Corso di filosofia del diritto 2011-2012 - Testi e citazioni

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Università di Pisa FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA Corso di FILOSOFIA DEL DIRITTO Anno Accademico 2011-2012 Testi e citazioni a cura di Tommaso Greco Pisa – novembre 2011

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Sono riportati i testi ai quali si è fatto riferimento nel corso delle lezioni di filosofia del diritto.

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Università di Pisa FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA

Corso di FILOSOFIA DEL DIRITTO

Anno Accademico 2011-2012

Testi e citazioni

a cura di Tommaso Greco

Pisa – novembre 2011

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AVVERTENZA

Nelle pagine che seguono sono riportati i testi ai quali si è fatto rife-

rimento, o che sono stati oggetto di lettura e commento, nel corso

delle lezioni di Filosofia del diritto (I° anno) dell’a.a. 2011-2012.

Non tutti i brani riportati sono stati richiamati esplicitamente, ma

lo studente non avrà difficoltà a collocarli nell’ambito della tratta-

zione che del pensiero dei singoli autori è stata svolta nel corso delle

lezioni. Allo stesso modo, occorre avvertire che non è stato possibile

inserire tutti i testi che pure sarebbero stati utili, per non tardare ul-

teriormente nel rendere disponibile il presente materiale, il cui o-

biettivo è quello di rendere possibile un confronto – per quanto mi-

nimo – con le parole dirette degli autori studiati. Nella parte finale è stata inserita una breve sezione iconografica,

contenente le immagini che si è avuta talvolta l’occasione di richia-

mare.

Tommaso Greco

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SOFOCLE

Antigone*

vv. 440 ss CREONTE Quanto a te, dimmi semplicemente, e senza giri di frase: conoscevi l’editto, che vieta-va proprio ciò che hai fatto? ANTIGONE Sì, lo conoscevo. E come potevo ignorarlo? Era pubblico. CREONTE Eppure hai osato trasgredire questa norma? ANTIGONE Sì, perché questo editto non Zeus proclamò per me, né Dike, che abita con gli dei sot-terranei. No, essi non hanno sancito per gli uomini queste leggi; né avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza che un mortale potesse violare le leggi non scritte, incrol-labili, degli dei, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce. Io non potevo, per paura di un uomo arrogante, attirarmi il castigo degli dei. Sapevo bene – cosa credi? – che la morte mi attende, anche senza i tuoi editti. Ma se devo morire prima del tempo, io lo dichiaro un guadagno: chi, co-me me, vive immerso in tanti dolori, non ricava forse un guadagno a morire? Affron-tare questa fine è quindi per me un dolore da nulla; dolore avrei sofferto invece, se avessi lasciato insepolto il corpo di un figlio di mia madre; ma di questa mia sorte dolore non ho. E se ti sembra che mi comporto come una pazza, forse è pazzo chi di pazzia mi accusa. [….] vv. 650 ss CREONTE (rivolto al figlio Emone) Poiché l’ho sorpresa, lei sola fra tutti i cittadini, in atto di aperta ribellione, non smentirò la mia parola di fronte alla città, ma la ucciderò. Si appelli pure a Zeus pro-tettore dei consanguinei; ma se lascerò crescere l’insubordinazione nel seno stesso della mia famiglia, cosa dovrò tollerare dagli estranei? Chi è saggio verso i propri familiari si mostrerà giusto anche verso i cittadini; ma chi trasgredisce e viola le leggi, o presume di dare ordini ai capi, non avrà mai il mio consenso. No, a chiunque la città abbia affidato il potere, a costui si deve obbedienza nelle cose piccole e gran-di, giuste e non giuste […] Non c’è male più grave dell’anarchia, che rovina le città, turba le famiglie, spezza i ranghi e provoca la fuga nel corso della battaglia.

* Tratto da Sofocle, Antigone –Edipo Re – Edipo a Colono, a cura di Franco Ferrari, Rizzoli, Milano 2001.

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I SOFISTI

Callicle* «Secondo me, quelli che stabiliscono le norme sono gli uomini deboli, la massa. E na-turalmente fissano le leggi in modo da tutelare se stessi e i loro interessi; e con lo stesso criterio decidono che cosa va bene e che cosa va male. Dicono che essere pre-potenti è una cosa brutta e ingiusta, e che il male consiste proprio nella pretesa di avere più degli altri; ma lo dicono solo per spaventare gli uomini più forti, quelli che sono capaci di imporsi agli altri: non vogliono che questi abbiano più di loro, perché sono più deboli e si accontentano di fare le parti uguali per tutti. È questo il morivo per cui secondo la legge è brutto e ingiusto cercare di avere di più degli altri: è quello che chiamano fare il male. Ma la natura, secondo me, mostra co-me sia assolutamente giusto che chi vale di più abbia più di chi vale meno: la diversa capacità deve essere diversamente ricompensata. Che le cose stiano così è facilmen-te dimostrabile; basta guardare quel che succede fra gli animali e fra gli uomini, sia nelle città che nelle famiglie, per capire che questo è il criterio di giustizia: chi vale di più comanda a chi vale di meno, e possiede più cose. Per esempio, con quale diritto Serse fece una spedizione contro la Grecia, e suo padre contro gli Sciti? E di casi co-me questi se ne possono ricordare a migliaia. Ti dico, per Zeus, che chi agisce così a-gisce secondo la natura della giustizia, ossia secondo la legge della natura, anche se forse non secondo la legge convenzionale degli uomini».

Antifonte** «… giustizia, dunque, è non trasgredire le regole della città nella quale si sia cittadini. Un uomo potrebbe, dunque, valersi della giustizia con il massimo vantaggio per se stesso, se, avendo testimoni, tenesse in grande onore le leggi, ma, senza testimoni, i principi della natura: quelli delle leggi sono accessori, quelli della natura necessari; e quelli delle leggi nascono da un accordo, non sono originari, quelli della natura sono originari e non nascono da un accordo. Chi, dunque, trasgredisce le regole, qualora sfugga a coloro che si di esse si sono ac-cordati, resta immune anche da vergogna e punizione; se non sfugge loro, no; ma se, andando contro il possibile, violenta qualcuna delle facoltà connaturate alla natura, anche nel caso che riesca a sfuggire a tutti gli uomini, il male non è meno grave, ed anche nel caso che tutti lo vedano, non è più grave: poiché riceve danno non per via dell’opinione, ma per via della verità».

* Platone, Gorgia, 483 c, ss, tr. it. a cura di G. Zanetto, Rizzoli, Milano 1994.

** Antifonte, La verità, a cura di Isabella Labriola, Sellerio, Palermo 1992, p. 87 s.

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SOCRATE* SOCRATE Diciamo che non bisogna commettere volontariamente ingiustizia in nes-sun caso, o per certi versi sì, e per certi altri no? O diciamo - e su questo punto ci siamo già trovati d'accordo, più d'una volta - che il commettere ingiustizia non è af-fatto cosa buona, né bella? Che tutte le conclusioni una volta raggiunte si siano in questi pochi giorni rimescolate, e tanto abbiamo indugiato nelle nostre appassionate discussioni, Critone, da non renderci conto che nulla ci distingueva, alla nostra età, da dei bambini? O piuttosto le cose stanno come si diceva allora: sia che la gente lo ammetta o no, sia che siamo costretti a sopportare sofferenze peggiori o più lievi di queste, in ogni caso commettere ingiustizia è, per chi lo fa, cosa brutta e turpe? Sì o no? CRITONE Sì. SOCRATE Dunque in nessun caso va commessa ingiustizia. CRITONE Assolutamente no. SOCRATE E dal momento che in nessun caso va commessa ingiustizia, neanche chi la subisca dovrà ricambiarla, come pensa la gente. CRITONE Sembra proprio di no. SOCRATE E ora, Critone, dimmi se il male bisogna farlo o no. CRITONE Certo che no, Socrate. SOCRATE E ora dimmi se è giusto o no che uno contraccambi un male subìto, come la gente pensa. CRITONE In nessun caso. SOCRATE In effetti, far del male a qualcuno è lo stesso che commettere ingiustizia. CRITONE Hai ragione. SOCRATE Dunque non dobbiamo ricambiare le ingiustizie, né fare del male a nessu-no, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi. E bada, Critone, di non concordare con me su questo punto se non sei veramente di questo parere: a condividere queste opi-nioni, lo so bene, sono e sempre saranno in pochi. E fra chi la pensa così e chi no non è possibile comunità d'intenti, è anzi inevitabile che quando confrontano le rispetti-ve scelte provino disprezzo l'uno per l'altro. Perciò, rifletti bene anche tu se condivi-di la mia opinione, se davvero sei d'accordo (e le nostre considerazioni muovano al-lora dal principio che non è mai corretto commettere ingiustizia e neppure ricam-biarla, né reagire ai maltrattamenti facendo del male a propria volta); o se ti distac-chi, e questo principio non lo condividi. Io la penso così da tempo e continuo tuttora, ma se tu la pensi diversamente dillo, e istruiscimi. Se invece resti fedele alle nostre premesse, ascolta il seguito. CRITONE Resto fedele sì, sono d'accordo: parla, suvvia. SOCRATE Ecco quel che ho da dire. O meglio, una domanda: se si concorda con qual-cuno sulla giustezza di qualcosa, la si dovrà fare o evitare? CRITONE La si dovrà fare. SOCRATE Stai bene attento, allora, a quel che ne consegue. Allontanandoci da qui senza previo consenso della città facciamo del male a qualcuno, e proprio a chi meno dovremmo, oppure no? E rimaniamo fedeli ai principi che avevamo riconosciuto giusti, oppure no? CRITONE Alla tua domanda, Socrate, non so rispondere: non capisco. SOCRATE Prova, allora, a metterla così. Poniamo che mentre siamo lì lì per fuggire di qui (o comunque vogliamo chiamare questa cosa) venissero le leggi e la città tutta, si * Da Platone, Critone (tutto il testo è disponibile al seguente indirizzo:

http://www.liberliber.it/biblioteca/p/plato/critone/pdf/criton_p.pdf

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piazzassero davanti a noi e ci chiedessero: "Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? Quale può essere il tuo intento, con questo gesto, se non di fare quanto ti è pos-sibile per distruggere noi, le leggi, e la città intera?... O pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?". Cosa rispondere, o Cri-tone, a queste o simili domande? Certo, ci sarebbe molto da dire (più di tutti ci riu-scirebbe un retore) in difesa della legge che violerei, che impone che le sentenze pronunciate abbiano vigore. Preferiremo forse dare loro una risposta del tipo "la cit-tà ci ha fatto un'ingiustizia, emettendo una sentenza scorretta"? Diremo questo, o che altro? CRITONE Ma questo, Socrate, per Zeus! SOCRATE Ma supponiamo che le leggi dicessero: "Ma Socrate, è questo che rientrava nei nostri accordi, o non piuttosto l'impegno di rispettare i giudizi della città?" Se a queste parole facessimo mostra di meravigliarci, potrebbero aggiungere: "Invece di meravigliarti di quello che diciamo, Socrate, rispondi (sei ben abituato a far uso di domanda e risposta). Su, hai qualcosa da rimproverarci a noi e alla città, che ti dai da fare per la nostra rovina? Non ti abbiamo dato noi la vita, tanto per cominciare, non è grazie a noi che tuo padre ha preso in moglie tua madre, e ti ha generato? Di' un po', a quelle leggi fra noi che governano i matrimoni, hai da fare qualche rimprove-ro?". "Nessuno" direi io. "Ce l'hai allora con quelle che regolano la crescita e l'educa-zione dei figli, in cui sei stato cresciuto anche tu? Non erano giuste le direttive che la legislazione in materia dava a tuo padre, prescrivendogli di educarti nella musica e nella ginnastica?" "Ma sì" direi ancora "E allora, dopo essere stato generato, allevato ed educato, avresti il coraggio di negare – tanto per cominciare - di essere creatura e schiavo nostro, tu come pure i tuoi antenati? Se è così, poi, credi che tu e noi abbia-mo eguali diritti, e che se noi ti facciamo qualcosa hai il diritto di fare altrettanto? Non eri su un piano di parità rispetto a tuo padre, o a un padrone se ne avevi uno, sì da poter ricambiare qualsiasi trattamento, rispondendo alle offese con le offese, alle percosse con le percosse e così via. E te lo permetteresti ora rispetto alla patria e alle leggi, al punto che se riteniamo giusto cercare di ucciderti ti metterai a fare altret-tanto con noi, per quanto ti riesce, e sosterrai di agire con ciò giustamente, e saresti uno che genuinamente si cura della virtù? O con tutta la tua sapienza non ti rendi conto che la patria è più preziosa sia della madre che del padre e di tutti gli antenati, e più sacra, e più venerabile, più degna di considerazione da parte degli dèi e degli uomini assennati; e che le si deve obbedire e servirla anche nelle sue ire, più che un padre? E che l'alternativa è fra persuaderla o eseguire i suoi ordini, soffrendo in si-lenzio se ci impone di soffrire, si tratti di essere battuti o imprigionati, o anche di es-sere feriti o uccisi se ci manda in guerra; e bisogna farlo - ed è giusto così - senza ar-rendersi né ritirarsi né lasciare la propria posizione, perché sia in guerra che in tri-bunale, dappertutto va fatto ciò che la città, la patria comanda a meno di non riuscire a persuaderla di dove sta la giustizia?... Se è un'empietà usar violenza contro il padre e la madre, tanto più lo sarà contro la patria." Cosa potremo replicare a questo di-scorso, Critone? Che le leggi dicono la verità, o no? CRITONE Mi pare di sì. SOCRATE "Ora, Socrate" potrebbero soggiungere le leggi "giudica se è davvero in-giusto, come andiamo affermando, il trattamento che ci riservi in questo momento. Noi infatti ti abbiamo messo al mondo, e allevato, ed educato, e abbiamo distribuito fra te e i tuoi concittadini tutti i beni di cui disponevamo: e purtuttavia dichiariamo subito, col darne il permesso a ogni ateniese che lo desideri, che se, raggiunta la condizione di cittadino e osservando come vanno le cose nella città e noi, le leggi,

