Homo Faber: l'operare dell'uomo nel delta del Po

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Homo Faber: l’operare dell’uomo nel delta del Po

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La ricchezza, varietà e complessità della storia del Delta del Po ne fanno un luogo ideale per la creazione di un museo territoriale diffuso di moderna concezione

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Homo Faber:l’operare dell’uomo nel delta del Po

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Piano ecomuseale del Parco del Delta del Po“Valorizzazione del Patrimonio Culturale e Naturale e della Vitalità del Territorio Rurale” Azione 1.2.5 “Sviluppo di formule organiz-zative a carattere collettivo” - Pal Leader+ del Delta emiliano-romagnolo

Homo faber: l’operare dell’uomo nel delta del Po

Parco Delta del Po Emilia-Romagna - Responsabile progetto, Direttore, Lucilla Previati - Coordinamento amministrativo, Francesca Ravalli

Testi Aniello Zamboni

Coordinamento editoriale Lucia Felletti

Immagini fotograficheArchivi fotografici: Parco del Delta del Po Emilia-Romagna, Comune di Argenta, Comune di Cervia, Comune di Comacchio, Comune di Ravenna, Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Ravenna V. Arbali, M. Rebeschini, A. Samaritani, N. Spadoni, S. Stignani

Parco Delta del Po Emilia-RomagnaC.so Mazzini, 200 - 44022 Comacchio FE - www.parcodeltapo.it - [email protected]

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Presentazione Le grandiose opere di bonifica idraulica che si sono succedute nel secolo scorso hanno modificato pro-fondamente il territorio, in particolare il Ferrarese sud-orientale, e, quasi ovunque, l’acqua ha lasciato il posto alla terra.In questo spettacolo offerto dall’immenso “mare di terra”, che muta colore secondo le colture e con l’alternarsi delle stagioni, e dall’acqua delle valli re-sidue che col cielo hanno un unico colore, è faci-le lasciarsi travolgere dalla meraviglia offerta dalla natura e dimenticare l’incessante e operosa fatica dell’uomo perché la terra e l’acqua diano frutti e non siano travolte nella lotta che il fiume e il mare da sempre si combattono: il primo per aprirsi un varco nel mare, il secondo per respingere il fiume e invadere la terra.

Le chiaviche Ecco allora, perché questo non accada, i grandiosi impianti idrovori di oggi e, testimonianza dei seco-li passati, le chiuse idrauliche dell’Agrifoglio (sec. XVI), della Torre Abate (secc. XVI-XVII) e della Tor-re Palù (sec. XVIII), l’ultima: opere in muratura per regolare il deflusso a mare delle acque interne del-le terre della bonifica estense della seconda metà del Cinquecento, attraverso un sistema di porte a vento, o “vinciane”, che si richiudevano automati-camente nelle fasi di alta marea.Le chiaviche, una dopo l’altra nello spazio e nel tempo, invano hanno inseguito il mare che il Taglio di Porto Viro (1604) allontanava colmando la sac-ca di Goro e compromettendo la grande impresa di Alfonso II d’Este, la quale nell’arco di quindici anni (1564-1579) era riuscita a portare all’asciutto l’85% dei territori paludosi del Polesine di Ferra-ra. Un’impresa colossale, una delle più grandi mai

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tentate in Europa a quell’epoca. Sono tre manufatti di ragguardevole struttura e bellezza architettoni-ca, riportate da un recente restauro al pristino stato creando attorno l’ambiente che ne documenta l’an-tica funzione.La Torre Abate, cosiddetta dal porto omonimo che controllava, è l’unica ad avere la conformazione a torre: segno anche della sua funzione difensiva e di controllo. È un’elegante ristrutturazione di un manufatto costruito (presumibilmente nel 1568-69) dai bonificatori estensi operata da Luca Danese, l’architetto che disegnò il volto di Comacchio nei primi decenni successivi la devoluzione del Ducato di Ferrara alla Santa Sede (1598) e che la città ancor oggi ostenta in molte sue parti.Ammirevoli sono la semplicità del paramento delle superfici murarie in mattoni a vista, il ricco corni-cione in cotto, il rientrare dei lati minori dell’edifi-cio secondo una linea spezzata, le cinque grandi conche con volta a botte, la centrale è più grande,

che poggiano su piedritti con avancorpi col cap-puccio in pietra d’Istria.Forse il piano delle conche è l’antico manufatto co-struito dai bonificatori estensi sul quale Danese ha innalzato la parte superiore dell’edificio.

