Gli Under 40 - Oblique, artigianato per l’editoria ... · L’inganno dei giovani scrittori nelle...

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Gli Under 40

Rassegna stampa di Alessandra PierroOblique Studio

luglio 2011

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Gli Under 40Rassegna stampa di Alessandra Pierro

Oblique Studio, luglio 2011

Impaginazione di Isabella Zilahi de GyurgyokaiFont utilizzate Helvetica, Sabon Mt e Frutiger 47LightCn

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repliche di chi mette in guardia dal facile otti-mismo – la quantità di scrittori emergenti sa-rebbe superiore all’effettiva qualità delle opere;c’è poi chi, denunciando il disinteresse versoscrittori non appartenenti alla schiera left orien-ted, insinua una compiacenza verso la «diarchiaEinaudi-minimum fax» di cui gli esordienti sa-rebbero ostaggio. Le repliche al Sole 24 Ore proliferano soprat-tutto dalle pagine di Unità, Giornale, Libero eCorriere della Sera (la Repubblica non prendeparte al dibattito), offrendo numerosi spunti diriflessione.

Come si sta evolvendo la produzione letterariadi oggi? L’asservimento alla realtà sta «depoten-ziando» la letteratura? La riduzione del ro-manzo a categoria merceologica di intratteni-mento è irreparabile? Da cosa dipende il«catastrofismo» sulla nostra narrativa se al-l’estero invece funziona?E ancora: la critica è davvero pronta ai muta-menti del panorama letterario? Quanto la tiran-nia del mercato «sforna best seller» dipende dal-l’ingenuità del pubblico? In che misura gliaddetti ai lavori dell’editoria sono diretti re-sponsabili della qualità letteraria? Questioni che restano aperte ma da cui non sipuò prescindere per apportare, ciascuno perquello gli compete, un contributo al migliora-mento della qualità letteraria.

La rassegna stampa che segue ha monitoratol’evoluzione della cosidetta «polemica sugliunder 40». Dalla trasversalità degli interventiemerge il dato di come la riflessione sui giovaniscrittori serva da pretesto per fare il punto suquestioni centrali relativi al nostro panoramaletterario.Esplosa nell’agosto 2010 e apparentementeesauritasi a fine estate (esigui i richiami nei mesiseguenti) sembrava covare sotto la cenere pervia di alcune premesse.

A giugno Andrea Cortellessa presenta Senzascrittori, documentario che, denunciando la de-riva dell’editoria in industria di massa e la per-dita di qualità della critica letteraria, auspica unritorno alla «letterarietà». Tuttavia, stando allelogiche del mercato, i canoni della letterarietàdiventano sempre meno chiari (aspro il dibattitoin proposito nel blog di Loredana Lipperini, incui Cortellessa viene attaccato da Wu Ming).A luglio il Premio Strega assegnato a AntonioPennacchi, classe ’50, si insinua come velatotema di riflessione sulla forza della produzioneletteraria under 40.Ad agosto infine, sulla scia del New Yorker e diGranta, Il Sole 24 Ore propone la sua cinquan-tina di under 40, facendosi il vero promotoredel dibattito.L’intento è quello di supportare con fiducia lanuova generazione, ma ben presto arrivano le

Premessa

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L’inganno dei giovani scrittori nelle società gerontocratiche

L’insensata, martellante espressione «giovaniscrittori», quasi solo formula di marketing (ocategoria sociologica), contiene un falso clamo-roso, come suggerisce sulla NY Review of booksSam Tanenhaus, commentando una selezionedel New Yorker di 20 «promettenti» scrittoriunder 40. Perché infatti «promettenti»? L’agget-tivo evoca – illusoriamente – talenti solo par-zialmente dispiegati e ulteriori fioriture espres-sive. Eppure nella storia della letteratura gliautori hanno dato il meglio di sé quasi sempreprima dei 40 anni. Tolstoj iniziò a scrivereGuerra e pace a 34 anni, Flaubert Madame Bo-vary a 29 anni (e la finì a 34), Mann pubblicò iBuddenbrook a 24 anni, Joyce l’Ulisse nei suoi30, Kafka la Metamorfosi a 29, Proust avviò laRecherche a 37. Negli Stati Uniti Moby Dickuscì che Melville aveva 32 anni, Il Grande Gat-sby, Il sole sorge ancora e L’urlo e il furorequando, rispettivamente, Scott Fitzgerald aveva28 anni, Hemingway 27 e Faulkner 32. Mailerera appena venticinquenne all’epoca de Il nudoe il morto e Roth (Goodbye Columbus) solo unanno più «vecchio». È vero, Virginia Woolf

esordì dopo i 40 ed Henry James sessantenne,ma si tratta di eccezioni: «Gli scrittori non sonocome studiosi ma come atleti: dopo i 30 annimettono su pancia!» (Updike). Se guardiamoalle patrie lettere, di fronte a un Gadda cheesordì nella piena maturità, occorre ricordarealmeno il Moravia ventunenne degli Indiffe-renti, il Calvino ventiquattrenne dei Sentieri deinidi di ragno, la Morante trentaseienne di Men-zogna e sortilegio. E anche recentemente spessol’opera prima di un autore è stata la sua cosamigliore.In società gerontocratiche piace pensare chel’epicentro della creatività si sposti in avanti.Ora, si può verosimilmente esordire a qualsiasietà, dal Tondelli di Altri libertini (ventottenne)al Bufalino della Diceria dell’untore (sessantu-nenne). Ma senza alimentare il mito (consola-torio) di potenzialità inesplose e promesse dacompiersi. L’etichetta «giovani scrittori» è in-gannevole: infantilizza gli scrittori stessi (oltreogni ragionevole limite d’età) e li predispone aconsiderarsi eterni apprendisti, da cui ci siaspetta – chissà perché – capolavori futuri.

Filippo La Porta, Corriere della Sera24 giugno 2010

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«[…] nella storia della letteratura gli autori hanno dato il meglio di sé quasisempre prima dei 40 anni»

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Il salotto letterario distrutto a colpi di clava

L’antefatto è il documentario Senza scrittori delcritico Andrea Cortellessa presentato lunedìsera a Roma. Tesi: l’editoria si è trasformata inindustria di massa sforna best seller, il «libro èdivenuto il feticcio della nostra società del nar-cisismo», i lettori sono «malcapitati spinti alconsumo più immediato e irriflesso», il «turbo-capitalismo» ha assassinato la critica e la societàletteraria. Vie di uscita? La «letterarietà», con-cetto che rimane nel vago, forse ha a che vederecon lo sperimentalismo. E la ricerca di «falle»nel sistema da colmare con intelligenza.Il fatto invece è il dibattito seguente, ospitatosul blog Lipperatura di Loredana Lipperini,giornalista della Repubblica. Ecco quindi lapioggia di messaggi di Cortellessa stesso,Scarpa, Biondillo, Policastro e un paio di WuMing (collettivo maoista di autori senza voltoaccasato presso Einaudi ma anche presso editori«minori», trasparente sulle vendite e disposto aconcedere le opere in copyleft; qui intervengonoil numero 1 e il numero 4).Il rapporto dei nostri scrittori, della nostracultura in generale, verso il libero mercato èdifficile, diciamo pure di disprezzo. Per que-sto, una discussione senza paraocchi avrebbepotuto essere foriera di riflessioni interessanti.Invece si è aperta una lotta grottesca, tutt’orain corso, a chi è meno compromesso col si-stema nonostante tutti i principali intervenutistiano con entrambi i piedi dentro all’industria

da cui vorrebbero prendere le distanze, chi inun modo chi nell’altro.Il mercato è il male? Basterebbe guardarlo me-glio per scoprire che non è così crudele. Quandol’industria editoriale è diventata di massa? Equali sono state le conseguenze? Forse investi-gando si potrebbe scoprire che la corsa al be-stseller contribuisce ad allargare il numero deilettori e anche degli scrittori pubblicati come sideve. Nel mercato c’è spazio per tutti e le scelteideologiche troppo nette non sono praticabili.In passato non era così. Perfino Dottor Zivago,prima di diventare un best seller, fece fatica atrovare la strada per la libreria. E che dire dellaversione «purgata» di Salamov, o del Fiore delverso russo con allegata introduzione demolito-ria? Come mai fino a pochi anni fa Rothbard,Mises, Hayek e per citare un italiano BrunoLeoni erano roba da carbonari mentre oggi cisono editori (a partire da Liberilibri e Rubbet-tino) che hanno un catalogo intero fondato suquesti autori? Perché per pubblicare l’operaomnia di Nietzsche fu necessario fondare l’Adel-phi? Senza tornare indietro, prendiamo il casodel decennio, Gomorra. In un’altra epoca, menoavvezza al marketing, il romanzo-reportage diSaviano sarebbe finito in due milioni di case? Enon è un bene che ciò sia avvenuto vista la suaoggettiva importanza?La discussione in rete parte più o meno da lì: «Acosa serve contrapporre alla “società letteraria”

Alessandro Gnocchi, il Giornaleprimo luglio 2010

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– prigioniera degli automatismi commerciali emediatici – una fantomatica “letterarietà”? Arimpiangere i bei tempi pre-industria editoriale,quando a leggere erano in pochi ma buoni?Quando c’era qualcuno, una casta di intellet-tuali più o meno organici, che stabiliva appuntolo statuto di letterarietà?» (Wu Ming 4). Que-stione ben posta. Che cede quasi subito il passoai colpi sotto la cintola, fino allo sbracamentototale. Altro che «letterarietà».Pronti, via: Scurati e Scarpa, protagonisti delloStrega 2009 con annessa polemica, «ripudiano

a non iscriverti d’ufficio – invece – nell’ominosacategoria dei chiagneffotti…». Poi il critico sela prende con Wu Ming 1: «Io sono inchiodatoal fatto che viviamo in una situazione di mer-cato iperliberista e turbocapitalista, che abbatteogni ostacolo sul suo cammino, senza uno strac-cio di pensiero critico a contrastarlo. Tu invece,a differenza di me, sei libero di volare senzachiodi, alato e liberista, nel 2010 come nel 2011e in tutti i futuri radiosi e le magnifiche sorti eprogressive del Mercato Ottimo Sovrano». Tra-dotto: sei un venduto che accampa scuse, comeil concedere in copyleft le proprie opere, per ri-farsi la verginità. Wu Ming 1 afferma di provare«ribrezzo» per Cortellessa. E qui scatta la con-troreplica col massimo insulto possibile: «Nonho bisogno di metafore alate per dipingerticome un fascista, mi basta sentirti parlare». Olè.Il maoista numero uno si scatena: «Povera vit-tima. Ti senti già sulla soglia di Bergen Belsen.Un martire del libero pensiero. È proprio questacandidatura abusiva al ruolo di vittima a susci-tare ribrezzo […]. Fai il ganassa, Leonida alleTermopili della critica, gridi che ti voglionochiudere il becco etc. Ok, tieniti pure questoruolo, quello del macilento deportato. Orribile:ti si vedono tutte le costole!». Sembra il dibat-tito interno alla sinistra italiana degli ultimiquindici anni: incapace di spalancare le finestree prendere una boccata d’aria. Ecco perché «lasocietà letteraria» è in declino: scimmiotta lacattiva politica.

«Il rapporto dei nostri scrittori, dellanostra cultura in generale, verso illibero mercato è difficile, diciamo

pure di disprezzo»

la società letteraria dal predellino» e quindi«sono comici» (Valter Binaghi). RispondeScarpa, che rivendica di essersi «messo ingioco», e spara ad alzo zero sulle redazioni cul-turali «reazionarie» (la Repubblica in primis)che delegittimano gli scrittori. Conclusione:«D’altro canto, non si tratta che di un conflittodi poteri; basta esserne consapevoli e si sta se-reni. È chiaro che i giornalisti e i critici (e gli in-tellettuali che hanno accesso ai mezzi di comu-nicazione, scrivendo sui giornali o girandodocumentari) hanno tutto l’interesse a mante-nere saldamente in mano la gestione dell’opi-nione pubblica e la diffusione del discorso pub-blico, perciò non possono che lavorare airridere, ridicolizzare, delegittimare». Stessalinea, pare di capire, per Gianni Biondillo: «Inquanto a me io son stufo di fare l’outsider. Fosseper me vorrei essere ampliamente insider e gua-dagnare una pacca di soldi, che c’ho l’affitto dapagare». Irrompe Cortellessa che gli rispondecosì: «Infatti outsider proprio non sei. Attento

«Nel mercato c’è spazio per tutti ele scelte ideologiche troppo nette

non sono praticabili»

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Libri, la meglio gioventù

L’ultimo Premio Strega, il più influente ricono-scimento letterario italiano, è stato vinto da unautore sessantenne, Antonio Pennacchi, dopoche le precedenti tre edizioni avevano incoro-nato autori giovani: nel 2007 Niccolò Amma-niti, classe 1966, l’anno seguente Paolo Gior-dano, nato nell’82, e nel 2009 Tiziano Scarpa,classe 1963. È il segnale di un’inversione ditendenza generazionale? L’Italia non è un Paeseper giovani narratori? Forse non è il caso ditrarre conseguenze così drastiche da un singoloavvenimento: anzi, può essere l’occasione perscandagliare il patrimonio dei giovani autoriitaliani. Di recente, negli Stati Uniti, lo ha fattoil New Yorker, indicando venti autori under 40che potrebbero lasciare il segno nel XXI secolo.A ruota, in Inghilterra, anche il Telegraph si èprodotto in un esercizio analogo. E in Italia?Questa è la lista che propone Il Secolo XIX: ilettori, se vorranno, potranno integrarla conaltri under 40.Vale la pena di partire da Silvia Avallone, 26anni, originaria di Biella, la sconfitta delloStrega: forse era davvero presto per quel premioma Acciaio, invita a sperare. Errico Buonanno,romano del 1979, ha esordito nel 2003 con Pic-cola serenata notturna (Marsilio), l’ultimo libroè Sarà vero. La menzogna al potere (Einaudi).Enrico Brizzi, nato a Novara nel 1974, ha esor-dito non ancora ventenne con Jack Fruscianteè uscito dal gruppo, a cui sono seguite opere

con risultati altalenanti, ma il mestiere lo cono-sce. Alessandro D’Avenia, palermitano del1977, è stato indicato come il nuovo PaoloGiordano per il suo Bianca come il latte, rossacome il sangue (Mondadori): una buona prova.Claudia Durastanti, 26 anni, nata a Brooklyn,vive a Roma: il suo esordio boom è Un giornoverrò a lanciare sassi alla tua finestra (Marsi-lio). Torinese del 1973, Christian Frascella, exoperaio, ha all’attivo Mia sorella è una foca mo-naca e Sette piccoli sospetti (Fazi). Paolo Gior-dano, torinese, dopo essersi rivelato con La so-litudine dei numeri primi – a settembre il film –sta lavorando al secondo romanzo, che saràsulla crisi dei giovani alle prese con un’esistenzaprecaria. Pietro Grossi, fiorentino del 1978, hapubblicato tre libri con Sellerio: il più recente èMartini. Nicola Lagioia, nato a Bari nel 1973,

Andrea Plebe, Il Secolo XIX

20 luglio 2010

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dirige la collana di letteratura italiana di mini-mum fax: è autore di La storia siamo noi (NeriPozza). Stefano Jorio, classe 1971, è il nuovonome su cui punta minimum fax: scommet-tiamo, aspettando di leggere Radiazione. LetiziaMuratori, romana del 1972, ha esordito nel2004: la sua ultima prova è Il giorno dell’indi-pendenza (Einaudi). Michela Murgia, nata aCabras nel 1972, ha sfondato con Accabadorada Einaudi: un’autrice su cui puntare. MatteoNucci, romano del 1970, ha esordito solo que-st’anno con Sono comuni le cose degli amici(Ponte alla Grazie), entrato nella cinquina delloStrega. Valeria Parrella è nata a Torre del Greconel 1974 e con la raccolta di racconti Mosca piùbalena ha vinto il Campiello Opera prima nel2003: il suo ultimo libro è Ma quale amore(Rizzoli). Alessandro Piperno, romano del1972, ha venduto duecentomila copie del suoCon le peggiori intenzioni, oltre ad aver con-quistato il Campiello: Persecuzione, il suo se-condo libro, uscirà a ottobre, sempre da Mon-dadori. Paola Ronco, nata a Torino nel 1976,vive a Genova: di lei si segnala Corpi estranei(Perdisa Pop). Della narrativa di Roberto Sa-viano, napoletano del 1979, è difficile ipotiz-zare l’evoluzione dopo Gomorra, ma ha sicura-mente i ferri del mestiere. Licia Troisi, romanadel 1980, è la più nota scrittrice italiana di fan-tasy: a quando il grande salto? Giorgio Vasta,nato a Palermo nel 1970, vive e lavora a Torino:ha pubblicato Il tempo materiale (minimum fax2008). Simona Vinci, milanese del 1970, haesordito nel 1997 con Dei bambini non si saniente (Einaudi), l’ultima sua prova è Nelbianco, per Rizzoli.

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Premessa numero uno: si tratta di un gioco estivo.Prendetelo come tale. Premessa numero due: ungioco estivo va preso come tale, sì, ma neanchetroppo, però. Abbiamo chiesto a una serie di cri-tici letterari (di questo e di altri giornali) di indi-carci quali sono, secondo loro, gli autori della let-teratura italiana, che hanno meno di 40 anni, piùpromettenti: sui quali possiamo scommettere peril futuro e dai quali possiamo aspettarci, noi sem-plici lettori, opere di buona qualità. I risultati delsondaggio e le opinioni degli esperti saranno pub-blicati sul Domenicale di domani.Il gioco non l’abbiamo inventato noi (il New Yor-ker, per dire, o Granta in Inghilterra, lo fanno daanni, con humour e competenza e, spesso, tamtam mediatico molto superiore all’entità stessadel gioco) e le regole ce le siamo date, sì, ma conuna certa elasticità. Intanto un’ovvietà. Averemeno di 40 anni non è un titolo di merito, lo sap-piamo bene, né garantisce qualità o capacità let-terarie a priori che, poniamo, un quarantatrennegià non ha più. Eppure un limite dovevamo purmetterlo: e questo, generazionale, sembra, tra ipossibili, uno dei più concreti. Se non altro per-ché (e questo ce lo dice la storia della letteratura,anche italiana), almeno fino a qualche decennio

fa, si entrava nella società letteraria, di solito conbuoni od ottimi libri, fin da molto giovani.Oggi le cose, forse, sono un po’ cambiate e puòsempre capitare che si raggiunga il capolavorodopo anni di praticantato letterario, come èaccaduto ad Antonio Pennacchi (classe 1950),il cui ultimo romanzo, che ha meritatamentevinto lo Strega, è anche il suo migliore. Co-munque sia, questa è la regola che abbiamodato ai critici. Sul numero degli autori da ci-tare e su quali tipi di scrittura e di scrittoreprediligere abbiamo, invece, lasciato campo li-bero: vedrete così autori molto affermati, vin-citori di prestigiosi premi letterari, scrittori giàabituati alle vette del best seller o entrati dallaporta principale nel circuito mediatico accantoad altri, invece, noti solo ai lettori più occhiuti.Naturalmente ogni giudice è stato libero di in-dicare secondo i propri gusti, le proprie idee diletteratura, e, in definitiva, le sue esperienze dilettura, recenti e no.Ecco: la chiave che vorremmo fosse usata perquesto gioco, è proprio questa. Si tratta di «espe-rienze» di lettura, di incontri, di folgorazioni, dipromesse anche, di autori che forse diventerannograndi o, a volte, non si confermeranno. Non

«Si tratta di esperienze di lettura, di incontri,di folgorazioni, di promesse anche, di autori che

forse diventeranno grandi o, a volte,non si confermeranno»

Chi sono i più promettenti scrittori italiani under 40?

Stefano Salis, Il Sole 24 Ore31 luglio 2010

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abbiamo voluto fare classifiche. Non ci interes-sano e hanno poco senso: certo, qualche nomerisulta più votato di altri, ma anche chi ha presoun solo voto per noi è prezioso. Il quadro com-plessivo di autori e romanzi segnalati (ben 50sono i nomi selezionati, un’autentica caterva…)è, per noi, confortante. Sfata, intanto, il mito ti-pico del chiacchiericcio mondan-letterario e cioèche non ci siano scrittori e il suo mesto corolla-rio, che siano tutti uguali, curvati sui (presunti)gusti medi del mercato. Non è così, per fortuna.Abbiamo buoni motivi per credere in questi au-tori e fondate ragioni per dire che leggeremo an-cora ottimi romanzi. E anche che potremo discu-tere, a lungo, la loro qualità.A questo punto la parola passerà a voi, lettori.Sul nostro sito potrete fare le vostre contropro-poste, confermare le scelte dei critici o bocciarle.A un patto, però, se ci è permesso un modestoconsiglio: fate come i nostri esperti. Prima di giu-dicarli, leggete i libri dei quali parlate (e par-liamo) e, più che parlare degli autori, parlate deitesti. Così. È più divertente per tutti. Perché noi,lo ammettiamo, ci siamo divertiti. E speriamoche lo stesso valga per voi.

Ebbene sì, c’è una letteratura italiana under 40che merita di essere letta. Non è poco. Tanto piùche in questo campo non smettono di trovareascolto le tesi dei catastrofisti, per i quali la no-stra narrativa sarebbe condannata a posizionedi secondo piano: con una censura preventivache finisce per tradursi in una pericolosa profe-zia autoavverantesi. Negando attenzione ainuovi libri, li si condanna all’irrilevanza.Nelle ultime settimane, sull’onda del documen-tario di Luca Archibugi e di Andrea Cortel-lessa, Senza scrittori, si è fatto un gran parlare(a ragione) degli effetti spesso deleteri cheun’editoria sempre più orientata verso i bestseller ha sulla narrativa di qualità. Eppure, lafiducia concessa a una nuova leva di scrittori el’analisi spietata delle storture dell’industriaculturale non sono necessariamente in contrad-dizione. Tutt’altro: proprio perché una nidiatadi autori promettenti sta diventando vieppiùriconoscibile, appare ancora più doloroso ilprogressivo restringersi degli spazi per quantinon si rassegnano a trasformarsi in semplici in-trattenitori. La critica letteraria, oggi come ieri,serve innanzitutto a dare una possibilità sup-plementare proprio alle voci più inclassifica-bili: nella speranza che dagli esperimenti degliultimi arrivati possano emergere un giorno i«classici di domani». E che – magari – anche illoro incontro con il grande pubblico sia soloquestione di tempo.Approdati in libreria grosso modo tra l’11 set-tembre e l’elezione di Barack Obama, gli Under40 italiani si sono trovati a fare i conti con un

La carica dei magnificiUnder 40

Gabriele Pedullà, Il Sole 24 Oreprimo agosto 2010

«Abbiamo buoni motivi per crederein questi autori e fondate ragioniper dire che leggeremo ancora

ottimi romanzi»

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alla provincializzazione: l’Italia come colonia al-loglotta e i romanzieri italiani come ascari otruppe cammellate. Ma, soprattutto, il rischio èun ripiegamento opposto e simmetrico alla chiu-sura sulla letteratura nazionale. I grandi roman-zieri americani sono spesso dei giocolieri dellapenna: ma che succede se li si legge solo in tradu-zione? La scarsa attenzione degli Under 40 allesonorità della prosa – in netta controtendenza conun paese che sembrava disporre di un’inesaustavena lirica, e dove a lungo il problema è statopiuttosto quello di contenere un’eccessiva pro-pensione al «bel canto» – sembrerebbe venireanche da qui. Con il risultato che l’ultima gene-razione appare spaccata in una maggioranza diautori quasi del tutto sordi alle bellezze della lin-gua italiana e una piccola minoranza di virtuosidel ritmo: anche per reazione.Pure l’imporsi di nuove forme egemoni fa partedi questo sommovimento complessivo. Nellamarea montante delle scritture paraletterarie –noir in testa – i narratori degli anni Zero hannopuntato le loro fortune su due veri e propri ge-neri di confine, accomunati da un’identica pro-pensione narcisistica (ma così caratteristicadegli anni di Facebook) e diventati a poco apoco maggioritari: le così dette autofiction, incui l’autore gioca con la propria identità biogra-fica, mettendosi direttamente in scena ma nonrinunciando a rendersi protagonista di storiemai vissute, e il memoir-reportage, come testi-monianza e inchiesta sui mali del tempo pre-sente. Non è detto però che non convenga piut-tosto coltivare una certa inattualità: comepropone Giulio Ferroni, quando ricollega lagrande vitalità del genere racconto negli ultimi

«[…] l’ultima generazione appare spaccata in una maggioranzadi autori quasi del tutto sordi alle bellezze della lingua italiana

e una piccola minoranza di virtuosi del ritmo:anche per reazione»

sistema delle lettere completamente mutato ri-spetto a quello delle generazioni che li avevanopreceduti. Con nuovi ostacoli ma anche con ine-dite opportunità per chi si affaccia ora sullascena letteraria.C’è innanzitutto la questione dell’età. «Giovanescrittore», come «giovane regista» e «giovane ar-tista», costituisce innanzitutto una definizionemerceologica: almeno dai tempi della Nouvellevague, ma mai come in questi ultimi anni. Checosa pensano i ventenni? E dopo i trenta? Checosa vuole insomma la generazione x, y, z…?Tutti se lo chiedono. Ma per gli scrittori chehanno l’età giusta questa attenzione è al tempostesso una chance e una minaccia. Se essere gio-vani non è necessariamente una colpa da espiare,come riteneva Goethe, scrivere «da giovani» ri-schia di trasformarsi in una macchia indelebile:soprattutto per i più bravi. Arrivati ai quaranta oai cinquanta bisogna ricominciare da capo, per-ché con la pancetta e senza più capelli la parte re-citata fino a quel momento non funziona più.Meglio allora prepararsi per tempo: anche perchéalla prova dei fatti solo nei casi migliori gioventùvuol dire sponteneità e freschezza. Per tutti glialtri la parola giusta sarebbe ingenuità.In un contesto generale di ridotta curiosità per laletteratura dei padri, nessuna generazione italianasi è mai pensata altrettanto «americana» di que-sta: fino al punto di non avere neanche più biso-gno di brandire gli Stati Uniti come un vessillo(alla Vittorini o alla Pavese), tanto sembra scon-tato che gli autori da prendere a modello vivanotutti tra New York e Los Angeles. Il rischio qui èil rapidissimo passare dal provincialismo depre-cato all’inizio degli anni Sessanta dal Gruppo 63

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anni alla maggiore libertà di coloro che lavo-rano sulla forma breve, a fronte di un sistemaletterario che punta invece soprattutto sul ro-manzo e sulla letteratura di denuncia.Questo eclettismo appare anche dalle rispostedei critici interpellati dal Sole 24 Ore. Presi auno a uno, i sei canoni non potrebbero esserepiù diversi, anche se da un punto di vista mera-mente editoriale emerge una netta diarchia Ei-naudi-minimum fax: le due sigle che, stando aqueste scelte, sembrerebbero avere lavorato me-glio sugli emergenti. Quanto ai singoli autori,il sondaggio individua un gruppetto di testa for-mato da Nicola Lagioia (quattro segnalazioni),Luca Ricci e Giorgio Vasta (tre ciascuno), se-guiti da altri sette narratori fermi a quota due:Silvia Avallone, Cristiano De Majo, PietroGrossi, Michela Murgia, Valeria Parrella, LauraPugno e chi scrive questo articolo. Più l’over 40Giorgio Falco. Che cosa pensare di questescelte? Da collega, ancor più che da critico, tragli sprinter lo scrittore sul cui futuro mi sentireipiù pronto a scommettere è Lagioia: tanto piùdopo il suo ultimo romanzo, Riportando tuttoa casa, che si apprezza per la sua ambizioneanche quando non tutti i tasselli trovano il loroposto e che – se Lagioia vorrà assecondarla –sembra annunciare una nuova vena narrativa,più pacata e più oggettiva, sicuramente menoeuforica dei suoi primi libri. Magari anche die-tro lo schermo di una terza persona per lui an-cora inedita.Mi colpiscono invece soprattutto certe assenze:nessuna segnalazione, ad esempio, per Gior-dano Meacci (Tutto quello che posso, minimumfax), né per Maurizio Torchio (Piccoli animali,Einaudi). E ancora di più stupisce – e delude –l’unico voto per Andrea Bajani e Paolo Zanotti.Nel caso di Zanotti, autore di uno splendido ro-manzo di formazione che si colloca idealmentein una linea Nievo-Stevenson-Calvino (Bambinibonsai), i pochi consensi si spiegano forse con ineanche tre mesi trascorsi dall’esordio. Ma nel

caso di Bajani, che maneggia la prosa più ver-satile e più musicale dell’ultima generazione, lasorpresa confina con il desiderio di chiedereall’arbitro di rigiocare la partita. Non credo diessere l’unico ammiratore del suo Se considerile colpe a scommettere sul match di ritorno. Perottobre è atteso il suo prossimo libro, Ogni pro-messa: e chissà che non sia questa l’occasioneper cominciare a rimettere in moto la classifica.

