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L'apertura dell'Oriente all'Occidente e la nascita delle

ARTI MARZIALI modernedi Porfirio Federica

“ Conoscere se stessi è studiarsi mentre si agisce con l'altro ” - Bruce Lee

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Porfirio Federica, 5^bl L’apertura dell’Oriente all’Occidente e la nascita delle ARTI MARZIALI moderne.

Liceo scientifico Maironi da Ponte, anno scolastico 2014-15

Le arti marziali Giapponesi negli anni delle Grandi Guerre

La diffusione in Occidente nel secondo dopoguerra

Jigoro Kano Sensei Bruce Lee, la nuova stella del Cinema La filosofia delle arti marziali “L’urlo di Chen terrorizza anche l’occidente” Il buddismo di Schopenhauer

Lo zen e le arti marziali moderne

L’APERTURA DELL’ORIENTE ALL’OCCIDENTE E LA NASCITA DELLE ARTI MARZIALI MODERNE

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Porfirio Federica, 5^bl L’apertura dell’Oriente all’Occidente e la nascita delle ARTI MARZIALI moderne.

Liceo scientifico Maironi da Ponte, anno scolastico 2014-15

Nei primi capitoli della storia di qualsiasi popolo le doti fisiche e l’attitudine al combattimento dei

singoli uomini vengono tenute in gran conto. Con il diffondersi delle tecniche di lotta ed il

perfezionarsi delle armi, nascono le caste specializzate e privilegiate dei guerrieri: uomini che,

necessariamente, professano una filosofia di vita diversa da quella dei contadini, dei commercianti,

delle figure religiose. Quando il progredire dei tempi e delle tecnologie fa superare l’utilità del

combattimento individuale, il patrimonio culturale frutto dell’esperienza dei “guerrieri” non decade

ma si evolve, si stilizza, si spiritualizza, sottolineando i propri aspetti etici ed educativi, mantenendo

così un posto importante in seno all’attività umana. Le arti marziali giapponesi hanno due grandi

vantaggi sulle consorelle di altri paesi: questi derivano entrambi dalla singolare storia di tale popolo.

Il primo è dato dalla durata del Medioevo giapponese, che si prolunga di 300 anni rispetto a quello

europeo, cosicché il Giappone resta per tutto questo periodo isolato e chiuso in se stesso, dando

modo a tutte le espressioni proprie di questa epoca storica (arte, artigianato, tecnica bellica,

filosofia, medicina, ect) di perfezionarsi e svilupparsi più che in qualsiasi altro paese. Il secondo

vantaggio che ci offrono le tecniche di combattimento giapponesi è che il loro periodo di

applicazione pratica è terminato da appena circa 150 anni e non è quindi difficile ritrovarne tracce

concrete; non vi è stata soluzione di continuità nel tramandare l’esperienza dei grandi maestri del

passato da uomo a uomo, fino ai grandi tecnici dei nostri giorni. Per poter comprendere e valutare

le moderne arti marziali giapponesi è quindi necessario rifarsi sinteticamente alla storia del

Giappone prendendo come filo conduttore la svolta dello stile di combattimento dovuto

all’apertura dell’Oriente all’Occidente.

Il primo grande contatto tra il Giappone e il mondo europeo avvenne

intorno al 1850 quando l’importanza attribuita all’esercito e ai guerrieri

aveva rilevanti implicazioni economiche e politiche. In questo periodo

il Giappone vedeva al potere uno Shogun (generale dell’esercito) che

apparteneva alla classe sociale dei samurai, il quale incentivò la

“militarizzazione” politica del suo Paese. Solo quando il potere imperiale riprese il comando iniziò

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per il Giappone l’età moderna. In questa fase vi furono grandi cambiamenti culturali nella vita dei

giapponesi dovuti alle influenze degli occidentali, i quali portarono la popolazione ad un rifiuto nei

riguardi di tutto ciò che apparteneva al passato, quindi anche della cultura guerriera. L’uso delle

armi da fuoco prese il posto delle antiche arti di combattimento tradizionali e le scuole di arti

marziali chiusero per mancanza di allievi. I pilastri portanti della cultura orientale stavano per

crollare. Non si dava più importanza allo sviluppo psico-fisico e alle capacità di combattimento che

le arti marziali donavano ai giovani ragazzi che intraprendevano la loro via, la mente occidentale

aveva preso il sopravvento su gran parte della popolazione. Solo anni dopo, nel periodo di pace tra

le due grandi guerre, alcuni conservatori della cultura giapponese riuscirono a rinvigorire il fuoco

delle arti marziali. Queste vennero reintrodotte tra le discipline scolastiche, i loro principi di

educazione, coraggio, onore, modestia, rispetto, controllo di se, amicizia vennero riformulati ed

accentuati, l’uso delle armi e di tecniche pericolose per i combattenti venne sancito. Le arti marziali

rinacquero e iniziarono a diffondersi.