Mesola Mesola, il Po da’ lati e ’l mar a fronte,/ e d’intorno le mura e dentro i boschi/ e seggi ombrosi e foschi/ fanno le tue bellezze altere e conte;/ e sono opre d’Alfonso, e più non fece /mai la natura e l’arte e far non lece;/ ma che la valle sembri un paradiso/la donna il fa che n’ha sembianti e viso.Torquato Tasso, Rime. In questo armonico unirsi della natura dei luoghi e dell’arte (le opere degli uomini) ammiriamo il ca-stello e il grande bosco della Mesola: la “delizia”

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con la quale Alfonso II celebra la sua grande im-presa; il monumento alla “terra costruita” dall’uomo con arginature, canali collettori, botti, chiaviche. Il grandioso edificio, nonostante i secoli trascorsi, nulla ha perso della sua imponenza e bellezza ar-chitettonica: a pianta quadrata presenta agli angoli torri merlate, pur esse quadrate, disposte a quaran-tacinque gradi, che poco s’innalzano sopra la mole centrale. Attorno, su tre fronti, il recinto delle scu-derie, a due piani verso l’esterno e uno, a porticato, verso il cortile; dal fronte orientale fuoriesce ancor oggi la larga strada alberata che divideva in due il parco recintato e raggiungeva il litorale. Resta buo-na parte del Gran Bosco della Mesola che pur tra traversie e gravi ferite rimane palpitante nelle sue mille forme di vita.

Pomposa Nell’accentuato dinamismo idraulico del territorio e nella necessità di costruire barriere esterne e in-terne per “costruire terre” e perché, come leggiamo nella lapide che riporta un carme latino di Giovan-ni Pascoli,

“Dovessero i campi arati retribuire i buoni contadi-ni, / il sole splendesse lieto ai lieti e il faticoso lavoro fosse pegno di riposo,” (1)

si distinguono le opere dei monaci dell’abbazia di Pomposa, insediatisi in un luogo, l’Isola Pompo-siana, dove la natura era rimasta in gran parte in-violata.La regolazione delle acque e delle opere pubbli-che, argini, canali, fossi, strade, e la disciplina della loro conservazione portò l’abbazia ad essere il Mo-nasterium in Italia princeps e l’Isola Pomposiana ad essere ricca, come recita il carme pascoliano,

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di seminati, pascoli, ville, vino e miele, di biade e di tessuti di lino, di pingue gregge nei chiusi, e nei cortili di ogni specie di animali da ingrasso, dove il muggito dei buoi annunciava la luce della stella del mattino (2).Tra le mura del monastero, ove incontriamo il gran-de abate Guido degli Strambiati, il musico Guido d’Arezzo, il riformatore della Chiesa Pier Damiano, i monaci raccolsero e conservarono per l’umanità “la voce degli antichi padri”: Livio, Cicerone, Ora-zio, Seneca, Varrone. Sì che nella lettera che un chierico invia ad un amico (1093) leggiamo: “Nes-suna Chiesa, nessuna Città. Nessuna Provincia, nemmeno Roma, centro del mondo, può competere con Pomposa per la ricchezza di libri e di santi”.Ma la violenza della natura ebbe il sopravvento sulla fatica degli uomini, non assente l’umana insipienza, e sconvolse profondamente il regime deltizio la-sciando la gloriosa abbazia nella desolazione della palude immota. Oggi chi precorre la strada Romea,

la Venezia Ravenna, sul “mare di terra” ricostruito dalle recenti bonifiche, costellato dalle tante case tutte eguali costruite dalla Riforma fondiaria del Delta, vede sin da lontano alzarsi, maestoso e ros-seggiante, il campanile di Pomposa.L’antica torre (1063) dall’alto dei suoi cinquanta metri è tornata a dominare le contigue valli residue e le sconfinate pianure, fertili le une e le altre. È un capolavoro di architettura e ornamentazione come l’atrio della chiesa dell’abbazia.A creare la leggerezza dell’atrio non sono le tre ar-cate mediane che si aprono sul fronte ma la policro-mia e la vivacità del paramento murario: i mattoni rossi e gialli con diversità di toni e di forme, le vive colorazioni delle scodelle incastonate come gioielli dentro una raggiera, le leggere transenne circolari, magnifiche per i due grifoni attorno all’albero della vita e per la fascia nastriforme in cotto che le cir-conda con figurazioni fitomorfe e zoomorfe; per le altre fasce nastriformi in cotto che corrono per ben

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tre volte per tutta la parete, sulle quali in un tenue rilievo si alternano foglie, quadrupedi, volatili (3).Aggiungiamo le tre sculture in tufo, un leone, un’aquila e un pavone, che in doppio sono poste ai lati del triplice fornice centrale. L’umanità nella sua dimensione temporale ed eterna è il tema che le accomuna: rappresentano l’uomo terreno, com-posto di corpo (leone) e di anima (aquila), e la vita ultraterrena (il pavone è simbolo dell’immortalità) (4).Invitano a soffermarci anche le due croci che s’in-nalzano alla confluenza delle ghiere degli archi, ai lati della croce mediana. In quella di sinistra, nel cerchio che i racemi tracciano all’incrocio dei due bracci, la mano benedicente del Padre eterno mostra la signoria di Dio sul tempo, simboleggiato dal sole e dalla luna i quali inoltre ne segnano il trascorrere e il computo: il sole il giorno, la luna il mese.Il cerchio di quella di destra accoglie l’Agnello

dell’Apocalisse che regge la croce: è la raffigura-zione della fine dei tempi quando non vi sarà più notte/ e non avranno [gli uomini] più bisogno di luce di lampada, / né di luce di sole (5).Mazulone è l’autore della grande meraviglia dell’atrio: una pagina che introduce alla lettura del grande libro effigiato all’interno della chiesa nelle storie del Vecchio Testamento, del Nuovo, dell’Apo-calisse, che si chiude nell’immagine del Cristo sedu-to sul trono della sua gloria.Il nome è nella scritta della lapide alla destra delle arcate mediane; nelle parole leggiamo la presen-tazione dell’opera e l’invito dell’artista a ricordarlo alla misericordia di Dio.

