I principi generali del sistema tributario comunitario nell'esperienza della Corte di Giustizia...

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA FACOLTA’ DI ECONOMIA CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA E COMMERCIO PROVA FINALE “I PRINCIPI GENERALI DEL SISTEMA TRIBUTARIO COMUNITARIO NELL’ESPERIENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ EUROPEE” RELATORE: CH.MO PROF. MAURO BEGHIN LAUREANDO: MARCO GRASER MATRICOLA N. 519485 ANNO ACCADEMICO: 2009 – 2010

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

FACOLTA’ DI ECONOMIA

CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA E COMMERCIO

PROVA FINALE

“I PRINCIPI GENERALI DEL SISTEMA TRIBUTARIO COMUNIT ARIO NELL’ESPERIENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMU NITÀ

EUROPEE”

RELATORE: CH.MO PROF. MAURO BEGHIN

LAUREANDO: MARCO GRASER

MATRICOLA N. 519485

ANNO ACCADEMICO: 2009 – 2010

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Indice

Introduzione.............................................................................................................................5

1. Il principio di non discriminazione fiscale ..............................................................15

1.1. Il principio di non discriminazione fiscale quale corollario del principio di

eguaglianza .............................................................................................................15

1.1.1 Il concetto giuridico del principio di eguaglianza: riflessioni.........................15

1.1.2 Il principio di non discriminazione e la sua valenza nel settore tributario.....17

1.2. Le libertà fondamentali sancite dal Trattato: la norma del trattamento nazionale in

relazione al principio di non discriminazione fiscale .............................................23

1.2.1. Le libertà fondamentali secondo il Trattato: efficacia diretta della norma del

trattamento nazionale.......................................................................................23

1.2.2. La comparabilità delle situazioni giuridiche e i differenti approcci utilizzati

dalla Corte........................................................................................................25

2. Il principio di non discriminazione fiscale e il divieto di restrizioni fiscali in

riferimento alle quattro libertà fondamentali.........................................................28

2.1. Il divieto di imporre restrizioni fiscali in entrata: la prospettiva dello Stato di

insediamento...........................................................................................................28

2.1.1 La libera circolazione dei lavoratori e libertà di stabilimento delle persone

fisiche: gli effetti della sentenza Schumacker...................................................28

2.2.2 La libertà di stabilimento delle imprese in rapporto alla libertà di circolazione

dei capitali e dei pagamenti come espressione del principio di non

discriminazione fiscale.....................................................................................31

2.2. Exit tax e libertà di movimento in uscita: la prospettiva dello Stato d’origine ......36

2.2.1 Introduzione al concetto di exit tax e divieto di ostacoli fiscali ai movimenti in

uscita.................................................................................................................36

2.2.2 La tassazione sulle plusvalenze latenti tra profili di compatibilità e incertezza

giuridica ...........................................................................................................41

2.3. Il divieto di ostacolare la libera prestazione di servizi ...........................................43

2.4. Deroghe alla norma del trattamento nazionale: le cause di giustificazione elaborate

dalla giurisprudenza................................................................................................46

Conclusioni.............................................................................................................................53

Indice delle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee.............................57

Bibliografia.............................................................................................................................60

Sitografia ................................................................................................................................63

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Introduzione

La presente tesi avrà come fine l’evidenziazione di alcuni principi, concepiti

particolarmente dall’analisi delle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee,

posti a regolare il sistema dell’imposizione fiscale comunitaria. L’attenzione sarà rivolta a

specificare la portata del principio di non discriminazione e del divieto di restrizioni alle

libertà fondamentali sancite dal Trattato, con particolare riguardo all’imposizione diretta.

Per meglio comprendere l’universo giuridico di riferimento, in via preliminare rispetto allo

studio di queste tematiche, sarà necessario soffermare l’attenzione circa gli aspetti essenziali

dei tributi normati dalla Comunità, sia tramite i regolamenti e le direttive, sia mediante la

laboriosa opera di interpretazione compiuta dalla Corte di giustizia. Innanzitutto, però, è

necessario presentare le caratteristiche del principale organo giurisprudenziale comunitario.

La Corte di giustizia delle Comunità europee è l’istituzione giurisdizionale comunitaria la cui

attività si estrinseca essenzialmente riguardo1:

• il controllo della legittimità, in relazione ai trattati, degli atti e dei comportamenti posti

in essere dalle singole istituzioni comunitarie;

• la vigilanza sull’adempimento degli obblighi in capo agli Stati membri;

• l’interpretazione del diritto comunitario, con riferimento particolare alla compatibilità

delle giurisdizioni nazionali con i Trattati o con gli atti di diritto comunitario derivato,

su domanda dei giudici nazionali.

Essa è composta da tre organi giurisdizionali: la Corte di giustizia, il Tribunale di primo grado

e il Tribunale della funzione pubblica.

La Corte di giustizia è nominata all’art. 7 TCE come uno dei cinque organi fondamentali

mediante i quali la Comunità esegue i compiti ad essa affidati. Avente sede a Lussemburgo, è

composta da un giudice per Stato membro e da otto avvocati generali, nominati tra personalità

di primo ordine, in grado di offrire lapalissiane garanzie d’indipendenza. Essi devono inoltre

possedere i requisiti professionali indispensabili al fine di poter esercitare le massime funzioni

giurisdizionali all’interno dei loro Paesi, oppure essere noti come giuristi di indubbia

competenza. Il loro mandato ha durata di sei anni, ed è rinnovabile. All’interno dell’alveo dei

giudici ogni tre anni viene eletto il Presidente della Corte, il quale ha compiti di direzione e

coordinamento dell’attività riguardo gli aspetti amministrativi e giurisdizionali: presiede

1 Per un approfondimento si rinvia a: Pocar, F., 2004. Diritto dell’Unione e delle Comunità europee. IX edizione. Milano: Giuffrè Editore. PP. 178-250.

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quindi le udienze plenarie, per ogni causa nomina il giudice relatore, è competente in materia

sia di provvedimenti cautelari e d’urgenza, sia di sospensione dell’esecuzione delle sentenze.

L’avvocato generale è investito dell’onere di presentare pubblicamente conclusioni scritte,

accompagnate da spiegazioni, nelle cause svolte dinanzi alla Corte. Egli non ha il compito di

sostenere le tesi della Comunità piuttosto che dello Stato membro, o viceversa: è difensore del

diritto tout court.

Il Cancelliere, il cui mandato è rinnovabile, è nominato dalla Corte di Giustizia ogni sei anni.

Egli svolge, sotto la responsabilità del Presidente, funzioni di amministrazione e di gestione

finanziaria della Corte.

Dal 1988 è stato istituito, su decisione del Consiglio2, il Tribunale di primo grado delle

Comunità europee. Diversamente dalla Corte, non è previsto dall’art. 7 TCE. Il suo ruolo di

giurisdizione autonoma è stato riconosciuto formalmente solo nel 2001, all’art. 220 del

Trattato di Nizza. Avente anch’esso sede a Lussemburgo, è composto da almeno un giudice

per Stato membro, con requisiti in concreto analoghi a quelli dei componenti della Corte. Il

Tribunale, a differenza della Corte, viene assistito dall’Avvocato unicamente quando risiede

in seduta plenaria o quando la sua assistenza è richiesta dalla complessità della causa.

A titolo meramente classificatorio, fugacemente si delinea qui l’istituzione del Tribunale della

funzione pubblica la quale, come si comprenderà, non influirà in alcun modo sulla presente

trattazione. Istituita anch’essa dal Trattato di Nizza3, rappresenta il primo passo affinché

vengano costituiti, nel tempo, organi indirizzati a conoscere e disporre in primo grado a

proposito di ricorsi pertinenti talune materie specifiche. La sua competenza principale

concerne la pronuncia, in prima istanza, riferita ai contenziosi tra i dipendenti delle istituzioni

comunitarie e le istituzioni stesse. Le decisioni del Tribunale della funzione pubblica saranno

impugnabili, entro il termine di due mesi, innanzi al Tribunale di primo grado limitatamente

alle questioni di diritto.

Compito fondamentale della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado è offrire una

tutela giurisdizionale ai membri della Comunità, siano essi Stati o istituzioni o, più

semplicemente, persone fisiche e giuridiche. L’obiettivo è disporre di uno strumento efficace

affinché vengano garantiti i dettami delle fonti di diritto primario e derivato.

Il ruolo del giudice comunitario assume una posizione cruciale all’interno del sistema sia per

quanto attiene la precisazione dei diritti e degli obblighi in capo a tutti i soggetti pubblici e

civili, sia con l’intento di affinare i dispositivi realizzati a difesa di quei diritti, col fine ultimo

di perfezionare meccanismi in grado di accertare correttamente l’adempimento degli obblighi.

2 Decisione del Consiglio delle Comunità europee 88/591/CECA, CEE, Euratom del 24 ottobre 1988, GU N. L 319, 25/10/1988. 3 Trattato di Nizza, artt. 220 e 225A, GU N. C 80/1, 10/03/2001.

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Il sistema giurisdizionale comunitario si articola su due differenti piani procedurali:

• il controllo diretto, attivato da chiunque ne abbia interesse, della Corte di giustizia e/o

del Tribunale che si consuma con la pronuncia del giudice comunitario;

• il controllo indiretto della Corte mediante la procedura pregiudiziale.

Il primo riguarda, semplificando notevolmente, tutte quelle procedure attinenti il controllo

sulla legittimità di atti e di comportamenti delle istituzioni comunitarie a cui possono

conseguire l’azione di annullamento (art. 230 TCE), l’azione di responsabilità (artt. 235 e 288

TCE), l’eccezione di invalidità (art. 241 TCE) e via dicendo. Riguarda inoltre il controllo

giurisdizionale sulla corretta applicazione del diritto comunitario da parte degli Stati membri

che, nel caso evidenzi delle mancanze, può portare al compimento della procedura

d’infrazione.

Il secondo, particolarmente rilevante ai fini di questo studio, è costruito sul rinvio

pregiudiziale dal giudice nazionale a quello comunitario, e si conclude lasciando al giudice

nazionale l’incombenza di disposizione riguardo la causa.

L’art. 234 TCE prefigura la base d’appoggio sulla quale costruire il piano della procedura

pregiudiziale. La sua funzione primaria è fornire un’interpretazione corretta della normativa

comunitaria in modo che la sua applicazione sia uniforme all’interno delle singole

giurisdizioni nazionali. Con tale opera di interpretazione, il giudice comunitario effettua un

controllo di compatibilità riguardo le norme nazionali in rapporto alle disposizioni

comunitarie. Altra funzione del rinvio pregiudiziale è l’interpretazione del precetto

comunitario al fine di verificare la legittimità della disposizione nazionale, o di un qualsiasi

atto o prassi compiuti dall’amministrazione nazionale.

Esistono due percorsi che chiunque può seguire per far accertare l’incompatibilità della norma

nazionale, che gli reca pregiudizio, rispetto a quella comunitaria: la segnalazione del conflitto

alla Commissione europea la quale avrà poi facoltà di intraprendere o meno la procedura

d’infrazione dinanzi la Corte ex art. 226 TCE; l’invitare il giudice nazionale, competente a

giudicare la controversia, di procedere al rinvio pregiudiziale d’interpretazione ex art. 234

TCE.

L’ultima funzione riguarda il controllo giurisdizionale sulla legittimità degli stessi atti

comunitari. Il motivo risiede nel fatto che molto spesso sono le stesse amministrazioni

nazionali ad essere incaricate a dare l’esecuzione a tali atti e, conseguentemente, si possono

creare controversie dinanzi ai giudici dei vari Paesi. Controversie che possono mettere in

discussione la legittimità della norma comunitaria oppure la base giuridica sulla quale l’atto

ha trovato fondamento. Il giudice nazionale, se non è in grado di dichiarare senza indugi la

legittimità dell’atto comunitario, utilizzerà il meccanismo del rinvio pregiudiziale,

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sospendendo così provvisoriamente l’applicazione dell’atto medesimo, per reclamare

l’opinione dell’unico organo a cui spetta l’eventuale dichiarazione di illegittimità: la Corte di

giustizia. Si noti che tale procedura di rinvio pregiudiziale di validità è catalogabile dunque

all’interno delle ipotesi di controllo diretto in precedenza solamente accennato.

L’oggetto del rinvio pregiudiziale, se riguardante problemi d’interpretazione, è esteso a tutto

il sistema giuridico comunitario (trattati, atti delle istituzioni, accordi di associazione, principi

generali dello stesso diritto comunitario). A proposito però delle questioni di verifica di

validità, oggetti del rinvio possono essere esclusivamente gli atti posti in essere dalle

istituzioni comunitarie: sono escluse però le stesse sentenze della Corte e, riassumendo, tutti

gli atti impugnabili mediante il ricorso diretto ex art. 230 TCE.

Dal punto di vista soggettivo, il rinvio pregiudiziale può essere deciso da qualunque giudice

facente parte della giurisdizione di uno Stato membro. La nozione di giurisdizione fornita

dall’art. 234 TCE non è però di grande aiuto: essa definisce cos’è la giurisdizione

comunitaria, e conseguentemente non può accogliere tutte le linee inseguite dai vari sistemi.

Elementi di discrimine quali l’origine legale dell’organo, la stabilità, l’obbligatorietà,

l’applicazione del diritto e la terzietà sono l’approccio adottato dalla Corte in circa dieci anni

di sentenze a cavallo tra gli anni ottanta e novanta4.

Il rinvio pregiudiziale non è un obbligo che incombe sul giudice nazionale ogni qualvolta si

pongano i problemi sopra descritti. La facoltà del rinvio spetta al giudice nazionale la cui

sentenza sia impugnabile. Essa, ovviamente, si configura nei casi in cui il responso della

Corte è vitale affinché possa venir giudicata la controversia. L’obbligo del rinvio, invece, si

configura nel momento in cui la questione viene posta dinanzi ad un giudice nazionale di

ultimo grado, a meno che l’oggetto del rinvio sia già stato precedentemente risolto dalla Corte

mediante una giurisprudenza chiara ed uniforme. È infine logico affermare che l’organo che

ha sollevato il quesito alla Corte sarà il medesimo a cui verrà indirizzata la risposta.

Nei casi in cui l’oggetto del rinvio sia stato precedentemente definito, o quando esso sia

deducibile con certezza dalla giurisprudenza, o quando il dubbio viene considerato infondato,

la Corte può seguire una procedura semplificata ex art. 104 del regolamento di procedura:

saranno perciò esclusi i pareri dell’Avvocato generale e la trattazione orale. Tale procedura si

risolverà meramente con un’ordinanza della Corte. Negli altri casi il giudice comunitario

deciderà con sentenza.

4 Si veda per un approfondimento: Tesauro, G., 2005. Diritto Comunitario. IV edizione. Padova: CEDAM. PP. 307-312.

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È bene ricordare che la decisione di intraprendere l’azione del rinvio spetta esclusivamente al

giudice, il quale può operarla anche d’ufficio5, cioè senza l’impulso o il consenso delle parti

oppure rettificando la formulazione da loro suggerita. In ogni caso esse potranno svolgere

osservazioni orali o scritte in sede di procedura dinanzi la Corte. Il giudice comunitario

compierà la propria decisione, infine, solamente in funzione di quanto contenuto nei quesiti

del rinvio pregiudiziale. Saranno perciò ignorati tutti quei fatti emersi nel corso della

procedura che differiscono da quelli esposti nell’ordinanza di rinvio.

Nel caso del rinvio pregiudiziale si pone il problema della tutela che i giudici nazionali

devono poter offrire ai diritti vantati dalle parti in base alle norme comunitarie, in attesa della

sentenza definitiva. Se l’ipotesi riguarda un diritto negato dall’ordinamento interno, ma

riconosciuto dalla normativa comunitaria, la giurisprudenza della Corte afferma che sussiste

l’esigenza di dare una completa ed immediata applicazione al diritto comunitario, quindi

senza dover attendere la sentenza della Corte, in forza del principio che impone una tutela

giurisdizionale piena ed effettiva. Nell’ipotesi, invece, in cui il giudice interno abbia

considerevoli dubbi riguardo la legittimità dell’atto comunitario, in via del tutto eccezionale

può sospendere l’esecuzione degli atti comunitari da esso ritenuti illegittimi, previo il rinvio

pregiudiziale alla Corte riguardo la validità dell’atto6. La possibilità di accordare

provvedimenti cautelari provvisori è sottoposta perciò ai casi in cui si verificano gli elementi

del fumus boni iuris, inerente le serie riserve sulla legittimità dell’atto, del periculum in mora,

e avendo riguardo dell’interesse superiore della Comunità.

La sentenza interpretativa della Corte è destinata a vincolare innanzitutto il giudice

proponente il rinvio, il quale è evidentemente obbligato ad applicare tale lettura della norma

comunitaria al caso concreto, accantonando perciò l’applicazione della norma interna se

ritenuta contrastante. L’effetto della sentenza non si limita però al solo caso che l’ha causata,

bensì deve ritenersi esteso a tutte le fattispecie in cui le norme così interpretate trovano

applicazione. La portata della sentenza è quindi enorme, ed il motivo è alquanto semplice: la

sentenza interpretativa della Corte di giustizia è pronunciata riguardo concetti di diritto.

Leggermente più complesso è il caso della sentenza su rinvio pregiudiziale di validità. Nel

caso in cui la Corte si pronunci a favore della validità dell’atto, tale sentenza avrà

applicazione limitata riguardo quel caso specifico. Nella situazione in cui sia dichiarata

5 C.G.C.E., sentenza del 14/12/2000, causa C-446/98, Fazenda Pública, PP. 47-50. Disponibile su <http://curia.europa.eu>. 6 C.G.C.E., sentenza del 21/03/2000, causa C-6/99, Association Greenpeace France e altri, PP. 55-57, disponibile su <http://curia.europa.eu>. Si vedano per un ulteriore approfondimento: C.G.C.E., sentenza del 22/10/1987, causa C-314/85, Foto-Frost, PP. 11-20; C.G.C.E., sentenza del 21/02/1991, cause riunite C-143/88 e C-92/89, Zuckerfabrik Süderdithmarschen, PP. 14-21, disponibili su <http://eur-lex.europa.eu>.

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l’illegittimità dell’atto, l’effetto sarà il medesimo di una sentenza di annullamento e perciò

ogni altro giudice interno dovrà avvalersene riguardo gli atti su cui è tenuto a decidere.

L’efficacia nel tempo della sentenza pregiudiziale è normalmente di tipo ex tunc in quanto

tale pronuncia indica le modalità attraverso cui la norma comunitaria dovrebbe essere sempre

stata intesa e valutata dagli attori del sistema. Perciò la sentenza, sia essa d’interpretazione o

dichiarante l’invalidità dell’atto, si estende anche a tutti i rapporti sorti anteriormente rispetto

ad essa7. Per effetto della sentenza Kühne & Heitz, nemmeno i rapporti esauriti possono

ritenersi pacificamente esclusi dagli effetti della sentenza pregiudiziale. Al punto 28 di detta

sentenza la Corte, basandosi sul principio di cooperazione ex art. 10 TCE, afferma che

l’organo amministrativo è tenuto a riesaminare una decisione amministrativa definitiva per

tener conto dell’interpretazione accolta nel frattempo dalla Corte a condizione che ciò non sia

incompatibile col diritto nazionale, che la sentenza precedente sia stata fondata su

un’interpretazione errata del diritto comunitario adottato senza aver adito in via pregiudiziale

la Corte, che l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo

essere stato informato dalla giurisprudenza.

In particolari casi eccezionali è data la possibilità di sentenziare con efficacia ex nunc, sulla

scorta di quanto previsto per le sentenze di annullamento ex art. 231 TCE. La possibilità di

limitare nel tempo le sentenze pregiudiziali interpretative è stata adottata solo per evitare gravi

ripercussioni economiche conseguenti la notevole numerosità di rapporti giuridici costruiti in

buona fede in base alla normativa interna ritenuta erroneamente valida.

È il caso ora di introdurre i pilastri essenziali del sistema tributario comunitario. Si

descriveranno in primis gli articoli essenziali del Trattato istitutivo riguardanti la fiscalità,

successivamente verrà descritto il sistema fiscale così come normato dal diritto derivato.

L’obiettivo è, naturalmente, offrire un riferimento generale rispetto ai casi concreti trattati nei

prossimi capitoli.

