Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO...

10
Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro in realtà includeva e celava quello, più impegnativo, ad entrare direttamente nel merito del tema prescelto, ho pensato che la sola cosa – e la più onesta - da fare fosse raccogliere alcune mie osservazioni e riflessioni maturate lungo l’arco di quasi mezzo secolo di dimestichezza con la materia e provare a ordinarle secondo il filo logico più rispondente alle intenzioni del committente. Cominciando dal titolo. Perché la prossimità geografica fra Etruschi e Umbri ha per l’appunto i connotati, ab origine, di un vicinato attivo in entrambe le direzioni – non è sempre così anche tra popoli confinanti – ben oltre la sfera del semplice scambio commerciale. È il “padre” della storiografia occidentale, Erodoto, a dircelo con parole che il titolo che ho scelto non fa che parafrasare e integrare, nel celebre passo delle Storie (I, 94) in cui racconta di come i Lidi, in cerca di nuove terre spinti da una prolungata carestia, dopo lunga navigazione approdarono “presso gli Umbri” e vi si stabilirono fondandovi le loro città. Della realtà e antichità di questo incontro le testimonianze archeologiche sono ormai molteplici: ma alcune di queste, pur cronologicamente pertinenti ai tempi che chiamiamo “storici”, sembrano, per loro natura, in grado di risospingerlo indietro, ben oltre la soglia segnata dalla conoscenza e dall’uso della scrittura presso entrambe quelle civiltà. Tra le prime e più significative vi è quella offertaci da una serie di piatti di impasto rosso, prodotti a Cerveteri nel VII sec. a.C., di provenienza tombale, corredati da scritte indicanti il nome del proprietario nonché quello che in etrusco designava il tipo di vaso cui furono apposte: “spanti”, dunque equivalente appunto al nostro “piatto” (fig. 1). Il termine ricorre identico nella Tavola Iguvina IV, 2 (fig. 2), dove designa la superficie piana dell’altare sul quale si compiono le azioni rituali prescritte. A dispetto della seriorità del documento umbro rispetto a quelli etruschi, e pur prescindendo da considerazioni linguistiche, che si tratti di un termine umbro importato in Etruria e non viceversa, è confermato sia dalla ben attestata propensione etrusca ad importare il “bene” – materiale o immateriale: un oggetto, un personaggio del mito, un costume – unitamente al nome che lo designa “alla fonte” (basta pensare alla serie di nomi di vasi pertinenti al simposio che l’Etruria ha attinto al lessico greco, certo “convogliati” dalla importazione dalla Grecia di quel costume), sia dal fatto che il carattere eminentemente religioso (dove le tradizioni sono gelosissime) dell’oggetto del culto che il termine designa non è compatibile con una sua estrazione esotica, profana e “minore”, chiamato com’è a indicare nientemeno che una parte dell’altare (alla cui “mensa” mai potrebbe applicarsi il termine “piatto”, né al “calice” quello di “bicchiere”!). Il fatto dunque sembra accreditare il mondo umbro di un prestigio in materia religiosa che non può essersi limitato all’accoglimento isolato di una parola: e sappiamo bene che quella religiosa non è componente secondaria del profilo culturale etrusco quale lo vedevano e definivano le civiltà contemporanee. Che del resto proprio in questo campo l’Etruria possa fornire riscontri archeologici concreti a prassi rituali condivise con gli Umbri, lo mostra con grande evidenza il caso del noto “altarino” in pietra rinvenuto nel santuario della necropoli orvietana della Cannicella (fig. 3), le cui caratteristiche sia strutturali che formali lo indicano funzionale ad atti rituali che si compivano sia al di sopra che al di sotto di esso, destinati pertanto, presumibilmente, sia a divinità uranie che ctonie: ciò che richiama direttamente – anche per le modeste dimensioni - proprio quell’ereçlo- (“arula, altarino” appunto) menzionato nella medesima Tavola (IV, 17, 19), “sotto” e “sopra” il quale (supu e super rispettivamente) il sacerdote officiante era chiamato a compiere, inginocchiato (kunikaz), operazioni cultuali distinte.

Transcript of Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO...

Page 1: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversaFRANCESCO RONCALLI

Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro in realtà includeva e celava quello, più impegnativo, ad entrare direttamente nel merito del tema prescelto, ho pensato che la sola cosa – e la più onesta - da fare fosse raccogliere alcune mie osservazioni e riflessioni maturate lungo l’arco di quasi mezzo secolo di dimestichezza con la materia e provare a ordinarle secondo il filo logico più rispondente alle intenzioni del committente.Cominciando dal titolo. Perché la prossimità geografica fra Etruschi e Umbri ha per l’appunto i connotati, ab origine, di un vicinato attivo in entrambe le direzioni – non è sempre così anche tra popoli confinanti – ben oltre la sfera del semplice scambio commerciale.È il “padre” della storiografia occidentale, Erodoto, a dircelo con parole che il titolo che ho scelto non fa che parafrasare e integrare, nel celebre passo delle Storie (I, 94) in cui racconta di come i Lidi, in cerca di nuove terre spinti da una prolungata carestia, dopo lunga navigazione approdarono “presso gli Umbri” e vi si stabilirono fondandovi le loro città.Della realtà e antichità di questo incontro le testimonianze archeologiche sono ormai molteplici: ma alcune di queste, pur cronologicamente pertinenti ai tempi che chiamiamo “storici”, sembrano, per loro natura, in grado di risospingerlo indietro, ben oltre la soglia segnata dalla conoscenza e dall’uso della scrittura presso entrambe quelle civiltà.Tra le prime e più significative vi è quella offertaci da una serie di piatti di impasto rosso, prodotti a Cerveteri nel VII sec. a.C., di provenienza tombale, corredati da scritte indicanti il nome del proprietario nonché quello che in etrusco designava il tipo di vaso cui furono apposte: “spanti”, dunque equivalente appunto al nostro “piatto” (fig. 1). Il termine ricorre identico nella Tavola Iguvina IV, 2 (fig. 2), dove designa la superficie piana dell’altare sul quale si compiono le azioni rituali prescritte. A dispetto della seriorità del documento umbro rispetto a quelli etruschi, e pur prescindendo da considerazioni linguistiche, che si tratti di un termine umbro importato in Etruria e non viceversa, è confermato sia dalla ben attestata propensione etrusca ad importare il “bene” – materiale o immateriale: un oggetto, un personaggio del mito, un costume – unitamente al nome che lo designa “alla fonte” (basta pensare alla serie di nomi di vasi pertinenti al simposio che l’Etruria ha attinto al lessico greco, certo “convogliati” dalla importazione dalla Grecia di quel costume), sia dal fatto che il carattere eminentemente religioso (dove le tradizioni sono gelosissime) dell’oggetto del culto che il termine designa non è compatibile con una sua estrazione esotica, profana e “minore”, chiamato com’è a indicare nientemeno che una parte dell’altare (alla cui “mensa” mai potrebbe applicarsi il termine “piatto”, né al “calice” quello di “bicchiere”!). Il fatto dunque sembra accreditare il mondo umbro di un prestigio in materia religiosa che non può essersi limitato all’accoglimento isolato di una parola: e sappiamo bene che quella religiosa non è componente secondaria del profilo culturale etrusco quale lo vedevano e definivano le civiltà contemporanee.Che del resto proprio in questo campo l’Etruria possa fornire riscontri archeologici concreti a prassi rituali condivise con gli Umbri, lo mostra con grande evidenza il caso del noto “altarino” in pietra rinvenuto nel santuario della necropoli orvietana della Cannicella (fig. 3), le cui caratteristiche sia strutturali che formali lo indicano funzionale ad atti rituali che si compivano sia al di sopra che al di sotto di esso, destinati pertanto, presumibilmente, sia a divinità uranie che ctonie: ciò che richiama direttamente – anche per le modeste dimensioni - proprio quell’ereçlo- (“arula, altarino” appunto) menzionato nella medesima Tavola (IV, 17, 19), “sotto” e “sopra” il quale (supu e super rispettivamente) il sacerdote officiante era chiamato a compiere, inginocchiato (kunikaz), operazioni cultuali distinte.

Ma Erodoto, in quel celebre passo, ci dice anche dell’altro: “… e lì costruirono le loro città, che abitano tuttora”. Non avrebbe certo mancato di dire, se del caso, che si era trattato di una conquista o occupazione di città umbre da parte degli Etruschi, visto che comunque era là, “presso gli Umbri”, ch’essi si erano insediati. Ma no: le città, come lui le vede, sono una novità, una creatura dei Tirreni, cioè etrusca. Non dobbiamo chiedere a Erodoto quello che non gli interessa di dire: e cioè che anche gli Umbri conoscevano insediamenti stabili, anche cospicui, entro strutture verosimilmente edificate e comunità organizzate: ai suoi occhi il modus habitandi etrusco è incentrato su di un rapporto stabile e strutturato città-territorio, mentre quello umbro evoca ai suoi occhi un orizzonte culturale pre-urbano, caratterizzato da mobilità agricolo-pastorale e colorato, si direbbe, come vedremo, dall’esotismo dei “popoli dell’interno”. Di una alterità, appunto, che assume i connotati espliciti della superiorità etrusca (esaltata dalla interpretatio greca) e dell’esotismo umbro ci parla un cratere corinzio conservato al Louvre, rinvenuto in una tomba di Cerveteri e databile entro il primo quarto del VI sec. a.C. (figg. 4a-b), su una faccia del quale è rappresentato un episodio di chiaro sapore farsesco che vede un attore con maschera di satiro danzare mentre un altro suona gli aulòi, e due altri ancora, intenti a trasportare (rubare?) un’anfora di vino, sono minacciati da un personaggio anch’esso a suo modo mascherato (da un gigantesco fallo) che li minaccia armato di due bastoni. Ebbene: le dramatis personae sono così denominate dalle scritte che corredano il quadretto: la coppia musico/danzatore “Buontempone” (Eunos), la coppia di ladruncoli “Filantropo” (Ophelandros); e il minaccioso e superdotato guastafeste? “Umbro” (Omriqòs). Dove il conseguito status evidentemente servile è corredato, nel racconto greco-etrusco, di tratti peculiari o mostruosi, quasi associando il nostro (esperto guardiano?) a creature malnote o leggendarie come Pigmei, Sciapodi, Blemmi, Antipodi… Anche sull’altra faccia del vaso ci vengono riproposti l’esotico e il gigantesco. Ma qui il gigante è un personaggio di rango, che giace a terra, forse ferito e fatto prigioniero insieme al suo sodale che, le caviglie chiuse e legate entro pesanti anelli, lo accudisce passandogli il cibo imbandito per lui e recatogli da una donna, in un ambiente che una serie di crateri impilati qualifica come una cantina. E come la funzione del luogo collega il tema a quello della opposta faccia del vaso (che, ricordiamo, è esso stesso un cratere!), così anche quel nobile prigioniero e il suo “attendente” – che dritti in piedi sovrasterebbero dell’intero busto la statura della donna – potrebbero condividere le origini di quel guardiano, o comunque ricondursi ad esse: se è vero che le strane “gabbie” in cui ci appaiono chiuse le teste dei due prigionieri trovano l’unico riscontro archeologico disponibile in quelle, di ferro, che ricoprono – senza tuttavia avvolgerle interamente – la testa di due personaggi, un uomo e una donna, sepolti nella necropoli ternana di S. Pietro in Campo-ex Poligrafico Alterocca, riportati in luce dagli scavi che la Soprintendenza archeologica per l’Umbria vi ha condotto tra il 1996 e il 1999 (fig. 5). Quale che ne fosse la vera natura e funzione (forse soltanto funeraria), è possibile che il ricordo del singolarissimo costume invalso tra gli Umbri Nahartes nel VII sec. a.C. sia pervenuto, deformato e promosso a connotato “etnico”, all’orecchio del ceramografo greco, magari per il tramite del ricco committente ceretano? Ma ascoltiamo altre voci. Anche Dionisio di Alicarnasso, nelle sue Antichità Romane (I, 20, 4), ci parla, pure a distanza di quattro secoli e nel quadro di un racconto diverso, di una sovrapposizione dei Pelasgi (poi Tirreni-Etruschi) sugli Umbri. Dunque anche qui la presenza umbra è vista precedere quella etrusca: ma il quadro incomincia a farsi variegato. Perché qui gli Umbri una loro “grande città” l’avevano: Cortona, prima che i Pelasgi la conquistassero; ma annotiamo il fatto che, pur essendo, i secondi, sospinti da fame di terra, la ricchezza di Cortona è connotata soprattutto da ricchi pascoli (eubòtos chòra), ciò che ben si attaglia al profilo economico e