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Comacchio

Palustri valli ed arenosi lidi,aure serene, acque tranquille e quete,marini armenti, e voi che fatti avetea verno più soave i cari nidi,elci frondose, amici forti e fidi,[…] (6).

Pare di leggere le pagine nelle quali il cardinale Guido Bentivoglio, che con pochi ferraresi delle prime famiglie accompagna il legato Pietro Aldo-brandini in visita a Comacchio nella primavera del 1598, esprime la propria commossa meraviglia di fronte allo spettacolo che la laguna comacchiese offre.“Comacchio - scrive Guido Bentivoglio - ha dell’unico… Stagna lunghissimamente il mare là intorno fra terre, e il mare si converte in più valli, e in queste contrastando l’arte con la natura o più

spesso favorendosi l’un l’altra scambievolmente si veggono poi nascere quelle sì copiose e sì mirabil pescagioni che rendono per tutto sì celebre il nome di Comacchio” (7).Comacchio è dunque questa: le valli, le pesche, il mare. La città, invece, scrive lo stesso Bentivoglio, “è un’adombrata e rozza immagine di Venezia”; anche al papa Clemente VIII, il nuovo signore che la vi-sita il 26 settembre 1598, essa appare “In uno stato compassionevole, scarsa di abitatori e di abitazioni, povera” (8).Non può essere diversamente: secoli di durissima dominazione estense avevano inciso mortalmente sull’economia del popolo comacchiese e di conse-guenza sull'assetto dell’abitato.Non ha torto Guido Bentivoglio: non sono anco-ra iniziate “le opere del regime” che nei decenni immediatamente successivi daranno alla città quel volto che si manterrà presso che identico fino alla

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governanti, la Santa Sede succeduta agli Estensi (1598), ad interventi di natura prevalentemente ar-chitettonica.Sono le “opere del regime” che mettono letteral-mente sottosopra l’abitato e le valli, investendo il primo con un eccezionale piano di risanamento urbanistico e le seconde con ingenti e radicali la-vori di bonifica che le avviano verso la “perfezione idraulica” e ne potenziano pertanto la produzione.Sono molte e significative sia nell’ambito delle co-struzioni religiose che in quello delle civili: le chie-se del Carmine (1604), di S. Pietro (1605), di S. Nicolò (1619) e del S. Rosario (1624), di S. Carlo (1620), delle Stimmate (1631) del Suffragio (1647), la prima pietra della nuova cattedrale (1659), la Loggia del Grano (1620), il Ponte della Cà o delle Prigioni o degli Sbirri che dir si voglia, il Ponte dei Trepponti o Pallotta (1634), Il Porticato dei Cap-puccini (1647). Sono tutte edificate lungo i due assi che si snodano da occidente ad oriente e da mez-

metà del secolo XX, quando le bonifiche muteran-no, fin quasi ad annullarlo, l’originario rapporto tra l’abitato e l’acqua.È un’associazione simbiotica, quella tra Comacchio e l’acqua, che ben illustrano il grande affresco del Ferrariae Ducatus nella Galleria delle Carte Geo-grafiche nei Palazzi Vaticani, e la pianta in prospet-tiva Comaclum al piede destro dello stesso affre-sco, eseguiti da Egnazio Danti nel 1583, il primo, e da G. B. Magni tra il 1647 e il 1650, l’altro: un luogo senza territorio di terra e una città sull’acqua; un luogo e una città in stretta compenetrazione.Conseguenza vuole che l’economia, particolarissi-ma, non possa non trovare il proprio esistere che sull’acqua. Un legame che Mattei pone ben in evi-denza con le grosse barche da pesca che staziona-no nel porto dell’isola e con gli esili barchini per la pesca in valle, che si aggirano nei margini. Al-tra conseguenza è l’inamovibilità del sito ove Co-macchio sorge, inamovibilità che costringe i nuovi