L’art. 2 TCE è il caposaldo di tutto il sistema giuridico comunitario. Esso enuncia gli obiettivi

che la Comunità europea intende perseguire mediante gli strumenti ad essa conferiti dal

Trattato istitutivo. Tali fini riguardano le sfere più eterogenee e principali del tessuto sociale

tipico di ogni società progredita. Si parla di: sviluppo economico sostenibile e non

inflazionistico, convergenza dei risultati economici, elevata tutela ambientale, miglioramento

del tenore di vita, elevati livelli occupazionali e di protezione sociale, coesione sociale ed

economica, solidarietà tra gli Stati membri. Gli strumenti consistono nella creazione di un

7 C.G.C.E., sentenza del 13/01/2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz NV, P. 22. Disponibile su <http://curia.europa.eu>.

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mercato comune, di un’unione economica e monetaria, quindi nell’attuazione di politiche e

azioni comuni.

L’art. 3 TCE impone il divieto di introdurre dazi doganali o restrizioni quantitative sulla

circolazione di merci, come pure di tutte quelle misure, anche se non enunciate, aventi il

medesimo effetto. Sancisce inoltre alcuni principi indispensabili per il funzionamento del

sistema quali la libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi.

Sottolinea l’importanza di ravvicinare le legislazioni nazionali, come l’esigenza di garantire

una concorrenza non falsata nel mercato interno. L’art. 12 TCE enuncia il principio di non

discriminazione effettuata sulla base della nazionalità, la cui attuazione deve essere coordinata

con le norme particolari previste dal Trattato.

Gli artt. 23-27 TCE sintetizzano i concetti di unione doganale e di Tariffa doganale comune

rimarcando il divieto di introduzione di dazi fiscali tra gli Stati membri. Gli artt. 28-31 TCE

sanciscono quanto concerne il divieto di introdurre restrizioni quantitative all’importazione o

all’esportazione, e introduce alcune ipotesi in cui tale precetto può essere giustificatamene

dissolto: ordine pubblico, pubblica sicurezza, moralità pubblica, tutela della salute e

dell’ambiente, tutela del patrimonio artistico o storico o architettonico, tutela della proprietà

industriale e commerciale. In riferimento ai principi di libera circolazione dei lavoratori e

della libertà di stabilimento8, gli artt. 39 e 46 TCE affermano che possono sussistere deroghe

se giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. I

principi di libero movimento dei capitali e dei pagamenti ex art. 56 TCE trovano deroghe

nell’art. 58 TCE in cui si consente agli Stati membri “di applicare le pertinenti disposizioni

della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si

trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di

collocamento del loro capitale” autorizzando “di prendere tutte le misure necessarie per

impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel

settore fiscale (…) o di adottare misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica

sicurezza”. Si può perciò affermare che il Trattato ammette deroghe, anche nel settore fiscale,

al principio di non discriminazione. Tale affermazione sarà ripresa e correlata nel prosieguo

della tesi coi principi elaborati dal diritto complementare.

Nello studio del diritto tributario comunitario particolare interesse potrebbe stimolare la

lettura dell’art. 87 TCE, il quale pone il divieto di concedere aiuti di Stato che falsino o

possano falsare, “sotto qualsiasi forma”, la concorrenza all’interno del mercato comune. Con

l’espressione “sotto qualsiasi forma” si può tranquillamente catalogare ogni forma di aiuto

8 Versione consolidata del Trattato che istituisce la Comunità europea, artt. 43, comma 2, e 48, GU N. C 325/33, 24/12/2002.

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diverso dalla classica sovvenzione, ivi incluse le agevolazioni fiscali tra cui quelle norme che

riducono o escludono gli oneri fiscali falsando in qualche misura la concorrenza. Alcune

deroghe sono previste riguardo particolari settori produttivi, come l’agricoltura, o con aiuti

rivolti ai consumatori se ciò non discrimina l’origine dei prodotti, e in caso di calamità

naturali o altri eventi eccezionali9.

Le disposizioni fiscali direttamente esplicitate nel Trattato convergono agli artt. 90-93 TCE.

L’art. 90 TCE richiama il principio di non discriminazione, stabilendo il divieto di introdurre

imposizioni interne aventi un effetto discriminatorio rispetto ai prodotti importati dagli altri

Stati membri. L’art. 91 TCE aggiunge l’interdizione di sussidiare i prodotti destinati

all’esportazione con la concessione di rimborsi fiscali superiori alle imposte nazionali

effettivamente pagate. Derogando dai precedenti articoli, l’art. 92 TCE prevede la possibilità

per gli Stati membri di applicare, per periodi limitati di tempo e con l’approvazione del

Consiglio europeo, imposte speciali sulle importazioni o di concedere agevolazioni alle

esportazioni al fine di compensare eventuali divari fiscali tra gli Stati membri10. Di

fondamentale importanza è l’art. 93 TCE il quale attribuisce al Consiglio, le cui delibere

devono essere prese all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del

Parlamento europeo, il potere di armonizzare le diverse legislazioni in materia di imposizione

indiretta. Il fine è quindi la minimizzazione delle distorsioni fiscali che potrebbero

pregiudicare il funzionamento del libero mercato comunitario. Dallo studio di queste norme

fondamentali, è evidente che il Trattato non offre alle istituzioni della Comunità gli strumenti

giuridici necessari affinché venga concepito un sistema tributario univoco.

L’attenzione posta dal legislatore comunitario sull’imposizione indiretta è giustificata dal suo

stretto legame con la circolazione delle merci e dei servizi. Già a partire dal 1967, anno della

prima direttiva Iva11, si introdusse un sistema impositivo destinato a sconvolgere i sistemi

fiscali di allora, che si ricorda prevedevano imposte cumulative influenzate dal numero dei

passaggi. L’efficacia dell’Iva deve ricondursi alla sua neutralità in rapporto agli scambi e sul

fatto che l’onere impositivo non è cumulativo rispetto ai passaggi, in coerenza con la volontà

di creare un mercato utile agli scambi di beni e servizi. Oltre all’Iva, è stata prevista la

normativa relativa al regime dei prodotti soggetti ai diritti d’accise12. Si segnala che in questo

senso i principali prodotti interessati da tale sistema impositivo sono gli oli minerali, i

9 Tesauro, F., 2008. Istituzioni di diritto tributario. Volume 2 – Parte speciale. VIII edizione. Milano: UTET. P. 395. 10 Roccatagliata, F., 2005. Diritto tributario comunitario. In: V. Uckmar, a cura di, 2005. Diritto tributario internazionale. III edizione. Padova: CEDAM. P. 1208. 11 Ci si riferisce in particolare alla Direttiva 67/227/CEE, e dalle successive direttive 69/463/CEE e 77/388/CEE, nonché alle loro successive modificazioni, le quali, introducendo l’imposta sul valore aggiunto, regolano il sistema comune di imposte sulla cifra d’affari. 12 Direttiva 92/12/CEE e successive modificazioni.

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tabacchi, l’alcole e le bevande alcoliche. Se internamente al mercato comunitario è

intervenuta l’imposta sul valore aggiunto a non ostacolare gli scambi, nell’ambito esterno, in

strettissima conseguenza dell’unione doganale, è intervenuto il Regolamento CEE n. 918/83

ad armonizzare il sistema comunitario dei dazi. Sono state così stabilite le tariffe doganali e

determinati i casi in cui viene concessa una franchigia da dazi all’impostazione o

all’esportazione in riferimento al territorio comunitario. A completare la panoramica generale

sulle imposte indirette, è necessario rinviare alla Direttiva 2008/7/CE, la quale regola

l’imposizione sui conferimenti di capitale delle società di capitali, le operazioni di fusione

societaria caratterizzate da uno scambio di azioni o da un conferimento di beni, nonché

l’emissione di titoli e obbligazioni. Gli scopi risiedono nella volontà, da una parte, di evitare

che l’imposizione sulla raccolta dei capitali interferisca con la libera circolazione dei capitali

e, dall’altra, di proporre l’obiettivo dell’esenzione di imposta sui conferimenti quale forte

stimolo per il progresso economico.

La fiscalità diretta, la cui competenza è in capo agli Stati membri, ha trovato una

connotazione specifica in ambito comunitario negli ultimi due decenni, in particolare sono

state approvate direttive al fine di ravvicinare le legislazioni nazionali per quanto concerne le

fattispecie a rilevanza transfrontaliera. In questo senso operano la direttiva “fusioni” 13 e la

direttiva “madre-figlia”14. La prima offre una disciplina comune in materia di operazioni

societarie straordinarie quali fusioni, scissioni, conferimenti e scambi di azioni tra società di

Stati membri diversi. La seconda, invece, si prepone all’eliminazione del fenomeno della

doppia imposizione sulla distribuzione degli utili, destinati alla controllante, conseguiti dalle

controllate stabilite in altro Stato membro. In questo senso si segnalano dunque la

Convenzione arbitrale 90/436/CEE, la quale mira all’eliminazione delle doppie imposizioni in

caso di rettifica degli utili di imprese associate, e la cosiddetta “interest and royalties

directive”15, a cui si deve l’introduzione di un regime fiscale comune sui pagamenti di

interessi e canoni fra consociate di Stati membri diversi. Infine è opportuno richiamare la

direttiva sulla tassazione dei redditi da risparmio (cosddetta “savings directive”)16 concernente

l’imposizione sugli interessi pagati in uno Stato membro, relativi a crediti di qualsiasi natura,

a favore di persone fisiche che, in qualità di beneficiari effettivi, risultano fiscalmente

residenti in un altro Stato membro.

Nonostante il ravvicinamento degli ordinamenti fiscali nel settore dell’imposizione indiretta

realizzato negli ultimi anni, è opportuno sottolineare l’assenza di direttive volte

13 Direttive 90/434/CEE, 2005/19/CE e 2006/98/CE. 14 Direttive 90/435/CEE, 2003/123/CE e 2006/98/CE. 15 Direttive 2003/49/CE, 2004/76/CE e 2006/98/CE. 16 Direttive 2003/48/CE, 2004/66/CE e 2006/98/CE

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14

all’introduzione di un’imposta comune sulle società. Se da un lato tale silenzio normativo è

spiegabile con la volontà politica degli Stati membri di non delegare all’Unione europea un

campo così rilevante della sovranità tributaria, dall’altro è opportuno rilevare come

l’imposizione sulle società influisca notevolmente sia sul piano delle scelte di localizzazione

degli investimenti, sia sul prezzo finale dei beni o dei servizi, con desumibili conseguenze

sulla realizzazione di un mercato comune non distorto dalla fiscalità. Alla Corte di giustizia

delle Comunità europee spetta dunque il difficile compito di valutare, caso per caso, la

compatibilità delle norme tributarie interne col Trattato e i suoi principi generali. Come si

osserverà nel prosieguo della tesi, l’opera della Corte, eliminando dal sistema le normative

ritenute contrarie all’ordinamento comunitario, si sostanzia in un’integrazione negativa degli

ordinamenti fiscali.

Page 15: I principi generali del sistema tributario comunitario nell'esperienza della Corte di Giustizia delle comunità europee

15

1. Il principio di non discriminazione fiscale

1.1. Il principio di non discriminazione fiscale quale corollario del principio di

eguaglianza

1.1.1 Il concetto giuridico del principio di eguaglianza: riflessioni

L’idea europea17 trova nella storia dei suoi popoli un filo di continuità culturale,

sociale e politica di cui oggi l’Unione Europea è la più alta espressione conosciuta. La

completa realizzazione dell’idea europea è intesa non come una mera aggregazione di

individui, bensì come una correlazione pacifica di differenti comunità funzionale al progresso

dell’uomo.

A fondamento dell’attuale realizzazione dell’idea europea si ritrovano, in una sorta di osmosi

etico-giuridica, i precetti su cui le varie comunità europee hanno costruito la loro stessa

esistenza. Appare dunque logico dover proporre, ed in questo senso analizzare, il principio di

eguaglianza quale uno dei capisaldi giuridici fondamentali dell’Unione Europea. Ritenuto un

principio ideale18, esso è stato invocato dalle rivoluzioni che hanno contribuito alla

realizzazione delle odierne democrazie. Sulla sua portata si ritiene necessario rimandare alle

carte costituzionali degli Stati membri, segnalando in particolare l’art. 1 della Dichiarazione

dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, figlio della rivoluzione francese e del

suo spirito illuminista, il quale dispone che “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali

nei diritti”. Il medesimo principio è stato ribadito in ambito internazionale, e quindi

riconosciuto in sede di ratifica interna dagli Stati membri dell’ONU, il 10 dicembre 1948

all’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani19 proclamata dall’Assemblea

17 Sul concetto storico di “idea europea”, tra cui una breve analisi circa il fallimento del progetto europeo di Napoleone Bonaparte, il ravvicinamento economico-politico circoscritto agli stati di matrice tedesca determinato dallo Deutscher Zollverein, certamente interessante se paragonato all’odierna situazione dell’Unione Europea, e nella sua attuazione nel secondo dopoguerra si rimanda a Sessa, G., Vitali, A., 1969. La politica fiscale della Comunità Economica Europea. Motivazioni, realizzazioni, prospettive. Padova: CEDAM. PP. 7-23. 18 Si rileva che secondo la visione [miope] del contribuente il principio di eguaglianza consta nel comparare la propria situazione fiscale a quella degli altri contribuenti al fine di evitare un’imposizione fiscale meno favorevole. Marchessou, P., traduzione a cura di Librino, V., Uguaglianza e proporzionalità nel diritto tributario. In: A. Di Pietro, a cura di, 2008. Per una costituzione fiscale europea. Padova: CEDAM. PP. 237-238. 19 “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”

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16

Generale delle Nazioni Unite20. Sul concetto universale del principio di uguaglianza, la

Costituzione spagnola del 1978, introducendo il criterio della valenza effettiva21, sancisce

all’art. 9 che i poteri pubblici devono rendere effettive e reali “la libertà e l’uguaglianza degli

individui e della collettività di cui fanno parte”.

L’art. 3 della Costituzione italiana afferma, in una visione apparentemente limitata al

comparto domestico in quanto limitata dal concetto di cittadinanza, se non valutata

congiuntamente all’art. 10, II co., Cost., che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono

eguali davanti alla legge”22 e che la Repubblica ha l’onere di assicurare l’uguaglianza

sostanziale. In relazione alla condizione giuridica dello straniero, infatti, il soprarichiamato

art. 10 della Costituzione offre un esplicito rinvio alle leggi interne ed ai trattati internazionali;

pertanto è indubbio che il principio italiano di eguaglianza è posto a tutela non solo dei

soggetti portatori di cittadinanza italiana, bensì anche a tutela dei soggetti stranieri la cui

situazione giuridica li pone in relazione con l’ordinamento italiano. Sul carattere estendibile ai

cittadini stranieri del principio di eguaglianza si rinvia anche all’art. 1 della Costituzione

olandese il quale, affermando che la discriminazione è vietata in qualsiasi campo, pone la

rilevanza del divieto di discriminazioni basate sulla residenza e sulla nazionalità23.

Da ultimo si richiama l’ordinamento tedesco, il quale ha sopperito l’imprecisione

Costituzionale riguardo la tutela della situazione dello straniero tramite l’opera

giurisprudenziale. Il principio di eguaglianza è perciò esteso a tutela degli stranieri, anche nel

comparto fiscale, se il differente trattamento basato sulla nazionalità non possa essere

obiettivamente giustificato da questa.

A seguito della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e delle disposizioni presenti nel

Trattato CEE, ricordati dalla Corte24 quali parametri di riferimento a sancire l’efficacia del

20 Sul significato “universale” della Dichiarazione, la quale ha riaffermato i principi introdotti nelle Dichiarazioni scaturite dalle rivoluzioni francese e americana, è il caso di segnalare che tale termine è stato utilizzato dai padri fondatori per evitare (anche) di dover tracciarne la territorialità circa l’applicazione. Si rammenta infatti che nel 1948 solo una ristretta cerchia di Stati si riconosceva nella neonata Organizzazione delle Nazioni Unite. In tal senso si veda Archibugi, D., Beetham, D., 1998. Diritti umani e democrazia cosmopolita. Con un’appendice delle dichiarazioni storiche. I edizione. Milano: Giacomo Feltrinelli Editore. PP. 7-24. 21 Sul principio di uguaglianza nell’ordinamento spagnolo si rinvia a Calvo Ortega, R., traduzione a cura di Piccolo C., Addarii, E.. Uguaglianza e non discriminazione. In: A. Di Pietro, a cura di, 2008. Op. cit. PP. 231-235. 22 In ambito strettamente tributario, i principi della capacità contributiva e della progressività dell’imposta ex art. 53 Cost., i quali vanno oltre al ristretto concetto di cittadinanza, ritenuti espressioni del più generale principio di uguaglianza, sono gli strumenti idonei ad intervenire nella rimozione degli ostacoli sociali derivanti dalle differenti situazioni di partenza. Per un approfondimento si rimanda a Falsitta, G., 2005. Manuale di diritto tributario. Parte generale. V edizione riveduta. Padova: CEDAM. PP. 142-170. 23 La Costituzione olandese, espressione giuridica del multiculturalismo che ne ha caratterizzato la storia, afferma all’art. 1 che: “tutte le persone nei Paesi Bassi devono essere egualmente trattate se si trovano in eguali circostanze. La discriminazione in base alla religione, convinzioni politiche o morali, razza sesso o in qualsiasi altro campo non è permessa”. 24 Sulla questione che i principi generali del diritto comunitario garantiscono l’osservanza dei diritti fondamentali della persona si segnalano: C.G.C.E.: sentenza del 12/11/1969, causa C-29/69, Stauder; C.G.C.E.:

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17

principio comunitario di eguaglianza, suddetto principio ha trovato la sua connotazione

specifica nella Carta europea dei diritti fondamentali25 (cosiddetta Carta di Nizza del 2000),

oggi richiamata dal Trattato di Lisbona26 a seguito della mancata introduzione del Trattato

istitutivo della Costituzione europea. All’art. 20 della Carta di Nizza si dispone che “tutte le

persone sono uguali davanti alla legge”, mentre nel successivo art. 21 si ritrovano disposizioni

di carattere generale e particolare riferite al principio di non discriminazione.

In conseguenza di questa serie di ragioni è pacifico poter affermare che il principio

comunitario di eguaglianza concerne il rapporto tra le norme e le situazioni a cui esse

intendono offrire una disciplina. Più specificatamente, il principio di eguaglianza viene

giuridicamente soddisfatto quando le situazioni comparabili vengono disciplinate dalla

medesima norma con la conseguenza che a situazioni distinte devono corrispondere normative

distinte.

1.1.2 Il principio di non discriminazione e la sua valenza nel settore tributario

Strettamente correlato al principio di eguaglianza, in ambito comunitario si ritrova il

principio di non discriminazione introdotto dall’art. 12 TCE27 secondo il quale “è vietata ogni

discriminazione effettuata in base alla nazionalità”. Il divieto di ogni forma di discriminazione

basata sulla nazionalità è certamente essenziale per il raggiungimento degli obiettivi politici e

socioeconomici cui la Comunità è investita. Il concetto giuridico di discriminazione è

raffigurabile come una “illegittima situazione di disparità di trattamento che non trova

fondamento nella diversità oggettiva dei presupposti giuridici” 28 e va a determinare, quindi,

una categoria di soggetti posti in una situazione di svantaggio immotivato. Nonostante la

portata generale del principio di eguaglianza, è da notarsi come il principio di non

discriminazione sia ad esso confuso, ma è da sottolineare come la sua portata sia, rispetto al

primo, più ristretta. Se da un lato, infatti, il principio di eguaglianza, così come elaborato dalla

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e dalla successiva Dichiarazione universale

dei diritti umani, cui la Carta di Nizza è ispirata, opera tout court, cioè nel senso più ampio

sentenza del 17/12/1970, causa C-11/70, Internazionale Handelsgellschaft. Disponibili su <http://eur-lex.europa.eu>. 25 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, GU C 364/3, 18/12/2000. 26 Modifiche del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, GU C 306/10, 17/12/2007. 27 Art. 12 TCE: “Nel campo di applicazione del presente Trattato, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità. Il consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251, può stabilire regole volte a vietare tali discriminazioni”. 28 Del Sole, A., 2007. Discriminazioni e restrizioni fiscali: i principi della Corte di Giustizia delle Comunità europee. I edizione. Milano: EGEA. P. 33.

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attribuibile al principio, quindi offrendo pari dignità e diritti a cittadini e stranieri, il principio

comunitario di non discriminazione si pone a tutelare esclusivamente quelle situazioni in cui il

soggetto comunitario si trova in relazione con l’ordinamento giuridico di uno Stato membro

diverso da quello originario. A conferma di ciò basti analizzare le cosiddette discriminazioni a

rovescio, non vietate né dal diritto primario o derivato né dal diritto complementare, le quali

pongono su un piano di svantaggio i cittadini dello stesso Stato membro rispetto ai soggetti

stranieri agevolati da normative ad essi favorevoli.