I risultati del nostro sondaggio

Sono 50 i narratori (più sei poeti) che si sonoguadagnati una menzione nelle scelte dei criticia cui il Domenicale ha chiesto di scommetteresui narratori under 40 più solidi. Qualcuno(siamo stati di manica larga) ha già superato i40 anni tondi: li abbiamo ammessi senza troppiformalismi.I più menzionati sono tutti maschi. A partire(4 voti su 6) dal barese Nicola Lagioia (1973),seguito da due autori con tre voti, GiorgioVasta (1970) e Luca Ricci (1970). Nella schiera

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di autori che hanno ricevuto due nomination,finalmente anche le donne (4): Silvia Avallone(la più giovane, 1984, tra i plurivotati), finali-sta quest’anno al Premio Strega, Michela Mur-gia (in finale al Campiello a settembre), LauraPugno e Valeria Parrella. Sempre con due votitroviamo il nostro collaboratore Gabriele Pe-dullà, Cristiano De Majo, Pietro Grossi e Gior-gio Falco (il fuoriquota, 1967). Ancora piùfitta la schiera degli autori che hanno ricevutoun solo voto, tra i quali bestselleristi come Sa-viano, Piperno o Giordano e autori moltomeno noti. Eccoli, comunque, tutti in ordinealfabetico: Dora Albanese, Andrea Bajani,Marco Balzano, Gherardo Bortolotti, Cri-stiano Cavina, Irene Chias, Paolo Cognetti,Ivan Cotroneo, Alessandro De Roma, MarioDesiati, Andrea Di Consoli, Peppe Fiore, Pa-trick Fogli, Giorgio Fontana, Paolo Giordano,Alessandro Leogrande, Annalucia Lomunno,Francesco Longo, Matteo Marchesini, MarcoMissiroli, Letizia Muratori, Matteo Nucci,Paolo Piccirillo, Alessandro Piperno, RosellaPostorino, Christian Raimo, Veronica Raimo,Gianluigi Ricuperati, Roberto Saviano, Giu-seppe Schillaci, Andrea Tarabbia, Giordano

Tedoldi, Mary B. Tolusso, Caterina Venturini,Giulia Villoresi, Simona Vinci, Paolo Zanottie Chiara Zocchi.

Le opinioni dei nostri critici

GIOVANNI PACCHIANO

Realtà e verità i fari da seguireAbbiamo sete di realtà e di verità, oggi. Così, sevogliamo puntare su giovani talenti e promesseunder 40 della nostra narrativa, ci affascina l’ioma ci preme di più il mondo. In questo senso, il«miglior fabbro» ci sembra Roberto Saviano,con l’ormai famoso ovunque non-fiction novel:Gomorra. E a quelli che gli negano, a torto,qualità di romanziere suggeriamo di leggere, nelsuccessivo La bellezza e l’inferno, i due raccontiOssa di cristallo e Giocarsi tutto. Potentementelirici: vero è che il mondo non esclude mai l’io.Patrick Fogli non è uno dei tanti giallisti cheoggi affollano il mercato. Fogli è…Fogli, ori-ginale nella scrittura barocca, gonfia di meta-fore, coinvolgente. Nelle sue pagine verità everosimiglianza entrano di peso col raccontodei mali della nostra società: politici corrotti,

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«[…] piace la scommessa immediatadi quando prendi fra le mani un libro

attratto da un qualcosa difficile da identificaree lo scopri comunque ricco, anche se per qualche ragione,

magari imperfetto»

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altolocati pedofili, venditori di organi umani,servizi segreti deviati, bombaroli, criminali. Ilthriller L’ultima estate di innocenza non pro-mette e basta: è un grande libro. Il tempo in-franto – la strage di Bologna e dintorni – è di-seguale nella sua mole immensa magrandiosamente epico.Vive a Castellaneta (Taranto) la nostra piccolaJane Austen – aggiornata e corretta –, AnnaluciaLomunno. Soavemente perfida nel descrivere constile spezzato vizi e virtù del suo mondo inRosa sospirosa (malinconico e grottesco, bel-lissimo) e Nero Sud.L’esordiente Silvia Avallone, seconda al Pre-mio Strega col romanzo Acciaio, è la vera ri-velazione dell’anno. Sa congiungere con pas-sione romanzo sociale e di formazione nellastoria di due ragazze e di una città operaia(Piombino). Chi pensasse a un exploit isolatovada a leggersi il magnifico racconto Natalesulla strada (in fuga dalla vita), sul Corrieredella Sera del 23 maggio scorso. Scommet-tiamo su di lei.E veniamo a chi, dei giovani scrittori, sembradare largo spazio all’io. Ci aspettiamo da PaoloGiordano, molto lodato per La solitudine deinumeri primi, un secondo romanzo all’altezzadei due strepitosi capitoli iniziali del suo primolibro. Quanto a Pietro Grossi, i racconti diPugni bastano a collocarlo, per la magia dellascrittura, nella nostra storia letteraria; ma né ilsuccessivo romanzo L’acchito né il recente rac-conto lungo Martini (comunque suggestivo) cipaiono eguagliare gli inizi.Ha insolito notevole stile cool il romanzo del-l’esordiente Irene Chias, Sono ateo e ti amo:indecise giovinezze di donne che si guardanovivere. Mentre occorre infine ricordare permolto merito almeno una «fuori quota» (ha 43anni), Mary B. Tolusso, eccellente poetessa cheentra nella narrativa con L’imbalsamatrice.Spiritoso, trasgressivo, sfrontato. Da leggereassolutamente.

ERMANNO PACCAGNINI

La curiosità ci sia guidaHa sempre un po’ del gioco assassino dellatorre il giostrare tra nomi da indicare. A mag-gior ragione in una situazione quale è la let-tura, che è sempre e soprattutto un incontroche, nel caso di opere prime d’un certo inte-resse, ti augura possa ripetersi anche al me-glio, sapendo però che le «promesse» sonospesso fatte per non essere mantenute o anchesolo rinviate (penso ad esempio ad AlessandroDe Roma, una delle sorprese del 2008 naufra-gato col secondo e da verificare ora col terzo),o magari momentaneamente impossibilitate aessere verificate per le più varie ragioni (epenso, nel mio caso, a Nicola Lagioia, letto dasconosciuto quando edito da una minimumfax, ricercato da altri oggi con la nuova ca-sacca Einaudi).Tanto più che poi, quali che siano le indica-zioni che offri, hanno sempre il difetto deltempo (ricordi quasi sempre solo i nomi piùvicini), e soprattutto della ristrettezza degli in-contri rispetto ai tanti esordi, impossibili tuttida seguire. Di qui anche la schizofrenia delleindicazioni (comprese le presenti). Aggiungoche esistono poi anche scelte critiche preciseche optano spesso per piccole case editrici,come le più attente alle voci nuove e che ga-rantiscono un editing più amoroso, attentoalla fattura più che al mercato. Tanto più chespesso nella grande casa editrice il nomenuovo e anche interessante (un nome a caso:Michela Murgia di Einaudi) finisce per esseresoffocato dal grande nome. Ecco perché alloraciò che mi interessa non è tanto chi di lorosarà l’autore del domani, ma chi ha ad esem-pio mantenuto certe promesse, come possonoessere ad esempio i casi, assai diversi stilisti-camente, d’un Pietro Grossi o un Luca Ricci(sia pur in linea orizzontale), come pure d’unMarco Missiroli o Giorgio Falco (in costantecrescita); il piacere di riscoprire al meglio un

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Cristiano Cavina che sembrava essersi persoper strada; la curiosità su che fine abbia fattouna Chiara Zocchi, che peraltro abitua il let-tore a tempi lunghissimi.Così come, al di là del suo futuro, che per l’au-tore e il lettore ti auguri in crescita, ti piace lascommessa immediata di quando prendi fra lemani un libro attratto da un qualcosa difficileda identificare, e lo scopri comunque ricco,anche se per qualche ragione, magari imper-fetto (penso a due diversissimi autori di Nu-trimenti come Paolo Piccirillo o GiuseppeSchillaci), o intensamente doloroso (la RosellaPostorino allora di Neri Pozza o la Dora Al-banese di Hacca), o di cui apprezzi la fre-schezza (Giulia Villoresi). Conscio comunqueche sempre di incontri aperti e di curiosità per-sonale si tratta.

GOFFREDO FOFI

Una situazione eccellenteQuelli dai quali mi aspetto molto, data la so-stanza delle loro prove, anche quelli di cui pochisi sono accorti frastornati dalla pubblicità, sonosia meridionali che settentrionali. Il barese Ni-cola Lagioia è partito da connotazioni autobio-grafiche e da suggestioni di commedia di co-stume spinta al visionario e con Riportandotutto a casa (Einaudi) ci ha dato un ritratto co-rale e generazionale acutissimo della mutazionemeridionale, nella fattispecie pugliese, neglianni ottanta travolti da improvvisa ricchezza.La bolognese Simona Vinci non ha più nulla dadimostrare, dopo molti romanzi di tenerezza ecrudeltà su bambini adolescenti donne comu-nità e dei reportage esemplari. Il napoletanoMaurizio Braucci con il suo terzo libro (Per sée per gli altri, Mondadori) ha scritto una quêtein cerca di sé e dell’immagine del padre lungole «vie senza legge» del Messico, in una om-brosa allegoria però realistica, italiana, di oggi.La romana Letizia Muratori, che evoca infanziedifficili e una gioventù disorientata, su paesaggiinsoliti e alienati. Il palermitano Giorgio Vasta(un romanzo, Il tempo materiale, minimum fax,e un diario di «carotaggio» antropologico sullasua città, che è anche la città più berlusconianad’Italia, Spaesamento, Laterza) ha il necessaris-simo dono di saper narrare ma anche di sapervedere e pensare. Il milanese Paolo Cognetti(due libri di racconti da minimumfax) trasferi-sce il magistero di Carver in una lucida rappre-sentazione del disagio della generazione deitrentenni.Aggiungerei senz’altro Alessandro Piperno, ro-mano, che aspetto alla nuova prova e che sembrapiù adulto di quel che non è, Valeria Parrella, na-poletana, se saprà crescere e resistere alle lusin-ghe del successo, Mario Desiati, pugliese, se dallacommedia d’ambiente e memoria andrà nella di-rezione in cui potrebbe forse dare il meglio,«brancatiana», Michela Murgia, sarda, se non si

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farà costringere nel folklore. E vorrei infine se-gnalare due milanesi, il molto giovane GiorgioFontana, se saprà liberarsi dal peso di certe modeun po’ cinematografiche (Marsilio), e Marco Bal-zano (Il figlio del figlio, Avagliano), un pacato onthe road Milano-Barletta di un nonno un padreun figlio (il narratore) che devono chiudere conil passato ma dentro un presente senza identità,un piccolo romanzo che dice molto su chi siamo.La situazione è dunque eccellente, tanto più checertamente dimentico molti nomi.

MARCO BELPOLITI

Solo due autori ma apocalitticiStrano paese l’Italia dove, da un lato, è al po-tere la più vecchia gerontocrazia occidentale(un primo ministro di 74 anni), e dall’altro, al-meno nell’ambito editoriale, sembra dominare

la sindrome-Giordano: scoprire e lanciare esor-dienti sotto i quaranta, meglio ancora se ventio trentenni, e magari avvenenti (è il nostroanche il paese dell’imperante lolitismo, masche-rato, ma non troppo). Non ho mai creduto allegenerazioni nella letteratura, a meno che essestesse si proclamino come tali facendo di questouna bandiera. Le generazioni sono un effettodella leva militare, della guerra; è lì che è natal’idea della giovinezza come forza del mondo.Dalla guerra al mercato, come dimostra il cultodei teenager, formula coniata in America nel1943. Detto questo, provo a fare solo due nomitra i tanti che ci sono: Paolo Zanotti e AndreaTarabbia. Il primo del 1971, saggista e studiosodi letteratura, il secondo del 1978, russofilo ecollaboratore di riviste online. Due romanzi:Bambini bonsai (Ponte alle Grazie) di Zanotti eLa calligrafia come arte della guerra (Transeu-ropa) di Tarabbia. Perché proprio loro in mezzoa un manipolo assai vasto di scrittori già bravi,se non bravissimi (Christian Raimo, VeronicaRaimo, Nicola Lagioia, Gabriele Pedullà, Gian-luigi Ricuperati, Laura Pugno, Giorgio Vasta,Luca Ricci, Valeria Parrella eccetera)? Perchésono due autori apocalittici, visionari, capaci didarci una lettura esasperata della nostra realtà.I loro libri non saranno perfetti, ma fanno pen-sare, accendono la fantasia e soprattutto dannoun benefico senso di stordimento.Continuo a credere che l’età non sia indispensa-bile per raccontare qualcosa del mondo giovanile,su cui siamo continuamente informati da inchie-ste giornalistiche e dal sentito dire in cui viviamoimmersi. Non è forse vero che il romanzo piùbello e desolante sul mondo dei college americani,vero brodo di cultura di Abu Ghraib, l’abbia

«[…] le cose migliori, da noi,non si leggono in narrativa

bensì in poesia»

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scritto non un neolaureato di Harvard, Yale oStanford, o un brillante scrittore trentenne, bensìun settantenne di nome Tom Wolfe con Io sonoCharlotte Simmons? Provare per credere.

FILIPPO LA PORTA

Inventarsi una lingua forteLa narrativa migliore è quella in cui il propriotempo si traduce in lingua, stile, visione critica,invenzione di personaggi (recentemente RobertoBolaño e David Forster Wallace). A volte il«proprio tempo» può diventare una prigione,però ripropone ogni volta in una forma nuova idilemmi eterni della condizione umana. Ed èun’impresa affascinante riuscire a mostrarequella «forma» (ovviamente ciascuno con lapropria personalità, i propri modi espressivi, ilgenere a lui congeniale ecc.). Per quanto ri-guarda la nostra narrativa provo a fare qualchenome, con la premessa che avere meno di 40anni non significa essere delle «grandi pro-messe», dato che tutti i maggiori autori del ca-none occidentale hanno scritto i loro capolavoriprima dei 40…Cristiano De Majo e Francesco Longo si con-frontano intrepidamente con l’irrealtà liquidadella Rete (Caterina Venturini in modo più lu-dico). Alessandro Leogrande, come Saviano eforse con più consapevolezza letteraria, mettein scena la cronaca per estrarne la verità menoovvia. Silvia Avallone ha un sicuro talento af-fabulatorio, insidiato qua e là da certe leviga-tezze un po’ Scuola Holden. Sarei invece ten-tato di inserire Nicola Lagioia nel filone diquanti si affidano allo stile dell’intelligenza, ilquale genera da sé racconto e idee. Il ritmo con-tratto di Giordano Tedoldi svela una cattiveriairrimediabile. Se Andrea Di Consoli ci mostraun Sud poco convenzionale e quasi luogo del-l’anima, Ivan Cotroneo riesce a raccontare congrazia e humour lieve il ventre di Napoli. Mat-teo Nucci tratta frontalmente il fantasma ita-liano per definizione, la famiglia. E se PeppeFiore con una prosa quasi espressionista stra-volge il reale per rivelarne il nucleo intimo, daMatteo Marchesini – poeta, critico, saggista,autore di racconti – mi aspetto almeno un librodi narrativa importante nei prossimi anni.

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Dunque, diffidate di etichette effimere (tipo il«neo-neorealismo») e di dichiarazioni di poe-tica. Conta solo una cosa: sentire che la linguadell’autore non si libra gratuitamente in unvuoto irrelato ma vince una resistenza chequalcos’altro le oppone (chiamatelo pure «re-altà», «esperienza», «opacità del mondo» ocome volete).

ANDREA CORTELLESSA

E io ci metto anche i poetiFra gli interventi brevi ce n’è uno che associaun massimo di interesse per chi legge con unminimo di convinzione da parte di chi scrive:il canone. Un solo discorso mi è più sgradito,quello generazionale. Ma a torto tacciato diviltade mai sarò, e allora cominciamo conun’ovvietà: le cose migliori, da noi, non si leg-gono in narrativa bensì in poesia. Ecco dunquesei poeti nati negli anni Settanta: il marchi-giano Massimo Gezzi, che lavora in Svizzera(di limpido classicismo L’attimo dopo, Sos-sella), il piemontese Federico Italiano, che la-vora in Germania (mitopoietico L’invasionedei granchi giganti, Marietti), il toscano PaoloMaccari (duramente profilato Fuoco amico,Passigli), la romana Sara Ventroni (labirinticoe insieme epico Nel gasometro, Le Lettere) e,ultima arrivata, la lucana Gilda Policastro (dilancinante fissità le poesie nell’ultimo Qua-derno italiano di marcos y marcos). Il mio pre-ferito è però il più giovane: Gian Maria An-novi, emiliano del ’78 che lavora negli Usa(quanti «cervelli in fuga»!). Appena uscita daTranseuropa è la splendida plaquette Kami-kaze (e altre persone), che fa incontrare unalingua di aguzza eleganza coi traumi più defla-granti del nostro tempo. Non più «promessa»è Elisa Biagini, fiorentina del ’70 che da tempoè una caposcuola. Alla stessa esitazione m’in-duce Gabriele Pedullà, che pur essendo del ’72è in molti sensi già un maestro. Il che non ga-rantiva – anzi! – la riuscita del suo esordio

narrativo: timore fugato da Lo spagnolo senzasforzo (Einaudi).Sei narratori «puri»? Senz’altro i torinesi acqui-siti Andrea Bajani (severo e dunque commo-vente Se consideri le colpe, Einaudi) e GiorgioVasta (ossessivo e dunque ottimo Il tempo ma-teriale, minimum fax) e il pisano Luca Ricci (mi-nuziosamente perverso L’amore e altre formed’odio, Einaudi). Della romana Laura Pugno,che lavora in Spagna, Sirene (Einaudi) eQuando verrai (minimum fax) mostrano comeuna lingua poetica possa fare narrativa diprim’ordine (il contrario si dà assai menospesso). Del bresciano Gherardo Bortolotti è ec-cellente ancorché esile Tecniche di basso livello(Lavieri), del campano Cristiano De Majo (mes-sosi in luce in Italia Due, minimum fax) annun-cia il romanzo d’esordio Ponte alle Grazie. Ec-cezione inversa a quella dei giovani già-maestriè costituita poi da Giorgio Falco, lombardo chei quaranta li ha passati (è del ’67) ma si è affer-mato solo nell’ultima stagione: l’autore deL’ubicazione del bene (Einaudi) è quello sul cuifuturo mi pare si possa scommettere di più.

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I più bravi giovani scrittori?Sono sempre tutti in famiglia

Da settimane nei salotti letterari ci si chiedechi siano i critici che si stanno facendo qua-drato in difesa del documentario di AndreaCortellessa Senza scrittori (ovviamente vistoda nessuno e discusso da tutti). Bene, ora una(possibile) risposta c’è. I nomi, o almeno al-cuni, li trovate sull’inserto culturale del Sole24 Ore di domenica: sono i critici impegnatia stilare la classifica dei nuovi scrittori «underquaranta». I critici chiamati a raccolta dalSole 24 Ore sono sei: si parte dallo stesso An-drea Cortellessa e si arriva a Filippo La Porta,passando per i «mostri sacri» Marco Belpoliti,Giovanni Pacchiano, Goffredo Fofi e ErmannoPaccagnini (forse l’unico outsider). Comun-que, i loro nemici sono la Mondadori (e l’edi-tor Franchini su tutti, sbeffeggiato nel docu-mentario), Margaret Mazzantini, indicatacome esempio di cattiva letteratura, ma non

l’intoccabile Einaudi. Però le mazzate non ri-sparmino nemmeno i Wu Ming e tutti i be-stselleristi «cucinati» a Segrate, da AlessandroPiperno a Paolo Giordano fino a Roberto Sa-viano, parecchio snobbati. Nella loro classi-fica i supercritici danno poco spazio a chivende o a chi è troppo estremo, ma in com-penso propongono una schiera di nomi semi-sconosciuti. Peccato che tra questi ultimi ci siaanche qualche fidanzata, o fratelli, o figli, ocolleghi di università. E così nell’ambiente èpartita la «caccia al legame». Il primo è faci-lissimo. Tra i migliori «giovani» scrittori, bendue dei sei critici – guarda caso – segnalanoGabriele Pedullà, noto anche come «Pedullàfiglio», che per il Sole 24 Ore ci scrive pure e– sempre per puro caso – ha introdotto il temacon l’articolo di copertina dal titolo La caricadei magnifici under 40. Magnifico.

Tommy Cappellini, il Giornale3 agosto 2010

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«[…] propongono una schiera di nomi semi-sconosciuti.Peccato che tra questi ultimi ci sia anche qualche fidanzata,

o fratelli, o figli, o colleghi di università»

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Scrittori troppo snob per vendere

Il gioco di punta estivo dell’inserto culturale do-menicale del Sole 24 Ore è consistito nel racco-gliere i pareri di sei critici su chi siano gli scrittoriitaliani più interessanti sotto i 40 anni. D’estateè davvero dura riempire i giornali. Il criterio discelta dei critici è apparentemente oscuro. Checosa fa di un critico un critico? Non si sa. Biso-gna apparire molto in alcuni ambienti, dettianche salotti, cenare con svariate persone noio-sissime e petulanti, omaggiare di citazioni bene-vole gli autori delle case editrici amiche. Natu-ralmente, bisogna recitare come un mantra ilrosario dei luoghi comuni dell’estate a Capalbio,leccare i piedi ai politici della sinistra che ha po-tere, scrivere su giornali che quasi nessuno piùlegge e tantomeno compra come il manifesto el’Unità, essere un po’ tromboni e citare a vanveraconcetti oscuri come «dolorosa intensità», «lan-cinante fissità», «lucida rappresentazione» oanche «carotaggio antropologico». L’aggettiva-zione ciclica e intercambiabile è la cassetta degliattrezzi di questi critici prêt-à-porter.Nel caso in questione abbiamo Giovanni Pac-chiano (che però è di casa e anche volendo nonavrebbe potuto sottrarsi), Ermanno Paccagnini,che richiederebbe un decoder, Marco Belpoliti,uno che non scherza mai, Filippo La Porta, trai più attendibili e infatti spesso isolato, AndreaCortellessa, un esoterico presenzialista, e Gof-fredo Fofi, che sta lì da quando siamo nati, unavita di opinioni.

UNA GRAGNUOLA DI NOMIIl gioco dell’estate secondo Il Sole 24 Ore sa-rebbe rispondere alla domanda sul perché in Ita-lia non ci siano abbastanza scrittori under 40.Senonché ce ne sono semmai troppi. Segue in-fatti una gragnuola di nomi. Una cinquantina.Che anche solo a provare a leggerli tutti, i loroelaborati, non basta una vita normale. E infatti,che vendano più di dieci copie non ce ne sonoche tre o quattro, Roberto Saviano, Paolo Gior-dano, Silvia Avallone, Alessandro Piperno(forse), e tutti equipaggiati con il motore turbodi investimenti milionari in pubblicità.Degli altri, Nicola Lagioia lo sentiamo nominarespesso come bravo e promettente, e certo si dàmolto da fare, altri ancora come Raimo (ce nesono addirittura due, Christian e Veronica) oGiorgio Vasta o Valeria Parrella, godono del pa-tentino di penne profonde soprattutto perché lipubblica o li ha pubblicati la casa editrice mini-mum fax, specializzata nell’arte di compiacere lasinistra benpensante. Solo di sfuggita vengononominati Giordano Tedoldi (reo di scrivere suLibero) e Peppe Fiore. Neanche un pensiero aOttavio Cappellani (colpevole di collaborare aLibero), neanche una menzione per EnricoBrizzi, perché se ne frega, beato lui, di questecombriccole.Inutile dire che molti nomi circolano fra le giu-rie dei funesti premi letterari, per esempio Mi-chela Murgia, autrice folk buonissima per i

Paolo Bianchi, Libero3 agosto 2010

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palati molli del Campiello. Superfluo ricor-dare che sono quasi tutti pubblicati da Ei-naudi, casa editrice specializzata nel doppiogioco, usare i soldi del Caimano per tirarselada fortino di democrazia liberal.

LA PROSA DI PEDULLÀChe gente noiosa. E infatti il novanta per centodi questi autori non hanno pubblico, non bat-tono chiodo e intasano inutilmente gli scaffalidelle librerie finché le copie non tornano indie-tro. Sentite come si esprime Gabriele Pedullà,che è allo stesso tempo critico e scrittore votatodai critici, e che, ricordiamolo, è figlio di unprofessore universitario assai temuto e che Fer-nanda Pivano nei suoi diari definiva come uninsopportabile rappresentante della più trita ac-cademia: «Proprio perché una nidiata di autoripromettenti sta diventando vieppiù riconosci-bile, appare ancora più doloroso il progressivorestringersi degli spazi per quanti non si rasse-gnano a trasformarsi in semplici intrattenitori».A parte che uno che scrive così non si capiscecome possa arrivare a pubblicare dei libri, al

massimo può insegnare anche lui nell’Universitàitaliana, tentiamo comunque d’interpretare:questi scrittori non vendono una castagna seccaperché non si abbassano a raccontare storie cheinteressino a qualcuno. Perché stanno tutti abagno nella stessa brodaglia torbida e insipida,cercando di compiacere i critici e il loro bisognodi dolorosa intensità e lancinante fissità o frescaconsapevolezza. Solo che i Pedullà padre e figliole cose semplici non le riescono a dire. Pedul-lino, oltretutto a pagamento, parla di «formeegemoni» e «sommovimento complessivo».Mai una volta che ti consigli un libro davverobello e divertente. Solo roba degli amici suoi. In-fatti, già che c’è, ci infila anche una marchettasul prossimo libro di Andrea Bajani.E allora noi, visto che questo è solo un gioco eva preso per quello che è, un divertimento, viconsigliamo scherzosamente, cari lettori chepartite per le vacanze o che già ci siete, di com-prare libri di autori perlopiù non citati nell’in-chiesta dei nostri solari amici. Anzi, se ne tro-vate di buoni, segnalateceli voi. Sempre così,per gioco.