Un esempio ci è dato dal Sensei Jigoro Kano, fondatore del Judo

Kodokan e primo diffusore di tale pratica nel resto del mondo.

Costui, professore universitario, rivoluzionò il mondo dell’antico ju

jutsu introducendo il prinicipio del “miglior impiego dell’energia”. Il

Judo venne dal principio considerato estremamente educativo e

poteva, nello stesso tempo, essere utilizzato come arma di difesa per le

aggressioni. In esso sono tutt’ora conservate tipiche espressioni della

cultura giapponese, quali il Ban-bu (la penna e la spada) e la virtù

civile e guerriera. Inoltre questa forma marziale raggruppa in se tre diverse discipline: il rentai

(cultura fisica), lo shobu (arte guerriera) e il sushin (coltivazione intellettuale). Soprattutto

quest’ultima era per Jigoro Kano molto importante; riteneva infatti che anche il guerriero di miglior

prestanza fisica e combattiva, senza l’uso della mente potesse essere sconfitto facilmente. È

proprio da questa idea che nacque il concetto di miglioramento psico-fisico dovuto

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all’apprendimento delle arti marziali e la sua vena filosofica. Tutte le arti marziali infatti sono delle

vie filosofiche molto ben definite e regolate da principi saldi, marziali.

Proprio per questo, sin dall’origine delle arti marziali, in Giappone

iniziò a diffondersi anche il Buddhismo zen, per la sua applicazione

pratica nelle arti di combattimento, che facevano parte dell’

educazione del samurai così come le arti popolari: Chado (cerimonia

del tè), Shodo (calligrafia), Ikebana (arrangiamento dei fiori), che

permisero di realizzare la natura di Buddha. La sua semplicità di

pensiero e azione si rivelò la più congeniale all'animo del guerriero; lo

zen insegnò ai combattenti a credere nella propria volontà, a meditare

prima e dopo le battaglie, a ricercare dentro se stessi la ragione dell'esistenza; fece in modo che la

vita spirituale diventasse un tutt'uno con quella quotidiana, ed insegnò anche come l'uomo possa

integrarsi con la natura. La frugalità che i samurai avevano adottato in ogni manifestazione della

propria vita, si trasforma nella semplicità dei templi zen, dove la roccia, il legno, gli alberi,

sapientemente combinati, formano un ambiente naturale e rilassante. Lo zen fece presa tra i

combattenti perché insegnava ad utilizzare non soltanto la mente ma tutto l'essere; non si praticava

la meditazione fine a se stessa ma si vivevano tutte le azioni purché eseguite in base a principi etici.

Da qui nascevano la magnanimità dei guerrieri verso i deboli, i vinti, la possibilità di scrivere versi o

ritirarsi in una piccola stanza a bere del tè. Ognuno poteva sviluppare le proprie potenzialità

attraverso le tecniche della concentrazione che si basavano essenzialmente su esercizi respiratori

concentrati nel ventre, Hara. Attraverso la respirazione addominale, infatti, l'uomo cercava di

mettere in relazione il proprio essere fisico con quello cosmico; più riusciva in questo più

l'individuo si integrava con l'ambiente, più sviluppava i suoi poteri intuitivi e percettivi, più reagiva

prontamente ai pericoli. Quindi il praticante di arti marziali cercò di recepire dallo zen tutto quello

che poteva servirgli per migliorare le sue capacità di combattente. Lo zen insegnava infatti a

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potenziare il coraggio, la prontezza, l'abilità, l'equilibrio psico-fisico, ecco perché diventa il credo

dei marzialisti.

Questi principi buddisti furono poi ripresi anche nell’Occidente da un

filosofo molto importante, Schopenhauer, proprio mentre il mondo

iniziava ad aprirsi alla cultura marziale giapponese. Se leggessimo in

chiave marziali i suoi insegnamenti, potremmo cogliere molti principi

che saranno poi ripresi dalla cultura zen. Ad esempio la scoperta

dentro di sé della volontà di vivere, del non limitarci a “vederci” fuori,

bensì al bisogno di “viverci” anche dal di dentro, godendo e

soffrendo, provando e cadendo, affrontando ed essendo vinti. L’io

schopenhaueriano dunque si qualifica come la coincidenza di

coscienza, volontà e corpo: non vi è dunque la rinuncia ad alcuna delle componenti umane, che

vengono invece viste nella loro indistinguibile unità. La coscienza, nello zen, è data dalla costanza

della pratica, da un concetto interiore che ti porta ad agire senza pensare; il corpo è l’oggetto che ti

permette l’azione; la volontà, invece, come per Schopenhauer, indica l’energia, l’impulso. Risulta

quindi unica, eterna ed indistruttibile, ma soprattutto è incausata e senza scopo, libera e cieca. Essa

non ha alcuna meta oltre se stessa. La volontà di crescere, di progredire, di imparare in un’arte

marziale è proprio come quella primordiale di Schopenhauer. Viene dal profondo, è alimentata da

se stessa, non ha secondi fini ed è sempre in continua crescita.