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non ci trova di suo gradimento, può benissimo prendere le sue cose e andare dove preferisce. E nessuna di noi leggi pone ostacoli o vieta di andare con le proprie cose, dove gli pare, a chi di voi non gradisca noi e la città e desideri trasferirsi in una no-stra colonia, o in altra località a suo piacimento. Se uno di voi rimane, vedendo come amministriamo la giustizia e tutta la cosa pubblica, possiamo dire che di fatto ha ac-consentito a eseguire i nostri ordini; e se costui disobbedisce diciamo che commette ingiustizia in tre sensi: in quanto non obbedisce a noi che lo abbiamo messo al mon-do, e poi a noi che lo abbiamo allevato, e in quanto non lo fa dopo aver accettato di obbedirci, né d'altronde cerca di persuaderci che stiamo commettendo un errore. Lungi dall'imporre con asprezza di fare ciò che ordiniamo noi non facciamo che pro-porre, lasciando possibilità di scelta fra persuaderci ed eseguire: eppure costui non fa l'una cosa né l'altra. Ora noi sosteniamo, Socrate, che a siffatte accuse ti presterai anche tu se farai quello che hai in mente: e non meno degli altri Ateniesi, mai più di tutti." E se chiedessi perché mai, forse a ragione mi assalirebbero rimarcando che proprio io, più di tutti gli Ateniesi, sono stretto a loro da questo patto. Ecco quel che direbbero: "Abbiamo buone prove che ti piacevamo, Socrate, noi e la città. In questa città non avresti soggiornato enormemente più a lungo degli altri Ateniesi, se non ti fosse enormemente piaciuta; non ne sei mai uscito per una celebrazione sacra, tran-ne una volta per andare all'Istmo, né sei mai andato altrove, se non per spedizioni militari, né hai mai viaggiato come amano fare gli altri, né ti è mai venuta voglia di vedere un'altra città e conoscere altre leggi. Ti bastavamo, invece, noi e la nostra cit-tà: tanto intensamente ci prediligevi, accettando di vivere sotto il nostro governo (in questa città fra l'altro, dando l'impressione che ti piacesse, hai fatto i tuoi figli)! Inol-tre, durante il processo avresti ancora avuto la possibilità di chiedere la pena dell'e-silio, se lo avessi voluto, di fare cioè allora, col consenso della città, ciò che cerchi di fare adesso senza. E ti vantavi, allora, di non rammaricarti al pensiero di dover mori-re, dichiarando anzi di preferire all'esilio la morte! E ora non ti vergogni al ricordo di quei discorsi, e senza alcun riguardi per noi leggi cerchi di distruggerci, e ti comporti come il più vile schiavo tentando di fuggire contro i patti e gli accordi in base ai quali avevi convenuto con noi di regolare la tua vita di cittadino. Anzitutto, dunque, ri-spondici su questo punto: diciamo o no il vero, quando affermiamo che avevi accet-tato, e non a parole ma di fatto, di vivere sotto il nostro governo?" Come reagire a questo discorso, Critone, possiamo far altro che dichiararci d'accordo? CRITONE Dobbiamo, Socrate. SOCRATE E soggiungerebbero: "Così tu non fai che violare i patti, gli accordi fatti con noi: non vi avevi consentito perché costretto, o ingannato, e un bel po' di tempo hai avuto, per pensarci su: in settant'anni avresti ben avuto modo di partirtene se noi non ti andavamo bene, o se non trovavi giusti i nostri accordi. Tu invece non optavi per Sparta o Creta, di cui stai sempre a lodare il buon governo, né per nessun'altra città greca o barbara: di qui, anzi, sei partito più raramente di quanto non facciano storpi, ciechi o altri invalidi. A tal punto dunque ti andava bene, enormemente più che agli altri Ateniesi, la nostra città, ed evidentemente (a chi andrebbe bene una cit-tà senza leggi?) anche noi leggi. E adesso non vuoi stare ai patti? Ma sì se ci ascolti, Socrate: così non ti renderai ridicolo abbandonando la città. Pensa poi che piacere faresti, a te stesso oltre che ai tuoi amici, cadendo in un errore come quello di tra-sgredire i patti. Che i tuoi amici correranno anche loro il pericolo di andare in esilio ed essere privati dei diritti civili, o di perdere i propri beni, è abbastanza chiaro. Quanto a te, se ti recherai in qualcuna delle città più vicine, come Tebe o Megara (en-trambe vantano una buona legislazione), vi giungerai, Socrate, come un nemico del loro ordinamento civico: tutti quelli che si preoccupano della loro città ti guarderan-

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no con sospetto, considerandoti un guastatore di leggi, e rispetto ai giudici contri-buirai a consolidare l'opinione che abbiano emesso una sentenza giusta, in quanto uno che corrompe le leggi può apparire, a maggior ragione, come un corruttore di giovani o di uomini stolti. E allora cosa farai, eviterai le città rette da buone leggi e gli uomini più onesti? Oppure li avvicinerai, senza pudore, per parlare con loro, ma di cosa, Socrate? Argomenterai, come facevi qui, che le cose più preziose per l'uomo sono la virtù e la giustizia, e le leggi e tutto ciò che vi si connette? Non credi che il fa-re di Socrate apparirà sconveniente? È inevitabile. E se tenendoti alla larga da questi luoghi te ne andassi in Tessaglia, dagli amici di Critone? Certo che lì regnano il più gran disordine e lassismo, e non è escluso che starebbero ad ascoltare volentieri come sei ridicolmente evaso dal carcere mettendoti addosso qualche travestimento (una pelle d'animale, o altre cose che usano per travestirsi i fuggiaschi) per rendere la tua fama irriconoscibile. Non vi sarà nessuno a rilevare che vecchio come sei, ve-rosimilmente con poco tempo ancora da vivere, hai spinto il tuo tenace attaccamen-to alla vita al punto di trasgredire le leggi più importanti? Forse no, se non infastidi-rai nessuno: altrimenti, Socrate, ne avrai da sentire di commenti sul tuo conto, e ben umilianti! Potresti vivere ingraziandoti questo e quello, servilmente, e occupandoti di cosa, in Tessaglia, se non di spassartela?... Quasi ci fossi andato per banchettare! E quelle nostre conversazioni sulla giustizia e le altre virtù, dove saranno andate a fi-nire? Ma già, vuoi vivere per i tuoi figli, per allevarli ed educarli. Davvero? Li alleve-rai ed educherai portandoteli in Tessaglia, facendone degli stranieri per sovrappiù? O in alternativa li farai allevare qui, e con te vivo saranno allevati ed educati meglio, anche se non sei vicino a loro? Certo, se ne prenderanno cura i tuoi amici. Ma lo fa-ranno se partirai per la Tessaglia, e non invece se partirai per l'Ade? Se quelli che si professano tuoi amici vogliono essere di qualche aiuto, lo faranno comunque. Ma da' ascolto, Socrate, a noi che ti abbiamo allevato: non dare ai figli, alla vita, a null'altro più valore che a ciò che è giusto, affinché al tuo arrivo nell'Ade tu possarichiamare tutto ciò in tua difesa, presso coloro che lì comandano. Il comportamento che non sembra qui a te (né ad alcuno dei tuoi amici) preferibile, né più giusto né più pio, certo non ti apparirà preferibile quando tu sia giunto lì. È vero che andandovi - se poi lo fai – patisci un'ingiustizia, ma non da parte di noi leggi bensì degli uomini. Se invece evadi così ignominiosamente, ricambiando offesa con offesa e male con male, trasgredendo i patti e gli accordi stretti con noi e facendo del male a chi meno do-vresti (a te stesso, agli amici, alla patria, a noi), non solo ti attirerai finché vivi la no-stra ostilità, ma anche le nostre sorelle laggiù, le leggi dell'Ade, non ti accoglieranno con benevolenza, sapendo che hai cercato, per quanto sta in te, di distruggerci. In-somma, non lasciarti persuadere dai consigli di Critone più che dai nostri". Questo è ciò che mi sembra di sentire - sappilo mio buon amico Critone - come ai celebranti di riti coribantici sembra di udire i flauti: e risuonando dentro di me, l'eco di queste pa-role mi impedisce di udire altro. Per quanto mi pare ora, ti assicuro, ogni tua obie-zione a esse sarebbe vana. Se speri di ottenere qualcosa di più, comunque, parla pu-re. CRITONE Sono senza parole, Socrate. SOCRATE Allora lasciamo perdere, Critone: e scegliamo questa via, visto che ce la addita la divinità.

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PLATONE* I filosofi al governo

«Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se pri-ma al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filo-sofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, filoso-fi» (Lettera VII, 326b). «La verità è questa: lo stato in cui chi deve governare non ne ha il minimo desiderio, è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia, ma quello in cui i governanti sono di tipo opposto, è amministrato in modo opposto» (520 c-d). «La cosa più importante è che ciascuno di essi [dei filosofi] va al governo per obbligo, mentre chi governa oggidì nei singoli stati si comporta in modo opposto» (520 e). «Al governo devono andare persone che non amino governare» (521 b).

La giustizia come ordine

«giustizia: esplicare i propri compiti» (433 b) «L’attendere a troppe cose e lo scambiarsi il posto delle tre classi sociali sono un danno assai grave per lo stato […] Se le classi degli uomini d’affari, degli ausiliari, dei guardiani si occupano soltanto della propria attività, quando ciascuna di esse esplica il compito suo entro lo stato, questo fatto, non sara la giustizia e renderà giusto lo stato?» (434 c) [La giustizia] «consiste nell’adempiere i propri compiti non esteriormente, ma inte-riormente, in un’azione che coinvolge veramente la propria personalità e carattere, per cui l’individuo non permette che ciascuno dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri né che le parti dell’anima s’ingeriscano le une nelle funzioni delle al-tre; ma, instaurando un reale ordine nel suo intimo, diventa signore di se stesso e di-sciplinato e amico di se medesimo e armonizza le tre parti della sua anima»; perciò chiameremo «giusta e bella l’azione che conserva e contribuisce a realizzare questo intimo equilibrio, e sapienza la scienza che la dirige; ingiusta l’azione che via via di-strugge quell’equilibrio, e ignoranza l’opinione che la dirige» (443 e). «Entro ciascuno di noi esistono i medesimi aspetti e caratteri che esistono nello sta-to» (435 e); «le parti che costituiscono lo stato e le parti che costituiscono l’anima di ciascun individuo, sono le stesse e in numero eguale» (441 c). L’infelicità del tiranno

«In tutta la loro vita [i tiranni] non contraggono mai alcuna amicizia, ma sempre o signoreggiano o servono. Di libertà e di amicizia vera la natura tirannica rimane sempre digiuna» (576, a). «E un simile stato e un simile uomo non sono per forza pieni di paura?» (578 a).

* Platone, Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000.

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«E in che senso potremo dire vantaggioso commettere ingiustizia senza farsi scopri-re e senza pagare la pena? Non è forse ancora più malvagio chi non si fa scoprire, mentre, in chi è scoperto e castigato, l’elemento ferino viene calmato e ammansito e quello mansueto liberato? E l’anima intera, reintegrata nella sua migliore natura, ac-quistando con l’intelligenza temperanza e giustizia, non si eleva a una condizione più preziosa di un corpo che con la salute prende vigore e bellezza?» (591, b). Il Politico

«Una legge non potrà mai ordinare con precisione la cosa più buona e più giusta per tutti, includendo insieme il massimo di equità. Infatti, le disuguaglianze degli uomini e delle azioni e il fatto che nessuna mai delle vicende umane porta, per così dire, tranquillità, non permettono neppure che alcuna arte – nessuna, quale che sia – pos-sa dimostrare in nessun campo qualcosa di semplice e di valido per tutti i casi, e per tutto il corso del tempo» (294 B). «Il legislatore che darà ordini alle greggi umane per quanto riguarda ciò che è giusto e i loro reciproci rapporti, non sarà mai capace, nel dare ordini, di attribuire con precisione a ciascun individuo ciò che gli conviene» (295 A). «La legge «è come un uomo arrogante ed ignorante, che non permette a nessuno di fare qualcosa contro i propri ordini, che non permette a nessuno di fare domande, neppure se qualcuno per caso trovi un che di nuovo e di migliore, ma contrario alla norma che egli stesso aveva già prescritto» (294 C). «Colui che sa, colui che è realmente uomo politico, nella sua attività farà molte cose con questa arte, senza preoccuparsi per niente delle norme scritte, quando gli sem-breranno migliori altre norme, diverse da quelle da lui stesso scritte e come inviate a uomini lontani» (300 D). «Se nascesse un re quale noi diciamo, sarebbe amato, e amministrerebbe e governe-rebbe felicemente l’unica costituzione assolutamente retta […] Ma poiché non sorge negli Stati un re, quale nasce negli alveari, che solo appaia subito superiore nel cor-po e nell’anima, è necessario radunarci e scrivere leggi, come è naturale, cercando di seguire le orme della costituzione più vera» (301 A). (vedi anche Leggi, 875 C-D). Le Leggi

«Al di sopra di tutti questi sentimenti [la paura e la speranza] c’è la ragione che sta-bilisce ciò che in essi è bene o male. Proprio una tale decisione, allorché diventa de-creto per una Città con valore per tutta la collettività, prende il nome di legge» (644 D). «Ora, quelli che abitualmente si dicono magistrati io li ho chiamati “servitori delle leggi”, non per stravaganza nell’uso delle parole, ma perché sono convinto che in ciò soprattutto stia tanto la salvezza di uno Stato, quanto la sua decadenza. Infatti, su una Città in cui la legge è esautorata e calpestata vedo incombere la distruzione, e invece, per quella in cui la legge prevale sui magistrati, e i magistrati ad essa si sot-

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tomettono prevedo la salvezza e il godimento di tutti i beni che gli dèi concedono a-gli Stati» (IV, 715 D). «Chiunque piega la legge al potere degli uomini, oppure assoggetta lo stato agli inte-ressi di una fazione, e per far ciò ricorre alla violenza suscitando sedizioni, in totale dispregio della legge, deve essere ritenuto il più pericoloso nemico di tutta la socie-tà» (856 B). «A uno stato e a una popolazione si deve procurare non solo la salute e l’incolumità fisica, ma anche il senso della giustizia nell’anima e, cosa ancor più importante, la salvaguardia delle leggi. Ecco, a me sembra che proprio questo carattere manchi alle nostre leggi, e cioè il potere di diventare in sé immodificabili e il modo di diventare tali» (960 D)

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ARISTOTELE* L’uomo, la polis

«La comunità che risulta di piú villaggi è lo stato, perfetto, che raggiunge ormai, per cosí dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato bensí per rendere possibile la vita, in realtà esiste per render possibile una vita felice. Quindi ogni stato esiste per natura, se per natura esistono anche le prime comunità: infatti esso è il loro fine e la natura è il fine: per esempio quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo svi-luppo, noi lo diciamo la sua natura, sia d’un uomo, d’un cavallo, d’una casa. Inoltre, ciò per cui una cosa esiste, il fine, è il meglio, e l’autosufficienza è il fine e il meglio. Da queste considerazioni è evidente che lo stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un essere socievole: quindi chi vive fuori della comunità statale per na-tura e non per qualche caso o è un abietto o è superiore all’uomo, proprio come quello biasimato da Omero “privo di fratria, di leggi, di focolare”: tale è per natura costui e, insieme anche bramoso di guerra, giacché è isolato, come una pedina al gio-co dei dadi. È chiaro quindi per quale ragione l’uomo è un essere socievole molto piú di ogni ape e di ogni capo d’armento. Perché la natura, come diciamo, non fa niente senza scopo e l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce indica quel che è dolo-roso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (e, in effetti, fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo stato. E per natura lo stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla parte: infatti, soppresso il tutto non ci sarà piú né piede né mano se non per analogia verbale, come se si dicesse una ma-no di pietra (tale sarà senz’altro una volta distrutta): ora, tutte le cose sono definite dalla loro funzione e capacità, sicché, quando non sono piú tali, non si deve dire che sono le stesse, bensí che hanno il medesimo nome. È evidente dunque e che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficien-te, ogni individuo separato sarà nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua autosuffi-cienza non ne sente il bisogno, non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestia o dio». La critica allo stato platonico

«È chiaro che se uno stato nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno, non sarà neppure più uno stato, perché lo stato è per sua natura pluralità e diven-tando sempre più uno si ridurrà a famiglia da stato e a uomo da famiglia: in realtà dobbiamo ammettere che la famiglia è più una dello stato e l’individuo della fami-glia: di conseguenza chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe lo stato» (1261 a).

* Aristotele, Politica, a cura di R. Laurenti, Laterza, Bari, 1995; Etica Nicomachea a cura di A. Plebe, Laterza, Roma-

Bari.