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zogiorno a settentrione, una strada di terra il primo, una “strada” d’acqua il secondo: sono l’uno e l’altro i due bracci della croce che segnano l’abitato con al centro la torre civica.Sono tutte di natura architettonica, stante la ricorda-ta inamovibilità del sito ove Comacchio sorge. Non mancano tuttavia le opere idrauliche tra le quali l’escavazione del canale Pallotta (1633), così chia-mato in onore del cardinale legato di Ferrara G. B. Pallotta (1631-1634) sotto la cui legazione venne compiuto.Il canale, un vero e proprio capolavoro di inge-gneria idraulica, opera (1630) di Giulio Buratti e Paolo Floriani, (9) porta lo stabilimento vallivo alla perfezione idraulica: consente alla forza vivifican-te e fecondatrice dell'acqua di mare di raggiunge-re tutte le valli le quali, separate come sono dal mare, diverrebbero altrimenti una mefitica palude. Anche alla città, che attraversa penetrandovi in quattro rami (per poi proseguire fino alla lontana

valle del Mezzano), il canale arreca beneficio: in essa si riversano acque vive e “possono i legni di mare carichi trasferirsi qui nella porta detta dei tre ponti dal magnifico ponte” (10) omonimo, innalzato su disegno dell’architetto ravennate Luca Danese. Come il Ponte della Cà o delle Prigioni e il Ponte di S. Pietro: “ponti di mirabil struttura, che a cavallo all'incrociatura di due canali porgono comodità alle barche di seguire il loro viaggio e agli habitatori di camminare liberamente per la città” (11).Il canale, poi, elimina, rendendo l’aria più salubre, il notabil fetore, che d’estate in particolare invade l’abitato a “causa dell’acqua salata che muore nei canali” e “dell’immondizia che gettano quei popoli [i comacchiesi] nei medesimi canali” (12).Centro valorizzatore della “città della nuova fonda-zione” è la moderna cattedrale dedicata come l’an-tica al patrono S. Cassiano, consacrata nel 1740: un edificio di grandezza sproporzionata, se raffrontato al contesto urbano di Comacchio che domina con

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la sua mole e nel quale pare inserirsi a forza, quasi a simbolo del ripristinato potere, l’ecclesiastico, sul-la città e sulle valli (1598).Conclude “la città nuova” al chiudersi del Sette-cento l’edificazione del neoclassico Ospedale degli Infermi (1784). La grandiosa fabbrica, opera dell’ar-chitetto ferrarese Antonio Foschini (1741-1813) si eleva a fianco del Ponte della Cà, in una zona che segna il punto d’incontro di tre canali maestri e di due strade; a poche decine di metri dal Trepponti, di fronte all’antico carcere: l’unica testimonianza, forse, della dominazione estense.

La Comacchio “minore” Quella finora descritta è la città monumentale con la quale ovviamente coesiste la Comacchio “mino-re”. Infatti, una città è un “luogo totale” e non un insieme di monumenti da distinguere; è un corpo

organico in cui accanto alle “opere del regime”, alle carceri, ai rari palazzi dei benestanti e alle case del ceto medio, hanno spazio la selva delle umili case dei poveri, così basse che è possibile toccarne il tetto con la mano, i ponti di modesta fattura, i ca-nali con una portata d’acqua limitata e... le “fosse”: i corsi d’acqua privati che si immettono nei canali esterni.In questa Comacchio “minore” un cenno particola-re meritano “le case dei poveri”.Le troviamo sparse in tutta la città ma presso che riunite e in progressivo degrado nelle “androne”, negli “andronini” e negli “usci senza porta”: lun-ghe “corti - strada” le prime, vicoli lunghi e stretti i secondi, stradette interne che si affacciano sulla pubblica via mediante lunghi sottoportici gli ulti-mi. Gli usci senza porta (13) si aprono, come dice il loro nome, in case prive di imposte e mostrano fin dall’ingresso il vicolo, un alveare di case ap-poggiate le une alle altre, che si stende al di là

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del sottoportico; a volte sono veri anditi angusti, budelli dove il sole non penetra neppure durante il solstizio d’estate, impregnati di un odore acre e salmastro. Tutti, androne, andronini e usci senza porte, creano la continuità tra strada - casa - canale e... laguna (14).

Pieve di San Giorgio La pieve sorge lungo la strada che da Argenta por-ta a Campotto, sulla destra del Reno, un tempo il Po di Primaro. È la più antica testimonianza (569) della Chiesa di Ravenna nel Parco del Delta del Po, se escludiamo S. Maria in Pado Vetere (anterio-re al 522), presso Comacchio, della quale restano soltanto le fondamenta messe in luce durante la campagna archeologica del 1956, all’indomani del prosciugamento della Valle Pega.L’una e l’altra, alle quali sommiamo la fulgida ab-

bazia di Pomposa, monasterium in Italia primum, e la memoria di monateri dei quali non ci rimane che il nome, testimoniano una storia che sul terri-torio intrecciò evangelizzazione e civiltà: la lode a Dio con la preghiera e con le opere degli uomini. È, infatti, solo grazie al lavoro dell’uomo che / sora nostra matre terra / […] ne sustenta e governa / e produce diversi fructi, con coliriti fiori et herba (Cantico delle creature, 20-23).Ed è il fare dell’uomo, ricondotto all’origine arcaica agricola- pastorale e distribuito nella ripetitività re-golare del tempo, quello che Giovanni da Modiglia-na rappresenta (sarebbe meglio scrivere ripresenta = rende presente) allegoricamente negli stipiti del bel portale in marmo greco che si apre nel centro della facciata della pieve.Apre la serie, a sinistra dal basso, Giano bifronte (Januarius-Gennaio), il protettore di tutti gli inizi: è seduto su uno sgabello, avvolto in un mantello; se-guono Febraio (Feb) che pota; Marzo (Mar), la cui

