ora si affidano alla miracolistica o alle forze occulte, ora imprecano, ora fanno passare lunghi lassi di tempo nella trascuranza e nell’abulia. E intanto il bambino risente di tutti questi atteggiamenti, giunge a comprenderli e psicologicamente si deteriora più di quanto non comporti il suo male. A tutto questo si aggiunga il comportamento degli altri membri della famiglia: il fratellino impietoso che dall’inazione o dall’inceppamento operativo dell’altro, conclude con un sentimento di nullità e di impotenza del minorato e, di rimando, con una sopravvalutazione e un atteggiamento di supremazia del suo essere;

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la sorella premurosa, e appunto per questo frustrante per l’eccessività delle sue premure; i nonni affettuosi, ma in sordo rimbrotto di incapacità procreativa verso i genitori, ecc. Si creano così, situazioni che condizionano negativamente lo sviluppo e l’eventuale riabilitazione dello sfortunato bambino.

Cosa può fare la famiglia

Ma la famiglia, dunque, in che modo può aiutare il bambino portatore di handicap?

Anzitutto accettandolo per quello che è e può fare, senza piagnistei, sbigottimenti e complessi di colpa; ma anche senza illusioni e con un senso vigile del proprio intervento. Infatti, una diagnosi precoce può aiutare il bambino o con possibili protesi o con azioni educative di riabilitazione, a raggiungere un soddisfacente stato esistenziale o nella vicariazione di funzioni organiche che gli consentano una gestione della propria vita al possibile normale. In secondo luogo, consentendo al piccolo di azionare il suo corpo, di fare esperienze possibili, di non imbrigliarlo con le eccessive premure. In terzo luogo, sollecitandolo accortamente ad operare, sentire, a relazionarsi, ad essere attivamente presente nel contesto familiare e sociale.

A tale fine, è opportuno avviare il bambino all’esperienza scolastica, presso una scuola di cui si conoscono la attualità scientifica e la completezza socio-psico-pedagogica e medica. Quindi, il bambino non deve mancare dell’esperienza della scuola materna, e quindi dei vari gradi della scuola dell’obbligo.

Farà ciò che potrà, sotto la guida degli insegnanti specializzati, che ne avranno amorevole e scientifica cura. Dalla loro parte, i familiari cureranno di coordinarsi con l’insegnante per attuarne i consigli operativi quando il bambino rientra a casa.

Bibliografia L. Calonghi, Sussidi per la conoscenza degli alunni, Zurigo, Pas-verlag, 1963 A. Berge, Le psicoterapie, Firenze, La Nuova Italia, 1972 S. Mandolfo, Compendio di pedagogia speciale, CUECM, Catania ,1989

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L’autismo Noto anche come “psicosi infantile”, “autismo infantile precoce”, “schizofrenia

infantile” e simili, è una patologia caratterizzata da vari sintomi, non tutti sempre presenti nei singoli casi. Tra tali sintomi ricordiamo: comportamento di autosufficienza; isolamento sia nelle attività esteriori sia nei rapporti affettivi; assenza o povertà del linguaggio; tendenza a manierismo o a comportamenti ritualistici (quali, un anormale attaccamento a un determinato oggetto, o una pulsione a porre gli oggetti secondo linee rette o secondo altri schemi fissi), risposte anormali agli stimoli sensoriali; stranezza nei comportamenti e nelle attività; opposizione ai tentativi di modificare comportamenti stereotipi; isole di normale capacità mentale in un quadro di generale insufficienza.

Le cause della malattia sono ignote. I singoli casi sono talvolta di non facile diagnosi. Per alcuni la diagnosi di autismo può porsi solo se i sintomi insorgono entro il secondo anno di vita.

L’adolescente autistico Malgrado le ripetute dichiarazioni dei diritti degli handicappati e di quelli malati

tanto in campo mondiale che europeo e nazionale, gli adolescenti autisti sono respinti con una scusa o un’altra, dagli istituti di riabilitazione e cura, che alla lauta sovvenzione statale preferiscono piuttosto non accettarli, in effetti per inadeguatezza delle strutture o per impreparazione degli operatori. E’ ovvio che tale rifiuto mette in pericolo le famiglie interessate a causa dell’aggressività di alcuni soggetti, e pone una delicata questione sociale alla cui soluzione conviene dare un avvio al più presto, sia in senso giuridico che di metodologia terapeutica.

Il fatto è che delle cause dell’autismo a tutt’oggi non si sa propriamente nulla, anche perché talora il paziente soffre di altri mali, quali la schizofrenia e l’epilessia (grande o piccolo male). Pure di esso si conoscono gli effetti: rito di atti ripetitivi, mutismo totale, buona efficienza dell’udito, se-centrazione con auto isolamento e rifiuto dell’extrasoggettivo, perfezionismo fino alla esasperazione, ecc.