Spostando finalmente la trattazione nel comparto tributario, con il caso Lütticke29 la Corte ha

tolto ogni dubbio circa l’efficacia diretta del principio di non discriminazione nel settore

dell’imposizione indiretta, esplicitamente riconosciuto nel Trattato nell’art. 93 quale settore

regolato dal diritto comunitario tramite l’opera di armonizzazione, stabilendo che l’art. 95

CEE (ora art. 90 TCE) sancisce un divieto di discriminazione costituente in un obbligo

preciso ed incondizionato e, dunque, assoluto e giuridicamente perfetto30. Esso, appunto per

questo, produce effetti immediati in capo agli Stati membri, i quali sono tenuti ad osservarlo

nei rapporti giuridici con i loro amministrati e con gli altri Stati membri. Effetto dell’efficacia

diretta è la nascita automatica di diritti soggettivi perfetti e di interessi legittimi che chiunque,

cittadini società o istituzioni e via dicendo, possono far valere chiamando in giudizio le

Amministrazioni finanziarie degli Stati membri31.

Il divieto imposto dall’art. 90 TCE deve essere analizzato in senso complementare rispetto al

principio dell’abolizione delle barriere doganali di cui agli artt. 23 e 25 TCE in quanto è

destinato ad impedire che tramite le misure fiscali gli Stati membri possano realizzare una

politica protezionistica32. In tale senso è però opportuno rilevare la legittimità di una pressione

fiscale particolarmente elevata sui prodotti di determinati settori (solitamente prevista per i

29 C.G.C.E., sentenza del 16/06/1966, causa C-57/65, Lütticke. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 30 Amatucci, F., 2003. Il principio di non discriminazione fiscale. Edizione: ristampa con appendice di aggiornamento. Padova: CEDAM. PP. 190-194. 31 È però da rilevare che la giurisprudenza pone limiti, che dal punto di vista di chi scrive sono discutibili, alla restituzione di quanto ingiustamente versato a causa di disposizioni fiscali discriminatorie. La Corte afferma che il diritto comunitario non esige che si restituiscano i tributi indebitamente riscossi a condizioni da causare l’indebito arricchimento degli aventi diritto e pertanto i giudici nazionali devono tener conto della possibilità che i tributi indebitamente riscossi siano stati incorporati nei prezzi di vendita. Chi scrive la presente ritiene che tale giurisprudenza non tenga conto che la rivalsa sui prezzi di vendita potrebbe essere necessaria per l’esistenza stessa del soggetto economico nel mercato e che l’aumento dei prezzi di vendita potrebbe causare conseguenze non facilmente valutabili sul piano economico-monetario quali, a titolo esemplificativo, la perdita di opportunità o l’offerta di dilazioni di pagamento gratuite necessarie per giustificare il maggior prezzo. Per approfondire quanto sostenuto dalla Corte, si vedano: C.G.C.E., sentenza del 27/02/1980, causa C-68/79 Østre Landsret, e C.G.C.E., sentenza del 27/03/1980, causa C-61/79, Denkavik italiana; disponibili su <http://eur-lex.europa.eu>. A completare il quadretto interrogativo, si trova interessante segnalare una sentenza riguardante il principio di responsabilità degli Stati membri per danni causati da violazioni del diritto comunitario da parte delle disposizioni di diritto interno: sentenza del 05/03/1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e The Queen, disponibili su <http://eur-lex.europa.eu>. 32 Si rinvia a: C.G.C.E., sentenza del 14/12/1962, cause riunite C-2/62 e C-3/62, Pan pepato. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. In tal senso Boria, P., 2005. Diritto tributario europeo. I edizione. Milano: Il Sole 24 Ore. PP. 104-105.

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19

prodotti di cui il sistema industriale interno è sprovvisto di capacità produttiva) in quanto

l’effetto non è da considerarsi discriminatorio o protezionistico: a determinare la

discriminazione è dunque la connessione con l’origine delle merci e pertanto l’elevato livello

di tassazione è legittimo fintantoché è fissato indistintamente per i beni importati e per i beni

prodotti dal sistema industriale interno33. A completare la problematica dell’elevato livello di

tassazione sui beni importati è da rilevare che questa si traduce in una discriminazione vietata

quando suddetti beni vengono percepiti, secondo l’ottica dei consumatori finali, come

concorrenti o alternativi, e quindi tra loro sostituibili, rispetto ad altri beni soggetti a

tassazione inferiore: l’applicazione di una tassazione superiore su particolari beni rispetto ad

altri valutati, dal consumatore, sostituibili è discriminatoria se questa differenza di tassazione

ha l’effetto di scoraggiare le importazioni dei beni tassati maggiormente.

Sull’applicabilità del principio di non discriminazione anche nel settore dell’imposizione

diretta è indispensabile premettere la configurazione del primato del diritto comunitario in

virtù della lettura del principio di sussidiarietà ex art. 5 TCE34, il quale segna i confini

giuridici entro i quali devono limitarsi la potestà legislativa interna e quella comunitaria

affinché il superiore interesse dei soggetti comunitari venga tutelato. L’intervento della

giurisprudenza comunitaria nel settore dell’imposizione diretta è giustificato dalla necessità di

evitare che i sistemi tributari interni minino l’obiettivo comunitario di un mercato basato sulla

concorrenza35, in particolare è giustificato dalla stretta relazione sussistente tra il costo legato

all’esborso monetario derivante dall’imposizione sul reddito e il prezzo finale del prodotto o

servizio, o sul salario reale percepito dal lavoratore per le sue prestazioni, i quali non possono

comprimere la libertà di circolazione dei beni, dei servizi e delle persone. In conclusione di

ciò, nonostante la potestà legislativa sulle imposte dirette sia in capo ai singoli Stati membri,

questa deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario e dei suoi principi. Appunto

per questo è opportuno condividere il pensiero della dottrina e della giurisprudenza costante

che attribuisce all’art. 90 TCE una norma di tutela al soggetto comunitario dalle fattispecie

discriminatorie nazionali rientranti nella fiscalità diretta il cui effetto consta in un’effettiva

maggiore imposizione sui prodotti esteri.

33 Si rinvia ad una nota sentenza inerente l’elevata tassazione danese sulle automobili. C.G.C.E., sentenza del 11/12/1990, causa C-47/88, Commissione c. Danimarca, P. 10. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 34 “La comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le sono assegnati dal presente trattato. Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”. 35 Amatucci, F., 2003. Op. cit.. PP. 112-117.

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20

In tal senso si ricorda la sentenza Societè des Fonderies de Pont-à-Mousson36, la quale è stata

la prima decisione del giudice comunitario in merito al principio di non discriminazione

fiscale. In quel caso semplicemente si affermò che la discriminazione consiste nel trattare in

modo diverso situazioni comparabili. Nel caso Klöckner37 la Corte sostanzialmente aggiunse

che la conseguenza della discriminazione è la manifestazione di un pregiudizio in capo a

taluni soggetti. Affinché non sussista una discriminazione, le diversità di trattamento devono

perciò essere giustificate da differenze obiettive e di un rilievo apprezzabile con riguardo al

confronto fra le situazioni dei soggetti. A rifinire quanto fino ad ora affermato, sentenziando

sul caso Italian refrigeretors38, la Corte ha proseguito la sua opera di precisazione del

principio elaborando i concetti di discriminazione materiale e discriminazione formale. La

prima, che è vietata e non offre alcun nuovo spunto di riflessione rispetto alle precedenti

sentenze, è raffigurabile come un diverso trattamento ingiustificato di situazioni analoghe o

come un analogo trattamento di situazioni diverse. La seconda, che consiste nel trattare in

maniera diversa due situazioni obiettivamente dissimili, viene definita apparente, e quindi

ammissibile, se non risulta correlata ad una discriminazione materiale. Successivamente, nelle

cause riunite Ruckdeschel e Hauptzollamt39, la Corte ha chiuso il cerchio della definizione del

principio di non discriminazione affermando che esso è “l’espressione specifica del principio

generale di uguaglianza e che fa parte dei principi fondamentali del diritto comunitario”. In tal

modo, dal punto di vista di chi scrive la presente tesi, la Corte ha voluto sottolineare

l’altissima portata etico-giuridica del principio di non discriminazione in quanto lo ha

indirettamente definito non solo quale strumento necessario per il raggiungimento delle

finalità economiche sancite nel Trattato, bensì come corollario essenziale per l’attuazione

dell’ancora più generale principio di uguaglianza indispensabile per un corretto, proficuo e

non distorto funzionamento del mercato unico. Sempre nella appena citata sentenza, è stato

ribadito che tale principio impone di non trattare in modo diverso situazioni analoghe, salvo

che una differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata40.

Vista tale giurisprudenza, per fattispecie discriminatoria si intende:

• ingiustificata disparità di trattamento di situazioni giuridiche comparabili;

• ingiustificato trattamento similare di soggetti posti su situazioni giuridiche differenti;

36 C.G.C.E., sentenza del 17/12/1959, causa C-14/59, Societè des Fonderies de Pont-à-Mousson. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 37 C.G.C.E., sentenza del 13/07/1963, cause riunite C-17/61 e C-20/61, Klöckner – Werke AG e Hœsch AG. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 38 C.G.C.E., sentenza del 17/07/1963, causa C-16/63, Italian refrigeretors. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 39 C.G.C.E., sentenza del 19/19/1977, cause riunite C-117/76 e C-16/77, Ruckdeschel v Hauptzollamt Hamburg-St. Annen. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 40 Per un ulteriore approfondimento, C.G.C.E., sentenza del 13/12/1984, causa C-106/83, Sermide, P. 28. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>.

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21

• disparità di trattamento sproporzionata rispetto alla differenza delle situazioni

giuridiche dei soggetti41.

Oltre alla discriminazione basata sulla cittadinanza del soggetto, cosiddetta discriminazione

diretta o palese, la quale è espressamente vietata dal Trattato, dalla giurisprudenza della Corte

si evince l’estensione del divieto di discriminazione alle sue forme indirette o dissimulate. Più

precisamente: sono contrarie al principio di non discriminazione quelle norme interne che,

fondandosi su criteri diversi dalla cittadinanza del soggetto, pervengono allo stesso risultato

causato dalla discriminazione diretta42. Esempi lampanti di discriminazioni indirette43 si

ritrovano in tutte quelle norme che prevedono una diversità di trattamento basata sul concetto

di residenza: nella quasi totalità dei casi, infatti, nazionalità e residenza collimano e pertanto

la previsione di un trattamento legato alla residenza dei soggetti si traduce in una

discriminazione legata alla nazionalità. Come nota la Corte nel caso Biehl44, infatti, “il criterio

che ricollega alla residenza nel territorio nazionale l'eventuale rimborso dell’imposta versata

in eccesso, sebbene si applichi indipendentemente dalla cittadinanza del contribuente

interessato, rischia di danneggiare in particolare i contribuenti cittadini di altri Stati membri”.

Sulle discriminazioni a rovescio, solo accennate in precedenza, è opportuno soffermarsi

nuovamente al fine di comprendere l’operatività dei principi di eguaglianza e non

discriminazione e le naturali conseguenze sul piano del mercato europeo della concorrenza e

della fiscalità. La discriminazione a rovescio è raffigurabile in una disparità di trattamento che

pone in una situazione di svantaggio i cittadini o le imprese dello stesso Stato membro

rispetto ai cittadini o alle imprese straniere per quanto concerne settori direttamente o

indirettamente collegati al diritto comunitario45. Tali discriminazioni sono l’effetto naturale

della volontà di agevolare l’ingresso nel mercato interno46, da altro Stato membro, di merci,

41 Sulla comparabilità delle situazioni giuridiche si rinvia al paragrafo 1.2.2. 42 C.G.C.E., sentenza del 12/02/1074, causa C-152/73, Sotgiu. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 43 È opportuno segnalare che normalmente si ritengono indirettamente discriminatorie le diversità di trattamento legate a particolari requisiti quali la lingua, l’esperienza legata al territorio e il non riconoscimento della qualifica professionale conseguita in altro Stato membro. 44 C.G.C.E., sentenza del 08/05/1990, causa C-175/88, Biehl, P. 14. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 45 “L’applicazione, da parte di uno organo di uno Stato membro, ad un lavoratore, cittadino nello stesso Stato, di provvedimenti che privano della libertà o che limitano la libertà dell’interessato di circolare nel territorio di detto Stato, come provvedimento penale contemplato dalla legge nazionale ed a causa di fatti commessi nel territorio di detto Stato, rientra fra le situazioni puramente interne, estranee all’ambito di applicazione delle norme del Trattato CEE in materia di libera circolazione dei lavoratori”. C.G.C.E., sentenza del 28/03/1979, causa C-175/78, Saunders. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 46 Per un esempio di discriminazione a rovescio atta ad incentivare l’ingresso di risorse straniere, e nel contempo a tutelare il sistema interno da pratiche elusive, si rimanda alla normativa olandese sulle exit tax, la quale, semplificando notevolmente, prevede la tassazione delle plusvalenze sulle partecipazioni rilevanti in capo ai contribuenti olandesi, ma non in capo ai soggetti con residenza fiscale in altro Stato membro che si sono trasferiti nel territorio dei Paesi Bassi per un breve periodo. Sull’analisi della sua incompatibilità col diritto comunitario, si rinvia a: Boers, S., traduzione a cura di Nikifarava, K., 2009. L’impatto del diritto UE sulla normativa olandese in materia di exit tax, in Exit tax: analisi comparata e comunitaria, 1, 1 Giu. Disponibile su <http://ste.seast.org/home/home.aspx>. Data di accesso [16/12/2009].

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22

capitali, risorse o persone. Per comprendere il limite che sussiste tra il divieto e il non divieto

dell’introduzione di norme discriminanti al rovescio, è da analizzare la portata dell’art. 12

TCE. Il principio di eguaglianza si pone a tutelare i soggetti comunitari se la loro situazione

giuridica è in relazione col diritto comunitario. Essendo le discriminazioni a rovescio

strettamente legate alla libertà di circolazione di merci e persone, si evince che suddetto

principio non opera, a causa del principio di sussidiarietà, esclusivamente nelle situazioni

puramente interne, cioè nelle situazioni in cui la discriminazione a rovescio non oltrepassa i

confini nazionali. Le discriminazioni a rovescio sono pertanto contrarie al diritto comunitario

quando si pongono, anche solo potenzialmente, a comprimere l’esercizio di una libertà

fondamentale: in particolare i soggetti o le imprese di uno Stato membro potranno essere

tutelati dall’art. 12 TCE se il trattamento discriminatorio osta sulla loro possibilità di ingresso

nel mercato comunitario. In questo senso, infatti, la giurisprudenza ha censurato le norme che

pongono in una situazione di svantaggio il soggetto ricorrente con residenza in altro Stato

membro, la cui posizione giuridica è assimilabile a quella di un soggetto di altra nazionalità47.

Se il trattamento discriminatorio in capo al soggetto residente non ha effetti sulla sua

possibilità, anche solo potenziale, di ingresso nel mercato, le discriminazioni a rovescio sono

considerate compatibili e quindi non censurabili. In questo senso, però, pare doveroso dover

riflettere sulle conseguenze di un simile atteggiamento giurisprudenziale. Da un lato la

capacità concorrenziale dei soggetti economici interni viene compressa per logiche

riassumibili nella volontà di attirare risorse ed investimenti. Dall’altro, non ponendo il diritto

comunitario il divieto di prevedere una tassazione maggiore sui soggetti nazionali rispetto agli

stranieri ivi insediati, l’ammissibilità delle discriminazioni a rovescio contribuisce affinché i

singoli sistemi fiscali si pongano in una corsa al ribasso dell’onere fiscale complessivo. Si

osserva che da un lato i singoli sistemi fiscali giocano col mercato offrendo agli operatori

economici la possibilità di accedere nel loro mercato interno ad una fiscalità di vantaggio

rispetto sia alla fiscalità cui i soggetti interni devono sottostare, sia alla fiscalità che

sottostarebbero i soggetti esteri nel loro Stato di residenza, dall’altro i sistemi fiscali tendono

ad evitare la fuoriuscita di risorse verso altri sistemi fiscali tramite normative discriminatorie

o restrittive di matrice protezionistica. Il circolo vizioso conseguente tale gioco trova il suo

risultato in una proliferazione di normative contrarie al diritto comunitario, quali le

disposizioni che ostano i movimenti in uscita, e dall’altro un effetto destinato a smantellare gli

equilibri e la coerenza dei singoli sistemi fiscali. La non volontà di tutelare i soggetti interni

dalle discriminazioni fiscali interne ha quindi l’effetto sia di rimandare agli organi

47 Si rimanda alla parte conclusiva del paragrafo 2.1.1. per un approfondimento in ambito tributario. C.G.C.E., sentenza del 27/06/1996, causa C-107/94, Asscher. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>.

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costituzionali nazionali il sindacato di legittimità di siffatte normative in base ai singoli

principi di eguaglianza nazionali, sia di spiegare la limitata portata del principio comunitario

di eguaglianza. Dal punto di vista di chi scrive, è da rilevarsi come una maggior imposizione

fiscale sui contribuenti nazionali, in particolare sui soggetti organizzati in forma d’impresa,

rispetto ai contribuenti stranieri abbia l’effetto di distorcere il mercato interno e transazionale,

limitando la competitività del soggetto economico lecitamente sfavorito e, quindi, ponendolo

in una situazione di svantaggio in una più ampia ottica della competitività internazionale. È

quindi logico criticare la posizione della Corte sostenendo che, secondo una lettura ampia del

principio di sussidiarietà, la totalità, o la quasi totalità, delle discriminazioni fiscali a rovescio

si pongano indirettamente in contrasto sia con l’attuazione del mercato unico, sia con i

principi liberali su cui è fondata la stessa Unione Europea.

1.2. Le libertà fondamentali sancite dal Trattato: la norma del trattamento nazionale

in relazione al principio di non discriminazione fiscale

1.2.1. Le libertà fondamentali secondo il Trattato: efficacia diretta della norma del

trattamento nazionale

Il principio di non discriminazione basato sulla nazionalità, trovando “applicazione

generale e non limitata alle ipotesi espressamente prefigurate da altre disposizioni del

Trattato”48 ed essendo corollario specifico del generale principio di eguaglianza, viene

applicato in assenza di altre disposizioni che vietino specificamente trattamenti discriminatori.

Intimamente connesse al principio di non discriminazione enunciato dal Trattato, si ritrovano

le disposizioni che sanciscono le libertà fondamentali del soggetto comunitario.

La libertà di circolazione dei lavoratori ex art. 39 TCE è volta a garantire i diritti di

occupazione, di movimento e dimora all’interno dei territori comunitari, tramite l’abolizione

di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità a proposito di accesso all’impiego,

retribuzione e, in generale, condizioni di lavoro.

L’art. 43 TCE sancisce che la libertà di stabilimento “importa l’accesso alle attività non

salariate e al loro esercizio nonché la costituzione di imprese e (…) di società alle condizioni

definite dal Paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini”. Tale articolo “implica la

48 Amatucci, F., Divieto di discriminazione fiscale dei lavoratori subordinati nell’ambito dell’Unione Europea, in Diritto e pratica tributaria, 1996, II. PP. 227-257.

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possibilità per un cittadino comunitario, di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla

vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine”49.

La portata della norma del “trattamento nazionale “ sancita dall’art. 43 TCE è ricavabile dalla

sentenza Reyners50. Il caso si fondava sulla mancata ammissione all’Ordine professionale

legale belga al sig. Reyners, cittadino olandese che aveva svolto gli studi legali in Belgio, in

ragione della sua cittadinanza. La Corte sentenziò che la norma del trattamento nazionale è un

caposaldo giuridico fondamentale della Comunità e che le sue disposizioni sono direttamente

applicabili non appena concluso il periodo transitorio51 con l’unico limite delle deroghe

previste dallo stesso Trattato. Il medesimo principio si applica, oltre che alle persone fisiche

anche alle società per effetto di quanto sancito nell’art. 48 TCE52. Gli artt. 49-55 TCE

esplicitano il divieto di restrizioni alla libera prestazione di servizi, prevedendo deroghe a

proposito dell’attività di banche ed assicurazioni, all’interno della Comunità nei confronti dei

cittadini comunitari stabiliti in uno Stato membro della Comunità diverso da quello

destinatario della prestazione. L’art. 55 TCE richiama le precedenti disposizioni di cui agli

artt. 45-48 TCE affermando che esse regolano anche il capo relativo ai servizi. In tale senso si

ritiene opportuno rinviare al caso van Binsbergen53, relativo al divieto di restrizioni alla libera

prestazione di servizi. Il sig. van Binsbergen conferì la procura ad litem all’avv. Kortmann,

cittadino olandese che durante il procedimento d’appello davanti al Centrale Raad van Beroep

(corte d’appello in materia di sicurezza sociale e di funzione pubblica) trasferì la propria

residenza in Belgio. Il rinvio trovò giustificazione nella contestazione promossa dal Centrale

Raad van Beroep all’avvocato in merito alla sua legittimazione di svolgere ancora il mandato

in quanto la legge olandese prevedeva che solo persone residenti in Olanda potevano

assumere il patrocinio dinanzi al Centrale Raad van Beroep. La Corte, sancendo

l’incompatibilità della norma olandese, affermò l’efficacia diretta del divieto di

discriminazioni che colpiscono il prestatore del servizio in virtù della sua nazionalità o della

sua residenza in uno Stato diverso da quello in cui viene fornito il servizio54.