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figura alquanto abrasa è di difficile lettura; Aprile (Aprilis) che suona il corno: lo strumento aveva il potere di favorire la fertilità; Maggio (Madius) è un guerriero o un cavaliere che si prepara per un torneo; Giugno (Junius) arrota la falce.A destra, dal basso, Luglio (Juls) miete; Agosto (Aug) è un bottaio; Settembre (Septer) porta sul-le spalle una cesta, probabilmente contiene uva, e regge con la sinistra il segno della bilancia; Ottobre (Octub) semina; Novembre (November) sbarba le rape; Dicembre (Decembr) è armato di coltello e nella sinistra ha una cesta: s’appresta ad uccidere il maiale? (15)

Tralasciando le figure effigiate sull’architrave (due grifoni che fiancheggiavano Adamo ed Eva, ora abrasi, due uomini dai “capelli solari” ai quali se-guono i malvagi, a destra, e gli eletti, a sinistra), l’attenzione va alla lunetta ove sotto la mano del Padre Eterno è effigiato il racconto del supplizio (uno dei tanti, stante i ripetuti fallimenti) cui il san-

to titolare della pieve fu condannato: posto su una ruota di spade acuminatissime, subito si ruppero e Giorgio fu trovato completamente illeso (Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, alla voce).A ben guardare il nome del martire, il supplizio della ruota e il luogo dove la pieve sorse concorro-no al sorgere del culto in onore del santo; aggiun-giamo la leggenda che racconta la sua vittoria sul drago e il mese della festa.Il nome del santo non ha nulla di guerriero: è la traduzione del tardo greco Gheòrghios da gheorgòs, agricoltore (comp. di gè ‘terra’ e di orge ‘coltiva-re’);la ruota è l’immagine dello scorrere del tempo e del perenne alternarsi di vita-morte–rinascita, come leggiamo nell’iscrizione sulla centina della lunetta: ISTE ROTAM SPREVIT QUEM MEMBRA PER OMNIA FREGIT = VITAM DONAVIT CUI MORTEM FERRE PUTAVIT [= Questi (Giorgio) disprezzò la ruota che gli spezzò tutte le membra = (La ruota) donò la vita

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a colui al quale credette di portare la morte];la plaga acquitrinosa, ove l’agricoltura è impedita, che si stende per largo raggio attorno alla pieve è il drago pestifero che Giorgio uccide: abitava uno stagno grande quanto il mare e col suo fiato toglie-va la vita a tutti coloro che abitavano nei dintorni;aprile, il giorno della festa è il 23, la vegetazione è in pieno rigoglio; le tenebre invernali, simbolo della morte, sono lontane.Elementi tutti che sottolineano la conquistata ferti-lità del luogo, non più palude mefitica, grazie alla industriosa fatica dell’uomo. Sottolineano anche il legame col mondo agricolo-pastorale celebrato su-gli stipiti ove sono raffigurati l’eterno fluire del tem-po espresso da Giano che apre-chiude-apre tutte le porte e presiede al cominciare di ogni evento, e la quotidianità dell’operare dell’uomo, scandito dal “ruotare” delle stagioni.Sono le “fulgide cose” che Giovanni da Modigliano scolpisce come un manifesto sui margini superio-

re e inferiore dell’architrave: ANNI DOMINI MIL-LESIMO CENTESIMO XX SECUNDO INDICIONE QUINTA DECIMA - SCULPTA A IOHAne MICaNT HIC FULGIDA A MUTIGLIANO=PRO QUO QUI-QUE VIDENTROGIENT PRECE COTIDIANA [= Nell’anno del Signore millecentoventidue, indizio-ne quindicesima - Qui risplendono le fulgide cose scolpite da Giovanni da Mutigliano = per il quale tutti coloro che le vedono innalzino una preghiera quotidiana].