culturale che conosciamo peculiare delle genti che gravitavano attorno alla dorsale appenninica. Notiamo anche che, “prima della città” la presenza degli Umbri (gens antiquissima Italiae secondo Plinio, anzi “antidiluviani” secondo una pseudo-etimologia greca del loro nome ch’egli annota!) spinge le proprie tracce anche a occidente del Tevere e che, una volta assestatesi le due etnìe – etrusca e umbra - nelle rispettive sedi storiche, si delineano marginali e assidui conflitti (menzionati anch’essi da Plinio, Nat. Hist., III 14-15, e da Strabone, Geografia, V I 10) che, non spostando sostanzialmente il confine consolidato, sanno più di reciproche scorrerie e sconfinamenti che di vere e proprie migrazioni e conquiste. È forse appunto una di queste fortunate imprese quella che un illustre etrusco di Perugia, agli inizi del V sec. a.C., celebra tra le res gestae proprie o, più probabilmente, di un proprio avo, addirittura dettandola a una rinomata bottega di Chiusi come tema da raffigurare sulla fronte del proprio sarcofago, rinvenuto in una tomba della necropoli dello Sperandio, a settentrione della città (fig. 6). Qui la conquista è sintetizzata nell’avanzare di un animato corteo di uomini e animali (montoni e muli carichi delle loro some), preceduto da tre personaggi chiaramente vittime della cattura e simbolo del bene conquistato: essi procedono infatti legati per il collo l’uno all’altro, recano sulle spalle una pecora e il rozzo taglio dei capelli “a ciotola” – in netto contrasto con l’educata acconciatura alla moda ellenica degli altri – li qualifica chiaramente come rustici e, letteralmente, “inurbani”: pastori. Abbiamo qui il ricordo di una incursione etrusca con razzia di bestiame in terra umbra, o della conquista di una delle loro cittadelle “ricche” - come la grande Cortona – “di pascoli”?Che i signori umbri dell’entroterra, del resto, fossero i primi a definire la propria ricchezza in termini di possesso di bestiame e terre da pascolo ce lo dimostra, pochi decenni dopo (l’esibizione de) la fortunata impresa dell’aristocratico perugino, un ricco possidente umbro, inumato nella tomba 12 della necropoli in località Malpasso di Gualdo Tadino, nel cui corredo spicca un cratere attico a figure rosse, databile nel secondo quarto del V sec. a.C.; qui, sulla faccia principale campeggia Argo, l’occhiuto custode di Io, la fanciulla amata da Giove e da lui trasformata in giovenca per sottrarla alla gelosia di Giunone (fig. 7). È certo da ricondurre a una scelta del committente umbro la rara raffigurazione di Argo vivo e minaccioso anziché vittima soccombente all’assalto di Hermes (tema, questo, assai più familiare fra i ceramisti attici e i loro clienti etruschi “cittadini di città”): e come la candida giovenca è efficace marchio di qualità del patrimonio vantato dal signorotto tadinate, così il mitico guardiano onniveggente lo è della sua capacità di difenderlo. L’archeologia, dunque, conferma e arricchisce questo quadro fatto di vicinanza a tratti conflittuale e di una alterità culturale che non esclude condivisioni, contaminazioni, integrazione ed emulazione. Che mandrie e greggi – per loro costume irriguardose di confini politici! – fossero risorse condivise da Etruschi e Umbri nell’intero distretto collinare fra Tevere e Trasimeno lo abbiamo già visto affermato per Cortona “dai ricchi pascoli” e lo mostrano i numerosi ex-voto che vediamo deposti nei santuari della zona (da Monte Acuto di Umbertide al Pasticcetto di Magione). Ebbene: proprio a una bottega di bronzisti di quella Cortona che dedica al culto locale preziosi ex-voto, l’uno raffigurante Culsans, dio bifronte delle porte urbiche (fig. 8), e l’altro Selvans, dio dei confini territoriali (divinità preposte entrambe, dunque, alla stanzialità sia nella sua accezione pubblica che privata), penso sia da attribuire una statuina votiva coeva, rinvenuta dalle parti di Città di Castello, che però ci rinvia a tutt’altro panorama (fig. 9a-b). Essa rappresenta infatti uno strano personaggio dalla testa ritorta, il volto dal lato delle spalle. Lo schema iconografico dell’uomo che avanza con la testa rivolta indietro è già di casa nella Volsinii multietnica del VI sec.

a.C., dove si affianca, nella locale produzione vascolare in bucchero, a quello dell’uomo gradiente armato di lancia: così associando l’immagine del (capo) guerriero a quella del (capo) pastore. Nella creatura raffigurata dal nostro bronzetto, databile al IV sec. a.C., ho proposto di riconoscere l’immagine di una divinità - forse condivisa dal pantheon etrusco e umbro? - protettrice di mandrie e greggi: essa indossa, non a caso, una pelle di lupo, nemico atavico delle medesime, mentre il gesto occasionale di un accorto mandriano – guardarsi attorno e alle spalle - è trasformato in eccezionale attributo congenito del dio. Perugia stessa, del resto, dà più di un segno della prossimità e occasionale sovrapposizione dei due orizzonti culturali e linguistici. Il primo, e più significativo, ho da tempo proposto di riconoscerlo nell’ormai celebre “alfabetario” etrusco, databile attorno alla metà del VI sec. a.C., inciso sotto il piede di una coppa di bucchero relitto del corredo di una tomba sita a occidente della città (Via Pellini) (fig. 10). Qui vediamo un alfabeto etrusco di tipo settentrionale “modificato” alle cui ultime due lettere (φ e χ) una diversa mano ne ha sovrapposte quattro (a b a t) di proporzioni maggiori. L’intenzione di obliterare le une aggiungendo le altre è resa evidente dallo spazio che il secondo scriba avrebbe avuto a disposizione, se fosse stato interessato soltanto all’aggiunta. Senza tornare qui su argomentazioni già da me esposte a suo tempo, mi limito a riconoscere nel possessore del vasetto - e suggeritore della modifica - un perugino di origine umbra, forsebilingue ma certamente di attitudini fonatorie “umbrofone”, cui erano estranee le lettere obliterate, mentre quelle aggiunte lo erano all’alfabeto etrusco pre-confezionato sulla sua coppa, “modificato” appunto in tal senso rispetto all’antico modello greco euboico.Di circa due secoli più tarda è la coppia di schinieri in bronzo rinvenuti in una ricca tomba della necropoli perugina del Frontone, sui quali è ripetuta la dicitura tvtas, che inequivocabilmente ne fa l’oggetto di una assegnazione “pubblica” (fig. 11). La schietta origine italica del termine ha portato gli studiosi a privilegiare l’interpretazione della loro presenza nella tomba come parte di un bottino di guerra umbro, caduto in mano dell’etrusco ivi sepolto. In tal caso il documento andrebbe ad arricchire il dossier dei conflitti umbro-etruschi cui abbiamo fatto cenno. Ma il contesto archeologico indica, proprio in quegli anni, Perugia come il centro di produzione di splendide panoplie - non certo attribuibili a fabbrica umbra - simili a quella esibita in questa tomba, alla quale si aggiunge la testimonianza di una seconda coppia di schinieri (purtroppo perduti) marcati dallo stesso termine e rinvenuti nella tomba dei Volumni: ciò che mi induce a suggerire (lectio certo difficilior!) che il termine di origine umbra possa essere stato precocemente acquisito, a Perugia, dal lessico istituzionale etrusco e qui sia passato, con uno slittamento semantico non incomprensibile, ad indicare non più il corpo civico in quanto tale (in etrusco spur-), ma la comunità degli armati, l’esercito. Il che trasferirebbe la testimonianza resa da questi schinieri al livello di cui stiamo appunto discorrendo.È da inserire in questo stesso contesto, a mio avviso, anche un connotato che appare peculiare della onomastica personale etrusca quale ci è rivelata da iscrizioni di piena età ellenistica in un’area che si estende per l’appunto tra Chiusi e Perugia. Qui ricorrono infatti gentilizi formati sull’etnonimo umre (umrana, umrina ecc.), di oriundi umbri dunque, di prima o seconda generazione. Ma ho proposto anche di riconoscervi nomi etruschi autonomamente formati, secondo un costume attestato nel mondo italico (Quintus, Sextus, Septimius, Octavius…) che pareva finora latitante in quello etrusco, sulla base di numerali etruschi ben riconoscibili: semφ-, cezp-, nurφ-, (“sette”, “otto”, “nove”, da cui Caspre, Sepre, Nufre). Ciò che confermerebbe il panorama nel quale ci troviamo immersi, dove gli scambi e le reciproche interferenze si mescolano e fioriscono su un solido fondo di almeno parziali (e cioè localmente circoscritte) affinità culturali. La lezione forse più durevole impartita dal mondo etrusco agli Umbri è stato l’alfabeto stesso.

L’Etruria esibisce una consuetudine e dimestichezza con l’uso della scrittura, tipica di una società precocemente urbanizzata, che ne determina una evoluzione continua che il mondo umbro non richiede e dunque non sviluppa in modo autonomo. E se il riconoscimento di una iscrizione redatta in un alfabeto definito “proto-umbro” su di un cratere a colonnette in bucchero databile tra il VII e il VI sec. a. C. e rinvenuto nella necropoli del Ferrone di Tolfa, ci mostra che anche gli Umbri, come altre comunità linguistiche dell’Italia antica - tra cui i Latini, i Sabini, i Falisci - si dettero prontamente un alfabeto (forse più come segno di autoidentificazione “nazionale” che come strumento pratico di comunicazione), è un fatto che nelle rarefatte occasioni di ricorso alla scrittura, per lo più di carattere religioso e pubblico, offerte alle comunità umbre dal loro proprio modus vivendi, viene preso a modello e strumento l’alfabeto presentato pro tempore dal centro etrusco più vicino e influente: così per quello impiegato nella versione più antica del maggior testo umbro, le Tavole Iguvine, è stato suggerito un modello elaborato fra Chiusi, Cortona e Perugia, mentre l’estensore delle dediche a Cupra da Colfiorito sembra piuttosto aver guardato in direzione di Volsinii. Proprio intorno a Perugia continuerà a gravitare, forse favorito anche dalla vocazione multiculturale della città, un polo di tradizioni scrittorie cui dobbiamo un costume - anche “editoriale” - capace di attraversare il confine e dettare la stesura di grandi testi di rilevanza pubblica, come quelli rituali contenuti nel Liber linteus di Zagabria (fig. 12) e nelle prime Tavole Iguvine (fig. 2), o quelli pubblicati nella Tabula Cortonensis (fig. 13) o nello stesso Cippo Perugino.Certo è, che le grandi città etrusche prossime al confine esercitarono presto una grande attrazione sulle genti umbre d’Oltre Tevere: non solo come luoghi di produzione esse stesse e punti di rilancio di beni suntuari di produzione più remota che le necropoli umbre mostrano da tempo apprezzati ed esibiti, ma come modelli di coesistenza strutturata capaci di interlocuzioni di più vasto respiro: e la migrazione verso di essi sembra avere anticipato di almeno due secoli la piena urbanizzazione dei loro propri antichi insediamenti. Ne fanno fede, a Volsinii, i Fulvi, i Flavi, i Blaesi il cui nome etruschizzato in gentilizio li mostra già dal VI sec. a.C. integrati al ceto dominante della città, mentre il fanum Voltumnae, il grande santuario federale etrusco, richiamava là annualmente - certo non da solo - “per antica consuetudine” un rappresentante ufficiale (sacerdos) delle comunità umbre. Concluderò con un passo indietro nel tempo. Nell’anonimo guerriero cui venne eretta, agli inizi del VI sec. a. C., la stele rinvenuta a Montegualandro, a nord-ovest di Tuoro sul Trasimeno (fig. 14), è stato riconosciuto un “uomo d’arme” di quelli che, tra VII e VI secolo appunto, troviamo attivi tra quel mondo italico da cui molti di loro provengono e le città etrusche maggiori. La stele tace sulla sua identità, mentre complessi epitaffi corredano le stele erette in onore di quei suoi predecessori e colleghi sepolti nelle città cui erano emigrati. Primo tra questi è l’Auvele Feluskes, di origini falische, raffigurato sulla nota stele di Vetulonia e là attivo nella seconda metà del VII sec. a. C. Colpisce qui, nella “muta” Vetulonia, la ricchezza della formula onomastica, completa di patronimico e metronimico, chiamata a designarlo, e ancor più il formulario adottato (che ricorre significativamente in altre stele simili) in cui l’indicazione di pertinenza - solitamente sufficiente in epigrafi funerarie - è nettamente distinta dalla vera e propria dedica del monumento, qui mutuata dal frasario votivo o del dono (mini muluvaneke). Ciò suona, già di per sé, conferma di un rapporto tra dedicante e dedicatario che prevale sulla consanguineità e la esclude. Si è pensato a sodalità tra compagni d’arme: ipotesi in sé plausibile (e tornano alla mente i due illustri personaggi - “prigionieri” ma accuditi con palese rispetto, e l’uno subordinato all’altro - raffigurati sul cratere ceretano che abbiamo ricordato all’inizio (fig. 4), ai quali forse si prospettava un analogo destino di servitù e di

gloria?); ma non mi sembra da escludere, con parziale ribaltamento del ruolo solitamente ipotizzato fra i due, che il dedicante, Hirumina, fosse l’indigeno d’alto rango (nelle) cui (file) Auvele aveva offerto i propri servigi: ciò che conferirebbe al suo gesto proprio il sapore che la formula adottata adombra (scioglimento d’un voto), e alla esauriente e articolata presentazione del “capitano di ventura” quasi il sapore di un curriculum vitae a beneficio di quanti l’avevano visto all’opera, ma cui era estraneo. Ciò che al dedicatario della stele di Montegualandro non serviva: era probabilmente il suo luogo di nascita il piccolo borgo sul confine tra Perugia e Cortona cui aveva fatto ritorno in vita e in cui fu sepolto.Resta dunque chiara la testimonianza di una ulteriore e antica forma di mobilità che coinvolse certo anche il mondo umbro ed ebbe a protagonisti capi guerrieri italici in cerca di fortuna nelle città etrusche.