Furono proprio questi i concetti filosofici e marziali che vennero diffusi in Occidente negli anni

delle grandi guerre e, proprio a questo periodo, risalgono le prime testimonianze di Dojo (scuole di

combattimento) in Europa, fondate da commercianti e militari che avevano imparato a praticare la

“lotta giapponese” durante i loro viaggi. Un esempio è dato Carlo Oletti che in Italia diresse i corsi

di Judo istituiti per l’esercito.

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Successivamente però le arti marziali non ebbero vita facile. Fu

proibita la pratica di ogni tipo di disciplina marziale, libri e filmati su

di esse vennero distrutti, il Giappone divenne una pedina nelle mani

dell’Occidente, senza più storia, principi, cultura guerriera. Anche

dopo la seconda guerra mondiale, le autorità delle Forze di Occupazione misero al bando le arti

marziali per 5 anni, perché pensavano che quelle che erano state riportate in auge prima della

guerra, favorissero l'irreggimentazione e lo spirito nazionalistico che avevano portato alla crescita

del militarismo. Il bando fu abolito solo nel 1950, e furono compiuti sforzi per evidenziare gli

aspetti positivi delle arti marziali, considerandole non solo come discipline sportive, ma anche

sotto l’aspetto dello sviluppo psico-fisico e morale, proprio come avveniva nel passato.

Da questo momento iniziò nuovamente ad essere fomentata la diffusione di tutte le arti marziali

nel resto del mondo. Si istituì la prima federazione internazionale e dopo qualche anno alcune

discipline, come il judo, vennero ammesse ai giochi olimpici.

L’ideale del guerriero, del marzialista orientale però non si diffuse

solamente nell’ambito sportivo. Un esempio eclatante è dato dalla

figura di Bruce Lee, attore, filosofo, marzialista, considerato uno dei

più influenti combattenti di tutti i tempi, nonché l'attore più ricordato

per la presentazione delle arti marziali al mondo. I suoi film elevarono

ad un nuovo livello di popolarità e gradimento le pellicole di arti marziali e l'interesse per questo

tipo di discipline in Occidente. La direzione ed il tono delle sue opere influenzarono

profondamente i film di combattimento perché diminuivano la teatralità e davano un tono più

realistico alle scene. La tecnica di combattimento da lui sintetizzata ed intuita è chiamata Jeet Kune

Do (“la via del pugno che intercetta”). Il JKD promuove il concetto di semplicità, efficacia ed

economia delle energie ed esclude la distinzione in scuole e stili. Inoltre, accoglie al suo interno

alcuni principi filosofici del Taosimo, Buddhismo Zen e del Maestro indiano Krishnamurti. Per

quanto riguarda il bagaglio tecnico-tattico, Lee analizzò molti sistemi di combattimento tra i

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quali Judo, Ju Jitsu, Karate, Taekwondo, Savate, Kendo, Muay Thai, Aikido, Silat,Tai Chi,

Panantukan, svariati stili di kung fu, pugilato e scherma. Di notevole supporto per Lee fu lo studio

delle teorie e metodologie dell'allenamento, nonché della fisiologia e biomeccanica del corpo

umano, in quanto influirono positivamente nell'elaborazione del JKD tanto quanto l'analisi dei vari

stili di combattimento. Ogni tecnica studiata in questa disciplina è stata sviluppata dal suo stesso

creatore basandosi sul principio dell'economia della linea diretta e del combattimento ridotto

all'essenziale, nonché degli esercizi per lo sviluppo dell'equilibrio e della sensibilità (chi-sao).

Tutti gli aspetti della filosofia di vita di Bruce Lee li possiamo

evidenziare in uno dei suoi migliori capolavori cinematografici:

“L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente”. In questa pellicola

Bruce vuole mostrare i diversi modi con cui vengono usate le arti

marziali, sia positivamente che negativamente per evidenziare, alla

fine, come la vera marzialità abbia sempre la meglio.