Sant’Alberto L’acqua delle Valli di Comacchio e del Po di Pri-maro segnano il destino di Sant’Alberto: la prima era il regno dei pescatori di frodo, la seconda dei contrabbandieri; abilissimi gli uni e gli altri per co-raggio e baldanza a portare a compimento imprese necessitate dalla sopravvivenza, delittuose per la

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legge e non per la morale. Erano “mestieri”.Oggi i pescatori di frodo e i contrabbandieri vivono solo nei racconti popolari che ne ingigantiscono le azioni; la valle e il fiume non sono più quelli di un tempo. La prima ha ridotto la sua immemn-sa distesa (Cento trenta miglia di valle che girano intorno [a Comacchio] leggiamo nelle carte che le raffigurano) a poco più di diecimila ettari, il se-condo, povero d’acqua oltre ogni dire e perfino spossessato del suo antico alveo, ha cambiato ad-dirittura nome. Pare impossibile che per il suo con-trollo si siano combattute guerre e che le case di Sant’Alberto vi fossero, un tempo, allineate sull’una e sull’altra riva.Sant’Alberto dell’antico porto sul Primaro che “por-tava” l’Adriatico nell’entroterra non ha nulla; del monastero di Sant’Adalberto, fatto edificare nel 1001 dall’imperatore Ottone III sul Pereo, l’isolotto sul delta del fiume, a circa tre chilometri dall’attuale abitato, restano alcuni frammenti in cotto e mar-

mo nel Museo Nazionale Archeologico di Ravenna. Provengono verosimilmente dalla “chiesa di pianta rotonda, con colonne di marmo” che l’imperatore fece costruire in onore del martire Adalberto. Dal Pereo, all’aprirsi del secondo millennio, partirono Benedetto e Giovanni, seguaci di s. Romualdo, per l’evangelizzazione della Polonia. Colà li colse il martirio ancor prima di dare inizio alla predica-zione (16).Oggi Sant’Alberto nell’insieme consiste in una stra-da principale la quale corre presso che diritta verso il fiume, il Primaro-Reno, che lambisce l’estremità del paese; quasi al termine della lunga strada ecco il Palazzone: un edificio dei primi decenni del Cin-quecento di ragguardevole interesse per la mole imponente e per la pregevole architettura, ancor più tale se raffrontato alla modestia del prevalente tessuto edilizio dell’abitato.Un recente laborioso e lodevole restauro ha ri-portato l’antico edificio al pristino stato: il tempo

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e ancor più l’incuria degli uomini l’avevano forte-mente degradato e compromesso la struttura. Oggi il recuperato Palazzone documenta nelle sue sale la plurisecolare identità di Sant’Alberto: la strenua lotta dell’uomo per “rubare” il pesce alla valle e la terra al fiume, per bonificare la mortifera palude e per presentare l’armoniosa bellezza dei luoghi in-torno che ne hanno preso il posto. Il Palazzone è oggi il simbolo del paese, ben diverso dai tempi in cui la sua immagine era adoprata nelle vecchie carte per contaddistinguere gli abitati posti lungo il corso dell’antico Primaro (17).

Cervia È proprio vero! La Torre di San Michele e i magaz-zini del sale attorno racchiudono tutta la storia di Cervia, anche quella trascorsa prima che essi fosse-ro innalzati (1691). Girando attorno agli edifici, an-

cor meglio al loro interno, la “città del sale”, come comunemente Cervia è conosciuta, si presenta come nel passato colla operosità dei propri abitanti “per la maggior parte artefici da confettare il sale” (18). Salinari insomma.Soggetti, i salinari, “degni di grandissima lode, im-però che sono autori di cosa non solamente giove-vole e utile, ma necessaria insieme”, perché nihil esse utilius sale et sole [= Niente è più utile del sale e del sole (Plinio, Historia naturalis)]. Senza dimen-ticare quanto siano stati altrettanto indispensabili, validi e ad un tempo esosi i proventi delle sue ga-belle e non solo negli anni (1585) in cui Tomaso Garzoni scriveva nella sua opera “monstruosa”: “ai tempi nostri si vede ancora [ ] quanto utile sia alla Camera Apostolica la città di Cervia, dove [il som-mo Pontefice] fa tanta copia di sale che basta non solamente allo stato suo, ma si distribuisce anco a molti paesi esterni, con profitto di emolumento importante” (19).

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Senza dimenticare, poi, le guerre combattute per impadronirsi del prezioso alimento, che coinvolse-ro Cervia e la non lontana Comacchio, appunto per le loro saline.Visitando oggi le saline e sentendo raccontare le antiche storie e l’abbondanza delle produzioni, non sarà facile sottrarsi al senso di meraviglia provato più di cinque secoli addietro da un raffinato erudi-to, Leandro Alberti, e raccontata nell’opera Descrit-tione di tutta Italia (20), che egli pubblicò nel 1550.Parrà di vedere attorno alla torre “tanti monti di sal bianco, in qua, et in là per le selve (che sono luo-ghi disposti per confettar il Sale)”, sì che gli “pareva che fosse impossibile di potersi ritrovar tanto sale ragunato insieme”. Ma si meravigliò “molto più, ve-dendo nella città un monte di sal bianco, che parea di marmo, qual girava intorno piedi 200. e saliva in alto 25. cosa da far maravigliar ogni uno, che non habbia veduto simili cose”.Nel corso dei secoli molte cose sono mutate: la cit-

tà vecchia, un’isola circondata dai “campi coltivati a sale”, con le sue “capannuzze di cannuzze et di paglia, per habitatione” dei salinatori, divenuta un luogo malsano, ha lasciato il posto alla città nuova sorta tra il 1698 e il 1704; i “monti di sale” non ci sono più. Ma Cervia è rimasta la città del sale e il S. Michele è lì a ricordarlo con la sua mole imponente e l’incomparabile carico di memorie consegnategli da custodire. Non è nuovo per il San Michele l’inca-rico di custode. Al chiudersi del Seicento era stato infatti innalzato “vicino a Cervia nuova” dall’appal-tatore Michelangelo Maffei, da qui il nome dato alla torre, per la “custodia” dei nuovi magazzini del sale e delle abitazioni annesse per i “ministri”.Per la salvaguardia delle saline insomma.