Page 2: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversaFRANCESCO RONCALLI

Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro in realtà includeva e celava quello, più impegnativo, ad entrare direttamente nel merito del tema prescelto, ho pensato che la sola cosa – e la più onesta - da fare fosse raccogliere alcune mie osservazioni e riflessioni maturate lungo l’arco di quasi mezzo secolo di dimestichezza con la materia e provare a ordinarle secondo il filo logico più rispondente alle intenzioni del committente.Cominciando dal titolo. Perché la prossimità geografica fra Etruschi e Umbri ha per l’appunto i connotati, ab origine, di un vicinato attivo in entrambe le direzioni – non è sempre così anche tra popoli confinanti – ben oltre la sfera del semplice scambio commerciale.È il “padre” della storiografia occidentale, Erodoto, a dircelo con parole che il titolo che ho scelto non fa che parafrasare e integrare, nel celebre passo delle Storie (I, 94) in cui racconta di come i Lidi, in cerca di nuove terre spinti da una prolungata carestia, dopo lunga navigazione approdarono “presso gli Umbri” e vi si stabilirono fondandovi le loro città.Della realtà e antichità di questo incontro le testimonianze archeologiche sono ormai molteplici: ma alcune di queste, pur cronologicamente pertinenti ai tempi che chiamiamo “storici”, sembrano, per loro natura, in grado di risospingerlo indietro, ben oltre la soglia segnata dalla conoscenza e dall’uso della scrittura presso entrambe quelle civiltà.Tra le prime e più significative vi è quella offertaci da una serie di piatti di impasto rosso, prodotti a Cerveteri nel VII sec. a.C., di provenienza tombale, corredati da scritte indicanti il nome del proprietario nonché quello che in etrusco designava il tipo di vaso cui furono apposte: “spanti”, dunque equivalente appunto al nostro “piatto” (fig. 1). Il termine ricorre identico nella Tavola Iguvina IV, 2 (fig. 2), dove designa la superficie piana dell’altare sul quale si compiono le azioni rituali prescritte. A dispetto della seriorità del documento umbro rispetto a quelli etruschi, e pur prescindendo da considerazioni linguistiche, che si tratti di un termine umbro importato in Etruria e non viceversa, è confermato sia dalla ben attestata propensione etrusca ad importare il “bene” – materiale o immateriale: un oggetto, un personaggio del mito, un costume – unitamente al nome che lo designa “alla fonte” (basta pensare alla serie di nomi di vasi pertinenti al simposio che l’Etruria ha attinto al lessico greco, certo “convogliati” dalla importazione dalla Grecia di quel costume), sia dal fatto che il carattere eminentemente religioso (dove le tradizioni sono gelosissime) dell’oggetto del culto che il termine designa non è compatibile con una sua estrazione esotica, profana e “minore”, chiamato com’è a indicare nientemeno che una parte dell’altare (alla cui “mensa” mai potrebbe applicarsi il termine “piatto”, né al “calice” quello di “bicchiere”!). Il fatto dunque sembra accreditare il mondo umbro di un prestigio in materia religiosa che non può essersi limitato all’accoglimento isolato di una parola: e sappiamo bene che quella religiosa non è componente secondaria del profilo culturale etrusco quale lo vedevano e definivano le civiltà contemporanee.Che del resto proprio in questo campo l’Etruria possa fornire riscontri archeologici concreti a prassi rituali condivise con gli Umbri, lo mostra con grande evidenza il caso del noto “altarino” in pietra rinvenuto nel santuario della necropoli orvietana della Cannicella (fig. 3), le cui caratteristiche sia strutturali che formali lo indicano funzionale ad atti rituali che si compivano sia al di sopra che al di sotto di esso, destinati pertanto, presumibilmente, sia a divinità uranie che ctonie: ciò che richiama direttamente – anche per le modeste dimensioni - proprio quell’ereçlo- (“arula, altarino” appunto) menzionato nella medesima Tavola (IV, 17, 19), “sotto” e “sopra” il quale (supu e super rispettivamente) il sacerdote officiante era chiamato a compiere, inginocchiato (kunikaz), operazioni cultuali distinte.

Ma Erodoto, in quel celebre passo, ci dice anche dell’altro: “… e lì costruirono le loro città, che abitano tuttora”. Non avrebbe certo mancato di dire, se del caso, che si era trattato di una conquista o occupazione di città umbre da parte degli Etruschi, visto che comunque era là, “presso gli Umbri”, ch’essi si erano insediati. Ma no: le città, come lui le vede, sono una novità, una creatura dei Tirreni, cioè etrusca. Non dobbiamo chiedere a Erodoto quello che non gli interessa di dire: e cioè che anche gli Umbri conoscevano insediamenti stabili, anche cospicui, entro strutture verosimilmente edificate e comunità organizzate: ai suoi occhi il modus habitandi etrusco è incentrato su di un rapporto stabile e strutturato città-territorio, mentre quello umbro evoca ai suoi occhi un orizzonte culturale pre-urbano, caratterizzato da mobilità agricolo-pastorale e colorato, si direbbe, come vedremo, dall’esotismo dei “popoli dell’interno”. Di una alterità, appunto, che assume i connotati espliciti della superiorità etrusca (esaltata dalla interpretatio greca) e dell’esotismo umbro ci parla un cratere corinzio conservato al Louvre, rinvenuto in una tomba di Cerveteri e databile entro il primo quarto del VI sec. a.C. (figg. 4a-b), su una faccia del quale è rappresentato un episodio di chiaro sapore farsesco che vede un attore con maschera di satiro danzare mentre un altro suona gli aulòi, e due altri ancora, intenti a trasportare (rubare?) un’anfora di vino, sono minacciati da un personaggio anch’esso a suo modo mascherato (da un gigantesco fallo) che li minaccia armato di due bastoni. Ebbene: le dramatis personae sono così denominate dalle scritte che corredano il quadretto: la coppia musico/danzatore “Buontempone” (Eunos), la coppia di ladruncoli “Filantropo” (Ophelandros); e il minaccioso e superdotato guastafeste? “Umbro” (Omriqòs). Dove il conseguito status evidentemente servile è corredato, nel racconto greco-etrusco, di tratti peculiari o mostruosi, quasi associando il nostro (esperto guardiano?) a creature malnote o leggendarie come Pigmei, Sciapodi, Blemmi, Antipodi… Anche sull’altra faccia del vaso ci vengono riproposti l’esotico e il gigantesco. Ma qui il gigante è un personaggio di rango, che giace a terra, forse ferito e fatto prigioniero insieme al suo sodale che, le caviglie chiuse e legate entro pesanti anelli, lo accudisce passandogli il cibo imbandito per lui e recatogli da una donna, in un ambiente che una serie di crateri impilati qualifica come una cantina. E come la funzione del luogo collega il tema a quello della opposta faccia del vaso (che, ricordiamo, è esso stesso un cratere!), così anche quel nobile prigioniero e il suo “attendente” – che dritti in piedi sovrasterebbero dell’intero busto la statura della donna – potrebbero condividere le origini di quel guardiano, o comunque ricondursi ad esse: se è vero che le strane “gabbie” in cui ci appaiono chiuse le teste dei due prigionieri trovano l’unico riscontro archeologico disponibile in quelle, di ferro, che ricoprono – senza tuttavia avvolgerle interamente – la testa di due personaggi, un uomo e una donna, sepolti nella necropoli ternana di S. Pietro in Campo-ex Poligrafico Alterocca, riportati in luce dagli scavi che la Soprintendenza archeologica per l’Umbria vi ha condotto tra il 1996 e il 1999 (fig. 5). Quale che ne fosse la vera natura e funzione (forse soltanto funeraria), è possibile che il ricordo del singolarissimo costume invalso tra gli Umbri Nahartes nel VII sec. a.C. sia pervenuto, deformato e promosso a connotato “etnico”, all’orecchio del ceramografo greco, magari per il tramite del ricco committente ceretano? Ma ascoltiamo altre voci. Anche Dionisio di Alicarnasso, nelle sue Antichità Romane (I, 20, 4), ci parla, pure a distanza di quattro secoli e nel quadro di un racconto diverso, di una sovrapposizione dei Pelasgi (poi Tirreni-Etruschi) sugli Umbri. Dunque anche qui la presenza umbra è vista precedere quella etrusca: ma il quadro incomincia a farsi variegato. Perché qui gli Umbri una loro “grande città” l’avevano: Cortona, prima che i Pelasgi la conquistassero; ma annotiamo il fatto che, pur essendo, i secondi, sospinti da fame di terra, la ricchezza di Cortona è connotata soprattutto da ricchi pascoli (eubòtos chòra), ciò che ben si attaglia al profilo economico e

culturale che conosciamo peculiare delle genti che gravitavano attorno alla dorsale appenninica. Notiamo anche che, “prima della città” la presenza degli Umbri (gens antiquissima Italiae secondo Plinio, anzi “antidiluviani” secondo una pseudo-etimologia greca del loro nome ch’egli annota!) spinge le proprie tracce anche a occidente del Tevere e che, una volta assestatesi le due etnìe – etrusca e umbra - nelle rispettive sedi storiche, si delineano marginali e assidui conflitti (menzionati anch’essi da Plinio, Nat. Hist., III 14-15, e da Strabone, Geografia, V I 10) che, non spostando sostanzialmente il confine consolidato, sanno più di reciproche scorrerie e sconfinamenti che di vere e proprie migrazioni e conquiste. È forse appunto una di queste fortunate imprese quella che un illustre etrusco di Perugia, agli inizi del V sec. a.C., celebra tra le res gestae proprie o, più probabilmente, di un proprio avo, addirittura dettandola a una rinomata bottega di Chiusi come tema da raffigurare sulla fronte del proprio sarcofago, rinvenuto in una tomba della necropoli dello Sperandio, a settentrione della città (fig. 6). Qui la conquista è sintetizzata nell’avanzare di un animato corteo di uomini e animali (montoni e muli carichi delle loro some), preceduto da tre personaggi chiaramente vittime della cattura e simbolo del bene conquistato: essi procedono infatti legati per il collo l’uno all’altro, recano sulle spalle una pecora e il rozzo taglio dei capelli “a ciotola” – in netto contrasto con l’educata acconciatura alla moda ellenica degli altri – li qualifica chiaramente come rustici e, letteralmente, “inurbani”: pastori. Abbiamo qui il ricordo di una incursione etrusca con razzia di bestiame in terra umbra, o della conquista di una delle loro cittadelle “ricche” - come la grande Cortona – “di pascoli”?Che i signori umbri dell’entroterra, del resto, fossero i primi a definire la propria ricchezza in termini di possesso di bestiame e terre da pascolo ce lo dimostra, pochi decenni dopo (l’esibizione de) la fortunata impresa dell’aristocratico perugino, un ricco possidente umbro, inumato nella tomba 12 della necropoli in località Malpasso di Gualdo Tadino, nel cui corredo spicca un cratere attico a figure rosse, databile nel secondo quarto del V sec. a.C.; qui, sulla faccia principale campeggia Argo, l’occhiuto custode di Io, la fanciulla amata da Giove e da lui trasformata in giovenca per sottrarla alla gelosia di Giunone (fig. 7). È certo da ricondurre a una scelta del committente umbro la rara raffigurazione di Argo vivo e minaccioso anziché vittima soccombente all’assalto di Hermes (tema, questo, assai più familiare fra i ceramisti attici e i loro clienti etruschi “cittadini di città”): e come la candida giovenca è efficace marchio di qualità del patrimonio vantato dal signorotto tadinate, così il mitico guardiano onniveggente lo è della sua capacità di difenderlo. L’archeologia, dunque, conferma e arricchisce questo quadro fatto di vicinanza a tratti conflittuale e di una alterità culturale che non esclude condivisioni, contaminazioni, integrazione ed emulazione. Che mandrie e greggi – per loro costume irriguardose di confini politici! – fossero risorse condivise da Etruschi e Umbri nell’intero distretto collinare fra Tevere e Trasimeno lo abbiamo già visto affermato per Cortona “dai ricchi pascoli” e lo mostrano i numerosi ex-voto che vediamo deposti nei santuari della zona (da Monte Acuto di Umbertide al Pasticcetto di Magione). Ebbene: proprio a una bottega di bronzisti di quella Cortona che dedica al culto locale preziosi ex-voto, l’uno raffigurante Culsans, dio bifronte delle porte urbiche (fig. 8), e l’altro Selvans, dio dei confini territoriali (divinità preposte entrambe, dunque, alla stanzialità sia nella sua accezione pubblica che privata), penso sia da attribuire una statuina votiva coeva, rinvenuta dalle parti di Città di Castello, che però ci rinvia a tutt’altro panorama (fig. 9a-b). Essa rappresenta infatti uno strano personaggio dalla testa ritorta, il volto dal lato delle spalle. Lo schema iconografico dell’uomo che avanza con la testa rivolta indietro è già di casa nella Volsinii multietnica del VI sec.

