Riassunto Di Filosofia Del Diritto Ross

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Prof. Santoro 15 febbraio 2010 Non tutto il diritto è legge, e non tutte le leggi sono diritto. Ci sono leggi che in effetti non obbligano. Di solito si parte dall’idea che le norme obbligano. Nel 700 c’era chi diceva che le leggi obbligano perché la legge proviene da una volontà divina. Si dà dunque per scontato che la leggi obblighi, ma per la filosofia del diritto non è del tutto scontato. Infatti, normalmente il giurista, il giurista nel senso creativo, non solo l’avvocato, il giudice, etc, ma anche un operatore giuridico, come il funzionario della PA che si trova di fronte ad una norma, da per scontato che la norma debba essere applicata e non si pone il problema, del perché debbono essere obbedite o applicate. Ma il problema va posto, eccome. Anche perché le norme acquistano un significato diverso rispetto al contesto. Classicamente le norme sono state classificate vincolanti quando dietro c’era un potere divino . Questo dava due garanzie: 1) punto di giustezza delle norme, perché nella ns testa c’è l’idea che la norma per essere vincolante debba essere giusta (facciamo infatti fatica ad accettare una norma che riteniamo essere ingiusta) e il fatto che venga da Dio è sinonimo di giustezza . 2) l’effettività della sanzione che colpisce se non rispetto la norma. Mentre alla polizia e ai giudici ci si può sottrarre, a Dio no. Questo è il motivo per cui per anni, diritto-religione-morale non si distinguono. Hanno quantomeno una grossa area in comune e tendenzialmente sono coincidenti. Questa idea va dai tempi della preistoria fino al 1600. Nel 1600 si comincia a laicizzare il diritto e non è un caso che questo avvenga in Europa, poiché questa è una conseguenza di qualcosa che tendenzialmente non è esistito fino ad allora, ovvero la convivenza pacifica di persone che credono in miti diversi. Questo problema del fondamento divino delle norme si pone quando le stesse norme devono essere seguite da persone che credono nell’equità. C’era un precedente, che è dato dal diritto romano, ma è un precedente risolto 1

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Prof. Santoro 15 febbraio 2010

Non tutto il diritto è legge, e non tutte le leggi sono diritto. Ci sono leggi che in effetti non obbligano. Di solito si parte dall’idea che le norme obbligano. Nel 700 c’era chi diceva che le leggi obbligano perché la legge proviene da una volontà divina. Si dà dunque per scontato che la leggi obblighi, ma per la filosofia del diritto non è del tutto scontato. Infatti, normalmente il giurista, il giurista nel senso creativo, non solo l’avvocato, il giudice, etc, ma anche un operatore giuridico, come il funzionario della PA che si trova di fronte ad una norma, da per scontato che la norma debba essere applicata e non si pone il problema, del perché debbono essere obbedite o applicate. Ma il problema va posto, eccome. Anche perché le norme acquistano un significato diverso rispetto al contesto. Classicamente le norme sono state classificate vincolanti quando dietro c’era un potere divino. Questo dava due garanzie: 1) punto di giustezza delle norme, perché nella ns testa c’è l’idea che la norma per essere vincolante debba essere giusta (facciamo infatti fatica ad accettare una norma che riteniamo essere ingiusta) e il fatto che venga da Dio è sinonimo di giustezza. 2) l’effettività della sanzione che colpisce se non rispetto la norma. Mentre alla polizia e ai giudici ci si può sottrarre, a Dio no.

Questo è il motivo per cui per anni, diritto-religione-morale non si distinguono. Hanno quantomeno una grossa area in comune e tendenzialmente sono coincidenti. Questa idea va dai tempi della preistoria fino al 1600. Nel 1600 si comincia a laicizzare il diritto e non è un caso che questo avvenga in Europa, poiché questa è una conseguenza di qualcosa che tendenzialmente non è esistito fino ad allora, ovvero la convivenza pacifica di persone che credono in miti diversi. Questo problema del fondamento divino delle norme si pone quando le stesse norme devono essere seguite da persone che credono nell’equità. C’era un precedente, che è dato dal diritto romano, ma è un precedente risolto sostanzialmente in maniera sincretistica, cioè da un lato i romani tentano ad aumentare i loro dei contro i Dei dei popoli conquistati e d’altra parte c’è un pluralismo giuridico perché sulle popolazioni conquistate i romani vi lasciavano il diritto del luogo e non vi portavano il loro. Mentre dopo lo scisma della Chiesa Cristiana e dopo l’affermazione in Europa del protestantesimo, quindi Lutero (1517), in Europa noi abbiamo una pluralità di persone che in alcuni stati credono in religioni diverse ma con un medesimo sistema normativo. Nel medio evo il popolo doveva avere la stessa religione del re. Questa cosa non funziona molto e quindi nasce una sorta di laicizzazione degli stati. A Dio si sostituisce la ragione. Giusnaturalismo valido. In cui le norme sono giuste e obbligano in quanto razionali. E abbiamo l’enunciazione di alcuni principi come il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà come dei diritti che fanno parte del diritto razionale. Quindi, all’idea della volontà divina si sostituisce quello della razionalità, all’idea di un Dio che punisce colui che non rispetta la sua volontà, si sostituisce l’idea che io ho un interesse a rispettare la norma, perché quella norma mi garantisce i diritti fondamentali (vita, libertà e proprietà), in quanto razionale e giusta. Nascono queste definizioni di diritto rese famose da filosofi come Kant, in cui il diritto è la regolamentazione delle libertà delle persone, in modo che la libertà di ognuno finisca là dove comincia la libertà dell’altro. Questo è il diritto giusto. Diritto che ha senso obbedire e ha senso accettare la sanzione. Si pensa nel diritto naturale che ci sia il diritto alla vita e allora non si può togliere la vita. Questo è uno degli argomenti che Kant utilizza contro la

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pena di morte. Attenzione, quell’idea del diritto di Dio non è un’idea che muore. Infatti per i cristiani di tutt’e due le sponde, siano essi cattolici o protestanti, la legge razionale è anche legge di Dio. Le due cose tendono a fondersi. Nella storia i passaggi non sono sempre dal bianco al nero e le cose convivono per molto tempo. Piano piano abbiamo l’affermazione di quello che si chiama Giuspositivismo . Passaggio decisivo per arrivare alla situazione di oggi, è quella idea è che il diritto non è un qualcosa che deve corrispondere alla volontà di Dio o alla legge di natura, ma viceversa è quella cosa che è posta dal Sovrano, ovvero comandi mirati, come la definizione di Austin che diceva che:”il diritto è il comando sovrano munito di sanzioni”. Perché c’è questo passaggio? E’ un passaggio prima di tutto necessario perché il diritto che si basa sulla legge razionale, non si spiega perché ci siano più diritti, ovvero che gli italiani abbiano il loro, i francesi pure e anche gli inglesi. Il diritto deve essere unico, dicono i razionalisti. La pluralità degli ordinamenti giuridici tipica dell’Europa del 700 non ha un fondamento. Il diritto è legittimo e giusto se gli ordini del sovrano rispettano le leggi di natura. Però abbiamo questo passaggio: il diritto è il comando del sovrano. Su un determinato territorio su un determinato popolo, su un determinato stato, infatti questi sono gli elementi fondativi della nazione. In Austin è molto evidente che il diritto obbliga, in ultima istanza alla sanzione ovvero alla coercizione. Austin distingue la moralità positiva dal diritto. Ci sono comandi che non sono muniti di sanzione e per Austin questi non sono diritto. Austin dice che il diritto internazionale non è diritto poiché non c’è nessuno che può dare ordini. Le regole sovrastatali ci sono ovviamente solo per accordi e non tramite ordini. Ma Austin mi fa sparire anche dal diritto quello Costituzionale. Perché gli organi costituzionali stanno su un piano di parità. Hanno poteri diversi, ma nessuno può sanzionare i poteri dello stato. Ci potrebbe essere al massimo la Corte Costituzionale che può dire che una legge è illegittima, ma non sanziona nessuno. Per esempio anche il presidente della repubblica, se non esegue le sue funzioni in modo corretto, non c’è nessuna autorità che lo possa sanzionare. Se la corte costituzionale sbaglia e dichiara illegittima una legge, non c’è nessuno che la possa sanzionare. Quindi non c’è sovrano nel diritto costituzionale. In qualche modo Montesquieu dice che Costituzione e suddivisione dei poteri sono la stessa cosa. Si ha costituzione in quanto si ha divisione dei poteri. La divisione dei poteri indica l’inesistenza della sovranità. La sovranità viene distinta fra competenze. E le norme che regolano la divisione dei poteri non sono per Austin, norme giuridiche. Siamo nel campo della morale positiva. Le norme cioè che si basano soltanto sulla forza del convincimento non sono comandi sovrani e non hanno sanzioni al loro sostegno. Quindi come pensiamo il fondamento dell’obbligo giuridico mi cambia la stessa dimensione di giuridico. Cos’è il diritto e cosa non è il diritto e nel caso di Austin è molto evidente, dipende da come penso perché debbo obbedire alla legge. Nella teoria di Austin c’è una teoria utilitaristica cioè che “io obbedisco alla legge per paura della sanzione”. L’utilitarismo è quella teoria che dice che si può misurare ciò che produce piacere e cosa produce dolore e stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato attraverso una somma algebrica, ovvero se una cosa produce x piacere e x – 1 dispiacere allora la cosa è giusta, se l’incontrario e il dolore prevale sul piacere allora è sbagliata. Da qui si produce una massima: “la maggiore felicità possibile per il maggior numero di persone”, questo è il compito per il legislatore.