Dalla sistematica osservazione diagnostica si ha l’impressione che il fanciullo autistico anche quando opera con oggetti, conduca un soliloquio muto, di cui sono parte accorpata i suoi movimenti e l’utilizzo degli oggetti. La spiegazione di tale comportamento va trovata in un prolungamento dello stadio dell’adualità, caratteristico del neonato.

L’autista sente il mondo esterno come una continuazione del proprio essere organico, si che oggetti, persone, animali, gesti e atti altrui, e simili cadono inosservati nel suo mondo; ma non perché restino estranei ad esso, anzi perché con esso sono un’unica cosa, una normalità inattraente per difetto di consapevolezza e di rilevamento della diversità io-altro, dei contrasti, delle interazioni. Davvero, si appropria al caso il detto hegeliano: “Di notte tutte le vacche sono nere”. E in tale uniformità se-centrata, i

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suoni, le parole, i rumori, in genere tutto ciò che attraverso l’udito irrompe nell’unitarietà aduale del soggetto è rifiutato e respinto; il che spiega il mutismo e la subnormalità dell’autista, poiché l’autochiusura non gli consente di apprendere il linguaggio e quindi di articolare il pensiero in feed-back con esso (Vigotskji e Bruner).

Ora, di tale quadro clinico sono evoluzioni particolari le due tipologie degli adolescenti autistici, nei quali la crescenza fisica ha apportato, rispetto al bambino, uno sviluppo di organi, funzioni ed energie che a qualunque stimolo, propriocettivo (soggettivo) e esterocettivo (esterno), che generi disquilibrio fisiopsichico fa scattare i meccanismi di riequilibrazione e adattamento (Piaget), talora con un’aggressività che può avere due cause: schizofrenica o psicologica.

La schizofrenia caratterizza l’adolescente autistico nel quale persiste lo stato di adualità sopradetto, esaltato dallo sviluppo fisico e da una acuita sensibilità agli stimoli, vissuti come minaccia al proprio essere vitale e a cui il paziente reagisce con aggressività esasperata.

Altro, invece, è il caso dell’adolescente autistico che ha rotto il muro dell’adualità e si rende conto dell’esistenza a sé del mondo esterno e delle altre persone. In tale paziente, la coscienza e l’incapacità di coordinarsi con gli altri mediante un linguaggio (non appreso da bambino) generano stati di angoscia, soprattutto quando egli vuole esprimere bisogni o interessi particolari, ma comprende di non potere farsi capire per mancanza di mezzi di esternazione delle proprie intenzioni. In questi casi può reagire aggressivamente, ma non per schizofrenia, bensì per consapevolezza della propria incapacità o per l’incapacità altrui di offrirgli gli strumenti della sua espressione.

In genere tale aggressività esplode nell’ambito dell’ambiente in cui egli ha vissuto lo stadio di adualità, perché lo sente come una minaccia di regressione a quello stadio, dal quale a fatica si è distaccato e che rivive con frustrazione profonda ogniqualvolta le condizioni esterne glielo fanno ricordare o ripresentare; mentre in altro ambiente, nuovo alle sue esperienze, vario e più mobile, vive tranquillamente la sua vita, anche flessibilizzandosi a un utilizzo mirato e a un apprendimento graduale che lo aiutino nell’inter-relazione con gli altri. Ed è qui che nasce il problema sociale e metodologico della riabilitazione di tali soggetti. E’ ovvio che il loro recupero deve avvenire in strutture apposite, bene attrezzate e con operatori preparati alla bisogna, tenuto conto delle loro particolarità: udito normale, mutismo, un certo sviluppo intellettivo, necessità di un linguaggio per capire e farsi capire, di operare e farsi apprezzare, di socializzare ed evolversi.

Metodologicamente, le vie operative per il migliore recupero possibile di detti pazienti sono tre: la logoterapia, l’integrazione sociale e un impegno costante. Il tutto, ovviamente, secondo una gradualità flessibile e sapiente.

Sono premesse indispensabili al buon esito: la lontananza dei familiari (per i motivi detti sopra circa i pericoli di aggressività per paura di una regressione allo stadio dell’adualità); la serenità dell’ambiente e degli operatori; la diagnosi e la terapia da parte dello psichiatra di eventuali comportamenti irregolari che risalgano a dissociazione dell’io (K. Lewin) o a spinte abreative delle frustrazioni recenti o pregresse (psicoanalisi); da parte dello psicologo, l’interpretazione di esigenze nascoste dietro talune azioni anomale, e suggerimenti mirati alla gradualità delle conseguenze psichiche delle operazioni riabilitative (per es. nel campo delle ricompense indicate da

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Kozloff); il progressivo utilizzo di una pluralità di materiali tendente a far superare al soggetto il rito delle ripetitorie di certi atti.