a.C., dove si affianca, nella locale produzione vascolare in bucchero, a quello dell’uomo gradiente armato di lancia: così associando l’immagine del (capo) guerriero a quella del (capo) pastore. Nella creatura raffigurata dal nostro bronzetto, databile al IV sec. a.C., ho proposto di riconoscere l’immagine di una divinità - forse condivisa dal pantheon etrusco e umbro? - protettrice di mandrie e greggi: essa indossa, non a caso, una pelle di lupo, nemico atavico delle medesime, mentre il gesto occasionale di un accorto mandriano – guardarsi attorno e alle spalle - è trasformato in eccezionale attributo congenito del dio. Perugia stessa, del resto, dà più di un segno della prossimità e occasionale sovrapposizione dei due orizzonti culturali e linguistici. Il primo, e più significativo, ho da tempo proposto di riconoscerlo nell’ormai celebre “alfabetario” etrusco, databile attorno alla metà del VI sec. a.C., inciso sotto il piede di una coppa di bucchero relitto del corredo di una tomba sita a occidente della città (Via Pellini) (fig. 10). Qui vediamo un alfabeto etrusco di tipo settentrionale “modificato” alle cui ultime due lettere (φ e χ) una diversa mano ne ha sovrapposte quattro (a b a t) di proporzioni maggiori. L’intenzione di obliterare le une aggiungendo le altre è resa evidente dallo spazio che il secondo scriba avrebbe avuto a disposizione, se fosse stato interessato soltanto all’aggiunta. Senza tornare qui su argomentazioni già da me esposte a suo tempo, mi limito a riconoscere nel possessore del vasetto - e suggeritore della modifica - un perugino di origine umbra, forsebilingue ma certamente di attitudini fonatorie “umbrofone”, cui erano estranee le lettere obliterate, mentre quelle aggiunte lo erano all’alfabeto etrusco pre-confezionato sulla sua coppa, “modificato” appunto in tal senso rispetto all’antico modello greco euboico.Di circa due secoli più tarda è la coppia di schinieri in bronzo rinvenuti in una ricca tomba della necropoli perugina del Frontone, sui quali è ripetuta la dicitura tvtas, che inequivocabilmente ne fa l’oggetto di una assegnazione “pubblica” (fig. 11). La schietta origine italica del termine ha portato gli studiosi a privilegiare l’interpretazione della loro presenza nella tomba come parte di un bottino di guerra umbro, caduto in mano dell’etrusco ivi sepolto. In tal caso il documento andrebbe ad arricchire il dossier dei conflitti umbro-etruschi cui abbiamo fatto cenno. Ma il contesto archeologico indica, proprio in quegli anni, Perugia come il centro di produzione di splendide panoplie - non certo attribuibili a fabbrica umbra - simili a quella esibita in questa tomba, alla quale si aggiunge la testimonianza di una seconda coppia di schinieri (purtroppo perduti) marcati dallo stesso termine e rinvenuti nella tomba dei Volumni: ciò che mi induce a suggerire (lectio certo difficilior!) che il termine di origine umbra possa essere stato precocemente acquisito, a Perugia, dal lessico istituzionale etrusco e qui sia passato, con uno slittamento semantico non incomprensibile, ad indicare non più il corpo civico in quanto tale (in etrusco spur-), ma la comunità degli armati, l’esercito. Il che trasferirebbe la testimonianza resa da questi schinieri al livello di cui stiamo appunto discorrendo.È da inserire in questo stesso contesto, a mio avviso, anche un connotato che appare peculiare della onomastica personale etrusca quale ci è rivelata da iscrizioni di piena età ellenistica in un’area che si estende per l’appunto tra Chiusi e Perugia. Qui ricorrono infatti gentilizi formati sull’etnonimo umre (umrana, umrina ecc.), di oriundi umbri dunque, di prima o seconda generazione. Ma ho proposto anche di riconoscervi nomi etruschi autonomamente formati, secondo un costume attestato nel mondo italico (Quintus, Sextus, Septimius, Octavius…) che pareva finora latitante in quello etrusco, sulla base di numerali etruschi ben riconoscibili: semφ-, cezp-, nurφ-, (“sette”, “otto”, “nove”, da cui Caspre, Sepre, Nufre). Ciò che confermerebbe il panorama nel quale ci troviamo immersi, dove gli scambi e le reciproche interferenze si mescolano e fioriscono su un solido fondo di almeno parziali (e cioè localmente circoscritte) affinità culturali. La lezione forse più durevole impartita dal mondo etrusco agli Umbri è stato l’alfabeto stesso.

L’Etruria esibisce una consuetudine e dimestichezza con l’uso della scrittura, tipica di una società precocemente urbanizzata, che ne determina una evoluzione continua che il mondo umbro non richiede e dunque non sviluppa in modo autonomo. E se il riconoscimento di una iscrizione redatta in un alfabeto definito “proto-umbro” su di un cratere a colonnette in bucchero databile tra il VII e il VI sec. a. C. e rinvenuto nella necropoli del Ferrone di Tolfa, ci mostra che anche gli Umbri, come altre comunità linguistiche dell’Italia antica - tra cui i Latini, i Sabini, i Falisci - si dettero prontamente un alfabeto (forse più come segno di autoidentificazione “nazionale” che come strumento pratico di comunicazione), è un fatto che nelle rarefatte occasioni di ricorso alla scrittura, per lo più di carattere religioso e pubblico, offerte alle comunità umbre dal loro proprio modus vivendi, viene preso a modello e strumento l’alfabeto presentato pro tempore dal centro etrusco più vicino e influente: così per quello impiegato nella versione più antica del maggior testo umbro, le Tavole Iguvine, è stato suggerito un modello elaborato fra Chiusi, Cortona e Perugia, mentre l’estensore delle dediche a Cupra da Colfiorito sembra piuttosto aver guardato in direzione di Volsinii. Proprio intorno a Perugia continuerà a gravitare, forse favorito anche dalla vocazione multiculturale della città, un polo di tradizioni scrittorie cui dobbiamo un costume - anche “editoriale” - capace di attraversare il confine e dettare la stesura di grandi testi di rilevanza pubblica, come quelli rituali contenuti nel Liber linteus di Zagabria (fig. 12) e nelle prime Tavole Iguvine (fig. 2), o quelli pubblicati nella Tabula Cortonensis (fig. 13) o nello stesso Cippo Perugino.Certo è, che le grandi città etrusche prossime al confine esercitarono presto una grande attrazione sulle genti umbre d’Oltre Tevere: non solo come luoghi di produzione esse stesse e punti di rilancio di beni suntuari di produzione più remota che le necropoli umbre mostrano da tempo apprezzati ed esibiti, ma come modelli di coesistenza strutturata capaci di interlocuzioni di più vasto respiro: e la migrazione verso di essi sembra avere anticipato di almeno due secoli la piena urbanizzazione dei loro propri antichi insediamenti. Ne fanno fede, a Volsinii, i Fulvi, i Flavi, i Blaesi il cui nome etruschizzato in gentilizio li mostra già dal VI sec. a.C. integrati al ceto dominante della città, mentre il fanum Voltumnae, il grande santuario federale etrusco, richiamava là annualmente - certo non da solo - “per antica consuetudine” un rappresentante ufficiale (sacerdos) delle comunità umbre. Concluderò con un passo indietro nel tempo. Nell’anonimo guerriero cui venne eretta, agli inizi del VI sec. a. C., la stele rinvenuta a Montegualandro, a nord-ovest di Tuoro sul Trasimeno (fig. 14), è stato riconosciuto un “uomo d’arme” di quelli che, tra VII e VI secolo appunto, troviamo attivi tra quel mondo italico da cui molti di loro provengono e le città etrusche maggiori. La stele tace sulla sua identità, mentre complessi epitaffi corredano le stele erette in onore di quei suoi predecessori e colleghi sepolti nelle città cui erano emigrati. Primo tra questi è l’Auvele Feluskes, di origini falische, raffigurato sulla nota stele di Vetulonia e là attivo nella seconda metà del VII sec. a. C. Colpisce qui, nella “muta” Vetulonia, la ricchezza della formula onomastica, completa di patronimico e metronimico, chiamata a designarlo, e ancor più il formulario adottato (che ricorre significativamente in altre stele simili) in cui l’indicazione di pertinenza - solitamente sufficiente in epigrafi funerarie - è nettamente distinta dalla vera e propria dedica del monumento, qui mutuata dal frasario votivo o del dono (mini muluvaneke). Ciò suona, già di per sé, conferma di un rapporto tra dedicante e dedicatario che prevale sulla consanguineità e la esclude. Si è pensato a sodalità tra compagni d’arme: ipotesi in sé plausibile (e tornano alla mente i due illustri personaggi - “prigionieri” ma accuditi con palese rispetto, e l’uno subordinato all’altro - raffigurati sul cratere ceretano che abbiamo ricordato all’inizio (fig. 4), ai quali forse si prospettava un analogo destino di servitù e di

gloria?); ma non mi sembra da escludere, con parziale ribaltamento del ruolo solitamente ipotizzato fra i due, che il dedicante, Hirumina, fosse l’indigeno d’alto rango (nelle) cui (file) Auvele aveva offerto i propri servigi: ciò che conferirebbe al suo gesto proprio il sapore che la formula adottata adombra (scioglimento d’un voto), e alla esauriente e articolata presentazione del “capitano di ventura” quasi il sapore di un curriculum vitae a beneficio di quanti l’avevano visto all’opera, ma cui era estraneo. Ciò che al dedicatario della stele di Montegualandro non serviva: era probabilmente il suo luogo di nascita il piccolo borgo sul confine tra Perugia e Cortona cui aveva fatto ritorno in vita e in cui fu sepolto.Resta dunque chiara la testimonianza di una ulteriore e antica forma di mobilità che coinvolse certo anche il mondo umbro ed ebbe a protagonisti capi guerrieri italici in cerca di fortuna nelle città etrusche.