Il diritto si regge sulla convinzione che le sue norme debbano essere obbedite. Quel punto di partenza che ci siamo dati, cioè i giuristi che aprono il codice non si pongono il problema del perché

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le norme debbono essere obbedite, ma si pongono solo il problema di cosa dicono le norme, è anche il punto di arrivo. Cioè il diritto funziona nella misura in cui le persone danno per scontato che debbano ubbidire e se volete la teoria di Austin è capovolta. Non è che vi sia un sovrano che comanda che costituisce il diritto, ma bensì è il fatto che vi siano delle persone che ubbidiscono che costituisce diritto. Si ha diritto nella misura in cui si ha una norma che si ritiene vincolante, cioè se non la osservo posso essere punito. Ho diritto nella misura in cui ho un popolo che pensa che a quelle norma si dia obbedienza. Max Weber diceva che “il ladro ruba di nascosto, quindi egli sa che la norma esiste e che è munita di sanzione”.

Facciamo un passo indietro. Se sta così la cosa ci possono essere degli atti normativi che poi di fatto un popolo non pensa che a queste leggi si debba obbedire. Cosa non difficile, specie in paesi come i ns dove le leggi se ne fanno migliaia l’anno. Fino a 15 anni fa l’ignoranza della legge non era ammessa, ma poi arrivò una sentenza che l’ammise, poiché è impossibile pretendere che taluno le conosca tutte, visto che gli stessi giudici non le conoscono tutte. Basti vedere il mille proroghe (dentro ci sta tutto, mille cose diverse). E’ dunque abbastanza difficile capire quale sia la normativa vigente. Questo vuol dire che il potere normativo dipende dalla convinzione che queste norme siano fatte rispettare dagli operatori giuridici. Forza ultima del diritto che si abbia non tanto quello che pensano i cittadini, ma gli operatori giuridici che è sostitutiva della forza normativa (realismo giuridico di Ross).

II lezione 16 febbraio

Abbiamo detto chi effettivamente definisce i confini del diritto teso nel senso di regole da parte di esercitare una normatività sociale sono gli operatori giuridici. E che per quanto formalmente una norma possa esistere in un ordinamento, se tale norma non è seguita, pensata dagli operatori giuridici, da un punto di vista di incidere sulla vita reale, questa norma non esiste, è una norma non normativa. E’ una norma che fa formalmente parte dell’ordinamento ma non è normativa. Prima però di sviluppare questo ragionamento che è di Ross, dobbiamo fare un passo indietro per esaminare la tesi che si sviluppa all’interno dell’ambito positivistico per cercare di eliminare almeno una parte di quell’inconveniente della teoria di Austin. Se noi consideriamo che “il diritto è un comando del sovrano munito di sanzione” resta fuori dal diritto, il diritto internazionale, il diritto costituzionale e anche molte norme in generale, tipo molte delle quali sono dentro il codice civile. Anzi la maggioranza. L’aggiustamento più vistoso a questa teoria l’ha fatto Hans Kelsen, (in merito a questo K. Aggiunge che la sanzione c’è ed è l’autotutela). Un austriaco che scappa in Svizzera col nazismo e poi si trasferisce negli Usa. La teoria di Kelsen è sostanzialmente la base del modo, in cui oggi il diritto viene visto dai giuristi: la norma giuridica è quella che fa parte dell’ordinamento giuridico e il diritto ha la peculiarità di fare regole su se stesso, e le norme che fanno questo sono norme di diritto sul diritto, come quelle che stabiliscono nel dir costituzionale, la formazione delle leggi. Quindi il diritto ha questa sua peculiarità di autoregolamentarsi. Kelsen mette in evidenza che il diritto fa norme su stesso. E in questo modo dice Kelsen che il diritto si autocostituisce. Sono norme giuridiche dice Kelsen quelle poste in conformità con altre norme giuridiche che prevedono il loro modo di produzione. E

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qui nasce quella più grande piramide, ovvero la Costituzione dice come debbono essere fatte le leggi, le leggi dicono come debbono essere fatti i regolamenti e i regolamenti dicono come debbono essere fatti gli atti amministrativi. Così il diritto si autodefinisce. Norma è qualsiasi cosa che faccia parte dell’ordinamento. Mentre Austin vedeva la singola norma, Kelsen sposta l’osservazione dalla singola norma all’ordinamento nel suo complesso e definire così i confini del diritto. Il diritto è tutto ciò che è prodotto secondo le regole del diritto stesso. Kelsen sostiene che la normatività è una categoria del pensiero e non si pone il problema del pregresso all’infinito e dice che la norma fondamentale non è posta, ma presupposta e che è la norma che dice come e quando si possono fare le Costituzioni. Molti sostenitori di Kelsen nutrono però dei dubbi sulla prima parte della sua teoria, in quanto sostengono che l’esercizio del potere costituente non avviene con regole prefissate (pensare all’Italia e a come è nata la costituzione, per caso, grazie ad una guerra dagli esiti imprevedibili), mentre invece non li nutrono dalla formulazione della legge fondamentale in poi e sostengono che la teoria kelseniana funziona e il diritto è tutto ciò che è stato prodotto secondo le regole che l’ordinamento stesso definisce per la produzione delle norme. Prescindono così dalla norma fondamentale e poi accettano la teoria kelseniana. Kelsen dice che non è la singola norma, ma è l’ordinamento nel suo insieme che deve essere effettivo, ovvero deve funzionare ed esistere. Quando l’ordinamento esiste l’effettività delle singole norme non ha più rilevanza. Questa è la teoria largamente accettata. Quali sono le conseguenze di questa teoria? Una conseguenza molto importante, per esempio è che la decisione dei giudici è norma giuridica. Leggi che stabiliscono il codice di procedura civile o penale, sono norme giuridiche e anche la sentenza è una norma giuridica. La piramide che parte dalla Costituzione e scende giù, è una norma in generale che poi diventa sempre di più individuale; anche il contratto è una norma, per chi la stipula senz’altro. Ma quale è il problema di questo approccio? Il problema è che la normatività è qualcosa di misterioso, cioè se io pronuncio delle parole secondo determinate procedure, quelle parole avranno un potere normativo, se io scrivo quelle parole avranno anch’esse un potere normativo. Perché? I primi realisti, più o meno contemporanei a Kelsen, paragonano il diritto alla magia, cioè così come nella magia c’è tutta una procedura che produce effetti magici, così anche nel diritto c’è tutta questa procedura di produzione delle norme che hanno fissato altre norme che hanno questo potere magico di vincolare …….. Il padre della scuola del realismo giuridico scandinavo, Hagerstroem, studia il diritto romano e scriverà un libro dove paragona la normatività alla magia, cioè qualche cosa che si produce per effetto di formule. Ma per fare un esempio più concreto, nel processo civile esiste ancora un giuramento che definisce un giudizio. Se una parte giura secondo le modalità previste dal codice civile, quel giuramento produce uno stato….La procedura della pronuncia ha questo effetto. Questo è il dato tipico del diritto romano, ovvero modifica la realtà. Quello che rimane oscuro e ambiguo nella teoria di Kelsen è perché una volta 630 signori (i padri costituenti) eletti secondo determinate procedure, votano su alcune formulazioni linguistiche e dopo qualche mese i parlamentari eletti secondo le modalità della Costituzione, producono leggi che impongono ad ognuno di noi come ci si deve muovere, ad esempio nel ns. lavoro. Qual è questo potere? Kelsen risolve il problema dicendo che la normatività è categoria dell’intelletto umano. Abbiamo innata nella ns testa l’idea della normatività . Anche accettando questa tesi, resta di capire perché noi la normatività la associamo a determinati documenti e non