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Il governo della legge

«Ciò che non ha affatto l’elemento affettivo è meglio di quel che lo ha per natura: ora la legge non possiede tale elemento, mentre ogni anima umana lo ha necessariamen-te» (Pol. 1286a 8ss) «Chi raccomanda il governo della legge sembra raccomandare esclusivamente il go-verno di dio e della ragione, mentre chi raccomanda il governo dell’uomo, v’aggiunge anche quello della bestia perché il capriccio è questa bestia e la passione sconvolge, quando sono al potere, anche gli uomini migliori. Perciò la legge è ragione senza passione» (Pol. 1287 b 20 ss). Sulla costituzione

«L’ordinamento delle varie magistrature d’uno stato» (1278 b, 10). «L’ordinamento delle cariche in uno Stato, in che modo sono distribuite, qual è il po-tere sovrano della costituzione, quale il fine di ogni comunità», mentre le leggi sono distinte dai princìpi che caratterizzano la costituzione» (Pol. 1289 a 15).

«Gli adulatori presso i tiranni, i demagoghi presso le democrazie […]: ad essi risale la responsabilità che siano sovrane le decisioni dell’assemblea e non le leggi, giacchè tutto riportano al popolo: avviene quindi che essi diventino grandi perché il popolo è sovrano di tutto, e del sentimento del popolo, loro: e, infatti, la massa crede in loro. Inoltre quelli che criticano i magistrati sostengono che giudice dev’essere il popolo, il quale contento accetta l’invito: di conseguenza tutte le magistrature si sfasciano. Ragionevole, quindi, sembrerebbe la censura di chi afferma che tale democrazia non è una costituzione, perché dove le leggi non imperano non c’è costituzione» (Politica, IV, 1292 a) La democrazia

«Che la massa debba essere sovrana dello stato a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi in effetto che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a loro, non presi singolarmente ma nella loro to-talità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e come quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza. Per tale motivo i molti giudicano meglio anche le opere di musica e le creazioni dei poeti: questo ne giudica una parte, quello un’altra, ma tutt’insieme gli uomini tutt’insieme» (Pol. III, 11)

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La giustizia

«Giusto sarà sia il rispettoso della legge sia l’equo» (Etica Nicomachea, V, 1). «Si pensa che il giusto sia eguaglianza, e lo è, ma non per tutti, bensì per gli uguali: anche l’ineguaglianza si pensa sia giusta, e lo è, in realtà, ma non per tutti, bensì per i diseguali» (Pol. III, 9). «L’eguaglianza è duplice: numerica l’una, in rapporto al merito l’altra […] dare una costituzione secondo l’una o l’altra forma d’eguaglianza in modo assoluto sotto ogni rispetto è una sciocchezza. Lo si vede da quel che succede, e, cioè, nessuna di tali co-stituzioni è stabile. Ed eccone il motivo: è impossibile che non ci si trascini dietro fi-no alla fine un male derivante da un errore iniziale, commesso al principio. Perciò bisogna in taluni casi far appello all’eguaglianza numerica, in altri all’eguaglianza in rapporto al merito» (1302 a, 5). «Della giustizia particolare, e del giusto ad essa corrispondente, una specie è quella che consiste nella ripartizione degli onori, delle ricchezze e di tutte le altre cose divi-sibili per chi fa parte della cittadinanza (in esse infatti uno può avere rispetto a un altro un trattamento iniquo oppure equo), un’altra specie è quella che regola le rela-zioni sociali. Di quest’ultima vi sono due parti; infatti delle relazioni alcune sono vo-lontarie, altre involontarie; volontarie sono quelle come la vendita, la compera, il prestito, la cauzione, la locazione, il deposito, il salario (esse sono dette volontarie, perché il principio di tali contratti è volontario); di quelle involontarie alcune sono clandestine, come il furto, l’adulterio, l’avvelenamento, il lenocinio, la corruzione di servi, l’assassinio doloso, la falsa testimonianza, altre sono atti di violenza, come i maltrattamenti, l’imprigionamento, l’omicidio, la rapina, la mutilazione, la diffama-zione, l’oltraggio» (Eth. Nic. 1130 b- 1131 a). L’equità

«In effetti, l’equo, pur essendo superiore ad un certo tipo di giusto, è esso stesso giu-sto, ed è superiore al giusto pur non costituendo un altro genere. Per conseguenza, giusto ed equo sono la stessa cosa, e, pur essendo entrambi buoni, è l’equo che ha più valore. Ciò che produce l’aporia è il fatto che l’equo è sì giusto, ma non è il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale. Il motivo è che la legge è sem-pre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattare cor-rettamente in universale. Nelle circostanze, dunque, in cui è inevitabile parlare in universale, ma non è possibile farlo correttamente, la legge prende in considerazio-ne ciò che si verifica nella maggioranza dei casi, pur non ignorando l’errore dell’approssimazione. E non di meno è corretta: l’errore non sta nella legge né nel legislatore, ma nella natura della cosa, giacché la materia delle azioni ha proprio questa intrinseca caratteristica. Quando, dunque, la legge parla in universale, ed in seguito avviene qualcosa che non rientra nella norma universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno, per avere par-lato in generale, correggere l’omissione, e considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione. Perciò l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto, non del giusto in senso assoluto, bensì del giusto che è approssimativo per il

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fatto di essere universale. Ed è questa la natura dell’equo: un correttivo della legge, laddove è difettosa a causa della sua universalità. Questo, infatti, è il motivo per cui non tutto può essere definito dalla legge: ci sono dei casi in cui è impossibile stabili-re una legge, tanto che è necessario un decreto. Infatti, di una cosa indeterminata anche la norma è indeterminata, come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo: il regolo si adatta alla configurazione della pietra e non rimane rigido, come il decreto si adatta ai fatti. Che cosa è dunque l’equo, e che è giusto e migliore di un certo tipo di giusto, è chiaro. Da ciò risulta manifesto anche chi è l’uomo equo: è e-quo infatti chi è incline a scegliere e a fare effettivamente cose di questo genere, e [1138a] chi non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha il conforto della legge. Questa disposizione è l’equità, che è una forma speciale di giustizia e non una disposizione di genere diver-so.

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LA FILOSOFIE ELLENISTICHE

Epicureismo*

«Quando noi diciamo che il fine è il piacere, non intendiamo i piaceri dei dissoluti e dei gaudenti, ma il non soffrire quanto al corpo e non esser turbati quanto all’anima. Perché non simposi o feste continue, né godersi giovanetti e donne, né pesci od altro che offre mensa sontuosa, rendono dolce la vita, ma sobrio giudizio che indaghi le cause d’ogni scelta o avversione e discacci gli errori onde gli animi son pieni d’in-quietudine» (Epicuro). «Infatti anelare al potere che è vano, e non viene mai dato, e per esso patire di continuo una dura fatica, ciò è spingere con tutte le forze un macigno per l’erta d’un monte per poi vederlo di nuovo rotolare dalla vetta e raggiungere a precipizio la superficie della distesa pianura» (Lucrezio, De rerum natura, III, vv. 998-1002). «un tranquillo obbedire è assai meglio dell’ansia di avere in pugno il potere e di reggere il regno» (Lucrezio, De rerum natura, V, 1129-1130) Lo stato di natura

«non potevano ancora mirare al comune vantaggio, ne sapevano uso di leggi o di mutuo costume. Ognuno la preda che il caso gli offrisse ghermiva Per sé solo, da solo, ammaestrato a durare la vita in pienezza di forze». (Lucrezio, V, 958-961) «Allora i vicini cominciarono a stringere di buon grado amicizia fra loro, a non arrecarsi violenza né offesa, e affidarono al rispetto reciproco le donne e i fanciulli, con gesti e confuse parole esprimendo il pensiero che era giusto per tutti mostrare pietà per i deboli». (Lucrezio, V, 1019-1023) «I re cominciarono a fondare città e a stabilire fortezze, per averne difesa e rifugio a se stessi, e divisero i campi e il bestiame, assegnati a seconda della forza, dell’ingegno e della bellezza di ognuno; erano molto pregiati il bell’aspetto e il vigore». (Lucrezio, V, 1108-1112) «alcuni degli uomini insegnarono a creare magistrati fondando il diritto affinché accettassero di obbedire alle leggi. Infatti il genere umano, stremato dal vivere con violenza,

* Epicuro, Opere, frammenti, testimonianze, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 2003; Lucrezio, La natura

delle cose, trad. di L. Canali, Rizzoli, Milano 1999.

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languiva nell’odio; perciò tanto più di buon grado si sottomise spontaneamente alle leggi e alla rigorosa giustizia». (Lucrezio, V, 1143-1147) La giustizia

«Verso quegli animali che non poterono fermar patti reciproci per non ricevere né recar danno, non v’è giusto né ingiusto; così pure verso quei popoli che non potero-no o non vollero fermar patti di non recare né ricever danno». (Epicuro) «L’ingiustizia non è per sé un male, ma per il timore che sorge dal sospetto di non rimanere occulti a coloro cui compete punire tali azioni» (Epicuro). «Quando, per mutate condizioni di cose, non più giovino quelle prescrizioni sancite come giuste, in tal caso, esse erano giuste quando utili ai comuni rapporti dei concit-tadini, ma più tardi non furono più giuste, quando non più utili» (Epicuro). L’ubbidienza al diritto

«Ma nella vita è il terrore delle pene per le malvagità compiute, crudele per crudeli delitti, e l’espiazione della colpa, il carcere e il tremendo balzo giù dalla rupe, le frustate, i carnefici, le violenze, la pece, le lamine, le torce; e anche se tutto ciò è lontano, la mente consapevole dei misfatti rimordendo applica a sé quei tormenti, brucia sotto la sferza, e non vede intanto qual termine possa esserci a quei mali, né qual sia infine l’interruzione di quelle pene, e teme anzi che le medesime in morte si inaspriscano. Qui sulla terra s’avvera per gli stolti la vita dell’Inferno» (Lucrezio, III, 1014-1023). «Anche se riesce a ingannare tutti gli dèi e gli uomini, non deve sperare che la sua colpa resti per sempre segreta. Si narra di molti che parlando spesso nel sonno o in preda a un delirio febbrile smascherarono se stessi e rivelarono le loro malefatte a lungo celate» (Lucrezio, V, 1056-1059).

Stoicismo** La legge «è la somma ragione insita nella natura, la quale comanda ciò che va fatto e proibisce quel che non va fatto. Questa stessa ragione quando è perfezionata e con-solidata dalla mente umana è la legge».

**

Crisippo, in Stoici Antichi. Tutti i frammenti, a cura di R. Radice, Rusconi, Milano 1999, p. 1123.

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«La legge non è scoperta dell’ingegno umano né il frutto di una sanzione popolare, ma un essere eterno che regge l’intero mondo con i suoi ordini e i suoi divieti […] A giusta ragione, quindi, viene lodata la legge che gli dèi diedero al genere umano: essa infatti è ragione e mente di un essere intelligente capace di formulare comandi e di-vieti. I singoli decreti e divieti dei popoli hanno il potere di richiamare al bene e di distogliere dal male, e questo potere non solo precede nel tempo i popoli e le città, ma è addirittura coevo a quello divino che custodisce e dirige il cielo e la terra […] Pertanto, la legge autentica e fondamentale con potere di interdizione e di comando è la retta ragione del sommo Giove».

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CICERONE* La legge naturale

«Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti, co-stante, eterna, che col suo comando invita al dovere, e col suo divieto distoglie dalla frode [...] A questa legge non è lecito apportare modifiche né toglierne alcunché né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo, né dobbiamo cercare come suo interprete e commentatore Sesto Elio; essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall’oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, ed un solo dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò questa legge; e chi non gli obbedirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato la natura umana, sconterà le più gravi pene, anche se sarà riuscito a sfuggire a quegli altri che solitamente sono con-siderati supplizi» (De re publica, III, 22, 33). La giustizia

«Primo dovere della giustizia è di non offendere alcuno, se non si è provocati da in-giuria; poi di usare delle cose comuni come comuni e delle cose private come pro-prie. Non vi sono però cose private per natura, ma per antico posssesso, come acca-de per quelli che vennero un tempo in luoghi non occupati o per quelli che se ne im-padronirono per vittoria bellica, o per legge, per contratto o sorteggio […] Fonda-mento della giustizia è la fede [fides], cioè la osservanza e la sincerità degli impegni e degli accordi (De officiis, I, §§ 20-23). Vi sono poi due specie di ingiustizia; l’una, di quelli che arrecano ingiustizia; l’altra, di quelli che, pur potendolo fare, non allontanano l’ingiuria da coloro cui è stata fatta (§ 23). Vi sono poi ingiustizie che traggono origine da una certa cavillosità e da una troppo sottile, ma maliziosa, interpretazione delle leggi. Di qui quel proverbio sulla bocca di tutti: giustizia ferrea, ingiustizia somma [summum ius, summa iniuria] (§ 33). «Useremo gli aspetti della giustizia, se diremo che si deve aver pietà o degli innocen-ti o dei supplichevoli; se mostreremo che conviene rendere grazie ai benemeriti; se dimostreremo che bisogna vendicarsi dei malfattori; se riterremo che debba serbar-si la parola data ad ogni costo; se diremo che bisogna eminentemente osservare le leggi e i costumi della comunità; se diremo che conviene con zelo rispettare le alle-anze e le amicizie; se dimostreremo che bisogna rispettare scrupolosamente quel di-ritto che la natura predispone verso i genitori, gli dèi, la patria; se diremo che i le-gami di ospitalità, di clientela, di parentela, di affinità vanno fedelmente osservati; se mostreremo che né per denaro, né per compiacenza, né per pericolo, né per avver-sione bisogna stornarsi dalla retta via; se diremo che è bene stabilire uguale diritto per tutti» (Retorica a Gaio Erennio, III, 4).

* De re publica (Dello stato), a cura di A. Resta Barrile, Mondadori, Milano 1994; De officiis (I doveri), a cura di E. Nar-

ducci, Rizzoli, Milano 1993; La retorica a Gaio Erennio, a cura di F. Cancelli, Mondadori, Milano 1998.

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Lo stato

«Lo Stato è ciò che appartiene al popolo. Ma non è popolo ogni moltitudine di uomini riunitasi in modo qualsiasi, bensì una società organizzata che ha per fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza d’interessi» (De re publica, I, XXV). Il governo misto

«Io vorrei che in uno Stato vi fosse un’autorità suprema e regale, che agli ottimati fosse assegnata una posizione eminente, e che al giudizio della volontà del popolo fossero riservate alcune decisioni. Una costituzione politica di questo genere ha il vantaggio anzitutto di mantenere un certo equilibrio nella distribuzione dei poteri, condizione della quale i popoli liberi non possono a lungo fare a meno; ed in secondo luogo questa forma di governo ha la stabilità, mentre le altre forme degenerano fa-cilmente in forme contrarie[…] Non vi possono essere infatti motivo e occasione di sovvertimento in uno stato in cui ciascuno occupa saldamente il posto che gli spetta, dove non si verificano condizioni per cui si debba precipitare e cadere» (De re publi-

ca, I, XLV). La libertà repubblicana

«La libertà non consiste nell’avere un buon padrone, ma nel non averne affatto» (De

re publica, II, XXIII).

