I FILOSOFIA DEL DIRITTO -...

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INSEGNAMENTO DI: F FILOSOFIA DEL DIRITTO “LA FILOSOFIA DEL DIRITTO E LA CONCEZIONE IDEOLOGICA DEL DIRITTO NATURALE E DEL DIRITTO POSITIVOPROF. FRANCESCO PETRILLO

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Università Telematica Pegaso La filosofia del diritto e la concezione ideologica del diritto naturale e del diritto positivo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 LA FILOSOFIA DEL DIRITTO E LA CONCEZIONE IDEOLOGICA DEL DIRITTO NATURALE E DEL DIRITTO POSITIVO ---------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3

BIBLIOGRAFIA: -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 10

Università Telematica Pegaso La filosofia del diritto e la concezione ideologica del diritto naturale e del diritto positivo

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)

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1 La filosofia del diritto e la concezione ideologica del diritto naturale e del diritto positivo

Non sempre è stato facile accostare il diritto alla filosofia, ossia accostare al diritto l’amore

per la saggezza, la passione per il pensiero dell’uomo e la capacità di meravigliarsi.

La filosofia giuridica cerca di trovare un senso ontologico al concetto di diritto, chiedendosi

che cosa sia sostanzialmente il diritto, intendendolo soprattutto come l’idea concernente la

possibilità di regolare tutti i vari rapporti che si possono instaurare tra le persone di una società.

Quindi, la filosofia studia il diritto inteso come relazione tra gli uomini dove vengono messi in

gioco una pluralità di interessi da dover ponderare.

Rileva nello studio terminologico del diritto il rapporto tra ius, iussum e iustum. Per ius

s’intende il diritto come tutte le possibili relazioni che ci possono essere tra gli uomini, la società e

la giuridicità; per iussum si fa riferimento alla vincolatività del rapporto giuridico perché il diritto

viene inteso come un comando da rispettare; infine per iustum s’intende il diritto come la continua

aspirazione ad una giustizia ideale. Soltanto prendendo le mosse da tale distinzione terminologica si

può muovere verso una più facile comprensione del rapporto sostanziale –che ha sempre inquietato

il giurista teorico come il giurista pratico- tra diritto naturale e diritto positivo e procedere a spiegare

quella che può definirsi come la: concezione ideologica del diritto naturale e del diritto positivo,

ovvero il giusnaturalismo e il giuspositivismo..

Il diritto naturale comprende tutte quelle regole non scritte che provengono da tutto ciò che

precede e prevale sulla volontà dell’uomo (Dio-mondo-natura). Esso si studiava sin dall’antica

Grecia dove i sofisti si chiedevano se quest’ultimo potesse essere inteso come forza della natura,

ovvero come regole imposte dal più forte in uno stato naturale di conflitto e di caos o se invece

potesse essere concepito come un cosmo ordinato nel quale si instaura un ordine naturale simile a

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quello degli animali o delle api (Mandeville). Infatti, nella Repubblica di Platone, Trasimaco

sostiene la tesi del diritto naturale come legge del più forte, contrariamente a Socrate, il quale,

invece, reputa lo stato di natura come un cosmo ordinato che tende ad una giustizia ideale, dove non

regna la legge del più forte e dove non c’è la conflittualità del caos.

Per diritto positivo si considera solo la legge scritta ed emanata validamente dal legislatore,

ossia lo ius positum. Per fare un esempio, i dieci comandamenti ed il codice di Hammurabi

rientrano nella concezione di diritto positivo, posto dal legislatore. Come vedremo nel prosieguo, il

diritto positivo diventerà l’unico diritto possibile solo a partire dalla pace di Westfalia del 1648 e

dunque con la nascita dei primi stati-nazione e con le prime codificazioni, sino ad arrivare ai giorni

nostri.

Il giusnaturalismo è quell’ideologia per cui il giudice, oltre ad applicare le leggi scritte,

deve anche considerare ed applicare i principi di un diritto sovraordinato alla legge positiva. E’ una

concezione più ampia del diritto, perché in essa il diritto non si riduce alla sola legge scritta emanata

dal legislatore.

Il giuspositivismo, al contrario, è l’ideologia del diritto scritto posto dal legislatore. Il diritto,

per tale concezione, è solo la legge scritta avalutativa e formalmente valida, perché emanata

correttamente dall’apparato legislativo ed il giudice potrà applicare solo le norme scritte senza

essere influenzato da principi non scritti di matrice giusnaturalistica.