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altri, perché il giudice da cui io vado dicendo che il giorno x ho prestato a Caio questa cifra e lui mi aveva promesso di restituirmela con l’interesse legale del 5% e non gliela ha restituita, apre il codice civile e non il vangelo alla parabola dei Talenti, e decide in base a questo. Qui si arriva a ciò che si diceva ieri. Ciò che è decisivo è ciò che fanno gli operatori giuridici, ovvero la credenza degli operatori giuridici in ciò che è normativo. Ciò che è normativo in una determinata società è ciò che gli operatori giuridici decidano che è normativo. Sono loro per quelle norme che specificamente riguardano la loro competenza, ad es: per quanto riguarda il codice della strada sono gli esperti di questo settore che traducono il diritto dalla carta a norme che vincolano socialmente. Di più se un vigile urbano camminasse per strade e dicesse vedendo le auto sul marciapiede, a quello lo multo e a quell’altro no, farebbe omissione di atti di ufficio. Ma se il vigile urbano cammina in una strada dove è stato istituito il divieto di sosta e il vigile non ne fosse a conoscenza, la norma in quella strada non esiste. La normatività esiste in quanto esistono i comportamenti degli operatori giuridici che applicano le norme, ovvero che trasformano un pezzo di carta (la legge) in realtà. Altro esempio se un giudice condannasse tizio a due anni di carcere e questa sentenza non fosse eseguita, o perché la polizia non la esegue o perché dal carcere rifiutassero tizio, rendendolo così libero. Il sistema non funzionerebbe. Il sistema dunque funziona sulla base dell’interiorizzazione da parte di una serie di operatori sul fatto che quello è il loro dovere. Tipo: la polizia giudiziaria, arresta Caio e lo porta al carcere di Sollicciano. Ma lì non c’è più posto per i carcerati. Allora la polizia penitenziaria si deve sforzare a trovare un posto a Caio e cerca così di risolvere il problema e fa questo sforzo perché crede di fare il suo dovere. Le cose funzionano perché gli operatori giuridici non si pongono il problema (in questo caso del sovraffollamento delle carceri). Affinchè dunque il diritto funzioni implica la sua interiorizzazione da parte degli operatori giuridici . Questa interiorizzazione è qualcs che si aggiusta continuamente, per esempio di fronte ad un cambiamento di norme, dove gli operatori giuridici si confrontano e quindi si assesta la loro operatività, siamo così all’ interpretazion e. Non è la norma che produce la normatività sociale per come è scritta, ma è quella interpretazione che viene interiorizzata che produce la normatività sociale. Pensiamo ad una regola del calcio: che cos’è il fuori gioco passivo, è un interpretazione dell’arbitro che in quel momento è giudice, così come il fallo di mano involontario o volontario, ovvero un’interpretazione che diventa la norma. In alcuni casi è pacifico e in alcuni casi è problematico. Spesso e volentieri i casi problematici cambiano più o meno l’interpretazione della norma, cioè fino a ieri abbiamo fatto così e tutto andava bene, oggi ci accorgiamo che facendo così c’è un problema, forse bisogna correggere il modo di interpretare la norma. Il diritto sulle norme è alla Kelsen come ciò che fa parte dell’ordinamento giuridico, ma il diritto come ciò che è capace di incidere sulla vita delle persone è questo ultimo, ovvero quello che viene interiorizzato dai funzionari. Un ultimo esempio lo sciopero bianco. Cosa vuol dire? Vuol dire che se io lavorando applicassi le norme alla lettera, impantanerei tutta la mia azione lavorativa e non sbrigherei il lavoro, ma lo cancrenizzerei. Questo vuol dire che le cose funzionano perché non si applicano le norme alla lettera. Tipo il vigile, non è che tutte le volte che fa una multa consulta le ordinanze, il cds, ecc. Lo fa di routine, come un ufficio dell’avvocato, di un giudice ecc. L’altra faccia della medaglia è che le cose funzionano in quanto gli operatori non applicano le norme alla virgola. Questo mi garantisce la normatività, cioè non è la norma che formalmente fa parte dell’ordinamento con le sue virgole, ma è il

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modo in cui operativamente e pragmaticamente gli operatori la seguono facendo funzionare gli uffici. Questo è il diritto che effettivamente tocca le vite delle persone.

III lezione 17 febbraio

Ieri avevamo iniziato a parlare delle tre accezioni del termine validità e distinzione fra la validità e effettività. Avevamo cominciato a dire qual’era la nozione di validità Kelseniana e quale nozione di validità che usano i realisti. Ci eravamo fermati sul punto che c’è una distinzione tra validità e effettività, molto chiara nella eccezione kelseniana, che dice che la norma è valida quando fa parte dell’ordinamento giuridico, mentre è effettiva quando poi i funzionari la seguano. Questa distinzione così netta, nel quadro della impostazione realistica diventa più difficile, perché quando si dice che il diritto è valido in quanto ha normatività sociale, in quanto si traduce in prassi, in quanto è capace di orientare e modificare le condotte, è chiaro che l’effettività viene in parte assorbita dalla validità. Infatti nel rapporto fra validità e effettività si distinguono i validi di realismo.

Ripartiamo dunque da qui. Mettiamo a fuoco la distinzione di realismo/idealismo. Ross contrappone l’idealismo giuridico al realismo giuridico. Per idealistiche Ross intende tutte le teorie per le quali la validità non derivi dai fatti o meglio non si ponga dai fatti . Quando parliamo di fatto, anche le convinzioni delle persone sono un fatto, è ritenuto un fatto empirico, perché è riscontrabile. Le credenze non sono idee sono fatti. Cioè una teoria che mi dice che il diritto è valido perché gli uomini sono convinti che derivi da Dio, è una teoria realistica, empirica, perché mi dice un fatto che sta alla base della validità del diritto. Invece, una teoria che mi dice che il diritto è valido perché discende da Dio, è una teoria idealistica e non è un fatto direttamente verificabile. Ross considera idealistiche tutte le teorie giusnaturalistiche, siano religiose o laiche, quelle teorie cioè che affermano che il diritto è valido perché discende da Dio o che il diritto è valido perché corrisponde dalla legge di natura. Parla a questo proposito di idealismo materiale, perché questa fonte di validità si ripercuote sui contenuti del diritto. Un diritto che dice “si può uccidere” sarebbe in contrasto o con la volontà divina o con la legge di natura. Accanto all’idealismo materiale, abbiamo l’idealismo formale. Per idealismo formale Ross intende la teoria di Kelsen. Abbiamo visto che, nella teoria di Kelsen, al vertice della piramide vi è una norma che non è posta, che sarebbe un fatto, allora questa concezione diventa idealistica, perché siamo nel mondo delle idee su come si fa la Costituzione. Per Ross il diritto sta sia nel mondo delle idee che nel mondo dei fatti. Per Kelsen uguale, poiché le norme stanno nel mondo dei fatti, mentre la fonte della validità sta nel mondo delle idee. Kelsen sta nell’idealismo formale, secondo Ross, anche per un altro fatto, ovvero perché in questa teoria non c’è niente che spieghi concretamente perché questi detti, scritti, regolamenti abbiamo un potere normativo. Kelsen dice che la normatività è una categoria del pensiero e noi abbiamo l’idea della normatività nella ns testa. Quindi idealismo formale. A queste due contrapposizioni (idealismo materiale vs idealismo formale), si contrappone

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il realismo. Questi invece si caratterizza per considerare la validità, come qualcs che ha un’origine empirica, ovvero direttamente verificabile. Esistono dice Ross due tipi di realismo, ovvero il realismo behavioristico e realismo e psicologico. Behavioristico dipende dall’inglese (comportamentistico), tipico americano. Si torna a quello che si diceva ovvero che la credenza è un dato empirico. Il realismo psicologico dice sostanzialmente che la validità è una credenza. Cioè è valido ciò che è ritenuto, creduto valido dai soggetti di determinate popolazione. Questa convinzione non è lontana dalle cose che abbiamo visto e discusso. Ross dice che secondo il realismo psicologico rischiamo che ci sia il rischio del soggettivismo, cioè che ognuno di noi pensi che l’ordinamento sia fatto in un modo piuttosto che un altro. Più che altro cambiano i confini dell’ordinamento. Per esempio su cosa si intende su omicidio, rapina, furto ormai l’unanimità degli operatori giuridici ha una voce unica, mentre quando parliamo di ricorsi ad una sanzione amministrativa del codice della strada, allora le idee degli stessi operatori giuridici, cambia. Quindi il realismo psicologico porta con sé il rischio del soggettivismo. Pertanto Ross dice che bisogna restringere questo campo agli operatori del diritto, non basta dunque l’elemento della credenza ci vuole anche l’elemento della prassi degli operatori. Il realismo behavioristico ha il problema inverso, e per i behavioristici il diritto è valido solo quello utilizzato dalle fonti. Diritto valido sono le decisioni dei giudici. Validità ed effettività in questo caso coincidono. Diritto valido è quello utilizzato dai giudici. Per Ross questa definizione ha molti difetti, di più di quelli del realismo psicologico. Primo difetto: ci sono norme che i giudici sono convinti che siano valide, ma che non si trovano mai a dover applicare. Un esempio è da molti anni che non si applica la norma per insurrezione armata contro i poteri dello stato. Vuol dire che è una norma che è caduta in desuetudine? No, è soltanto che dal punto di visto storico è da più di 20 anni che questa norma non viene applicata, ma ciò non vuol dire che non sia più in essere, che non sia diritto valido. Rimettersi dunque semplicemente al comportamento dei giudici, non mi permette di vedere la validità del diritto. Altro problema. C’è un problema temporale. Il giudizio dei giudici è un giudizio che riguarda ieri, oggi o domani? Normalmente nella misura in cui pensiamo che un diritto serva a guidare le azioni delle persone, la validità del diritto è rivolto al futuro. Cioè a me serve di sapere quali sono le norme valide, prima di fare una cosa, non dopo o mentre lo sto facendo. Se il diritto non me le dice prima, ma me le dice dopo non orienta la mia azione, massimo mi sanziona. Quando Kelsen trasforma la teoria di Austin e dice che non c’è comando ma c’è ordinamento giuridico, fa un’operazione che gli toglie l’elemento volontaristico. Le norme del diritto non mi dicono mai fare questo. Sono norme più condizionali e dicono se fai questo allora quest’altro. Per esempio l’ordinamento non ti dice che non devi rubare, come i dieci comandamenti, ti dice: se rubi vai in galera. Ti da una scelta, non è una cosa morale. Kelsen fa vedere questa grossa differenza, il diritto non è una concezione morale. Volendo si arriva anche alla concezione di laicità dello stato. Lo stato non dice fai questo o quello. Ti dice che tu puoi fare ciò che vuoi, ma sappi che se fai determinate cose allora ci saranno delle conseguenze. L’antropologia che sta alla base di questa idea che è illuminista (Beccaria), si paragona al bilancino di un farmacista e dico mi conviene o non mi conviene farlo? Quindi le norme giuridiche non mi ordinano di fare una cosa, mi mettono di fronte ad una scelta. Questo anche di fronte a norme imperative. Quando siamo di fronte ad una norma che dice che la locazione deve essere fatta in forma scritta, non mi impone di farla in detta forma, ma mi