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SANT’AGOSTINO*

«Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri? Perché anche le bande dei briganti che cosa sono se non dei piccoli Stati? È pur sempre un gruppo di individui che è retto dal comando di un capo, è vincolato da un patto sociale e il bottino si divide secondo la legge della convenzione» (De civi-

tate Dei, IV, 4). «[…] mentre le due città sono ancora commischiate, anche noi utilizziamo la pace di Babilonia. Da essa il popolo di Dio si svincola mediante la fede per porsi in cammino frattanto nel suo territorio. Per questo anche l'Apostolo esorta la Chiesa di pregare per i sovrani e dignitari di lei aggiungendo le parole: Per trascorrere una vita serena

e tranquilla in tutta pietà e carità. Anche il profeta Geremia, nel predire la schiavitù all'antico popolo di Dio e nell'ingiungere per divina ispirazione che andassero con sottomissione a Babilonia, perché obbedivano a Dio anche con tale sopportazione, esortò che si pregasse per essa con le parole: Perché nella sua pace v'è anche la vo-

stra pace, certamente quella nel tempo perché essa è comune ai buoni e ai cattivi» (De civitate Dei, XIX, 26). «Dunque questa città del cielo, mentre è esule in cammino sulla terra, accoglie citta-dini da tutti i popoli e aduna una società in cammino da tutte le lingue. Difatti non prende in considerazione ciò che è diverso nei costumi, leggi e istituzioni, con cui la pace terrena si ottiene o si mantiene, non invalida e non annulla alcuna loro parte, anzi conserva e rispetta ogni contenuto che, sebbene diverso nelle varie nazioni, è diretto tuttavia al solo e medesimo fine della pace terrena se non ostacola la religio-ne, nella quale s'insegna che si deve adorare un solo sommo e vero Dio. Dunque an-che la città del cielo in questo suo esilio trae profitto dalla pace terrena, tutela e de-sidera, per quanto è consentito dal rispetto per il sentimento religioso, l'accordo de-gli umani interessi nel settore dei beni spettanti alla natura degli uomini soggetta al divenire e subordina la pace terrena a quella celeste. Ed essa è veramente pace in modo che unica pace della creatura ragionevole dev'essere ritenuta e considerata l'unione sommamente ordinata e concorde di avere Dio come fine e l'un l'altro in lui» (De civitate Dei, XIX, 17). «Comandano infatti quelli che provvedono, come l'uomo alla moglie, i genitori ai fi-gli, i padroni ai servi. Obbediscono coloro ai quali si provvede, come le donne ai ma-riti, i figli ai genitori, i servi ai padroni. Ma nella casa del giusto, che vive di fede ed è ancora esule dalla sublime città del cielo, anche coloro che comandano sono a servi-zio di coloro ai quali apparentemente comandano. Non comandano infatti nella brama del signoreggiare ma nel dovere di provvedere, non nell'orgoglio dell'impor-si, ma nella compassione del premunire. Lo prescrive l'ordine naturale perché in questa forma Dio ha creato l'uomo. Infatti egli disse: Sia il padrone dei pesci del mare e degli uccelli del cielo e di tutti i rettili che

strisciano sulla terra. Volle che l'essere ragionevole, creato a sua immagine, fosse il padrone soltanto degli esseri irragionevoli, non l'uomo dell'uomo, ma l'uomo del be-stiame. Per questo i giusti dell'antichità furono stabiliti come pastori degli armenti e

* Le confessioni, a cura di A. Landi, Edizioni Paoline, Milano 1987; La Città di Dio, trad. di D. Gentili, Città Nuova, Roma

2000.

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non come re degli uomini, ed anche in questo modo Dio suggeriva che cosa richiede l'ordine delle creature, che cosa esige la penalità del peccato. Si deve capire che a buon diritto la condizione servile è stata imposta all'uomo peccatore. Perciò in nes-sun testo della Bibbia leggiamo il termine "schiavo" prima che il giusto Noè tacciasse con questo titolo il peccato del figlio. Quindi la colpa e non la natura ha meritato si-mile appellativo» (De civitate Dei, XIX, 14-15). «C'è forse un tempo o un luogo in cui sia ingiusto amare Dio con tutto il cuore, con

tutta l'anima, con tutta la mente, e amare il prossimo come te stesso? Dunque si devo-no detestare e punire dappertutto e sempre i vizi contrari alla natura […] che se pu-re tutti i popoli della terra li praticassero, la legge divina li coinvolgerebbe in una medesima condanna […]. Quanto alle azioni che sono viziose perché contravvengono alle usanze umane, si devono evitare, uniformandosi alla diversità delle usanze stes-se, per non violare con la brama capricciosa del singolo, cittadino o straniero, il patto stabilito dalla consuetudine o dalla legge fra gli abitanti di una medesima città o na-zione: la discordanza infatti di qualsiasi parte col tutto è una deformità. Ma quando è Dio stesso a dare un ordine contrario a un'usanza o a un patto qualsiasi, bisogna metterlo in pratica, anche se in quel luogo non fu mai praticato; e se fu trascurato, bisogna restaurarlo, se non fu stabilito, bisogna stabilirlo. A un re è lecito impartire nella città di cui ha il regno un ordine mai impartito da nessuno prima di lui né da lui stesso prima di allora. L'ubbidirvi, poi, non è un atto contrario alla convenzione su cui si regge la città; sarebbe anzi contrario alla convenzione il non ubbidirvi, dal momento che la convenzione su cui si regge ogni umana società è l'ubbidienza al proprio re. Quanto più dunque si dovrà servire senza esitazione Dio, re di tutto il creato, in ciò che comanda! Come fra i poteri della società umana il maggiore prece-de il minore quanto all'ubbidienza dovuta, così Dio precede tutti» (Confessioni, III.8, 15). «Ma se tu imponi all'improvviso un'azione inusitata e imprevista, addirittura vietata da te stesso in precedenza, chi dubiterà dell'obbligo di compierla, anche se non riveli al momento la causa della tua imposizione e se contrasta col patto sociale di un gruppo di uomini? Unica giusta società umana è infatti quella che serve a te; ma bea-ti quanti comprendono che da te viene l'ordine, perché ogni atto dei tuoi servitori o realizza quanto richiede il presente o preannunzia quale sarà il futuro» (Confessioni, III.9,17).

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MARSILIO DA PADOVA* Definizione della pace

«La pace (tranquillitas) è la buona disposizione della comunità politica grazie alla quale ciascuna delle sue parti potrà compiere perfettamente le azioni che le si addi-cono secondo ragione e secondo la propria istituzione» (Libro I, cap. II, § 3). Il potere spirituale

«Il fine del sacerdozio consiste nell’educazione degli uomini e nell’insegnamento di quelle cose che, secondo la legge evangelica, è necessario credere, fare e non fare per conseguire la salvezza eterna e per evitare la sventura eterna» (I, VI, 8). La legge perfetta

«Non tutte le vere conoscenze delle cose giuste e vantaggiose per la comunità civile sono leggi, a meno che per la loro obbedienza non sia stato emanato un comando co-attivo, o non siano state emanate per mezzo di un comando, anche se per una legge perfetta si richiede necessariamente una conoscenza vera di esse. In verità, talvolta diventano legge conoscenze false di ciò che è giusto e vantaggioso, quando viene emanato un comando per la loro obbedienza, oppure quando vengono fatte grazie al comando; così come è evidente nelle regioni di alcuni popoli barbari che ritengono giusto che un omicida sia assolto completamente dalla colpa e dalla punizione civile pagando un certo prezzo per tale delitto, benché questo sia semplicemente ingiusto e, di conseguenza, le loro leggi assolutamente imperfette. Infatti, anche ammesso che abbiano una forma propria, cioè il comando coattivo di obbedire a esse, tuttavia so-no prive di una condizione richiesta, cioè del vero e proprio ordinamento di ciò che è giusto» (I, X, 5). Il legislatore umano

«Il legislatore, o causa efficiente prima e specifica della legge, è il popolo, ossia l’intero corpo dei cittadini, o la sua parte prevalente, per mezzo della sua elezione o volontà espressa a parole nell’assemblea generale dei cittadini, che comanda o speci-fica che cosa si deve fare o meno riguardo le azioni civili degli uomini, sotto la mi-naccia di una pena o punizione temporale; intendo la parte prevalente considerata come quantità e qualità delle persone in quella comunità politica per la quale è stata emanata una legge» (I, XII, 3). «L’autorità umana assolutamente prima di promulgare o di stabilire le leggi spetta soltanto a colui dal quale possono derivare solamente ottime leggi, cioè l’intero cor-po dei cittadini o la sua parte prevalente» (I, XII, 5). «L’autorità di legiferare spetta soltanto a colui grazie al quale, una volta promulgate, le leggi vengono meglio osservate o assolutamente osservate […] Infatti una legge sarebbe inutile se non venisse osservata […] Qualsiasi cittadino osserva meglio quel-la legge che ciascuno ritiene di essersi imposto; tale è la legge promulgata su ascolto e comando dell’intero corpo dei cittadini» (I, XII, 6).

* Il difensore della pace, a cura di M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Rizzoli, Milano 2001.

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NICCOLÒ MACHIAVELLI* «Perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverebbe vivere, che colui che lascia quello che fa per quello che si doverebbe fare impara più tosto la ruina che la preservazione sua; perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni» (Principe, XV). «Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggirori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai lo-ro bene, sono tutti tua; òfferonti el sangue, la roba, la vita, e figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano (P, XVII)». «E li uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai» (P, XVII). «È necessario a chi dispone una republica, ed ordina leggi in quella, presupporre tut-ti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qua-lunque volta ne abbiano libera occasione (…) Gli uomini non operorono mai nulla bene se non per necessità» (Discorsi, I, 3). «Si troverà qualche cosa che parrà virtù, e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qual-cuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo» (P, XV). «Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato; e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati» (P, XVIII). «Perché, dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini, o che sia so-stenuto dal timore d’uno principe che sopperisca a’ difetti della religione» (D, I, 11). «e’ non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge…» (P, XII). «perché non si truovano né leggi né ordini che bastino a frenare una universale cor-ruzione. Perché, così come gli buoni costumi, per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno de’ buoni costumi» (D, I, 18). «Conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, co-me quello di Romolo, sempre lo scuserà» (D, I, 9). «Coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma» (D, I, 4).

* Il principe – Scritti politici, a cura di L. Fiorentino, Mursia, Milano 1977; Le grandi opere politiche. II. Discorsi sopra la

prima Deca di Tito Livio, a cura di G.M. Anselmi e C. Varotti, Bollati Boringhieri, Torino 1993.

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«Sogliono le provincie, il più delle volte, nel variare che le fanno, dall’ordine venire al disordine, e di nuovo di poi dal disordine all’ordine trapassare; perché non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come le arrivano alla loro ul-tima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino; e similmente, sce-se che le sono, e per li disordini ad ultima bassezza pervenute, di necessità, non po-tendo più scendere, conviene che salghino; e così sempre da il bene si scende al ma-le, e da il male si sale al bene» (Ist. Fior., V, 1). «Respondo come e' principati de' quali si ha memoria, si truovano governati in dua modi diversi: o per uno principe, e tutti li altri servi, e' quali come ministri per grazia e concessione sua, aiutono governare quello regno; o per uno principe e per baroni, li quali, non per grazia del signore, ma per antiquità di sangue tengano quel grado. Questi tali baroni hanno stati e sudditi proprii, li quali ricognoscono per signori et hanno in loro naturale affezione. Quelli stati che si governono per uno principe e per servi hanno el loro principe con più autorità; perché in tutta la sua provincia non è alcuno che riconosca per superiore se non lui; e se obediscano alcuno altro, lo fanno come ministro et offiziale, e non li portano particulare amore» (P., IV). «Volendo, adunque, discorrere quali furono li ordini della città di Roma, e quali acci-denti alla sua perfezione la condussero; dico come alcuni che hanno scritto delle re-publiche dicono essere in quelle uno de' tre stati, chiamati da loro Principato, Otti-mati, e Popolare, e come coloro che ordinano una città, debbono volgersi ad uno di questi, secondo pare loro più a proposito. Alcuni altri, e, secondo la opinione di mol-ti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delli quali tre ne siano pessimi tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi, che vengo-no ancora essi a essere perniziosi. Quelli che sono buoni, sono e' soprascritti tre: quelli che sono rei, sono tre altri, i quali da questi tre dipendano; e ciascuno d'essi è in modo simile a quello che gli è propinquo, che facilmente saltano dall'uno all'altro: perché il Principato facilmente diventa tirannico; gli Ottimati con facilità diventano stato di pochi; il Popolare sanza difficultà in licenzioso si converte. Talmente che, se uno ordinatore di republica ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo; perché nessuno rimedio può farvi, a fare che non sdruccioli nel suo con-trario, per la similitudine che ha in questo caso la virtute ed il vizio […]

E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano […]

Dico, adunque, che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne' tre buoni, e per la malignità che è ne' tre rei. Talché, avendo quelli che pruden-temente ordinano leggi, conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di questi modi per sé stesso, ne elessero uno che participasse di tutti, giudicandolo più fermo e più stabile; perché l'uno guarda l'altro, sendo in una medesima città il Principato, gli Ot-timati, e il Governo Popolare» (D., I, 2).

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THOMAS HOBBES* Lo stato di natura e il diritto di natura «La natura ha fatto gli uomini così uguali nelle facoltà del corpo e della mente che, benché talvolta si trovi un uomo palesemente più forte, nel fisico, o di mente più pronta di un altro, tuttavia, tutto sommato, la differenza tra uomo e uomo non è così considerevole al punto che un uomo possa da ciò rivendicare per sé un beneficio cui un altro non possa pretendere tanto quanto lui» (Leviatano, XIII). «Gli uomini vivono senz’altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria for-za o la loro propria ingegnosità. In tali condizioni, non vi è posto per l’operosità in-gegnosa, essendone incerto il frutto: e di conseguenza, non vi è né coltivazione della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare via mare, né co-struzioni adeguate, né strumenti per spostare e rimuovere le cose che richiedono molta forza, né conoscenza della superficie terrestre, né misurazione del tempo, né arti, né lettere, né società; e, ciò che è peggio, v’è il continuo timore e pericolo di una morte violenza; e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve» (Leviatano, XIII) «La maggior parte degli scrittori politici suppongono o pretendono o postulano che l’uomo sia un animale già atto sin dalla nascita a consociarsi (i Greci dicono ‘animale politico’), e su questa base costruiscono le loro teorie politiche come se non ci fosse bisogno per conservare la pace e l’ordine di tutto il genere umano, di null’altro che di una concorde osservanza, da parte degli uomini, di determinati patti e condizioni che essi stessi chiamano senz’altro leggi. Ma questo assioma è falso, benché accetta-to dai più; e l’errore proviene da un esame troppo superficiale della natura umana. Infatti, ad osservar più a fondo le cause per cui gli uomini si consociano, e fruiscono di reciproci rapporti sociali, si noterà facilmente che questo consociarsi non avviene in modo che, per natura, non possa accadere altrimenti, ma è determinato da circo-stanze contingenti. Se l’uomo, infatti, amasse il suo simile per natura, cioè proprio in quanto è un uomo, non vi sarebbe nessuna ragione perché ciascuno non amasse in-differentemente tutti gli altri nella stessa misura, proprio perché si tratta allo stesso modo di uomini; e dovesse invece frequentare piuttosto quelli la cui amicizia confe-risce a lui, a preferenza di altri, un qualche onore o una qualche utilità. Noi non cer-chiamo, quindi, per natura, amici, ma ci avviciniamo a persone da cui ci venga onore e vantaggio: questo cerchiamo in primo luogo, e quelli solo secondariamente [...] In-somma, è chiaro per esperienza a chiunque consideri un po’ più addentro le cose umane, che ogni associazione spontanea di gente nasce o dal bisogno reciproco op-pure dal desiderio di soddisfare la propria ambizione» (De Cive, I, 2). «Da questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo consegue anche che niente può essere ingiusto. Le nozioni di diritto e di torto, di giustizia e ingiustizia non vi hanno luogo. Laddove non esiste un potere comune, non esiste legge; dove non vi è legge non vi è ingiustizia. Violenza e frode sono in tempo di guerra le due virtù car-dinali. Giustizia e ingiustizia non sono facoltà né del corpo né della mente. Se lo fos-sero potrebbero trovarsi in un uomo che fosse solo al mondo, allo stesso modo della sue sensazioni e della sue passioni. Sono qualità relative all’uomo che vive in società e non in solitudine. A questa medesima condizione consegue anche che non esiste * Leviatano, a cura di A. Pacchi, Laterza, Roma-Bari 1989; De Cive, a cura di N. Bobbio, Utet, Torino 1948.