«[…] il novanta per cento di questi autori non hanno pubblico,non battono chiodo e intasano inutilmente gli scaffali delle librerie

finché le copie non tornano indietro»

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Scrittori, la carica degli Under 40: creatività tra riti eordinaria fatica

Come creano gli autori italiani della nuova gene-razione emergente? Lo rivelano Nicola Lagioia,Silvia Avallone, Enrico Brizzi e Laura Pugno.C’è chi è affezionato alla vecchia poltrona dicasa tutta strappata. C’è chi, prima di «suo-nare» sulla sudata tastiera, mette in ordine casafacendo le pulizie. C’è anche chi, prima di lavo-rare, dà vita a una specie di rito magico vesten-dosi come se dovesse andare a fare sport. O chial contrario non ha abitudini e, anzi, crede chela scaramanzia limiti la creatività e approccia ilfoglio bianco come un operaio affronta un qual-siasi altro lavoro. Così creano gli scrittori ita-liani della nuova generazione emergente, quelladegli under 40, tra «segreti», abitudini «incon-fessabili» e veri e propri «riti» che accompa-gnano la scrittura.«La mia unica abitudine – spiega all’Adnkronoslo scrittore barese Nicola Lagioia, classe 1973,autore per Einaudi nel 2009 di Riportando tuttoa casa – è quella di utilizzare la stessa sedia chetroneggia nel mio studio. Non si tratta diun’abitudine ma di una mia pigrizia. Lavorocon regolarità sempre a casa mia cercando dinon essere distratto. Per uno scrittore giovaneche vuole emergere, però – aggiunge – il segretoè quello di lavorare su se stessi e sulla paginascritta, cercando di migliorarsi sempre. La de-dizione e l’applicazione rappresentano, comun-que, le “carte” principali per poter scrivere unromanzo originale».

Tra gli scrittori emergenti sono molti quelli chesi percepiscono come degli «operai» dellapenna: artisti, cioè, che lavorano come se andas-sero in fabbrica. È il caso dell’esordiente SilviaAvallone, che a soli 25 anni è arrivata secondaallo Strega con il suo Acciaio pubblicato da Riz-zoli, dopo un testa a testa con Canale Mussolinidi Antonio Pennacchi. Una giovane scrittriceche ha un’abitudine da «massaia»: pulire casa eavere tutto in ordine prima di sedersi alla scri-vania e immergersi nel disordine creativo.«Mi sveglio ogni mattina alle sette – confessa –faccio le pulizie e metto in ordine. Lavoro sem-pre tra le mura domestiche otto ore al giornocon orari fissi, come quelli di un impiegato o diun operaio. Sono metodica e regolare. Prima diiniziare a scrivere mi “nutro” dei classici: ro-manzi dell’Ottocento francese e russo e della let-teratura americana. Romanzi che rappresentanoper me la fonte principale d’ispirazione. Primadi iniziare a scrivere lavoro sul campo – ag-giunge – osservando da vicino i luoghi che vo-glio descrivere. Il mio interesse – conclude – èquello di raccontare spaccati di società. Mi con-sidero una scrittrice popolare, lontana daigrandi romanzieri borghesi, come Moravia, chepure apprezzo molto».Le abitudini e i ritmi consolidati sono anche laparola d’ordine di Enrico Brizzi, autore di ro-manzi di successo come Jack Frusciante è uscitodal gruppo e L’inattesa piega degli eventi.

Adnkronos4 agosto 2010

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Scrive, infatti, sempre nello stesso luogo, lastanza adibita a studio, di un piccolo apparta-mento. Brizzi è un romanziere con una partico-larità in più. Per comporre deve sentirsi comodoe indossare abiti «casual».«Amo scrivere – racconta – vestito come se do-vessi andare a remare, o a pesca, come se do-vessi fare sport. Non riuscirei mai a scrivere“imprigionato” in una giacca e una cravatta.Scrivo – continua – sempre nello stesso posto.Fino a pochi anni fa era una stanza della casapoi, dopo la nascita dei miei figli, è diventata lastanza di un piccolo appartamento-studio vicinocasa. Prima accompagno i miei bambini al-l’asilo, poi vado in studio a piedi, bevo un caffèe comincio». Brizzi, inoltre, ascolta «musica ditutti i tipi ma non italiana. Non perché non l’ap-prezzi – precisa – ma perché le parole in italianomi distrarrebbero».L’autore di Tre ragazzi immaginari ammette didare la priorità, durante la fase creativa, al-l’ascolto di quella che definisce «la “Voce” dellascrittura. Cerco di capire chi mi sta raccontandoquesta storia. Cerco di trovare la voce adattaper il “mio narratore”». Ma nonostante i suoilavori siano stati oggetto di diversi adattamenti,

«Così creano gli scrittori italianidella nuova generazione emergente,

quella degli under 40, tra segreti,abitudini inconfessabili e veri e propririti che accompagnano la scrittura»

dal cinema al fumetto, Brizzi dice di non pen-sare «mai a una possibile sceneggiatura o adat-tamento di quanto sto scrivendo».Tra i giovani autori del Belpaese, c’è poi anchechi ritiene che un eccesso di riti possa limitarel’ispirazione e la creatività. E che dichiara dinon avere alcun tipo di abitudine legata allascrittura, avendo già un altro lavoro. Un «iden-tikit» che risponde al nome della scrittrice epoetessa Laura Pugno che ha pubblicato conl’Einaudi il romanzo Sirene. «Credo che un ec-cesso di abitudini – spiega – sia sbagliato e possacompromettere la creatività. Non ho riti suiquali contare per stimolare la mia creatività».«Scrivo quando mi capita: in particolare la mat-tina presto o la sera tardi, dal momento chesvolgo un lavoro d’ufficio (è addetto culturaledel Ministero degli Esteri in Spagna, NdR.). Maanche in vacanza e nelle ore libere dal lavoro».Nonostante sia partita dalla scrittura per ilgrande schermo, la Pugno assicura di non pen-sare mai in termini «cinematografici» alle sceneo ai dialoghi quando è alle prese con un ro-manzo. «Credo che immaginare un adatta-mento cinematografico di ciò che si scrive sia li-mitante», conclude.

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La letteratura italiana ha perso la potenza

Riflettendo sulla nuova narrativa italiana, im-possibile non considerare la critica che l’accom-pagna. Ma sto parlando in qualità di lettore, nédi scrittore più anziano, né di critico, ciò chenon sono. Mi immagino che il critico di unaqualche disciplina sia colui che la pone non giàepisodicamente, ma quotidianamente, allaprova. È una figura, quella del critico, in via disparizione. Per mille e un motivo. Principali, ildispotismo del valore mercantile, la (conse-guente) diffidenza dei giornali a istituire unruolo altamente riconoscibile, la difficoltà deglieventuali candidati ad accettare: si scrive tanto,si pubblica troppo, la qualità media cresce e di-minuisce la possibilità di imbattersi in opere oin persone per le quali valga la fatica di fare lacernita e di organizzare un discorso. Insomma,le valutazioni che negli ultimi mesi hanno mo-strato vera energia sono: malinconica quella diGiulio Ferroni, nel suo libro Scritture a perdere;e sarcastica quella di Luca Archibugi e AndreaCortellessa, nel loro documentario Senza scrit-tori. Ma né l’uno né gli altri sembrano disponi-bili a illimitati atti di fede.In un’inchiesta del Sole 24 Ore di domenicascorsa sugli scrittori più promettenti, circo-scritti ai meno che quarantenni, si rimanevacolpiti dai numeri. Quanti sono questi promet-tenti scrittori? Una cifra impressionante, cin-quanta. Come non chiedersi se i sei critici chene hanno proposto i nomi avessero, tutti e sei,

letto i cinquanta autori nominati? In quanto airesponsi, si va dall’inaspettatamente euforicoGoffredo Fofi, che deteneva un record di seve-rità, al cautissimo Ermanno Paccagnini, consa-pevole che le «promesse sono spesso fatte pernon essere mantenute». Ma dovendo entrarenel merito dei criteri di valutazione dei sei, ciòche sconcerta non è la loro difformità, ma laloro impalpabilità, se non l’ arbitrio. MarcoBelpoliti segnala Paolo Zanotti e Andrea Tarab-bia perché «sono apocalittici, visionari, capacidi dare una lettura esasperata della nostra re-altà». Ci si chiede: che merito speciale è essereapocalittici? E poi: che cosa significa essere vi-sionari? La Porta sostiene che quarant’anni èun limite già alto: quanti capolavori si sonoscritti prima di questa età? Ha ragione. Ma uncapolavoro è un capolavoro, né una promessa,né un’opera. Inoltre, come non accorgersi cheoggi si matura più lentamente, che per trovareuna propria originale voce bisogna farsi largoin una quantità di materiali, eccelsi o abietti, digran lunga superiore a quella dei vecchi tempi?Infine gli scrittori, le promesse, ovvero la si-tuazione attuale. Per rimanere ancora un at-timo tra i lettori, anzi tra i lettori lieti, comenon sorridere di fronte all’entusiasmo di An-tonio Franchini, suo editore, e di Andrea Zan-zotto, suo concittadino astrale, per AntonioPennacchi, in quanto autore di un grande libroepico? Fino a un mese fa, prima della vittoria

Franco Cordelli, Corriere della Sera7 agosto 2010

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allo Strega, queste esplosioni di gioia per unautore (comunque sessantenne) non s’eranopercepite. Sono venute ora, a giochi fatti. Gio-chi naturalmente di mercato, assenti valuta-zioni critiche in senso stretto. Ma per quantone so, volendo a queste, se possibile, rimanerefedeli, la difficoltà di indicare nomi nuovi, omagari meno nuovi (penso che cinquant’anni,per le nostre capacità di crescita e di perce-zione, siano un limite più ragionevole) nascedalla sottovalutazione dell’elemento cruciale:come scrive chi scrive? O, detto in altri ter-mini, quali sono le sue proprietà di stile? Ni-cola Lagioia, il nome più ricorrente, è tutt’altro che uno stilista. Se Lagioia ha un limiteè di accumulare, di non tagliare, di non rifi-nire. Questo non gli impedisce di essere loscrittore che è, così capace di vedere e di rac-contare. Ma la sua inclinazione è largamentecondivisa. Effetto del computer? Che non siscrive più a macchina, tanto meno a mano? Sesi scrive a mano si fatica di più, e si è istinti-vamente più sorvegliati.Tra gli scrittori promettenti, che però sem-brano debitori del dio dell’abbondanza, citereiAntonio Scurati e Giuseppe Genna, ma ancheAlessandro Piperno. Stranamente, Scurati sulSole non è stato rammentato da nessuno. Dicostranamente perché si è citato Giorgio Falcoche ha 43 anni e non Scurati, che ne ha 41, mache rispetto a Falco è una figura, nel nostro pa-norama letterario, riconoscibile e autorevole.

Un altro scrittore quarantunenne, anzi unascrittrice, che non è stata nominata, è SilviaBallestra. Perché ha cominciato a pubblicareda tanti anni? Perché ha al suo attivo moltilibri? Può darsi, ma è tra i pochi che possonovantare almeno un romanzo, Nina, che saràletto in futuro: chi ha mai raccontato, come lei,la condizione della madre in attesa di un figlio?Ciò che ho appena detto implica, si capisce,che lo stile non è tutto. L’argomento (il conte-nuto, e poi il tema) è altrettanto decisivo percogliere il punto sanguinoso di un immaginariocollettivo. È la ragione che ha fatto di Savianociò che Saviano è, con tutti i suoi difetti di con-trollo stilistico, con tutte le sue intemperanze.Nella sua sfera d’ influenza o di evidenza (inragione, appunto, degli argomenti) mi sem-brano sopravvalutatissimi Ammaniti, MelaniaMazzucco, Helena Janeczek e anche, per ra-gioni lievemente diverse, Valeria Parrella eGiorgio Vasta. Viceversa, valori già accreditati,ossia autori con un profilo letterario indubbio,sono i prossimi ai cinquanta Canobbio, Cor-nia, Covacich, Nori, Nove, Pavolini, Pincio,Scarpa e Trevisan.Ma per tornare ai più giovani: l’unico trentenneche abbia scritto un libro bellissimo, ricco dellamemoria culturale che più ci manca, è AndreaBajani con Se consideri le colpe; un altro è Ga-briele Pedullà: nel suo Lo spagnolo senzasforzo, un vero stilista; ma a Pedullà fa da osta-colo ciò con cui si è affermato, la sua qualità di

«È una figura, quella del critico, in via di sparizione.Per mille e un motivo. Principali, il dispotismo del valore

mercantile, la (conseguente) diffidenza dei giornalia istituire un ruolo altamente riconoscibile,

la difficoltà degli eventuali candidati ad accettare»

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critico. È la questione di fondo: dagli anni Ot-tanta gli scrittori hanno rinunciato ad essere ciòche sono sempre stati nei secoli dei secoli, deiletterati, sia pure dei letterati in maschera, tra-vestiti da canaglie alla Villon o Rimbaud; dadandy alla Max Beerbohm o alla Horacio Qui-roga; da rivoluzionari alla Voltaire o alla Brecht;da contestatori alla Kerouac o alla Cabrera In-fante. Vi hanno rinunciato per la paura d’esserepuniti (dal mercato, nel gioco dei ruoli) mano-vrando due distinte attività, lo scrittore e il pro-fessore, o il giornalista, o il critico. Così, insisto,si è diluita la memoria letteraria. Quante volteho detto a Scurati: la tua opinione su Bush o suObama è facile, dunque irrilevante; perché nonci parli dei tuoi padri o fratelli? Ma lui è comenon ne avesse, né padri né fratelli.In generale, la diminuzione di memoria ècausa o forse conseguenza di un’altra diminu-zione, più imponderabile, ma che è ciò chetutto determina: quella di potenza. Alla cul-tura, ovvero alla letteratura italiana, ciò cheessenzialmente manca (lo sostiene un criticocome Raffaele Manica) è la potenza. È lastessa che da tempo manca al nostro Paese,l’Italia. Non si tratta di imitare chi ne ha,l’America o, partendo da identità regionali elocali, Paesi più o meno sviluppati o in via disviluppo, India, Irlanda, Israele. Si tratta, pro-prio e ahimè, del fatto che la Storia segue ilsuo corso e non ci sono rimedi se non surret-tizi o, al contrario, individuali, cioè geniali.

Se c’è una cosa che accomuna i nati in Italiadopo il 1970 è l’eccezionalità del contesto, ecioè il fatto di essere cresciuti in quello che – ul-timo o penultimo invitato alla tavola dellegrandi potenze democratiche – è diventato ne-anche troppo lentamente un paese del secondomondo. Bene, l’ho detto: «secondo mondo», econ questo spero di aver contribuito a rompereil tabù di chi ritiene che l’uso di eufemismi quali«difficoltà» o «arretramento» abbia un valoreapotropaico, o peggio ancora di chiunque vo-glia convincerci che seminando il vuoto a ren-dere dell’euforia fine a se stessa cresca l’alberodella cuccagna.Capisco che sia dura da accettare per coloro che,sospinti dall’onda del vecchio boom sulloscranno di una qualche docenza universitaria,alta dirigenza, segreteria di partito, hanno scam-biato col trascorrere degli anni la propria inamo-vibilità per autorevolezza, e dunque la putrefa-zione per progresso. È per questo che proprionon me la sento di dare l’onere di chiamare lecose col proprio nome alla generazione dei Tom-maso Padoa-Schioppa, l’ex ministro figlio del-l’amministratore delegato delle Assicurazioni Ge-nerali a cui solo un Edipo non risolto può averesuggerito un giorno la parola: «bamboccioni».In questo modo è più facile che le parole «se-condo mondo» le possa pronunciare senzatroppe crisi isteriche chi, come me, non avevaavuto il tempo di ricavarsi un posto al sole

Manifestoper autori under 40

Nicola Lagioia, Il Sole 24 Ore8 agosto 2010

«[…] la diminuzione di memoriaè causa o forse conseguenza

di un’altra diminuzione,più imponderabile, ma che è

ciò che tutto determina: quella dipotenza»

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quando il vento ha iniziato a cambiare; chi,tanto per dirne una, ha frequentato un’univer-sità che di competitivo aveva ormai solo i bidelliche facevano a gara per chiederti una mancettadi cinquantamila lire dopo averti fotografatodurante la sessione di laurea.Nessuna università italiana tra le prime 100secondo l’Academic Ranking of World Univer-sities. Settantatreesimo posto alla voce libertàdi stampa secondo il rapporto di FreedomHouse, dietro la repubblica presidenziale delBenin e in coabitazione con Tonga. Non con-tinuerò con le classifiche. Troppe da elencare,troppo univoche, e perfino noiose: era solo perrendere il concetto; allo stesso modo non faròl’avvocato del diavolo che brandisce il vessillodel Pil pro-capite adeguato alla parità dei po-teri d’acquisto (un dignitoso ventisettesimoposto nel 2009 secondo il Fmi, dietro Belgio,Francia, Spagna…) perché questi calcoli vi-vono sotto il ricatto di troppe variabili, e so-prattutto perché ad esempio gli Emirati Arabihanno un reddito pro capite che straccia ilRegno Unito ma basterebbe spostarsi sul ver-sante dei diritti umani per non definirli unpaese del primo mondo.Credo sia invece più interessante capire comemai per gli under 40 italiani di oggi un certorealismo richieda pochi sforzi e, contempora-neamente, sia anche la dura lezione appresa nelpassaggio dall’adolescenza all’età adulta. Ladefinirei una questione di imprinting: difficilepensare di non vivere in uno dei paesi più cor-rotti dell’occidente se ti congedi dal liceo pocoprima di Tangentopoli; così come è piuttostocomplicato credere a uno Stato sovrano se dai

il tuo primo esame alluniversità non quandoesplode la bomba sull’autostrada Capaci-Pa-lermo ma 57 giorni dopo, perché se il beneficiodel dubbio poteva sopravvivere con moltosforzo alla morte di Falcone, la sua lapide èstata scritta in via d’Amelio. Faticoso, delresto, credere a una politica che favorisca me-ritocrazia e bene comune se – scontrandoti giàda qualche anno col muro di gomma geronto-cratico in campo lavorativo – hai assaporatol’insostenibile pesantezza della sospensione de-mocratica in quel di Genova durante il G8 del2001; e hai faticato a sostenere un déjà-vudegno di Philip Dick quando il ministro del-l’Interno di allora, costretto a dimettersi peraver definito «un rompicoglioni» una vittimadelle Brigate rosse, si sia ri-dimesso non tantoper l’incredibile circostanza di non sapere chigli aveva comprato casa ma per l’ancora piùincredibile circostanza di essere stato nominatoministro un’altra volta.Se qualcuno pensa che sto ingrossando l’otredel catastrofismo, sgombro subito il campo.Nessun catastrofismo, nessuna lamentela chevada oltre lo sforzo di tacitare qualche dolorestagionale. Il contrario, piuttosto: credo cioèche solo una generazione talmente forte dachiamare le cose col proprio nome e abba-stanza coraggiosa da provare non la vergogna,ma finalmente l’orgoglio di essere sopravvis-suta emotivamente agli ultimi vent’anni, possaaiutarci a ripartire.Stringendo poi l’attenzione su quegli under 40che cercano di raccontare il mondo attraverso lelenti deformanti della letteratura, credo che ibuoni segnali sia incapace di coglierli solo chi

«[…] solo una generazione talmente forteda chiamare le cose col proprio nome e abbastanza coraggiosa

da provare non la vergogna, ma finalmente l’orgogliodi essere sopravvissuta emotivamente agli ultimi vent’anni,

possa aiutarci a ripartire»

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questa letteratura non ha l’abitudine di frequen-tarla. Se si guarda alla recente produzione degliscrittori italiani (non solo under 40), è difficilenon accorgersi di una grande vitalità; e ciò a di-spetto di ritrovarsi in un paese che ha elevato ildisprezzo per la cultura quasi a punto d’onore.Cessare di vivere nel primo mondo – seppure di-mezzi le opportunità – non è la conditio sine quanon per scrivere libri che lascino il segno: il ventredella Grande depressione partorì i capolavori diFaulkner, dalla Colombia è venuto fuori GarcíaMárquez, e alla maschera mortifera di Pinochetsi è sottratto uno come Roberto Bolaño. Perquanto insomma soffra quotidianamente comeuomo e come cittadino, vivere su un territorio ingrado di offrire incredibili incesti di potere, poli-tica e criminalità quali ad esempio le recenti tele-fonate tra Gennaro Mokbel e l’ex senatore Ni-cola Di Girolamo... be’, tutto questo offre a noiscrittori un punto d’osservazione degno del mi-glior teatro elisabettiano aggiornato al XXI secolo.Il che pone anche un problema di forme: la nostranon è forse più terra da neorealismo o da neoa-vanguardia o da post-moderno; è piuttosto unasorta di incubo di Hieronymus Bosch con sotto-fondo di jingle pubblicitari, una dimensione incui prima non eravamo mai stati. Ricordate ilvecchio apologo di Orson Welles sulla pacificaSvizzera produttrice di orologi a cucù, contrap-posta agli intrighi sanguinari dei Borgia da cui sa-rebbero venuti fuori Michelangelo e Leonardo?Bene, così come prima non cercavo di esserecatastrofico, adesso non voglio gloriarmi dellenostre miserie. Sto cercando piuttosto di direche solo guardando in faccia la Medusa – ilche, nel caso di uno scrittore significa riuscirea opporvi lo specchio di una lingua che la rac-conti senza restarne pietrificati – sarà possi-bile, anche fuor di letteratura, trovarsi a uncerto punto dall’altra parte del guado. Amarei propri tempi difficili tanto da volerli riscat-tare: mi pare un ottimo vertiginoso trampo-lino, per i nostri secondi quarant’anni.

È giusto, nel vastissimo mare dei romanzi dinuovi autori che negli ultimi anni appesanti-scono i banchi dei librai, cercare di fare il puntodella situazione, di capirci qualcosa soprattuttoda un punto di vista letterario, in un tempo chesembra privilegiare solo i numeri e le vendite. Ilsupplemento domenicale del Sole 24 Ore ha in-terpellato in questo senso vari critici, mettendoin moto un’idea di riflessione necessaria (sull’ar-gomento è intervenuto anche Cordelli sul Cor-riere). Iniziative come queste sono utili, purchénon si arrivi (come oggi si tende a fare da piùparti) a stilare classifiche, che sono in fondo lanegazione della critica e la brutta copia delleclassifiche di vendita. Ho apprezzato anche l’in-tervento di Andrea Cortellessa, che sottolineavagiustamente la maggiore vitalità (e direi libertà)della poesia giovane rispetto alla narrativaunder 40, anche se le sue scelte coincidono soloin parte con le mie e se penso che definire la Bia-gini caposcuola sia piuttosto improprio.Venendo ai narratori, devo dire che la ricerca os-sessiva della novità e del talento giovanissimoha contribuito a rendere più caotico il panoramacomplessivo. Tanto che oggi le motivazioni chemuovono un narratore non sembrano più, es-senzialmente, quelle di praticare un’arte, ma ditrovare il modo di pervenire a un generico suc-cesso. Molte, insomma, le presenze velleitarie oacerbe, molti i romanzi che sanno più di socio-logia spicciola che di letteratura e dunque di

Giovani scrittori imparatedall’America

Maurizio Cucchi, La Stampa10 agosto 2010

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poesia e ricerca di scrittura e stile. Certo moltomi sfugge, visto che nelle tantissime uscite distri-buite in libreria è difficile orientarsi, a meno dinon leggere nient’altro; e dunque sono certo diaver perso molto del meglio. Ma è anche veroche la frequente nascita di «grandi stelle» rendeun po’ troppo funzionale il paesaggio della no-stra narrativa al sistema del varietà totale nelquale quotidianamente siamo immersi.Non certo per snobismo, ma per semplice curio-sità e per una felice combinazione, mi è capitatodi leggere in questi giorni estivi l’opera prima diuna scrittrice americana nata, se non sbaglio (lanotizia biografica del libro non indica l’età), nel1976. Si tratta di Catherine E. Morgan, autricedi Tutti i viventi (Einaudi), romanzo molto beneaccolto e premiato negli Stati Uniti, e che purenella semplicità della sua storia, e nella sua li-nearità, mi è parso un libro di qualità insolita edi già evidente maturità espressiva. L’autrice noncerca scorciatoie o astuzie persuasive. Raccontadi due giovani nel Kentucky, che si mettono as-sieme dopo una tragedia che ha cancellata la fa-miglia di lui, Orren, che è un ruvido contadinointenzionato a vivere nella fedeltà alle origini,nella continuità con il lascito familiare, mentrela ragazza, Aloma, è più vibrante e sensibile,amante della musica e pianista.Il lettore viene coinvolto da una scrittrice cheriesce a far comprendere, in ogni dettaglio, l’im-portanza decisiva, nell’esperienza umana, del

rapporto diretto e fisico con il reale; rapportodi cui oggi sempre più siamo spossessati. C’èqualcosa di poeticamente ruvido e concretonelle sue descrizioni, nel suo modo di rappre-sentare un mondo periferico e quasi astorico.Un mondo, quello del cuore degli Stati Uniti,che ha dato molta grande narrativa. La Morganha certo ben presenti Carson McCullers e Flan-nery O’Connor. Ma non può certo non averamato l’immenso William Faulkner, o anche ilpiù vicino Cormac McCarthy. Da un lato, nelsuo racconto, il contadino legatissimo alla terra,dall’altro la ragazza che ama l’arte, che si rea-lizza nella gioia del contatto con una tastiera dipianoforte e che troverà anche il fascino di unaspinta ideale nella figura di un giovane prete dicampagna. Ma, appunto, le due diverse realtàdi Orren e Aloma sentono il bisogno oscuro direlazionarsi, di coesistere e sovrapporsi, alimen-tandosi reciprocamente.Io credo che questa scrittrice possa costituire unesempio molto interessante, non tanto come mo-dello possibile a cui rifarsi. Quanto per la dimo-strazione che mi sembra dare di una ricerca chenon può non essere condivisa da un vero scrittore:quella della paziente costruzione di un’opera nellaverità personale, nella forza dello stile, nella te-nace pratica di un’arte straordinaria come è quelladel narrare. Considerando pubblicità e successoimmediato come puri accidenti, come conse-guenze marginali, e dunque del tutto secondarie.