Gli obiettivi della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi consistono nel

garantire il libero esercizio alle attività commerciali, industriali, artigianali e alle libere

49 C.G.C.E., sentenza del 19/11/2009, causa C-314/08, Filipiak, P. 52. Disponibile su <http://curia.europa.eu>. 50 C.G.C.E., sentenza del 21/06/1974, causa C-2/74, Reyners. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 51 L’ex art. 52 CEE prevedeva infatti che le restrizioni alla libertà di stabilimento dovevano essere gradatamente soppresse durante il periodo transitorio. 52 Secondo l’art. 48 TCE, per poter beneficiare della libertà di stabilimento le società devono essere costituite in conformità con la legislazione di uno Stato membro e devono avere la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno del territorio comunitario. 53 C.G.C.E., sentenza del 3/12/1974, causa C-33/74, van Binsbergen. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 54 Per un approfondimento circa l’efficacia diretta del diritto di stabilimento in rapporto al principio di non discriminazione si veda: Perilli, L., 2001. Seminario di studio “Il trattato di Amsterdam e l’evoluzione dell’Unione europea”. Il diritto di stabilimento nell’esercizio delle attività commerciali e professionali. Trento, 26/10/2001. Disponibile su <http://www.csm.it> [Data di accesso: 01/12/2009].

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professioni sul territorio della Comunità col fine di instaurare e sviluppare il mercato comune

e nell’offrire alla Comunità uno strumento giuridico che, se misurato come complemento del

più generale principio di non discriminazione, sicuramente contribuisce all’integrazione

socio-economica e agli altri compiti cui la Comunità è promotrice.

Si richiama da ultimo l’art. 56 TCE per quanto attiene la libertà di circolazione dei capitali55 e

dei pagamenti la cui portata sostanziale è in continuo sviluppo in virtù della rilevante

integrazione monetaria conseguente l’introduzione dell’Euro. Il Trattato sancisce il divieto di

“restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e Paesi terzi”.

Viene però lasciata la facoltà di prevedere differenziazioni normative, a condizione che non si

delineino come discriminazioni arbitrarie o restrizioni dissimulate, fondate sulla residenza

degli investitori o sul luogo in cui trovano collocazione i capitali56.

1.2.2. La comparabilità delle situazioni giuridiche e i differenti approcci utilizzati dalla

Corte

Prima di passare all’analisi dei settori della fiscalità europea coinvolti da questioni di

incompatibilità con l’ordinamento comunitario, si ritiene opportuno terminare il presente

capitolo andando a specificare il differente approccio adottato dalla Corte nella formulazione

delle sue sentenze57. Esistono tre grandi filoni adottati dalla Corte strettamente legati alla

storia della sua giurisprudenza e della sua capacità di lettura del Trattato. Fino alla sentenza

Futura58 è stato prevalentemente adottato un approccio volto ad accertare la presenza di una

norma discriminatoria, cosiddetto approccio basato sul divieto di discriminazioni. A

premettere la competenza a sentenziare, innanzitutto la Corte deve rilevare se l’oggetto della

questione trova una tutela nel diritto comunitario, secondo il principio di sussidiarietà e

valutata la presenza dell’elemento transfrontaliero, il quale è strettamente legato all’esercizio

di una libertà fondamentale. Successivamente la Corte analizza la comparabilità delle

situazioni giuridiche. La problematica principale dell’analisi della situazione soggettiva

consiste nell’individuare il concetto di similarità tra due situazioni, o meglio determinare

quando due situazioni possono definirsi comparabili. Studiando la formazione del giudizio di

comparazione, si può affermare che la giurisprudenza si è mossa, utilizzando formulazioni

individuate di caso in caso, su uno dei seguenti binari:

55 Il Trattato ha trovato attuazione nella Direttiva 88/361/CEE. 56 In tal senso si veda: Valente, P., 2006. Fiscalità sovranazionale. II edizione. Milano: Il Sole 24 Ore. P. 275. 57 Si veda: Del Sole, A., 2007. Op. cit. PP. 37-39. 58 C.G.C.E., sentenza del 15/05/1997, causa C-250/95, Futura-Singer. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>.

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• comparazione limitata al singolo aspetto del rapporto giuridico;

• comparazione della complessiva posizione economica e giuridica del soggetto59.

Sui termini di comparazione è il caso di soffermarsi brevemente anticipando gli effetti delle

sentenze Schumacker e Futura che saranno analizzati nel successivo capitolo. Nei due casi di

riferimento la Corte ha sollevato la problematica della comparabilità fra le situazioni

giuridiche dei residenti rispetto ai non residenti. Innanzitutto bisogna premettere che il

paragone viene costruito sul versante interno al singolo ordinamento: sarebbe insensato

confrontare la situazione del residente con quella non residente confrontando le normative

fiscali dei due Stati membri perché in tal caso si andrebbero a confrontare i due sistemi

giuridici evidenziando, semmai, i noti problemi di armonizzazione o ravvicinamento delle

legislazioni. La comparazione affrontata sull’analisi del singolo sistema fiscale deve essere

basata sulla logica sottesa al principio di capacità contributiva. In questo senso, quindi, la

competenza a determinare l’effettiva capacità contributiva spetta allo Stato membro in cui il

soggetto trova la fonte della sua quasi totalità dei redditi. In conseguenza di ciò un soggetto

non residente che non produce una parte rilevante dei suoi redditi nello Stato membro in cui è

insediato non potrà essere validamente confrontato con un soggetto che risiede e produce in

suddetto Stato la totalità dei suoi redditi60. Appare dunque pacifico affermare che un diverso

trattamento fiscale è legittimato se giustificato dalla differente situazione giuridica dei

soggetti su cui è basato il paragone, nel contempo è perciò ingiustificato e discriminatorio un

trattamento fiscale similare di due soggetti la cui posizione giuridica, in virtù di quanto

sopraespresso, non risulti paragonabile61.

Se l’approccio volto ad accertare una discriminazione vietata trova il suo fulcro interpretativo

nella comparabilità delle situazioni giuridiche e si pone sempre a tutela del superiore principio

di eguaglianza, l’approccio volto ad accertare una restrizione vietata appare tecnicamente più

snello ed efficace. L’analisi non si concentra, infatti, sulla difficile comparabilità tra residenti

59 Boria, P., 2005. Op cit. PP. 109-112. 60 “La diversità di trattamento ai fini impositivi tra soggetti appartenenti ad una comunità statale (…) e soggetti esterni non può essere il linea di principio considerata discriminatoria, visto che alla base delle due situazioni non vi è quell’eguaglianza la cui violazione potrebbe determinare” la discriminazione. Pistone, P., La non discriminazione anche nel settore dell’imposizione diretta: intervento della Corte di giustizia, in Diritto e pratica tributaria, 1995, I-2. PP. 1471-1501. 61 Sulla non comparabilità tra contribuenti residenti e contribuenti non residenti il cui patrimonio è principalmente posseduto nello Stato di residenza, in virtù della regola Schumacker, si segnala: C.G.C.E., sentenza del 05/07/2005, causa C-376/03, D. PP. 37-38, 43. Disponibile su <http://curia.europa.eu>. Per un commento si rinvia a: Bulgarelli, F., Il principio di libera circolazione dei capitali e la comparabilità delle situazioni di residenti e non residenti e di non residenti di Stati membri diversi tra loro: il caso D, in Rassegna tributaria, 2005, 6. PP. 2038-2060. Secondo l’autore il concetto di capacità contributiva è connotato da un elemento di ordine sovranazionale e pertanto non può essere limitato dalle scelte di un singolo ordinamento giuridico. In questo contesto va dunque analizzato il confronto del residente rispetto al non residente: da un lato risultano necessari indici di ricchezza economica quali presupposto dell’imposta; dall’altro, all’ordinamento del contribuente non residente deve risultare irrilevante il fatto che lo Stato di sua residenza non assoggetti a tassazione il patrimonio su cui è calcolata suddetta ricchezza.

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e non residenti, bensì è volto unicamente ad accertare che l’utilizzabilità delle libertà

fondamentali non trovi ostacoli nella normativa tributaria dello Stato membro. In questo

senso, qualsiasi norma fiscale il cui effetto diretto o indiretto si espliciti in un onere che renda

sconveniente l’utilizzo di una libertà fondamentale, se non sussistono cause legittimanti una

deroga, può essere considerata restrittiva e, dunque, vietata. Oltre ai due approcci qui rilevati,

è utile segnalare che negli ultimi anni la Corte sta adottando un approccio misto. Il

ragionamento posto a valutare l’idoneità della norma non è più volto ad effettuare un’analisi

in senso discriminatorio o restrittivo, pare piuttosto confondersi. In tali casi infatti la Corte

utilizza il test di comparazione con l’intento di analizzare la portata restrittiva di una norma,

oppure afferma che una restrizione vietata si traduce in una discriminazione. Nonostante la

confusione di ordine terminologico e operativo, suddetto approccio ha sia l’effetto di

specificare, nel caso sussistessero dubbi, l’interconnessione logica tra la norma del

trattamento nazionale, la libertà di utilizzo dei diritti fondamentali e il più generale principio

di eguaglianza, sia la capacità di affrontare, in un’ottica semplificatrice, la sempre maggiore

complessità dei casi di matrice fiscale.

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2. Il principio di non discriminazione fiscale e il divieto di restrizioni

fiscali in riferimento alle quattro libertà fondamentali

2.1. Il divieto di imporre restrizioni fiscali in entrat a: la prospettiva dello Stato di

insediamento

2.1.1 La libera circolazione dei lavoratori e libertà di stabilimento delle persone fisiche:

gli effetti della sentenza Schumacker

Il “valore assoluto delle libertà fondamentali”62 è stato riconosciuto nel settore della

fiscalità con il caso Barbier63, in base al quale la tutela comunitaria può essere invocata anche

senza motivazioni di ordine economico o professionale64.

Sul generale divieto di prevedere discriminazioni fiscali in materia di imposte sul reddito non

alberga alcuna ipotesi di dubbio, dovendo le imposte dirette, nonostante siano sottese alla

potestà legislativa degli Stati membri, confrontarsi con il Trattato CE e i principi che regolano

il diritto comunitario65.

L’approccio di cui la Corte si è servita per valutare la compatibilità della normativa fiscale

interna in riferimento al principio di libera circolazione dei lavoratori è, nella maggioranza dei

casi, riferibile a quello basato sul divieto di discriminazioni. Per valutare la presenza o meno

di una discriminazione vietata è stata perciò utilizzata, caso per caso, la tecnica della

comparazione della situazione giuridica dei non residenti in rapporto a quella dei residenti66.

La ragione di suddetta comparazione risiede nel carattere personale tipico delle imposte sui

redditi delle persone fisiche le quali, al fine di determinare l’effettiva capacità contributiva, da

un lato comprendono i redditi prodotti su base mondiale e dall’altro prevedono la deducibilità

di particolari oneri necessari alla loro formazione. Secondo questa logica, se il non residente

produce redditi significativi sia nello Stato di residenza sia in quello di destinazione, si può in

generale apprezzare un’effettiva diversità circa le situazioni oggetto di comparazione.

62 Tesauro, F., Il ruolo della Corte di Giustizia nel coordinamento della tassazione delle società – Schema della relazione svolta alla conferenza della Commissione europea, EU Corporate Tax Reform: Progress and New Challenge, Roma-Ostia, 05/12/2003, in Tributimpresa, 2004, 1. 63 C.G.C.E., sentenza del 11/12/2003, causa C-364/01, Barbier. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 64 In senso contrario, a dimostrazione dell’orientamento giurisprudenziale precedente alla sentenza Barbier, si segnala: C.G.C.E.: sentenza del 26/01/1993, causa C-112/91, Werner. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 65 Si rimanda al caso Biehl precedentemente citato. 66 In tal senso: Del Sole, A., 2007. Op. cit. P. 244.

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Nell’ordinamento tributario dello Stato di destinazione il non residente potrà così essere

correttamente considerato nella stessa posizione del residente nei seguenti casi:

• la normativa dello Stato d’origine non riconosce al residente particolari deduzioni o

detrazioni fiscali in virtù del suo movimento in uscita;

• la normativa tributaria dello Stato d’origine, a sua volta, tratta il soggetto come non

residente.

Pertanto, al verificarsi di una delle situazioni sopraespresse, la compatibilità della norma

tributaria interna viene analizzata considerando comparabili le situazioni dei residenti rispetto

a quella dei non residenti.

Negli altri casi è quindi logico affermare che la normativa fiscale interna potrebbe

legittimamente non prevedere la deducibilità di particolari oneri in capo ai non residenti sulla

logica che essi saranno considerati in deduzione dal reddito imponibile nello Stato membro a

cui è collegata la loro residenza. In questi casi, quindi, la Corte andrà ad esaminare la

legittimazione delle disparità di trattamento in virtù delle differenti situazioni giuridiche, al

fine di determinare la compatibilità della norma nazionale.

La generale non comparabilità, ai fini dell’imposta personale sui redditi, tra la situazione del

residente rispetto a quella del non residente, derivante dal fatto che normalmente il non

residente percepisce nello Stato di destinazione solo una parte del suo reddito mondiale, è

stata sancita con il caso Schumacker67. La previsione di un diverso trattamento tributario cui

sono assoggettati residenti e non residenti può essere giustificato dal fatto che, nella generalità

dei casi, i non residenti producono la maggior parte del loro reddito nel Paese di residenza. Da

tale sentenza si evince inoltre che, per non essere ritenuta discriminatoria, la normativa dello

Stato di destinazione deve essere in grado di valutare la situazione del non residente,

necessaria al fine di determinarne la capacità contributiva, se tale situazione non è considerata

nel suo Stato d’origine. In conseguenza di ciò, la capacità contributiva del contribuente deve

essere valutata dal Paese membro in cui tale indice è più agevolmente determinabile, cioè nel

Paese in cui si forma la totalità, o la quasi totalità, dei redditi imponibili68. In conclusione di

ciò, devono considerarsi indirettamente discriminatorie le disposizioni normative degli Stati

di destinazione che prevedono un trattamento fiscale più gravoso in capo ai soggetti residenti

67 Il caso riguardava la valutazione di una normativa tedesca che prevedeva una maggiore tassazione per il non residente, risultante da una mancata considerazione della situazione personale e familiare, che ivi svolgeva attività lavorativa, senza tener conto che la mancata percezione di redditi significativi nello Stato di residenza precludeva l’accesso a particolari benefici fiscali. C.G.C.E., sentenza del 14/02/1995, causa C-279/93, Schumacker. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 68 In tal senso si segnala la sentenza Wallentin in cui la Corte ha sancito che lo Stato di residenza non è in grado di determinare se al soggetto che percepisce la totalità o la quasi totalità del suo reddito nello Stato di destinazione spettano o meno agevolazioni fiscali la cui base è la determinazione della situazione personale e familiare del soggetto. C.G.C.E., sentenza del 01/07/2004, causa C-169/03, Wallentin. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>.

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in altro Stato membro e aventi esercitato una libertà fondamentale, la cui capacità contributiva

sia valutabile nello Stato di destinazione, rispetto ai residenti perché, in tali casi, residenti e

non residenti devono essere assoggettati alla stessa imposta e, nel contempo, devono poter

usufruire delle medesime agevolazioni fiscali69.

La soluzione Schumacker è sicuramente adatta a risolvere i casi di una certa semplicità ma,

probabilmente, la sua inadeguatezza è sollevabile se utilizzata nel risolvere quelle situazioni

intermedie riscontrabili nei casi in cui il reddito familiare venga a determinarsi tramite la

tassazione congiunta dei redditi dei due coniugi di cui uno ha trasferito nello Stato di

destinazione la residenza, mentre l’altro risulta residente nello Stato d’origine. Dalla

giurisprudenza si evince che la soluzione Schumacker è ritenuta compatibile nel caso il

reddito familiare sia quasi totalmente determinato dal coniuge che ha trasferito la propria

residenza nello Stato di destinazione70. L’inadeguatezza, che deriva da un’incertezza circa la

determinazione della comparabilità delle situazioni, è semmai riscontrabile quando entrambi i

coniugi producono redditi rilevanti alla formazione del reddito complessivo familiare. A

parere della Corte, normative che prevedono dei limiti minimi circa la frazione del reddito

complessivo prodotto nello Stato di destinazione come condizione necessaria per poter

accedere alle agevolazioni in questo ultimo Stato sono da considerarsi compatibili71. La logica

è riconducibile al fatto che la previsione di una base imponibile sufficiente ai fini della

determinazione della situazione personale e familiare è strumentale per non creare

discriminazioni basate su un’ingiusta equiparazione di situazioni giuridiche sostanzialmente

differenti. In tal senso è il caso di segnalare l’inadeguatezza di suddetta logica: sarebbe

semmai corretto prevedere una ripartizione dell’imposizione tributaria, e quindi la ripartizione

dei benefici fiscali, determinata sulla base della proporzione dei redditi prodotti nello Stato

d’origine e nello Stato d’insediamento. Certamente però la mancanza di fonti normative

comunitarie in suddetto ambito non possono aiutare né la Corte, la quale può soltanto limitarsi

a determinare la compatibilità di tali normative anche secondo il principio di proporzionalità,

né gli organi nazionali preposti a legiferare.

Oltre al generale divieto di prevedere un trattamento fiscale sfavorevole a chi ha esercitato

una libertà in entrata, è il caso di riprendere fugacemente la questione delle cosiddette

discriminazioni a rovescio. Tali discriminazioni si distinguono da quelle fino ad ora esaminate

per il fatto che “la controversia viene instaurata nei confronti dello Stato membro del quale il

69 Amatucci, F., 1996. Op. cit. 70 C.G.C.E., sentenza del 16/05/2000, causa C-87/99, Zurstrassen. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 71 C.G.C.E., sentenza del 14/09/1998, causa C-291/97, Gschwind. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>.

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ricorrente è un cittadino”72 residente in altro Stato membro. Estendendo la regola Schumacker

anche in questi casi, la Corte è pervenuta a ritenere discriminatoria quella norma il cui

risultato si concretizza in una maggior imposizione fiscale in capo al non residente cittadino la

cui situazione è assimilabile a quella del residente73. Le altre discriminazioni a rovescio,

riassumibili in una maggior imposizione fiscale in capo ai residenti, la cui ragione d’essere è

riferibile più ad un incentivo all’ingresso nel mercato interno da parte di soggetti residenti in

altri Stati membri piuttosto che a voler porre in una situazione di svantaggio gli stessi

residenti, sono invece considerate conformi al Trattato CE.

2.2.2 La libertà di stabilimento delle imprese in rapporto alla libertà di circolazione dei

capitali e dei pagamenti come espressione del principio di non discriminazione

fiscale

La norma del trattamento nazionale è la formula in base alla quale il principio di non

discriminazione si esprime in riferimento alla libertà di stabilimento. Esistono due modalità

tramite le quali una società si può insediare in uno Stato membro:

• formula del cosiddetto stabilimento primario, consistente nel diritto di esercitare la

propria attività principale in uno Stato membro diverso da quello d’origine;

• formula del cosiddetto stabilimento secondario: la società si insedia in uno Stato

membro tramite l’apertura di agenzie, succursali o filiali.

È da rilevare fin da ora che la libertà di stabilimento è intimamente connessa alla libertà di

movimento dei capitali. La ragione risiede nel fatto che la scelta di stabilire l’attività in altro

Stato membro comporta la necessità di poter trasferire liberamente anche i capitali

indispensabili al suo avvio e al suo funzionamento, sui quali non devono perciò gravare oneri

di derivazione normativa che possano pregiudicare l’accesso al mercato o, più in generale, la

competitività dell’impresa. In tal senso bisogna comprendere il legame tra queste due libertà,

in particolare è da rilevare il principio secondo il quale eventuali normative atte ad ostacolare

il trasferimento di capitali siano da valutarsi in riferimento alla libertà di circolazione dei

72 Melis, G., 2006. I redditi di lavoro dipendente e il diritto comunitario. Disponibile su <http://www.luiss.it>. Data di accesso [05/12/2009]. 73 Si rimanda al caso Asscher precedentemente citato nel quale la Corte, ai fini della valutazione della comparabilità delle situazioni giuridiche, è pervenuta a constatare che tra due contribuenti che esercitano la stessa attività, se non sussistono ragioni che possano giustificare una non comparabilità, non è possibile prevedere una maggior imposizione fiscale in capo al non residente.