Page 3: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversaFRANCESCO RONCALLI

Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro in realtà includeva e celava quello, più impegnativo, ad entrare direttamente nel merito del tema prescelto, ho pensato che la sola cosa – e la più onesta - da fare fosse raccogliere alcune mie osservazioni e riflessioni maturate lungo l’arco di quasi mezzo secolo di dimestichezza con la materia e provare a ordinarle secondo il filo logico più rispondente alle intenzioni del committente.Cominciando dal titolo. Perché la prossimità geografica fra Etruschi e Umbri ha per l’appunto i connotati, ab origine, di un vicinato attivo in entrambe le direzioni – non è sempre così anche tra popoli confinanti – ben oltre la sfera del semplice scambio commerciale.È il “padre” della storiografia occidentale, Erodoto, a dircelo con parole che il titolo che ho scelto non fa che parafrasare e integrare, nel celebre passo delle Storie (I, 94) in cui racconta di come i Lidi, in cerca di nuove terre spinti da una prolungata carestia, dopo lunga navigazione approdarono “presso gli Umbri” e vi si stabilirono fondandovi le loro città.Della realtà e antichità di questo incontro le testimonianze archeologiche sono ormai molteplici: ma alcune di queste, pur cronologicamente pertinenti ai tempi che chiamiamo “storici”, sembrano, per loro natura, in grado di risospingerlo indietro, ben oltre la soglia segnata dalla conoscenza e dall’uso della scrittura presso entrambe quelle civiltà.Tra le prime e più significative vi è quella offertaci da una serie di piatti di impasto rosso, prodotti a Cerveteri nel VII sec. a.C., di provenienza tombale, corredati da scritte indicanti il nome del proprietario nonché quello che in etrusco designava il tipo di vaso cui furono apposte: “spanti”, dunque equivalente appunto al nostro “piatto” (fig. 1). Il termine ricorre identico nella Tavola Iguvina IV, 2 (fig. 2), dove designa la superficie piana dell’altare sul quale si compiono le azioni rituali prescritte. A dispetto della seriorità del documento umbro rispetto a quelli etruschi, e pur prescindendo da considerazioni linguistiche, che si tratti di un termine umbro importato in Etruria e non viceversa, è confermato sia dalla ben attestata propensione etrusca ad importare il “bene” – materiale o immateriale: un oggetto, un personaggio del mito, un costume – unitamente al nome che lo designa “alla fonte” (basta pensare alla serie di nomi di vasi pertinenti al simposio che l’Etruria ha attinto al lessico greco, certo “convogliati” dalla importazione dalla Grecia di quel costume), sia dal fatto che il carattere eminentemente religioso (dove le tradizioni sono gelosissime) dell’oggetto del culto che il termine designa non è compatibile con una sua estrazione esotica, profana e “minore”, chiamato com’è a indicare nientemeno che una parte dell’altare (alla cui “mensa” mai potrebbe applicarsi il termine “piatto”, né al “calice” quello di “bicchiere”!). Il fatto dunque sembra accreditare il mondo umbro di un prestigio in materia religiosa che non può essersi limitato all’accoglimento isolato di una parola: e sappiamo bene che quella religiosa non è componente secondaria del profilo culturale etrusco quale lo vedevano e definivano le civiltà contemporanee.Che del resto proprio in questo campo l’Etruria possa fornire riscontri archeologici concreti a prassi rituali condivise con gli Umbri, lo mostra con grande evidenza il caso del noto “altarino” in pietra rinvenuto nel santuario della necropoli orvietana della Cannicella (fig. 3), le cui caratteristiche sia strutturali che formali lo indicano funzionale ad atti rituali che si compivano sia al di sopra che al di sotto di esso, destinati pertanto, presumibilmente, sia a divinità uranie che ctonie: ciò che richiama direttamente – anche per le modeste dimensioni - proprio quell’ereçlo- (“arula, altarino” appunto) menzionato nella medesima Tavola (IV, 17, 19), “sotto” e “sopra” il quale (supu e super rispettivamente) il sacerdote officiante era chiamato a compiere, inginocchiato (kunikaz), operazioni cultuali distinte.

Ma Erodoto, in quel celebre passo, ci dice anche dell’altro: “… e lì costruirono le loro città, che abitano tuttora”. Non avrebbe certo mancato di dire, se del caso, che si era trattato di una conquista o occupazione di città umbre da parte degli Etruschi, visto che comunque era là, “presso gli Umbri”, ch’essi si erano insediati. Ma no: le città, come lui le vede, sono una novità, una creatura dei Tirreni, cioè etrusca. Non dobbiamo chiedere a Erodoto quello che non gli interessa di dire: e cioè che anche gli Umbri conoscevano insediamenti stabili, anche cospicui, entro strutture verosimilmente edificate e comunità organizzate: ai suoi occhi il modus habitandi etrusco è incentrato su di un rapporto stabile e strutturato città-territorio, mentre quello umbro evoca ai suoi occhi un orizzonte culturale pre-urbano, caratterizzato da mobilità agricolo-pastorale e colorato, si direbbe, come vedremo, dall’esotismo dei “popoli dell’interno”. Di una alterità, appunto, che assume i connotati espliciti della superiorità etrusca (esaltata dalla interpretatio greca) e dell’esotismo umbro ci parla un cratere corinzio conservato al Louvre, rinvenuto in una tomba di Cerveteri e databile entro il primo quarto del VI sec. a.C. (figg. 4a-b), su una faccia del quale è rappresentato un episodio di chiaro sapore farsesco che vede un attore con maschera di satiro danzare mentre un altro suona gli aulòi, e due altri ancora, intenti a trasportare (rubare?) un’anfora di vino, sono minacciati da un personaggio anch’esso a suo modo mascherato (da un gigantesco fallo) che li minaccia armato di due bastoni. Ebbene: le dramatis personae sono così denominate dalle scritte che corredano il quadretto: la coppia musico/danzatore “Buontempone” (Eunos), la coppia di ladruncoli “Filantropo” (Ophelandros); e il minaccioso e superdotato guastafeste? “Umbro” (Omriqòs). Dove il conseguito status evidentemente servile è corredato, nel racconto greco-etrusco, di tratti peculiari o mostruosi, quasi associando il nostro (esperto guardiano?) a creature malnote o leggendarie come Pigmei, Sciapodi, Blemmi, Antipodi… Anche sull’altra faccia del vaso ci vengono riproposti l’esotico e il gigantesco. Ma qui il gigante è un personaggio di rango, che giace a terra, forse ferito e fatto prigioniero insieme al suo sodale che, le caviglie chiuse e legate entro pesanti anelli, lo accudisce passandogli il cibo imbandito per lui e recatogli da una donna, in un ambiente che una serie di crateri impilati qualifica come una cantina. E come la funzione del luogo collega il tema a quello della opposta faccia del vaso (che, ricordiamo, è esso stesso un cratere!), così anche quel nobile prigioniero e il suo “attendente” – che dritti in piedi sovrasterebbero dell’intero busto la statura della donna – potrebbero condividere le origini di quel guardiano, o comunque ricondursi ad esse: se è vero che le strane “gabbie” in cui ci appaiono chiuse le teste dei due prigionieri trovano l’unico riscontro archeologico disponibile in quelle, di ferro, che ricoprono – senza tuttavia avvolgerle interamente – la testa di due personaggi, un uomo e una donna, sepolti nella necropoli ternana di S. Pietro in Campo-ex Poligrafico Alterocca, riportati in luce dagli scavi che la Soprintendenza archeologica per l’Umbria vi ha condotto tra il 1996 e il 1999 (fig. 5). Quale che ne fosse la vera natura e funzione (forse soltanto funeraria), è possibile che il ricordo del singolarissimo costume invalso tra gli Umbri Nahartes nel VII sec. a.C. sia pervenuto, deformato e promosso a connotato “etnico”, all’orecchio del ceramografo greco, magari per il tramite del ricco committente ceretano? Ma ascoltiamo altre voci. Anche Dionisio di Alicarnasso, nelle sue Antichità Romane (I, 20, 4), ci parla, pure a distanza di quattro secoli e nel quadro di un racconto diverso, di una sovrapposizione dei Pelasgi (poi Tirreni-Etruschi) sugli Umbri. Dunque anche qui la presenza umbra è vista precedere quella etrusca: ma il quadro incomincia a farsi variegato. Perché qui gli Umbri una loro “grande città” l’avevano: Cortona, prima che i Pelasgi la conquistassero; ma annotiamo il fatto che, pur essendo, i secondi, sospinti da fame di terra, la ricchezza di Cortona è connotata soprattutto da ricchi pascoli (eubòtos chòra), ciò che ben si attaglia al profilo economico e

culturale che conosciamo peculiare delle genti che gravitavano attorno alla dorsale appenninica. Notiamo anche che, “prima della città” la presenza degli Umbri (gens antiquissima Italiae secondo Plinio, anzi “antidiluviani” secondo una pseudo-etimologia greca del loro nome ch’egli annota!) spinge le proprie tracce anche a occidente del Tevere e che, una volta assestatesi le due etnìe – etrusca e umbra - nelle rispettive sedi storiche, si delineano marginali e assidui conflitti (menzionati anch’essi da Plinio, Nat. Hist., III 14-15, e da Strabone, Geografia, V I 10) che, non spostando sostanzialmente il confine consolidato, sanno più di reciproche scorrerie e sconfinamenti che di vere e proprie migrazioni e conquiste. È forse appunto una di queste fortunate imprese quella che un illustre etrusco di Perugia, agli inizi del V sec. a.C., celebra tra le res gestae proprie o, più probabilmente, di un proprio avo, addirittura dettandola a una rinomata bottega di Chiusi come tema da raffigurare sulla fronte del proprio sarcofago, rinvenuto in una tomba della necropoli dello Sperandio, a settentrione della città (fig. 6). Qui la conquista è sintetizzata nell’avanzare di un animato corteo di uomini e animali (montoni e muli carichi delle loro some), preceduto da tre personaggi chiaramente vittime della cattura e simbolo del bene conquistato: essi procedono infatti legati per il collo l’uno all’altro, recano sulle spalle una pecora e il rozzo taglio dei capelli “a ciotola” – in netto contrasto con l’educata acconciatura alla moda ellenica degli altri – li qualifica chiaramente come rustici e, letteralmente, “inurbani”: pastori. Abbiamo qui il ricordo di una incursione etrusca con razzia di bestiame in terra umbra, o della conquista di una delle loro cittadelle “ricche” - come la grande Cortona – “di pascoli”?Che i signori umbri dell’entroterra, del resto, fossero i primi a definire la propria ricchezza in termini di possesso di bestiame e terre da pascolo ce lo dimostra, pochi decenni dopo (l’esibizione de) la fortunata impresa dell’aristocratico perugino, un ricco possidente umbro, inumato nella tomba 12 della necropoli in località Malpasso di Gualdo Tadino, nel cui corredo spicca un cratere attico a figure rosse, databile nel secondo quarto del V sec. a.C.; qui, sulla faccia principale campeggia Argo, l’occhiuto custode di Io, la fanciulla amata da Giove e da lui trasformata in giovenca per sottrarla alla gelosia di Giunone (fig. 7). È certo da ricondurre a una scelta del committente umbro la rara raffigurazione di Argo vivo e minaccioso anziché vittima soccombente all’assalto di Hermes (tema, questo, assai più familiare fra i ceramisti attici e i loro clienti etruschi “cittadini di città”): e come la candida giovenca è efficace marchio di qualità del patrimonio vantato dal signorotto tadinate, così il mitico guardiano onniveggente lo è della sua capacità di difenderlo. L’archeologia, dunque, conferma e arricchisce questo quadro fatto di vicinanza a tratti conflittuale e di una alterità culturale che non esclude condivisioni, contaminazioni, integrazione ed emulazione. Che mandrie e greggi – per loro costume irriguardose di confini politici! – fossero risorse condivise da Etruschi e Umbri nell’intero distretto collinare fra Tevere e Trasimeno lo abbiamo già visto affermato per Cortona “dai ricchi pascoli” e lo mostrano i numerosi ex-voto che vediamo deposti nei santuari della zona (da Monte Acuto di Umbertide al Pasticcetto di Magione). Ebbene: proprio a una bottega di bronzisti di quella Cortona che dedica al culto locale preziosi ex-voto, l’uno raffigurante Culsans, dio bifronte delle porte urbiche (fig. 8), e l’altro Selvans, dio dei confini territoriali (divinità preposte entrambe, dunque, alla stanzialità sia nella sua accezione pubblica che privata), penso sia da attribuire una statuina votiva coeva, rinvenuta dalle parti di Città di Castello, che però ci rinvia a tutt’altro panorama (fig. 9a-b). Essa rappresenta infatti uno strano personaggio dalla testa ritorta, il volto dal lato delle spalle. Lo schema iconografico dell’uomo che avanza con la testa rivolta indietro è già di casa nella Volsinii multietnica del VI sec.