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proprietà né dominio, né distinzione tra mio e tuo, ma appartiene ad ogni uomo tutto ciò che riesce a prendersi e per tutto il tempo che riesce a tenerselo. E ciò basti per descrivere la triste condizione in cui l’uomo è realmente posto dalla nuda natura, benché abbia la possibilità di uscirne, possibilità che risiede in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione» (Leviatano XIII). «Il diritto di natura è «la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbi-trio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo a questo scopo». [La legge di natura] «è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che proibisce ad un uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per conservarla, e di non fare ciò che egli considera meglio per conservarla» (Lev. XIV). «Quando una persona ragiona non fa altro che concepire una somma totale risultan-te dall’addizione di parti o un resto derivante dalla sottrazione di una somma da un’altra (…) In qualunque spazio in cui c’è spazio per l’addizione e per la sottrazione, c’è spazio anche per la ragione e dove non c’è posto per le prime, la ragione non ha nulla da fare» (Leviatano, V). Il contratto

«L’unico modo di erigere un potere comune che possa essere in grado di difenderli dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci – perciò procurando loro sicurezza in guisa che grazie alla propria operosità e ai frutti della terra possano nutrirsi e vi-vere soddisfacentemente –, è quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo uomo o a una sola assemblea di uomini (che, in base alla maggioran-za delle voci, possa ridurre tutte le loro volontà a un’unica volontà). Il che è quanto dire che si incarica un solo uomo o una sola assemblea di uomini di dar corpo alla loro persona; che ciascuno riconosce e ammette di essere l’autore di ogni azione compiuta, o fatta compiere relativamente alle cose che concernono la pace e la sicu-rezza comune, da colui che dà corpo alla loro persona; e che con ciò sottomettono, ognuno di essi, le proprie volontà e i propri giudizi alla volontà e al giudizio di quest’ultimo. Questo è più che consenso o concordia, è una reale unità di tutti loro in una sola e stessa persona, realizzata mediante il patto di ciascuno con tutti gli altri, in maniera tale che è come se ciascuno dicesse a ciascun altro: Dò autorizzazione e

cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini,

a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi

tutte le azioni. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona si chiama stato, in latino civitas. È questa la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con maggior rispetto) di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio

Immortale, la nostra pace e la nostra difesa» (Leviatano, XVII). «Un patto con cui io rinunci a difendermi dalla violenza, è sempre nullo (…) Anche se è possibile fare la seguente stipulazione: se non faccio questo o quello, uccidimi, nes-suno può stipulare: se non faccio questo o quello, non ti resisterò quando verrai ad uc-

cidermi» (Leviatano, XIV).

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La libertà e la legge «Ogni suddito ha libertà in tutte quelle cose il diritto alle quali non può essere cedu-to per patto». La libertà «dipende dal silenzio della legge. Nei casi in cui il sovrano non ha prescrit-to alcuna norma, il suddito ha la libertà di fare o non fare, a sua discrezione» (Levia-

tano, XXI). «Legge civile è per ogni suddito l’insieme delle norme che, oralmente, per iscritto, o con altro segno sufficiente a manifestare la volontà, lo Stato gli ha ordinato di appli-care per distinguere il diritto dal torto; vale a dire ciò che è contrario alla norma da ciò che non lo è» (Leviatano, XXVI). «Una quarta opinione inconciliabile con la natura dello Stato è che chi detiene il pote-

re sovrano è soggetto alle leggi civili. Vero è che ogni sovrano è soggetto alle leggi di natura […] ma non è soggetto alle leggi fatte da lui stesso, ossia dallo Stato. Infatti es-sere soggetto alle leggi significa essere soggetto allo Stato, cioè al rappresentante sovrano, cioè in questo caso a se stesso; il che non è soggezione ma piuttosto libertà dalle leggi. Si tratta di un errore che, ponendo le leggi al di sopra del sovrano, pone al tempo stesso un giudice sopra di lui, e un potere di punirlo; il che equivale a fare un nuovo sovrano e, per la stessa ragione, un terzo per punire il secondo e così via sen-za fine, verso la confusione e la dissoluzione dello Stato» (L., XXIX). «Se un suddito ha col proprio sovrano una controversia per un debito, o per un dirit-to di possesso di terre o beni, o in merito a un servizio a lui richiesto, o anche in me-rito a una pena corporea o pecuniaria, e se la contestazione del suddito è fondata su una legge vigente, allora questi, per difendere il proprio diritto, ha la medesima li-bertà di intentare causa che avrebbe nei confronti di un altro suddito e dinanzi a quei giudici che sono incaricati dal sovrano. Infatti, dato che il sovrano avanza la propria pretesa in forza di una legge vigente e non in virtù del proprio potere, con ciò stesso dichiara di non pretendere di più di quanto risulti che sia dovuto in base a quella legge. L’intentare causa non è pertanto contrario alla volontà del sovrano e, di conseguenza, il suddito ha la libertà di esigere l’esame della propria causa e una sen-tenza conforme a quella legge».

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JOHN LOCKE* Lo stato di natura

«E qui abbiamo la chiara differenza tra lo stato di natura e lo stato di guerra, che per quanto taluni abbiano confuso, sono così distanti l’uno dall’altro quanto lo sono fra loro uno stato di pace, benevolenza, assistenza e conservazione reciproca e uno sta-to di inimicizia, malvagità, violenza e reciproca distruzione. Quando gli uomini vivo-no insieme secondo ragione, senza un superiore comune sulla terra, con l’autorità di giudicarsi tra loro, si ha propriamente lo stato di natura. Ma la forza, o una dichiara-ta intenzione di usarla sulla persona altrui, quando non vi sia sulla terra un superio-re comune cui appellarsi per un aiuto, è lo stato di guerra [...] La mancanza di un giudice comune dotato di autorità pone tutti gli uomini in uno stato di natura; la for-za esercitata senza il diritto sopra la persona di un uomo instaura uno stato di guer-ra, vi sia o meno un giudice comune» (ST, § 19). «Se la cura e la conservazione della propria persona costituisse la fonte e il principio di questa legge nel suo complesso, la virtù non risulterebbe un dovere, quanto piut-tosto un interesse dell’uomo, per il quale non ci sarebbe nulla di onesto al di fuori di ciò che gli torna utile; l’osservanza di questa legge non sarebbe poi un nostro dovere e un nostro obbligo, a cui per natura siamo tenuti, quanto piuttosto un privilegio e un vantaggio, verso cui siamo attratti dalla nostra utilità» (ST, § 61). «Ma sebbene questo [lo stato di natura] sia uno stato di libertà, tuttavia non è uno stato di licenza. Sebbene in questo stato l’uomo abbia una libertà incondizionata di disporre della sua persona e dei suoi averi, tuttavia non ha la libertà di distruggere se stesso così come ogni altra creatura in suo possesso, tranne nel caso in cui lo ri-chieda un qualche motivo più nobile che la semplice conservazione. Lo stato di natu-ra è governato dalla legge di natura che è per tutti vincolante, e la ragione – che è quella legge stessa – insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che es-sendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi. Infatti, essendo tutti gli uomini opera di un solo Creatore Onnipotente e infinitamente saggio, tutti servitori di un solo supremo Si-gnore, inviati nel mondo per suo ordine e per i suoi intenti, essi sono proprietà di co-lui di cui sono opera, creati per durare fintanto che piaccia a lui e non ad altri» (ST, § 6). «Affinché tutti gli uomini possano essere frenati nella violazione dei diritti altrui e nel danneggiarsi l’un l’altro, affinché sia rispettata la legge di natura che vuole la pa-ce e la conservazione di tutto il genere umano, l’esecuzione della legge di natura in quello stato è affidata nelle mani di ciascuno, per cui ognuno ha il diritto di punire i trasgressori di quella legge in misura tale da impedirne la violazione. Ciò in quanto la legge di natura, come tutte le altre leggi che riguardano gli uomini in questo mon-do, sarebbe vana se non ci fosse qualcuno che nello stato di natura ha il potere di renderla esecutiva e così proteggere gli innocenti e reprimere i trasgressori» (ST, § 7).

* Il Secondo trattato sul governo, trad. di A. Gialluca, Rizzoli, Milano 1998.

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Libertà e legge «Il fine della legge non è di sopprimere o limitare la libertà, ma di conservarla e am-pliarla; infatti in tutte le condizioni in cui possono trovarsi gli esseri creati capaci di legge, dove non c’è legge non c’è libertà. Libertà significa infatti esseri liberi dal vin-colo e dalla violenza degli altri, ciò che non può darsi laddove non c’è legge» (ST, § 57). La società civile

«Dio, avendo fatto dell’uomo una creatura tale che, secondo il suo giudizio, non era bene stesse sola, lo rese soggetto a forti obblighi legati al bisogno, all’utilità e all’inclinazione, che lo spingevano ad entrare in società, e lo rese idoneo, dotandolo dell’intelletto e del linguaggio, a perpetuare tale società e a goderne» (ST, § 77). «Il diritto di far leggi con penalità di morte, e per conseguenza con ogni penalità mi-nore, per il regolamento e la conservazione della proprietà, e di impiegare la forza della comunità nell’esecuzione di tali leggi e nella difesa della società politica da of-fese straniere, e tutto questo unicamente per il pubblico bene» (ST, § 3). «Il grande e principale fine per cui dunque gli uomini si uniscono in Stati e si assog-gettano a un governo è la salvaguardia della loro proprietà» (§ 124) e cioè «per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni: cose che io denomino con il termine genera di proprietà» (ST, § 123). «Un uomo, infatti, non avendo potere sulla propria vita, non può né per contratto, né con il suo consenso, farsi schiavo di chicchessia, né sottomettersi al potere assoluto e arbitrario di un altro, che può togliergli la vita quando vuole. Nessuno può dare maggior potere di quanto ne possiede, e chi non può sopprimere la propria vita, non può dare ad altri il potere su di essa» (ST, § 12). L’appello al cielo

«Colui che si appella al cielo deve essere sicuro di avere il diritto dalla sua parte, nonché un diritto che valga la pena e il costo dell’appello, poiché dovrà rispondere a un tribunale che non può essere ingannato e che non mancherà di retribuire ciascu-no secondo i torti inflitti a sudditi suoi pari, cioè a una parte dell’umanità» (ST, § 176).

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BARUCH SPINOZA* «Gentilissimo signore, riguardo alla politica, la differenza tra me e Hobbes, della qua-le mi chiedete, consiste in questo, che io continuo a mantenere integro il diritto na-turale e affermo che al sommo potere in qualunque città non compete sopra i sudditi un diritto maggiore dell’autorità che esso ha sui sudditi stessi, come sempre avviene nello stato naturale» (Lettera L). «Mi sono fatto regola scrupolosa di non irridere né compiangere né deprecare le a-zioni umane, ma di comprenderle (non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelli-

gere): e dunque ho considerato gli affetti umani, come l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia, la presunzione, la compassione e tutti gli altri moti dell’animo non come vizi della natura umana, ma come proprietà che le appartengono così come alla natura dell’aria appartengono il caldo, il freddo, la tempesta, il tuono e altre simili cose» (TP, I.4). «Nella natura delle cose non c’è alcuna cosa singola della quale non ve ne sia un’altra più potente e più forte. Ma, data una cosa qualsiasi, ce n’è un’altra più potente e più forte da cui quella data può essere distrutta» (Etica, IV, assioma). «Per lo più gli uomini [sono] invidiosi e molesti gli uni agli altri. Cio nondimeno a stento possono trascorrere la vita in solitudine; cosicché la definizione dell’uomo come animale socievole ha trovato larghissimo consenso; e in realtà le cose stanno in modo che dalla comune società degli uomini nascano molti più vantaggi che danni […] gli uomini possono procurarsi molto più facilmente ciò di cui hanno bisogno con il reciproco aiuto, e non possono evitare i pericoli che incombono se non con l’unione delle forze; per non dire quanto sia più pregevole e degno della nostra co-noscenza occuparci dei fatti degli uomini che non di quelli dei bruti» (Etica. IV, prop. xxxv, Sc.). «È infatti accertato che la natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, e cioè che il diritto della natura si estende fin là dove si e-stende la sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza stessa di Dio, il quale ha pieno diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale dell’intera na-tura non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui, ne segue che ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, ossia che il diritto di cia-scuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza» (TTP, cap. XVI). «Poiché uno da solo invano tenterebbe di difendersi da tutti, di conseguenza il dirit-to umano naturale, finché è determinato dalla potenza di ciascuno e appartiene a ciascuno, è nullo, e poggia su un’opinione più che sulla realtà, poiché non vi è nessu-na sicurezza di mantenerlo». «Il potere, e dunque il diritto di ciascuno, sono tanto minori quanto maggiore è il motivo che egli ha di temere. Si aggiunga che è ben difficile per gli uomini sopravvi-vere e coltivare la mente senza aiuto reciproco; e perciò concludiamo che è ben diffi-cile concepire il diritto di natura proprio del genere umano se non là dove gli uomini

* Trattato teologico-politico, a cura di E. Giancotti Boscherini, Einaudi, Torino 1980 (TTP); Trattato politico, a cura di

P. Cristofolini, Ets, Pisa 1999 (TP); Etica, in Etica-TTP, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino, 1972; Epistola-

rio, a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1974; .