Quanto alla logoterapia, che dev’essere condotta sotto la vigile sorveglianza dell’audiologo-otorinolaringoiatra, va tenuto presente che solitamente questi soggetti hanno talora manifestazioni foniche, che però non si articolano nella vocalizzazione. Tuttavia un primo avvio foniatrico deve essere preceduto da operazioni di musicoterapia e di esercizi sistematici per un preciso allenamento uditivo. Via via, anche seguendo ove necessiti il metodo comportamentista di Kozloff o il metodo verbo tonale di P. Guberina, il logopedista può iniziare il ragazzo all’apprendimento della vocalizzazione prima e dell’espressione fonica compiuta dopo. A tale insegnamento va accompagnato quello dell’espressione mediante gesto e via via mediante l’alfabeto segnico più confacente, ancorché questo metodo sia da più parti criticato.

L’integrazione sociale va fatta nella doppia direzione: del coordinamento consociale del ragazzo con gli altri mediante giochi collettivi, grupping, sporting, lavori in comune, ecc. e del rapporto normativo con gli operatori, con l’ambiente extrascolastico, tanto sociale che naturale, con animali domestici e simili. Visite a luoghi pubblici e presenza a feste sociali possono aiutare lo sviluppo della socialitarietà.

Infine, il giovane va tenuto costantemente impegnato, sia mediante le attività anzidette, sia mediante un utilizzo per faccende domestiche in azioni ordinali. L’utilizzo deve, però, essere sempre accompagnato da spiegazioni delle azioni da compiere, dei fini da raggiungere, e dell’apprezzamento degli atti compiuti. Opportuni accorgimenti e dinamiche di altro genere potranno corroborare quelle dette sopra e completarne l’efficacia.

Organizzazione del trattamento riabilitativo Trattamento in singolo: proposto in genere a paziente con bilancio comportamentale più compromesso, per tempi limitati e numero di sedute ridotto, finalizzato alla realizzazione dei pre-requisiti necessari all’inserimento nei gruppi oppure al passaggio della consegna del lavoro individuale ad operatori esterni alla dimissione del paziente. Trattamento in gruppo: ogni gruppo è costituito da 3/5 pazienti il più possibile omogenei per quadro funzionale. L’attività si svolge con cadenza bisettimanale con sedute di 2hr30 min. per ogni gruppo. L’equipe coinvolta è costituita da: •Un educatore professionale con funzione di coordinamento •Un educatore professionale •Uno psicologo •Un tecnico dedicato •Un’infermiera in organico al D.H. •Un medico fisiatra •Un neuropsichiatra infantile •Una logopedista •Un neuropsicologo •Un fisioterapista ed un terapista occupazionale

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Sindrome di Down

La sindrome di Down è caratterizzata da notevole variabilità nello sviluppo comunicativo e linguistico. Ci sembra opportuno sottolinearlo evidenziando che possono esistere situazioni eccezionalmente positive.

Basta conoscere una decina di bambini o adolescenti con sindrome di Down per verificare che le loro prestazioni linguistiche sono molto diverse. In letteratura sono descritti casi in cui individui con sindrome di Down hanno prestazioni linguistiche notevoli. In contrapposizione vi sono altri individui che producono solo frasi singole. Nella seconda infanzia e nell'adolescenza le prestazioni linguistiche sono caratterizzate da:

• permanere di carenze a livello fonologico (ancora a 10-12 anni o oltre può succedere che certe parole siano pronunciate in modo non corretto);

• un livello lessicale (quantità di parole utilizzate) inferiore rispetto alla propria età mentale, ma migliore rispetto al livello fonologico;

• carenze a livello sintattico, dato che la lunghezza e la complessità delle frasi tende ad essere minore rispetto a quella che ci si potrebbe aspettare dall'età mentale;

• discreto è comunque il livello pragmatico, dato che, in un modo o nell'altro, si fanno abbastanza capire.

La descrizione di cui sopra non deve comunque far pensare che vi sia una specie di arresto nello sviluppo linguistico. Di norma i progressi sono costanti, anche se lenti, almeno fino ai 16-18 anni. Per questo motivo sono opportune sedute logopediche anche nell'adolescenza.

Lo sviluppo sociale Nel profilo generale dell'individuo con sindrome di Down lo sviluppo

dell'intelligenza tende ad essere meno carente dello sviluppo linguistico. A livello generale possiamo dire che lo sviluppo sociale è di norma in pari o lievemente superiore rispetto a quello linguistico. Pensiamo ad un ragazzo con sindrome di Down di 18 anni.

Per una buona comprensione dello sviluppo sociale a partire dai sei anni non bisogna dimenticare che, anche se non in modo omogeneo, il bambino con sindrome di Down si sviluppa più lentamente. In altre parole il bambino di sei anni presenta molti comportamenti e abilità tipiche non di tale età, ma di due o tre anni prima. E la differenza permane o si accentua con il passare dell'età. Nello stereotipo del bambino con sindrome di Down vi è anche il fatto di essere socievole ed allegro.