Classe

Dominano il piatto paesaggio che si stende intorno

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a Classe soltanto il campanile e la imponente basi-lica di Sant’Apollinare (VI sec). Della città protetta dall’ampia cinta muraria che il mosaico di Sant’Apol-linare Nuovo rappresenta assieme al grande porto non è rimasto nulla. Così dicasi della base militare che Augusto vi piantò nel 30 d.C., forte di 250 navi e diecimila soldati di marina (classiari), marinai e rematori. Anche il mare si è allontanato.Ne parlano le molte stele sepolcrali conservate nel Museo Nazionale di Ravenna o al Museo Arcivesco-vile della stessa città. Tra esse quella del centurione Caio Emilio Severo della Pannonia (Museo Arciv.), che per ventidue anni militavit (= prestò servizio militare) sulla trireme Ercole, o del dalmata Lucio Dasimo Valente (Museo Nazionale) che trascorse ventitrè anni sulla quinqueremi Victoria. Sono, le stele, tutte orme che hanno sottratto al tempo, che porta via ogni umano accidente (Leopardi, La sera del dì di festa) per precipitarlo nell’infinito silen-zio dell’eterno, la memoria del fervere delle opere

dell’uomo in quel via vai di navi, di genti prove-nienti dai più diversi paesi dell’impero, di traffici nella grande base navale e nella ben difesa città, Classe, che proprio dalla flotta (classis) prese il nome. Così ben difesa che Teodorico fu costretto ad assediarla per ben tre anni.L’intenso lavorare in mare e in terra è narrato dalle lettere incise sul marmo delle lapidi e dalle raffi-gurazioni dei “mestieri” che ammiriamo in alcune. Come nelle stele del veterano Domizio Prisco (Mu-seo Nazionale) e di Publio Londigieno (Museo Na-zionale).Il primo è un maestro d’ascia e l’ascia appunto com-pare incisa nel campo frontonale a testimoniare la sua qualità di faber a complemento della iscrizione che lo qualifica tale. La seconda è l’obbiettiva rap-presentazione dell’attività portuale di Classe: porta sul piano inferiore l’immagine di un carpentiere, faber navalis, che s’affretta nell’impegno assunto, la costruzione di una nave rostrata.

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Di Classe, non della città perché fu costruita fuori delle mura, resta, dicevamo, Sant’Apollinare.La basilica, la cui costruzione iniziò nel 540, per es-sere consacrata nel 549, è dedicata ad Apollinare, il primo vescovo di Ravenna. Ci appare fin da lonta-no annunciata dalla torre cilindrica, su fondazione quadrata, che s’innalza sul fianco nord: un’opera del X secolo alla quale donano leggerezza e bel-lezza le aperture - feritoie, monofore, bifore, trifore - che si succedono in un giro di sei per piano.Il tempio, ammirabile per l’assetto architettonico semplice e grandioso ad un tempo, è a tre navate; la mediana è larga il doppio delle laterali. Le spar-tiscono dodici colonne di marmo greco con vena-ture trasversali che poggiano su basi quadrate pure di marmo; le coronano capitelli finemente lavorati e pulvini. La grandiosità dell’interno è esaltata dalla luce che l’inonda e dalla bellezza della decorazione musiva la quale si mostra come sopra un palcosce-nico: abbraccia l’abside, il catino absidale e riempie

l’arco trionfale. In essa si incontrano cielo e terra, luce e colore, umano e divino, realtà e simbolo, fi-gurazione e trasfigurazione: nel grande prato verde s. Apollinare, effigiato nello splendore del manto purpureo ornato di api d’oro sulla tunica bianca, è il Cristo buon pastore e martire; le pecorelle che gli si avvicinano sono gli apostoli; la croce gemmata con al centro la figura di Cristo e ai lati, in alto, Mosè ed Elia nella sembianze miracolisticamente umane, e, in basso, Pietro, Giacomo e Giovanni trasfigurati in tre agnelli che guardano la croce, è presentata la trasfigurazione sul monte Tabor. Nell’arco trionfale aprono e chiudono il cammino della salvezza Betlemme e Gerusalemme: le città dalle mure gemmate.È lo splendore del paradiso quello che vediamo, raffigurato però da mani d’uomo che come tutti gli uomini continua con la propria arte l’opera del Dio operarius della creazione non dimenticando nel contempo di essere stato il suo giardiniere.