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capitali o alla libertà di stabilimento. La sentenza Bachmann74 sancisce il principio secondo il

quale le restrizioni alla libertà di circolazione dei capitali devono essere risolte in base alla

normativa riferibile alla libertà cui tali restrizioni risultano essere direttamente sottese, cioè in

base alle norme riferibili alla libertà fondamentale violata cui la restrizione alla libera

circolazione dei capitali è stata strumento indispensabile. Tale principio di portata generale ha

trovato la sua specifica applicazione nell’ambito della libertà di stabilimento con la sentenza

della Corte nel caso Baars75. Si evince che la restrizione alla libera circolazione dei capitali va

valutata secondo il principio della libertà di stabilimento laddove suddetta restrizione sia

potenzialmente in grado di ostacolare, o di rendere meno conveniente, l’acquisizione di una

partecipazione tale da conferire al soggetto che la detiene la capacità di influenzare

concretamente i processi decisionali della società. In ambito tributario è perciò da constatare

che il principio di libero movimento dei capitali e dei pagamenti si può riassumere nel divieto

di prevedere un beneficio o un onere fiscale che renda meno attraente il movimento

transfrontaliero dei capitali. In tal senso quindi sono vietate sia le restrizioni dei movimenti

dei capitali in entrata76, sia le normative il cui effetto si sostanzia in un ostacolo ai movimenti

dei capitali in uscita77.

Nonostante la formulazione letterale del Trattato sia alquanto limpida, si rileva la tendenza

degli Stati membri a trasgredire o dissuadere il principio della libertà di stabilimento, sia per

scoraggiare il trasferimento all’estero delle imprese nazionali78, sia per attirare nuovi capitali e

nuovi investimenti nei propri territori o, in riferimento a particolari settori, per ostacolare gli

investimenti esteri nel mercato interno con l’evidente scopo di proteggere le imprese nazionali

dalla legittima concorrenza che si verrebbe a creare in un mercato privo di ostacoli fiscali.

A sancire il principio della libertà nella modalità di stabilimento in altro Stato membro da

parte della società non residente, è intervenuta la Corte con la nota sentenza Avoir Fiscal79,

dalla quale si ricava che si considerano discriminatorie le disposizioni tributarie che trattano

in maniera ingiustamente diseguale i soggetti in base alla modalità di stabilimento da essi

74 Si rammenta che tale sentenza riguarda una restrizione riferibile alla libera circolazione dei lavoratori attuata mediante una norma restrittiva circa la libertà di circolazione dei capitali. C.G.C.E., sentenza del 28/01/1992, causa C-204/90, Bachmann. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 75 C.G.C.E., sentenza del 13/04/2000, causa C-251/98, Baars, PP. 22, 30-31, 41. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 76 In tal senso si rimanda al caso Bouanich, che sancisce il divieto di dissuadere gli investitori non residenti nello Stato membro di acquistare azioni di società ivi residenti. C.G.C.E., sentenza del 19/01/2006, causa C-264/04, Bouanich, PP. 34. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 77 Tra le varie si rimanda al caso Verkooijen, che stabilendo che la concessione dell’esenzione sui dividendi sulla base che tali dividendi siano distribuiti da società ivi residenti, sancisce il generale divieto di ostacolare la raccolta di capitali nello Stato membro da parte di società residenti in altro Stato membro. C.G.C.E., sentenza del 06/06/2000, causa C-35/1998, Verkooijen. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 78 Si rimanda al successivo paragrafo 2.3. per la trattazione dell’argomento. 79 C.G.C.E., sentenza del 16/10/1986, causa C-270/83, Avoir Fiscal. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>.

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adottata80. In capo ad ogni imprenditore sussistono così, sullo stesso piano, sia la libertà di

stabilimento primaria, sia la libertà di stabilimento secondaria, spiegabile come il diritto di

aprire stabili organizzazioni81 in un altro Stato membro. Sulla scorta di ciò, con il caso

Commerzbank82 la Corte, riprendendo la sentenza Sotgiu, dispose che il principio della parità

di trattamento vieta non solo le discriminazioni basate sulla cittadinanza o sulla sede bensì

anche le discriminazioni dissimulate, e pertanto non è ammissibile che uno Stato membro

riservi un trattamento diverso sulla base della sede posta in altro Stato membro in quanto si

svuoterebbe di significato l’art. 43 TCE. Lo Stato di destinazione non può quindi sacrificare il

pieno realizzo della libertà di stabilimento, e quindi il diritto di scegliere la forma giuridica

appropriata alle esigenze dell’impresa83, tramite normative interne che concedano vantaggi

fiscali il cui presupposto è il trasferimento della residenza, o in virtù di una Convenzione

stipulata contro le doppie imposizioni. La norma del trattamento nazionale impone allo Stato

membro di “concedere ai centri di attività stabili di società non residenti le agevolazioni

previste dalla Convenzione alle stesse condizioni delle società residenti”84. Tale asserzione ha

suscitato non poche perplessità in dottrina. Infatti è da rilevare che, secondo la prassi

internazionale, l’ambito di applicazione soggettivo delle Convenzioni bilaterali è riferito

esclusivamente ai residenti degli Stati stipulanti, pertanto una stabile organizzazione di un

soggetto non residente non può beneficiare, nello Stato di stabilimento, di quanto introdotto

dalle Convenzioni. Tuttavia, con la citata sentenza Saint-Gobain, la giurisprudenza

80 Nel caso di specie, Secondo la Corte non è escluso che in ambito tributario si possa, in determinati casi, compiere in maniera giustificata una distinzione basata sullo Stato ove la società ha la sua sede. In ogni caso non trova giustificazione, e quindi crea discriminazione fiscale, la disparità di trattamento nella fruizione di un’agevolazione d’imposta, tra le imprese aventi sede sociale nel territorio francese e le succursali o le agenzie situate nello stesso territorio ma aventi la sede principale in altro Stato membro, se sono poste sullo stesso piano ai fini della tassazione sui profitti da esse realizzati. Sarebbe stato quindi sensato, in quanto non fiscalmente discriminatorio, negare il credito d’imposta alle società non residenti se le stesse non fossero tenute a versare l’imposta sul dividendo ricevuto. È quindi logico affermare che, trattando nella stessa maniera le due forme di stabilimento ai fini della tassazione sui profitti, il diritto francese ha tacitamente statuito che le due categorie di soggetti erano comparabili creando, in conseguenza di ciò, una discriminazione fiscale ingiustificata. 81 L’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE definisce la stabile organizzazione “una sede fissa d’affari mediante cui l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività”. I requisiti richiesti affinché si configuri una stabile organizzazione possono sintetizzarsi nell’esistenza e permanenza nello Stato di un centro di installazione idoneo a produrre connesso con la società estera. Per un interessante approfondimento in merito al concetto di stabile organizzazione si segnala: Garbarino, C., 2005. Manuale di tassazione internazionale. I edizione. Milano: IPSOA. PP. 263-312. 82 C.G.C.E., sentenza del 13/07/1993, causa C-330/91, Commerzbank. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 83 C.G.C.E., sentenza del 23/02/2006, causa C-253/03, CLT-UFA, P. 17. Disponibile su <http://curia.europa.eu>. Nel caso di specie si segnala però un’interessante critica di Tenore circa il termini di comparazione, secondo il quale “anziché comparare la stabile organizzazione in Germania ad una società residente in tale stesso Stato, la Corte avrebbe dovuto equiparare a quest’ultima la società residente in Lussemburgo” in quanto si dovrebbe analizzare l’esistenza della distribuzione dell’utile anziché “l’effettiva imposizione del dividendo in capo all’azionista”. Tenore, M., Metodi per eliminare la doppia imposizione economica e ricerca del giusto tertium comparationis nello Stato della stabile organizzazione, in Rivista di diritto tributario, 2006, III. PP. 149-166. 84 Così si è espressa la Corte in merito all’estensione dei benefici in capo ai soli soggetti aventi residenza in Germania conseguenti una Convenzione bilaterale stipulata tra Germania e Stati Uniti. C.G.C.E., sentenza del 21/09/1999, causa C-307/97, Saint-Gobain. Disponibile su <http://curia.europa.eu>.

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comunitaria si è posta in senso contrario alla direttrice internazionale, estendendo anche alle

stabili organizzazioni estere gli effetti delle Convenzioni stipulate dallo Stato in cui sono

insediate.

Più in generale, è da rilevare che in materia di imposizione dei redditi la libertà di

stabilimento risulta violata quando, ai sensi della normativa interna, le stabili organizzazioni

risultano discriminate rispetto alle imprese residenti per quanto attiene i criteri posti alla

determinazione della base imponibile qualora le due categorie di soggetti siano poste sullo

stesso piano ai fini della tassazione perché, in tal caso, sarebbe lo stesso ordinamento interno

ad ammettere implicitamente la comparabilità delle situazioni giuridiche. La differenza di

trattamento fiscale sarebbe perciò legittima e giustificabile se imprese residenti e stabili

organizzazioni fossero sottoposti a distinti regimi fiscali e se le situazioni giuridiche poste a

fondamento di tali regimi risultassero effettivamente incomparabili.

Risultano pertanto incompatibili col diritto comunitario le normative interne che concedono

ad una società residente, controllata da una società estera, dei benefici fiscali subordinati al

fatto che la residenza della controllante sia rinvenibile nel medesimo Stato membro85.

Il divieto di prevedere trattamenti fiscali più gravosi in capo ai soggetti che hanno usufruito

della libertà di stabilimento in entrata trova una sua interessante connotazione nella

valutazione in merito alla compatibilità delle norme antiabuso, con particolare riferimento alle

norme sulla thin capitalization86. Tali norme, diffuse nella generalità degli ordinamenti

tributari interni, mirano a contenere quelle pratiche elusive che si traducono in una struttura

del patrimonio societario abile a favorire il risparmio fiscale. La pratica di conferire denaro ad

una società tramite finanziamenti, da parte dei soci, atti ad eludere un effettivo apporto di

conferimenti comporta la trasformazione degli utili in oneri finanziari passivi aventi il duplice

effetto di sottocapitalizzare il patrimonio societario e di erodere la base imponibile fiscale87

85 In tal senso si segnala una sentenza relativa al regime fiscale dei dividendi imposto nello Stato di residenza della società distributrice. Il problema di fondo concerneva l’impossibilità di accedere all’imposizione di gruppo in presenza di capogruppo residente in altro Paese membro, possibilità accordata invece se la capogruppo era residente nel Regno Unito. In conseguenza di ciò era concessa la facoltà alle sole succursali di capogruppo residenti di pagare i dividendi senza essere tenute al pagamento anticipato dell’imposta, vantaggio evidente se si considerano i benefici economici legati ad una gestione profittevole dei flussi di cassa. La Corte ha rilevato che per evitare una discriminazione nei confronti degli azionisti stranieri sarebbe stato necessario prevedere un sistema di rimborsi accessibile alle capogruppo stabilite in altro Stato membro che risarcisca la perdita finanziaria tenendo conto, ovviamente, anche degli interessi a questa correlati. C.G.C.E., sentenza del 08/03/2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft e Hoechst. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 86 Per approfondire lo studio circa l’applicazione delle norme di capitalizzazione minima, a seguito della sentenza Lankhorst-Hohorst, negli ordinamenti fiscali europei e in particolare nell’ordinamento italiano si segnala: Dodero, A., Ferranti, G., Izzo, B., Miele, L., 2008. Imposta sul reddito delle società. I edizione. Milano: IPSOA. PP. 347-354. 87 In tal senso si veda: Percuoco, S., 2006. Gli effetti delle thin capitalization nella fiscal unit. In: A. Iorio, a cura di, 2006. L’attività di controllo sul consolidato nazionale – Spunti di dialogo tra A.F. e mondo accademico, professionale e imprenditoriale. Milano: IPSOA. P. 229.

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che, se considerate in un’ottica di tassazione di gruppo multinazionale, trovano il loro realizzo

finale nello spostamento dei profitti nello Stato membro il cui livello di tassazione risulta

inferiore. In questo senso le varie normative tributarie hanno predisposto lo strumento del

debit/equity ratio, efficace nel misurare il livello di indebitamento della struttura patrimoniale

e, quindi, utile a determinare la sottocapitalizzazione della società. Si pone così il problema

della deducibilità di suddetti oneri finanziari, a cui le normative sulla thin capitalization

cercano di offrire una soluzione in chiave antielusiva. Con la sentenza Lankhorst-Hohorst88 la

Corte è intervenuta sancendo che le norme sulla thin capitalization sono da considerarsi

contrarie al diritto comunitario se prevedono un trattamento diversificato basato sulla

nazionalità tale da scoraggiare l’esercizio della libertà di stabilimento. La necessità di

combattere l’elusione fiscale non può giustificare una normativa che colpisca la totalità delle

situazioni in cui la capogruppo, o i soci, delle società residenti sono residenti in altro Stato

membro perché, in questo caso, anche le società che si sono fortemente indebitate verso i

propri soci per motivi diversi dalla volontà di ottenere un risparmio fiscale verrebbero

danneggiate per il solo fatto di risultare sottocapitalizzate. La normative interne sulla thin

capitalization, e più in generale le normative che restringono l’esercizio di una libertà

fondamentale, devono essere proporzionate agli scopi antiabuso o antielusione che intendono

perseguire, ma non possono tuttavia attuarsi in una presunzione di carattere generale destinata

a colpire, nel concreto, anche le situazioni i cui intenti elusivi risultano pacificamente estranei.

La normativa restrittiva interna, per essere giustificata, deve quindi avere “lo specifico scopo

di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di

effettività economica e finalizzate a eludere la normale imposta sugli utili generati da attività

svolte nel territorio nazionale”89 e, in conseguenza di ciò, deve essere previsto che il

contribuente possa motivare, senza dover sostenere eccessivi oneri, le ragioni determinanti le

88 La normativa tedesca prevedeva la riqualificazione in dividendi degli interessi relativi ai finanziamenti fruttiferi, superiori a tre volte il valore della partecipazione detenuta (debit/equity ratio), erogati da soci qualificati, cioè dai soci che detenevano oltre il 25% delle partecipazioni, privi del diritto del credito d’imposta. Tale diritto non spettava agli azionisti non residenti e a particolari categorie di persone giuridiche di diritto tedesco. La questione trovava dimora nel contenzioso sorto tra la società tedesca Lankhorst-Hohorst, il cui socio unico era una società residente in Olanda, e il Finanzamt Steinfurt a seguito della riqualificazione a dividendi, con relativa tassazione pari al 30%, della quota di interessi del finanziamento eccedente il debit/equity ratio. A parere del giudice del rinvio, detto finanziamento poteva essere ottenuto a condizioni analoghe tramite l’indebitamento verso terzi, tesi non accolta dalla società che invece sosteneva che detta operazione era necessaria ai fini del suo stesso salvataggio visto l’elevato tasso di indebitamento e le garanzie prestate pressoché inesistenti. La Lankhorst-Hohorst sostenne quindi che detto finanziamento, costituendo un tentativo evidente di salvataggio, non poteva essere qualificato come distribuzione dissimulata di dividendi e, inoltre, che tale norma era discriminatoria ai sensi dell’art. 43 TCE in quanto gli azionisti tedeschi potevano beneficiare, a differenza di quelli non residenti, del suddetto credito d’imposta. C.G.C.E., sentenza del 12/12/2002, causa C-324/00, Lankhorst-Hohorst , PP. 31-32, 37-38. Disponibile su <http://curia.europa.eu>. 89 C.G.C.E., sentenza del 13/03/2007, causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, P. 74. Si veda anche, tra le altre: C.G.C.E., sentenza del 12/09/2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas, P. 55. Disponibili su <http://curia.europa.eu>.

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transazioni transfrontaliere in oggetto90. Con il caso Lammers & van Cleef NV91 si può

chiudere il cerchio relativo alle norme sulla thin capitalization. In tale sentenza la Corte ha

statuito il principio secondo il quale la riqualificazione di interessi in utili è legittima se

l’importo di suddetti interessi è maggiore di quanto si converrebbe in un contesto di piena

concorrenza. Di conseguenza, il mancato rispetto del principio di piena concorrenza

costituisce un indicatore oggettivo e verificabile per stabilire se la transazione sia il frutto di

una costruzione artificiosa finalizzata all’elusione della legislazione fiscale di detto Stato

membro.

2.2. Exit tax e libertà di movimento in uscita: la prospettiva dello Stato d’origine

2.2.1 Introduzione al concetto di exit tax e divieto di ostacoli fiscali ai movimenti in uscita

In questo paragrafo si intende investigare circa la compatibilità delle exit tax rispetto

al diritto comunitario. Non avendo lo spazio per analizzare l’intero panorama giuridico, ci si

soffermerà ad esaminare le misure i cui effetti si rinvengono in capo a società o imprenditori e

il modo in cui la giurisprudenza le ha valutate in rapporto al principio di non discriminazione

e al principio della libertà di stabilimento. Prima di procedere, è bene inquadrarle in linea

generale sia da un punto di vista prettamente definitorio, sia in riferimento alle norme sancite

dal Trattato. Per exit tax si intendono le forme di imposizione in uscita legate al trasferimento

da uno Stato membro ad un altro, della residenza di un individuo, di una società o di una

stabile organizzazione92. Il loro scopo è raffigurabile sia nella volontà di assicurare a

tassazione la base imponibile del soggetto passivo maturata nello Stato d’uscita nel periodo

fiscale in cui esso era ivi residente, sia nel volere contrastare quelle operazioni a carattere

elusivo che si realizzano per ragioni di mero risparmio fiscale e che si concretizzano in

un’erosione della base imponibile.

Per offrire una classificazione sommaria delle possibili configurazioni delle imposizioni

all’uscita, è il caso di ripartire gli ordinamenti tributari comunitari in due distinti gruppi in 90 In tal senso la citata sentenza Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, P. 92. 91 C.G.C.E., sentenza del 17/01/2008, causa C-105/07, Lammers & van Cleef NV, PP. 30-34. Disponibili su <http://curia.europa.eu>. 92 In tal senso si trova interessante segnalare che il termine è “Generally used to refer to a tax which arises on emigration, either of companies and individuals, under which the taxpayer is deemed to dispose of its assets and is taxed on any resulting gain” in Larkink, B., a cura di, 2001, International Tax Glossary, IBFD, P. 138 e citata da Kuiper, W. G., I trattati fiscali contro le doppie imposizioni. In: Dragonetti, A., Piacentini, V., Sfondrini, A., a cura di, Manuale di fiscalità internazionale. III edizione, 2008. Milano: IPSOA, P. 100.

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base ai principi adottati in tema di trasferimento della residenza fiscale: si distinguono così gli

ordinamenti che adottano il principio della sede reale dagli ordinamenti che adottano il

principio dell’incorporazione93. Nei primi si osserva che dal punto di vista tributario il

trasferimento della residenza fiscale viene assimilata alla liquidazione dell’attività. Nei

secondi, invece, la normativa si è concentrata principalmente nella tassazione delle

plusvalenze latenti maturate al momento del trasferimento dei cespiti, o di altre attività, in una

stabile organizzazione estera. Oltre alla tassazione anticipata delle plusvalenze e

dell’assimilazione in campo tributario del trasferimento alla liquidazione, nell’esperienza

europea le exit tax si sono configurate anche in norme che prevedono presunzioni di residenza

destinate ad ampliare il presupposto soggettivo dell’imposizione o, nell’ambito della

determinazione del profilo territoriale dell’imposta, in norme il cui effetto è rinvenibile in

un’estensione dei criteri di localizzazione dei redditi prodotti nel territorio di competenza

dello Stato d’origine da soggetti passivi emigrati in un’altra giurisdizione tributaria. Per

riprendere e proseguire quanto accennato all’inizio di questo paragrafo, è corretto constatare

che le exit tax trovano un largo successo negli ordinamenti interni: i loro scopi dichiarati si

ritrovano nel determinare, e quindi riscuotere, le imposte competenti allo Stato d’uscita, e nel

porre un freno al diffondersi di pratiche di elusione fiscale. Altre cause d’introduzione, non

sempre palesate dai legislatori nazionali, potrebbero banalmente riassumersi nella volontà di

perseguire la cosiddetta ragion fiscale94 e nella volontà di arginare i possibili danni derivanti

dalla concorrenza fiscale osservabile nel mercato comunitario dei tributi, quindi impedire che

i trasferimenti di risorse in altri Paesi membri possano concretamente ridurre le entrate fiscali

dello Stato d’origine.