a.C., dove si affianca, nella locale produzione vascolare in bucchero, a quello dell’uomo gradiente armato di lancia: così associando l’immagine del (capo) guerriero a quella del (capo) pastore. Nella creatura raffigurata dal nostro bronzetto, databile al IV sec. a.C., ho proposto di riconoscere l’immagine di una divinità - forse condivisa dal pantheon etrusco e umbro? - protettrice di mandrie e greggi: essa indossa, non a caso, una pelle di lupo, nemico atavico delle medesime, mentre il gesto occasionale di un accorto mandriano – guardarsi attorno e alle spalle - è trasformato in eccezionale attributo congenito del dio. Perugia stessa, del resto, dà più di un segno della prossimità e occasionale sovrapposizione dei due orizzonti culturali e linguistici. Il primo, e più significativo, ho da tempo proposto di riconoscerlo nell’ormai celebre “alfabetario” etrusco, databile attorno alla metà del VI sec. a.C., inciso sotto il piede di una coppa di bucchero relitto del corredo di una tomba sita a occidente della città (Via Pellini) (fig. 10). Qui vediamo un alfabeto etrusco di tipo settentrionale “modificato” alle cui ultime due lettere (φ e χ) una diversa mano ne ha sovrapposte quattro (a b a t) di proporzioni maggiori. L’intenzione di obliterare le une aggiungendo le altre è resa evidente dallo spazio che il secondo scriba avrebbe avuto a disposizione, se fosse stato interessato soltanto all’aggiunta. Senza tornare qui su argomentazioni già da me esposte a suo tempo, mi limito a riconoscere nel possessore del vasetto - e suggeritore della modifica - un perugino di origine umbra, forsebilingue ma certamente di attitudini fonatorie “umbrofone”, cui erano estranee le lettere obliterate, mentre quelle aggiunte lo erano all’alfabeto etrusco pre-confezionato sulla sua coppa, “modificato” appunto in tal senso rispetto all’antico modello greco euboico.Di circa due secoli più tarda è la coppia di schinieri in bronzo rinvenuti in una ricca tomba della necropoli perugina del Frontone, sui quali è ripetuta la dicitura tvtas, che inequivocabilmente ne fa l’oggetto di una assegnazione “pubblica” (fig. 11). La schietta origine italica del termine ha portato gli studiosi a privilegiare l’interpretazione della loro presenza nella tomba come parte di un bottino di guerra umbro, caduto in mano dell’etrusco ivi sepolto. In tal caso il documento andrebbe ad arricchire il dossier dei conflitti umbro-etruschi cui abbiamo fatto cenno. Ma il contesto archeologico indica, proprio in quegli anni, Perugia come il centro di produzione di splendide panoplie - non certo attribuibili a fabbrica umbra - simili a quella esibita in questa tomba, alla quale si aggiunge la testimonianza di una seconda coppia di schinieri (purtroppo perduti) marcati dallo stesso termine e rinvenuti nella tomba dei Volumni: ciò che mi induce a suggerire (lectio certo difficilior!) che il termine di origine umbra possa essere stato precocemente acquisito, a Perugia, dal lessico istituzionale etrusco e qui sia passato, con uno slittamento semantico non incomprensibile, ad indicare non più il corpo civico in quanto tale (in etrusco spur-), ma la comunità degli armati, l’esercito. Il che trasferirebbe la testimonianza resa da questi schinieri al livello di cui stiamo appunto discorrendo.È da inserire in questo stesso contesto, a mio avviso, anche un connotato che appare peculiare della onomastica personale etrusca quale ci è rivelata da iscrizioni di piena età ellenistica in un’area che si estende per l’appunto tra Chiusi e Perugia. Qui ricorrono infatti gentilizi formati sull’etnonimo umre (umrana, umrina ecc.), di oriundi umbri dunque, di prima o seconda generazione. Ma ho proposto anche di riconoscervi nomi etruschi autonomamente formati, secondo un costume attestato nel mondo italico (Quintus, Sextus, Septimius, Octavius…) che pareva finora latitante in quello etrusco, sulla base di numerali etruschi ben riconoscibili: semφ-, cezp-, nurφ-, (“sette”, “otto”, “nove”, da cui Caspre, Sepre, Nufre). Ciò che confermerebbe il panorama nel quale ci troviamo immersi, dove gli scambi e le reciproche interferenze si mescolano e fioriscono su un solido fondo di almeno parziali (e cioè localmente circoscritte) affinità culturali. La lezione forse più durevole impartita dal mondo etrusco agli Umbri è stato l’alfabeto stesso.

L’Etruria esibisce una consuetudine e dimestichezza con l’uso della scrittura, tipica di una società precocemente urbanizzata, che ne determina una evoluzione continua che il mondo umbro non richiede e dunque non sviluppa in modo autonomo. E se il riconoscimento di una iscrizione redatta in un alfabeto definito “proto-umbro” su di un cratere a colonnette in bucchero databile tra il VII e il VI sec. a. C. e rinvenuto nella necropoli del Ferrone di Tolfa, ci mostra che anche gli Umbri, come altre comunità linguistiche dell’Italia antica - tra cui i Latini, i Sabini, i Falisci - si dettero prontamente un alfabeto (forse più come segno di autoidentificazione “nazionale” che come strumento pratico di comunicazione), è un fatto che nelle rarefatte occasioni di ricorso alla scrittura, per lo più di carattere religioso e pubblico, offerte alle comunità umbre dal loro proprio modus vivendi, viene preso a modello e strumento l’alfabeto presentato pro tempore dal centro etrusco più vicino e influente: così per quello impiegato nella versione più antica del maggior testo umbro, le Tavole Iguvine, è stato suggerito un modello elaborato fra Chiusi, Cortona e Perugia, mentre l’estensore delle dediche a Cupra da Colfiorito sembra piuttosto aver guardato in direzione di Volsinii. Proprio intorno a Perugia continuerà a gravitare, forse favorito anche dalla vocazione multiculturale della città, un polo di tradizioni scrittorie cui dobbiamo un costume - anche “editoriale” - capace di attraversare il confine e dettare la stesura di grandi testi di rilevanza pubblica, come quelli rituali contenuti nel Liber linteus di Zagabria (fig. 12) e nelle prime Tavole Iguvine (fig. 2), o quelli pubblicati nella Tabula Cortonensis (fig. 13) o nello stesso Cippo Perugino.Certo è, che le grandi città etrusche prossime al confine esercitarono presto una grande attrazione sulle genti umbre d’Oltre Tevere: non solo come luoghi di produzione esse stesse e punti di rilancio di beni suntuari di produzione più remota che le necropoli umbre mostrano da tempo apprezzati ed esibiti, ma come modelli di coesistenza strutturata capaci di interlocuzioni di più vasto respiro: e la migrazione verso di essi sembra avere anticipato di almeno due secoli la piena urbanizzazione dei loro propri antichi insediamenti. Ne fanno fede, a Volsinii, i Fulvi, i Flavi, i Blaesi il cui nome etruschizzato in gentilizio li mostra già dal VI sec. a.C. integrati al ceto dominante della città, mentre il fanum Voltumnae, il grande santuario federale etrusco, richiamava là annualmente - certo non da solo - “per antica consuetudine” un rappresentante ufficiale (sacerdos) delle comunità umbre. Concluderò con un passo indietro nel tempo. Nell’anonimo guerriero cui venne eretta, agli inizi del VI sec. a. C., la stele rinvenuta a Montegualandro, a nord-ovest di Tuoro sul Trasimeno (fig. 14), è stato riconosciuto un “uomo d’arme” di quelli che, tra VII e VI secolo appunto, troviamo attivi tra quel mondo italico da cui molti di loro provengono e le città etrusche maggiori. La stele tace sulla sua identità, mentre complessi epitaffi corredano le stele erette in onore di quei suoi predecessori e colleghi sepolti nelle città cui erano emigrati. Primo tra questi è l’Auvele Feluskes, di origini falische, raffigurato sulla nota stele di Vetulonia e là attivo nella seconda metà del VII sec. a. C. Colpisce qui, nella “muta” Vetulonia, la ricchezza della formula onomastica, completa di patronimico e metronimico, chiamata a designarlo, e ancor più il formulario adottato (che ricorre significativamente in altre stele simili) in cui l’indicazione di pertinenza - solitamente sufficiente in epigrafi funerarie - è nettamente distinta dalla vera e propria dedica del monumento, qui mutuata dal frasario votivo o del dono (mini muluvaneke). Ciò suona, già di per sé, conferma di un rapporto tra dedicante e dedicatario che prevale sulla consanguineità e la esclude. Si è pensato a sodalità tra compagni d’arme: ipotesi in sé plausibile (e tornano alla mente i due illustri personaggi - “prigionieri” ma accuditi con palese rispetto, e l’uno subordinato all’altro - raffigurati sul cratere ceretano che abbiamo ricordato all’inizio (fig. 4), ai quali forse si prospettava un analogo destino di servitù e di

gloria?); ma non mi sembra da escludere, con parziale ribaltamento del ruolo solitamente ipotizzato fra i due, che il dedicante, Hirumina, fosse l’indigeno d’alto rango (nelle) cui (file) Auvele aveva offerto i propri servigi: ciò che conferirebbe al suo gesto proprio il sapore che la formula adottata adombra (scioglimento d’un voto), e alla esauriente e articolata presentazione del “capitano di ventura” quasi il sapore di un curriculum vitae a beneficio di quanti l’avevano visto all’opera, ma cui era estraneo. Ciò che al dedicatario della stele di Montegualandro non serviva: era probabilmente il suo luogo di nascita il piccolo borgo sul confine tra Perugia e Cortona cui aveva fatto ritorno in vita e in cui fu sepolto.Resta dunque chiara la testimonianza di una ulteriore e antica forma di mobilità che coinvolse certo anche il mondo umbro ed ebbe a protagonisti capi guerrieri italici in cerca di fortuna nelle città etrusche.

Page 4: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversaFRANCESCO RONCALLI

Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro in realtà includeva e celava quello, più impegnativo, ad entrare direttamente nel merito del tema prescelto, ho pensato che la sola cosa – e la più onesta - da fare fosse raccogliere alcune mie osservazioni e riflessioni maturate lungo l’arco di quasi mezzo secolo di dimestichezza con la materia e provare a ordinarle secondo il filo logico più rispondente alle intenzioni del committente.Cominciando dal titolo. Perché la prossimità geografica fra Etruschi e Umbri ha per l’appunto i connotati, ab origine, di un vicinato attivo in entrambe le direzioni – non è sempre così anche tra popoli confinanti – ben oltre la sfera del semplice scambio commerciale.È il “padre” della storiografia occidentale, Erodoto, a dircelo con parole che il titolo che ho scelto non fa che parafrasare e integrare, nel celebre passo delle Storie (I, 94) in cui racconta di come i Lidi, in cerca di nuove terre spinti da una prolungata carestia, dopo lunga navigazione approdarono “presso gli Umbri” e vi si stabilirono fondandovi le loro città.Della realtà e antichità di questo incontro le testimonianze archeologiche sono ormai molteplici: ma alcune di queste, pur cronologicamente pertinenti ai tempi che chiamiamo “storici”, sembrano, per loro natura, in grado di risospingerlo indietro, ben oltre la soglia segnata dalla conoscenza e dall’uso della scrittura presso entrambe quelle civiltà.Tra le prime e più significative vi è quella offertaci da una serie di piatti di impasto rosso, prodotti a Cerveteri nel VII sec. a.C., di provenienza tombale, corredati da scritte indicanti il nome del proprietario nonché quello che in etrusco designava il tipo di vaso cui furono apposte: “spanti”, dunque equivalente appunto al nostro “piatto” (fig. 1). Il termine ricorre identico nella Tavola Iguvina IV, 2 (fig. 2), dove designa la superficie piana dell’altare sul quale si compiono le azioni rituali prescritte. A dispetto della seriorità del documento umbro rispetto a quelli etruschi, e pur prescindendo da considerazioni linguistiche, che si tratti di un termine umbro importato in Etruria e non viceversa, è confermato sia dalla ben attestata propensione etrusca ad importare il “bene” – materiale o immateriale: un oggetto, un personaggio del mito, un costume – unitamente al nome che lo designa “alla fonte” (basta pensare alla serie di nomi di vasi pertinenti al simposio che l’Etruria ha attinto al lessico greco, certo “convogliati” dalla importazione dalla Grecia di quel costume), sia dal fatto che il carattere eminentemente religioso (dove le tradizioni sono gelosissime) dell’oggetto del culto che il termine designa non è compatibile con una sua estrazione esotica, profana e “minore”, chiamato com’è a indicare nientemeno che una parte dell’altare (alla cui “mensa” mai potrebbe applicarsi il termine “piatto”, né al “calice” quello di “bicchiere”!). Il fatto dunque sembra accreditare il mondo umbro di un prestigio in materia religiosa che non può essersi limitato all’accoglimento isolato di una parola: e sappiamo bene che quella religiosa non è componente secondaria del profilo culturale etrusco quale lo vedevano e definivano le civiltà contemporanee.Che del resto proprio in questo campo l’Etruria possa fornire riscontri archeologici concreti a prassi rituali condivise con gli Umbri, lo mostra con grande evidenza il caso del noto “altarino” in pietra rinvenuto nel santuario della necropoli orvietana della Cannicella (fig. 3), le cui caratteristiche sia strutturali che formali lo indicano funzionale ad atti rituali che si compivano sia al di sopra che al di sotto di esso, destinati pertanto, presumibilmente, sia a divinità uranie che ctonie: ciò che richiama direttamente – anche per le modeste dimensioni - proprio quell’ereçlo- (“arula, altarino” appunto) menzionato nella medesima Tavola (IV, 17, 19), “sotto” e “sopra” il quale (supu e super rispettivamente) il sacerdote officiante era chiamato a compiere, inginocchiato (kunikaz), operazioni cultuali distinte.