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dice che se non la faccio in quel modo non è opponibile ai terzi. Corollario di questo discorso, lo stato attraverso il diritto cerca di orientare l’azione delle persone, non le determina, ovvero il diritto non mi comanda, ma dirà come gli apparati amministrativi reagiranno alle mie azioni. Ulteriore corollario è che le norme sono solo apparentemente rivolte al cittadino, le norme sono altresì rivolte ai funzionari della pubblica amministrazione. Ross dunque dirà che le norme di condotta sono norme di competenza. Norma di condotta è quella “austiniana” che dice cosa si deve fare, quella di competenze è quella che attribuisce un potere. Es: la norma che dice chi provvede alla gestione dei rifiuti è una norma di competenza, mentre quella norma che dice che le locazioni superiori a 9 anni devono essere fatte in forma scritta è una norma di condotta. Ross dice che le norme che in realtà sembrano di condotta sono di competenza, nella misura in cui sta dicendo “giudice se c’è una locazione sopra i 9 anni non è opponibile ai terzi”, quindi è competenza. Se io considero la norma rivolta ai cittadini, per esempio la norma dell’omicidio, posso dire se non ci sono omicidi che la norma è effettiva. Ma non lo posso sostenere. E’ molto difficile dire che il comportamento derivi dalla norma, come per esempio se il suo comportamento è stato fatto perché c’è una norma che minaccia una sanzione. Mentre quando la norma è rivolta alla P.A. è più facile sostenere l’effettività. Ogni comportamento delle autorità pubbliche deve essere, infatti motivato (delibere, sentenze). Quindi l’effettività della norma è valida è certa, anche perché, mentre io non so se tizio non ha rubato perché c’è una norma che lo punisce fino a 6 anni, viceversa so per certo che il giudice ha fatto una sentenza che quella norma c’è (nel caso in cui tizio abbia rubato e fosse stato beccato). Quindi mentre è pressoché impossibile stabilire se una norma orienta il comportamento dei cittadini, noi possiamo viceversa sapere se una norma è utilizzata dalle autorità e da questo riteniamo che è valida . Questo è vero sia che se interpretiamo il diritto come comando, sia che se lo interpretiamo come un imperativo condizionale, la norma è in grado di orientare il mio comportamento se io posso sapere prima qual è la norma. Quindi il giudizio sulla validità è un giudizio riferito al futuro. Torniamo però al problema dal quale eravamo partiti. La norma effettiva, cioè quella utilizzata dai giudici (tesi del realismo behavioristica) è valida? Ross dice no! Perché si rivolge al passato. Vedo cioè cosa ha fatto il giudice ieri, e io so cosa era valido ieri e non so cosa sarà valido domani. Il caso banale in cui si sbaglia è quando il legislatore fa una nuova legge, la decisione del giudice di ieri non può più valere. Per esempio se prendiamo la guida senza patente, noi sappiamo che dal luglio 2009 è nuovamente reato penale. Se noi prendiamo l’ultima sentenza, che diciamo ipoteticamente sia stata fatta a giugno, in quella mi si dice che il fatto non costituisce più reato. Quindi il comportamento del giudice non mi dice niente. Per esempio negli anni 70 si diffonde la vendita per corrispondenza (postalmarket) e il legislatore si pone il problema, poiché questa cosa da meno potere al compratore e fa una legge sulla vendita per corrispondenza. Dieci anni dopo cominciano le vendite televisive. I giudici decidono di applicare alla vendita televisiva, la vendita per corrispondenza per analogia, anche se la vendita su tv è diversa che sulla carta stampata. Quindi il legislatore legifera in quel senso. Passano altri dieci anni e arriva il commercio elettronico. Qui abbiamo giudici che applicano norme sulla vendita per corrispondenza, e giudici che applicano norme sulla vendita per tv, fino a quando il legislatore non comincia a fare norme sulla vendita elettronica. Questo significa che per un certo periodo di tempo i giudici hanno applicato alla vendita per tv, la legge della vendita per corrispondenza. Quindi non posso vedere

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l’ultima sentenza del giudice, specie se essa è stata a cavallo con la nuova normativa. Il giudizio sulla validità è dunque rivolto al futuro e non al passato e nemmeno al presente e questo è il primo grande difetto che Ross individua al realismo behavioristico. L’altro grande difetto si ricava e si riconduce ad una cosa che abbiamo già detto ovvero è difficile capire il perchè una persona si comporta in un modo. Ross fa un tipico esempio per discutere e illustrare la sua teoria della validità: l’esempio è la partita a scacchi e l’ordinamento giuridico. Come è che sono paragonabili? In tutti e due casi siamo di fronte a comportamenti e relazioni sociali, fra due e più persone e norme che mirano ad orientarle e regolarle. In un caso le norme sono le regole degli scacchi e la relazione sociale è il gioco, nell’altro le regole sono le norme giuridiche e le relazioni sociali sono le più varie. I due fenomeni sono paragonabili. Primo punto di vista importante: il punto di vista di chi si assume di parlare della validità. Ross non assume il punto di vista dei giocatori, ma dello spettatore. Presumo che chi giochi sappia quali sono le regole degli scacchi, mentre lo spettatore può non saperle e cerco di capire come esso riuscirà a capire dette regole, guardando il gioco. E’ la stessa posizione del cittadino, perché il cittadino non conosce le norme giuridiche e cerca di sapere quali sono per sapere come muoversi in quello che deve fare. Io che guardo una, dieci, cento, mille partite a scacchi, posso dedurre le regole degli scacchi? No. Perché non è detto che abbia visto tutte le mosse, poiché se tutti coloro che ho visto che nessuno incomincia la partita con il pedone di torre. Deduco che non si possa iniziare partendo col pedone di torre. Invece no. Si può, solo che è una mossa suicida e quindi non lo fa nessuno. Quindi il mero comportamento non mi dice la norma. Hume diceva che non si può passare dall’essere al dover essere. Il fatto che una cosa accada non significa che debba accadere. Il ragionamento che fa Ross è la stessa cosa: il fatto che ci sia un comportamento che si ripeta non è detto che ci sia la legge. Le persone dunque possono tenere un comportamento per motivi tutte loro indipendentemente dalla legge. Non si può dunque prendere le norme dall’osservazione. Quindi non si possono prendere dalle sentenze dei giudici. Ross dice anche però che non posso prendere le leggi. Lo spettatore potrebbe prendere le regole degli scacchi e se le legge per capire le regole degli scacchi. Ma come si è già detto chi mai ha letto le regole del risiko per giocarci? Il libretto mi dice tante cose, ma non la teoria. Per esempio, sempre sugli scacchi, siccome le partite durano giorni, i giocatori possono decidere di mettere la regola di mangiare per forza, in questo modo le partite finiscono più velocemente, ma nel manuale degli scacchi questa regola non c’è. Vedere il manuale degli scacchi non mi dice quali sono le regole degli scacchi per quella specifica partita. Come il povero spettatore? Ross dice che non ha molte possibilità. Una volta letto il regolamento, deve andare dai giocatori degli scacchi e chieder loro quali siano le regole del gioco. Assunto che i giocatori sono i giudici e che i cittadini sono gli spettatori; premesso questo sarebbe impensabile andare giudice per giudice e chiedergli quali sono le norme giuridiche dalle quali si sentono vincolati. Esiste però qualcs che mi permette di sapere le norme senza andare a chiederle ai giudici/giocatori, ovvero la coscienza giuridica formale.