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hanno diritti comuni e possono coì rivendicare a sé collettivamente le terre da abita-re e coltivare, munirsi di mezzi per respingere ogni attacco, e vivere secondo il loro comune sentire» (TP, II.15). «È chiaro che il diritto dello stato, ossia del potere sovrano, non è altro se non il di-ritto stesso di natura, determinato dalla potenza non di un singolo, ma del popolo, come guidato da una sola mente; vale a dire che, come un singolo allo stato di natu-ra, così pure il corpo e la mente dell’intero stato hanno tanto diritto quanta è la po-tenza che possono far valere; e pertanto ciascuno, cittadino o suddito, ha tanto meno diritto quanto più la Civitas lo sovrasta con la sua potenza» (TP, III.2). «Il diritto di imporre incondizionatamente il proprio volere compete alle autorità sovrane tanto a lungo quanto a lungo dispongono del sommo potere effettivo: nel momento preciso in cui perdono tale potere, perdono anche il diritto di comando ed esso cade nelle mani di quel singolo o di quel gruppo che avrà saputo acquisirlo» (TTP, XVI). «Nel diritto della cittadinanza non rientrano quelle cose che suscitano l’indignazione generale» (TP, III.9). «Ma ci si chiede di solito se il potere sovrano sia vincolato da leggi e se, di conse-guenza, possa trasgredire. Ora, poiché i termini di legge e di trasgressione si riferi-scono abitualmente non soltanto ai diritti della cittadinanza, ma anche alle regole comuni a tutte le cose naturali, e in primo luogo alla ragione, non possiamo dire in assoluto che la cittadinanza non sia vincolata da legge alcuna, ossia che non possa trasgredire. La cittadinanza (Civitas), infatti, se non fosse vincolata ad alcuna di quelle leggi o regole senza le quali una cittadinanza non è più una cittadinanza, non sarebbe da considerarsi cosanaturale, ma chimera. La cittadinanza dunque trasgre-disce quando fa o sopporta che sian fatte cose che possono provocare la sua rovina, e allora diciamo che essa trasgredisce, nel senso che impiegano i filosofi o i medici quando parlano di peccati di natura: in tal senso possiamo dire che la cittadinanza trasgredisce quando fa qualcosa contro i dettami della ragione. La cittadinanza è in-fatti autonoma al massimo grado quando agisce in base ai dettami della ragione (per l’art. 7 del precedente capitolo); e dunque, quanto più agisce contro la ragione, tanto più viene meno a se stessa e dunque trasgredisce. E queste cose si potranno più chiaramente intendere considerando che, quando diciamo che uno può decidere quel che vuole su ciò che è sotto la sua giurisdizione, questo potere va definito in ba-se in base non solo alla potenza dell’agente, ma anche alla disposizione del paziente. Se infatti dico, per esempio, che è mio diritto fare quel che voglio di questa tavola, non intendo che ho il diritto di farle mangiare l’erba! Così, anche se diciamo che gli uomini sono sotto la giurisdizione della cittadinanza e non sotto la propria, non in-tendiamo che essi si spoglino della natura umana per indossarne un’altra; e dunque non intendiamo che la cittadinanza abbia il diritto di far sì che gli uomini volino op-pure, cosa altrettanto impossibile, che prendano in seria considerazione cose che muovano al riso o al disgusto; ma che si danno determinate circostanze poste le qua-li hanno luogo il rispetto e il timore dei sudditi verso la cittadinanza, e tolte le quali scompaiono il timore, il rispetto, e con essi la cittadinanza. La cittadinanza, dunque, per essere autonoma, è tenuta a conservare le condizioni del timore e del rispetto, altrimenti cessa di essere cittadinanza. In effetti, per chi governa lo stato non è meno impossibile, al tempo stesso, darsi ubriaco o nudo a scorribande con le prostitute,

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fare il commediante, violare e calpestare pubblicamente le leggi da lui stesso pro-mulgate, e intanto conservare la regalità, di quanto sia impossibile essere e non es-sere allo stesso tempo; gli eccidi di sudditi, le spoliazioni, i rapimenti di ragazze e simili misfatti, mutano il timore in indignazione, e volgono di conseguenza lo stato di civiltà in stato di ostilità» (TP, IV.4). «Non è in contrasto con la pratica l’istituire un diritto così stabile che nemmeno il re possa abrogarlo. […] ciò non è davvero in contrasto né con la ragione né con l’assoluta obbedienza che si deve al re; i princìpi fondamentali dello stato vanno considerati come eterni decreti del re, tanto che i suoi funzionari gli sono completa-mente obbedienti se, quando egli comanda qualcosa che va contro i princìpi fonda-mentali dello stato, rifiutano di eseguire l’ordine. Lo possiamo chiaramente spiegare con l’esempio di Ulisse. I compagni di Ulisse eseguivano i suoi ordini quando, mentre era legato all’albero della nave e rapito dal canto delle sirene, rifiutarono di slegarlo malgrado egli, con varie minacce, comandasse di farlo; e si riconosce che fu saggio, per avere poi ringraziato i compagni che avevano rispettato la sua prima intenzione. Anche i re seguono abitualmente l’esempio di Ulisse quando raccomandano ai giudi-ci di amministrare la giustizia senza riguardo ad alcuno, nemmeno al re, se in qual-che singolo caso questi desse ordini contrari al diritto normalmente stabilito. I re non sono dèi ma uomini, e spesso si lasciano rapire dal canto delle sirene. Se dunque tutto dipendesse dall’incostante volontà di uno solo, non ci sarebbe niente di stabile. E dunque perché lo stato monarchico sia saldo occorre stabilire che ogni cosa si fa unicamente per decreto regio, ovvero che ogni legge è esplicita volontà del re; ma non che ogni volontà del re sia legge» (TP, VII.1). «Se esiste uno stato che può essere eterno, sarà necessariamente quello le cui leggi, una volta correttamente istituite, rimangono inviolate, poiché le leggi sono l’anima dello stato: salve quelle, lo stato è necessariamente salvo. Ma le leggi non possono stare salde se non sono difese dalla ragione e dal comune affetto degli uomini: altri-menti, se possono contare soltanto sull’aiuto della ragione, sono fragili e si abbatto-no facilmente» (TP, X.9).

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JEAN-JACQUES ROUSSEAU* Il “Discorso sull’origine della disuguaglianza”

«Lasciando dunque tutti i libri scientifici, che non ci apprendono che a veder gli uo-mini quali si sono fatti, e meditando sulle prime e più semplici operazioni dell’anima umana, credo di scorgervi due principi anteriori alla ragione: uno dei quali ci inte-ressa ardentemente al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi, e l’altro ci ispira una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire ogni essere sensibile, e prin-cipalmente i nostri simili». «La maggior parte dei nostri mali sono opera nostra e noi li avremmo evitati quasi tutti, conservando la maniera di vivere semplice uniforme e solitaria che ci era pre-scritta dalla natura». «Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i piuoli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno!”». «L’uguaglianza infranta fu seguita dal più orribile disordine; così le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà na-turale e la voce ancor debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e mal-vagi. Si levò tra il diritto del più forte e il diritto del primo occupante un conflitto in-cessante, che non terminava che in combattimenti ed omicidi. La società nascente fece posto al più orribile stato di guerra» (O, 66). Il contratto sociale «Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comu-ne la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima (I, 6). «Il più forte non sarebbe mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, se non trasformasse la sua forza in diritto e l’obbedienza in dovere. Da ciò il diritto del più forte; diritto apparentemente considerato con ironia, e nella realtà stabilito come principio. Ma è possibile che questa parola non debba mai esserci chiara? La forza è una potenza fisica; non vedo quindi quale moralità possa risultare dai suoi effetti. Cedere alla forza è un atto di necessità, non di volontà; tutt’al più è un atto di pru-denza. In che senso potrà essere un dovere? [...] Che significato ha un diritto che vien meno quando manca la forza? Se bisogna obbedire per forza, non occorre obbedire per dovere, e se non si è più costretti ad obbedire non si è più obbligati. Si vede dun-que che questa parola diritto non aggiunge niente alla forza; non significa qui assolu-tamente nulla [...] Conveniamo dunque che la forza non costituisce il diritto, e che non si è obbligati ad obbedire se non ai poteri legittimi» (CS, I, 3). * Per il Discorso le citazioni sono tratte da J.-J. Rousseau, Opere, a cura di P. Rossi, Sansoni, Firenze 1989; per Il con-

tratto sociale, dall’edizione a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1994.

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«Prima dunque di esaminare l’atto con il quale un popolo elegge un re, sarebbe bene esaminare l’atto in virtù del quale un popolo è un popolo; infatti questo atto, essen-do necessariamente anteriore all’altro, è il vero fondamento della società» (CS, I, 5). [Le clausole del contratto] si riducono tutte a una sola: cioè l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Infatti, innanzi tutto, poi-ché ciascuno si dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti, ed essendo la condi-zione uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri (CS, I, 6). «Non bisogna intendere con questo termine [uguaglianza] che i gradi di potenza e di ricchezza siano assolutamente gli stessi; ma che, quanto alla potenza, essa non si traduca mai in violenza, e non si eserciti se non in virtù del grado e delle leggi; e, quanto alla ricchezza, che nessun cittadino sia tanto ricco da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi» (II, 11). «È precisamente perché la forza delle cose tende sempre a distruggere l’uguaglianza, che la forza della legislazione deve tendere sempre a mantenerla» (II, 11). «La volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica»: II, 3); «ciò che generalizza la volontà è non tanto il numero dei voti quanto l’interesse comune che li unisce» (II, 4). «Il popolo, soggetto alle leggi, ne deve essere l’autore; solo a coloro che si associano spetta di regolare le condizioni della società. Ma come le regoleranno? [...] Come po-trebbe una moltitudine cieca, che spesso non sa quello che vuole, perché raramente sa ciò che è bene per essa, realizzare da sé un’impresa così grande e così difficile quale un sistema di legislazione? Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma da sé non sempre lo vede. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato. Bisogna farle vedere le cose come sono, qualche volta come de-vono apparirle, indicarle la buona strada che essa cerca, proteggerla dalle seduzioni delle volontà particolari, avvicinare ai suoi occhi i luoghi e i tempi, bilanciare l’attrattiva dei vantaggi presenti e sensibili con il pericolo dei mali lontani e nascosti. I singoli vedono il bene che non vogliono: la collettività vuole il bene che non vede. Tutti hanno ugualmente bisogno di guida. Bisogna obbligare gli uni ad adeguare la loro volontà alla loro ragione; bisogna insegnare all’altra a conoscere quello che vuo-le. Allora dalla pubblica consapevolezza risulta la riunione dell’intelletto e della vo-lontà nel corpo sociale; da ciò l’esatto concorso delle parti, ed infine la maggior forza del tutto. Ecco da dove nasce la necessità di un legislatore» (II, 6).

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IMMANUEL KANT* L’illuminismo

«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se

stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un al-tro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da di-fetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo». Il contratto sociale

«Vi è dunque un contratto originario, che è l’unico sul quale si può fondare una costi-tuzione civile universalmente giuridica tra gli uomini e si può istituire una comunità. Ma questo contratto, come unione di tutte le volontà particolari e private di un po-polo in una volontà comune e pubblica (ai fini di una legislazione semplicemente giuridica), non è punto necessario presupporlo come un fatto (come tale non sareb-be neppure possibile), quasi che, perché noi ci considerassimo legati a una costitu-zione civile già stabilita, dovesse prima esser dimostrato dalla storia che un popolo (i cui diritti e le cui obbligazioni noi come discendenti avremmo ereditato) dovesse una volta aver compiuto realmente un tale atto e dovesse averne lasciato a noi la te-stimonianza scritta od orale. Questo contratto è invece una semplice idea della ra-

gione, ma che ha indubbiamente la sua realtà (pratica): cioè la sua realtà consiste nell’obbligare ogni legislatore a far leggi come se esse dovessero derivare dalla vo-lontà comune di tutto un popolo e nel considerare ogni suddito, in quanto vuol es-sere cittadino, come se egli avesse dato il suo consenso a una tale volontà. Questa in-fatti è la pietra di paragone della legittimità di una qualsiasi legge pubblica» (Sopra il

detto comune: “questo può esser giusto in teoria ma non vale per la pratica”, 1793).

Il postulato del diritto pubblico (Metafisica dei costumi, § 42). «Tu devi, in base al rapporto di coesistenza che si stabilisce inevitabilmente tra te e gli altri uomini, uscire dallo stato di natura per entrare in uno stato giuridico». La definizione del diritto «Il diritto è l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della libertà». Il cosmopolitismo «Il massimo problema per il genere umano, alla cui soluzione la natura lo costringe, è

il raggiungimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto. – Da-to che solo nella società, e precisamente in quella che possiede la massima libertà e

*Antologia di scritti politici, a cura di G. Sasso, Il Mulino, Bologna 1977.

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quindi un generale antagonismo dei suoi membri ma insieme la più rigorosa deter-minazione e assicurazione dei limiti di tale libertà, così che essa possa coesistere con la libertà degli altri: – dato che solo in tale società può essere raggiunto nell’umanità il supremo scopo della natura, cioè lo sviluppo di tutte le sue disposizioni, e dato che la natura vuole anche che l’umanità debba attuare da sé questo fine, come ogni fine della sua destinazione, allora il supremo compito affidato dalla natura al genere u-mano è una società in cui la libertà sotto leggi esterne sia congiunta al massimo pos-sibile grado con una forza irresistibile, vale a dire una costituzione civile perfetta-mente giusta, perché la natura può raggiungere i suoi ulteriori scopi solo per mezzo della soluzione e dell’esecuzione di tale compito. A costringere l’uomo, altrimenti così ben predisposto ad una libertà incontrollata, ad entrare in questo stato di coa-zione, è la pena; e precisamente la massima fra tutte le pene, quella che reciproca-mente si procurano gli uomini, le cui inclinazioni fanno sì che essi non possano stare a lungo l’uno accanto all’altro in selvaggia libertà» (Idea di una storia universale..., Quinta tesi).

La Pace perpetua

I sei articoli preliminari 1. «Nessun trattato di pace deve considerarsi tale, se è stato fatto con la tacita riser-va di pretesti per una guerra futura». 2. «Nessuno Stato indipendente (non importa se piccolo o grande) può venire acqui-stato da un altro per successione ereditaria, per via di scambio, compera o donazio-ne». 3. «Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire intera-mente. 4. «Non si devono contrarre debiti pubblici in vista di controversie tra Stati da svol-gere all’estero». 5. «Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato». 6. «Nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi atti di ostilità che rende-rebbero impossibile la reciproca fiducia nella pace futura: come, ad es., l’assoldare sicari (percussores) ed avvelenatori (venefici), la rottura della capitolazione, l’istigazione al tradimento (perduellio) nello Stato al quale si fa guerra, ecc.». I tre articoli definitivi I°: «La costituzione di ogni Stato dev’essere repubblicana». II°: «Il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati». III°: «Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità».