«[…] oggi le motivazioni che muovono un narratorenon sembrano più, essenzialmente, quelle di praticare un’arte,

ma di trovare il modo di pervenire a un generico successo»

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Da più di un mese imperversa un’aspra pole-mica sull’industria editoriale, innescata da undocumentario girato dal critico letterario An-drea Cortellessa, Senza scrittori. Secondo Cor-tellessa la grande editoria sta compiendo unasorta di pulizia etnica globalizzante, al terminedella quale agli amanti della letteratura non re-sterà che fuggire in un villaggio al confine fral’Italia e la Slovenia, Topolò, dove si tiene il piùpiccolo festival letterario del pianeta. C’è moltaautoironia in Senza scrittori, e anche qualcheverità, ma qui si vorrebbe provare a capovolgerela questione. Ci domanderemo come mai in Ita-lia non si riesca a far fruttare il capitale con i ro-manzi che durano. Senza questo capovolgi-mento ogni discussione resta ancorata a uncontrasto fra buoni e cattivi, e diventa una per-dita di tempo.Il primo passo da compiere è sbarazzarsi dellasoluzione più ovvia, e cioè che da noi sia difficilevendere la buona letteratura per ragioni storichee culturali. Messa così, la buona letteratura nonvende per la stessa ragione per cui l’Italia nonha mandato un uomo sulla Luna. Eliminata larisposta contestuale, diventa logico individuarealcune figure che indubbiamente potrebbero es-sere chiamate in causa.Per molti lo scarso rilievo dato ai romanzi diqualità è la conseguenza di una sorta di com-plotto filisteo ordito dagli editori. Esisterebbeuna «Spectre» al centro della quale siederebbe

Antonio Franchini, potente editor della Monda-dori. Accanto a lui, i funzionari di Rcs e quellidegli altri grandi gruppi. Tutta gente interessataal profitto, e solo ad esso.Naturalmente gli editori proclamano la loro in-nocenza. Colpevole è il popolo, che ha sempreavuto il vizio di gridare «Non quell’uomo, maBarabba!». Gli editori si limitano pilatesca-mente ad accontentarlo, facendo in modo chenelle vetrine delle librerie vi sia sempre Marga-ret Mazzantini e Erri De Luca in quantità.Lo scaricabarile degli editori, lo si vede bene, èinaccettabile. Che «il pubblico» abbia dei gustiprestabiliti è una leggenda. A un tale che le obiet-tava che la gente non avrebbe amato il pessimi-smo dei suoi racconti, Dorothy Parker replicò:«Mi meraviglio della sua ingenuità. Ciò che lagente deve amare, siamo noi a stabilirlo». Evocarele ragioni del profitto, poi, è solo un gesto scara-mantico. Sembra quasi di udire il Tom Budden-brook di Thomas Mann: «Loro sono poeti, manoi, noi siamo solo commercianti…». Si sa comeè andata a finire. Purtroppo non basta venderel’anima al diavolo per far soldi. Se fosse così, nonavremmo un mercato editoriale tanto depresso.

Fabrizio Ottaviani, il Giornale10 agosto 2010

I romanzi italiani?O brutti best seller o belli senza lettori

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«Perché in Italia i lettori migliori ca-dono nella trappola scavata dagli

scrittori peggiori?»

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Anche l’atteggiamento accusatorio di Cortel-lessa, beninteso, ha i suoi vantaggi. Il critico ac-cademico potrà sentirsi l’esponente fin de racedi una professione gloriosa; e pazienza se nelcaso di Senza scrittori la decisione di combatterela Resistenza a Topolò rischia di apparire comeun cedimento alla tentazione antitetica della«casa sulla collina». Di assomigliare a una fugaverso un luogo appartato dove coltivare non ilproprio volterriano giardino, ma alcune raris-sime varietà di orchidea, talmente preziose daessere fuori mercato. Ma non è questo il punto.Il punto è che Franchini e Cortellessa – i bestseller di fantomatica qualità del primo e l’ol-tranzismo letterario del secondo – si stringonoinvolontariamente la mano e si spartisconol’universo mondo. Al primo la terra, anzi il sot-tosuolo; al secondo il cielo. Plutone e Zeus. E inmezzo, il nulla. Soluzione classica, che vantauna tradizione secolare nella nostra penisoladove tra arcadia e analfabetismo si è sempre

aperto un abisso che nessuna middle class hamai desiderato colmare.Altrove, fra terra e cielo ci sono i Grandi Ro-manzi Leggibili. Ci sono Houellebecq e Eche-noz, Marías e Grass, Rushdie e Eugenides. InItalia c’è il regno della letteratura come truffa.C’è lo sfacciato raggiro semiologico e ideologicodei romanzi di De Luca, Baricco, Mazzantini,un fenomeno degenerativo impressionante chenon ha eguale. Perché ciò accade? Perché in Ita-lia i lettori migliori cadono nella trappola sca-vata dagli scrittori peggiori?Per colpa degli editori, certo, terrorizzati dal-l’idea di promuovere sul serio un romanzo cheodori anche solo di onesto artigianato. Maanche per colpa dei critici letterari che di fronteal Grande Romanzo Leggibile storcono sempreun po’ il naso, preferendo opere programmati-camente bizzarre o respingenti. E non ci rife-riamo al solito Antonio Moresco. È sempre an-tipatico fare degli esempi individuali, ma

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Ma gli esempi si possono moltiplicare. ErmannoCavazzoni, Paolo Nori, Paolo Colagrande…Bravissimi, per carità, peccato che non abbianomai avuto ambizioni imperialistiche. Non vo-gliono conquistare l’Italia, figurarsi l’Europa oil mondo. E intanto il Paese, complice la pigriziadegli editor e degli uffici stampa, che non sannofare il loro mestiere, è diventato l’habitat idealeper gli scrittori-tartufo. Ah, gli uffici stampa…Si scatenano solo quando si tratta di smerciarepaccottiglia. Sono riusciti a far rimanere inven-duti sugli scaffali Fantasmi romani di Luigi Ma-lerba, La furia del mondo di Cesare De Marchi,Il tramonto sulla pianura di Guido Conti: treesempi di Grande Romanzo Leggibile. Va da séche per questo triplice scandaloso fallimentonessuno ha versato una lacrima. Tutti impegnatia omaggiare il nuovo Pasolini o il nuovo Gadda,l’eroe civile o quello bellettristico. Chissàquando capiremo che i generali che puntanotutto sugli eroi perdono la guerra.

nell’ultima stagione le innumerevoli recensionipositive destinate a un romanzo di MatteoNucci, Sono comuni le cose degli amici(Guanda) – un insopportabile garbuglio, ver-boso e soporifero – hanno assorbito tesori dienergia che sarebbe stato sensato dirigere al-trove. Nel medesimo arco di tempo un volumestraordinario per umorismo e intelligenza diGiulio Mozzi, Io sono l’ultimo a scendere(Mondadori) vendeva meno di tremila copie.

«[…] il Paese,complice la pigrizia degli editore degli uffici stampa, che non

sanno fare il loro mestiere,è diventato l’habitat ideale

per gli scrittori-tartufo»

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Figli senza padri (scrittori)

Da tempo si annuncia in Italia un conflitto ge-nerazionale. Da una parte i padri, con i posti dilavoro garantiti, l’avvenire di una pensione, ilbenessere di uno stato sociale tra i più generosidell’Occidente. Dall’altra i figli, schiacciati trail piccolo cabotaggio del precariato di oggi e leincertezze di un domani di lacrime e sangue: conun welfare falcidiato dai tagli e una mobilità so-ciale sempre più ridotta.Tutto questo è noto. I commenti al sondaggio delSole 24 Ore Domenica di una settimana fa suimigliori narratori under 40 hanno evidenziatoperò l’emergere di un nuovo campo di lotta:quella tra gli scrittori dell’ultima leva e la gene-razione che li ha preceduti. A un giorno di di-stanza, Franco Cordelli sul Corriere della Sera(sabato 7 agosto) e Nicola Lagioia sul Sole 24Ore di domenica 8 hanno dato voce, da frontiopposti, al medesimo sentimento. Per Lagioia laforza degli under 40 sta nell’essere cresciuti in unpaese che sembra avere smesso di credere alla let-teratura: vittime designate dell’egoismo e dellacecità dei padri, essi avrebbero fatto di queltrauma originario la propria forza. Per Cordelli,invece, la frattura procederebbe nella direzioneopposta: come risultato del sostanziale disinte-resse dei più giovani per quanto hanno fatto gliautori che sono venuti prima di loro. Il tradi-mento, dunque, sarebbe in questo caso dei figli.Non è detto che si debba scegliere tra queste duediagnosi, anche perché toccano aspetti diversi

del problema: sociopolitico nel caso di Lagioia,più propriamente letterario nel caso di Cordelli.Come che sia, un dato di fatto è difficilmentecontestabile: il flusso di amori e odi che ha sem-pre affratellato nella lotta autori generazional-mente distanti sembra essersi a poco a poco in-terrotto; alla contestazione dei padri, cosìedipica e così novecentesca, è subentrato il puroe semplice oblio. Mentre insomma i nati neglianni Venti, Trenta e Quaranta hanno tutti col-locato la propria opera (e costruito la propriapoetica) prendendo posizione a favore o controquanti li avevano preceduti, è sempre più raroche gli scrittori che hanno esordito dagli anniNovanta in poi sentano il bisogno di fare altret-tanto. Hanno anche loro, ovviamente, passionie ripulse (Pasolini, Calvino, Bianciardi, Arba-sino e Busi rimangono i più citati, e quasi gliunici); ma, al di là della deludente monotoniadelle scelte, colpisce che queste non si solidifi-chino quasi mai in giudizi argomentati.Proprio questo silenzio, rancoroso o distratto,merita qualche riflessione supplementare. Sipossono formulare quattro ipotesi al riguardo.La prima. È avvenuta una mutazione antropo-logica. I romanzieri, un tempo intellettuali (al-meno i migliori di loro), sono sempre di piùdegli intrattenitori, preoccupati unicamente diraccontare delle storie accattivanti. Di conse-guenza non scrivono degli autori delle genera-zioni precedenti perché non ne sono capaci.

Gabriele Pedullà, Il Sole 24 Ore10 agosto 2010

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(Dirò subito che questa è di gran lunga la rispo-sta meno convincente. L’opera saggistica di au-tori quali Pincio, Pascale, Scurati, Montesano,Piperno, Zanotti, Nucci o dello stesso Lagioiadimostra che, volendo, sarebbero in grado diproseguire questa tradizione: come per altro intutti gli altri paesi occidentali avviene normal-mente. Se non lo fanno, ci sono evidentementemotivi diversi).La seconda. È cambiato solo lo statuto dei nar-ratori. Per imporsi, nella società dello spettacolodei mille festival della letteratura, è necessarionon mostrarsi troppo pensosi: altrimenti si di-venta antipatici. Uno scrittore che voglia ven-dere deve apparire quanto più simile ai proprilettori. Benissimo dunque raccontare quanto ab-biamo sofferto quando al liceo ci ha lasciato lanostra prima fidanzatina; mentre spiegare checosa abbiamo imparato dal modo di usare lapunteggiatura di Tabucchi può darci immedia-tamente un’insopportabile aria da professorini.Meglio soprassedere.La terza. I giovani scrittori non conosconoquelli delle generazioni precedenti, perché leg-gono pochi autori europei e ancora meno ita-liani, limitandosi per lo più agli statunitensi che

hanno esordito dopo la Seconda guerra mon-diale. Se così fosse, questo significherebbe chei giovani scrittori non si fingono uguali algrande pubblico, ma che in qualche modo losono diventati.La quarta. I giovani scrittori, imitando con unventennio di ritardo i giovani artisti, confidanosolo nel presente e nel grande flusso della comu-nicazione (è l’ipotesi più cinica). Come dire: èinutile che cerchiate di ingannarci, non ci dedi-chiamo al passato perché nessuno, tanto, faràlo stesso con noi. Chi è fuori dalla luce dei ri-flettori semplicemente non esiste. Meglio dun-que unirsi al coro che celebra i più forti e tribu-tare, se proprio occorre, l’ennesimo battimanoa Carver, Bernhard o Fante (che tutti già cono-scono), piuttosto che andare a caccia dei grandiautori di ieri meno sulla cresta dell’onda e perquesto tanto più bisognosi di lettori appassio-nati che li impongano di nuovo all’attenzione.Cosa pensare? Solo una cosa è certa: dalla ri-sposta a questa domanda dipenderà in granparte l’esito del conflitto, ma soprattutto la pos-sibilità di un nuovo «patto sociale» tra le gene-razioni di scrittori (e di lettori). Si comincia asentirne un grande bisogno. Per ricominciare.

«Per imporsi, nella società dello spettacolodei mille festival della letteratura, è necessario

non mostrarsi troppo pensosi: altrimenti si diventa antipatici.Uno scrittore che voglia vendere deve apparire

quanto più simile ai propri lettori»

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Lo ammetto, preferisco gli americani

Ebbene sì, lo confesso, sono un esterofilo. Eanzi, peggio, un americanofilo. Pare sia scon-veniente dirlo, mai libri messi in fila sulle lun-ghe mensole del mio salotto danno questo im-pietoso e univoco responso. Una percentualeschiacciante.Il mio primo scrittore preferito – avrò avuto sìe no quindici anni – è stato Ernest Hemingway.Il donnaiolo suicida mi ha iniziato ai piaceridella lettura. Da lui e dai suoi libri è iniziata lamia esplorazione nella letteratura americana(moderna e contemporanea), solo a tratti inter-rotta per momentanei sensi di colpa. «Possibileche mi piacciano quasi esclusivamente cosescritte da americani?», mi chiedevo mentrel’esercito imperiale invadeva l’Iraq. Certe volteho anche nutrito il dubbio di essere come un in-diano dopo l’infusione di una bella dose di cul-tura vittoriana. Colonizzato. Vittima di un ter-rificante lavaggio del cervello. Costretto dalpotere del marketing atlantico ad andare controla mia stessa natura.Quando col tempo i sensi di colpa si sono affie-voliti, ho cercato di dare una spiegazione più ar-ticolata a questa servile predilezione che, delresto, condivido con una parte dei miei coeta-nei, semplici lettori o scrittori come me, che in-cidentalmente sono quelli che stimo e con cuicondivido piaceri e cinismo. Certo, siamo d’ac-cordo, gli Stati Uniti sono l’Impero del male edello stordimento collettivo, ma non sarà che il

fatto di essere (o di essere stati) il centro delmondo li ha messi in una posizione privilegiataanche nel campo della produzione culturale eartistica? Non sarà che una data cultura domi-nante in un dato tempo è in grado di produrreun certo numero di anticorpi (culturali) al suooperato politico ed economico? E a propositodi cultura dominante, possiamo dimenticarel’Egitto dei faraoni, l’antica Grecia, la Roma im-periale? No, non possiamo dimenticarli, perchéi nostri programmi scolastici cercano in tutte lemaniere di costringerci a imparare la storia, leopere, i manufatti e in definitiva la produzioneculturale di quelli che, calati col giusto spiritopacifista, ci dovrebbero sembrare civiltà sangui-narie e prevaricatrici.Sono nato nel 1975. Ho trascorso una consi-stente parte della mia infanzia – non me nevanto, è la realtà, o se vogliamo, l’irrealtà – da-vanti al televisore. Ho avuto il mio primo com-puter a sette anni. Ho conosciuto le implicazionifisiche di una dipendenza chiamata consumi-smo. Ho sperimentato un certo numero di dro-ghe. Sono borghese fino al midollo, e mi sentoa tutti gli effetti coinvolto nel degrado moraledell’Occidente. Credo che queste siano somma-riamente le ragioni che ispirano le mie scelte let-terarie. E a proposito di rapporto con il reale,non ho ancora trovato nessuno scrittore italianoche mi abbia raccontato in modo così nitido ilnostro fumoso (di occidentali) rapporto con la

Cristiano De Majo, Il Sole 24 Ore11 agosto 2010

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realtà come Bret Easton Ellis o David FosterWallace (un altro suicida). Ma poi non è nean-che solo questione di «zeitgeist».Dice che amare la letteratura americana è robada provinciali. A me, invece, sembra molto pro-vinciale evitare di dire che l’Italia, pur avendouna solida tradizione letteraria, non ha un’al-trettanto solida tradizione romanzesca. Per que-sto uno scrittore interessato alla forma del ro-manzo, uno scrittore che vuole soddisfare la suasete di tecnica, o passare in rassegna le innova-zioni strutturali degli ultimi cinquant’anni, hauna certa difficoltà, a parte alcuni pochi e solitinomi, a volgere lo sguardo al suolo patrio. Esi-ste nella produzione letteraria italiana un equi-valente del gigantesco lavoro offerto generosa-mente da Vladimir Nabokov sul romanzo?Esiste in Italia un simile magistrale connubio disperimentazione e potenza narrativa? Ho amatoGadda, Bianciardi, Parise, ma voglio essere sin-cero: nessuno mi ha fatto venire voglia di essereun personaggio dei loro romanzi.Credo, insomma, che la nostra produzione let-teraria paghi ancora un deficit di immaturità,anche se ho la sensazione che questo confinepossa essere superato da un momento all’altro.Un’immaturità che si traduce nella continua ri-chiesta di un messaggio. Abbiamo bisogno di ro-manzi che assomiglino a editoriali giornalisticicon tanto di spiegazioni, analisi sociologiche eproposte di miglioramento. E ci comportiamo,in fondo, come se non credessimo all’autosuffi-cienza del romanzo. Abbiamo bisogno di argo-menti che giustifichino la sua esistenza.Dagli americani ho imparato, invece, che il ro-manzo è una fede. Ed è blasfemo prodursi in ra-gionamenti logici sulla sua utilità.

Se solo potessero, gli editori darebbero il nomedi romanzo a tutti i libri che pubblicano. Sem-bra ormai che ogni tipo di libro spaventi il let-tore: il romanzo no. I libri di storia li leggonogli storici. I libri di filosofia li sfogliano i filosofi.I poeti non si leggono neppure fra loro. Lescienze sociali interessano poco: di società siparla sui giornali e la prosa sterilizzata dei so-ciologi respinge il «lettore comune».Dunque le librerie traboccano di nuova narra-tiva, ma i recensori, anche i più solerti, riesconoa digerirne solo una parte. I teorici della lette-ratura e i narratologi sono ammutoliti datempo. Gli storiografi sono soffocati dall’«an-goscia della quantità», formula ripetutamenteusata da Giulio Ferroni (si veda il suo pamphletScritture a perdere).Sta di fatto che il romanzo, genere oggi più edi-toriale e merceologico che letterario, monopo-lizza un’opinione pubblica letteraria certo piùestesa, ma anche meno colta. Il romanzo, così,trionfa, ma per poco. Quale critico saprebbefare a memoria l’elenco dei libri di narrativamigliori usciti tre o cinque anni fa? Dopo lastagione dei premi, la nuova narrativa circolaal massimo fino alla stagione seguente, quandonuove liste di candidati allo Strega e al Cam-piello cominciano a comparire sulle pagine deigiornali.Che il romanzo è un genere di consumo e di in-trattenimento «per tutti», lo si è sempre saputo

Troppi romanzi uccidono lacritica

Alfonso Berardinelli, Corriere della Sera11 agosto 2010

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pagina del primo numero – è uno spazio nelquale la giovane narrativa italiana possa co-noscersi e farsi conoscere». Ma già dieci annidopo, all’inizio degli anni Novanta, ricordoche un protagonista dell’editoria italiana comeGiulio Bollati constatava sconsolatamente che,«da quando gli italiani si sono messi a leggereromanzi», la storia delle idee, la storia socialee la migliore saggistica non riuscivano più atrovare un pubblico. Così, però, anche il ro-manzo entrava in mutazione. Si impoverivaculturalmente, perdeva consistenza intellet-tuale. L’attuale sovrapproduzione di narrativacredo che sia un segno di patologia piuttostoche di salute. Non ho fatto calcoli precisi, macome eventuale recensore ho l’impressione diricevere in omaggio uno o due nuovi romanzial giorno.Eppure qualche calcolo bisogna farlo.Secondo i sei critici (solo sei) consultati da Ste-fano Salis sul Sole 24 Ore, i narratori promet-tenti sotto i quarant’anni sono ben cinquanta.Se a questo numero se ne aggiungono altri

«il romanzo […]monopolizza un’opinionepubblica letteraria certopiù estesa, ma anche

meno colta»

(il romanzo d’avanguardia è stato un episodio,o un controsenso). Ma il consumo è diventatopiù veloce e distratto e l’intrattenimento lo sitrova in abbondanza altrove. Quanto a qualitàartistica, valore conoscitivo e documentario, lamaggior parte dei romanzi che si pubblicano nonsembrano nascere da nessuna memoria lettera-ria; anche quando funzionano non provocano ri-flessioni e interpretazioni critiche, «non fannostoria». Se si eccettuano gli autori già in attivitànegli anni Ottanta, mi pare che recentemente siaemerso un solo narratore pienamente consape-vole della tradizione del romanzo: Walter Siti.Ma Siti è (o era) un intellettuale e un critico.Come trappola acchiappa-lettori, comunque, ilromanzo resta la forma più efficace anche perdiffondere informazioni e idee. L’ultimo esem-pio è Gomorra di Saviano. Non è un romanzo,ma «si legge come un romanzo». Quando l’in-chiesta si allea con una serie di immagini forti econ il mito di un personaggio (che può essereanche l’autore) allora succede qualcosa che unlibro di sole idee non riesce più a provocare. Lalotta alla camorra e alla criminalità organizzataha oggi il volto di Roberto Saviano. Del resto,Raffaele La Capria notò che se la nostra lette-ratura non ha saputo inventare molti perso-naggi memorabili, sono gli scrittori stessi i per-sonaggi più riusciti: da Cellini e Casanova finoa Malaparte e Pasolini.Nel 1983, quando si chiudeva l’epoca della«politica al primo posto», Goffredo Fofifondò una rivista, Linea d’ombra, che si pro-poneva di accompagnare la giovane genera-zione dall’ideologia alla narrativa. «Ciò chesoprattutto vogliamo – si diceva nella prima

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venti (dimenticati) e almeno altri cinquanta frai quaranta e i settant’anni, arriviamo a cento-venti romanzieri.Dopo questa aritmetica, mi chiedo chi riusciràa conquistarsi la qualifica di esperto in narrativaitaliana contemporanea. Conosco bene diversidivoratori instancabili di romanzi italiani ap-pena usciti. Leggono tutto e recensiscono bril-lantemente. Non so come facciano. Calcolandoche per leggere un romanzo bisogna prevederemediamente un giorno, chi segue la produzionedi centoventi autori ha bisogno di altrettantigiorni, un terzo dell’anno. Vogliamo prevedereun altro giorno per recensirne uno a settimana?Siamo a centosettanta giorni. Difficile calcolarei tempi della riflessione e del giudizio. Ma dob-biamo ipotizzare che il recensore-divoratorelegga i giornali, legga sia romanzi stranieri sianon romanzi, nonché qualche autore del pas-sato: e soprattutto che ogni tanto pensi ad altro.Cosa dedurne? Che nessuno ne sa abbastanza.La quantità è soverchiante. Siamo a un bivio: lacritica «giornaliera» come la concepiva GenoPampaloni, è o impossibile o inattendibile.La democrazia letteraria di massa, potenziatadall’uso del computer, vanifica l’autorità dellacritica e crea una letteratura senza forma e con-fini, che nel suo insieme si sottrae a ogni defini-zione. Smettiamo perciò di processare i critici edi stilare piccoli canoni. Legga chi vuole quelloche vuole. Un’altra epoca si chiude: l’epoca deigiudizi. Ma sto anch’io per pubblicare un librosulla narrativa. Il suo titolo sarà: Non incorag-giate il romanzo.

Come si racconta il paradosso di un paese«senza scrittori» affollato di gente che scrive? Iltitolo del discusso (e poco visto) documentariodi Andrea Cortellessa e Luca Archibugi – Senzascrittori appunto – spingendo a interrogarsisull’antico rapporto tra quantità e qualità, evi-denzia l’attuale confusione della produzione let-teraria. Ovvero – come ha scritto lunedì su que-ste pagine Giulio Ferroni – la «costipazione» el’eccesso prodotti da tante «scritture a perdere,che riducono sempre più lo spazio dell’autenticascrittura, moltiplicando una letteratura inessen-ziale». Quando si tratta perciò di fare la cernita,la fatica appare titanica. Ne ha parlato FrancoCordelli sul Corriere della Sera, a margine diun’inchiesta del Sole 24 Ore sulla nuova narra-tiva italiana «under 40». «Quanti sono questipromettenti scrittori?». Cifre impressionanti. Ese Cordelli resta perplesso dal limite dei quaran-t’anni («penso che cinquant’anni, per le nostrecapacità di crescita e di percezione, siano un li-mite più ragionevole»), bisogna dire che tale èla folla di scriventi da essere costretti a porre li-miti anche più stretti. Si potrebbe insomma in-dagare, volendo, perfino tra gli under 20! Servea qualcosa? Fatto sta che i tre autori di maggiorsuccesso recente sono nati tra la fine degli anni70 e l’inizio degli ’80: Roberto Saviano (1979),Paolo Giordano (1982) e Silvia Avallone (1984).Il periodo,cioè, a cui Cordelli fa risalire la di-smissione, da parte degli scrittori italiani, dei

Quanti sono gli scrittoriunder quaranta?Una folla…

Paolo Di Paolo, l’Unità11 agosto 2010

«La democrazia letteraria dimassa, potenziata dall’uso del

computer, vanifica l’autorità dellacritica e crea una letteratura senza

forma e confini»

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panni di letterati. «Vi hanno rinunciato per lapaura d’essere puniti (dal mercato, nel gioco deiruoli)» : ma questi – gli eventuali rinunciatari –erano già cresciuti, allora. Chi è nato esatta-mente in quegli anni, si è svegliato invece giàsenza panni letterari. E così, nudo, si è affac-ciato al mondo dell’editoria. Senza pensare aigiochi di ruolo. Anzi, quanto più ingenuo è ilragazzo, tanto più diventa appetibile per gli edi-tori. Che, di recente, nei risvolti biografici si pre-occupano di sottolineare l’estraneità al mondoletterario: fa l’ingegnere, fa il fisico nucleare, fala hostess. Meglio nascondere tracce di rapportiilleciti con la letteratura!Così, l’armata degli scrittori nati negli anni ’80si presenta – qui ha ragione Nicola Lagioia (IlSole 24 Ore dell’8 agosto) – «vitale», però, ag-giungerei, altrettanto confusa e inconsapevole.Ogni libro è pensato come un organismo a sé:non inscritto in un progetto più ampio, né indialogo con antenati o contemporanei. Nem-meno inserito nei confini elastici di una qualchetendenza (è un bene? Forse sì). Non cannibali,né altro: forse, i più, neo-neorealisti. Ma cia-scuno a suo modo.Vince la leggibilità, vince «la storia». Averneuna, è il punto di partenza e di arrivo. E tuttaviail rischio è che le storie si dimentichino in fretta,e che le voci usate per raccontarle finiscano conil somigliarsi troppo.

Al tempo dei non-letterati, i romanzi sono fattinon già di riconoscibili visioni del mondo odella letteratura, ma di singole invenzioni felici,di intuizioni, di fotografie con la giusta luce euna buona messa a fuoco. Sono fatti di perso-naggi, soprattutto, e di pagine che si staccanodall’uniformità del contesto e si fanno ricordare.Quasi qualunque romanzo può vantarne.Come piccole monadi, questi romanzi fluttuanonell’affollato universo della narrativa contem-poranea. Transitano nell’immaginazione del let-tore il tempo stesso della lettura. Poi, si allonta-nano. Sostituiti da monadi nuove, ancora piùslegate da tutto e del tutto chiuse in sé stesse.Da coetaneo di Avallone e Giordano, chi scrivenon ha il diritto a nostalgie, né vuole averlo.Però c’è una parola di cui sente la mancanza, edè questa: «consapevolezza». È una parola peri-colosa, che produce tormenti e insoddisfazioni.Ma non c’entra con la qualità letteraria, o noncompletamente. C’entra con il potere (e sapere)dire: sto facendo questo – l’intrattenimento, lanarrativa pura, il manierismo, la ricerca lingui-stica, stilistica ecc. – e so perché. L’impressioneè invece che tutto scoppi nelle mani di tutti, conuna inquietante casualità. E che ci si metta araccontare e a scrivere – più o meno bene, inmodo più o meno fruttuoso – senza sapere per-ché. O semplicemente perché è capitato. In unadiffusa, un po’ stolida ma beata incoscienza.