Da una ricerca condotta da Hornby nel 1995 risulta che in genere i padri di bambini con sindrome di Down confermano tali caratteristiche anche nel periodo fra i 7 e gli 11 anni. Risultati interessanti vengono forniti anche da una ricerca condotta da

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Hodapp, Dykens,Hagerman, Schreiner, Lachiewicz, Leckman (1990), che ha confrontato bambini con sindrome di Down e con sindrome di Williams: i primi sono risultati complessivamente più sociali, ad esempio giocando e collaborando di più con gli altri bambini. Freeman e Kasari (1999) hanno studiato anche i rapporti di amicizia, trovando che la grande maggioranza dei bambini con sindrome di Down avevano almeno un amico.

Lo sviluppo sociale a partire dai 12 anni dipende ancor più dal contesto in cui il ragazzo o la ragazza sono inseriti. Nelle situazioni di integrazione scolastica, come avviene per la totalità (sono ben poche le eccezioni) degli adolescenti italiani con la sindrome di Down il contesto classe è cruciale e una influenza fondamentale è data dall'atteggiamento degli insegnanti. Come ha evidenziato Vianello (1990), i compagni sono spesso "specchio" degli atteggiamenti dei propri insegnanti.

Finita la scuola, dove vengono inseriti i giovani adulti con sindrome di Down? Restano in famiglia? Vanno in un laboratorio protetto (molte sono le dizioni utilizzate al proposito, ma con questa espressione ci si riferisce ad una realtà caratterizzata dalla presenza di varie persone in situazione di handicap e vari educatori presenti in una struttura finanziata soprattutto od esclusivamente da istituzioni pubbliche, in cui si svolgono attività "lavorative" scarsamente produttive, anche se utili dal punto di vista educativo)? Vengono inseriti in una comunità alloggio? Lavorano in una cooperativa? Sono inseriti in un contesto lavorativo (in una bottega artigianale o in una scuola come personale ausiliario o in una fabbrica) in cui non vi sono altre persone in situazione di handicap (o comunque in un numero estremamente ridotto)? Ogni inserimento condiziona in modo specifico lo sviluppo sociale. Secondo Vianello, 1990, si può ipotizzare che più l'inserimento si differenzia dalla scuola speciale o dal laboratorio protetto e minori tendono ad essere i rischi di comportamenti disadattivi e psicopatologici. Specificamente minori sono i rischi di depressione (mutismo o quasi, apatia, passività).

Lo sviluppo cognitivo

La sindrome comporta ritardo di diversa intensità nella grandissima maggioranza degli individui. In termini di Quoziente Intellettuale (QI) non sono facili indicazioni generali, anche perché esso cambia con il progredire dell'età, nel senso che tende a diminuire. Se prendiamo come punto di riferimento i 10-12 anni la maggioranza dei bambini con sindrome di Down si colloca fra 30 e 55 punti di QI.

Esaminando analiticamente le prestazioni degli individui con sindrome di Down ai test di intelligenza è possibile individuare un profilo tipico. Rispetto al punteggio medio generale (che tiene conto delle prestazioni in vari compiti, di norma almeno una decina di tipo diverso) emerge che nella grande maggioranza dei casi i punteggi ottenuti nelle prestazioni che hanno a che fare con compiti visivi e spaziali sono superiori al punteggio generale, mentre quelli riguardanti gli aspetti verbali (in modo particolare la produzione) sono inferiori.

Una valutazione che consideri anche le prestazioni scolastiche evidenzia inoltre prestazioni nel disegno inferiori all'età mentale.

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Considerando più in generale le prestazioni degli individui con sindrome di Down si può sottolineare che le competenze sociali tendono ad essere migliori rispetto a quelle cognitive in senso stretto. Questo aspetto è comunque approfondito nella sezione che si riferisce allo sviluppo sociale.

Tipico della sindrome di Down è un precoce invecchiamento che si manifesta con un certo declino intellettivo, soprattutto relativamente a compiti che richiedono prontezza di riflessi, buon uso della memoria a breve termine e di lavoro, orientamento spaziale, mentre minore è il declino relativamente alle capacità verbali e numeriche già acquisite. Tale declino è più marcato nel caso di una vita caratterizzata da scarsi stimoli cognitivi. Lo sviluppo comunicativo e linguistico

Rispetto ad altri individui con lo stesso livello di ritardo mentale, quelli con sindrome di Down si caratterizzano, in generale, per un buon livello di comunicazione non verbale e per prestazioni inferiori a livello di comunicazione verbale. In particolare le prestazioni verbali sono inferiori nella produzione rispetto alla comprensione. La pronuncia e l'articolazione sono danneggiate. Tali difficoltà possono permanere anche dopo l'infanzia. Problemi di udito frequenti e malformazioni della bocca e della cavità orale possono ulteriormente ostacolare la produzione linguistica.