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DICHIARAZIONE DEI DIRITTI DELL'UOMO E DEL CITTADINO (1789) I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, conside-rando che l'ignoranza, la dimenticanza o il disprezzo dei diritti dell'uomo sono le so-le cause delle sventure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una Dichiarazione solenne, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell'uomo, affinchè questa Dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro continuamente i loro diritti e i loro doveri; affinchè gli atti del Potere legislativo e quelli del Potere esecutivo, potendo essere in ogni momento pa-ragonati con il fine di ogni istituzione politica, siano più rispettati; affinchè i reclami dei cittadini, fondati d'ora innanzi su principi semplici e incontestabili, si rivolgano sempre alla conservazione della Costituzione e alla felicità di tutti. In conseguenza, l'Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell'Essere Supremo, i Diritti seguenti dell' Uomo e del Cittadino. Articolo primo. - Gli uomini nascono e rimangono liberi ed uguali nei diritti. Le di-stinzioni sociali non possono essere fondate che sull'utilità comune. 2.- Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e im-prescrittibili dell'uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la

resistenza all'oppressione. 3.- Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un'autorità che da essa non emani espressamente. 4.- La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri; così l'esistenza dei diritti naturali di ciascun uomo non ha altri limiti che quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti non pos-sono essere determinati che dalla Legge. 5.- La Legge non ha diritto di vietare che le azioni nocive alla società. Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina. 6.- La Legge è l'espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere personalmente o per mezzo di loro rappresentanti alla sua formazione. Essa deve essere la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici, secondo la loro capacità e senz'altra distinzione che quella delle loro virtù e del loro ingegno. 7.- Nessuno può essere accusato, arrestato o detenuto che nei casi determinati dalla Legge, e secondo le forme ch'essa ha prescritte. Quelli che sollecitano, spediscono, eseguono o fanno eseguire ordini arbitrari devono essere puniti; ma ogni cittadino che sia chiamato o tratto in arresto in virtù della Legge deve ubbidire istantanea-mente: si rende colpevole con la resistenza. 8.- La Legge non deve stabilire che pene strettamente ed evidentemente necessarie, e nessuno può essere punito che in virtù di una legge stabilita e promulgata ante-riormente al delitto, e legalmente applicata. 9.- Poichè ogni uomo è presunto innocente fino a che non sia stato dichiarato colpe-vole, se si giudica indispensabile arrestarlo, ogni rigore che non sarà necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla Legge. 10.- Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purchè la loro manifestazione non turbi l'ordine pubblico stabilito dalla Legge. 11. - La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei più preziosi di-ritti degli uomini; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere e pubblicare libera-

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mente, salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Leg-ge. 12. - La garanzia dei diritti dell'uomo e del cittadino ha bisogno di una forza pubbli-ca; questa forza è dunque stabilita per il vantaggio di tutti, e non per l'utilità partico-lare di coloro ai quali è affidata. 13. - Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese di amministrazione, è indispensabile una contribuzione comune. Questa deve essere ugualmente ripartita tra tutti i cittadini, in ragione delle loro facoltà. 14. - Tutti i cittadini hanno il diritto di constatare da loro stessi, o per mezzo di loro rappresentanti, la necessità dei contributi pubblici, di consentirli liberamente, di se-guirne l'impiego e di determinarne la quantità, la ripartizione, la riscossione e la du-rata. 15. - La società ha diritto di domandare conto a ogni agente pubblico della sua am-ministrazione. 16. - La società, nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, nè la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione. 17. - Poiché la proprietà è un diritto inviolabile e sacro, pertanto nessuno può esser-ne privato, se non quando la pubblica necessità, legalmente constatata, lo esige evi-dentemente, e sotto la condizione d'una giusta e previa indennità.

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LA POLEMICA SULLA CODIFICAZIONE * A.F.J. THIBAUT, La necessità di un diritto civile generale per la Germania (1814) «La mia opinione è che il nostro diritto civile (con questa espressione s’intende qui sempre il diritto privato e penale e il processo) necessita di una rapida trasforma-zione totale, e che l’unico mezzo perché i Tedeschi vengano a godere di felici relazio-ni civili sia che tutti i governi tedeschi cerchino con sforzo congiunto di promuovere la stesura di un codice emanato per tutta la Germania, sottratto all’arbitrio dei singo-li governi. Due sono le condizioni che ogni legislazione può e deve soddisfare: essa dev’essere perfetta formalmente e materialmente; deve cioè esporre le sue disposizioni in mo-do chiaro, inequivocabile ed esauriente, e provvedere a un ordinamento saggio e a-deguato delle istituzioni civili, conforme alle esigenze dei sudditi». «Il diritto dei singoli stati è rimasto avvolto nelle tenebre più fitte, e il giovane prati-co ha dovuto sempre cercare di orientarvisi con le proprie forze: un’impresa sfortu-nata, che raramente è riuscita, dato che le leggi locali sono troppo sparpagliate e multiformi e che raramente in un paese ci sono anche solo dieci giuristi pratici che abbiano la fortuna di poter mettere insieme una raccolta completa di quelle leggi». «Un semplice codice nazionale, elaborato con forza tedesca nello spirito tedesco, sa-rà accessibile in tutte le sue parti ad ogni intelletto anche mediocre, e metterà final-mente in grado i nostri avvocati e giudici di aver vivo e presente il diritto per ogni singolo caso». «Tra le obiezioni che ci si può attendere dalle persone oneste la più evidente sareb-be forse questa: il diritto dev’essere adeguato allo spirito specifico del popolo, ai tempi, ai luoghi e alle circostanze, ragion per cui un ordine civile generale per tutti i Tedeschi costituirebbe una coercizione dannosa e innaturale. Certo sarebbe una o-biezione che potrebbe trovare parecchi sostenitori. Quante volte non abbiamo senti-to dire, da Montesquieu in poi, che il diritto va opportunamente modificato a secon-da delle circostanze, del suolo, del clima, del carattere della nazione, nonché di mille altre cose? Con queste prudenti considerazioni si è giunti addirittura al punto di di-chiarare al fondo giusta, o almeno non proprio ingiusta, qualsiasi cosa salti in mente, poiché succede che anche le follie abbiano qua e là i loro sostenitori. Tuttavia, mi si perdoni la durezza dell’espressione, in simili opinioni trovo quasi solo assurdità e mancanza di vero senso della giustizia. Si tratta nella sostanza di semplice confusio-ne tra le conseguenze abituali di un fenomeno e quello che può e dovrebbe succede-re secondo ragione. Se l’uomo segue i suoi capricci, le sue limitate vedute e il suo primo impulso, come spesso succede, e se alla fine ne derivano princìpi e istituzioni, il risultato è certo facile da spiegare ma non per questo è giustificato […] Il diritto e-

* A.F.J. Thibaut – C.F. Savigny, La polemica sulla codificazione, a cura di G. Marini, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli

1992.

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sterno deve mirare a unire gli uomini e a non consolidarli nelle loro fiacche abitudini né lusingarli nei loro lati deteriori, bensì a far sì che si ravvedano pienamente e si strappino alla palude miseranda dell’egoismo e della meschinità». F.C. VON SAVIGNY, La vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurispru-

denza (1814) «Quelle proposte [di codificazione] sono legate a una concezione generale dell’origine di ogni diritto positivo che è sempre stata predominante presso la gran maggioranza dei giuristi tedeschi. Secondo tale concezione in condizioni normali fonte di ogni diritto sono le leggi, cioè norme esplicitamente emanate dalla potestà suprema dello stato. La scienza giuridica ha per oggetto esclusivamente il contenuto delle leggi. Pertanto la legislazione stessa, così come la scienza giuridica, ha un con-tenuto del tutto accidentale e variabile, ed è possibilissimo che il diritto di domani sia del tutto dissimile da quello di oggi. Ne consegue la necessità estrema di un codi-ce completo». «Dovunque noi troviamo storia documentata il diritto civile ha già un carattere de-terminato, peculiare per quel popolo così come lo sono la lingua, i costumi, la costi-tuzione. Tutte queste manifestazioni non hanno in effetti un’esistenza separata, ma sono singole energie e attività di un unico popolo, nella loro natura indissolubilmen-te connesse, che solo alla nostra osservazione si presentano come elementi disso-ciati. Ciò che le collega in un tutto unico è il comune convincimento del popolo, l’u-guale sentimento di una necessità interiore che esclude ogni idea di un’origine ac-cidentale e arbitraria». «Come per la lingua, anche per il diritto non esiste un momento di stasi assoluta, es-so è soggetto allo stesso movimento e alla stessa evoluzione di ogni altra funzione del popolo e questa evoluzione obbedisce anch’essa alla stessa legge di necessità in-terna che governa il fenomeno antichissimo della lingua. Il diritto si sviluppa dunque insieme al popolo, si perfeziona con esso e infine si estingue man mano che il popolo perde la sua peculiarità».

«La sostanza di questa concezione è che ogni diritto ha la sua origine in quello che l’uso corrente con qualche inesattezza chiama diritto consuetudinario, vale a dire che il diritto è creato prima dai costumi e dalle credenze popolari e poi dalla giuri-sprudenza, che è sempre opera dunque di forze interiori che agiscono silenziosa-mente, e non dell’arbitrio di un legislatore». «Un’impresa del genere non può essere che vana, poiché la proliferazione di varianti di casi reali è semplicemente infinita». «Il nostro obiettivo è lo stesso: vogliamo il fondamento di un diritto sicuro, sicuro dall’ingerenza dell’arbitrio e delle idee ingiuste; così pure vogliamo comunanza della nazione e concentrazione delle sue attività scientifiche sullo stesso oggetto. Per rag-giungere tale obiettivo, loro chiedono un codice, il quale arrecherebbe però l’unità auspicata solo a metà della Germania, e isolerebbe invece l’altra metà più nettamen-te di prima. Io vedo il mezzo giusto in una scienza giuridica in progresso organico, che possa essere comune a tutta la nazione.

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Anche nel giudicare la situazione attuale siamo d’accordo, giacché la riconosciamo tutti e due insufficiente. Loro tuttavia vedono la radice le male nelle fonti del diritto, e credono di rimediare con un codice: io la vedo piuttosto in noi stessi, e credo che proprio per questo noi non abbiamo vocazione alla compilazione di un codice».

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GEORG W.F. HEGEL * Sulla codificazione

«L’obbligatorietà di fronte alla legge include dalla parte del diritto dell’autocoscienza la necessità che le leggi siano rese universalmente note. Appender le leggi così in alto, che nessun cittadino potesse leggerle, come fece Dioni-

sio il Tiranno, – ovvero seppellirle nel prolisso apparato di libri dotti, raccolte di opi-nioni e giudizi discostantisi da decisioni, consuetudini, ecc. e per giunta in una lingua straniera, così che la cognizione del diritto vigente è accessibile soltanto a coloro che si addottrinano in esso, – è una e medesima ingiustizia. I governanti che hanno dato ai loro popoli, quand’anche soltanto una raccolta informe, come Giustiniano, ma an-cor più un diritto nazionale, come codice ordinato e determinato, sono non soltanto divenuti i più grandi benefattori dei medesimi e per ciò sono stati da essi esaltati con gratitudine, bensì essi hanno con ciò esercitato un grande atto di giustizia» (§ 215). «Negare a una nazione civile o al ceto giuridico della medesima la capacità di fare un codice – giacché non può trattarsi di fare un sistema di leggi nuove quanto al loro contenuto, bensì di conoscer nella sua universalità determinata il contenuto legale sussistente, cioè coglierlo pensando – con l’aggiunta dell’applicazione al particolare – sarebbe uno dei più grandi affronti che potrebbe esser fatto a una nazione o a quel ceto» (§ 211). Critica del contrattualismo

«Sotto il concetto del contratto [non può esser sussunta] la natura dello stato, sia che lo stato venga preso come un contratto di tutti con tutti o come un contratto di que-sti tutti con il principe e il governo. – L’intrusione di questo rapporto contrattuale, così come dei rapporti della proprietà privata in genere, nel rapporto statuale, ha prodotto le più grandi confusioni nel diritto statuale e nella realtà. Come in periodi antichi i diritti dello stato e obblighi dello stato sono stati riguardati e affermati in un’immediata proprietà privata di particolari individui contro il diritto del principe e dello stato, così in un periodo recente i diritti del principe e dello stato sono stati considerati come oggetto di contratto, come un che di meramente comune della vo-lontà e di venuto fuori dall’arbitrio di coloro che si sono uniti in uno stato. – Quanto son diversi per un lato quei due punti di vista, tanto essi han questo di comune, di aver trasferito le determinazioni della proprietà privata in una sfera che è di tutt’altra e più alta natura» (§ 75). «Se lo stato vien confuso con la società civile e la destinazione di esso vien posta nel-la sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse degli individui come tali è lo scopo ultimo per il quale essi sono uniti, e ne segue parimenti che esser membro dello stato è qualcosa che dipende dal proprio piacimento. – Ma lo stato ha un rapporto del tutto diverso con l’individuo; giacché lo stato è spirito oggettivo, l’individuo stesso ha oggettività, verità ed eticità soltanto in quanto è membro del medesimo. L’unione come tale è essa stessa il verace contenuto e fine, e la destinazione degli individui è di condurre una vita universale; l’ulteriore loro particolare appagamento, attività, modo del comportamento ha per suo punto di partenza e risultato questo elemento sostanziale e universalmente valido» (§ 258).

* Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1999.

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JEREMY BENTHAM* «Non c’è niente di simile a diritti naturali, niente di simile a diritti precedenti alla fondazione della società politica; niente di simile a diritti naturali distinti da quelli legali e ad essi opposti. L’espressione, insomma, è puramente figurata […] Parlare di diritti naturali è semplice insensatezza; parlare di diritti naturali e imprescrittibili è un’insensatezza retorica, insensatezza al quadrato […] Qual è, su questo tema, il lin-guaggio della ragione e del semplice buon senso? Che nella misura in cui è giusto od opportuno, cioè vantaggioso per la società in questione, che questo o quel diritto – un diritto in questo o quel senso – venga stabilito e conservato, è male abrogarlo; ma che, come non c’è diritto che non debba essere conservato fin tanto che la sua esi-stenza sia nel complesso vantaggiosa per la società, così non c’è diritto che non deb-ba essere abrogato quando la sua abrogazione sia vantaggiosa per la società» (LS). «La natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il do-

lore e il piacere. Spetta ad essi soltanto indicare quel che dovremmo fare, come an-che determinare quel che faremo. Da un lato il criterio di ciò che è giusto o ingiusto, dall’altro la catena della cause e degli effetti sono legati al loro trono. Dolore e piace-re ci dominano in tutto quel che facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo: qualsiasi sforzo possiamo fare per liberarci da tale soggezione non servi-rà ad altro che a dimostrarla e a confermarla» (IPML, I.1). «È vano parlare dell’interesse della comunità senza comprendere quale sia l’in-teresse dell’individuo. Si dice che una cosa promuove un interesse, o che è a favore dell’interesse di un individuo, quando va ad aggiungersi alla somma totale dei suoi piaceri, o, che è la stessa cosa, a ridurre la somma totale dei suoi dolori. Quindi un’azione si può definire conforme al principio di utilità […] quando la sua tendenza ad aumentare la felicità della comunità è maggiore di ogni sua tendenza a diminuir-la» (IPML, I.5-6).

* Il libro dei sofismi, a cura di L. Formigari, Editori Riuniti, Roma 1993 (LS); Introduzione ai principi della morale e

della legislazione, a cura di E. Lecaldano, Utet, Torino 1998 (IPML).

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JOHN AUSTIN* «Se qualcuno formula o dichiara la volontà che io faccia o mi astenga dal fare deter-minate azioni, e se mi punirà con un male nel caso io non ottemperi alla sua volontà, l’espressione o manifestazione della sua volontà è un comando. Un comando si distin-gue da altre espressioni di desiderio non per la forma nella quale il desiderio viene manifestato, ma per il potere ed il proposito, da parte di chi comanda, di infliggere un male o una sofferenza nel caso che il desiderio non venga soddisfatto». «Essendo soggetto a un male se non ottempero alla volontà espressa da qualcuno, io sono vincolato o obbligato dall’altrui comando, mi trovo nel dovere di obbedirgli […] Comando e dovere, quindi, sono termini correlativi: il significato dell’uno è implicito o presupposto nell’altro. Detto in altro modo: ovunque vi è un dovere, è stato formu-lato un comando; e ogni volta che è formulato un comando, viene imposto un dove-re». «Ogni legge positiva, o ogni legge così chiamata senza ulteriori specificazioni e in senso proprio, viene posta, direttamente o indirettamente, da un individuo o da un gruppo sovrano, a uno o più membri della società politica indipendente in cui costo-ro sono sovrani o supremi […] Ora, deriva da questa caratteristica differenziale della legge positiva, e dalla natura della sovranità e della società politica indipendente, che il potere di un monarca così chiamato propriamente, o quello di una collettività sovrana in quanto collettività e in quanto sovrana, non è passibile di limitazione giu-

ridica. Un monarca o un’assemblea sovrana vincolati da un dovere giuridico sareb-bero soggetti a un sovrano più alto o superiore […]; in altri termini, sarebbero so-vrani e non sovrani a un tempo. Un potere supremo limitato dal diritto positivo è una evidente contraddizione in termini […] I monarchi e le assemblee sovrane hanno tentato di obbligare se stessi, o di obbliga-re quanti succedono loro nei poteri sovrani. Ma, a dispetto delle leggi che i sovrani si sono autoimposti o che hanno imposto ai loro successori, il principio secondo il qua-le “il potere sovrano non è passibile di limitazione giuridica” vale universalmente e senza eccezione […] Le leggi che i sovrani fanno mostra di imporre a se stessi o ai loro successori sono esclusivamente principi o massime che essi adottano come guida, o che essi racco-mandano di seguire a chi succederà loro nel potere sovrano. Che un sovrano o uno stato si scostino da una legge del genere non è illegale: se una legge da esso imposta ai propri sudditi entra in conflitto con una legge del genere, infatti, è la prima ad es-sere giuridicamente valida od obbligatoria […] Rispetto a un monarca così chiamato propriamente, o rispetto a una collettività so-vrana in quanto collettività e in quanto sovrana, il diritto costituzionale è meramen-te moralità positiva, o è sostenuto da sanzioni meramente morali».