«Al tempo dei non-letterati,i romanzi sono fatti non già di riconoscibili

visioni del mondo o della letteratura, ma di singoleinvenzioni felici, di intuizioni, di fotografie

con la giusta luce e una buonamessa a fuoco»

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Difendo i giovani scrittori

Dopo una serie di autorevoli idee sullo statodella narrativa contemporanea, contenuta e de-limitata in maniera netta sulla soglia dei qua-rant’anni, mi si chiede un parere che parta dal-l’esperienza di minimum fax, dalla suaprospettiva di chi lavora con continuità sulfronte della ricerca e della valorizzazione discrittori esordienti.Eccomi qua. Faccio l’editore di minimum faxinsieme a Marco Cassini dal ’94, mentre il me-stiere dell’editore andava cambiando radical-mente la sua natura. In quegli anni crollava lafigura sacerdotale dell’editore che sommini-strava dall’alto verso il basso testi necessari amondare il peccato originale dell’ignoranza,del non aver letto ancora. Veniva giù il murotra editori e lettori, i pareri dei lettori comin-ciavano a manifestarsi prima sul fax e poi suinternet e a generare su di noi una bella pres-sione di critiche, consigli, una manifestazionedi presenza che non ci permetteva nessun at-teggiamento autocompiacente, nessuna possi-bile «posizione» o posa.La competenza dei lettori, in certi casi supe-riore agli stessi editori (lettori relegati in questaanalisi a una posizione un po’ troppo laterale),è ed è stata per noi una enorme risorsa. La re-peribilità per via tecnologica ci dava il sensoestemporaneo e chiaro della presenza di qual-cun altro che dall’altra parte si faceva sentire.Da allora abbiamo avuto il fiato dei lettori sul

collo. L’atto necessario dell’ascoltare oltre cheleggere e pubblicare ha arricchito le possibilitàdella nostra ricerca.Mentre la sacralità della Cultura ci aveva ba-stonato abbastanza a scuola, noi, profughi dagiurisprudenza, abbiamo vissuto la voglia dimaneggiare il mondo dei libri considerandoliuna grande possibilità. Averne uno in mano si-gnificava solo poter vivere in quantità enormi,fare nostra l’esperienza e l’arte di qualcunaltro, saziare la nostra voglia di storie e cercaredi condividerla.Professionalmente parlando siamo anche noi,editori «round 40», degli editori senza padrinobili, lo stato che viene oggi attribuito agliautori nostri coetanei. Veniamo da un’espe-rienza che ha avuto un percorso di certo extraaccademico, con nessuna eredità o preziosoknow-how imprenditoriale. L’unica cosa sen-sata da fare in quei primi anni è stata intra-prendere un percorso di ricerca, attorno a ungruppo di ragionamento composto dagli stessiautori che hanno animato la vita della casa edi-trice sin dalla sua nascita. La cura della lingua,uno stile innovativo che aggiungesse qualcosaai canoni preesistenti, la capacità di emozio-nare, di far suonare la scrittura erano essen-zialmente le cose che avremmo cercato ancheda lettori, né più né meno.Ad alcuni dei critici coinvolti in questo scam-bio di opinioni sugli scrittori «under 40» io

Daniele di Gennaro, Il Sole 24 Ore12 agosto 2010

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devo molto, per l’orientamento che mi hannoindicato nella selva del mondo della letteraturae degli altri linguaggi. Nella loro diversità Be-rardinelli, Fofi, Cordelli, fra gli altri sono statie sono per me, editore senza padre, dei formi-dabili zii, dei veri e propri pusher letterari. Pa-recchie delle opinioni da loro espresse (perditadi potenza della narrativa, presenze velleitariee acerbe, sovrapproduzione, debito intellet-tuale esterofilo, forte domanda di entertain-ment) sono condivisibili, verissime, verosimilio discutibili in un macrofenomeno oceanicoche racconta però questo panorama in modoindistinto. La prospettiva da cui si osserva que-sto unicum rischia di generare solo posizioni,anche autorevoli, ma nessun movimento. Ilpaese stesso su più piani, soffre dello stessoproblema: solo guerre di posizione per conser-vare qualcosa che c’è, pochissime per conqui-stare qualcosa che non c’è ancora. Un sistemabloccato, insomma, pieno di sospirati «quandoc’era» che favorisce, questo sì, i nastri indu-striali dell’irrilevante.Minimum fax pubblica pochi narratori italianiogni anno. Quando, per esempio, ho letto perla prima volta i manoscritti di Paolo Cognetti,Nicola Lagioia, Giorgio Vasta, Carlo D’Amicis,non ho avuto dubbi sul fatto che quelle scritturelasciassero il segno e andassero pubblicate conentusiasmo. Sono scrittori diversi, bravi, nonnecessariamente da osservare come tronchi tra-scinati da un fiume generazionale. La stessacosa la penso quando leggo autori come WalterSiti. Vabbè, non è un «under 40». Viva lo stesso.Punto e basta.

Le storie di questi e altri autori raccontano ilnostro tempo con forza. Non possiamo farealtro che cercare di fare al meglio quel pocoche ci riesce, nel senso della ricerca che ce li hafatti incontrare, e della protezione dei loro pro-getti, puntando sul gioco di squadra, sui pareridi validi editor, e non sull’individualismo chenel nostro mestiere occhio e croce non portada nessuna parte.Io credo che in ogni periodo storico ci sianostate generazioni percepite come discutibili on-date di scrittori «underqualcosa». Ma mettersidi traverso a bollare tutto come un fenomenopieno di un niente senza forma né possibile de-finizione mi insospettisce. Probabilmente siamonel campo della fisiologia dell’insofferenzaverso il nuovo che il nostro tempo semplice-mente esprime. Se magari fra dieci anni assaliràme, anche non potrò fare a meno di scagliarmicontro la leva dal 1980 in su.

«La cura della lingua, uno stile innovativoche aggiungesse qualcosa ai canoni preesistenti,

la capacità di emozionare, di far suonare la scritturaerano essenzialmente le cose che avremmo cercato

anche da lettori, né più né meno»

«Siamo nel campo della fisiologiadell’insofferenza verso il nuovo che

il nostro tempo semplicementeesprime»

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Problemi di abbondanza tra romanzieri e montagne

Troppa grazia.Com’è noto, Google ha contato i libri in circo-lazione al mondo, e ha raggiunto quota129.864.880: livello di domenica scorsa, nelfrattempo saranno già aumentati. Anche Al-fonso Berardinelli, sul Corriere, intervenendonella discussione estiva inaugurata dal quoti-diano della Confindustria e dedicata ai talentiemergenti, emersi o naufraganti della nostra let-teratura, ha fatto due conti, solo per i romanzi.«Secondo i sei critici (solo sei) consultati da Ste-fano Salis sul Sole 24 Ore, i narratori promet-tenti sotto i quarant’anni sono ben cinquanta –scrive. Se a questo numero se ne aggiungonoaltri venti (dimenticati) e almeno altri cinquantafra i quaranta e i settant’anni, arriviamo a cen-toventi romanzieri». Ora il problema è evidente:come fa un critico a seguire (almeno) 120 ro-manzieri, scriverne e farsi venire anche qualcheidea? La conclusione è ovvia: «Cosa dedurne?Che nessuno ne sa abbastanza». Forse nem-meno i sei-critici-solo-sei?Con grazia.Qualcuno, però, ha deciso di rischiare. Magarianche Anis Shivani, scrittore texano assai emer-gente, da noi ancora ignoto, non ne sa abba-stanza; ma qualche idea ce l’ha. Ha dedicato unarticolo sull’Huffington Post, il giornale on-linepiù di moda al momento, ai 15 scrittori ameri-cani contemporanei secondo lui più sopravva-lutati. È particolarmente disgustato da Jonathan

Safran Foer, «sempre pronto a saltare sul trenogiusto», Junot Díaz (meno nota in Italia, Labreve favolosa vita di Oscar Wao è pubblicatada Mondadori), e dall’universalmente amatoMichael Cunningham, «uno che produce effettispeciali, un piazzista». Data la situazione, forseè l’unico che ha capito tutto.Grazie no.La sovrabbondanza investe anche le manifesta-zioni culturali. Sulle Dolomiti, Arrigo Petaccoha visto improvvisamente e spietatamente can-cellata la sua presenza a Cortina incontra per-ché era previsto anche nel programma dell’altramanifestazione cittadina, parallela e concor-rente, Una montagna di libri. E dire che siamoin tempo di crisi.

Mario Baudino, La Stampa13 agosto 2010

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Scrittori under 40, la generazione c’è

Non è un fantasma quello che si aggira per le pa-trie lettere: la narrativa degli autori under 40 esi-ste, è ben viva, lotta insieme e addirittura controdi noi, e c’è solo bisogno di prestare attenzione.Non è unificata, forse non si percepisce nem-meno come movimento, eppure ha forza e con-sapevolezza, privilegia il web come terreno di di-scussione, elegge a propri maestri gli autori esteripiù che i padri nobili della tradizione italiana,sul mercato ha idee decisamente postmoderne:non si scandalizza del successo e delle classifiche,ma non ne è succube. Dalla vecchia società let-teraria, per ora, si mantiene a debita distanza.Nell’ampio dibattito che si è sviluppato in que-sti giorni fra critici, scrittori e giornalisti, in di-versi quotidiani e siti web, dopo il «gioco-nongioco» lanciato il primo agosto sul Domenicaledel Sole 24 Ore, una frase sembra essere ancoradecisiva e nessuno degli intervenuti ha, finora,avuto il coraggio di smentire o di contrastarecon i fatti. Curiosamente ma significativamenteè proprio la prima riga che il critico (e scrittoreunder 40) Gabriele Pedullà aveva scelto comeincipit del suo articolo per trarre il senso com-plessivo dell’iniziativa. Torniamo dunque aquella frase: «Ebbene sì. C’è una letteratura ita-liana under 40 che merita di essere letta. Non èpoco. Tanto più che in questo campo non smet-tono di trovare ascolto le tesi dei catastrofisti.[…] Negando attenzione ai nuovi libri, li si con-danna all’irrilevanza».

Proprio così. Tanto più che se il criterio dell’etàè arbitrario ma necessario, in ambito interna-zionale (dal New Yorker a Granta), la praticadi individuare i talenti più solidi entro un certolimite d’età non solo è consolidata ma ha purevasta eco mediatica e serve, spesso, a incorag-giare scrittori che sono alle prime opere. A mag-gior ragione ha senso farlo oggi. Una tale rico-gnizione si impone, infatti, anche alla luce delfatto che, per esempio, il premio letterario dimaggior prestigio del nostro paese, lo Strega, èstato vinto due anni fa da Paolo Giordano, unautore esordiente e non ancora trentenne, chel’anno scorso se lo sono conteso due autori«giovani» sotto molti aspetti (Scarpa e Scurati)e che nell’ultima edizione la giovanissima esor-diente Silvia Avallone ha perso per soli 4 votidal navigato Antonio Pennacchi.Le risposte degli altri critici alla nostra opera-zione, gli articoli densi di consapevolezza cri-tica di alcuni autori tirati in ballo (in partico-lare le riflessioni di Nicola Lagioia e Cristianode Majo, pubblicati dal Sole 24 Ore), gli spuntiforniti da un editore che si è imposto in questianni come battistrada su questi terreni comeminimum fax, hanno, semmai, in questi giornirafforzato una convinzione che in quelle pagineserpeggiava: una nuova generazione di autorisi sta affermando, è dotata di personalità, hacaratteristiche nuove, di lingua e di strutturanarrativa, che vanno esplorate. Insomma: c’è

Stefano Salis, Il Sole 24 Ore14 agosto 2010

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lavoro per i critici letterari. E buone opportu-nità per i lettori.I critici che hanno avuto l’onere della scelta sulSole (tutti abituati a scrivere regolarmente di let-teratura italiana contemporanea, da Pacchianoa Belpoliti, da Paccagnini a La Porta e a Fofi,per non parlare di Cortellessa che ha appena di-retto un reportage in dvd sullo stato della nostranarrativa) hanno avuto carta bianca.La produzione editoriale ampia, poi, è soloun’opportunità in più. La ricchezza di voci nar-ranti è tutt’altro che un problema, come sem-brava paventare Alfonso Berardinelli sul Cor-riere della Sera, e i critici hanno, da sempre, ilcompito di selezionare. Quanto agli editori chesi assumono il rischio imprenditoriale della pub-blicazione di un libro, siamo sicuri che farannobene i loro conti (culturali e commerciali) primadi lanciare un autore. Ma sarebbe il colmo re-criminare su una produzione che esprime talentiche hanno solo bisogno di essere letti, coltivatie consigliati: la funzione della critica e dei critici,non può che venirne aumentata.Del resto i 50 nominati non sono sbucati comefunghi nell’ultima settimana: i critici hanno

valutato, in piena autonomia e senza saperel’uno dell’altro, autori che, nel corso di qual-che anno, si sono imposti alla loro attenzioneper la sensibilità letteraria o anche per il suc-cesso di pubblico.E se non si è d’accordo con i nomi fatti, nessunproblema. La nostra, lo abbiamo scritto dalprimo articolo, non era e non voleva essere unaclassifica. Chi vuole aggiungere, lo faccia. GliUnder 40 non sono costruzioni editoriali po-sticce. Si leggono tra di loro (è interessante, peresempio, la scelta che sul sito di Internet Slow-book Farm, www.isbf.it, Nicola Lagioia hafatto di alcuni suoi coetanei), si confrontano, sirispettano. Sono scrittori anche molto diversi espesso non hanno in comune null’altro chel’età: ma si affacciano alla nostra letteraturacon uno spirito nuovo. E possono diventare iCalvino e i Pasolini di domani, ammesso e nonconcesso che questi due possano essere autoriai quali fanno riferimento e che impersonino iloro desideri.Del resto, il catastrofismo non ci appartiene enon ci piace, mentre crediamo alla funzionedella critica se esercitata con passione e onestà.

«[…] una nuova generazione di autori si sta affermando,è dotata di personalità, ha caratteristiche nuove,

di lingua e di struttura narrativa, che vanno esplorate.Insomma: c’è lavoro per i critici letterari.

E buone opportunità per i lettori»

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Il romanzo italiano torna possibile

Nel 1975 Brian Eno e Peter Schmidt pubblica-rono un mazzo di carte esistenziali, ognuna con-tenente una frase che sembrava un suggeri-mento, una presa in giro o il consiglio di unospirito patafisico. Nei momenti difficili se neestraevano alcune, cercando di trarne indica-zioni decenti. «Cosa farebbero i tuoi amici piùcari?». «Rendi onore agli errori trasformandoliin intenzioni segrete». «Descrivi il paesaggio cuitutto questo appartiene». «Non essere terroriz-zato dai cliché».Se si tratta di intervenire sulla «nuova genera-zione letteraria italiana» le carte di Brian Enodevi fartele da solo.

«Pensa sempre di essere il nipote».Alberto Arbasino scrisse un giorno che in lette-ratura non esistono padri o figli, che le ereditàsi passano con il salto del cavallo, da zio a ni-pote. Per diverse ragioni, questa generazione discrittori ha subito in modo speciale l’influenzadi un gruppo di autori americani che ha esorditonegli anni Novanta, da Rick Moody a DavidFoster Wallace, da Jeffrey Eugenides a JonathanFranzen. I trentenni che sono venuti dopo, negliStati Uniti, non sono un granché; e molti autoriitaliani stanno pubblicando per le migliori caseeditrici americane. La zia fondamentale, per chiscrive, è una signora della prosa anglosassone:Joan Didion, autrice di frasi stupende, titolaredi uno sguardo originale e insieme rilevante

sulla California e sul mondo, abilissima a tra-smigrare dalla finzione alla non finzione.

«Prendi le distanze da chi non crede in quelloche fa».Non è infrequente che i responsabili di collanain Italia non leggano i libri dei propri autori,perché non interessati; il (poco) pubblico, diconseguenza, finisce per respirare un’aria stan-tia, avversa alle novità e refrattaria a ogni formadi eccitazione intellettuale. Crederci significa ri-tardare la pubblicazione di un libro, costringere,implorare, terrorizzare, educare gli autori al-l’ambizione.

«Coltiva la curiosità fino alla disperazione».Se c’è un aspetto positivo della tradizione lette-raria italiana, è la maniera favolosa in cui lescritture più interessanti del ’900 si sono ibri-date con le altre discipline, umanistiche o scien-tifiche: Savinio, Gadda, Primo Levi, EmilioVilla, Amelia Rosselli, Arbasino, Longhi, Parise,per citare solo alcune delle mirabili voci asso-lute, hanno istigato con la propria prosa l’im-maginazione spaziale, architettonica, musicale,artistica, pittorica. Ma oggi, quanti scrittori ita-liani, non solo under 40, sono coscienti del fattoche là fuori ci sono artisti che lavorano su ideeformidabili, e potentemente narrative? Nomicome Gerald Byrne, Dominique Gonzalez-Foer-ster, Tacita Dean, Karen Cytter. La prossima

Gianluigi Ricuperati, Il Sole 24 Ore15 agosto 2010

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gita a Chiasso dovrà essere nei migliori musei enelle gallerie più avvincenti.

«Ma è necessario soprattutto, parlando di ro-manzieri, coltivare la religione del personaggio».Quanti personaggi indimenticabili ricordiamonella letteratura italiana degli ultimi trant’anni?Non serve fare nomi. Qualcuno c’è. Ma vo-gliamo di più e meglio, e i più seri tra noi forsestanno già lavorando in questa direzione. In unapuntata di Breaking Bad, una delle bellissimeserie tv a stelle e strisce che stanno ridefinendoil panorama della cultura narrativa popolare,c’è una scena che vale la pena di raccontare.Il protagonista della serie, Walt White, è un pro-fessore di chimica malato di cancro, che perdare un futuro alla famiglia decide di fabbricarele migliori metamfetamine sul mercato. Dopoinnumerevoli tensioni, rischi, difficoltà, passifalsi, riesce finalmente ad accumulare una bellasomma: cinquecentomila dollari, in contanti,nascosti in sgabuzzino. Una sera è a casa in-sieme alla neonata. Lei strilla e piange, lui si alzaper lasciar riposare la moglie e prende in bracciola bimba: «Ti faccio vedere una cosa», le sus-surra mentre la conduce alle pile di banconote,girandoci intorno, vezzeggiando il capitale ac-cumulato, facendole annusare per procural’odore dei soldi.È una scena perfetta, con un personaggio antie-roico, brutale, pieno d’amore e di risorse. È unastoria, quella di Breaking Bad, che anticipa eracconta un mondo a venire in cui l’accesso al

denaro sarà sempre più piramidale. Non im-porta che sia ambientata ad Albuquerque: conqualche adattamento potrebbe essere ancheMacerata. Come gli Stati Uniti, e diversamentedalla maggior parte dei paesi europei, l’Italia in-carna un modello di realtà «regolare», apparen-temente quieta, ma in verità inframmezzata daampie sacche selvagge; una piastra in cui si al-ternano abbondanza, devianza, corruzione,aspirazione, lusso, calma, alta cultura e violenzasenza briglie. Il romanzo è una repubblica invi-sibile fondata sul vampirismo e la reinvenzionedella realtà, sull’individualità della voce e del fe-nomeno umano.L’Italia, invece, è una repubblica ben visibil-mente fondata sul primato della casa, l’anarchiafiscale, la meraviglia del paesaggio, il benesserespiccio, le consolazioni familiari e le ingegnositàindividuali. Ha ragione Lagioia quando dice cheche il discorso non riguarda solo gli under 40.La scommessa sarà vinta solo se la nostra, laprecedente o la prossima generazione produrràromanzi che non rinunciano a niente, non al-l’ardimento strutturale, non alla sperimenta-zione, non alla forza delle idee: romanzi che cre-scano alla luce fredda di un’installazione madiano la dipendenza calda di una serie tv.Ci sono quasi tutte, ora, le condizioni necessarieperché fra qualche decennio il romanzo italianopossa rientrare in qualcosa di simile a una cate-goria davvero riconosciuta, tipo «sto leggendotutti i russi». Detto con ogni umiltà possibile:dipende da noi.

«Credercisignifica ritardare

la pubblicazione di un libro,costringere, implorare, terrorizzare,

educare gli autori all’ambizione»

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Gli autori under 40 e il senso del limite

Lo scorso primo agosto, dopo la sciagurata in-dagine del Sole 24 Ore sulla generazione lette-raria under 40, mi è successa una cosa biz-zarra: una gragnola di sms di congratulazionida parte di colleghi e amici ha fatto vibrare ilmio cellulare fino a sera. È un mondo benstrano quello editoriale, mi dicevo, se propriomentre venivo issato su un piedistallo pren-devo atto che su Ibs, la nota libreria virtuale, imiei racconti erano ormai indisponibili, ecto-plasmi in attesa di una eventuale ripubblica-zione in tascabile… In fondo alla critica si ri-chiederebbe proprio questo: che facesse deinomi, e ristabilisse le giuste proporzioni traqualità e quantità. Né al critico si potrebbe rin-facciare di non leggere tutto, come lamenta Al-fonso Berardinelli sul Corriere della Sera:quello che conta non è l’esaustività, ma la ca-pacità di costruire un percorso d’indagine at-traverso una serie di opere/autori (con la spe-ranza che non diventino cricche). Se laricchezza delle voci diventa un problema, tantovale abdicare alla possibilità di una scelta, cioèdi un’analisi, cioè di una critica. L’indagine hascatenato una serie d’interventi spesso anchecontrastanti tra loro, se non proprio in palesecontraddizione. Gabriele Pedullà ha fatto no-tare quanto la generazione under 40 sia in-fluenzata dall’America, mentre Maurizio Cuc-chi ha invitato la stessa generazione a prendereesempio dagli scrittori a stelle e strisce…

L’effetto domino degli interventi non ha rispar-miato alcuni scrittori citati. Nicola Lagioia hadetto cose che da cittadino reputo condivisibili(anzi insindacabili), ma che da autore (e che iosia nato dopo il 1970 importa poco) m’interes-sano fino a un certo punto. A meno che io nonvoglia diventare un virtuoso dell’instant bookdi denuncia sociale (filone partito in sordinaqualche anno fa, e oggi moda di successo ten-dente a fagocitare l’intero mercato/imbuto edi-toriale, sorta di neorealismo utilissimo mad’accatto), partirò sempre dal presupposto cheun libro di letteratura debba trascendere il pro-prio tempo. Lagioia dedica soltanto una man-ciata di righe all’effetto deformante della scrit-tura, mentre la questione è di capitaleimportanza. Soltanto con una buona deforma-zione letteraria (con uno stile, cioè) la denunciasociale può non cadere nel dimenticatoio. Dipiù: uno scrittore dovrebbe conservare unosguardo distante dai sommovimenti della storia(in realtà ben noiosi, a pensarci bene: ascesa,prosperità, decadenza di un gruppo di poteremilitarmente organizzato e/o il conflitto tran-snazionale di chi ha un mezzo di produzione echi è solo forza lavoro). Relativizzare la storia,mettere in atto una sorta di pedagogia del di-sincanto, è talvolta molto più corroborante(perfino etico?) che denunciare alla cieca. Allacieca, sì. Perché la denuncia è sempre un attomanicheo, divide il mondo in buoni e cattivi, e

Luca Ricci, Il Messaggero17 agosto 2010

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soprassiede volentieri sulle sfumature. La de-nuncia tiene a debita distanza l’essenziale: ilnostro grado di coinvolgimento. Paradossal-mente il rischio è che tutti guardino la luna (ilRe!) e nessuno il dito (se stessi). Ma quale sa-rebbe allora lo scarto decisivo, davvero rivolu-zionario, della letteratura? La comprensioneche diventa compassione. Penso ad esempio aBret Easton Ellis che in American Psycho co-stringe il lettore a sposare il punto di vista diun serial killer. Quanto di lui c’è in noi, di noic’è in lui?Non a caso ho citato un autore americano. Per-ché lo si è sempre stati americani – pensate allagenerazione di Fenoglio e Vittorini – e al con-tempo non lo si è mai stati fino in fondo. Gli excannibali, oggi in parte già canonizzati e colorseppia (il colore dei classici), erano pulp (puretroppo, ironizzava un comico in tv): più che allaletteratura, si rifacevano al cinema statunitense.Credo che gli under 40 di oggi invece abbianoritrovato il senso del limite: in una storia nonpuò succedere di tutto, e soprattutto ciò che suc-cede ha delle conseguenze narrative. Un perso-naggio non può scegliere indifferentemente ilbene o il male (ciò che di volta in volta si decideessere il bene o il male), perché tanto alla fineun abile montaggio circolare ci riporterà alpunto di partenza (leggi alla voce: Quentin Ta-rantino). Gli under 40 all’Assurdo preferisconoil Senso, e lo perseguono con le armi tipichedella letteratura: la metafora, in primis. Vogliocitarne anch’io tre: Valeria Parrella, GiorgioVasta, Paolo Cognetti. Questi di sicuro nonsono solo buoni cittadini.