Ma Erodoto, in quel celebre passo, ci dice anche dell’altro: “… e lì costruirono le loro città, che abitano tuttora”. Non avrebbe certo mancato di dire, se del caso, che si era trattato di una conquista o occupazione di città umbre da parte degli Etruschi, visto che comunque era là, “presso gli Umbri”, ch’essi si erano insediati. Ma no: le città, come lui le vede, sono una novità, una creatura dei Tirreni, cioè etrusca. Non dobbiamo chiedere a Erodoto quello che non gli interessa di dire: e cioè che anche gli Umbri conoscevano insediamenti stabili, anche cospicui, entro strutture verosimilmente edificate e comunità organizzate: ai suoi occhi il modus habitandi etrusco è incentrato su di un rapporto stabile e strutturato città-territorio, mentre quello umbro evoca ai suoi occhi un orizzonte culturale pre-urbano, caratterizzato da mobilità agricolo-pastorale e colorato, si direbbe, come vedremo, dall’esotismo dei “popoli dell’interno”. Di una alterità, appunto, che assume i connotati espliciti della superiorità etrusca (esaltata dalla interpretatio greca) e dell’esotismo umbro ci parla un cratere corinzio conservato al Louvre, rinvenuto in una tomba di Cerveteri e databile entro il primo quarto del VI sec. a.C. (figg. 4a-b), su una faccia del quale è rappresentato un episodio di chiaro sapore farsesco che vede un attore con maschera di satiro danzare mentre un altro suona gli aulòi, e due altri ancora, intenti a trasportare (rubare?) un’anfora di vino, sono minacciati da un personaggio anch’esso a suo modo mascherato (da un gigantesco fallo) che li minaccia armato di due bastoni. Ebbene: le dramatis personae sono così denominate dalle scritte che corredano il quadretto: la coppia musico/danzatore “Buontempone” (Eunos), la coppia di ladruncoli “Filantropo” (Ophelandros); e il minaccioso e superdotato guastafeste? “Umbro” (Omriqòs). Dove il conseguito status evidentemente servile è corredato, nel racconto greco-etrusco, di tratti peculiari o mostruosi, quasi associando il nostro (esperto guardiano?) a creature malnote o leggendarie come Pigmei, Sciapodi, Blemmi, Antipodi… Anche sull’altra faccia del vaso ci vengono riproposti l’esotico e il gigantesco. Ma qui il gigante è un personaggio di rango, che giace a terra, forse ferito e fatto prigioniero insieme al suo sodale che, le caviglie chiuse e legate entro pesanti anelli, lo accudisce passandogli il cibo imbandito per lui e recatogli da una donna, in un ambiente che una serie di crateri impilati qualifica come una cantina. E come la funzione del luogo collega il tema a quello della opposta faccia del vaso (che, ricordiamo, è esso stesso un cratere!), così anche quel nobile prigioniero e il suo “attendente” – che dritti in piedi sovrasterebbero dell’intero busto la statura della donna – potrebbero condividere le origini di quel guardiano, o comunque ricondursi ad esse: se è vero che le strane “gabbie” in cui ci appaiono chiuse le teste dei due prigionieri trovano l’unico riscontro archeologico disponibile in quelle, di ferro, che ricoprono – senza tuttavia avvolgerle interamente – la testa di due personaggi, un uomo e una donna, sepolti nella necropoli ternana di S. Pietro in Campo-ex Poligrafico Alterocca, riportati in luce dagli scavi che la Soprintendenza archeologica per l’Umbria vi ha condotto tra il 1996 e il 1999 (fig. 5). Quale che ne fosse la vera natura e funzione (forse soltanto funeraria), è possibile che il ricordo del singolarissimo costume invalso tra gli Umbri Nahartes nel VII sec. a.C. sia pervenuto, deformato e promosso a connotato “etnico”, all’orecchio del ceramografo greco, magari per il tramite del ricco committente ceretano? Ma ascoltiamo altre voci. Anche Dionisio di Alicarnasso, nelle sue Antichità Romane (I, 20, 4), ci parla, pure a distanza di quattro secoli e nel quadro di un racconto diverso, di una sovrapposizione dei Pelasgi (poi Tirreni-Etruschi) sugli Umbri. Dunque anche qui la presenza umbra è vista precedere quella etrusca: ma il quadro incomincia a farsi variegato. Perché qui gli Umbri una loro “grande città” l’avevano: Cortona, prima che i Pelasgi la conquistassero; ma annotiamo il fatto che, pur essendo, i secondi, sospinti da fame di terra, la ricchezza di Cortona è connotata soprattutto da ricchi pascoli (eubòtos chòra), ciò che ben si attaglia al profilo economico e

culturale che conosciamo peculiare delle genti che gravitavano attorno alla dorsale appenninica. Notiamo anche che, “prima della città” la presenza degli Umbri (gens antiquissima Italiae secondo Plinio, anzi “antidiluviani” secondo una pseudo-etimologia greca del loro nome ch’egli annota!) spinge le proprie tracce anche a occidente del Tevere e che, una volta assestatesi le due etnìe – etrusca e umbra - nelle rispettive sedi storiche, si delineano marginali e assidui conflitti (menzionati anch’essi da Plinio, Nat. Hist., III 14-15, e da Strabone, Geografia, V I 10) che, non spostando sostanzialmente il confine consolidato, sanno più di reciproche scorrerie e sconfinamenti che di vere e proprie migrazioni e conquiste. È forse appunto una di queste fortunate imprese quella che un illustre etrusco di Perugia, agli inizi del V sec. a.C., celebra tra le res gestae proprie o, più probabilmente, di un proprio avo, addirittura dettandola a una rinomata bottega di Chiusi come tema da raffigurare sulla fronte del proprio sarcofago, rinvenuto in una tomba della necropoli dello Sperandio, a settentrione della città (fig. 6). Qui la conquista è sintetizzata nell’avanzare di un animato corteo di uomini e animali (montoni e muli carichi delle loro some), preceduto da tre personaggi chiaramente vittime della cattura e simbolo del bene conquistato: essi procedono infatti legati per il collo l’uno all’altro, recano sulle spalle una pecora e il rozzo taglio dei capelli “a ciotola” – in netto contrasto con l’educata acconciatura alla moda ellenica degli altri – li qualifica chiaramente come rustici e, letteralmente, “inurbani”: pastori. Abbiamo qui il ricordo di una incursione etrusca con razzia di bestiame in terra umbra, o della conquista di una delle loro cittadelle “ricche” - come la grande Cortona – “di pascoli”?Che i signori umbri dell’entroterra, del resto, fossero i primi a definire la propria ricchezza in termini di possesso di bestiame e terre da pascolo ce lo dimostra, pochi decenni dopo (l’esibizione de) la fortunata impresa dell’aristocratico perugino, un ricco possidente umbro, inumato nella tomba 12 della necropoli in località Malpasso di Gualdo Tadino, nel cui corredo spicca un cratere attico a figure rosse, databile nel secondo quarto del V sec. a.C.; qui, sulla faccia principale campeggia Argo, l’occhiuto custode di Io, la fanciulla amata da Giove e da lui trasformata in giovenca per sottrarla alla gelosia di Giunone (fig. 7). È certo da ricondurre a una scelta del committente umbro la rara raffigurazione di Argo vivo e minaccioso anziché vittima soccombente all’assalto di Hermes (tema, questo, assai più familiare fra i ceramisti attici e i loro clienti etruschi “cittadini di città”): e come la candida giovenca è efficace marchio di qualità del patrimonio vantato dal signorotto tadinate, così il mitico guardiano onniveggente lo è della sua capacità di difenderlo. L’archeologia, dunque, conferma e arricchisce questo quadro fatto di vicinanza a tratti conflittuale e di una alterità culturale che non esclude condivisioni, contaminazioni, integrazione ed emulazione. Che mandrie e greggi – per loro costume irriguardose di confini politici! – fossero risorse condivise da Etruschi e Umbri nell’intero distretto collinare fra Tevere e Trasimeno lo abbiamo già visto affermato per Cortona “dai ricchi pascoli” e lo mostrano i numerosi ex-voto che vediamo deposti nei santuari della zona (da Monte Acuto di Umbertide al Pasticcetto di Magione). Ebbene: proprio a una bottega di bronzisti di quella Cortona che dedica al culto locale preziosi ex-voto, l’uno raffigurante Culsans, dio bifronte delle porte urbiche (fig. 8), e l’altro Selvans, dio dei confini territoriali (divinità preposte entrambe, dunque, alla stanzialità sia nella sua accezione pubblica che privata), penso sia da attribuire una statuina votiva coeva, rinvenuta dalle parti di Città di Castello, che però ci rinvia a tutt’altro panorama (fig. 9a-b). Essa rappresenta infatti uno strano personaggio dalla testa ritorta, il volto dal lato delle spalle. Lo schema iconografico dell’uomo che avanza con la testa rivolta indietro è già di casa nella Volsinii multietnica del VI sec.

a.C., dove si affianca, nella locale produzione vascolare in bucchero, a quello dell’uomo gradiente armato di lancia: così associando l’immagine del (capo) guerriero a quella del (capo) pastore. Nella creatura raffigurata dal nostro bronzetto, databile al IV sec. a.C., ho proposto di riconoscere l’immagine di una divinità - forse condivisa dal pantheon etrusco e umbro? - protettrice di mandrie e greggi: essa indossa, non a caso, una pelle di lupo, nemico atavico delle medesime, mentre il gesto occasionale di un accorto mandriano – guardarsi attorno e alle spalle - è trasformato in eccezionale attributo congenito del dio. Perugia stessa, del resto, dà più di un segno della prossimità e occasionale sovrapposizione dei due orizzonti culturali e linguistici. Il primo, e più significativo, ho da tempo proposto di riconoscerlo nell’ormai celebre “alfabetario” etrusco, databile attorno alla metà del VI sec. a.C., inciso sotto il piede di una coppa di bucchero relitto del corredo di una tomba sita a occidente della città (Via Pellini) (fig. 10). Qui vediamo un alfabeto etrusco di tipo settentrionale “modificato” alle cui ultime due lettere (φ e χ) una diversa mano ne ha sovrapposte quattro (a b a t) di proporzioni maggiori. L’intenzione di obliterare le une aggiungendo le altre è resa evidente dallo spazio che il secondo scriba avrebbe avuto a disposizione, se fosse stato interessato soltanto all’aggiunta. Senza tornare qui su argomentazioni già da me esposte a suo tempo, mi limito a riconoscere nel possessore del vasetto - e suggeritore della modifica - un perugino di origine umbra, forsebilingue ma certamente di attitudini fonatorie “umbrofone”, cui erano estranee le lettere obliterate, mentre quelle aggiunte lo erano all’alfabeto etrusco pre-confezionato sulla sua coppa, “modificato” appunto in tal senso rispetto all’antico modello greco euboico.Di circa due secoli più tarda è la coppia di schinieri in bronzo rinvenuti in una ricca tomba della necropoli perugina del Frontone, sui quali è ripetuta la dicitura tvtas, che inequivocabilmente ne fa l’oggetto di una assegnazione “pubblica” (fig. 11). La schietta origine italica del termine ha portato gli studiosi a privilegiare l’interpretazione della loro presenza nella tomba come parte di un bottino di guerra umbro, caduto in mano dell’etrusco ivi sepolto. In tal caso il documento andrebbe ad arricchire il dossier dei conflitti umbro-etruschi cui abbiamo fatto cenno. Ma il contesto archeologico indica, proprio in quegli anni, Perugia come il centro di produzione di splendide panoplie - non certo attribuibili a fabbrica umbra - simili a quella esibita in questa tomba, alla quale si aggiunge la testimonianza di una seconda coppia di schinieri (purtroppo perduti) marcati dallo stesso termine e rinvenuti nella tomba dei Volumni: ciò che mi induce a suggerire (lectio certo difficilior!) che il termine di origine umbra possa essere stato precocemente acquisito, a Perugia, dal lessico istituzionale etrusco e qui sia passato, con uno slittamento semantico non incomprensibile, ad indicare non più il corpo civico in quanto tale (in etrusco spur-), ma la comunità degli armati, l’esercito. Il che trasferirebbe la testimonianza resa da questi schinieri al livello di cui stiamo appunto discorrendo.È da inserire in questo stesso contesto, a mio avviso, anche un connotato che appare peculiare della onomastica personale etrusca quale ci è rivelata da iscrizioni di piena età ellenistica in un’area che si estende per l’appunto tra Chiusi e Perugia. Qui ricorrono infatti gentilizi formati sull’etnonimo umre (umrana, umrina ecc.), di oriundi umbri dunque, di prima o seconda generazione. Ma ho proposto anche di riconoscervi nomi etruschi autonomamente formati, secondo un costume attestato nel mondo italico (Quintus, Sextus, Septimius, Octavius…) che pareva finora latitante in quello etrusco, sulla base di numerali etruschi ben riconoscibili: semφ-, cezp-, nurφ-, (“sette”, “otto”, “nove”, da cui Caspre, Sepre, Nufre). Ciò che confermerebbe il panorama nel quale ci troviamo immersi, dove gli scambi e le reciproche interferenze si mescolano e fioriscono su un solido fondo di almeno parziali (e cioè localmente circoscritte) affinità culturali. La lezione forse più durevole impartita dal mondo etrusco agli Umbri è stato l’alfabeto stesso.