Comportamenti disadattivi e psicopatologici I disturbi più frequenti in età minore sono: disturbo da deficit di attenzione con o

senza iperattività (Dykens et al., 2000) e comportamenti oppositori e provocatori. Con l'età adulta sono possibili disturbi depressivi circa in un individuo su 12.

Relativamente poco frequenti sono disturbi d'ansia e autismo (1-2% secondo Dykens e Volkmar, 1997). I dati di cui sopra si riferiscono a comportamenti chiaramente patologici. Se consideriamo quelli problematici, anche se non gravi, le percentuali aumentano.

Secondo Dykens, Shah, King e Rosner (1999) almeno un bambino con sindrome di Down su due è eccessivamente ostinato, disobbediente, polemico e impulsivo.

Rispetto all'insieme degli individui con altri tipi di ritardo mentale, invece, la sindrome di Down è meno caratterizzata da comportamenti disadattivi e psicopatologici Una eccezione a quanto sopra è costituita dai disturbi depressivi, più frequenti (6-11%) in caso di sindrome di Down. In questi casi può esserci mutismo (o quasi), passività, pensiero sconnesso, disorganizzato. Molto raro è il disturbo bipolare, cioè caratterizzato da alternanza di mania e depressione.

Complessivamente i disturbi che si presentano con maggior frequenza in queste persone sono:

comportamenti aggressivi (7,2%), disordini da deficit da attenzione (4,2%), disordini della condotta/oppositori (3,6%), comportamenti stereotipati (2,8%), disturbo depressivo maggiore (2%), demenza (1,1%), autismo (1%).

Prevenzione, educazione, trattamento

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Ogni buon intervento è anche preventivo in quanto può evitare un inadeguato sviluppo fisico e della personalità. Sono opportuni degli esempi. Attività fisico-motoria. Una buona attività fisica (consigliata dal medico in quantità e qualità) ha funzioni preventive non solo per una buona funzionalità fisica, ma anche psicologica in quanto può essere fonte di benessere e soddisfare la motivazione di competenza (sentirsi in grado di fare bene qualcosa). Attività ludica. A volte, preoccupati per lo sviluppo cognitivo del figlio o dell'allievo, ci si può "dimenticare" del fatto che anche le persone con sindrome di Down, come tutti, hanno bisogno di un adeguato equilibrio fra attività di apprendimento (in cui l'individuo utilizza le proprie energie per rispondere alle richieste che pervengono dal mondo esterno) e attività ludiche (in cui l'individuo cerca di soddisfare, spesso in maniera simbolica, i propri bisogni). La soddisfazione dei propri bisogni ludici ha un valore preventivo in quanto permette di scaricare tensioni accumulate nelle attività di apprendimento e soddisfa bisogni che altrimenti rimarrebbero insoddisfatti. Attività cognitive intrisecamente motivate. Il piacere della conoscenza è tipico dell'uomo. Sul piano educativo è fondamentale tenerne conto proponendo attività che l'individuo con sindrome di Down compie non per una lode o un riconoscimento materiale, ma per il piacere, appunto, che è intrinseco alle attività che permettono di acquisire nuove conoscenze. Coltivare la "curiosità" ha un fine preventivo in quanto "allena" la mente ad essere impegnata, attiva. Attività lavorative. Prima di essere una attività volta al guadagno, ogni lavoro è volto a soddisfare la motivazione di competenza e cioè il desiderio di dimostrare a se stessi che si è in grado di raggiungere risultati, prestazioni importanti. Il desiderio di lavorare, di produrre è preventivo nel senso che "allena" la mente a porsi degli obiettivi, ad avere un futuro stimolante. Attività sociali. Stare assieme agli altri e collaborare può aiutare a formarsi una buona identità sociale e può prevenire rischi psicopatologici (come la depressione). Trattamenti. Ogni trattamento ha non solo un fine abilitativo, ma anche preventivo. Risultati a livello fisioterapico favoriscono l'attività fisico-motoria e ludica. Una buona logopedia migliora i rapporti sociali. Una buona abilitazione cognitiva mantiene vive le motivazioni a conoscere e a sentirsi competenti. Fra educazione, prevenzione e trattamento (o cura) non vi è quindi un rapporto lineare, ma di sistema, in quanto ogni attività educativa, di prevenzione o di trattamento è sostenuta dalle altre e a sua volta le sostiene in una interazione continua.