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Note

(1) Ut proscissa bonos redamerent arva colonos / [ ] /Sol laetus laetis, Labor hic foret arra quietis, Giovanni Pascoli, Anni iam sunt mille, carme latino (1910) in onore di Guido d’Arezzo, in-ciso nella lapide del muro che sul fianco destro limita la chiesa dai giardini.

(2) Mihi sata pascua villae, / mel erat et vinum, fruges et textile linum,/grex satur in caulis, erat altilis omnis in aulis / mugitu-sque boum iubar explorabat eoum.

(3) Eugenio Russo, L’atrio di Pomposa, in La civiltà comacchie-se e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo medioevo, Nuova Alfa Editoriale, 1986, Bologna, pp. 477-546, passim.

(4) Il leone è la forza, la crudeltà, il dominio, l’autorità; l’aquila è il simbolo della fede e della teologia che, come lei, si elevano al cielo; il pavone è l’immagine della vita eterna non solo perché rinasce, come l’araba fenice, rivestito di una giovinezza intera-mente recuperata (credenza di certo legata alle caduata e alla rinascita delle penne) anche perché le sue carni sono ritenute imputrescibili. Cfr. Olivier Beigheder, Lessico dei simboli medie-

vali, (ediz. italiana), milano 1989, pag. 61 e ss. Non ultimo, le gemme disseminate sulle sue piume danno l’idea della città celeste. (5) Apocalisse, 22,5.

(6) Torquato Tasso, Chiede a’ lidi ed a’ porti del mare che gli insegnino ove la sua donna sia andata a pescare…

(7) Guido Bentivoglio, Memorie e lettere, a cura di C. Panicada, Bari 1934, pp. 13-14, cit. da A. M. Fioravanti Baraldi, Una para-bola discendente. Gli insediamenti estensi, in AA. VV., Ristruttu-razione urbanistica e architettonica di Comacchio 1598-1659. L’età di Luca Danese, Ferrara 1994, p. 103.

(8) Antonio Prizzi, Memorie per la storia di Ferrara. V, Ferrara 1809.

(9) Sugli idraulici Giulio Buratti e Paolo Floriani vedi France-sco Ceccarelli, Antiquissima Civitas Resurgens Strategie urbane e politiche legatizie a Comacchio nella prima metà del Seicento, in Storia di Comacchio nell’età moderna, vol. I, Casalecchio di Reno (Bologna), Grafis Edizioni, 1993, pp. 352 e ss.

(10) Gaetano Farinelli, Storia corografica, politica e naturale

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delle Valli e Città di Comacchio, II, p. 397 e ss., ms., sec. XIX, biblioteca L. A. Muratori Comacchio.

(11) Vincenzo Coronelli, Comacchio, in Isolario dell’Atlante Ve-neto, Venezia 1662.

(12) Arcasio Ricci, Della origine della Città di Comacchio (1628), Archivio Segreto Vaticano, arm. 48, reg. 41.

(13) Filippo Carli, L’anima azzurra, Comacchio 1905, Le case senza porte, p. 75.Son vecchie case lungo i canali sedute \ Rattrappite com’avole in cenci che non sanno \ Più parlare perché hanno tante cose vedute. \ Case tristi che nulla da chiudere non hanno. \ Gli usci privi di porte inquadrano i tramonti, \ Neri inquadrano l’alba e sovra i bianchi orizzonti; \ Poi non possono celare i loro grandi squallori, \ E il vento le attraversa e le tange e ferisce. \ Povere vecchie sempre sulla strada, al di fuori, \ (Or quel vento la mia anima intirizzisce) \ Poi sulla sera, quando il rosario si sgrana \ Dal campanile e tutte fumano le vicine, \ Ciascuna d’esse è fatta più sola, più lontana. \ E mentre aprono l'altre i loro occhi di vetro \ Per non farsi dall’ombra che discende inghiottire, \ Le case senza porte più nell’onde turchine \ Non vedon, ché son cieche, il loro livido spetro. \ E, udendo le campane, si provano a morire…

(14) P. L. Giordani, Le corti di Comacchio, in La nuova città, 1954, nn. 14 - 15, p. 29.

(15) L’individuazione delle figure, talune ormai irriconoscibili, è fatta in analogia con altre sculture romaniche raffiguranti i mesi, a Modena, a Ferrara, a Parma…

(16) Cfr. Vita Beati Romualdi di Pietro Damiani e Vita quinque Fratrum di Bruno di Querfurt. Giovanni Paolo II, in visita a Comacchio nel settembre 1990, ebbe parole di ringraziamento speciale per i “fratelli” protomartiri partiti da queste valli.

(17) Cfr. Paolo Bolzani, Il Palazzone di S. Alberto, Ravenna, Longo Editore, 2000.

(18) Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Paolo Ugolino, Venezia 1596, c. 296v.

(19) Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo e nobili et ignobili, a c. di P. Cherchi e B. Collina, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1996, II, 1467.

(20) Leandro Alberti, Descrittione…, cit.