IV lezione 22 febbraio 2010 – Coscienza giuridica formale e coscienza giuridica materiale o morale

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Perché i giocatori sono giudici? Perché le regole abbiamo detto che sono rivolte ai giudici invece che hai cittadini (i cittadini sono gli spettatori nella partita a scacchi). Se io rispondessi a questa domanda, perché i giocatori decidono le regole e dunque che i giudici decidono quali sono le regole, è una risposta molto problematica. Uno dei più grandi studiosi del diritto del 900, Hart (questo non c’è nel libro di Ross, ma di Santoro), sostiene che il realismo non dipinge un sistema giuridico (un sistema di fatto di regole da seguire), ma tratteggia un sistema, un gioco che lui chiama “il sistema della discrezionalità dell’arbitro”, cioè Hart se la prende soprattutto con i realisti behavioristici americani, e dice che questa loro idea di diritto valido è come se dicessimo che se nel gioco del calcio, fosse l’arbitro a decidere le regole. Se così fosse, ovvero se le regole le decidesse l’arbitro, sarebbe come dire che non ci sarebbero regole, ma ci si rimettesse all’arbitrio di coloro che dovrebbe verificare la conformità delle regole e il potere sarà arbitrario, poiché chi esercita il potere contestualmente fa le norme. Questa tesi è l’essenza di tutte le polemiche che si trovano attualmente sul confine del potere dei giudici, se essi la devono solo applicare o viceversa interpretare (questo sarà un tema centrale sul testo di Santoro, intorno al tema dello stato di diritto). Torniamo agli scacchi. Per sapere quali sono le norme che i due giocatori applicano a quella partita la miglior cosa sarebbe andarglielo a chiedere. Ma nel sistema giuridico la cosa non sarebbe fattibile e Ross dice che noi possiamo presupporre che i giudici si atterranno a quello che formalmente è il diritto, o quello che è il diritto secondo Kelsen, ovvero quello che secondo le norme previste dallo stesso ordinamento fa parte dell’ordinamento giuridico. Due cose importanti: 1) Se questo fosse vero non dovremmo andare a chiedere giudice per giudice quale è il diritto valido. 2)

Cos’è la coscienza giuridica formale? Ross parla della coscienza giuridica formale quando parla della decisione del giudice e usa una metafora che deriva dalla fisica, la fisica del moto (la cinematica, quando due forze che vanno in direzione diversa sono applicate ad un corpo il moto di questo corpo è la bisettrice dell’angolo che le due forze compongono – la regola del parallelogramma- ovvero del perché si sta in piedi in bicicletta). Il corpo a cui si applicano le due forze è la decisione del caso e le due forze sono la coscienza giuridica formale e la coscienza giuridica materiale o morale. Ross dice: un giudice decide da un lato in base ad una sorta di deontologia professionale (questa è la coscienza giuridica formale), segue il più possibile la norma, o meglio l’enunciato linguistico e la mette in pratica in virtù della sua esperienza che la professione le ha dato. La coscienza giuridica materiale o morale, è la visione del mondo del giudice e questa è imprevedibile, che influenza la scelta delle norme e il modo di leggerle. La decisione sta quindi fra questi due vettori.

Nelle decisioni dei giudici dice Ross, noi abbiamo un elemento della deontologia professionale, in cui non si scindono chiaramente l’aspetto assiologico e l’aspetto politico. Cioè quello che io devo fare e io imparo a fare coincidono. Es. del bambino che conosce il mondo, impara che ci si siede sulla sedia e contemporaneamente impara che quella è la sedia. Così si acquista la coscienza giuridica formale, cioè aspetto cognitivo (cos’è il diritto) e aspetto normativo (come si deve usare) vanno assolutamente insieme. E’ un linguaggio e come tutti i linguaggi lo comprendiamo automaticamente, sia la cosa come si chiama che come la dobbiamo usare. Il diritto ci rimane

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difficile perché lo iniziamo a studiare a 18 anni, ma se lo avessimo appreso fin da piccoli, come tutti gli altri linguaggi sarebbe stato facile.

Il diritto valido è il diritto formalmente valido, questo dicono sia Ross che Kelsen, sostanzialmente dicono la stessa cosa. Questo è vero se intendo che, sia per Ross che per Kelsen, il giudice giudica a partire dalle norme formalmente valide, dicono la stessa cosa. Quello che cambia è che per Kelsen, le norme formalmente valide sono auto evidenti, la normatività è presupposta, non ha spiegazioni, è una categoria innata del nostro pensiero. Per Ross, invece le norme hanno un potere normativo come ce l’hanno tutti i linguaggi. Come noi si sbaglia se chiamiamo lampadario una scheda, noi diciamo che sbagli se passi col rosso e ti fermi col verde. Questa distinzione ha una grande rilevanza per il giurista. La distinzione fra Kelsen e Austin, per esempio, è la sanzione (infatti fa una grande differenza perché Austin esclude dal diritto il diritto costituzionale), mentre Kelsen no. Kelsen dice che le norme sono un prodotto di per sé, anziché considerarle come un prodotto di un processo di socializzazione. Il dato sostanziale è che niente spiega il perché, nella teoria di Kelsen, gli operatori giuridici seguono le norme, cioè alla fine dei conti ci dobbiamo rimettere alla supposta forza di questo pezzo di carta scritta a comportarsi in quel modo. Ross, ci toglie dalla formula magica di costringere le persone a comportarsi in quella maniera, perché dice Ross non è una forza magica che ci costringe a comportarsi secondo la regola, ma bensì un processo di socializzazione attraverso il quale io ho imparato ad usare e sono diventato padrone di quelle norme. Ed è lo stesso processo di normalizzazione con il quale io automaticamente applico nel mondo che mi circonda, la lingua che imparo da bambino. L’altro punto è la coscienza giuridica materiale o morale. Ross dice che sono i valori, ma non solo. Un giudice che ha un determinato complesso di valori nella sua testa, influenzerà anche la decisione che prenderà (la sentenza). Come? Per esempio nella scelta delle norme, così come quando si va da un avvocato e gli si chiede di sostenere la sua causa quella norma a lui più conveniente. Oppure: bimbo che nasce morto si può inquadrare come aborto o come infanticidio, il confine è labile. Se fosse aborto il medico si espone al risarcimento, se fosse infanticidio, si espone non solo al risarcimento, ma anche a conseguenze penali. Altro es. io rubo, il padrone mi ferma, io lo spintono e cade. Posso essere accusato di furto e lesioni lievi, o per rapina impropria (quando nell’immediatezza del furto non esercito la violenza per prendere la cosa, ma per conservarla) su questo ci si può giocare. Normalmente il fatto è sussumibile (la sussunzione è quella azione che fa il giudice quando pesa e contrappesa, all’interno di una fattispecie) e bisogna decidere la fattispecie nel quale il fatto deve essere sussunto, e questo incide anche sul giudice, per es. se io sono un giudice che devo decidere in tema di aborto, e che appartengo al movimento per la vita, cercherò di ricostruire quel fatto come un omicidio colposo. Qualche volta il giudice fa questo in maniere consapevole, qualche volta lo fa in maniera consapevole. Es: ad un certo punto qualche giudice ha incominciato a dire che il passarsi lo spinello costituisce spaccio. Ci sono varie sentenze della cassazione in questo senso. Sicuramente l’orientamento, politico, morale, personale del giudice conta nella sentenza. Anche perché in materia sempre di spaccio, ci sono sentenze che sullo spinello vanno in parte opposta a quello detto prima. Questo per dire che nella scelta della norma (non siamo ancora all’interpretazione), influisce l’orientamento. A maggior ragione influisce appunto nella sua interpretazione. Ultimo es banale sull’interpetazione. Prendiamo una norma semplice, ovvero l’art. 19 del TU sull’immigrazione dice che non può essere espulso chi è

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convivente con il coniuge o con parente cittadino italiano di secondo grado. Il problema è questo “o” e “cittadino italiano”. La scelta sarà dettata dalla mia coscienza di giudice e il mio orientamento in materia di straniera, che Ross definisce coscienza giuridica materiale o morale.

V lezione 23 febbraio 2010

Nel libro di Ross ci sono almeno tre capitoli tecnici: uno sulle fonti del diritto, uno sull’interpretazione e uno sulle modalità giuridiche. Proviamo a fare quel lavoro che è tipico del modo di esporre di Ross, cioè esponiamo la teoria delle fonti del diritto sulla base sulla teoria formale del diritto sulla base della teoria che i giudici hanno una coscienza che impone loro di rispettare e poi sulla base della teoria realista di Ross.

Prima di fare questo proviamo un altra volta a capire e ragionare che cosa differenzia la tesi di Ross da i due realismi: behavioristici e psicologico. Questo per riassumere il quadro.