Il protagonista del film è Chen, esperto lottatore cinese, che arriva a Roma da Hong Kong per

aiutare un ristoratore amico dello zio che si trova nei guai: una banda che gestisce loschi traffici

vuole, infatti, rendere il ristorante in questione la base logistica di un grosso traffico di droga. Chen

farà piazza pulita. La trama, nella quale trovano spazio parecchi buffi intermezzi, rasenta lo

scontato ma risulta azzeccata cornice per diversi street-fight risolti a suon di Jeet Kune Do. Tra

confuse zuffe rissaiole e scontri tra maestri di diverse discipline l’azione non manca, anche se più si

andrà avanti e più i pretesti per sudare sette camicie a furia di botte perderanno consistenza, fino a

scomparire del tutto nel finale. Particolare menzione merita il combattimento conclusivo (Lee Vs

Norris), meno spettacolare e acrobatico rispetto agli usuali standard ma vero e proprio compendio

di JKD da parte di Chen e Karate da parte del rivale. È proprio nella parte finale del film che

emergono tutti gli ideali per i quali il film è stato pensato. Si ha un combattimento tra un vero

marzialista (Chan) e un praticante di karate solo per agonismo. Gli ideali sono completamente

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diversi, la consapevolezza dell’arte che si pratica cambia, entrambi sono consapevoli padroni del

corpo, ma solo uno ha dominio completo sulla mente.

“La conoscenza tecnica da sola non è sufficiente.” Ci ricorda Bruce “Un praticante delle arti

marziali deve contemporaneamente trascendere la tecnica e sviluppare un’attenzione intuitiva, in

modo che l’arte diventi un’arte senza arte, un sentiero che conduca alla perfezione fisica e

all’illuminismo spirituale”.

In questa citazione sta tutto ciò che un vero marzialista deve saper

applicare alla sua arte. È racchiusa in queste parole tutta la storia delle

arti marziali, partendo da quella dei samurai, guerrieri che davano la

vita per i propri ideali e che seguivano un codice d’onore

importantissimo, il Bushido; approdando al buddismo zen che

insegnava a potenziare il coraggio, la prontezza, l'abilità, l'equilibrio

psico-fisico in maniera innata, senza più aver bisogno di pensare; per arrivare poi al marzialismo

moderno, il quale evidenzia che “ la mente non dovrebbe essere da nessuna parte in particolare”

(Takuan).

Superata la necessità del combattimento per sopravvivenza, insomma, le arti marziali, in particolare

quelle di stampo tradizionale piuttosto che sportivo, consentono all'allievo di migliorare il sé

tramite il confronto con l'altro, studiando l'azione come mezzo di analisi di entrambi, volto alla

ricerca dei limiti fisici e dei limiti mentali, morali e spirituali; volto, perciò, al superamento diretto

dei primi e di riflesso anche dei secondi, trascendendo la durezza, le violenze, le illusioni, i

compromessi propri di chi sceglie di non crescere. E con questi anche le dominazioni e le

sottomissioni, la difesa di un territorio o di uno spazio dell'essere che compensi le carenze nascoste

e non viste, volontariamente o meno, trappole causate da un inerzia di spirito, prontamente evitate

da parte del marzialista che sceglie di mettersi in gioco sulla via di chi rifiuta le mezze misure con se

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stesso. In questo senso si procede verso una disgregazione di ciò che limita il soggetto dall'esterno,

di quell'Io sociale fatto di atteggiamenti accettati e proposti che spingono ad una deformazione

dello spirito quando questo rimane escluso dall'indagine.

Così l'illuminazione attraverso lo studio delle arti marziali, e l'intuitività collegata, si spiega con una

identità fra pensiero, volontà ed azione in un unico concetto di manifestazione nel reale dello

spirito, mediato dalla consapevole identità fra i due ed espresso tramite un codice, la tecnica, che

viene quindi studiato da entrambi, perfezionato su entrambi e manifestato da entrambi.

Bibliografia:

- Antonio Abbate, Federica Porfirio, “Manuale di Judo” , Artestudiobg, Bergamo, 2015

- Alberto Mario Banti, “Il senso del tempo 1900-oggi” , Editori Laterza, Bari, 2012

- Ambra Rufini, “Filosofia del Buddismo”

- Nicola Abbagnano,Giovanni Fornero, “La filosofia - da Schopenhauer a Freud” , Paravia,

Padova, 2012

- Bruce Lee, “Jeet Kune do, il libro segreto di Bruce Lee”, edizioni mediterranee

- Joe Hyams, “Zen in the martial arts” , Bantam books, 1982

- Wikipedia, il buddhismo

Filmografia:

- The Way of the Dragon ( L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente), Bruce Lee, Hong Kong, 1972