Il fuocherello che sta animando la nostraestate letteraria mi pare alquanto fatuo, oquanto meno intempestivo, non credo cioè chesia il caso di andare a fare il punto sui narra-tori under 40 (di cui si è molto scritto in questigiorni sui giornali), limite troppo giovanilistae provvisorio. Caso mai, il problema maggioreè che dobbiamo ancora digerire la situazioneprodottasi grazie agli over 40, cioè ai narratoriche hanno superato di poco i quarant’annid’età, e non ancora raggiunto i cinquanta. Perquesto verso mi trovo molto d’accordo con gliinterventi sul Corriere di Cordelli (7 agosto) eBerardinelli (11 agosto), forse per una qualchesolidarietà generazionale, che però si inter-rompe subito se si viene a diagnosticare qualesia la realtà rappresentata appunto dagli over40, di cui notoriamente sono un convinto so-stenitore, anzi, mi è capitato più volte di di-chiarare che non si è mai vista, nella nostranarrativa di tutto il Novecento, una squadracosì agguerrita e numerosa, nella quantità enella qualità.D’altronde, se ne è avuto qualche riconosci-mento ufficiale, basti pensare ai premi Stregaandati a Niccolò Ammaniti, forse l’interpretepiù sostanzioso di tutta quella ondata, e a Ti-ziano Scarpa, il più estroso e funambolo. Madobbiamo subito elencare, come fa proprioCordelli, le presenze di Covacich, Nori, Nove,Pincio, Trevisani, in buon ordine alfabetico,

Scrittori over 40, i veritrascurati

Renato Barilli, Corriere della Sera18 agosto 2010

«[…] partirò sempre dalpresupposto che un libro di

letteratura debba trascendere ilproprio tempo»

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cui si aggiunge la forte partecipazione femmi-nile, della Ballestra, appena di 41 anni, cioèpoco più in là della soglia esaminata dall’in-chiesta di Gabriele Pedullà, da cui è partita lapolemica, con accanto Rossana Campo, Isa-bella Santacroce, Grazia Verasani, SimonaVinci. E ancora ce ne sarebbero tanti altri dacitare, come Culicchia, Mozzi, Voltolini.Quando mai si sono visti tanti nomi consi-stenti nei nostri annali?Stranamente invece i critici sono risultati sordinei loro confronti, non hanno registrato lapresenza di questa sorta di valanga azzurra,nei ranghi della narrativa, mal aiutata da unbrutto vezzo della nostra stampa, che continuaa insistere sui romanzieri stranieri. Ci sono deisupplementi culturali che aprono invariabil-mente dedicando la pagina principale a qual-che autore straniero. Al punto che ho incitatoi nostri validi narratori a stendere un appellosul tipo di quello lanciato dai colleghi archi-tetti, vittime anche loro di un’attenzione por-tata, nei pubblici concorsi, quasi solo a van-taggio di autori stranieri. Una volta tanto, inostri ci sono, prementi, incisivi, pronti a dareun quadro veritiero degli attuali modi di vita,di sofferenza esistenziale, di impatto con tuttii mostri e i simulacri dell’attualità più incal-zante. Gli Under 40 più interessanti, comeproprio Pedullà che ha aperto l’inchiesta, oGiorgio Vasta, o Valeria Parrella, si pongononel solco di questi loro fratelli maggiori, dipochi anni, come si è visto, e per il momentonon introducono alcuna variante consistente.Semmai, vittima di un buonismo che mi portaa solidarizzare perfino con Berardinelli, da cui

mi separano tante dispute del passato, possoconvenire con lui che non si devono affidaretutte le sorti della letteratura al genere ro-manzo, una forma sorpassata dai tempi e dallemodalità tecnologiche di cui oggi ci serviamo.Ho appena dedicato un vasto omaggio a tuttii narratori del Settecento e dell’Ottocento, cheprocedevano alla stampa di fiumi di parole edi azioni, quando la lettura avveniva nelle se-grete stanze, compulsando dispense e feuille-ton, cosa che oggi non può più avvenire, datoche la comunicazione verbale si è velocizzata,imponendo un’abbreviazione dei componi-menti. Sta avvenendo un lento ma inarresta-bile travaso dalla pagina a stampa ai blog, aimessaggini elettronici, a comunicazioni velociche devono filtrare attraverso il buco strettodei pixel, e del resto a che scopo avremmo so-lennemente celebrato il centenario di Mari-netti e del Futurismo se non per coglierne unaparte di eredità?Oggi esiste una produzione che annulla le fron-tiere tra poesia e prosa, producendo strane for-mazioni ambigue, ma brevi, microstorie cheappaiono e scompaiono, brillando di luci in-tense, e poi scomparendo nel nulla. Mi riferi-sco, per esempio, a tutta la sperimentazione av-viata da Marco Giovenale e dai suoi compagnie approdata all’antologia Prosa in prosa, editanella collana delle Lettere curata da AndreaCortellessa, assai più valido quando appoggiaqueste nuove frontiere della ricerca, piuttostoche stendere amari referti sulla condizione pre-caria degli scrittori appoggiati alla tipografiatradizionale. Insomma, se volete un’ultima sta-gione, e magnifica, della narrativa con storia e

«Una volta tanto, i nostri ci sono,prementi, incisivi, pronti a dare un quadro veritierodegli attuali modi di vita, di sofferenza esistenziale,

di impatto con tutti i mostri e i simulacridell’attualità più incalzante»

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Un futuro da Novecento

personaggi, leggete Ammaniti e compagni, di-versamente abbandonatevi al piacere dei mas-saggi rapidi provenienti da testi brevi, comemessaggi pubblicitari, come le strisce unilineariche il grande sperimentatore D’Annunzio affi-dava ai cartigli del Notturno.

Per parlare della letteratura degli anni Duemilami viene naturale discutere del Novecento, vol-tarmi indietro a guardare al secolo passato. Lodico senza alcuna forma di nostalgia, ma piut-tosto per consequenzialità, o potrei meglio direper un’esigenza di complessità. È la stessa ra-gione per cui preferisco parlare di anni Duemila,e non di anni Zero, come piace ai fanatici delreset. È la tecnologia stessa, d’altra parte, che ciinduce alla cancellazione del passato. Salvare lemodifiche?, chiede il computer quando fac-ciamo dei cambiamenti in un testo. Se acconsen-tiamo, se accettiamo, tutto quello che primac’era non ci sarà mai più. Non verrà archiviatoo registrato, ma sostituito. È una sorta di ideo-logia del presente, oggi piuttosto diffusa: ciò checonta è esclusivamente ciò che c’è davanti ai no-stri occhi. Salvare le modifiche?, domanda quasicon un ossimoro il computer. Formulata inun’altra maniera: salvo ciò che salvando nonsalverò affatto ma perderò?Io non ho nessuna voglia di salvare le modifi-che, né in quanto scrittore, né in quanto citta-dino. Non ho intenzione di genuflettermi alladittatura del presente. E dunque se mi si chiededi esprimermi sulla letteratura della mia gene-razione, a me viene voglia di rispondere par-lando dal secolo passato. Ripartire da lì per poiscollinare e andare avanti. Nel suo ultimo ro-manzo, Dublinesque (in uscita in Italia a set-tembre) il grande scrittore spagnolo Enrique

Andrea Bajani, Il Sole 24 Ore19 agosto 2010

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«Oggi esiste una produzioneche annulla le frontiere tra poesia e

prosa, producendo straneformazioni ambigue»

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Vila-Matas ha rappresentato il Novecentocome una parabola che si è aperta con la mo-numentale polifonia dell’Ulisse di James Joycee si è conclusa con l’afasia, monumentaleanche quella, di Samuel Beckett. La parola pro-lifica di Joyce da un lato, e quella apparente-mente sterile di Beckett, specchio di un secoloche poco a poco si è avvizzito. Ma si è trattatodi una letteratura, dice Vila-Matas, che fino al-l’ultimo ha continuato ad andare nella dire-zione della complessità, anche quando poco apoco la parola si è sottratta dalla pagina.Ecco, io credo che si debba ripartire proprio dalì, riconducendo la letteratura a essere ciò che

da sempre è stata: il luogo delle complessità. Pa-rafrasando Vila-Matas si potrebbe dire checome la letteratura del Novecento è partitadall’Odissea, così la letteratura del Duemila do-vrebbe partire dall’Ulisse.La dittatura «del presente», o «della realtà»,come è stata anche definita, va in direzione op-posta: verso la semplificazione, verso il depo-tenziamento della letteratura. E noi in quantolettori, e in quanto cittadini, non abbiamo biso-gno di una letteratura indebolita. Abbiamo bi-sogno di potenza, per citare uno degli argomentidi Franco Cordelli sul Corriere di qualche setti-mana fa. La dittatura del presente, inoltre, im-pone l’annullamento dello stile. E io credo, perconcludere, che la questione dello stile (o la per-dita dello stile, come ha sostenuto Gabriele Pe-dullà su queste stesse pagine) sia il vero nodo difondo degli anni Duemila, soprattutto per le ge-nerazioni nate con la coazione al salvataggio ditutte le modifiche. In una letteratura che pedinisoltanto il presente, il cosiddetto «reale», la pa-rola sarà sempre vicaria di quel «reale», si met-terà al suo servizio, gli rimboccherà il letto, netraccerà il perimetro. E invece noi abbiamo bi-sogno di una letteratura e di una parola che nonsiano al servizio di niente e di nessuno.Abbiamo bisogno di poesia, di visioni. È sol-tanto lì, nello stile, nella poesia, nella visione,che la parola si svincola dal reale, che esce dal-l’angolo, e finendo sulla pagina diventa altro,partorisce una realtà che succede soltanto den-tro le parole che la dicono.

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«[…] come la letteratura del Novecento è partita dall’Odissea,così la letteratura del Duemila dovrebbe partire dall’Ulisse»

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Ma le nuove leve sono già autori

Stefano Salis, Il Sole 24 Ore19 agosto 2010

Quando si traccerà una mappadella letteratura italiana diquesti anni Duemila (in attesadi leggere l’opera che allemappe letterarie è consacratapiù di ogni altra, l’Atlante sto-rico della letteratura che stapredisponendo Einaudi sottola guida di Gabriele Pedullà eSergio Luzzatto), e una genealogia letteraria degliautori che l’hanno animata, la generazione chenel 2010 ha meno di 40 anni, si presenterà perforza di cose frastagliata e molto diversificata.Gli stessi critici che sono intervenuti dopo l’in-chiesta di Domenica del Sole 24 Ore (ultimi inordine di tempo lo scrittore Luca Ricci sul Mes-saggero e il critico Renato Barilli sul Corrieredella Sera) hanno denunciato, nei loro interventi,disparità di vedute e impressioni (e nomi da men-zionare) legittimamente diverse. Ma non è questoil punto, in fondo. Ciò che va sottolineato è cheil cambio di stagione è già avvenuto e i nomi checircolano nell’agone mediatico sono già, di fatto,maturi per una nuova stagione di idee, sia narra-tive sia stilistiche. E convivono, in questa sta-gione, autori già ampiamente consacrati, per ora,

dalle vendite e dai premi lette-rari (Silvia Avallone e PaoloGiordano, per esempio, pro-messa l’una e solida certezzal’altro di capacità espressiva) ealtri che, più appartati dalpunto di vista commerciale,non hanno mancato di susci-tare l’attenzione dei critici.

È questo il dato che va preso in considerazionein maniera principale: se nessuno si sogna discambiare il successo in classifica per un indicedi qualità, anche lo sperimentalismo delle caseeditrici (e molto fanno le piccole) consente l’esi-stenza di un nucleo di narratori che possono in-cidere sul futuro della nostra narrativa. Se il«mainstream» rischia (come sempre) l’omolo-gazione, le frange più esterne garantiscono ilsufficiente ricambio di idee.Quello su cui occorrerà concentrarsi, da qui apoco, invece, è proprio quello di cui scriveva Ba-rilli (e prima di lui Berardinelli): «Non tutte lesorti della letteratura si devono affidare al ro-manzo». Su questo terreno, insidioso e incerto,delle prossime forme della narrazione – checomprenderanno l’uso di stili che vadano per i

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nuovi mezzi di lettura da Twitter all’iPad aglieBook interattivi – si giocherà il futuro della let-teratura. È significativo il fatto che il già osan-nato romanzo di Jonathan Franzen (intervistatolunedì sul Sole, pag. 20) sia stato visto dai criticicome un romanzo che attinge molto al passato,mentre dall’America è in arrivo (uscirà da Faziin ottobre) il saggio-romanzo di David Shields,Fame di realtà, riflessione sulle prossime formedel romanzo e sul diritto d’autore in una societàche lo vede opacamente. In America ha scate-nato un dibattito notevole, in Italia lo farà. Edè significativo che, di là dell’Oceano, quasi tuttigli intervenuti, da Eggers a Zadie Smith, sianodi quella generazione under 40 che è nata con illibro, ma ha conosciuto subito internet e la cul-tura-google. La prossima direzione della lette-ratura, piaccia o no, la detteranno loro.

Discutendo dell’affollata generazione dei narra-tori under quaranta, Franco Cordelli e AlfonsoBerardinelli sul Corriere della Sera hanno messol’accento, pur se in modo diverso, sulla costipa-zione dei numeri, sulla plateale impossibilità,per la critica, di fare davvero il punto della si-tuazione, di «leggere tutto» per dare giudizi mo-tivati, per stilare classifiche e definire canoni. Difronte alla loro riflessione certe indicazioni cri-tiche (come quelle della recente inchiesta delSole 24 Ore) appaiono inevitabilmente inaffida-bili, sorte da incontri, rapporti, occasioni di let-tura, e non certo da un’adeguata (e impossibile)cognizione dell’intero panorama. Ed è vero chel’elefantiasi della produzione uccide la critica,la condanna all’«angoscia della quantità» (for-mula semplice e in fondo banale, che mi è capi-tato di proporre già in un libro del 1996, Dopola fine, ora ripubblicato da Donzelli).La cosa però non riguarda solo la narrativa e lacritica che dovrebbe occuparsene, ma l’intero si-stema della cultura e della comunicazione, l’ac-cumulo sterminato di messaggi entro cui siamopresi: tutti pretenderebbero di catturare la no-stra attenzione, ma finiscono per perdersi nel-l’evanescenza e nella velocità dei media che liveicolano, nella frenesia inarrestabile della no-stra vita quotidiana. Viene il capogiro se sipensa a tutto ciò che è scritto e detto in questomomento nel mondo, a tutti gli archivi di me-moria che attendono di essere interrogati, a

«il cambio di stagioneè già avvenuto e i nomi che

circolano nell’agone mediatico sonogià, di fatto, maturi per una nuova

stagione di idee, sianarrative sia stilistiche»

Critica e qualità uccise dalmercato

Giulio Ferroni, Corriere della Sera19 agosto 2010

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tutta la virtualità che attende di essere attualiz-zata, a tutte le forme di comunicazione che per-corrono le reti molteplici dell’universo e che sol-lecitano uno zapping illimitato.Le difficoltà in cui sono prese quasi tutte le atti-vità intellettuali trovano qui una delle loro ra-gioni. Ma non si tratta di cedere all’angoscia, nédi ignorarla per tentare l’impossibile, né di ri-nunciare alla critica e al giudizio: piuttosto c’èbisogno di una critica (e di una teoria della co-municazione) che sappia confrontarsi con questacostipazione, che ne scavi fino in fondo le ra-gioni e le condizioni. Insomma si tratta di com-prendere fino in fondo (pochi ci aiutano a farlo)la novità rappresentata dall’eccesso in cui siamopresi: eccesso che vanifica l’esperienza, che ri-schia di rendere vano lo stesso processo della let-tura. Solo nella piena coscienza di questa nuova

condizione si potrà avere il coraggio di discrimi-nare, di cercare testardamente l’emergere di pa-role e scritture davvero essenziali.Per la letteratura e per la narrativa non è certoquestione di generazioni: chiediamoci piuttostocome sottrarre i libri alla condizione di meri og-getti di consumo, come condurre battaglie perlo «stile» (che non significa «bello stile»), perun linguaggio della responsabilità, capace di in-terrogare il nostro destino (un destino che èanche inscritto nel nostro passato, in una tradi-zione dell’antico e del moderno che oggi ètroppo spesso disinvoltamente dimenticata).Esiste oggi una critica capace di farlo? Non suc-cede che i giudizi correnti (e gli stessi canoniproposti) siano basati su schemi e modalità digusto e di lettura spesso degnissimi, ma che nontengono più?

«[…] tutti pretenderebbero di catturare la nostra attenzione,ma finiscono per perdersi nell’evanescenza e nella velocità

dei media che li veicolano, nella frenesia inarrestabiledella nostra vita quotidiana»

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Scrittori senza padrino

Il giorno dell’uscita in Israele della Solitudinedei numeri primi, a intervistare Paolo Giordanonella saletta del Mishkenot She’ananim di Ge-rusalemme c’era lo scrittore israeliano Ron Le-shem. Quando alcuni giornalisti hanno chiestochi fosse il ragazzo dall’ottimo inglese e gli occhiprofondi, la risposta degli organizzatori è stata:«Il Roberto Saviano d’Israele».A qualche ora di aereo dalla città santa, sulle ri-viste letterarie parigine compare spesso il nomedi Mattia Signorini, mentre De steeneter, Il man-giatore di pietre, di Davide Longo, è uno dei ro-manzi più prestati nelle università olandesi.Il successo degli scrittori italiani all’estero è di-ventato chiaro lo scorso anno con un’indaginedell’Associazione nazionale editori e dell’Istitutonazionale per il commercio estero, che ha rive-lato un aumento del 93,9% dei libri italiani ven-duti oltre i confini nazionali tra il 2001 e il2007. La sorpresa è che, spingendo lo sguardooltre il commissario Montalbano di Andrea Ca-milleri e il topo Geronimo Stilton, sono proprioi giovani autori italiani a suscitare la curiositàdi lettori ed editori stranieri. Che hanno smessodi cercare nuovi Giovannino Guareschi ma vo-gliono sguardi in grado di raccontare l’italia dioggi. Attraverso uno stile che porti addosso ilsapore della città di provenienza del mondo in-tero. «È il caso di Giorgio Vasta», raccontaKoukla MacLehose, che da 25 anni vende gliautori Einaudi in 18 paesi. «Nelle sue storie c’è

Palermo con i “ragazzini dialettali”, “l’eternoberlusconiano” che riguarda tutto il paese e ilmondo». Piacciono i nostri under 40 perchésanno raccontare ad americani e tedeschi chefine hanno fatto La dolce vita e Il Padrino.«Danno un’immagine meno stereotipata dellarealtà italiana», spiega l’agente letterario MarcoVigevano, che ne porterà tre alla prossima Fieradi Francoforte (Andrea Bajani, Ilaria Berardinie l’esordiente Ester Armanino). «da un lato èvantaggioso perché crea un elemento di novitàper i lettori, dall’altro è molto rischioso». Finoa qualche tempo fa sulle cover dei libri da espor-tare doveva esserci sempre un elemento di «ita-lianità» perché – si ricordava tra i corridoi dellecase editrici – copertine come quelle di Conver-sazioni in Sicilia di Elio Vittorini o del Giardinodei Finzi Contini di Giorgio Bassani avevano fis-sato una fotografia del paese non meno dei filmdei Fellini e De Sica. Un’Italia lontana anni luceda chi è cresciuto con Mtv, internet e il progettoErasmus.La globalizzazione dei consumi culturali è nelDna dei narratori under 40, ne influenza lo stilee ne facilita la «vendibilità» all’estero: «Sonoscrittori che hanno assimilato una lezione inter-nazionale: si riconoscono più nei grandi maestriamericani che in quelli italiani e leggono i lorocontemporanei stranieri», spiega PiergiorgioNicolazzini, responsabile del successo di Gior-gio Faletti all’estero. Maestri che spiazzano da

Serena Danna, Il Sole 24 Ore22 agosto 2010

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Ernest Hemingway a Bret Easton Ellis fino aDavid Forster Wallace, come ricordava su que-ste pagine Cristiano De Majo.L’«internazionalizzazione» dei giovani autori haanche una ricaduta sullo stile. «C’è una fortecontaminazione anglosassone anche nella lin-gua», afferma Kylee Doust che cura casi lette-rari come Niccolò Ammaniti. «Lo stile è diven-tato più diretto, più semplice. Prima ricevevotesti pieni di subordinate: oggi la lingua èasciutta, essenziale, più anglosassone insomma.Anche uno scrittore colto e complesso comeFrancesco Pacifico, che verrà tradotto negli StatiUniti, ha una scrittura molto chiara. Questo fa-cilita il lavoro di traduzione». Un sollievo chefarebbe inorridire l’editor di Calvino, che mal-sopportava i traduttori al punto di provare: «Ungran dolore nello sfogliare libri che non hannonulla a che fare con quello che ho scritto io». Loscrittore inglese Tim Parks, che di Calvino è

stato traduttore, spiega così il cambiamentodella lingua: «Inglese e italiano ormai convi-vono nella quotidianità: internet, la televisionema anche le riviste e le conversazioni quotidianesono piene di termini anglosassoni». E continua:«Questi autori cercano modelli di scrittura chefavoriscano la presenza internazionale: così di-venta difficile trovare un’identità e lo stile oscillaspesso tra il semplicistico e lo spettacolare». Ca-ratteristica degli under 40 italiani è secondoParks non essere «scrittori puri»: «Spesso fannoaltri mestieri e si muovono su un terreno dovesi incontrano letteratura e divertimento». Che èper Vigevano garanzia di interesse: «Prima esi-steva la società letteraria e la letteratura comemestiere. Molti autori lavorano nel cinema enella televisione: la scrittura oggi ha moltestanze, loro le vivono quasi tutte». Come IvanCotroneo che, tra un romanzo e l’altro, traducel’americano Michael Cunningham e scrive lepuntate di Tutti pazzi per amore, serie cult dellaRai, o Peppe Fiore autore di La futura classe di-rigente che di giorno è autore dei programmiper la Fox. Eppure gli agenti letterari che lavo-rano all’estero sono convinti della qualità lette-raria: «Dopo il boom del noir e della fanta-scienza dei primi 2000 è ritornato il romanzonarrato – spiega Kylee Doust – la trama forte».Le fa eco Koukla MacLehose: «Il successo al-l’estero di autori come Paolo Giordano e DavideLongo si spiega col fatto che sanno raccontarestorie». Vicki Satlow, l’agente che c’è dietro allavisibilità internazionale del giovane Mattia Si-gnorini, spiega che la situazione italiana aiutagli autori: «la precarietà, l’anomalia politica,l’influenza di diverse culture spingono i ragazzia confrontarsi con un paese molto diverso daquello raccontato dai genitori». Certo, tutti gliagenti concordano sul fatto che un buon esordiounito alla giovane età siano un trend commer-ciale molto in voga in Europa e che bisognasfruttare il momento. Nessuno fa beneficenzaletteraria. Tanto meno nel mercato editoriale.

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Manca la buona narrativa…

So che il titolo non è opera dell’autore dell’arti-colo ma della redazione che lo impagina. Ma iltitolo messo in testa all’articolo di Giulio Fer-roni uscito sul Corriere giovedì scorso non so seinterpreta le intenzioni dell’articolista, ma co-munque non rispetta la verità dell’enunciato.Non è vero che il mercato uccide e la qualità ela critica: il vero è che la qualità non c’è, senzache nessuno abbia bisogno di sopprimerla; lacritica è distratta, non si interroga sul suo ruoloe non si pone le domande giuste.Che la qualità nella narrativa non ci sia, lo di-mostrano i prodotti che dovrebbero testimo-niarla; perché poi sia scomparsa è difficile dirloe ci costringe a considerazioni troppo generaliper essere sufficienti. Possiamo azzardarci a direche è un fenomeno che riguarda in questo mo-mento l’intera Europa, l’Italia come la Francia,la Germania e perfino l’Inghilterra (nonostantevi si parli una lingua che altrove – vedi gli Usa –qualche risultato lo ha garantito). Dunque nonè stato il mercato a ucciderla: semmai il mercatoha fatto di necessità virtù, ha di fatto capitaliz-zato la non qualità spingendola verso modelli,alla stregua delle sue possibilità, commercial-mente interessanti (il giallo, il noir, il romanzoinchiesta, l’autobiografia e/o biografia. Tutti ge-neri che non sono mai stati nelle corde degli ita-liani, più inclinati alla lirica e alla prosa di pen-siero). Dunque, più che ucciderla, l’ha aiutata aservire a qualcosa. A servire anche agli autori

che si stanno impratichendo in qualcosa che nonhanno mai saputo fare e chissà che domaniqualche risultato vistoso lo raggiungano (spe-riamo in un Simenon italiano o in un Littell dicasa nostra). Quanto alla critica, piuttosto chelamentarsi (come fa Berardinelli) che esconotroppi romanzi per poterli leggere tutti e con-sentire di organizzare l’ipotesi di un canone,perché non si chiede quale è il suo attuale ruoloe quello decide di esercitare? La critica non servepiù al pubblico: è finito il tempo in cui era suf-ficiente un articolo di Emilio Cecchi sul Corriereper determinare la fortuna di un libro. Oggisono altri i parametri che contano e tutti hannoa che fare con la televisione, che non sa nulla dellibro di cui parla e tutto della possibile sedutti-vità dell’autore. Ma se non serve più al pubblicoa chi serve? Non scandalizzatevi: serve all’au-tore. Gli dà la coscienza della situazione in cuista operando, confortandolo nel suo progetto

Angelo Guglielmi, Corriere della Sera23 agosto 2010

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«Oggi sono altri i parametriche contano e tutti hanno a che

fare con la televisione, che non sanulla del libro di cui parla e tutto

della possibile seduttivitàdell’autore»

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ma anche indicandogli gli inganni in cui può ca-dere, gli smarrimenti cui è esposto. E poi chi hadetto che, non potendo leggere tutti i romanziche escono (nell’anno appena passato sembrasiano stati oltre cento), il critico non sia in gradodi ipotizzare un abbozzo di canone o almeno ditratteggiare una indicazione di direzione e di in-dirizzo? Del canone il romanzo è il destinatarioma per la sua elaborazione (o semplice ipotesi)vale di più la riflessione sulle caratteristiche deltempo, le modalità dell’attualità e, ancor più, leopportunità che la situazione culturale in quelmomento offre. Il canone a posteriori è mestieredel professore, non del critico. A lui (al critico)si chiede di dirci non quel che siamo stati, maquel che stiamo tentando di essere, senza ovvia-mente la certezza del buon esito o della giu-stezza della strada inforcata.Così io (critico) suppongo di sapere dove il ro-manzo sta andando e so anche perché l’autofic-tion (come la definisce Gabriele Pedullà) è oggi(e lo sarà per qualche tempo) la dimensione (ola pratica) vincente: è che c’è un grande bisognodi caricare di materialità le parole (che ci sfug-gono da tutte le parti) e l’unico modo per fer-marle, se pure provvisoriamente, è agganciarlea qualcosa di incontestabilmente accaduto o chesta accadendo, quale è una vita umana e gli ac-cidenti in cui si sviluppa o, meglio, può svilup-parsi… E allora quando Ferroni lamenta negliscrittori di oggi la mancanza «di stile (che nonsignifica bello stile)» e pretende «un linguaggiodella responsabilità, capace di interrogare il no-stro destino» non posso non essere d’accordocon lui, ma so che sta formulando un auspicio,non offrendo una pur labile indicazione. Ecredo che di indicazione (nel più semplice sensodi assistenza) i narratori oggi hanno bisogno.