Interventi scolastici In questa sezione vengono considerati soprattutto i problemi relativi a quali

possono essere gli obiettivi educativi e scolastici adeguati allo sviluppo cognitivo, emotivo, affettivo e sociale dei bambini con sindrome di Down. Essi sono considerati in progressione, cioè dall'asilo nido, alla scuola dell'infanzia, alla scuola primaria o di primo grado, a quella media o di secondo grado. In particolare sono considerate le seguenti aree: sviluppo comunicativo e sociale, autonomie, gioco, disegno, lettura e scrittura, aritmetica, ulteriori conoscenze e competenze

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Scuola secondaria di primo grado

Lettura e scrittura L’analisi della letteratura (Vianello, 2006) suggerisce che la situazione attuale relativa ai ragazzi con sindrome di Down iscritti alla scuola secondaria di I° grado è caratterizzata come segue. - L'apprendimento della lettura e della scrittura richiede una età mentale di 4-5 anni. La grande maggioranza degli allievi di scuola secondaria di II° grado è in possesso di tali requisiti cognitivi ed è quindi in grado di apprendere a leggere e scrivere, se vi è stato un opportuno insegnamento per almeno 3 o 4 anni nel periodo precedente. - Un 30% circa dei ragazzi con sindrome di Down iscritti alla scuola secondaria di I° grado attualmente non sa leggere e scrivere o si trova in una fase che genericamente potremmo chiamare di pre-lettura e pre-scrittura. Si può pensare che in un contesto sociale, educativo ed abilitativo ottimale una buona parte di questi ragazzi avrebbero potuto imparare a leggere e scrivere almeno fino al livello tipico dei bambini del primo anno della scuola primaria. I rimanenti, cioè la maggioranza (attorno al 70%) dei ragazzi con sindrome di Down raggiungono un apprendimento della lettura e della scrittura approssimativamente almeno a livello della fine del primo anno della scuola primaria. Alcuni di questi (circa uno su due) anche nella lettura e scrittura di testi semplici hanno ancora bisogno di aiuto da parte degli adulti. Comunque, se un po' sostenuti o almeno motivati, possono scrivere cartoline, letterine, brevi messaggi anche senza dettatura parola per parola. L'uso dei programmi di scrittura del computer è già possibile, anche se ad un livello iniziale. Spesso esso è più legato agli aspetti motivazionali e alla pratica che alle competenze (che potrebbero essere sufficienti).

Un ragazzo con sindrome di Down su quattro (25-30% del totale; si tratta di una parte dei ragazzi di cui sopra) evidenzia prestazioni paragonabili a quelle dei bambini di fine secondo anno della scuola primaria o superiori. Anche in questo caso è possibile la lettura di testi semplici e motivanti, la scrittura spontanea di cartoline, letterine, messaggi brevi e l'uso di programmi di scrittura del computer.

Alcuni ragazzi, infine, (circa il 10% del totale della popolazione con sindrome di Down), pervengono a competenze di lettura e scrittura paragonabili a quelle dei bambini normodotati frequentanti il secondo ciclo della scuola primaria. Questo comporta la capacità di leggere giornalini, giornali, libri ecc. e di scrivere autonomamente pensierini, lettere, messaggi. Sono buone le basi per l'uso dei programmi di scrittura del computer.

Il confronto con le prestazioni dei bambini normodotati deve comunque essere considerato come del tutto orientativo, dato che vi sono differenze qualitative molto importanti. In particolare a parità di testo scritto sotto dettatura o spontaneamente i minori con sindrome di Down commettono molti più errori di ortografia.

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È opportuno riportare alcuni dati di ricerca a sostegno di alcune affermazioni di cui sopra. Dalla ricerca di Gherardini e Nocera (2000) relativa all'anno scolastico 1998-1999 risulta quanto segue.

- Gli allievi di scuola secondaria di I° grado che non leggevano affatto erano: 11%. - Leggeva singole parole: 89%. - Leggeva e comprendeva semplici brani: 29%. - Gli allievi che non sapevano scrivere erano: 11%. - Scrivevano autonomamente singole parole: 68%. - Scrivevano autonomamente brevi frasi: 39%. - Scrivevano autonomamente brevi composizioni: 10%.

Da una ricerca di Stella e Biancardi (2001) risulta che più del 50% degli allievi di scuola secondaria di I° grado avevano competenze di lettura e scrittura tipiche (come minimo) dei bambini del primo anno della scuola primaria.

Sestili, Moalli e Vianello (2006) hanno trovato che gli allievi di scuola secondaria di I° grado da loro considerati avevano prestazioni in lettura e scrittura superiori di uno o due anni rispetto alla loro età mentale (fra i 5 anni e i 5 anni e mezzo). Si tratta di un dato molto importante perché evidenzia i margini di miglioramento di un insegnamento adeguato.