Il realismo behavioristico sostanzialmente sostiene che il diritto è valido perché usato. Nella concezione di Ross esso è valido non perché usato, ma perché è presumibile che sarà riutilizzato dalle corti e questa presunzione si basa sul fatto che i membri delle corti, ovvero i giudici hanno una coscienza giuridica formale. Non è questa però la base del realismo di Ross, perché secondo lui i giudici hanno un certo processo di socializzazione (un bambino che ha genitori italiani, che abita e vive in Italia e frequenta le scuole italiane, porterà quel bambino a parlare in italiano), esattamente nella stessa maniera i giudici adotteranno le norme valide per la decisione. Questo mi porterà a dire che se c’è una legge nuova, il giudice non continuerà come in passato ad applicare la legge vecchia, ma applicherà quella nuova (ecco la correzione che da Ross al behaviorismo). Realismo psicologico: ‘il diritto è valido perché ritenuto valido’. Qui le differenze sono meno accentuate, salvo che: a) non si faccia riferimento all’intera popolazione, ma esclusivamente all’intero corpo dei giuristi; b) che questa restrizione ci consente di dire che non tutte le motivazioni che portano a ritenere valide il diritto ci interessano, ma ci interessano solo quelle che derivano dal processo di socializzazione dei giuristi. Se si vuole è una specificazione del realismo psicologico che dice che il ‘diritto è valido perché ritenuto valido’ in conseguenza del processo specifico di formazione e socializzazione che giuristi hanno per arrivare ad essere giuristi/giudici. Naturalmente questo mi permette una verifica ex post, io posso tornare al realismo behavioristico perché se è vero io troverò sentenze che si basano su norme formalmente valide. In questo senso Ross fa una commistione fra i due realismi, perché dal realismo behavioristico si prende l’idea che bisogna guardare solo i giudici e non tutti i cittadini, dal realismo psicologico si prende l’idea che non conta quello che hanno fatto ma quello che hanno intenzione di fare o che hanno la propensione a fare. Ma questi due elementi che abbiamo ricavato dai due realismi, ovvero guardare le corti e quello che si ritiene dover fare, la credenza, da soli non mi dicono molto. L’elemento centrale è la sostanza di quella che definiamo coscienza giuridica formale, cioè il fatto che nel processo per diventare giudici si acquisisce una certa mentalità, una certa propensione, un certo automatismo (quando uno mi fa una domanda non mi capita di pensare in che lingua gli rispondo). Questo è il dato empirico centrale della tesi di Ross.

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Ora guardiamo le fonti del diritto. Il diritto dunque è quella piramide che abbiamo visto nel sistema Kelseniana, per lo meno come ci dice il Codice civile. Se questo è il quadro delle fonti del diritto Ross propone un modo di classificarle, secondo il grado di oggettivazione. Cos’è? Il grado di oggettivazione dice Ross è la misura in cui la fonte del diritto fornisce al giudice una norma già definita. La fonte del diritto più oggettivata è la legge. La legge è fatta di norme già definite. Le norme meno oggettivate dalla legge è il precedente (nei sistemi di common law il precedente è esplicitamente fonte del diritto). Cosa vuol dire che è una fonte meno oggettivata? Vuol dire che il giudice non si trova di fronte ad una norma direttamente applicabile al caso singolo, ma si trova di fronte ad una sentenza che ha deciso un caso precedente e da quella deriva la norma. Il procedimento classico dei giudici di civil law è la sussunzione. In cosa consiste? Il giudice fa questa operazione. Guarda il fatto, e dice: “questo caso che mi trovo davanti in quale fattispecie entra? In quale norma corrisponde questo primo problema. Il giudice di common law non deve fare questo, ma parte da un fenomeno diverso, ma da una decisione simile. La decisione la deve trasformare in fattispecie. Il giudice di common law, prima di fare un ragionamento deduttivo deve fare un ragionamento induttivo, senza norma. La norma la deve ricavare lui da un precedente. Il giudice civil law si trova la norma generale ed astratta e la applica a casi concreti, il giudice common law si trova decisioni individuali specifiche e fa il processo di induzione cioè deve costruire lui la norma generale ed astratta, la deve insomma indurre.

Secondo caso del grado di oggettivazione, la consuetudine. E’ il caso più difficile perché non si parte da decisioni di casi singoli esplicitamente formulate, bensì parto da un comportamento che le persone tengono e verifico che queste persone tengono questo comportamento perché sono convinto che questo comportamento è legalmente dovuto e quindi loro devono per forza tenerlo. Non ogni comportamento regolare è una consuetudine giuridica. Si può tornare agli scacchi sull’aperture del pedone di torre. Il giudice qui deve fare una operazione un po’ diversa. Deve a) verificare la regolarità comportamentale, ovvero che tutte le persone tengono lo stesso comportamento; b) verificare se quel comportamento è ritenuto necessario perché giuridicamente vincolato; c) costruire la norma che corrisponde a quel comportamento. Quindi il grado di oggettivazione nella consuetudine è normalmente più basso rispetto alla legge generale ed astratta (alla legge generale ed astratta si possono equiparare i contratti, gli atti e regolamenti amministrativi e le sentenze dei giudici).

La fonte del diritto meno oggettivata: la ragione. Intendiamoci innanzitutto su cosa sia la ragione. Tendenzialmente la ragione è vista dai giuristi come quello strumento per colmare le lacune . Questo è un grosso dibattito che accompagna all’affermazione del positivismo, all’idea cioè che la legge è quella posta, che è poi l’affermazione che si accompagna all’affermazione dei codici. Con il diritto codicistico non ci devono essere fonti del diritto diverse dalla legge posta e in particolare dal codice che è la sistemazione organica e razionale della legge posta. Mentre prima in una situazione di diritto comune, in una situazione di giusnaturalismo, le fonti normative dalla legge formale, dalla legge posta erano tante e il sistema era un collage fra fonti giuridiche formali e informali, comportamenti, leggi in natura, tradizioni locali, consuetudini (common law=diritto comune, i giudici che pronunciano il diritto). Proprio per combattere questo pluralismo, il

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giuspositivismo afferma con forza che il diritto è solo e soltanto la legge posta. Si cerca dunque di togliere lo status di fonti del diritto a molte cose, compresa la ragione, che era una delle fonti del diritto per eccellenza. La ragione è per i naturalisti la fonte di validità di tutto il diritto. Quello che per Ross è un idealismo materiale. Quando entriamo in un sistema codicistico, nel giuspositivismo ormai maturo, nella seconda metà dell’ottocento, il nodo della ragione viene ridotto a fonte del diritto che colma le lacune. Il diritto posto e soprattutto il diritto codicistico si immagina come un diritto completo. Quando il giudice si trova dinanzi ad una lacuna può usare la ragione, anche se sul fatto che lo possa fare o meno c’è un grosso dibattito che si troverà quando si analizzerà lo stato di diritto. Durante la rivoluzione francese e precisamente per 2 anni, entrò in vigore un sistema chiamato réfèré legislative, che diceva al giudice che si trovava di fronte ad una lacuna, di evidenziarla al legislatore il quale lui l’avrebbe poi aggiustata; il giudice non può mai produrre diritto. Questo sistema però sebbene in vigore per 2 anni, non è mai stato attuato e fu abolito. Dopo che fu abolito si aprì una lunga discussione su quando il giudice dovrebbe produrre diritto. Ma fu tabù. Di fatti in un sistema giuspositivistico il “Giudice è bocca della legge”. Montesquieu direbbe: “potere nullo” (anche la prima affermazione è di Montesquieu). Il giudice non deve fare nient’altro che dichiarare il diritto, non ha una funzione costitutiva e creativa del diritto, bensì dichiarativa. Prendiamo ad esempio il codice civile, il codice ha una struttura verticistica, dunque quando un giudice si trova di fronte ad es. ad un contratto di compravendita, non tutti i casi sono specificati dal contratto di compravendita, ma il giudice allora si avvale del grado superiore, ovvero il contratto. In questo modo si muove il giudice e diciamo che nel codice si muove bene, ma di fronte alla legge ha molta di più difficoltà ed è per questo che spesso sono invocati i testi unici. Ma cos’è una lacuna? Normalmente si associa la lacuna ad una mancanza di norme, ad un qualcs cioè che non è regolato. Quando si dice appunto che il giudice colma la lacuna attraverso la ragione, significa che applica l’analogia. Paradossalmente esiste un altro principio, per colmare la lacuna, che di solito si esprime in latino “ubi vuolit lex dixit” e in italiano viene “la legge quando vuole le cose le dice”. Per esempio la legge di solito disciplina le cose, ma non sempre. Quindi si interpreta che le cose che la legge dice le dobbiamo fare, quelle invece che non disciplina le possiamo fare come crediamo, nel senso che abbiamo marginalità di manovra. Quindi quella che sembra la ragione, invero non è ragione, perché io devo fare una scelta di fondo, per esempio io posso scegliere secondo ragione si che applichi l’analogia o che applichi l’argomento contrario, perché per esempio posso dire che le norme di vendita di internet sono regolate dalle norme sulla vendita televisiva per analogia, ma posso anche dire che tutto quello che è specifico delle norme sulla vendita su internet le possiamo regolare come ci pare, perché la legge su questo non dice niente ed è silente. Niente di ragionevole e di razionale mi dice come scegliere fra l’argomento contrario e l’analogia.

Ma quale era l’idea di Ross di ragione? Come fa il giudice a scegliere fra analogia e argomento contrario? Eppure i giudici scelgono e scelgono continuamente e dopo un poco questa scelta si standardizza, dopo cioè che diversi giudici si sono pronunciati su quel determinato argomento e hanno prodotto sentenze, che di prassi si dice che hanno fatto “giurisprudenza”. Ross dice che la ragione non è nient’altro che l’ideologia normativa, cioè quel ruolo che i giudici acquisiscono di vedere nel loro diritto. Di nuovo non è un elemento, testuale, procedurale e formale che risolve il problema, ma una convinzione del giudice, ovvero l’abituarsi a risolvere le cose in una certa

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maniera. Quindi la ragione è quella determinata ideologia che i giudici esprimono e condividono in maniera più o meno esplicita o implicita. Facciamo un esempio di maniera esplicita che viene dai paesi del common law. E’ chiaro che meno oggettivanti sono le fonti del diritto più è facile che i giudici siano in disaccordo; cosa è successo? Per la prima volta nell’ordinamento inglese è stata codificata una dichiarazione dei diritti, “Humain rights act”, questo è stato fatto per un motivo semplice, perché tutte le volte che si doveva analizzare un caso sui diritti, i giudici scavalcavano il diritto inglese e si appoggiavano alla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per mettere fine a questo si approva la dichiarazione di cui sopra. Solo che in un sistema che vive dal 1600 senza dichiarazione dei diritti, questo era sbandante e dissero che sarebbe entrato in vigore dopo due anni, per aver tempo di conoscerla, ma soprattutto per dar tempo ai giudici su come applicarla. Cioè creano quella ideologia comune che li permetterà di decidere come applicare. Questo è un caso di un’ideologia normativa costruita. Ideologia normativa è questo, quello che in ogni comune quell’ideologia che caratterizza l’insieme degli operatori giuridici di un determinato ordinamento.