Caro Gabriele Pedullà, nobile e utile il tuosforzo di affermare (Il Sole 24 Ore – primo ago-sto) che la narrativa dei più giovani (autoriunder 40) è ancora viva e chissà domani attra-verso uno dei cinquanta esemplari (scelti dai seicritici) in grado di esprimere un classico. Nobilee generosa: ma alcune osservazioni sono dove-rose. Intanto non siamo più al tempo di Sten-dhal e di Svevo e, nell’attuale apocalisse media-tica, non si deve più aspettare ottant’anni peressere riconosciuti.Ma non è questo il punto interessante per il no-stro discorso. Né è interessante il contestare,come mi sento di fare che gli scrittori che tu e isei critici interpellati sostenete hanno intanto ilmerito «di non rassegnarsi e trasformarsi insemplici intrattenitori». Intanto e per intanto èun errore sottovalutare il ruolo di stimolo chenell’attuale pochezza (o avarizia) delle nostrelettere hanno gli scrittori di intrattenimento (hadel tutto torto il poeta Zeichen quando esalta ilritorno alla letteratura di genere?) e poi negliscrittori indicati e scelti, anche il piccolo gruppoda te selezionato, non è evidente il tentativo diessere insieme seriosi (spero non nella convin-zione che la qualità della letteratura sia garan-tita dall’aplomb severo) ma anche conversevoli,seri ma anche capaci di intrattenere?Ecco questo è il punto: gli scrittori giovani omeno giovani non scrivono sulla base diun’idea, questa sì derivata dalla letteratura che

Gli scrittori e il raccontod’inchiesta

Angelo Guglielmi, l’Unità24 agosto 2010

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non è altro che una nuova idea di mondo masulla base di una nuova idea, questa sì derivatadalla letteratura americana, che per essere inte-ressanti (e non mancare l’appuntamento altocon la scrittura) oportet scrivere delle malefattedi oggi o del proprio scandalo autobiografico.E questo è in qualche modo vero (e non conte-stabile) purché, convinti di questo, ci si chieda(e si trovi la risposta) il perché oggi è il raccontod’inchiesta e documentaristico o l’autofiction(come tu la chiami) il campo privilegiato anziobbligato dell’esercizio e pratica (della) narra-tiva. E se non si chiarisce quel perché non sitrova nemmeno il linguaggio con cui raccon-tare: e si finisce per adoperare parole qualunqueche magari, per renderle più aspre, si tende astorcere, deformando e contraendo i nessi sin-tattici e grammaticali.Ma quale è la risposta a quel perché? È difficiletrovarla. Ma ad essa ci si può avvicinare con-siderando e prendendo atto delle condizioniche mancano l’attuale contingenza (il tempoche stiamo vivendo) e soprattutto se non siperde di vista che il vero senso (e obiettivo)della letteratura è comunque cogliere magarisolo sfiorare il punto (nascosto fino a essere in-trovabile) in cui la realtà si manifesta e eviden-zia la sua indiscutibilità. Ora si sa che, per una

quantità di motivi da tutti ripetuti, viviamouna congiuntura in cui le cose si sono perdute,che non esistono più le cose ma la chiacchierasulle cose, che la realtà si è smarrita nell’appa-renza (e vai a trovarla!) e allora ti viene inmente che forse un aiuto (la possibile salvezza)puoi trovarla aggrappandoti al modello inchie-sta giornalistica o all’autofiction, l’uno e l’altraaffondanti in riferimenti incontestabili, in nar-razioni già accadute e in quanto tali sfuggentia un sospetto di dubbio. E allora ecco la ca-morra o il delitto di Erba cui nessuno è estra-neo (vedi Saviano o Scurati) o la biografia e au-tobiografia (vedi Vasta o Siti e perché noLagioia e ancor prima la Ballestra o Novi), chenella consapevolezza della loro scelta, in que-sta apertura al buio (nel poker è spesso lamossa vincente) trovano la lima con cui arro-tare parole con le quali più che raccontare leloro misere storie invero raccontano un’idea dimondo, azzardano pronunce con giudizi, lam-biscono un’ idea di totalità. Che poi i loro ro-manzi o qualcuno di essi sia in grado domanidi salire alla considerazione di classico, met-tendo da parte il nostro scetticismo, lasciamoche lo decidano i posteri. Noi fermiamoci qui,ma non prima (dribblando la domanda essen-ziale) come forse anche tu fai.

«[…] il vero senso (e obiettivo) della letteraturaè comunque cogliere magari solo sfiorare il punto

(nascosto fino a essere introvabile) in cui la realtà si manifestae evidenzia la sua indiscutibilità»

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I romanzi sono vivi, la critica è all’angolo

Il dibattito culturale si accende, tra giornali,web e social network sul tema della lettera-tura. A tener banco è il dibattito nato nellescorse settimane e approdato ieri a un inter-vento di Angelo Guglielmi sul Corriere dellaSera intitolato Manca la buona narrativa, inu-tile incolpare il mercato. Già ieri mattina,nella propria pagina web, lo scrittore Giu-seppe Genna ha pubblicato un post che ri-sponde a Guglielmi affermando, di contro,l’«inutilità» della critica («non della teoria»),e sostenendo che «il lavoro critico è statosvolto (meglio) dagli stessi scrittori», da Bau-delaire a Leopardi a Dante, «perché il criticonon è un artista». In breve, i commenti regi-strano una settantina tra interventi e «mipiace» (il gradimento su Facebook) di lettorie scrittori. Lo stesso Genna precisa: «Sonostufo di vedere la letteratura italiana trattatacosì. È la critica che deve scomparire, sosti-tuita dalla teoria. Prima del ’700 nessun au-tore ha mai avuto un critico, semmai venivacitato da teorici. Forse lo scontro è generazio-nale, riguarda critici di quella generazione: maanche i critici giovani sono impreparati, tranneche nella loro branca specifica, lontani dallarealtà». Il dibattito si è allargato ad altri scrit-tori. Camilla Baresani: «Sono un’appassionatadello sguardo critico dello scrittore, per esem-pio delle Lezioni di letteratura di Nabokov o

dei libri raccontati da Piperno o da Giordano.Ma a volte trovo esempi di critica in cui pre-vale l’autocompiacimento, e manca la vita chepalpita in un libro». L’altro argomento conte-stato è l’obiezione mossa da Guglielmi, cheauspicava nell’articolo «un Simenon italianoo un Littell di casa nostra». «E dove sono i“loro” Walter Siti? – domanda Genna – E iloro Andrea Zanzotto, Milo De Angelis,Mario Benedetti? La nostra letteratura staproducendo voci che né la Francia, né la Ger-mania, né l’Inghilterra hanno». Magari si puòcercarle online, afferma Gianni Biondillo, trale firme del blog Nazione Indiana: «Anch’iosono stufo di sentire che il romanzo italiano èmorto, muore ormai da cinquant’anni. Sullamorte della critica, però, non sono d’accordo:noi abbiamo bisogno di una critica attiva…Ad esempio, c’è un fiorire di qualità di culturapoetica su Internet. Se i critici andassero a cer-carli». Risponde scettico, tuttavia, Angelo Gu-glielmi, a ogni obiezione: «Non posso negarecerto che Baudelaire e Leopardi fossero anchegrandi critici, ma ciò non mette in forse il miodiscorso, che faceva riferimento alla situa-zione di oggi. Oggi non c’è né Dante né Leo-pardi. Ed è una posizione condivisibile, quellache riguarda la teoria, ma si risolve in unafuga, una fuga per evitare un discorso un po’più complesso».

Ida Bozzi, Corriere della Sera24 agosto 2010

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Se il romanzo è un feticcio

Due o tre note in margine alla discussione sullostato attuale della letteratura prodotta daimeno che quarantenni. Penso a due articoli,uno di Nicola Lagioia e uno di Alessandro Pi-perno, questo secondo non già un «intervento»ma pur sempre una più o meno deliberata di-chiarazione di poetica. A sé e ai suoi coetaneiLagioia rivendica il compito di restituire di-gnità ad un’Italia politicamente e moralmentedevastata. Per ogni letteratura un senz’altronobile e auspicabile proposito, ma comunque,nel quadro da lui delineato, una mera solleci-tazione nei confronti di eventuali contenuti,ossia una gabbia. Nelle parole di Lagioia si co-glie un’idea di romanzo che confina con l’in-dagine sociologica. Allora ci si chiede: cosa di-viderà, sul piano della scrittura, la sociologiadalla letteratura, ovvero dalla poesia? A questaaltezza entrano in gioco due parole chiavecorse nella discussione: letterato e stile.La parola letterato, ormai impronunciabile, l’hointrodotta io stesso, con una punta di provoca-zione (quale scrittore non fu un letterato?). La ri-prende Piperno con evidente insofferenza, rile-vando una moralistica demonizzazione dell’ideadi felicità da quando i «letterati hanno spostatola loro austera attenzione su sediziosità sociolo-giche, miserabili constatazioni strutturali, facino-rose dispute politiche». Qui siamo agli antipodidi Lagioia. Ma, in modo implicitamente genera-zionale, entrambi appaiono “uniti nella lotta”,

nei confronti di veri e propri feticci. Insomma, misembra riduttivo credere che il tema della felicitàsia appannaggio di alcuni romanzieri, quelli citatida Piperno, ovviamente moderni. Di cosa parlavaPlatone nel Simposio? E di cosa Seneca nelle Let-tere a Lucilio e Rabelais nel suo Gargantua? Epoi: quelle che Piperno chiama «constatazioni»strutturali, addirittura miserabili, sono gli unici,veri rilievi degni di un’analisi critica per qualsivo-glia opera. Il significato (il senso, il sentimento, lapostura reale e inconfondibile di un autore, lapossibilità dell’identificazione, tanto cara ai lettoritrentenni, infine l’emozione che scaturisce dallacomparsa in scena della felicità ma anche del ma-lessere) nasce dalla forma peculiare di un testo,non da ciò che esso dice, o in modo più o menodiretto ritiene di dire. In questo contesto di di-scorso rientra la disputa politica: uno scrittore chenon abbia della comunità idea o sentimento, siapure negato, che razza di scrittore è? Già sanFrancesco, nel suo Cantico, prefigurava una co-munità – quella tra tutte le creature e Dio. Da ul-timo la questione dello stile. Certo, se si nutreun’idea «autenticista», che quindi il letterato siaun individuo separato dalla vita vera, la parolastile apparirà come bello scrivere e non c’è dubbioche lo stile per lo stile è retorica, manierismo, ri-sibile produzione di effetti locali. Scriveva RolandBarthes nel Grado zero della scrittura (1953): «Leimmagini, il lessico, il periodare di uno scrittorenascono dalla sua natura fisica e dal suo passato

Franco Cordelli, Corriere della Sera30 agosto 2010

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e diventano gradual-mente le stesse compo-nenti automatichedella sua arte […].Qualunque sia il suogrado di raffinatezza lostile ha sempre qual-cosa di bruto, è unaforma senza unoscopo, il prodotto diuna sollecitazione nondi una intenzione». Mapoco dopo aggiunge:«Ogni forma è ancheValore; per questo tralingua e stile c’è postoper un’altra realtà for-male: la scrittura. Inqualsiasi forma lettera-ria è richiesta la sceltagenerale di un tono, diun ethos se si vuole: edè appunto dove loscrittore si individuacon chiarezza perché è dove si impegna».Il vero stile dunque è là dove si manifesta comescrittura, cioè assunzione di responsabilità – neiconfronti di se stessi e dei propri temi e contenuti.Là dove esso è congruo all’oggetto: là appare ciòche in un altro intervento chiamavo potenza, unaspetto della quale è il suo (apparente) opposto,

la sottigliezza. Sonoqualità che, io credo, sivanno diluendo in ra-gione delle cattive in-tenzioni che le prece-dono, un’altra dellequali, corollario ed ef-fetto delle prime, è laperdita di memoria –del luogo dove si è, o sivuole essere: la storiadella letteratura e, piùpacatamente, il «lette-rario». Perché tantiscrittori tutti insieme?Perché tanti autori diromanzi che nella pro-pria vita (ma anche no)si sono dedicati a tut-t’altro che alle lettere?Perché, mi sembra, ilromanzo da moltotempo ha esaurito ilsuo ciclo vitale, come

la sua stessa inflazione attesta. Non c’è più comearte. Ne è rimasto il fantasma del prestigio so-ciale. Ma quando tutti avranno scritto la propriamemoria o (più affascinante) il proprio romanzo,quando tutti saranno stati promossi, toccati daquel prestigio, che ne sarà del prestigio? Dietroquale nuovo feticcio ci si mostrerà adoranti?

«Il vero stile dunque è là dove si manifesta come scrittura,cioè assunzione di responsabilità – nei confronti

di se stessi e dei propri temi e contenuti»

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Gli intellettuali democraticiche non trovano spazio a sinistra

Domenica l’inserto culturale del Sole 24 Ore hapubblicato un intervento di Christian Raimodal titolo Cercando uno spazio pubblico. Ilpezzo è collocato in apertura di pagina 2,quella delle «Idee», una posizione di una certavisibilità e autorevolezza. E infatti è un pezzomolto interessante.Raimo, che ha 35 anni, è uno scrittore pesante-mente left oriented, consulente di minimux faxe di Laterza, collaboratore del manifesto e di Li-berazione, uno che non ha mai perdonato nullaa Berlusconi, al berlusconismo, a questo go-verno e ai suoi ministri, uno che ha sempre de-nunciato «la marcescenza dell’incultura de-strosa che ha contagiato la nostra società»,come ha scritto di recente sul blog di minimumfax. Da questo punto di vista un intellettuale disinistra al di sopra di ogni sospetto. Ma che,proprio per questo, rende «sospetto» il pezzofirmato sul Domenicale del Sole 24 Ore.Raimo infatti accusa la difficoltà – da parte suapersonale e da parte della sua generazione under40 – nel trovare uno «spazio pubblico» che sap-pia ospitare e alimentare il dibattito politico-in-tellettuale; si chiede se «è possibile pensare di ri-costruire una piccola civiltà culturale econtrastare la diffusa convinzione che tutto quelloche si fa è ininfluente»; lamenta la sconfortanteesperienza del «vuoto» che accomuna cittadini eintellettuali come lui, parla di «deserto», immo-bilismo, mancanza di riconoscimento (a sinistra),

e si chiede se è così impossibile dare forma a unvero confronto culturale che «non avvenga, comeal solito, all’interno di nicchie compiaciute e au-toconsolatorie».Da un parte Raimo si dice stufo di sentire scrit-tori (di sinistra) lamentarsi perché non si rico-noscono in un partito, che scrivono controvo-glia o soltanto per soldi su giornali di cui noncondividono il progetto editoriale («figuriamocila linea culturale»), che si rifugiano nei blog«come forma minima di resistenza»; e dall’altrasi stupisce di trovare sul Sole 24 Ore articoli digente culturalmente e politicamente a lui «af-fine» come Lagioia, Pacifico, De Majo, Ricupe-rati, Pedullà, Luzzatto.Insomma, Raimo pur senza fare nomi dice que-sto: è mai possibile che noi «giovani» intellet-tuali di sinistra non riusciamo a trovare spazi,sensibilità, collaborazioni, condivisioni di lineee progetti dentro questa Sinistra? È mai possi-bile che noi «giovani» intellettuali di sinistranon possiamo dire la nostra sulla Repubblica,sul manifesto, chessò sul Riformista o su qual-siasi altro foglio di «opposizione» e di «resi-stenza»? È mai possibile che per dire certe cosee fare certi discorsi, noi «operai del pensiero»,dobbiamo aspettare che ci ospiti Il Sole 24 Ore,la Confindustria, il «Padrone»? Ma cosa c’è aSinistra? Il deserto?Non solo. Leggendo il pezzo di Raimo vengonoin mente critiche simili alla Sinistra «ufficiale»

Luigi Mascheroni, Il Giornale5 ottobre 2010

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da parte di molti altri intellettuali «impegnati»,e non solo under 40: il disagio di Francesco Pic-colo, che all’Unità sembra stare sempre piùstretto; tante posizioni «irregolari» dello stessoTiziano Scarpa; la scelta di Paolo Nori di scri-vere anche su giornali di destra (perché certecose a sinistra non gliele pubblicano?); il j’ac-cuse di Antonio Pennacchi contro Feltrinelli e lasinistra radical che lo ha «costretto» a dare ilsuo libro alla Mondadori; il malessere di Anto-nio Moresco a cui questa destra fa schifo macerto anche la sinistra… eccetera eccetera.Non so. È una sensazione strana, da parte no-stra. Forse è la dimostrazione che «la banalità el’omologazione culturale» – come ChristianRaimo titolò un altro suo vecchio pezzo su Li-berazione – non è solo una problema della de-stra. Forse è persino l’ammissione del settarismoe della supponenza della sinistra.

Sembra che i più importanti scrittori italiani sisiano dati appuntamento in libreria. Ultima-mente sono usciti a pochi giorni di distanza inuovi romanzi di Andrea Camilleri (che perònon fa testo perché per arrestarne la grafomaniabisognerebbe sedarlo), Andrea De Carlo, Nic-colò Ammaniti, Alessandro Piperno, Sandro Ve-ronesi, Umberto Eco, Walter Siti, Giancarlo DeCataldo, Chiara Gamberale, ecc. Tutti con opereambiziose e spesso voluminose, abbondante-mente reclamizzate (la simpatica Gamberale habeneficiato di simpatiche affissioni stradali stilecinema e qualche moralista s’è indignignato, manoi siamo con lei e con il marketing di Segrate:la guerra è guerra). Un’invasione di tomi cheparrebbe confutare le geremiadi sulla minore vi-talità del romanzo italiano sul saggio, sul ci-nema, sulla mozzarella di bufala.Ma l’impressione di un’ispirazione euforica emiracolosa che abbia contagiato gli scrittori ita-liani tutti allo stesso momento si dirada non ap-pena comincia la lettura di queste attesissimenovità. Sono romanzi funebri, verbosi e ases-suati. Persecuzione di Piperno, come prometteil titolo, è lento e prolisso: per citare una battutadi un film con Gene Hackman (che parlava deifilm di Rohmer): è eccitante come guardare lavernice che si asciuga. Lo stimato Walter Siticon la sua Autopsia di un’ossessione è all’enne-simo appuntamento narcisistico del suo politicomuscolar-omosessuale, e più che la vernice che

«[…] è mai possibile che noi“giovani” intellettuali di sinistra non

riusciamo a trovare spazi,sensibilità, collaborazioni,

condivisioni di linee e progetti den-tro questa Sinistra?»

I grandi non funzionano piùfacciamo posto agli outsider

Giordano Teodoldi, Libero6 novembre 2010

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si asciuga sembra di guardare per ore, bloccatidalla cervicale, una foto di Robert Mapple-torpe. Le luci nelle case degli altri di ChiaraGamberale ha la genericità e la logorrea di unvicino di scompartimento che non ti dà tregua.Io e te di Niccolò Ammaniti è una storiella suc-cinta e esile, l’equivalente editoriale del timbrareil cartellino.A farla breve, una delusione dopo l’altra. conl’unica eccezione del Cimitero di Praga di Eco,che ha scritto per la stessa volta lo stesso fe-uilleton storico-esoterico che preparava davent’anni, ma non annoia e non spedisce mes-saggi filosofico-morali da preside di facoltà delCepu, meglio stare alla larga da questi cam-pioni scoppiati. Che prendessero un bagnod’umiltà, invece di paragonarsi all’Antico Te-stamento e a Kafka e sproloquiare dell’eternoconflitto tra bene e male sotto lo sguardo gri-fagno della Dandini o il vuoto purtroppo nonbuddhista che emanano le pupille di FabioFazio. Che tornassero a studiare, ad appar-tarsi, a non andare a premi, convegni, comizi,

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che se ne stiano a casa a distillare meglio leloro pagine domandandosi a ognuna l’aureoquesito dello scrittore: «Vale la pena di vivereper leggere questo romanzo?». Perché se ilproblema è solo uscire in libreria, occuparemetri quadri da Feltrinelli, dimostrare che nonhanno il blocco creativo, pubblicando questeopere irrisolte, aride, pedanti, fanno rimpian-gere la scelta di chi rinuncia alla letteraturaper sempre.Il guaio maggiore di questo presenzialismo deigrandi autori è che con il battage pubblicitarioe il marchettume che li accompagna, fannoombra a altri autori assai più interessanti e vi-tali, giovani e vecchi ancora contaminati dalmorbo della letteratura e schivi alla fama, alleblandizie televisive, alle astuzie degli ufficistampa che, come e più dei famigerati editor,stanno letteralmente sputtanando la letteratura(anche se la guerra è guerra).Ci permettiamo così di consigliarvi di lasciare in-tonsi i capolavori annunciati dei grandi, o pren-deteli e deponeteli direttamente nell’usato scon-tato, e andate alla cassa con gli ultimi libri diCristiano De Majo, Gilberto Severini, AntonellaLattanti ed Eva Cantarella. Mai sentiti? Non fa-tevene una colpa, sono usciti chi da qualche

giorno, chi da poche settimane, eppure sono statiimmediatamente asfaltati dallo strapotere arro-gante de «l’ultimo romanzo di», anche se comenel caso di Ammanniti si tratta di un centinaiosvogliato di pagine a caratteri per ciechi al costodi 10 euro, una cosa che si legge in mezz’ora be-vendo un caffè al bar in attesa che parta il trenoe dopo la lettura non rimane altro che partireper un paese dove gli editori, quando uno scrit-tore dice che consegna un romanzo, pretendonoun romanzo, non gli scarti in fondo all’ultimocassetto della scrivania.I miei quattro moschettieri, De Majo, Severini,Lattanzi e Cantarella, se scrivono tanto, comeDe Majo, è perché hanno molto da dire; se scri-vono poco, come Severini, è perché ogni frase èuna perla; se fanno gli snob, come Cantarella, èperché hanno la sapienza e l’ironia per non ri-sultare sussiegosi come Piperno; e se parlano dieroina e tossicodipendenza, è l’ossessione dellaloro vita, non un colpo basso per vendere.

«[…] l’impressione di un’ispirazione euforica e miracolosache abbia contagiato gli scrittori italiani tutti allo stesso momento

si dirada non appena comincia la lettura di queste attesissime novità.Sono romanzi funebri, verbosi e asessuati»

«Che prendesseroun bagno d’umiltà, invece di

paragonarsi all’Antico Testamentoe a Kafka»

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Peter Pan scrive libri (per i suoi simili)

Prima i romanzi giovanili parlavano solo ai gio-vani, ora anche agli adulti.Negli anni Ottanta si parlò di giovani scrittoricome fossero un gruppo compatto o un nuovomovimento: erano Del Giudice, De Carlo, Ta-bucchi, Busi, Benni e altri. Poi, nei primi No-vanta, vennero Baricco, Veronesi, Onofri, Petri-gnani, Lodoli, Albinati, Mozzi e altri, e si disseche una generazione di giovani stava finalmenterinnovando le patrie lettere. Alla fine di quel de-cennio arrivarono i pulp a celebrare la mortedella vecchia autoreferenzialità tipica della no-stra letteratura: nei loro libri c’era più carne ec’era più mondo. I giovani scrittori ci sono sem-pre stati. Di recente Roberto Carnero ha scrittoun interessante saggio sulla narrativa esordientedegli ultimi trent’anni (Under 40, Bruno Mon-dadori), da Porci con le ali alla Solitudine deinumeri primi. Che cosa è cambiato? Niente, insé, i gerghi si adeguano sempre ai contesti e alleepoche. Ma è cambiata visibilmente la società,è cambiato il pubblico, sono cambiati i numeri:mentre prima i romanzi giovanili parlavano aun lettore giovane, oggi finiscono per attrarreanche un pubblico di adulti, probabilmente i fa-mosi Peter Pan che vi si riconoscono a dispettodell’anagrafe (vedi Moccia o Volo), come si ri-conoscono nelle musiche e nei comportamentidei figli e dei nipoti, magari imitandone i codici.Forse perché il pubblico «giovane» (giovanile,similgiovane) si è esteso a macchia d’olio fino

alla terza età, oggi il marketing editoriale ha ca-pito che conviene puntare sugli scrittori under40: i critici sostengono, peraltro, che hanno unosguardo civile, molto acuminato, sulla nostrarealtà, come raramente è avvenuto in anni pas-sati. Franco Brevini, nel saggio La letteraturadegli italiani (Feltrinelli), sostiene questa tesi:che la nostra tradizione letteraria è schiava delculto della forma, narcisistica, autocontempla-tiva, in sostanza inadeguata a raccontare la re-altà per un difetto d’origine essenzialmente lin-guistico. L’uso di una lingua artificiale come iltoscano letterario ci ha privati di uno strumentocapace di raccontare il mondo. Per questo, laletteratura italiana soffre di agorafobia. Questasua preoccupazione sembrerebbe dunque supe-rata dai nuovi arrivati, che non hanno troppepreoccupazioni stilistico-letterarie e, bypas-sando la tradizione, narrano il mondo cosìcom’è (o come lo vivono)? Può darsi, ma non ènecessario rallegrarsene. Come osserva FilippoLa Porta nel suo pamphlet Meno letteratura,per favore! (Bollati Boringhieri), la smania diraccontare tutto rischia di trasformare il mondoin una immensa fiction, che è qualcosa di di-verso dalla finzione letteraria. Intanto, il segui-tissimo sito affaritaliani.it annuncia gli esor-dienti del 2011: un esercito. Qualche esempio.C’è Donatella Di Pietrantonio, una dentista perbambini abruzzese di 48 anni, che viene salu-tata come l’erede (sic!) di Paolo Giordano. E c’è

Paolo Di Stefano, Corriere della Sera9 novembre 2010

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Paolo Sortino, che pur non avendo ancora con-cluso il primo libro («sto lavorando all’edi-ting»), afferma: «Non riesco a immaginare unatrasposizione cinematografica a opera di autoriitaliani. Non credo siano pronti per certe cose.Forse all’estero, chissà…». Chissà.

«Under 40»: una formula che oggi sentiamo unpo’ ovunque, negli ambiti più disparati, che sagià di categorizzazione e che corre il rischio disfociare nei soliti logori luoghi comuni. Perquanto riguarda la narrativa italiana, spessoviene detto che gli scrittori giovani non produ-cono letteratura di qualità, che non hanno unbackground letterario e culturale adeguato eprofondo, che sono tutti sempre troppo impe-gnati nella promozione di se stessi. Si tratta digeneralizzazioni che non hanno nessun valoreargomentativo in una discussione sulla narra-tiva di un paese. Non è vero che in Italia non cisono scrittori giovani che hanno talento e cheproducono narrativa di qualità, non è vero chesono privi di patrimonio culturale, non è veroche militano solo per se stessi.C’è chi si oppone al concetto stesso di delimita-zione anagrafica in letteratura. Effettivamenteragionare per generazioni è inconsistente permolte ragioni. Bisogna introdurre subito una di-stinzione: di cosa parliamo quando parliamo diUnder 40? Crediamo, infatti, che esista una fon-damentale distinzione tra le espressioni «giovaniscrittori» e «scrittori giovani.È subito necessaria una premessa di caratteresociologico-culturale…Si parla di «giovani scrittori» da quando i gio-vani sono diventati una specifica categoria so-ciologica. La maggioranza della critica con-corda nel collocare l’affermazione di questa

Gli Under 40della narrativaitaliana: scrittori giovani,non giovani scrittori

Sandra Bardotti, Wuz.it16 novembre 2010

«[…] la nostra tradizione letteraria èschiava del culto della forma, narci-

sistica, autocontemplativa,in sostanza inadeguata»

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nuova categoria sociologica dopo la contesta-zione sessantottesca, ma le radici del fenomenopossono essere rintracciate già a partire daglianni Cinquanta, con il boom che segue il se-condo dopoguerra, quando la disponibilità eco-nomica dei ragazzi diventa maggiore, il modellodella famiglia tradizionale e patriarcale entra incrisi, vengono introdotti nuovi stili di vita, lastruttura scolastica subisce imponenti trasfor-mazioni, nasce il concetto fondamentale di«tempo libero». Comincia così a svilupparsi trai giovani la consapevolezza di sé, di essere unacategoria che esprime una cultura radicalmentediversa da quella adulta ed è desiderosa di espri-merla all’intera società.In Italia si comincia a parlare di «giovane nar-rativa» negli anni Ottanta. Secondo RobertoCarnero, è a partire dall’estate del 1985 che lecase editrici italiane cominciano a pensare a ungruppo di scrittori da presentare e lanciare allaFiera del Libro di Francoforte. Da quel mo-mento critici e case editrici si sono dimostratimolto più attenti ai giovani esordienti. Al di làdel fatto commerciale, il fenomeno della gio-vane narrativa ha sicuramente dato vita anchea un importante momento di rinnovamentodella prassi letteraria, a fronte dell’illeggibilitàdella narrativa neoavanguardistica e sperimen-tale, dell’ovvietà della narrativa realistica co-munque rispolverata, della nullità della narra-tiva di puro consumo.Figura centrale in questo processo è Pier Vitto-rio Tondelli, che attraverso un concorso lettera-rio pubblica tre volumi di autori esordientiUnder 25, in collaborazione con Massimo Ca-nalini e Transeuropa, dal 1986 al 1990. L’im-portanza del lavoro di Tondelli è enorme, nontanto per il valore dei testi pubblicati, ma so-prattutto per il suo impegno culturale militanteal servizio della letteratura. Con Tondelli siinaugura un nuovo modo di saggiare la realtàgiovanile attraverso l’inchiesta letteraria. Tra gliUnder 25 tanti sono i nomi che sono giunti fino

ai giorni nostri, che testimoniano la produttivitàe la vitalità dell’iniziativa tondelliana: basti ci-tare Silvia Ballestra, Romano Bulgaro, Alessan-dro Bruschi, Claudio Camarca, Andrea Canob-bio, Guido Conti, Giuseppe Culicchia, AndreaDemarchi.Negli anni Novanta, poi, il nucleo forte degliesordi narrativi si colloca intorno a Ricercare.Laboratorio di nuove scritture, una manifesta-zione annuale concepita da Renato Barilli eNanni Balestrini, che si svolge a Reggio Emiliadal 1993.Così la letteratura ci racconta cosa vuol dire es-sere giovani negli anni Ottanta e Novanta, at-traverso una molteplicità di esperienze diverseil cui segno distintivo sembra essere l’amplifica-zione delle conseguenze della globalizzazione edelle sue nevrosi.Nel 1996 nasce la collana Einaudi Stile Libero,che ha da subito presentato le novità più interes-santi della letteratura e della cultura underground

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e pop giovanile, accogliendo in sé il maggioresempio di costruzione di un caso letterario col-lettivo tramite i mass media, quello dei «canni-bali». L’antologia Gioventù cannibale è propriodel 1996, e comprende racconti di Niccolò Am-maniti e Luisa Brancaccio, Alda Teodorani, AldoNove, Daniele Luttazzi, Andrea G. Pinketts, Mas-similiano Governi, Matteo Curtoni, Matteo Ga-liazzo, Stefano Massaron, Paolo Caredda.Ricapitolando, alcune sigle editoriali sembranoaver trainato l’affermazione del fenomeno dellaletteratura giovanile negli anni Ottanta e No-vanta: Transeuropa, con Tondelli e Canalini; pic-cole sigle come Stampa Alternativa, Theoria, Ad-dictions, minimum fax; Castelvecchi, che perprima pubblicò i «cannibali» Aldo Nove e IsabellaSantacroce; infine, Stile libero di Einaudi, che inpochi anni è diventata crogiuolo di nuove espe-rienze sperimentali, fino a diventare lente di in-grandimento dell’immaginario collettivo, espressocon i modi della scrittura, delle ultime generazioni.