Per il giuspositivismo il diritto si riduce al solo iussum, ossia alla sola legge prestabilita dal

legislatore che rappresenta il potere politico. Esso soltanto può regolare i rapporti tra gli uomini,

società ed ordinamento giuridico ed è sempre lo iussum che assicura un’idonea giustizia materiale.

Al contrario, per la corrente giusnaturalista, il diritto non si può ridurre al solo iussum,

perché comprende un magma più ampio, che va oltre la legge scritta dal legislatore, estendendosi ai

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principi non scritti provenienti da un diritto di natura o da altre fonti di diritto, che possono regolare

le relazioni tra gli uomini ed i vari interessi messi in gioco, proiettandosi verso una giustizia ideale.

Per più di 2000 anni il diritto come concetto ha compreso sia il diritto naturale non scritto,

sia il diritto imposto dal potere politico, ma dal 17 sec., con l’affermarsi del giuspositivismo, ha

prevalso una visione riduttiva del diritto, ormai considerato come la sola legge valida scritta

emanata dal legislatore. Nella seconda metà del XX secolo, la concezione giuspositivistica, che ha

dominato lo scenario giuridico per quattrocento anni, viene messa in crisi con il sorgere di nuove

teorie giusnaturalistiche.

Abbiamo visto il rapporto ambivalente che il diritto può avere sia con lo iussum che con lo

iustum. Quindi il diritto, ossia lo ius, filosoficamente parlando, ha un’ambivalenza giuridica perché

esso può tendere sia alla giustizia ideale che alla legge imposta dal potere politico ed il rapporto tra

lo con lo iussum e lo iustum riflette la realzione che si instaura tra il diritto naturale con il diritto

positivo.

L’epoca del positivismo giuridico, dove tutto il diritto si riduce alla sola legge scritta

emanata dal legislatore, è molto recente se la si confronta con le origini del diritto naturale antico

già studiato nell’antica Grecia.

Nella filosofia antropologica greca il diritto era solamente un momento parziale del pensiero

dell’uomo ed era solo una parte della più grande problematica della politica e della filosofia. Infatti

i greci, nell’analizzare la conduzione di una società, non si soffermavano a studiare solamente la

predisposizione delle regole, ma preferivano studiare tutte le relazioni che l’uomo potesse avere in

una determinata società, focalizzandosi ad osservare la posizione che assumevano le regole nella

collettività.

La polis greca, dove si instauravano tutte le relazioni sociali, si contrapponeva alla stato di

natura inteso come caos, rispecchiando, viceversa, lo stato di natura inteso come cosmo ordinato.

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La prima concezione del diritto naturale antico era quella di pensare alle regole come se

fossero poste direttamente dalla natura stessa secondo una prospettazione orizzontale.

Tuttavia, nel diritto naturale antico troviamo una dicotomia che concerne la

contrapposizione tra Kosmos e Caos, ponendo una delle prime problematiche del giusnaturalismo

antico.

Ci si chiedeva se il diritto naturale dovesse essere inteso come cosmo ordinato, nel quale

s’instaura un ordine naturale simile a quello delle api ed a quello presente in tutti gli animali,

oppure, se per diritto naturale, si dovesse intendere un caos nel quale prevale solamente la legge del

più forte.

A questa dicotomia del diritto naturale si aggiunge una terza possibilità di concepire il diritto

inteso come la volontà dell’uomo di regolare la propria società, ponendo lui stesso le leggi,

determinandosi in tal modo una primordiale concezione di giuspositivismo. Possiamo utilizzare la

famosa espressione del “Nomos Basileus”, concepita dal poeta greco Pindaro (518 a.c – 538 a.c),

per intendere che solamente il re può fare la legge ed il re è la legge. Quella stessa legge non ne ha

un’altra al di sopra di sé e ad essa sottostanno tutte le leggi degli uomini, che non possono per

questo né controllarla né manipolarla.

Circa 2000 anni dopo, successivamente alla controriforma, con la pace di Vestfalia del 1648

che pose fine alla guerra dei trent’anni , nasceva lo stato moderno, fenomeno storico poi teorizzato

da Thomas Hobbes, precursore dell’idelogia giuspositivistica.

In Europa, da quattrocento anni a questa parte, il diritto positivo e la sua ideologia

giuspositivistica hanno caratterizzato il nostro pensiero giuridico continentale, cosicché, ancora sino

ad appena trenta anni fa, nelle nostre aule di tribunale il diritto era concepito riduttivamente come la

sola legge scritta formalmente valida, senza lasciare alcuno spazio ad un diritto altro.