Le prestazioni nella scrittura sono nel complesso inferiori a quelle nella lettura e solo lievemente superiori rispetto a quelle attese sulla base dell'età mentale (circa un anno). Si deve comunque sottolineare che sia nella lettura che nella scrittura errori di vario tipo sono di gran lunga superiori a quelli medi dei bambini normodotati dello stesso livello di lettura e di scrittura (a parte gli errori

Matematica Ben poche sono le ricerche dedicate alle competenze aritmetiche e matematiche

negli individui con sindrome di Down. Da quelle a disposizione (Rynders, 1999; Gherardini e Nocera, 2000, Biancardi, 2001; Sestili, Moalli e Vianello, 2006) risulta in sintesi quanto segue.

Anche in questo caso la variabilità fra gli allievi con sindrome di Down è notevole. Nel complesso le prestazioni nelle abilità numeriche e di calcolo sono inferiori sia a quelle relative alla lettura che alla scrittura e abbastanza coerenti con quelle prevedibili dall'età mentale di pensiero logico.

Sono una ridotta minoranza i ragazzi con sindrome di Down che hanno prestazioni superiori a quelle dei bambini di fine secondo anno della scuola primaria. La grande maggioranza ha prestazioni tipiche del primo anno della scuola primaria o inferiori. Dalla ricerca di Gherardini e Nocera (2000) è emerso che a livello di scuola secondaria di I° grado:

- il 38% contava oltre il numero 10; - il 51% sapeva leggere i numeri a due o a tre cifre;

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- il 10% sapeva effettuare semplici equivalenze. Da una ricerca di Sestili, Moalli e Vianello (2006) è risultato che il 40% dei

ragazzi del secondo e terzo anno della scuola secondaria di I° grado aveva competenze inferiori a quelle dei bambini normodotati all'inizio della scuola primaria, e che il 60% otteneva risultati paragonabili al livello intermedio o finale del primo anno della scuola primaria.

In considerazione di tali difficoltà si ritiene utile favorire apprendimenti o utilizzazioni pratiche anche in assenza delle competenze concettuali necessarie; ad esempio fornendo strategie pratiche per la lettura dell’orologio (usare uno digitale; in quello con le lancette dare più importanza alla lancetta più piccola, ecc.), per capire quando una cosa costa molto o poco (ad esempio “i soldi di carta valgono di più di quelli di metallo”).

In fase iniziale si cercherà di lavorare soprattutto con monete da 1 e da 2 euro e

con i 5 euro di carta, che saranno probabilmente i tagli da loro più usati. ... è stato ideato un portafoglio particolare, strutturato nel seguente modo: è un

rettangolo di stoffa abbastanza spessa, nylon o cuoio, a cui sono state applicate 5

tasche di plastica trasparente. Su ogni tasca viene posta una targhetta con

l'indicazione del taglio contenuto. Queste tasche sono chiuse con una striscia di velcro.

Il portafoglio si chiude piegandolo sulle varie tasche e sovrapponendo poi la striscia

adesiva finale.". Un'attività specifica che è stata già sperimentata in proposito consiste nella ricerca di

prezzi nei supermercati per poi collocarli su una retta in Euro su un cartellone ... per

poter poi fare confronti di più grande - più piccolo.

Nella lettura dei prezzi insegnare che la virgola si legge 'e'.

- Ma la cosa più importante è che se c'è un numero dopo la virgola me la posso cavare

dando un euro in più.

Altre competenze Le attività scolastiche non si esauriscono nell’apprendimento della lettura, della

scrittura e dell’aritmetica. Basti pensare a quanto spazio viene dato nella scuola alle conoscenze storiche, geografiche e scientifiche e alle attività espressive. A questi tipi di apprendimento negli allievi con sindrome di Down non sono state dedicate adeguate ricerche scientifiche. L’interesse primario, come abbiamo visto è andato all’apprendimento della lettura e della scrittura (e in subordine all’aritmetica).

L’esperienza suggerisce che anche a questo proposito la realtà è estremamente differenziata non solo perché le dotazioni intellettuali nella sindrome di Down sono molto varie (ed esse condizionano notevolmente gli apprendimenti), ma anche perché cruciale per l’apprendimento delle nozioni storiche, geografiche e scientifiche è l’aiuto che viene fornito a scuola dagli insegnanti e a casa dai familiari. Nei casi migliori l’apprendimento avviene attraverso la mediazione dell’adulto che in relazione con l’allievo con sindrome di Down motiva all’apprendimento e semplifica i testi da studiare.

Nel passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria di I° grado c’è di norma un progresso anche nelle capacità di studio e nell’autonomia, ma esso quasi sempre

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viene vanificato dal fatto che gli argomenti da studiare sono più complessi e in definitiva l’aiuto esterno è sempre necessario.

Per quanto riguarda le attività espressive il ragazzo con sindrome di Down manifesta spesso una buona motivazione per la musica, la danza le attività di drammatizzazione verso le quali può essere motivato e disponibile date le sue buone qualità imitative.