* Delimitazione del campo della giurisprudenza, a cura di M. Barberis, Il Mulino, Bologna 1995.

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J. HERMANN VON KIRCHMANN* «La giurisprudenza, come ogni altra scienza, ha da fare con un oggetto che esiste in sé autonomo, libero ed indipendente, esiste e non esista la scienza, lo comprenda o non lo comprenda. Questo oggetto è il diritto, così come esso vive nel popolo e viene attuato da ciascuno nella propria cerchia; si potrebbe chiamarlo il diritto naturale. La medesima situazione si verifica per tutte le altre scienza; così la natura è l’oggetto delle scienze della natura; il fiore fiorisce, l’animale vive, senza darsi pena che la fi-siologia conosca o no la natura e le forze loro proprie […] Questa autonomia del diritto di fronte alla sua scienza è una proposizione di grande peso; si è spesso voluto porla in dubbio o limitarla, ma bastano delle semplici consi-derazioni per mostrare la sua non dubbia esattezza. Un popolo può bene esistere senza giurisprudenza, ma non senza diritto». «Altrimenti stanno le cose riguardo alle leggi positive del diritto. Cinte di violenza e di pene, esse incombono, vere o false che siano, al loro oggetto; il diritto naturale de-ve rinunciare alla propria verità e piegarsi ad esse. Mentre in tutti gli altri campi il conoscere lascia intatto l’essere, ritraendosi rispettosamente davanti a quest’ultimo, nel campo del diritto si ottiene il contrario per mezzo della legge positiva. Il cono-scere, anche quello falso e difettoso, sopraffà l’essere». «Gli svantaggi della legislazione positiva per il diritto naturale sono a tutti noti. Ogni legge positiva è condizionata dal grado di conoscenza del diritto naturale […) nella legislazione positiva è contenuto, accanto al vero, anche buona parte di non ve-ro […]. La legge positiva è ferma; il diritto progredisce […] La legge positiva è astratta […] Il diritto positivo è nelle sue estreme determinazioni puro arbitrio La legge positiva è infine il prono strumento, l’arma in ogni tempo pronta, non meno per la saggezza dei legislatori che per le passioni dei despoti». «La legge positiva ha trasformato i giuristi in vermi; che si nutrono soltanto di legno putrido; allontanandosi da tutto ciò che è sano, essi si annidano soltanto nel marcio e vi tessono le loro tele. In quanto la scienza del diritto assume come proprio oggetto il contingente, diventa contingente essa stessa; tre parole di rettifica del legislatore, ed intere biblioteche diventano carta straccia […] Soltanto nella misura in cui si occupano della natura della cosa, del diritto naturale, quelle trattazioni hanno un valore duraturo».

* La mancanza di valore della giurisprudenza come scienza, in J.H. von Kirchmann – E. Wolf, Il valore scientifico della

giurisprudenza, a cura di G. Perticone, Giuffrè, Milano 1964.

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R. VON JHERING * « Il fine del diritto è la pace, il mezzo per raggiungere questo è la lotta. Fino a quando il diritto dovrà tenersi pronto all’attacco da parte del torto – e così sarà fin quando esisterà il mondo – non gli sarà risparmiata la lotta. La vita del diritto è lotta, una lot-ta dei popoli, del potere statale, degli individui». «Il diritto non è un concetto logico, ma un concetto di forza. Pertanto la giustizia, che tiene con una mano il piatto della bilancia, con cui pesa il diritto, porta nell’altra ma-no la spada, per affermarlo. La spada senza la bilancia è la cruda violenza, la bilancia senza la spada è l’impotenza del diritto. Ambedue vanno insieme, e una condizione di diritto più completa governa solo là dove la forza, con cui la giustizia porta la spa-da, va di pari passo con l’abilità, con cui essa maneggia la bilancia». «[Secondo la teoria di Puchta e Savigny] la formazione del diritto procede del tutto impercettibilmente e senza dolori come quella della lingua, esso non ha bisogno di alcun combattimento, di alcuna lotta, e nemmeno di tentativi, ma è la forza della ve-rità che agisce silenzionsamente, che si apre la strada senza sforzi violenti lentamen-te, ma con sicurezza, è la potenza della persuasione, cui gli animi poco a poco si schiudono, e a cui danno espressione attraverso il loro operare […] Non si puònon riconoscere che anche il diritto conosce uno sviluppo impercettibile e inconsapevo-le, chiamiamolo con l’espressione tradizionale: uno sviluppo organico dall’interno […] Ma [in tal modo si può] regolare il movimento all’interno della strada già esi-stente, [si] può andare avanti per quella strada, ma non [si possono] rompere le di-ghe, che impediscono al fiume di imboccare una nuova direzione. Solo la legge può far ciò, cioè l’azione intenzionata e a tale scopo rivolta del potere statale, e non è per-tanto un caso, bensì una necessità profondamente radicata nell’essenza del diritto, che tutte le riforme penetranti del processo e del diritto materiale rinviino a leggi». «La resistenza contro un torto infame, che sfida la persona stessa, vale a dire la resi-stenza contro una violazione del diritto che, per il modo in cui viene intrapresa, por-ta in sé il carattere di un disprezzo del diritto medesimo, di un’offesa personale, è un dovere. Tale resistenza è un dovere del soggetto del diritto verso se stesso: poiché è un comandamento dell’autoconservazione morale; è un dovere verso la comunità, poiché è necessaria affinché il diritto si realizzi». «Non bisogna accusare il torto quando spodesta il diritto, bensì il diritto che si lascia far ciò, e se dovessi valutare, in base alla loro importanza pratica, i due princìpi ‘non fare alcun torto’ e ‘non sopportare alcun torto’, allora direi che la prima regola è: non sopportare alcun torto, e la seconda non farne alcuno. Poiché, così com’è fatto l’uomo, la consapevolezza d’incontrare una dura e decisa resistenza da parte del soggetto del diritto lo tratterrà dal commettere il torto più di un comandamento, che, in fondo, se immaginiamo caduto quell’impedimento, possiede solo la forza di un semplice comandamento morale»

* La lotta per il diritto e altri saggi, a cura di R. Racinaro, Giuffrè, Milano 1989.

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HANS KELSEN * La teoria pura del diritto e la natura della norma giuridica

«Chiamando tale dottrina “teoria pura del diritto”, si intende dire che essa è tenuta libera da tutti gli elementi estranei al metodo specifico di una scienza, il cui unico scopo è la conoscenza del diritto, e non la sua formazione. Una scienza deve descri-vere il proprio oggetto quale esso è effettivamente, e non prescrivere come esso do-vrebbe o non dovrebbe essere , in base ad alcuni giudizi specifici di valore». «[L’autonomia del diritto di fronte alla legge morale è assicurata] facendo in modo che la norma giuridica, contrariamente alla dottrina tradizionale, venga intesa non come imperativo al pari della norma morale, ma bensì come giudizio ipotetico che esprime il rapporto specifico di un fatto condizionante con una conseguenza condi-zionata» (L). «Come la legge naturale connette un determinato fatto come causa a un altro come effetto, così la legge giuridica connette la condizione con la conseguenza del diritto. Nell’un caso la forma della connessione dei fatti è la causalità, nell’altro è l’imputa-zione in cui la dottrina pura del diritto ravvisa la speciale struttura del diritto […] Il rapporto tra la pena e il delitto, tra l’esecuzione e l’illecito civile non ha un significato causale, ma bensì un significato normativo L’espressione di questo rapporto desi-gnato come “imputazione” non è altro che il dover essere (das Sollen) con cui la dot-trina pura del diritto rappresenta il diritto positivo; così come la necessità (das Müs-

sen) è l’espressione della legge di causalità» (L). «La legge naturale dice: Se c’è A deve necessariamente (muss) esserci B; la legge giu-ridica dice: Se c’è A deve (soll) esserci B, senza che, con ciò, essa dica nulla del valore, cioè del valore morale o politico di questo rapporto. In tal modo il dovere continua a sussistere come categoria relativamente a priori per la comprensione del materiale giuridico empirico» (L). «Questa categoria del diritto ha un carattere puramente formale […] essa rimane applicabile qualunque sia il contenuto dei fatti così collegati e qualunque sia la spe-cie degli atti da concepirsi come diritto». «È impossibile dedurre dalla natura norme regolatrici della condotta umana. Le norme sono espressione di una volontà, e la natura non ha volontà» (TPB). Il diritto come ordinamento coercitivo

«Il diritto è un ordinamento del comportamento umano. Un “ordinamento” è un si-stema di regole. Il diritto non è una regola, come talvolta si dice. Esso è un complesso di regole aventi quel genere di unità che concepiamo come un sistema […] Ogni rego-

* Teoria generale del diritto e dello stato, Etas, Milano 1966 (TGDS); Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi,

Torino (L); Teoria politica del bolscevismo e altri saggi di teoria del diritto e dello stato, a cura di R. Guastini, Il Saggia-tore, Milano 1981 (TPB).

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la di diritto obbliga degli esseri umani ad osservare un dato comportamento in date circostanze» (TGDS). Il diritto è quella «tecnica sociale che consiste nell’ottenere la desiderata condotta sociale degli uomini mediante la minaccia di una misura di coercizione da applicarsi in caso di condotta contraria» (TGDS). «La reazione del diritto consiste in una misura di coercizione emanata dall’ordina-mento e organizzata socialmente» (TGDS). «Non è esatto l’assunto abituale che un dato genere di comportamento umano impli-ca una sanzione giuridica perché è un illecito. Esso è un illecito perché implica una sanzione. Dal punto di vista di una teoria il cui unico oggetto è il diritto positivo, non vi è altro criterio dell’illecito, all’infuori del fatto che tale comportamento è la condi-zione della sanzione. Non vi è alcun illecito in sé […] non vi sono mala in se, ma solo mala prohibita, poiché un comportamento è un malum soltanto se è prohibitum» (TGDS). La validità delle norme giuridiche

«Il fondamento della validità di una norma non è la sua conformità alla realtà, come avviene per la prova della verità di una proposizione sull’ “essere”. Una norma non è valida perché è efficace. Il problema del perché qualcosa debba accadere non può mai venir risolto asserendo che qualcosa accade, ma soltanto asserendo che qualco-sa deve accadere» (TGDS). «Il fondamento della validità di una norma è sempre una norma, non un fatto. La ri-cerca di tale fondamento riporta non già ad una realtà, ma ad un’altra norma dalla quale la prima è derivabile» (TGDS). «Ogni norma perde la sua validità quando l’ordinamento giuridico totale al quale es-sa appartiene perde, nel suo complesso, la sua efficacia. L’efficacia dell’intero ordi-namento giuridico è una condizione necessaria per la validità di ogni norma dell’ordinamento. È una conditio sine qua non , ma non una conditio per quam. L’efficacia dell’ordinamento totale è condizione, non fondamento della validità delle norme che lo compongono. Queste sono valide non perché l’ordinamento totale è ef-ficace, bensì per sono state create in un modo costituzionale» (TGDS). «Noi riteniamo norma “fondamentale” una norma la cui validità non può essere de-rivata da una norma superiore. Tutte le norme la cui validità può essere ricondotta ad un’unica norma fondamentale costituiscono un sistema di norme o un ordina-mento» (TGDS). «La norma fondamentale di un ordinamento giuridico prescrive che ci si debba comportare come comandano i “padri” della costituzione e gli individui autorizzati (delegati), direttamente o indirettamente, dalla costituzione» (TGDS).

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Lo Stato

«I rapporti umani che, nella loro totalità, sono chiamati “una comunità”, sono sem-pre determinati da un ordinamento, il quale disciplina il mutuo comportamento de-gli individui in questione. Questo ordinamento sociale costituisce la comunità» (TPB). «Il fatto che diversi individui abbiano un interesse comune, come il fatto che abbiano in comune i capelli scuri, non costituisce una comunità. Gli individui formano una comunità, soltanto se esistono tra loro delle specifiche relazioni; ed esiste una co-munità giuridica, se tali relazioni sono determinate dal diritto. In un ampio studio su questo problema, ho mostrato che le relazioni interindividuali che costituiscono la comunità chiamata “Stato” sono relazioni giuridiche. È impossibile ridurre ad unità la pluralità di individui che chiamiamo “Stato”, con un criterio che prescinda dall’ordinamento sociale che chiamiamo “diritto dello Stato”» (TPB). La giustizia

«Non vi è, e non può esservi, un criterio oggettivo di giustizia, perché l’affermazione, secondo cui qualcosa è giusto o ingiusto, è un giudizio di valore, che si riferisce a un fine ultimo. E i giudizi di valore hanno, per loro natura, carattere soggettivo, in quanto sono basati sugli elementi emotivi della nostra mente, sui nostri sentimenti e desideri» (TPB). «Non è possibile alcuna verificazione dei loro rispettivi giudizi di valore. E, poiché gli uomini differiscono molto nei loro sentimenti, le loro idee di giustizia sono molto differenti» (TPB). «Se si potesse conoscere l’ordinamento assolutamente giusto, la cui esistenza è af-fermata dalla dottrina giusnaturalistica, il diritto positivo sarebbe superfluo, anzi senza senso» (TGDS). «È giusto che una norma generale venga effettivamente applicata in tutti i casi in cui, secondo il suo contenuto, questa norma deve venir applicata. È “ingiusto” che essa venga applicata in un caso e non in un altro caso simile […] La giustizia nel senso del-la legalità è una qualità che non si riferisce al contenuto di un ordinamento giuridico positivo, bensì alla sua applicazione. In questo senso, la giustizia è compatibile e ri-chiesta da qualsiasi ordinamento giuridico positivo […] Essa è giustizia “secondo il diritto” […] Solo nel senso di legalità il concetto di giustizia può rientrare in una scienza del diritto» (TGDS). «L’effetto reale dell’identificazione terminologica di diritto e giustizia è un’illecita giustificazione di qualunque diritto positivo» (TPB).

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SEZIONE ICONOGRAFICA

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Un’immagine tradizionale della giustizia, tratta dal frontespizio dell’opera di Ugo Grozio, De jure belli ac pacis (1625)

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Un’immagine della giustizia come carità (Tribunale di Milano)

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Particolare tratto dal frontespizio del Leviatano di Hobbes (1651)

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Il Panopticon di Bentham