A titolo esclusivamente classificatorio, è il caso di distinguere fugacemente tra restrizioni

fiscali all’uscita dirette e indirette. Le prime negano l’uscita dallo Stato d’origine ai beni o ai

soggetti mentre le seconde si prepongono a deprimere l’uscita dallo Stato d’origine

prevedendo gravami fiscali sui beni o sui soggetti in uscita maggiori rispetto a quelli che

restano confinati all’interno del territorio nazionale95.

Le imposizioni fiscali destinate a colpire, direttamente o indirettamente, il soggetto passivo a

causa della sua scelta di trasferire in altro Paese comunitario i propri interessi economici

devono tuttavia confrontarsi, ovviamente, col dettato normativo comunitario e, in particolare,

93 Per un approfondimento riguardo la comparazione dei profili societari e tributari nelle operazioni di trasferimento della residenza fiscale nei vari diritti interni si veda: Melis, G., 2005. Profili sistematici del “trasferimento” della residenza fiscale delle società. Disponibile su <http://www.luiss.it>. Data di accesso [05/12/2009]. 94 Per “ragion fiscale” si intende la “tutela dell’interesse pubblico primario alla rapida e sicura riscossione dei tributi”. In tal senso Falsitta, G., 2005. Op. cit. P. 158. 95 In tal senso si rinvia ad una definizione riferita alla libera circolazione delle merci: Del Sole, A., 2007. Op. cit. P. 266.

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col Trattato e i fini per i quali esso è stato costituito. È il caso di segnalare che, in un’analisi

meramente superficiale, si potrebbe affermare che il Trattato nulla esplicita circa

l’introduzione di tali disposizioni tributarie in quanto si concentra, come già precedentemente

esaminato, unicamente a sancire il divieto di discriminazioni basate sulla nazionalità e il

divieto di restrizioni in entrata con l’evidente scopo di osteggiare le misure poste a proteggere

gli equilibri del mercato interno a scapito di quello comune. È il caso però di segnalare che la

libertà di trasferimento96 in altro Stato membro è stata riconosciuta dal legislatore comunitario

tramite la Direttiva 68/360/CEE97, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento

dei lavoratori comunitari, e la Direttiva 73/148/CEE98, relativa alla soppressione delle

restrizioni al trasferimento in materia di stabilimento e di prestazione di servizi. Bisogna

inoltre ricordare che l’obiettivo cardine cui la Comunità dovrebbe mirare la soddisfazione

tramite le sue politiche e i suoi atti è sancito all’art. 2 TCE, pertanto è corretto inserire anche

in questo contesto l’analisi delle exit tax per valutare se esse possono configurarsi come degli

illegittimi muri posti a limitare la creazione del mercato unico. Sottesi agli obiettivi di

integrazione sanciti dal Trattato si ritrovano dunque i diritti essenziali del soggetto

comunitario concernenti nella libertà di circolazione o di stabilimento, quindi è indiscutibile,

secondo la giurisprudenza comunitaria che si andrà a commentare nel prosieguo, che per una

completa realizzazione del mercato comune, e per il non ostacolare il compiersi delle

operazioni transfrontaliere, tali diritti debbano essere intesi nel loro significato più ampio,

cioè anche in riferimento al diritto d’uscita.

Il primo passo per offrire un’analisi della compatibilità delle imposte riferite ai movimenti in

uscita è stato fatto con la già citata sentenza Biehl. Nel caso di specie il giudice comunitario

ha valutato contraria al diritto comunitario una norma fiscale lussemburghese che prevedeva

la non rimborsabilità delle trattenute d’imposta debitamente subite sulla retribuzione del

contribuente. Tale norma prevedeva inoltre che il cambio di residenza in corso d’anno non era

valido motivo di restituzione di quanto eccessivamente versato. In particolare si è osservato

che una siffatta norma, nonostante sia indirizzata verso la generalità dei contribuenti

indipendentemente dalla loro cittadinanza, comporta una discriminazione indiretta in quanto,

nel concreto, pone in una situazione di svantaggio immotivato i cittadini di altri Paesi membri

visto che nella generalità dei casi saranno questi ultimi a trovarsi nella situazione di aver

subito eccessive trattenute, vista la loro normale propensione a cambiare la residenza, rispetto

al debito tributario effettivamente dovuto. Questa sentenza dimostra che la norma del 96 Per un approfondimento circa la libertà di trasferimento dei cittadini dell’Unione si veda la Direttiva 2004/58/CE, GU L 158/77, 30/04/2004, concernente il diritto dei cittadini comunitari di circolare e soggiornare liberamente nei territori dell’Unione, che abroga le direttive 68/360/CEE e 73/148/CEE. 97 Direttiva 68/360/CEE, GU L 257, 19/10/1968. 98 Direttiva 73/148/CEE, GU L 172, 28/06/1973.

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trattamento fiscale nazionale, quale strumento per la soddisfazione del principio della libertà

di circolazione, debba essere applicata anche in relazione al movimento in uscita del soggetto,

sia esso destinato verso uno Stato membro terzo o verso lo Stato membro d’origine del

movimento migratorio. Riassumendo, e completando quanto affermato nei precedenti

paragrafi, il diritto comunitario pone dunque il divieto agli Stati membri di prevedere oneri

fiscali più gravosi in ossequio alla scelta di esercitare la libertà di circolazione in uscita.

Pertanto, più semplicemente, le disposizioni che impediscono o scoraggiano un cittadino di

uno Stato membro di lasciare il Paese di residenza, sia esso d’origine o di precedente

destinazione, per esercitare tale libertà fondamentale sono da considerarsi in linea di massima

vietate, anche se si applicano indipendentemente dalla cittadinanza degli interessati99.

In sintonia con quanto affermato in merito alla libertà di circolazione e di stabilimento delle

persone fisiche, le conclusioni giurisprudenziali circa il diritto di stabilimento in uscita delle

società si fondano sul concetto che l’art. 43 TCE assicura la libertà di stabilimento non solo

quale strumento per evitare misure protezionistiche a favore delle imprese nazionali, bensì

anche nel senso che impedisce la creazione di ostacoli di natura giuridica imposte dallo Stato

d’uscita alle società. In tal senso è da sottolineare il percorso seguito dalla Corte, la quale ha

espressamente considerato contrarie al diritto comunitario norme fiscali che prevedevano un

diverso trattamento circa il riporto delle perdite in base alla presenza, o meno, della società

correlata nel territorio dello stesso Stato membro100. Ponendo sullo stesso piano giuridico la

localizzazione delle filiali in rapporto alla casa madre, rendendo così comparabile la

situazione di una casa madre con filiali situate nel medesimo territorio rispetto ad un’altra

casa madre con filiali situate in altro territorio comunitario101, la Corte ha affermato che sono

parimenti considerate contrarie alla libertà di stabilimento le normative fiscali che offrono un

beneficio fiscale alla casa madre alla condizione che la filiale non sia situata oltre i confini

nazionali102: concetto questo che, se condivisibile da un punto di vista prettamente limitato

99 Per quanto concerne il divieto, posto sullo Stato d’origine, di ostacolare, con una normativa fiscale dissuadente, la libera circolazione dei lavoratori si trova interessante segnalare: C.G.C.E., sentenza del 12/12/2002, causa C-385/00, De Groot, PP. 77-78. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 100 In tal senso, si veda il caso Amid. La normativa belga stabiliva che le perdite potevano essere detratte dall’utile d’esercizio solo se residuavano a seguito del riporto di suddette perdite negli utili delle stabili organizzazioni situate in altro Stato membro. Tale limite non sussisteva, invece, se la società correlata era residente in Belgio. C.G.C.E., sentenza del 14/12/2000, causa C-141/99, Amid, P. 23. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 101 È il caso di segnalare che in ambito societario il test di comparabilità ricavabile dalle sentenze Schumacker e Avoir Fiscal trova un’applicazione mediata. Si ricorda in questa sede che in suddetta sentenza, già esaminata nel precedente paragrafo, la Corte ammise che la situazione giuridica del soggetto residente è sostanzialmente diversa da quella del non residente, ammettendo quindi un trattamento fiscale diversificato. 102 In tal senso la Corte afferma che l’art. 52 TCE deve essere interpretato in modo che sia vietato per uno Stato membro legare la deducibilità degli oneri sostenuti per l’acquisizione di partecipazioni alla localizzazione delle stesse all’interno del medesimo Stato membro. C.G.C.E., sentenza del 23/02/2006, causa C-471/04, Keller Holding, P. 50. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>.

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alla salvaguardia del principio di divieto di restrizioni in uscita, appare piuttosto limitato e

semplicistico in quanto non punta a risolvere il problema analizzandone le radici, cioè non si

preoccupa di connettere le normative degli ordinamenti interni come risposta alla mancanza di

norme positive comunitarie destinate alla suddivisione della potestà tributaria tra gli Stati

membri. Compiendo una necessaria inversione di tendenza, la Corte, nel caso Marks &

Spencer103, ha ristretto il concetto di comparabilità delle situazioni giuridiche sopraesposto

anche nel settore delle restrizioni in uscita con esplicito riferimento alle note sentenze

Schumacker e Avoir Fiscal, introducendo una serie di ipotesi legittimanti la diversità di

trattamento fiscale tra gruppi di imprese nazionali e gruppi di imprese con società situate in

altro territorio comunitario. La necessità di prevedere un trattamento diversificato è essenziale

non solo per evitare una riduzione delle entrate fiscali dello Stato d’origine, ma anche al fine

di evitare “pericolosi arbitraggi volti a trasferire le perdite negli Stati in cui il livello di

tassazione è più elevato, al fine di ridurre l’onere fiscale complessivo del gruppo”104. Con tale

sentenza, infatti, si sono introdotti i principi secondo i quali la differenziazione del trattamento

di consolidamento delle perdite tra società con filiali nello stesso Stato membro rispetto a

società con filiali site anche in altri Stati membri, e quindi più in generale nell’ambito della

possibilità di accedere o meno a benefici fiscali in base alla luogo in cui sono localizzati gli

investimenti, è legittimata se non sproporzionata rispetto agli obiettivi preposti. Tali principi

si possono così riassumere:

• è necessario ripartire il potere impositivo tra gli Stati membri in cui sono situati gli

investimenti;

• la misura restrittiva è necessaria e non contraria al diritto comunitario se persegue il

fine di contrastare la duplice utilizzazione delle perdite in compensazione;

• la misura restrittiva è giustificata nel momento in cui è destinata a colpire le pratiche

di trasferimenti di perdite intragruppo attuati col solo scopo di ottenere un risparmio

del consolidato fiscale105.

Concludendo, le misure fiscali protezionistiche, ovverosia le disposizioni aventi lo scopo o

l’effetto sostanziale di scoraggiare gli investimenti dei soggetti nazionali verso l’estero per

incoraggiare semmai quelli destinati ad attività domestiche, costituiscono certamente una

103 C.G.C.E., sentenza del 13/12/2005, causa C-446/03, Marks & Spencer, PP. 31-35, 38-41, 44, 47-51, 59. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 104 Del Sole, A., 2007. Op. cit. P. 300. 105 Le osservazioni presentate dal Regno Unito e dagli altri Stati membri circa la giustificazione alle misure restrittive si possono così riassumere: (I) necessità di ripartire in maniera equilibrata il potere impositivo degli Stati membri; (II) le perdite potrebbero essere utilizzate due volte se fossero conteggiate esclusivamente nello Stato membro della società sussidiaria; (III) sussiste un rischio di pratiche di evasione fiscale se le perdite non fossero considerate nello Stato membro di stabilimento della filiale. In tal senso si segnala: Hellebrekers, J., L’influenza dei principi generali della normativa comunitaria nell’imposizione diretta e giurisprudenza in materia. In: Dragonetti, A., Piacentini, V., Sfondrini, A., a cura di. Op. cit. P. 221-223.

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discriminazione106, se riservano un trattamento diversificato a situazioni giuridiche

comparabili, o una restrizione illegittima se ostacolano o scoraggiano il diritto di avvalersi di

una libertà fondamentale107, se non sono supportate da una causa giustificatrice meritevole di

tutela.

2.2.2 La tassazione sulle plusvalenze latenti tra profili di compatibilità e incertezza

giuridica

Dopo questa necessaria panoramica sugli ostacoli fiscali riguardanti i movimenti in

uscita, è ora il caso di spostare la trattazione nell’argomento di maggior interesse, vista la sua

diffusione tra gli ordinamenti interni, di questo paragrafo: la valutazione della compatibilità

delle imposte sulle plusvalenze latenti in riferimento al superiore diritto comunitario. La

tassazione delle plusvalenze, che normalmente avviene nel momento della loro effettiva

realizzazione, cioè nel momento in cui i beni o il complesso dei beni possono essere

configurabili quali elementi positivi di reddito a seguito di un’alienazione o di un’operazione

ad essa assimilabile, assume una connotazione specifica nei casi di trasferimenti

transfrontalieri. Il problema della valutazione della compatibilità della tassazione delle

plusvalenze ovviamente non sorge se il trasferimento dei beni di cui sopra ha luogo tra

soggetti interni allo Stato membro, bensì se un soggetto passivo trasferisce la propria

residenza in un altro Paese senza aver prima alienato i beni, e quindi realizzato le relative

plusvalenze, oppure se i cespiti di una società vengono trasferiti verso una sua stabile

organizzazione presente in altro Stato membro. È da sottolineare che in questi casi, anche in

virtù delle convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate, gli eventuali profitti

sfuggirebbero dalla potestà impositiva dello Stato d’origine per confluire in quella dello Stato

di destinazione. La soluzione generalmente adottata dagli ordinamenti fiscali interni consta

quindi nell’assoggettare a tassazione i plusvalori maturati, e non realizzati, nel momento

dell’emigrazione del soggetto passivo o del trasferimento del singolo bene108.

106 Tra le altre, oltre alla già citata sentenza Biehl, per un approccio basato sul divieto di discriminazioni si trova interessante segnalare: C.G.C.E., sentenza del 21/02/2006, causa C-152/03, Ritter-Coulais, PP. 35-38, 41. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 107 Tra le altre, si trova interessante segnalare una sentenza riguardante il divieto di restrizioni sulla circolazione dei capitali; in particolare si sancisce che il diritto comunitario osta ad una norma fiscale che ostacoli la raccolta dei capitali nazionali da parte di società situate in altro Stato membro: C.G.C.E., sentenza del 09/11/2006, causa C-520/04, Turpeinen. PP. 20, 22, 31, 39. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 108 Kovàcs, L., traduzione a cura di D’Angelo, G., 2009. La politica della Commissione europea in materia di exit tax, in Exit tax: analisi comparata e comunitaria, 1, 1 Giu. Disponibile su <http://ste.seast.org/home/home.aspx>. Data di accesso [16/12/2009].

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Normative di siffatta specie sono state, negli ultimi anni, oggetto di giudizio da parte della

Corte. Si parla in particolare dei casi, sostanzialmente simili, De Lasteyrie109 e N110. Nei due

casi si rilevava la presenza di una serie di oneri particolarmente gravosi, in capo ai

contribuenti intenzionati a trasferire altrove il proprio domicilio fiscale, che miravano

innanzitutto a determinare il valore delle plusvalenze mobiliari latenti e successivamente ad

assoggettarle a tassazione anticipandone il presupposto d’imposta111. È da rilevare che il

presupposto d’imposta, in siffatti casi, non è il realizzo di un reddito, come avviene per le

plusvalenze conseguenti l’alienazione effettiva dei cespiti, bensì è collegato unicamente alla

decisione di trasferire in altro Stato membro la propria residenza fiscale con evidente

contrasto del principio di capacità contributiva. Norme che prevedono la possibilità di

ritardare il pagamento del debito d’imposta non risolvono la questione, semplicemente

riducono i danni derivanti dalla restrizione che rimane, dunque, violata. Motivazioni quali

l’esigenza di impedire la riduzione delle entrate fiscali112, la volontà di prevenire l’evasione

fiscale e l’efficacia dei controlli, concernenti nella volontà di evitare che i contribuenti

abusino della libertà di stabilimento spinti dallo scopo predominante di aggirare la normativa

fiscale dello Stato d’origine, non possono giustificare un simile trattamento generalizzato

sull’intera platea dei contribuenti, bensì dovrebbero stimolare l’amministrazione fiscale

affinché rilevi quei soli casi in cui si siano strumentalizzate suddette libertà113. In sintonia con

la giurisprudenza114, la Corte ha rilevato quindi l’incompatibilità delle normative che limitano

in maniera generale il diritto di trasferire in altro Stato membro la residenza fiscale dei

contribuenti residenti. Nello specifico si intendono contrarie al diritto comunitario sia la

tassazione immediata sulle plusvalenze latenti sia le normative che sospendono suddetta

tassazione in base ad una garanzia patrimoniale avente l’effetto di rendere meno attirabile il

movimento in uscita115.

La compatibilità delle imposte sulle plusvalenze maturate ma non ancora realizzate, per

assicurare le libertà economiche di circolazione e stabilimento, è correlata quindi al profilo

temporale in cui avvengono la determinazione del debito d’imposta e la relativa riscossione. È

indubbio che la tassazione non può avvenire al momento del trasferimento del cespite onde

109 C.G.C.E., sentenza del 11/03/2004, C-9/02, De Lasteyrie. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 110 C.G.C.E., sentenza del 07/09/2006, causa C-470/04, N. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 111 In particolare, nel caso De Lasteyrie si segnalano le condizioni necessarie per l’ottenimento del differimento dell’imposizione sulle plusvalenze, tra cui la costituzione di una garanzia idonea e la nomina di un rappresentante fiscale. 112 Si segnalano in tal senso: la citata sentenza Verkooijen, P. 59; C.G.C.E., sentenza del 16/07/1998, causa C-264/96, ICI, P. 28. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 113 Per un approfondimento si veda: Damiani, M., 2004. Libertà europee e imposizione fiscale. Per una convivenza senza distorsioni. I edizione. Milano: Giuffrè Editore. PP. 227-231. 114 A titolo esemplificativo si rimanda al caso Biehl precedentemente analizzato. 115 Per un interessante approfondimento si rimanda a De Pietro, C., Exit tax su partecipazioni rilevanti, in Rassegna tributaria, 2006, 4, PP. 1377-1401.

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evitare che venga ostacolato il predominante diritto al pieno utilizzo delle libertà sancite dal

Trattato. Conseguenza inevitabile, se non risolta con una visione più ampia del problema,

della perdita di residenza è, per lo Stato d’uscita, la perdita del potere impositivo sulla parte

della base imponibile di sua competenza determinabile soltanto nel momento del realizzo

nello Stato d’adozione. In tal senso, infatti, è intervenuta la Corte, sollevando il problema del

riparto del potere impositivo tra gli Stati membri e offrendo uno schema risolutivo

apprezzabile se valutato secondo i principi di equità fiscale:

• lo Stato d’origine dovrebbe evitare di tassare le plusvalenze latenti;

• lo Stato d’adozione dovrebbe, nel momento del realizzo delle plusvalenze, condividere

il proprio potere impositivo con lo Stato d’origine116.

L’applicazione di suddetto schema non è però agevole per motivi che riguardano, ovviamente,

il profilo della territorialità. Allo Stato d’origine dovrebbe, infatti, venir concesso il potere di

seguire l’evolversi delle plusvalenze latenti anche nei territori estranei alla sua sovranità. In

tal senso però non esiste un modello comunitario ricavabile da atti normativi e perciò questo

schema risolutivo appare più un idealismo fiscale che una tecnica di prelievo attuabile. La

soluzione si inquadrerebbe così in un invito a stipulare convenzioni internazionali in ambito

fiscale che dovrebbero prevedere la possibilità, per lo Stato d’origine, di esercitare la propria

potestà tributaria anche nei territori dello Stato di destinazione in cui le plusvalenze vengono a

realizzarsi117.

2.3. Il divieto di ostacolare la libera prestazione di servizi

Il principio di libera prestazione dei servizi “interessa gli operatori economici (persone

fisiche o giuridiche) che prestano servizi in un Paese diverso da quello in cui sono stabiliti”118.