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Il Diritto naturale è dunque cosa diversa dal giusnaturalismo, perché ha a che fare con tutto

quello che è il diritto oltre il limite posto dalle leggi positive, mentre il giusnaturalismo come

momento ideologico è l’idea che, dal punto di vista del diritto, non si possa mai considerare tutto il

diritto inglobato nella legge e all’esame della legge scritta positiva, vada affiancata sempre l’idea di

una volontà o di una ragione posta al di sopra della legge stessa.

Il diritto positivo è dunque cosa diversa dal giuspositivismo, perché si limita espressamente

allo studio della legge scritta posta dal legislatore, sia o non sia essa la sola forma di diritto

possibile, mentre il giuspositivismo è l’idea che tutto ciò che non è legge non è diritto e che nessuna

altra forma di volontà o razionalità possa essere affiancata e considerata al di là della volontà o

razionalità del legislatore inserita nel testo scritto.

Filosofi come Platone, Socrate ed Aristotele risposero a dei quesiti giuridici peculiari per il

diritto e formularono delle argomentazioni valide e attuali anche per il nostro pensiero giuridico

moderno.

Una domanda fondamentale a cui questi filosofi cercarono di dare una risposta era se fosse

preferibile il governo delle leggi o il governo degli uomini, intendendo non la forma di governo ma

il modo di governare. Se volessimo attualizzare il quesito, potremmo chiederci se sia preferibile che

il Presidente del consiglio decida secondo la propria coscienza e saggezza ispirandosi ad un diritto

naturale ideale non scritto o, viceversa, prenda le sue decisioni basandosi solamente sulle leggi

scritte formalmente valide.

Platone giunse alla conclusione per la quale il governo degli uomini fosse preferibile al

governo delle leggi. Il governo degli uomini infatti, era inteso come un cosmo ordinato, ossia come

quell’ordine naturale opposto al caos.

Con Platone abbiamo la concezione idealistica del diritto, proprio perché tutte le leggi

scritte, per essere giuste, si dovranno ispirare al diritto naturale scaturito dal cosmo. Anche il re,

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colui che non è sottoposto alla legge, non ha un arbitrio assoluto nell’emanare le proprie leggi

scritte, perché dovrà comunque rispettare il diritto naturale ideale ed astratto, altrimenti le sue leggi

saranno ingiuste. Solamente gli uomini che si ispirano alle leggi ideali della natura sono degni di

scrivere le leggi.

E’ importante ricordare che nella Repubblica di Platone, Socrate, in dialogo con

Trasimaco, propone la concezione per la quale si deve sempre rispettare il governo delle leggi,

proprio perché la legge, anche se ingiusta, va comunque adempiuta, facendo così coincidere il

concetto di “iussum” con il concetto di “iustum”. Lo stesso Socrate, per rispettare le leggi scritte di

Atene, decide di avvelenarsi bevendo la cicuta.

Platone, invece, scelse il diritto e non la legge come Socrate, in quanto credeva che la legge

scritta potesse essere fallace se non avesse rispettato le regole dettate dal cosmo e,

conseguentemente, l’uomo aveva un diritto di resistenza a quelle leggi scritte che non rispettassero

una giustizia ideale universale derivante da un ordine di regole astratto e giusto.

Hobbes poi riprenderà il concetto di avalutatività della legge espresso da Socrate e non

accetterà mai il diritto di resistenza ad una legge ingiusta, pure già concepito da Platone.

Aristotele, invece, non scelse mai in maniera netta tra il governo degli uomini ed il governo

delle leggi.

Egli ritenne che fosse preferibile un governo delle leggi, ma sempre tenendo presente che

alcuni uomini saggi, con uno spessore culturale elevato, potevano pur sempre evitare di seguire il

governo delle leggi, perché si ponevano direttamente al di sopra di esse e quindi servivano già da

soli la giustizia universale del cosmo.

Nell’antica Grecia, quindi, i filosofi avevano già teorizzato il diritto naturale distinguendolo

tra Kosmos e Caos ed avevano anche approfondito l’idea di diritto positivo, concependo anche il

principio dell’avalutatività della legge. Ma nella filosofia greca non è mai definito il rapporto tra

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un’idealità ed una realtà intesa come la volontà di un sovrano umano ( Hans Welzel, Diritto

naturale e giustizia materiale); intellettualismo greco, significa soltanto predominio della ragione

sulla volontà.

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Bibliografia:

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• WELZEL, HANS, Diritto naturale e giustizia materiale, Giuffrè, Milano, 1965;