Lacuna abbiamo detto che è un buco, ovvero una norma che manca. Invece la lacuna più frequente è quando si hanno due norme contraddittorie, visto che nel ns ordinamento vengono prodotte migliaia di legge l’anno. Se io ho due norme contraddittorie il giudice non sa cosa fare. Ci sono più criteri: il primo, si risolve con la legge di grado superiore che prevale sulla legge di grado inferiore. Il secondo, la contraddizione è fra due norme approvate in epoca differente, allora si dice che la legge successiva nel tempo abroga quella precedente (si dice che il legislatore ha voluto cambiare la legge precedente, anche se magari il legislatore manco sapeva che esisteva legge precedente). Terzo caso è il caso in cui si affida al giudice il compito di ricostruire lui un codice che non esiste e si dice che alcune leggi sono generali e si dice che altre sono speciali. Si dice in questo caso che la legge speciale deroga alla legge generale. Di questi criteri alcuni sono normativamente stabiliti, nelle preleggi si trova che la norma superiore prevale su quella inferiore, ma altri non so normati con un testo. Per esempio si ricava dai principi dell’ordinamento che la legge successiva abroga la precedente; si desume, non c’è scritto da nessuna parte. Si ricostruisce dai principi dell’ordinamento visto che la volontà del legislatore è vincolante ed entra in vigore si desume che quelle vecchie in contrasto vengono abrogate. Dai principi dell’ordinamento non si ricava nemmeno la differenza fra legge generale e speciale. Normalmente questo rapporto lo stabilisce l’interprete. Per es prendiamo il diritto sull’immigrazione. La norma riguarda chi affitta o chi da alloggio cmq ad un migrante senza permesso di soggiorno. Questa è stata una norma introdotta specificatamente e dice sommariamente:”E’ punito chi affitta ad un immigrato clandestino approfittandone per trarre un ingiusto profitto”, cioè ne trae profitto perché se ne approfitta della sua condizione di illegalità. Problema non indifferente, perché questa norma era il 5 bis e il 5 diceva che puniva il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Problema delle due norme. Il dare un alloggio è un caso particolare di un caso più generale. Sembra caso speciale rispetto a quella generale. Salvo che l’elemento psicologico è descritto diversamente. Paradossalmente mentre la condotta del 5bis è più specifica, l’elemento soggettivo è più generale. Allora qual è speciale? I penalisti stanno discutendo da un anno quale è quella generale e quella speciale. Per dire insomma che non è un problema di ragione. Prima o poi i giuristi si metteranno d’accordo, con le varie sentenze di tutte le corti, e la cosa si stabilizzerà. Ovvero i giuristi cominceranno a condividere per cultura questa cosa. Si sta

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cioè formando un’ideologia normativa e non è certo la ragione astratta che mi ha risolto il problema. Ma a volte anche i criteri vanno in contrasto. Io posso avere la legge superiore antecedente nel tempo alla legge inferiore. Posso cioè avere il regolamento successivo alla legge. Prevale il criterio di temporaneità o di gerarchia? E’ una delegificazione implicita o no? Tendenzialmente si tende a dire che prevale la gerarchia perché è normata, ma dipende, perché nei regolamenti verso la PA, prevale la temporaneità. Caso ancora più complesso quando a scontrarsi sono il criterio di temporaneità fra norme speciali e generali, quando cioè la legge speciale è antecedente alla legge generale. Quale prevale? Prevale la legge speciale in quanto speciale, o quella generale per il criterio della temporaneità? Qualcuno suggerisce di andare a vedere la volontà del legislatore (che non esiste). Se il legislatore voleva fare una legge speciale che normava tutta la materia, vale la seconda. Se invece il legislatore voleva fare una legge generale e astratta tenendo però ferma la legge speciale in determinati punti e principi allora prevale la prima. Ma il problema è che la volontà del legislatore non esiste; infatti molto spesso i parlamentari votano i provvedimenti, magari anche all’unanimità ma se si prendono le dichiarazioni di voto dei gruppi consiliari di RC e di An si vede che votano si uguale, ma con motivazioni completamente diverse.

VI lezione 2 marzo 2010

La ragione non è, come vorrebbe la teoria giuspositivista quello strumento che colma le lacune giuridiche, ma ragione è ideologia normativa. Se noi torniamo indietro questa ideologia normativa è la fonte normativa per eccellenza, cioè quella che nel grado di oggettivazione dovrebbe essere quella inferiore che viene anche dopo la consuetudine, è in effetti la ideologia normativa per eccellenza secondo Ross. Se noi prendiamo per esempio quella che per i positivisti è la prima fonte per eccellenza, per i positivisti, ovvero la legge, sia essa costituzionale o ordinaria, ci scontriamo con quel paradosso da cui siamo partiti, ovvero cosa fa sì che un pezzo di carta che si chiama Costituzione o Gazzetta ufficiale abbia un valore vincolante non tanto sui cittadini ma sui pubblici funzionari. La risposta è l’ideologia normativa, quella che sotto altre vesti Ross chiama coscienza giuridica formale, cioè quella acquisizione di mentalità che si ha attraverso il processo di socializzazione che ci porta ad essere giuristi. Quindi quella fonte che è in fondo al grado di oggettivazione che dovrebbe appunto essere l’ultima, è in effetti la fonte cardine che mi consente a tutte le altre fonti di essere considerate fonti del diritto. Ross fa il paragone della fontana, dalla quale sgorga l’acqua. Uno si mette sotto con il bicchiere e prende l’acqua, ovvero le leggi (la fonte del diritto in questo caso è proprio la fonte stessa). Ma non è così ci sono norme che danno una norma più completa, ossia la legge, ma che però va adattata ad un caso singolo e ci sono fonti che non danno nemmeno una norma ed essa va ricostruita. Fonte del diritto è qualsiasi cosa il giudice pone più o meno esplicitamente quando si trova ad argomentare a fondamento delle proprie decisioni, più sostanzialmente ciò che influenza la propria decisione. E quello che il giudice usa e giudica legittimo dipende dalla sua coscienza giuridica formale e ideologia normativa. Che abbiamo una certa garanzia che sia comune dal fatto che i giudici usano una medesima ideologia normativa e anche quando non sono d’accordo fra loro, lo sono nella modalità e sugli argomenti da usare nella discussione se una norma deve essere presa o meno come fonte del diritto. Questo è il nucleo essenziale della tesi di Ross. Ricapitolando. Il diritto è prima di tutto una cultura che porta le

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persone che la condividono a vedere le cose in un certo modo, a ritenere alcune cose legittime ed altre illegittime, a considerare alcuni testi una fonte sacra a cui riferirsi per discutere certe cose. Questo è il dado centrale. Da qui derivano tutte le conseguenze della teoria realista di Ross. Questa è la pietra angolare del suo edificio. Ross la chiama coscienza giuridica formale quando si riferisce ad un singolo giudice, la definisce ideologia normativa quando si riferisce all’ordinamento giuridico nel suo insieme. Questa cosa alla fine mi determina cosa è considerato concretamente fonte del diritto, quali sono i libri sacri, gli argomenti utilizzati ecc. Tutto questo li determina questa cultura comune condivisa. Se questa impostazione ci sembra sorprendente, vuol dire che abbiamo avuto una minima di socializzazione giuridica ma di stampo positivista, cioè pensiamo che il codice civile sia una fonte del diritto per un potere magico del legislatore del 1942, ma se ci pensiamo queste cose sono normali (es del bambino che impara a conoscere le cose insieme al linguaggio: il bambino impara che una sedia si chiama sedia e contemporaneamente capisce a cosa essa serve). L’idea centrale di Ross è questa, l’idea che ridefinisce il diritto dal suo inizio, dalle fonti del diritto, la vera Grundnorm per usare l’espressione di Kelsen. Mentre quella di Kelsen è una concezione formale, quella di Ross è una concezione sostanziale, realistica. E’ cioè il modo dei giuristi di vedere le cose che costituisce le fonti del diritto. Fa parte della ragione e dell’ideologia normativa e della coscienza giuridica formale il modo in cui si interpretano le fonti del diritto. Infatti, quando si parlava delle lacune e si diceva di come le si risolvono, si era visto che solo in un caso si risolveva il problema della lacuna con le preleggi (gerarchia delle fonti del codice civile), ma viceversa tutte le altre si risolvevano con la cultura giuridica. Eppure nella produzione della norma singola concreta sono più i casi che si risolvono con il criterio della legge speciale e della temporaneità che non con il caso della gerarchia. Ovvero quando il giudice sentenzia, sovente motiva la sua decisione sia con il fatto di aver fatto prevalere la legge speciale, sulla ordinaria, sia il fatto che una legge è successiva all’altra. Ma questi criteri (specialità della legge e temporaneità) contrariamente al criterio gerarchico non sono scritti da nessuna parte.