A differenza della libertà di stabilimento, che è fondata sul concetto della permanenza nello

Stato di destinazione, la libertà di prestazione dei servizi è riferibile a chi svolge in modo non

permanente un’attività non salariata in uno Stato membro diverso da quello in cui il servizio

trova utilizzo. Tale principio, che opera quando non è invocabile una tutela basata sui principi

che regolano le libertà di circolazione di merci, persone e capitali, si pone a tutelare i

116 In tal senso, la tutela dell’equa ripartizione della potestà impositiva è una giustificazione espressa dall’Olanda in riferimento al caso N e la Corte ne ha sostanzialmente accettato il principio giuridico. Si vedano quindi i punti 42-48 della citata sentenza. 117 Per un approfondimento circa la debolezza del modello ricavabile dalla giurisprudenza comunitaria si rimanda a Di Pietro, A., 2009. Passato e futuro dell’exit tax, in Exit tax: analisi comparata e comunitaria, 1, 1 Giu, disponibile su <http://ste.seast.org/home/home.aspx>. Data di accesso [20/12/2009]. 118 Tesauro, F, 2008. Op. cit. P. 388.

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prestatori e i fruitori dei servizi transfrontalieri. Al prestatore di servizio è concessa la libertà

di entrare in altro Stato membro per poter prestare il servizio alle stesse condizioni riservate ai

cittadini di detto Stato, mentre al fruitore deve essere concessa la possibilità di poter usufruire

del servizio nello Stato membro in cui è stabilito il prestatore alle stesse condizioni riservate

ai cittadini dello Stato del prestatore119. L’elemento transfrontaliero è perciò il carattere

essenziale affinché si possa invocare la tutela garantita dalla liberalizzazione dei servizi120.

Spostando la trattazione specificatamente al settore tributario, si rileva che in suddetto campo

si pone il problema di come valutare la compatibilità di norme che prevedono un trattamento

fiscale diversificato sulla base del luogo in cui è stabilito il prestatore. L’applicazione della

norma del trattamento nazionale pare indispensabile per tutelare i prestatori ed i fruitori dei

suddetti servizi: da un lato si pone a salvaguardare il diritto dei fruitori a ricevere i servizi

senza ulteriori aggravi fiscali, dall’altro è indispensabile tutela dei prestatori affinché operino

in un mercato concorrenziale non distorto.

Ricordando che le normative fiscali non sono solamente degli strumenti indispensabili al

finanziamento della spesa pubblica, bensì anche delle leve attraverso le quali il policy maker

va ad influire sulle scelte comportamentali della collettività, è da rilevare la logica di certe

scelte normative che prevedono la deducibilità o la detraibilità di particolari spese o oneri (si

pensi al trattamento delle assicurazioni previdenziali nei vari ordinamenti tributari) in capo a

determinare categorie di soggetti mentre dall’altro il sistema tributario assorbe tali

agevolazioni tramite forme di prelievo sui profitti realizzati dalle organizzazioni che erogano i

servizi agevolati. Al fine di garantire un bilanciamento all’interno del sistema, i vari

ordinamenti tributari interni spesso si segnalano all’attenzione della Corte con la previsione di

normative che contrastano le prestazioni transfrontaliere di servizi favorendone quindi quelle

circoscritte all’interno dei confini nazionali.

Sono vietate quelle normative fiscali nazionali che producano “l'effetto di rendere la

prestazione di servizi tra Stati membri più difficile della prestazione di servizi puramente

interna a uno Stato membro”121, con riferimento alle modalità di applicazione dell’imposta e

alla misurazione del prelievo cui è sottoposto il contribuente. Tali normative sono perciò

incompatibili col Trattato e i suoi principi se negano o limitano illegittimamente122 la

deducibilità dei costi sostenuti per l’acquisizione dei servizi resi da prestatori di servizi

residenti in altro Stato membro o temporaneamente stabiliti nello Stato di destinazione del

servizio. A completare il ragionamento, è il caso di sottolineare che la restrizione può anche 119 Sul divieto di restrizioni alla fruizione del servizio in altro Stato membro si veda: C.G.C.E., sentenza del 29/04/1999, causa C-224/97, Ciola. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 120 C.G.C.E., sentenza del 24/10/1978, causa C-15/78, Koestler. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 121 C.G.C.E., sentenza del 28/04/1998, causa C-118/96, Safir. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 122 Sulle giustificazioni si rimanda al paragrafo conclusivo del presente capitolo.

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operarsi tramite presunzioni che limitano la deducibilità fiscale dei costi sostenuti. In

particolare con il caso Vestergaard123 è stata ritenuta contraria all’art. 49 TCE una norma

danese che prevedeva la non deducibilità delle spese di partecipazione a convegni tenuti in

località turistiche estere, a meno che il contribuente non né dimostrasse l’inerenza. La Corte

ha rilevato la contrarietà di suddetta norma in quanto sui destinatari di tali servizi sussiste il

diritto di fruirne in uno Stato membro diverso da quello in cui vengono prestati,

indipendentemente dalla nazionalità del prestatore ed anche se prestatore e fruitore vantano la

medesima nazionalità.

In questo senso è il caso di citare la modalità di tassazione sui redditi derivanti da una

prestazione di servizio transnazionale resa da un non residente. La previsione di un regime di

ritenuta alla fonte ad hoc per la fattispecie in esame pone ovvi problemi di compatibilità con

la norma del trattamento nazionale. In particolare, nel caso Scorpio124 la Corte di

Lussemburgo ha affrontato l’analisi di un simile regime in virtù degli effetti derivanti

dall’applicazione della ritenuta da parte dei fruitori. Nel caso di specie, si rilevò che suddetta

normativa, se confrontata con quella di cui potevano disporre i prestatori di servizio residenti,

svantaggiava i prestatori non residenti ed i relativi fruitori. I primi, infatti, erano svantaggiati

in termini di liquidità, in quanto la ritenuta era applicata solamente nei loro confronti, mentre i

secondi erano svantaggiati in quanto si vedevano accollati gli oneri amministrativi, con le

conseguenti responsabilità, in virtù della loro scelta. In sintonia con la giurisprudenza, è stato

rilevato che anche in connessione alla libertà di prestazione di servizi è applicabile la regola

Schumacker, secondo la quale le posizioni giuridiche dei non residenti sono confrontabili con

quelle dei residenti nel caso i primi percepiscano la totalità o la quasi totalità dei loro

compensi nello Stato della fonte125. Se una disparità di trattamento tra residenti e non residenti

risulta giustificabile, strettamente correlato a ciò si ritrova la giustificazione di una norma, il

meccanismo della ritenuta alla fonte, la cui ratio consiste nella volontà di garantire la

riscossione dell’imposta sul reddito e, quindi, di evitare che il prestatore non residente sfugga

dalla tassazione sia nello Stato della fonte, sia in quello della residenza126.

In un’ottica di sintesi, che sarà ripresa nel prossimo paragrafo, si intende qui accennare alla

coerenza del sistema fiscale quale giustificazione per una restrizione alla libera prestazione

dei servizi. La ragione su cui si fonda tale giustificazione risiede nel fatto che la possibilità di

concedere un’agevolazione derivante dalla fruizione di un servizio è direttamente compensata

123 C.G.C.E., sentenza del 28/10/1999, causa C-5/98, Vestergaard. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 124 C.G.C.E., sentenza del 03/10/2006, causa C-290/04, Scorpio. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 125 In tal senso si rinvia a: C.G.C.E., sentenza del 12/06/2003, causa C-234/01, Gerritse. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 126 Russo, M., La libera prestazione di servizi: tassazione cedolare o tassazione progressiva su opzione del contribuente?, in Rivista di diritto tributario, 2007, IV. PP. 174-191.

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dalla possibilità di prevedere un’imposizione sul profitto del prestatore. Tale giustificazione è

stata invocata per particolari servizi, come ad esempio quelli inerenti l’ambito assicurativo o il

leasing.

2.4. Deroghe alla norma del trattamento nazionale: le cause di giustificazione

elaborate dalla giurisprudenza

Nel lavoro fino a qui svolto chi scrive la presente tesi si è concentrato particolarmente

nel verificare come la normativa fiscale interna possa essere in contrasto con le libertà

fondamentali sancite dal trattato e con il principio di non discriminazione fiscale. Al fine di

analizzare la compatibilità della misura fiscale nazionale, la Corte esamina la conciliabilità

con il Trattato e con i principi generali del sistema tributario comunitario le eventuali cause,

sollevate dagli Stati membri, che giustificherebbero il trattamento restrittivo o discriminatorio.

Nel prosieguo si spiegheranno tali deroghe, le cosiddette rule of reason, nell’intento di

completare la panoramica offerta.

A titolo meramente classificatorio, a seconda della fonte da cui trovano una genesi diretta, si

distinguono le cause di giustificazioni espressamente previste dal Trattato da quelle elaborate

dalla giurisprudenza. Le prime127 “sono elencate in modo tassativo (…) e si sostanziano nella

necessità di tutelare l’ordine, la sicurezza, la moralità e la sanità pubblici”128. Le seconde si

riuniscono nell’individuazione degli interessi pubblici meritevoli di tutela comunitaria.

In particolare, sono state sottoposte al vaglio della Corte una serie interessi di ordine pubblico

riassumibili nelle seguenti categorie:

• salvaguardia delle entrate fiscali;

• tutela della coerenza del sistema fiscale;

• preservazione dell’efficacia dei controlli fiscali;

• lotta all’evasione e all’elusione fiscale.

Attraverso il test di ragionevolezza, cosiddetto rule of reason test, la Corte verifica l’esistenza

effettiva di un interesse generale meritevole di tutela e la compatibilità della restrizione fiscale

col superiore diritto comunitario. Viene quindi rilevato il fine cui la norma è preposta e se ne

valuta l’idoneità al raggiungimento. Tramite l’analisi della necessità e della proporzionalità si

rileva invece se le restrizioni della norma non eccedano il fine perseguito. Pertanto la norma

127 Si rimanda all’introduzione e al primo capitolo per una loro trattazione. 128 Damiani, M., 2004. Op. cit. P. 161.

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restrittiva deve essere idonea e non deve eccedere quanto strettamente necessario affinché sia

tutelata l’esigenza fiscale nazionale legittima.

Per quanto attiene la necessità di salvaguardare le entrate fiscali, o la volontà perseguita dallo

Stato membro di tutelarsi dalla concorrenza fiscale promossa dagli altri ordinamenti tributari

europei, si rinviene come la Corte abbia escluso la legittimità di suddetti interessi. In

particolare si segnala la non apprezzabilità delle giustificazioni quali la compensazione

economica risultante dal rapporto tra gli svantaggi fiscali provocati dalla normativa

discriminatoria e i vantaggi economici a cui può accedere il contribuente per il semplice fatto

di essere residente in altro Stato membro. Per il raggiungimento di siffatti obiettivi si

dovrebbero quindi prevedere normative differenziate sulla logica dell’eventuale diversità tra

le situazioni giuridiche dei soggetti passivi piuttosto che creare, all’interno della stessa

normativa, discriminazioni o restrizioni mirate a non prevedere agevolazioni od oneri

ricollegabili esclusivamente al profilo della residenza.

Il generale obiettivo di tutelare la coerenza del sistema fiscale ha trovato l’apprezzamento

della giurisprudenza comunitaria. La logica che sottende la sua legittimazione cambia, però,

se la norma fiscale opera esclusivamente all’interno del sistema fiscale dello Stato membro, o

se è il risultato di una Convenzione internazionale. In assenza di Convenzioni internazionali,

la compensazione tra vantaggi e svantaggi conseguenti la norma, per essere apprezzata, deve

essere direttamente circoscritta nella materia fiscale, e più precisamente all’interno della

stessa imposta ed in capo al medesimo contribuente129. Se la norma opera in un contesto

convenzionale il giudizio della Corte si sposta dalla coerenza del sistema fiscale interno alla

valutazione della “reciprocità delle norme applicabili negli Stati contraenti”130: in questo

contesto di coerenza fiscale interstatale, cui le legislazioni degli Stati contraenti hanno

volontariamente rimesso parte della loro sovranità fiscale, deve essere valutata la norma.

Dalla giurisprudenza comunitaria in merito all’analisi delle norme convenzionali non si

rinviene tuttavia una chiara volontà di tutelare la coerenza fiscale interstatale, semmai si rileva

la “più limitata esigenza di equilibrio interstatale emergente”131 dalle norme sottese a tali

accordi. La necessità di tutelare la coerenza del sistema fiscale può essere considerato un

limite legittimo all’applicazione integrale del principio di non discriminazione essendo

considerato il regime fiscale uno strumento indispensabile all’equilibrio della finanza

129 In tal senso si rimanda alla citata sentenza Bachmann. 130 C.G.C.E., sentenza del 11/08/1995, causa C-80/94, Wielockx. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 131 Damiani, M., 2004. Op. cit. P. 174.

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pubblica in quanto consente “il rispetto della struttura impositiva prescelta e (…) di evitare

artificiose ed incontrollabili fuoriuscite di gettito fiscale”132.

La necessità di preservare l’efficacia dei controlli fiscali è stata riconosciuta come una

giustificazione legittima, tuttavia si rileva come tale esigenza difficilmente possa essere

perseguita senza la violazione del principio di proporzionalità. Nonostante il suo formale

riconoscimento nella sentenza nota come Cassis de Dijon133, è stata invocata dagli Stati

membri per giustificare misure che ponevano “limitazioni di natura probatoria alla

deducibilità di perdite, oneri e spese sostenuti nello Stato da soggetti non residenti”134. La

difficile convivenza dell’interesse legittimo in questione con il principio di proporzionalità è

rinvenibile nel caso Futura. In quel caso la normativa lussemburghese prevedeva dei limiti

circa il riporto delle perdite pregresse di un soggetto non residente: se da un lato la condizione

essenziale della compensazione era il nesso economico tra le perdite portate a nuovo e i

redditi realizzati nello Stato lussemburghese, dall’altro la riportabilità delle perdite era legata

ad una tenuta della contabilità secondo la normativa di suddetta legislazione col fine di

dimostrare la correttezza del risultato contabile. In conseguenza di ciò, è chiaro che la casa

madre estera, affinché potesse beneficiare del riporto delle perdite pregresse in relazione ai

risultati economici della propria succursale, avrebbe dovuto tenere, oltre alla propria

contabilità secondo le disposizioni dello Stato d’origine, anche una contabilità separata riferita

all’attività della succursale tenuta secondo le disposizioni dello Stato di insediamento. Mentre

il primo aspetto della questione è stato ritenuto non discriminatorio, perchè conforme al

principio di territorialità, il secondo aspetto, ritenuta valida la necessità di salvaguardia

dell’efficacia dei controlli fiscali, è stato censurato, e valutato contrario alla libertà di

stabilimento, in quanto sproporzionato rispetto al fine prefissato. La normativa dello Stato di

destinazione avrebbe dovuto, secondo la Corte, essere esclusivamente concentrata a prevedere

che il contribuente non residente potesse comprovare la sussistenza e l’entità delle perdite

senza imporgli l’onere della tenuta di una contabilità aggiuntiva. Riassumendo il rapporto tra

efficacia dei controlli fiscali e principio di proporzionalità, è da rilevare che l’introduzione di

presunzioni relative o assolute relative alla deducibilità degli oneri sostenuti in altro Stato

132 Boria, P., 2004. L’anti-sovrano. Potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunitario. Torino: G. Giappichelli Editore. P. 69. 133 Nel caso in questione la legge tedesca prevedeva un contenuto minimo di alcool per la commercializzazione di una bevanda alcolica (Cassis de Dijon). In suddetto caso la Corte elaborò, per la prima volta, delle cause di giustificazione non esplicitamente previste dal Trattato affermando che “gli ostacoli per la circolazione intracomunitaria derivanti da disparità delle legislazioni nazionali relative al commercio dei prodotti di cui trattasi vanno accettati qualora tali prescrizioni possano ammettersi come necessarie per rispondere ad esigenze imperative attinenti, in particolare, all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori”. C.G.C.E., sentenza del 20/02/1979, causa C-120/78, Rewe-Zentral. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 134 Damiani, M., 2004. Op. cit. P. 165.

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membro sono state ripetutamente ritenute sproporzionate. Con la Direttiva 77/799/CEE, del

19 dicembre 1977, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati

membri nel settore delle imposte dirette, è offerto uno strumento affinché le amministrazioni

finanziarie possano ottenere dalle autorità competenti di un altro Stato membro “ogni

informazione atta a permettere loro una corretta determinazione delle imposte sul reddito e sul

patrimonio”135, pertanto la previsione di suddette presunzioni in capo al contribuente risultano

sproporzionate in quanto l’amministrazione potrebbe sia valutare l’esistenza e l’inerenza degli

oneri dichiarati dal contribuente, sia determinarne la capacità contributiva effettiva136.

Direttamente correlate alla volontà di rendere efficaci i controlli fiscali, si ritrovano le

cosiddette norme antielusive, le quali hanno lo scopo di prevenire l’evasione e l’elusione

fiscale, nonché il contrasto alle pratiche di abuso del diritto finalizzate all’ottenere vantaggi

fiscali. È il caso di distinguere, in linea con l’approccio preponderante nel palcoscenico

giuridico internazionale, il concetto di evasione da quello di elusione. Mentre l’evasione si

spiega nel non rispetto della normativa fiscale attraverso la frode fiscale, l’implementazione di

attività illegali o tramite la volontà di celare agli organi amministrativi una parte del profitto

soggetto a tassazione, l’elusione consiste in una “riduzione dell’obbligo fiscale mediante

l’utilizzo di mezzi legali”137. In questo ambito opera dunque l’abuso del diritto, il quale,

sovrapponendosi ai concetti di elusione ed evasione fiscale, è raffigurabile nelle operazioni

negoziali congegnate con l’intento di conseguire un vantaggio fiscale. Tramite l’abuso il

soggetto intende disapplicare la disposizione pertinente all’operazione per farla rientrare in

una norma diversa, e logicamente più vantaggiosa, da quella elusa. A questo scopo viene

utilizzata la tecnica dell’analogia, che opera estendendo la ratio di una disposizione al caso

concreto, la quale sarebbe però riferita ad una fattispecie differente.

La portata della tutela comunitaria alla lotta all’elusione e all’evasione è stata storicamente

piuttosto limitata nella giurisprudenza: nonostante il suo apprezzamento riconosciuto dal

punto di vista prettamente teorico, il pensiero seguito dalla Corte non ha permesso di

giustificare alcuna limitazione alle libertà fondamentali o al principio di non discriminazione

fiscale al fine di ridurre il rischio di perdita di gettito fiscale legato allo spostamento

transfrontaliero di risorse o attività effettuate con lo scopo di massimizzare la leva fiscale. Il

motivo di questo atteggiamento guardingo all’introduzione nel sistema tributario comunitario

135 Art. 1.1, Direttiva 77/799/CEE, GU L 336, 27.12.1977. 136 Per un approfondimento circa la reciproca assistenza fra le amministrazioni finanziarie si segnala: Persano, F., 2008. La collaborazione in materia di fiscalità diretta fra sovranità statale e diritto comunitario: disciplina attuale e prospettive di sviluppo, in Diritto del commercio internazionale – pratica internazionale e diritto interno. 22.3-4. Luglio-Dicembre 2008. PP. 605-639. 137 Kuiper, W. G., Definizione e analisi dei principi generali che regolano la fiscalità internazionale. In: Dragonetti, A., Piacentini, V., Sfondrini, A., a cura di. Op. cit. P. 21.

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del principio di tutela della finanza pubblica inteso in senso ampio, e quindi inteso sia in

riferimento alla coerenza del sistema fiscale, sia alla lotta ai comportamenti elusivi ed evasivi,

è da spiegarsi col comprensibile timore sentito dalla Corte di un uso improprio del principio

da parte degli Stati membri destinato a scomporre il mosaico del superiore interesse fiscale

comunitario a favore dei particolari interessi interni di stampo protezionistico ed egoistico138.

Negli ultimi anni il panorama appena richiamato ha subito un incisivo cambiamento di

tendenza, ed oggi la dottrina può apprezzare il tentativo della giurisprudenza comunitaria di

dare rilevanza all’interesse della lotta all’evasione e all’elusione fiscale affinché il diritto

comunitario non sia solo destinato a limitare l’esercizio della sovranità fiscale degli Stati

membri garantendo la tutela di alcune libertà ritenute fondamentali, bensì possa posizionarsi

come un punto di riferimento entro il quale costruire una serie di regole destinate ad evitare

un utilizzo delle suddette libertà contrario allo spirito del libero mercato e alla leale

concorrenza fra gli operatori economici. A partire dalla sentenza Halifax139, l’elaborazione del

divieto di abuso del diritto ha cominciato a trovare un suo apprezzamento

giurisprudenziale140. Al punto 85 di suddetta sentenza si afferma infatti che “la sesta direttiva

dev’essere interpretata come contraria al diritto del soggetto passivo di detrarre l’Iva assolta a

monte allorché le operazioni che fondano tale diritto integrano un comportamento abusivo”.