Le prestazioni nel disegno da parte dei bambini con sindrome di Down sono di norma inferiori rispetto alle sue capacità logiche (e all'intelligenza in generale). Fondamentale è aiutarlo notevolmente, anche per evitare riflessi negativi sulla sua autostima. Per farlo è necessario aver presenti le normali tappe dello sviluppo del disegno nei bambini normodotati (almeno quelli del mondo occidentale, in quanto influenze culturali diverse incidono in modo diverso su questo sviluppo). Esse sono sintetizzate in un apposito approfondimento.

Le tappe evolutive della rappresentazione pittorica portano il ragazzo di 11-12 anni alla realizzazione di profili, prospettiva… Per lui disegnare in definitiva implica sia l’utilizzo di vari processi cognitivi (rappresentazione mentale della realtà, progettazione, esecuzione, monitoraggio, controllo, valutazione, eventuale riprogettazione e correzione, ecc.) sia l’interazione con gli altri comunicando su una base simbolica, che, come tale, prevede regole comuni, ma anche possibilità di espressioni nuove ed originali

Tutto ciò non è pensabile ottenerlo da un soggetto Down, che si esprimerà nel disegno a seconda dell’età mentale che nel suo processo di crescita ha raggiunto. Anche in questo caso vale la "regola d'oro": proporre attività al livello di prestazione del bambino per rinforzare le sue capacità e appena più impegnative ("sfide ottimali" in quanto nella sua area di sviluppo potenziale) per favorire un ulteriore progresso.

L'utilità della pratica sportiva anche per i giovani con sindrome di Down è stata evidenziata anche in una ricerca condotta da Ruiz, Gil, Fernandez-Pastor, de Diego e Peran (2003) a Malaga. Lo studio ha valutato i benefici ottenuti nell'arco di quattro anni di attività sportiva. Già alla fine del primo anno è stata rilevata una opportuna perdita di peso grasso e un aumento di quello muscolare e osseo (in particolare nelle femmine). Ovviamente sono migliorate anche le prestazioni sportive rispetto a quelle di partenza (resistenza, velocità, salti, lanci ecc.). Effetti positivi vi sono stati anche relativamente all'autostima, all'autonomia, all'impegno, alla perseveranza e allo spirito di gruppo.

Cosa potenziare con l’esercizio e la collaborazione delle famiglie - sviluppo motorio, - dell’intelligenza senso-motoria, - comunicativo pre-verbale, - del pensiero simbolico, - del linguaggio, - dell’autonomia, - del pensiero intuitivo e di quello operatorio - esercizi di attenzione e memoria, - prove per lo sviluppo metacognitivo…

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Cosa fare dopo la terza media?

In una realtà migliore di quella attuale gli adolescenti con sindrome di Down dopo la terza media dovrebbero avere la possibilità di frequentare scuole professionali con risorse di personale e con insegnanti adeguati a favorire l'integrazione di persone con ritardo mentale. Spesso questo non avviene e gli adolescenti con sindrome di Down vengono iscritti in altre scuole (Licei scientifici o classici compresi).

Come ogni adulto, anche le persone con sindrome di Down provano benessere quando riescono ad essere utili, quando vedono che producono qualcosa (motivazione di competenza). Il lavoro può offrire questa opportunità.

Da almeno quaranta anni in Italia si sono cercate alternative ai laboratori protetti e ai centri occupazionali. Consideriamo alcune tipiche tipologie.

- Inserimento nell'azienda commerciale, agricola, artigianale ecc. dei genitori o di parenti stretti. Teoricamente si potrebbe pensare che in questa situazione la persona con sindrome di Down fatica a diventare indipendente. Questo è un rischio reale. Si tratta comunque di una situazione che può avere anche aspetti positivi. Accettazione e flessibilità permettono di chiedere alla persona il massimo di ciò che può dare, evitando di sottoutilizzarlo.

- Inserimento guidato in una azienda. Cruciale è il monitoraggio, con coinvolgimento della famiglia, del datore di lavoro e dei colleghi.

- Inserimento nelle aziende pubbliche: uffici pubblici, ospedali, scuole. Si tratta di situazioni meno monitorate delle precedenti.

Dati i fini non commerciali di queste istituzioni la persona risente meno delle conflittualità legate al bisogno di produrre e più facilmente viene accettato ciò che sa fare. Nelle realtà in cui vi sono bambini e ragazzi le persone con sindrome di Down sembrano inoltre ulteriormente motivate.

-Inserimento nelle cooperative sociali. Si tratta di una realtà in progresso. Migliaia sono i lavoratori in situazione di handicap inseriti. Tra questi molti con la

sindrome di Down. La tipologia è estremamente diversificata. Quando il rapporto fra persone in

situazione di handicap e altri lavoratori tende ad essere paritario, si utilizza anche la parola "integrate". I campi di occupazione privilegiata sono: agricoltura, produzione di materiale per imballaggio, ceramica, falegnameria, manifatture, pulizie

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