Parlando di interpretazione Ross parte dal sistema classico. E Ross dice che per interpretare una norma bisogna partire dal sistema classico e prima di tutto bisogna capire l’enunciato linguistico cosa contiene (questo assunto presuppone che già siamo in epoca moderna, dal fine 700 in poi, quando c’è un legislatore che fa norme). La seconda cosa da fare nell’interpretare una norma è la ricostruzione dal precedente una norma generale. Interpretare significa dice Ross capire innanzitutto il significato e questo si fa attraverso le regole semantiche, cioè si cerca di capire il significato delle parole, le regole sintattiche cioè si cerca di capire come le parole stiano insieme, in sintesi la normale comprensione di un testo. Ma quando noi (noi studenti) leggiamo e comprendiamo un testo, non lo facciamo tecnicamente, nel senso che si dice “ora si applica le regole semantiche, ora quelle sintattiche”. Ci viene in automatico. E questa cosa dell’automatismo avviene nel momento in cui siamo dentro al determinato tema che in campo giuridico altro non è che l’idelogia normativa. Terza cosa: dopo la comprensione dobbiamo decidere se quell’enunciato linguistico contiene una norma, e anche questo non è così banale. Le norme si possono esplicitare in modo molteplice. Normalmente le norme non sono espresse tipo comando (come i dieci comandamenti: non uccidere, non desiderare la donna di altri), ma sono espresse in modo consequenziale e rivolto ai funzionari pubblici, ovvero “se uccidi, ti metto in carcere”. Capire che è una norma è complicato, perché la

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semplice formulazione linguistica non mi dice che è una norma. Facciamo tre esempi diversi: 1) “Se l’acqua bolle”, non è una norma; eppure è formulata “se…allora”;2) “Se piove prendi l’ombrello”, non è una norma; eppure è formulata “se…allora” con la conseguenza; 3) “Se commetti un omicidio sarai condannato a 30 anni di detenzione..”, questa è una norma. Nella prima è descrizione e semmai è una norma fisica, la seconda il confine con la norma è labile, poiché c’è la consequenzialità, ma è un consiglio. Devo conoscere a fondo il sistema culturale e sociale per distinguere il consiglio da una norma (per esempio se il seguente enunciato linguistico:”non uscire senza giubbotto altrimenti ti ammali”se lo dico ad un amico è un consiglio, ma se lo dico al proprio bambino è un ordine, quindi una norma). Mi serve quindi una cultura che mi serva per comprendere non solo l’enunciato linguistico, ma anche la situazione in cui venga pronunciata. E arriviamo dunque alle norme giuridiche che tendenzialmente implicano l’idea che ci sia un corpo di funzionari dello stato adibiti a verificare che la norma è stata o meno realizzata e a sanzionare le mancata realizzazione. La norma dunque non è tanto rivolta ai cittadini ma a questo organo burocratico. Se io prendo gli enunciati dei codici, e gli contestualizzo non come dice Kelsen nell’ordinamento giuridico formale, ma nel reale vita del funzionamento della burocrazia statale, io non riesco a capire che quella è una norma giuridica. Ancora, si ripete: al di là delle regole semantiche, sintattiche, logiche, quello che è decisivo per individuare un enunciato, è una cultura giuridica, ovvero un’ideologia normativa. Ma, c’è un grosso ma. Uno stesso enunciato linguistico, infatti, può contenere più norme giuridiche. Può sembrar strano, ma se fosse così evidente che un enunciato linguistico da una sola norma, gli avvocati non servirebbero e campano perché riescono dare molti significati ad uno stesso enunciato linguistico. Esempio: art.19, secondo comma lett.d) T.U. immigrazione e art. 1 dlgs sanità penitenziaria. Il primo dice che non è espellibile il coniuge o il parente fino al 2° grado di cittadino italiano. La seconda dice che sono equiparati, in materia di assistenza sanitaria, ai cittadini italiani anche privi di permesso di soggiorno, i detenuti o internati negli istituti di reclusione. In tutte e due gli enunciati linguistici abbiamo il termine “o” e un proseguimento “di cittadino italiano” e “di reclusione” che si riferisce a tutt’e due i termini nel mezzo al quale sta “o” o solo al secondo? Cioè è espellibile sia il coniuge e il parente, o solo il parente? Beneficia dell’assistenza il detenuto o solo l’internato? In tutt’e due i casi posso ricavarne due norme. A me la scelta. Quello che succede, (salvo il caso inglese che dicono ai giudici di mettersi d’accordo prima, ma lo fanno solo in casi eccezionali come l’humain rights acts), è che ci sarà qualche giudice che lo interpreta in un modo, qualche giudice che lo interpreta in un altro, e poi piano piano nei vari gradi di giudizio si assesta un’interpretazione che va per la maggiore. Poi qualche avvocato ci prova, e qualche penalista argomenta, su una rivista, che l’interpretazione data finora è sbagliata, allora qualcuno si riappella alla cassazione e questa da ragione a questo avvocato e/o penalista. E dopo dieci anni la norma cambia nell’interpretazione e di fatto nel suo significato corrente, o meglio nel significato riconosciuto. Così vive, così si trasforma, così si modifica il diritto e spesso e volentieri senza le modifiche apportate all’enunciato linguistico. Quindi enunciato linguistico e norma, possono contenere più norme. Siamo arrivati al punto che abbiamo ricavato da un enunciato linguistico una norma e abbiamo constatato due problemi: stabilire il campo di applicazione della norma e eventualmente verificare il suo contrasto con altre norme nell’ordinamento, perché quando ho ricavato la norma devo sapere se applicabile a quel caso

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concreto. Questo implica sapere qual è il suo ambito di applicazione e stabilito qual è il suo ambito di applicazione esso può configgere con altre norme e il conflitto può essere di più tipi. Ma attenzione, stiamo parlando di un conflitto deontico (deontologia = il dover essere), perché+ normalmente i conflitti sono semplici quando sono descrittivi (ad es. questa cosa è bianca, quest’altra è rossa). Ma se il conflitto è deontico, esso non è descrittivo ma normativo, deve cioè imporre due comportamenti incompatibili. Ad es il c.d.s.. La segnaletica verticale è una norma. Non scritta, ma grafica. Se io giungo ad una intersezione e le strade sono solo due o a destra o a sinistra. Sulla strada dalla quale provengo c’è segnaletica di stop e poi c’è un cartello che mi obbliga a svoltare a sx. Ma se sulla strada di sx c’è un segnale di divieto di accesso, ecco che sono in un caso di conflitto normativo. Il conflitto può essere sia per Ross che per Kelsen, totale-totale, nel caso di questi due cartelli che si contraddicono. Poi il conflitto potrebbe essere totale-parziale, ovvero che tutto quello che prescrive una norma è in contrasto con una parte che prescrive un’altra norma. Es pratico: se nella strada a sx il divieto di accesso è solo dalle ore 8-20, il conflitto è solo parziale, perché dalle ore 20-8 non c’è conflitto. Posso infine avere un contrasto parziale-parziale, quando alcune prescrizioni di una norma sono in contrasto con una parte di un’altra norma. Quando abbiamo definito questo contrasto che contiene come abbiamo precedentemente detto tutta una serie di operazioni (capire che un enunciato linguistico contiene una norma o anche un segnale stradale, capire qual è il significato di quella norma e che potrebbe contenere più significati, verificato che nell’ordinamento ci sono altri enunciati linguistici o grafici e che anch’essi contengono norme, visti se qualcuna è in contrasto) dobbiamo risolvere il problema del contrasto e lo risolviamo con i criteri che si dicevano la lezione scorsa, ossia il criterio temporale, quello speciale e quello gerarchico. Ma a monte c’è un criterio banale e non è nemmeno detto che si segua o meglio spesso i giuristi lo dicono di non seguirlo e sarebbe: dato che un enunciato linguistico ha più norme, interpretiamolo nella maniera in cui la norma che ricaviamo non confligge con norme ricavabili da altri enunciati linguistici, faccio cioè la selezione a monte. Prima di andare a vedere i criteri che si usano per risolvere i conflitti, andiamo a prendere quelle norme che non confliggono, ovvero si fa una semplificazione. Questo lo fa la Corte costituzionale, quando il giudice si rimette al suo giudizio. La corte spesso dice che non abroga la legge perché c’è un modo di leggerla che è costituzionalmente compatibile. Questo è un modo di leggere i testi normativi, in modo che siano costituzionalmente compatibile, e siamo dunque nel campo dell’ideologia normativa. L’operazione dell’interpretazione è molto complessa e non c’è nessuna norma che prescrive come ci si deve attenere, ma solo con lo strumento che Ross definisce ideologia normativa.

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