Pertanto affinché si possa parlare di abuso del diritto, “le operazioni controverse devono (…)

procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da

quelle stesse disposizioni” e perciò devono “risultare da un insieme di elementi obiettivi che

le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale”. Le

operazioni implicate nel contesto dell’abuso devono perciò “essere ridefinite in maniera tale

da ristabilire la situazione che sarebbe esistita” senza le operazioni che hanno fondato l’abuso

del diritto. Sempre in ambito Iva il quadro concettuale può chiudersi con la sentenza Part

service141, la quale ha precisato che l’operazione creata artificiosamente viene a considerarsi

abusiva quando il suo scopo predominante consiste nella volontà di ottenere un vantaggio

fiscale142.

Nel campo delle imposte armonizzate, la inevitabile conseguenza della sovrapposizione coatta

della norma elusa a quella utilizzata abusivamente parrebbe essere l’applicazione del tributo

sulla base imponibile determinata dalla norma elusa. Un’interpretazione simile dovrebbe però

138 In tal senso si rinvia a Boria, P., 2004. Op cit. PP. 70-72. 139 C.G.C.E., sentenza del 21/02/2006, causa C-255/02, Halifax. Disponibile su <http://curia.europa.eu>. 140 Era già stato affermato che “i singoli non possono avvalersi abusivamente delle norme comunitarie”. C.G.C.E., sentenza del 23/03/2000, causa C-373/97. Diamantis, P. 33. Disponibile su <http://eur-lex.europa.eu>. 141 C.G.C.E., sentenza del 21/02/2008, causa C-425/06. Part service, P. 45. Disponibile su <http://curia.europa.eu>. 142 Nel precedente caso Halifax, invece, la Corte considerava abusive solo quelle operazioni artificiose il cui unico scopo era il conseguimento di vantaggi fiscali.

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tenere conto delle diverse conformazioni dei sistemi tributari nazionali, e sarebbe in ogni caso

errata in quanto non rileverebbe che suddette sentenze sono riferite all’interpretazione delle

Direttive, con la conseguenza che gli Stati membri dovrebbero recepire con atto normativo il

principio antiabuso elaborato dalla giurisprudenza affinché il pieno valore dell’interpretazione

possa traslarsi anche nel versante interno. L’effetto finale è quindi una frammentazione del

sistema armonizzato determinato dall’elastica discrezionalità a disposizione dei legislatori

nazionali per quanto concerne l’adozione delle normative antiabuso in ossequio al filone

Halifax143. A conferma dell’enfasi posta dalla Corte nella lotta all’elusione fiscale, si segnala

la sentenza Kofoed144, secondo la quale il mancato recepimento della clausola antielusiva in

tema di tributi armonizzati, così come interpretati dalla giurisprudenza comunitaria, non è

motivo sufficiente affinché non venga perseguita una condotta contraria al principio in

questione se nell’ordinamento interno è comunque prevista una norma generale antiabusiva.

L’interesse di tutelare il sistema tributario dagli arbitraggi volti a schernire le norme tributarie

non si limita alle sole imposte armonizzate. A partire dalla già sentenza Cadbury Schweppes

si ammette che “una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di

ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di

effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività

svolte sul territorio nazionale”.

La libertà di stabilimento non è esercitata in forma abusiva se si rilevano la presenza fisica,

determinata secondo un livello minimo, della società nello Stato di stabilimento e l’effettivo

esercizio di un’attività economica a tempo indeterminato. Pertanto la libertà di stabilimento

non può essere invocata se l’attività economica non è realmente esercitata nello Stato membro

di insediamento, intendendosi per attività economica l’offerta di beni e servizi ad un mercato

esistente. In conseguenza di ciò, se non esiste il mercato non può esistere l’attività economica

e quindi non è invocabile la libertà di stabilimento145.

Seguendo la medesima corrente interpretativa, dalla sopraccitata sentenza Lammers & van

Cleef NV riguardante le norme sulla thin capitalization, si può evincere il limite che impone il

principio di proporzionalità alle norme antiabuso: esse devono trovare la propria operatività

143 Per un approfondimento si segnala: Poggioli, M., La Corte di Giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia d’Iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?, in Rivista di diritto tributario, 2006, III, PP. 122-142. 144 Si rinvia a una sentenza che ha sancito la possibilità di non applicare le norme sullo scambio di azioni secondo la Direttiva 90/434/CEE nel caso in cui l’operazione fosse compiuta con l’abuso del diritto. C.G.C.E., sentenza del 05/07/2007, causa C-321/05, Kofoed, PP. 46, 48. Disponibile su <http://curia.europa.eu>. 145 Per un approfondimento: Grilli, S., Le costruzioni di puro artificio nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: considerazione in tema di effettività economica, in Rassegna tributaria, 2008, 4. PP. 1155-1189.

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“limitatamente alla parte in cui mancano nell’atto abusivo la struttura e funzione normali”146.

In altri termini, all’operazione artificiosa in cui la volontà di elusione fiscale è valutata

predominante rispetto alle valide ragioni economiche è ammissibile la sostituzione

proporzionale della norma abusata con quella elusa.

146 Gentili, A., Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, in IANUS, 2009, 1. Disponibile su <http://www.unisi.it/ianus>.

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Conclusioni

Il complesso delle norme atto a plasmare un qualsivoglia ordinamento giuridico sono

fondate sui principi generali che lo sostengono. In ambito comunitario, i principi espressi nel

Trattato istitutivo e nelle sue successive modificazioni hanno il ruolo di esplicitare le volontà

e gli ideali dei padri fondatori cui l’Unione europea deve la sua essenza e il suo rinnovamento,

nonché la funzione di raccordare gli stessi principi su cui si fondano i singoli ordinamenti

nazionali.

Il diritto tributario comunitario trova nelle opere di armonizzazione e ravvicinamento delle

normative fiscali interne la sua genesi basilare. A completarlo, e ad arricchirlo, è intervenuta

la Corte di Lussemburgo in un difficile lavoro, spesso anche di ordine creativo, finalizzato a

smussare le singole normative interne contrarie all’ordinamento comunitario e, in particolare,

al fondamentale principio di non discriminazione su cui l’intero palcoscenico giuridico è

sorretto. L’opera di smussamento che la dottrina, all’unisono, definisce efficacemente

utilizzando l’espressione “integrazione negativa” ha da un lato eliminato le singole norme

nazionali considerate discriminatorie o restrittive, dall’altro ha posto l’accento sulla necessità

di un’integrazione positiva di più ampia portata affinché il comune mercato non venga

distorto dai comportamenti protezionistici atti a salvaguardare i singoli interessi nazionali. È

tuttavia opportuno riflettere sulla funzione stessa del tributo: in primo luogo esso è

strumentale al finanziamento della spesa pubblica, in secondo luogo è un mezzo efficace

attraverso cui il policy maker, al fine di perseguire l’interesse della comunità, influenza le

scelte dei soggetti. Si ritiene quindi corretto attribuire al tributo una funzione ineluttabile di

espressione della sovranità. Intendendosi per sistema tributario un complesso coordinato di

norme finalizzato al reperimento delle risorse finanziarie indispensabili al concreto realizzo

delle politiche del policy maker, non è affatto pacifico poter confermare l’esistenza di un

sistema tributario comunitario. Considerando il sistema dell’Unione di approvvigionamento

delle risorse finanziarie, è da rilevarsi che le norme fiscali di matrice comunitaria, seppur con

le eccezioni della quota dell’imponibile Iva, dei prelievi agricoli comunitari e dei dazi riscossi

in dogana sul valore delle merci extracomunitarie importate, hanno lo scopo diretto di dare

efficacia al pieno utilizzo delle libertà fondamentali. Tuttavia, dal punto di vista di chi scrive,

è lecito parlare di sistema tributario comunitario se si considera la notevole influenza degli atti

di diritto primario, derivato e complementare, sulla conformazione stessa dei singoli sistemi

interni e, quindi, sulla conseguente imposizione interna destinata inevitabilmente ad influire

sulle ricchezze prodotte dai sistemi nazionali che, per effetto dei trasferimenti di risorse dagli

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Stati membri all’Unione europea, determinano le risorse finanziarie dell’Unione. Per

sostenere suddetta tesi, sarebbe sufficiente analizzare l’operato della Corte di giustizia che,

applicando nel settore della fiscalità i principi generali del diritto comunitario, afferma

implicitamente l’esistenza del sistema in esame. In tal senso è da rilevarsi, infatti, che suddetti

principi non verrebbero richiamati se non esistesse un sistema tributario.

Il sistema tributario comunitario, nella sua atipicità, si pone in senso trasversale, o

coordinativo, tra i singoli sistemi interni per quanto concerne il ravvicinamento, in senso di

assoluta supremazia nei settori armonizzati e in tutte quelle norme fiscali collegate ai

movimenti transfrontalieri.

Il ruolo oggi rivestito dal diritto tributario comunitario, nonostante l’entrata in vigore del

Trattato di Lisbona, è di natura strettamente funzionale ai concetti di mercato unico e unione

doganale. Questo rispecchia il modello istituzionale ispirato dal pensiero di Jean Monnet, il

quale sosteneva la necessità di adottare un’organizzazione di stampo “funzionalista”, cioè

fondata su una graduale delega della sovranità dagli Stati membri verso l’Unione europea. In

questo senso va esaminato l’odierno stato di salute del diritto tributario comunitario. La

creazione di un mercato della fiscalità è la risposta inevitabile offerta dagli Stati membri ad un

diritto tributario comunitario concentrato essenzialmente a tutelare i soggetti dalle

disposizioni, con ripercussioni transfrontaliere, discriminatorie o restrittive. Le conseguenze si

riassumono in una tendenziale corsa al ribasso dei livelli effettivi di tassazione al fine di

attirare ricchezze estere con effetti positivi in capo ai soggetti in grado di poterne profittare

legittimamente, ed effetti negativi sui bilanci degli Stati membri che, vedendosi prosciugare le

risorse, non sono in grado di finanziare le necessarie spese di struttura e di assistenza sociale.

In questa ottica, la gara alla tassazione più bassa sarà vinta dai Paesi caratterizzati da una

spesa pubblica irrisoria, la quale è intimamente legata al livello di assistenzialismo offerto ai

cittadini.

La mancanza di armonizzazione del settore dell’imposizione diretta, in particolare la

mancanza di una vera imposta comunitaria, il cui effettivo potere di riscossione ed

accertamento sia in capo alle istituzioni comunitarie, non deve sorprendere né tanto meno

irritare gli animi degli europeisti. La non armonizzazione della fiscalità diretta, se confrontata

con altri settori cardine dell’espressione della sovranità quali, a titolo meramente

esemplificativo, la politica estera comune, o l’organizzazione di un esercito comunitario,

dimostra che i tempi non sono ancora maturi per una sostanziale autolimitazione della

sovranità degli Stati membri necessaria affinché si realizzino gli Stati Uniti d’Europa. Lo stato

di salute del sistema tributario comunitario deve essere valutato in base alla volontà di unione,

e quindi in base alla volontà in capo ai singoli Stati membri di rinunciare alla propria

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sovranità affinché vengano soddisfatte l’idea europea e gli interessi ultranazionali. Lo stesso

Trattato conferma le perplessità nazionali circa un ravvicinamento rimarchevole

nell’imposizione diretta e, fino a quando la volontà dei singoli Stati membri non aprirà le

tenaglie del diritto tributario comunitario, l’armonizzazione delle imposte dirette e la

creazione di un sistema tributario comunitario apprezzabile resteranno illusioni.

A dimostrazione della portata di tali preoccupazioni basti scorrere il Rapporto Neumark del

1962, secondo il quale la necessità di un ravvicinamento degli ordinamenti fiscali, e con essi

una collaborazione fra le varie amministrazioni fiscali, era indispensabile per eliminare le

disparità dei singoli sistemi tributari. Il compromesso fiscale non avrebbe però dovuto

sfociare in un “tentativo di unificare completamente la struttura dei sistemi fiscali degli Stati

membri della Comunità”, in quanto tale percorso sarebbe fallito per una mancanza di

apprezzamento politico. Il concetto di neutralità fiscale, intendendo con siffatta espressione

l’irrilevanza del sistema fiscale in rapporto alla localizzazione degli investimenti, si deve al

Rapporto Segrè del 1966. Secondo lo studio, per realizzare un mercato europeo dei capitali

sarebbe stato necessario eliminare la doppia imposizione internazionale, le agevolazioni che

spingono i contribuenti ad investire nel Paese in cui risiedono e la differenza di trattamento

fiscale basata sulla residenza. Il Rapporto Ruding, pubblicato nel 1992, valutò l’influenza

della tassazione sulle scelte di investimento. Rilevando una notevole differenza tra gli

ordinamenti interni, sosteneva la tesi secondo cui, nonostante i singoli sistemi fiscali erano

destinati a convergere spontaneamente in conseguenza della concorrenza fiscale, si

necessitava di una politica volta all’eliminazione delle normative discriminatorie e destinate a

creare distorsioni nei sistemi fiscali, nonché la previsione di un livello minimo, correlato

all’introduzione di un’imposta comune, riguardo la tassazione sulle società. A completare

questo excursus conclusivo, si rimanda al pacchetto fiscale del 1997, il quale ha previsto

l’introduzione di un codice di condotta, giuridicamente non vincolante, in materia di fiscalità

delle imprese col quale i Paesi si impegnano a non incentivare la concorrenza fiscale dannosa

tramite l’adozione di misure che possano incidere sulla localizzazione delle risorse

economiche. In particolare si rileva il danno concernente l’applicazione di un livello di

tassazione sui non residenti estremamente inferiore a quello normalmente praticato nello Stato

membro.

Affinché la patologia della concorrenza fiscale dannosa trovi una soluzione curativa, sarebbe

auspicabile l’introduzione di norme che ravvicinino le legislazioni nazionali nell’ambito

dell’imposizione diretta. In particolare, si segnala la necessità di creare una direttrice comune

su quegli aspetti di maggior sensibilità, quali la tassazione sui movimenti in uscita, il

trasferimento transfrontaliero delle perdite o l’eliminazione della doppia imposizione

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internazionale. In un’economia sempre più allargata, e in una sempre maggiore complessità

inerente le operazioni societarie, l’urgenza di integrare in questo senso i sistemi tributari

interni e la necessità di allargare la portata del principio di non discriminazione fiscale anche

alle fattispecie meramente interne che, seppur indirettamente, confluiscono a distorcere il

mercato della fiscalità, appaiono obiettivi essenziali affinché l’Unione, in un futuro più o

meno prossimo, possa qualificarsi nello Stato federale sperato da Monnet. Se da un lato

l’assoluta convergenza dei sistemi tributari in un sistema accentrato appare una follia, anche

alla luce delle esperienze storiche extraeuropee, sarebbe indubbiamente desiderabile

l’abbandono del principio dell’unanimità a cui oggi è sottomesso il sistema tributario

comunitario.

Per concludere, con l’abbandono del principio dell’unanimità e l’introduzione di un diritto

tributario comunitario con funzionalità realmente integrative e basato su un principio esteso di

eguaglianza, le distorsioni fiscali di cui oggi siamo spettatori potranno trovare una

significativa compressione.

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Indice delle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee

• Sentenza del 17/12/1959, causa C-14/59, Societè des Fonderies de Pont-à-Mousson.

• Sentenza del 14/12/1962, cause riunite C-2/62 e C-3/62, Pan pepato.

• Sentenza del 13/07/1963, cause riunite C-17/61 e C-20/61, Klöckner – Werke AG e

Hœsch AG.

• Sentenza del 17/07/1963, causa C-16/63, Italian refrigeretors.

• Sentenza del 16/06/1966, causa C-57/65, Lütticke.

• Sentenza del 12/11/1969, causa C-29/69, Stauder.

• Sentenza del 17/12/1970, causa C-11/70, Internazionale Handelsgellschaft.

• Sentenza del 12/02/1074, causa C-152/73, Sotgiu.

• Sentenza del 21/06/1974, causa C-2/74, Reyners.

• Sentenza del 3/12/1974, causa C-33/74, van Binsbergen.

• Sentenza del 19/19/1977, cause riunite C-117/76 e C-16/77, Ruckdeschel v

Hauptzollamt Hamburg-St. Annen

• Sentenza del 24/10/1978, causa C-15/78, Koestler.

• Sentenza del 20/02/1979, causa C-120/78, Rewe-Zentral

• Sentenza del 28/03/1979, causa C-175/78, Saunders.

• Sentenza del 27/02/1980, causa C-68/79 Østre Landsret.

• Sentenza del 27/03/1980, causa C-61/79, Denkavik italiana.

• Sentenza del 13/12/1984, causa C-106/83, Sermide.

• Sentenza del 16/10/1986, causa C-270/83, Avoir Fiscal.

• Sentenza del 22/10/1987, causa C-314/85, Foto-Frost.

• Sentenza del 08/05/1990, causa C-175/88, Biehl.

• Sentenza del 11/12/1990, causa C-47/88, Commissione c. Danimarca.

• Sentenza del 21/02/1991, cause riunite C-143/88 e C-92/89, Zuckerfabrik

Süderdithmarschen.

• Sentenza del 28/01/1992, causa C-204/90, Bachmann.

• Sentenza del 26/01/1993, causa C-112/91, Werner.

• Sentenza del 13/07/1993, causa C-330/91, Commerzbank.

• Sentenza del 14/02/1995, causa C-279/93, Schumacker.

• Sentenza del 11/08/1995, causa C-80/94, Wielockx.

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• Sentenza del 05/03/1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur e The

Queen.

• Sentenza del 27/06/1996, causa C-107/94, Asscher.

• Sentenza del 15/05/1997, causa C-250/95, Futura-Singer.

• Sentenza del 28/04/1998, causa C-118/96, Safir.

• Sentenza del 16/07/1998, causa C-264/96, ICI.

• Sentenza del 14/09/1998, causa C-291/97, Gschwind.

• Sentenza del 29/04/1999, causa C-224/97, Ciola.

• Sentenza del 21/09/1999, causa C-307/97, Saint-Gobain.

• Sentenza del 28/10/1999, causa C-5/98, Vestergaard.

• Sentenza del 21/03/2000, causa C-6/99, Association Greenpeace France e altri.

• Sentenza del 23/03/2000, causa C-373/97. Diamantis.

• Sentenza del 13/04/2000, causa C-251/98, Baars.

• Sentenza del 16/05/2000, causa C-87/99, Zurstrassen.

• Sentenza del 06/06/2000, causa C-35/98, Verkooijen.

• Sentenza del 14/12/2000, causa C-141/99, Amid.

• Sentenza del 14/12/2000, causa C-446/98, Fazenda Pública.

• Sentenza del 08/03/2001, cause riunite C-397/98 e C-410/98, Metallgesellschaft e

Hoechst.

• Sentenza del 12/12/2002, causa C-324/00, Lankhorst-Hohorst.

• Sentenza del 12/12/2002, causa C-385/00, De Groot.

• Sentenza del 12/06/2003, causa C-234/01, Gerritse.

• Sentenza del 11/12/2003, causa C-364/01, Barbier.

• Sentenza del 13/01/2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz NV.

• Sentenza del 11/03/2004, causa C-9/02, De Lasteyrie.

• Sentenza del 01/07/2004, causa C-169/03, Wallentin.

• Sentenza del 05/07/2005, causa C-376/03, D.

• Sentenza del 13/12/2005, causa C-446/03, Marks & Spencer.

• Sentenza del 19/01/2006, causa C-264/04, Bouanich.

• Sentenza del 21/02/2006, causa C-152/03, Ritter-Coulais.

• Sentenza del 21/02/2006, causa C-255/02, Halifax.

• Sentenza del 23/02/2006, causa C-253/03, CLT-UFA.

• Sentenza del 23/02/2006, causa C-471/04, Keller Holding.

• Sentenza del 07/09/2006, causa C-470/04, N.

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• Sentenza del 12/09/2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes

Overseas.

• Sentenza del 03/10/2006, causa C-290/04, Scorpio.

• Sentenza del 09/11/2006, causa C-520/04, Turpeinen.

• Sentenza del 13/03/2007, causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group

Litigation.

• Sentenza del 05/07/2007, causa C-321/05, Kofoed.

• Sentenza del 17/01/2008, causa C-105/07, Lammers & van Cleef NV.

• Sentenza del 21/02/2008, causa C-425/06. Part service.

• Sentenza del 19/11/2009, causa C-314/08, Filipiak.

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