Ricordiamo anche i 12 racconti di Under 25.Terzo millennio, edito da Costa & Nolan nel2006, a vent’anni dalla prima antologia Under25 curata da Pier Vittorio Tondelli. A valutaree scegliere i testi, un gruppo di giovani aspiranti«critici» coetanei degli autori, gruppo che facapo al Caffè versato, circolo letterario sortonell’ambito della Facoltà di Lettere dell’Univer-sità Cattolica di Milano.Negli ultimi anni minimum fax ha pubblicatoalcune pregevoli antologie di giovani scrittoriitaliani, seguendo l’esempio di Granta e delNew Yorker: La qualità dell’aria (2004), Bestoff 2005, Best off 2006, Voi siete qui (2007),Senza corpo (2009).Citiamo il lavoro di Roberto Carnero appenauscito per la Bruno Mondadori, Under 40. I gio-vani nella nuova narrativa italiana, una interes-sante indagine sulla narrativa italiana degli ultimitrenta anni, focalizzata sulle scritture di giovaninarratori che parlano di giovani. Da Porci con le

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«[…] il fenomeno della giovane narrativaha sicuramente dato vita anche a un importante momento

di rinnovamento della prassi letteraria, a fronte dell’illeggibilitàdella narrativa neoavanguardistica e sperimentale,

dell’ovvietà della narrativa realisticacomunque rispolverata, della nullità

della narrativa di puro consumo»

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«[…]a fine anni Ottanta,inizio Novanta, Tondelli

selezionava i nuovi giovaniscrittori tra gli Under 25, oggi lo

scarto generazionale vienecollocato molto più avanti.

Gli Under 25 sono oggiUnder 40»

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ali (1976) di Marco Lombardo Radice e Lidia Ra-vera, considerato l’archetipo del genere «scritturegiovanili», a Boccalone (1979) di Enrico Palandri,Altri libertini (1980) di Pier Vittorio Tondelli,Treno di panna (1981) di Andrea De Carlo, perproseguire, negli anni novanta, con i libri di SilviaBallestra, Enrico Brizzi, Giuseppe Culicchia, finoad arrivare ai casi più recenti di Melissa P., Fede-rico Moccia e Paolo Giordano, premiati da unostraordinario successo di pubblico: una linea fra-stagliata e vitale, che ha per protagonisti giovaniscrittori che parlano di giovani e dei problemi delloro mondo.Torniamo sui nostri passi…In questo lavoro non intendiamo parlare di«giovani scrittori» che parlano di giovani eche mettono la condizione giovanile al centro

un autore non giovane, anche se gioca a fareil giovane».A partire da queste premesse, la nostra indagineintende parlare di «scrittori giovani» piuttostoche di «giovani scrittori», considerando che nelprimo caso l’aggettivo «giovane» è un dato acci-dentale e accessorio, mentre nel secondo èl’aspetto fondamentale. Inoltre, non ci interessanemmeno obbedire a una linea che raggruppacasi editoriali studiati a tavolino in ossequio aun’orrenda moda dell’esordiente. In uno scenarioeditoriale dominato dal lolitismo e dalla sindromeGiordano, abbiamo indagato con curiosità nelmondo della narrativa contemporanea, alla ri-cerca di qualità da mettere in luce. Proponiamoquindi autori giovani di cui forse abbiamo sentitoparlare, il cui nome ci dice vagamente qualcosa,

del loro lavoro. Gettando uno sguardo al pa-norama editoriale del nuovo millennio, infatti,ci accorgiamo che quella del «giovane scrit-tore» è diventata più una categoria commer-ciale che sociologica. Per Filippo La Porta, la«giovane narrativa» non esiste più. «Daglianni Ottanta, con il famigerato “riflusso”, as-sistiamo a una mutazione antropologica checontinua tutt’oggi. La giovinezza in senso spe-cifico tende a sparire, perché è tutta l’esi-stenza, anche quella degli adulti, ad acquistarele caratteristiche che prima erano tipiche dellagiovinezza: fluidità, flessibilità, continua ca-pacità di adattamento. E anche in letteraturaè venuta meno la centralità della categoria“giovane” o “giovanilistica”. In un caso comequello di Paolo Giordano, infatti, il fatto chel’autore sia giovane non è così significativo,mentre nel caso di Federico Moccia abbiamo

alcuni già promettenti, altri esordienti completa-mente sconosciuti, altri impegnati anche nellaveste di editori.Cerchiamo di non rinchiuderci nella gabbia li-mitante delle definizioni, e muoviamoci all’in-terno di una restrizione in cui può annidiarsiuna grande varietà di esperienze diverse. Pro-viamo a inserirci sulla scia del New Yorker e diGranta per proporre ai lettori alcuni autori chemagari non godono (o non ancora) di tutta l’at-tenzione e la promozione riservata ai casi edi-toriali nati a tavolino. Alla fine dell’estate ap-pena trascorsa Il Sole 24 Ore ha aperto ildibattito sui nuovi Under 40 italiani, interpel-lando alcuni critici e invitandoli a esprimere laloro opinione in proposito. Sono stati nominatipiù di cinquanta scrittori: insomma, di tutto unpo’. Noi invece proviamo a seguire lo schemaanglo-americano e diamo una rosa di 20 nomi

«[…] una linea frastagliata e vitale, che ha per protagonistigiovani scrittori che parlano di giovani

e dei problemi del loro mondo»

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di scrittori italiani under 40 che consideriamosignificativi nell’odierno panorama letterario.Sono premesse necessarie per capire l’intento delnostro lavoro. Ci sono scrittori, anche moltobravi, più o meno noti al pubblico, che non sa-ranno nominati in questa sede. Ma questo è ilsenso di una scelta: qualcuno deve rimanere fuori.Ecco gli Under 40 di Wuz:Nicola Lagioia, Giorgio Vasta, Davide Enia,Fabio Guarnaccia, Letizia Muratori, Andrea Ba-jani, Simona Vinci, Roberto Saviano, Gilda Po-licastro, Cristiano Cavina, Cristiano De Majo,Paolo Zanotti, Antonella Lattanzi, Paolo Co-gnetti, Anilda Ibrahimi, Valeria Parrella, LauraPugno, Veronica Tomassini, Francesco Pacifico,Rosella Postorino.Un dato su cui vale la pena di riflettere è che sea fine anni Ottanta – inizio Novanta Tondelliselezionava i nuovi giovani scrittori tra gliUnder 25, oggi lo scarto generazionale vienecollocato molto più avanti negli anni. Gli Under25 sono oggi Under 40. Potremmo interrogarcia lungo su questo dato. Come diceva il citato LaPorta, oggi la giovinezza in senso stretto tendea sparire e va a comprendere una fascia di etàmolto più vasta. Del resto, questo non è più unpaese per vecchi: vivamo in una società tuttaconcentrata sul presente, che non accetta più diinvecchiare e fa di tutto per ripudiare il pensierodella morte.Da un punto di vista generale, è palpabile neinostri under 40 una certa irrequietezza, quelladi chi è cresciuto in un periodo di pace pre-sunta e apparente, di concreto benessere, e poiha dovuto fare i conti con la scoperta degli in-ganni e delle ingiustizie, rifiutando di inserirsinei meccanismi dell’omologazione con storierassicuranti.

Nicola Lagioia, nel suo Manifesto per autoriunder 40 apparso sul Sole 24 Ore domenica 8agosto, afferma: «Se c’è una cosa che accomunai nati in Italia dopo il 1970 è l’eccezionalità delcontesto, e cioè il fatto di essere cresciuti inquello che – ultimo o penultimo invitato alla ta-vola delle grandi potenze democratiche – è di-ventato neanche troppo lentamente un paese delsecondo mondo. […] Credo sia interessante ca-pire come mai per gli under 40 italiani di oggiun certo realismo richieda pochi sforzi e, con-temporaneamente, sia anche la dura lezione ap-presa nel passaggio dall’adolescenza all’etàadulta. La definirei una questione di imprinting:difficile pensare di non vivere in uno dei paesipiù corrotti dell’occidente se ti congedi dal liceopoco prima di Tangentopoli; così come è piutto-sto complicato credere a uno Stato sovrano sedai il tuo primo esame all’università non quandoesplode la bomba sull’autostrada Capaci-Pa-lermo ma 57 giorni dopo, perché se il beneficiodel dubbio poteva sopravvivere con moltosforzo alla morte di Falcone, la sua lapide è statascritta in via d’Amelio. Faticoso, del resto, cre-dere a una politica che favorisca meritocrazia ebene comune se – scontrandoti già da qualcheanno col muro di gomma gerontocratico incampo lavorativo – hai assaporato l’insostenibilepesantezza della sospensione democratica inquel di Genova durante il G8 del 2001; e hai fa-ticato a sostenere un déjà-vu degno di PhilipDick quando il ministro dell’Interno di allora,costretto a dimettersi per aver definito «un rom-picoglioni» una vittima delle Brigate rosse, si siari-dimesso non tanto per l’incredibile circostanzadi non sapere chi gli aveva comprato casa maper l’ancora più incredibile circostanza di esserestato nominato ministro un’altra volta».

«[…] questo non è più un paese per vecchi: vivamo in una società tuttaconcentrata sul presente, che non accetta più di invecchiare e fa di tutto

per ripudiare il pensiero della morte»

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Per questo troviamo in molti Under 40, accantoa una decisa impronta realistica, un certo atteg-giamento apocalittico, a cui si accompagnaanche il gusto per la sperimentazione e l’ibridi-smo, come se fosse impossibile dire e mostrarequel che si ritiene giusto con i modi mistificatiseguiti dalla produzione culturale dominante. Ilcaso di Gomorra, l’esempio più doloroso dellasolitudine intellettuale italiana, è emblematico,anche per quanto riguarda la commistione di ge-neri e stili. A proposito di realismo, ricordiamola discussione sul New Italian Epic portataavanti da Wu Ming e da molti blog, i cui puntifondamentali sono riassunti nel memorandum1993-2008 (consultabile online e pubblicato nel2009 da Einaudi nella raccolta New Italian Epic.Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro).

Accanto al recupero del realismo e dello sguardosulla società, troviamo poi il gusto per la puranarrazione, per la lingua letteraria e per la mu-sicalità della parola. Ne vengono fuori 20 ritrattifreschi e brillanti dell’Italia del terzo millennio.«Stringendo poi l’attenzione – continua Lagioia– su quegli under 40 che cercano di raccontare ilmondo attraverso le lenti deformanti della lette-ratura, credo che i buoni segnali sia incapace dicoglierli solo chi questa letteratura non ha l’abi-tudine di frequentarla. Se si guarda alla recenteproduzione degli scrittori italiani (non solo under40), è difficile non accorgersi di una grande vita-lità; e ciò a dispetto di ritrovarsi in un paese cheha elevato il disprezzo per la cultura quasi apunto d’onore». Concordiamo con lui, e la listache vi proponiamo ne è la prova più convincente.

«[…] una decisa impronta realistica,un certo atteggiamento apocalittico, a cui

si accompagna anche il gusto per la sperimentazionee l’ibridismo, come se fosse impossibile dire e mostrare

quel che si ritiene giusto con i modi mistificati seguitidalla produzione culturale dominante»

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Piccolo catalogo critico dei critici letterari

Si parla tanto di riforma universitaria, di me-ritocrazia, di risultati verificabili? E se doves-simo applicare alle terze pagine i criteri meri-tocratici, quali sarebbero i risultati? Se a undottorando in letteratura si richiedono risul-tati scientifici, una volta uscito dall’universitàcosa mai potrà diventare? Non certo un criticoletterario, al quale è richiesto di non saperenulla e, se mai avesse saputo qualcosa, didover dimenticare tutto. Così non troveretemai un critico che faccia riferimento a quelliche Harold Bloom chiama canoni in base a unprincipio meritocratico universale. Quindiperché studiare letteratura nelle scuole e al-l’università se poi i più grandi scrittori italianisono Camilleri, Faletti, Piperno, Saviano, per-fino Veltroni e Franceschini? Chi sono i criticiitaliani? Li si può dividere in categorie, vo-lendo, ma ciascuno le rappresenta tutte, unoper tutti, tutti per uno.

L’ACCADEMICO

Non scrive sui giornali. Al massimo dà un’oc-chiata alle pagine culturali della Repubblica,del Corriere, del manifesto o del Sole 24 Oreper vedere se qualcuno lo nomina. Infatti nonc’è nessuna soluzione di continuità tra le clas-sifiche di vendita, le recensioni e gli autori vi-venti studiati e invitati come oratori negli ate-nei, troverete gli stessi nomi del mainstreameditoriale: Pennacchi, Scarpa, Saviano, Scurati,

Ammaniti, Avallone. Spesso a parlare di poli-tica, perché della letteratura non frega nienteneppure a loro.

DA TRENTA PAGINE

Legge solo l’inizio dei romanzi che recensisceper lavoro e, se troppo voluminosi e complessi,li stronca preventivamente, contando sulla cer-tezza che tanto nessun altro li leggerà. AngeloGuglielmi definì Aldo Busi «un grande scrit-tore che scriveva brutti libri», non significanulla ma suona bene. Filippo La Porta conti-nua a dare dello scrittore fallito a Moresco maa colazione mi rivela di non aver letto se nonle prime trenta pagine di Canti del Caos e, inquanto giurato allo Strega, di aver letto del-l’ultimo Pennacchi, il vincitore, solo le primetrenta pagine, pur avendolo votato, e per michiede «Tu l’hai letto? Com’è?». Siamo l’unicopaese in cui un grande romanzo di mille paginedi Jonathan Littell non ha suscitato dibattitima stroncaturine piccate perché non era facileda leggere come Aldo Nove. D’altra parte homolte esperienze personali anche sui più inso-spettabili: Carla Benedetti, prima di scrivereun’entusiastica recensione di un mio romanzosu l’Espresso mi inviò decine di mail per chie-dermi come finiva, perché non aveva tempo dileggerlo. Per fortuna lo stesso romanzo fu al-trettanto entusiasticamente recensito da Fi-lippo La Porta e definito «Il Fratelli d’Italia del

Massimiliano Parente, il Giornale6 dicembre 2010

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2000», e anziché sentirmene lusingato, poichécon il libro di Arbasino il mio c’entrava benpoco, ne dedussi che dovesse aver letto solo leprime trenta pagine di Arbasino. Da allorasmisi di contestare a un genio come Aldo Busidi andare in televisione in contesti sciocchini eballerini e lo compresi. Meglio avere come re-ferente Maria De Filippi che un critico italiano,e ormai quando mi invita Barbara D’Urso civado perché meglio andare dalla D’Urso a pa-gamento che a cena con un critico gratis.Se sei uno scrittore vero e conosci un critico loeviti, se sei lesivo e autolesionista come Parentelo umili o lo sputtani pubblicamente consape-vole che tanto di loro, mancando le opere, nullaresterà. Intanto ti faranno terra bruciata in-torno ma non ci riusciranno, l’hai già bruciatatu. Se sei un autore qualsiasi e arrivista quantobasta lo coccoli e lui ti ricambia citandoti ap-pena può: il critico è il miglior amico dell’uomo,basta accarezzarlo, tanto non legge. Così è suf-ficiente vedere le liste degli autori indicati nei

recenti dibattiti sugli «under 40» apparsi negliultimi mesi sul Sole 24Ore per avere una mappacompleta delle consorterie. Li ritrovate insiemealle presentazioni, nei cenacoli, all’interno dellestesse collane dove spesso gli autori sono anchedirettori di collana che offrono collaborazionie saranno fedelmente ricambiati, e non man-cano parentele: il Pedullà critico che elogiatanto Nicola Lagioia non è il padre ma il figlio,ma il Nicola Lagioia elogiato da Pedullà figlioè anche il suo direttore di collana.

L’ABUSIVO

Non essendo uno scrittore, e tantomeno un cri-tico, attacca chiunque osi scrivere un capola-voro. Spesso, non essendo neppure un critico,tende a sovvertire i generi per portare in alto ilbasso e l’alto in basso, sotto la sua scrivania,sotto i suoi piedi. L’esempio più noto è AntonioD’Orrico: dopo aver stroncato Joyce e Musil,dopo aver elevato Piperno a Proust italiano eFaletti al più grande scrittore italiano vivente,oggi esalta il librino di Ammaniti Io e te comeun capolavoro. Meno è meglio è. Più i libri sonoinsignificanti più sono immensi. Ha perfino in-ventato le recensioni in venticinque parole, persbrigare il lavoro ancora prima.

IL GIORNALISTA

È sostanzialmente uguale agli altri ma è dichia-ratamente un giornalista che scrive di romanzicome scriverebbe di mozzarelle se fosse un cri-tico gastronomico, tanto ormai non c’è bisognodi aver scritto i saggi di Bachtin o di Steiner odi Todorov o Genette o Adorno per essere cri-tici, neppure di averle letti, anzi è d’obbligoignorare tutto, al massimo citare Pasolini cheva bene sempre. Le recensioni saranno poi rac-colte in tanti pamphlet: il critico come intruso,casi critici, il critico militante, il tradimento deicritici. Nessuno li legge ma loro se li spulcianotra loro, è l’equivalente del grooming degliscimpanzé.

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IL MULTICULTURALISTA

Ospite da Michele Mirabella, su Rai Tre, duesettimane fa, cercavo di spiegare in tv che unoscrittore scrive delle opere e, se sono opered’arte, un critico è in funzione dell’opera, mai ilcontrario. Rispetto alle grandi opere: Proust oMichelangelo o Gadda sono più importanti diDebenedetti o Vasari o Contini, perché i secondistudiano i primi e dipendono dai primi, mai ilcontrario. Ma il buon Mirabella non mi capiva,io ero il vecchio e il giovane era lui: «Ma perchéquesta gerarchia così rigida? È bella la contami-nazione» e, contaminato anche Michele, mi ri-spondeva come Jovanotti.

L’AUTOCITAZIONISTA

La Porta cita Berardinelli che cita Manica checita Onofri, nella speranza che qualcosa resterà.Emblematico il titolo dell’ultimo libro di LaPorta: Meno letteratura, per favore!, la portaaperta agli amici critici. Difficile capire quale siala differenza qualitativa tra una recensione diGiovanni Pacchiano, critico professionista, euna recensione di Loredana Lipperini, giornali-sta, né su cosa si fondi la loro autorevolezza sei risultato sono identici e i curricula anche. In-terpellare la Gelmini.

L’AUTOCRITICO

È crucciato e impegnato a interrogarsi sulruolo della critica. Non leggono più i grandiscrittori ma studiano i critici colleghi perfinocome modello di scrittura. Se la Gelmini fosse

andata a assistere al convegno sulla critica te-nutosi alla Sapienza di Roma avrebbe tagliatonon i finanziamenti alla facoltà di Lettere e Fi-losofia ma direttamente le loro teste.

QUELLO VERO

Non scrive sui giornali, e per quanto mi riguardanonostante le belle recensioni ricevute negli annisui miei romanzi, i migliori critici li ho trovatinei lettori, che a differenza dei critici leggono ilibri. Mi sono arrivati, nel tempo, lunghi scrittisui miei romanzi da chi non te li aspetteresti mai,illuminanti perfino per me, positivi o negativi.Un cuoco abruzzese che si chiama Domenico Va-leriano Durante, un ventunenne sardo al primoanno di giurisprudenza che si chiama ClaudioOttonello, un barista di Torino, un impiegatodelle poste di Palermo, un avvocato di Napoli etanti altri. Sono loro i veri critici.

VISTO DAL GENIO

Witold Gombrowicz: «Come può un inferioregiudicare un superiore?». Alberto Arbasino:«L’affrettato feuilletton per il quotidiano o ilsettimanale è la principale attività del recensore– e non il sottoprodotto occasionale di impegnipiù seri, come la saggistica o l’insegnamento –come non definire questo tipo di critico un ar-chitetto che non abbia costruito né una casa néuna scuola, ma solo cabine da spiaggia o la cuc-cia del cane?». Gustave Flaubert: «Siamo invasidalla merda». Massimiliano Parente: «Non èora di tirare lo sciacquone? Ma dov’è?».

«Se sei uno scrittore vero e conosci un critico lo eviti,se sei lesivo e autolesionista […] lo umili o lo sputtani pubblicamente con-

sapevole che tanto di loro, mancando le opere, nulla resterà»

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Indice

– Premessa 3

– Filippo La Porta«L’inganno dei “giovani scrittori” nelle società gerontocratiche»Corriere della Sera, 24 giugno 2010 4

– Alessandro Gnocchi«Il salotto letterario distrutto a colpi di clava»il Giornale, primo luglio 2010 5

– Andrea PlebeLibri, la meglio gioventù»Il Secolo XIX, 20 luglio 2010 7

– Stefano Salis«Chi sono i più promettenti scrittori italiani under 40?»Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2010 9

– Gabriele Pedullà«La carica dei magnifici under 40. E voi chi scegliereste?»Il Sole 24 Ore, primo agosto 2010 10

Giovanni Pacchiano, «Realtà e verità i fari da seguire»Ermanno Paccagnini, «La curiosità ci sia guida»Goffredo Fofi, «Una situazione eccellente»Marco Belpoliti, «Solo due autori ma apocalittici»Filippo La Porta, «Inventarsi una lingua forte»Andrea Cortellessa, «E io ci metto anche i poeti»

– Tommy Cappellini«I più bravi giovani scrittori? Sono sempre tutti “in famiglia”»il Giornale, 3 agosto 2010 21

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– Paolo Bianchi 22«Scrittori troppo snob per vendere»Libero, 3 agosto 2010

– «Scrittori, la carica degli under 40: creatività tra riti e ordinaria fatica»Adnkronos, 4 agosto 2010 24

– Franco Cordelli«La letteratura italiana ha perso la potenza»Corriere della Sera, 7 agosto 2010 26

– Nicola Lagioia«Manifesto per autori under 40»Il Sole 24 Ore, 8 agosto 2010 28

– Maurizio Cucchi«Giovani scrittori imparate dall’America»La Stampa, 10 agosto 2010 30

– Fabrizio Ottaviani«I romanzi italiani? O brutti best seller o belli senza lettori»il Giornale, 10 agosto 2010 32

– Gabriele Pedullà«Figli senza padri (scrittori)»Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2010 35

– Cristiano De Majo«Lo ammetto, preferisco gli americani»Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2010 37

– Alfonso Berardinelli«Troppi romanzi uccidono la critica»Corriere della Sera, 11 agosro 2010 38

– Paolo Di Paolo«Quanti sono gli scrittori “under quaranta”? Una folla…»l’Unità, 11 agosto 2010 40

– Daniele di Gennaro«Difendo i giovani scrittori»Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2010 42

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– Mario Baudino«Problemi di abbondanza tra romanzieri e montagne»La Stampa, 13 agosto 2010 44

– Stefano Salis«Scrittori under 40, la generazione c’è»Il Sole 24 Ore, 14 agosto 2010 45

– Gianluigi Ricuperati«Il romanzo italiano torna possibile»Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2010 47

– Luca Ricci«Gli autori under 40 e il senso del limite»Il Messaggero, 17 agosto 2010 49

– Renato Barilli«Scrittori over 40, i veri trascurati»Corriere della Sera, 18 agosto 2010 50

– Andrea Bajani«Un futuro da Novecento»Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2010 52

– Stefano Salis«Ma le nuove leve sono già “autori”»Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2010 54

– Giulio Ferroni«Critica e qualità uccise dal mercato»Corriere della Sera, 19 agosto 2010 55

– Serena Danna«Scrittori senza Padrino»Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2010 57

– Angelo Guglielmi«Manca la buona narrativa…»Corriere della Sera, 23 agosto 2010 59

– Angelo Guglielmi«Gli scrittori e il racconto d’inchiesta»l’Unità, 24 agosto 2010 60

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– Ida Bozzi«I romanzi sono vivi, la critica è all’angolo»Corriere della Sera, 24 agosto 2010 62

– Franco Cordelli«Se il romanzo è un feticcio» Corriere della Sera, 30 agosto 2010 63

– Luigi Mascheroni«Gli intellettuali “democratici” che non trovano spazio a sinistra»il Giornale, 5 ottobre 2010 65

– Giordano Teodoldi«I grandi non funzionano più facciamo posto agli outsiders»Libero, 6 novembre 2010 66

– Paolo Di Stefano«Peter Pan scrive libri (per i suoi simili)»Corriere della Sera, 9 novembre 2010 69

– Sandra Bardotti«Gli Under 40 della narrativa italiana: scrittori giovani, non giovani scrittori»Wuz.it, 16 novembre 2010 70

– Massimiliano Parente«Piccolo catalogo critico dei critici letterari»il Giornale, 6 dicembre 2010 78

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