L’Etruria esibisce una consuetudine e dimestichezza con l’uso della scrittura, tipica di una società precocemente urbanizzata, che ne determina una evoluzione continua che il mondo umbro non richiede e dunque non sviluppa in modo autonomo. E se il riconoscimento di una iscrizione redatta in un alfabeto definito “proto-umbro” su di un cratere a colonnette in bucchero databile tra il VII e il VI sec. a. C. e rinvenuto nella necropoli del Ferrone di Tolfa, ci mostra che anche gli Umbri, come altre comunità linguistiche dell’Italia antica - tra cui i Latini, i Sabini, i Falisci - si dettero prontamente un alfabeto (forse più come segno di autoidentificazione “nazionale” che come strumento pratico di comunicazione), è un fatto che nelle rarefatte occasioni di ricorso alla scrittura, per lo più di carattere religioso e pubblico, offerte alle comunità umbre dal loro proprio modus vivendi, viene preso a modello e strumento l’alfabeto presentato pro tempore dal centro etrusco più vicino e influente: così per quello impiegato nella versione più antica del maggior testo umbro, le Tavole Iguvine, è stato suggerito un modello elaborato fra Chiusi, Cortona e Perugia, mentre l’estensore delle dediche a Cupra da Colfiorito sembra piuttosto aver guardato in direzione di Volsinii. Proprio intorno a Perugia continuerà a gravitare, forse favorito anche dalla vocazione multiculturale della città, un polo di tradizioni scrittorie cui dobbiamo un costume - anche “editoriale” - capace di attraversare il confine e dettare la stesura di grandi testi di rilevanza pubblica, come quelli rituali contenuti nel Liber linteus di Zagabria (fig. 12) e nelle prime Tavole Iguvine (fig. 2), o quelli pubblicati nella Tabula Cortonensis (fig. 13) o nello stesso Cippo Perugino.Certo è, che le grandi città etrusche prossime al confine esercitarono presto una grande attrazione sulle genti umbre d’Oltre Tevere: non solo come luoghi di produzione esse stesse e punti di rilancio di beni suntuari di produzione più remota che le necropoli umbre mostrano da tempo apprezzati ed esibiti, ma come modelli di coesistenza strutturata capaci di interlocuzioni di più vasto respiro: e la migrazione verso di essi sembra avere anticipato di almeno due secoli la piena urbanizzazione dei loro propri antichi insediamenti. Ne fanno fede, a Volsinii, i Fulvi, i Flavi, i Blaesi il cui nome etruschizzato in gentilizio li mostra già dal VI sec. a.C. integrati al ceto dominante della città, mentre il fanum Voltumnae, il grande santuario federale etrusco, richiamava là annualmente - certo non da solo - “per antica consuetudine” un rappresentante ufficiale (sacerdos) delle comunità umbre. Concluderò con un passo indietro nel tempo. Nell’anonimo guerriero cui venne eretta, agli inizi del VI sec. a. C., la stele rinvenuta a Montegualandro, a nord-ovest di Tuoro sul Trasimeno (fig. 14), è stato riconosciuto un “uomo d’arme” di quelli che, tra VII e VI secolo appunto, troviamo attivi tra quel mondo italico da cui molti di loro provengono e le città etrusche maggiori. La stele tace sulla sua identità, mentre complessi epitaffi corredano le stele erette in onore di quei suoi predecessori e colleghi sepolti nelle città cui erano emigrati. Primo tra questi è l’Auvele Feluskes, di origini falische, raffigurato sulla nota stele di Vetulonia e là attivo nella seconda metà del VII sec. a. C. Colpisce qui, nella “muta” Vetulonia, la ricchezza della formula onomastica, completa di patronimico e metronimico, chiamata a designarlo, e ancor più il formulario adottato (che ricorre significativamente in altre stele simili) in cui l’indicazione di pertinenza - solitamente sufficiente in epigrafi funerarie - è nettamente distinta dalla vera e propria dedica del monumento, qui mutuata dal frasario votivo o del dono (mini muluvaneke). Ciò suona, già di per sé, conferma di un rapporto tra dedicante e dedicatario che prevale sulla consanguineità e la esclude. Si è pensato a sodalità tra compagni d’arme: ipotesi in sé plausibile (e tornano alla mente i due illustri personaggi - “prigionieri” ma accuditi con palese rispetto, e l’uno subordinato all’altro - raffigurati sul cratere ceretano che abbiamo ricordato all’inizio (fig. 4), ai quali forse si prospettava un analogo destino di servitù e di

gloria?); ma non mi sembra da escludere, con parziale ribaltamento del ruolo solitamente ipotizzato fra i due, che il dedicante, Hirumina, fosse l’indigeno d’alto rango (nelle) cui (file) Auvele aveva offerto i propri servigi: ciò che conferirebbe al suo gesto proprio il sapore che la formula adottata adombra (scioglimento d’un voto), e alla esauriente e articolata presentazione del “capitano di ventura” quasi il sapore di un curriculum vitae a beneficio di quanti l’avevano visto all’opera, ma cui era estraneo. Ciò che al dedicatario della stele di Montegualandro non serviva: era probabilmente il suo luogo di nascita il piccolo borgo sul confine tra Perugia e Cortona cui aveva fatto ritorno in vita e in cui fu sepolto.Resta dunque chiara la testimonianza di una ulteriore e antica forma di mobilità che coinvolse certo anche il mondo umbro ed ebbe a protagonisti capi guerrieri italici in cerca di fortuna nelle città etrusche.

Page 5: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversaFRANCESCO RONCALLI

Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro in realtà includeva e celava quello, più impegnativo, ad entrare direttamente nel merito del tema prescelto, ho pensato che la sola cosa – e la più onesta - da fare fosse raccogliere alcune mie osservazioni e riflessioni maturate lungo l’arco di quasi mezzo secolo di dimestichezza con la materia e provare a ordinarle secondo il filo logico più rispondente alle intenzioni del committente.Cominciando dal titolo. Perché la prossimità geografica fra Etruschi e Umbri ha per l’appunto i connotati, ab origine, di un vicinato attivo in entrambe le direzioni – non è sempre così anche tra popoli confinanti – ben oltre la sfera del semplice scambio commerciale.È il “padre” della storiografia occidentale, Erodoto, a dircelo con parole che il titolo che ho scelto non fa che parafrasare e integrare, nel celebre passo delle Storie (I, 94) in cui racconta di come i Lidi, in cerca di nuove terre spinti da una prolungata carestia, dopo lunga navigazione approdarono “presso gli Umbri” e vi si stabilirono fondandovi le loro città.Della realtà e antichità di questo incontro le testimonianze archeologiche sono ormai molteplici: ma alcune di queste, pur cronologicamente pertinenti ai tempi che chiamiamo “storici”, sembrano, per loro natura, in grado di risospingerlo indietro, ben oltre la soglia segnata dalla conoscenza e dall’uso della scrittura presso entrambe quelle civiltà.Tra le prime e più significative vi è quella offertaci da una serie di piatti di impasto rosso, prodotti a Cerveteri nel VII sec. a.C., di provenienza tombale, corredati da scritte indicanti il nome del proprietario nonché quello che in etrusco designava il tipo di vaso cui furono apposte: “spanti”, dunque equivalente appunto al nostro “piatto” (fig. 1). Il termine ricorre identico nella Tavola Iguvina IV, 2 (fig. 2), dove designa la superficie piana dell’altare sul quale si compiono le azioni rituali prescritte. A dispetto della seriorità del documento umbro rispetto a quelli etruschi, e pur prescindendo da considerazioni linguistiche, che si tratti di un termine umbro importato in Etruria e non viceversa, è confermato sia dalla ben attestata propensione etrusca ad importare il “bene” – materiale o immateriale: un oggetto, un personaggio del mito, un costume – unitamente al nome che lo designa “alla fonte” (basta pensare alla serie di nomi di vasi pertinenti al simposio che l’Etruria ha attinto al lessico greco, certo “convogliati” dalla importazione dalla Grecia di quel costume), sia dal fatto che il carattere eminentemente religioso (dove le tradizioni sono gelosissime) dell’oggetto del culto che il termine designa non è compatibile con una sua estrazione esotica, profana e “minore”, chiamato com’è a indicare nientemeno che una parte dell’altare (alla cui “mensa” mai potrebbe applicarsi il termine “piatto”, né al “calice” quello di “bicchiere”!). Il fatto dunque sembra accreditare il mondo umbro di un prestigio in materia religiosa che non può essersi limitato all’accoglimento isolato di una parola: e sappiamo bene che quella religiosa non è componente secondaria del profilo culturale etrusco quale lo vedevano e definivano le civiltà contemporanee.Che del resto proprio in questo campo l’Etruria possa fornire riscontri archeologici concreti a prassi rituali condivise con gli Umbri, lo mostra con grande evidenza il caso del noto “altarino” in pietra rinvenuto nel santuario della necropoli orvietana della Cannicella (fig. 3), le cui caratteristiche sia strutturali che formali lo indicano funzionale ad atti rituali che si compivano sia al di sopra che al di sotto di esso, destinati pertanto, presumibilmente, sia a divinità uranie che ctonie: ciò che richiama direttamente – anche per le modeste dimensioni - proprio quell’ereçlo- (“arula, altarino” appunto) menzionato nella medesima Tavola (IV, 17, 19), “sotto” e “sopra” il quale (supu e super rispettivamente) il sacerdote officiante era chiamato a compiere, inginocchiato (kunikaz), operazioni cultuali distinte.

Ma Erodoto, in quel celebre passo, ci dice anche dell’altro: “… e lì costruirono le loro città, che abitano tuttora”. Non avrebbe certo mancato di dire, se del caso, che si era trattato di una conquista o occupazione di città umbre da parte degli Etruschi, visto che comunque era là, “presso gli Umbri”, ch’essi si erano insediati. Ma no: le città, come lui le vede, sono una novità, una creatura dei Tirreni, cioè etrusca. Non dobbiamo chiedere a Erodoto quello che non gli interessa di dire: e cioè che anche gli Umbri conoscevano insediamenti stabili, anche cospicui, entro strutture verosimilmente edificate e comunità organizzate: ai suoi occhi il modus habitandi etrusco è incentrato su di un rapporto stabile e strutturato città-territorio, mentre quello umbro evoca ai suoi occhi un orizzonte culturale pre-urbano, caratterizzato da mobilità agricolo-pastorale e colorato, si direbbe, come vedremo, dall’esotismo dei “popoli dell’interno”. Di una alterità, appunto, che assume i connotati espliciti della superiorità etrusca (esaltata dalla interpretatio greca) e dell’esotismo umbro ci parla un cratere corinzio conservato al Louvre, rinvenuto in una tomba di Cerveteri e databile entro il primo quarto del VI sec. a.C. (figg. 4a-b), su una faccia del quale è rappresentato un episodio di chiaro sapore farsesco che vede un attore con maschera di satiro danzare mentre un altro suona gli aulòi, e due altri ancora, intenti a trasportare (rubare?) un’anfora di vino, sono minacciati da un personaggio anch’esso a suo modo mascherato (da un gigantesco fallo) che li minaccia armato di due bastoni. Ebbene: le dramatis personae sono così denominate dalle scritte che corredano il quadretto: la coppia musico/danzatore “Buontempone” (Eunos), la coppia di ladruncoli “Filantropo” (Ophelandros); e il minaccioso e superdotato guastafeste? “Umbro” (Omriqòs). Dove il conseguito status evidentemente servile è corredato, nel racconto greco-etrusco, di tratti peculiari o mostruosi, quasi associando il nostro (esperto guardiano?) a creature malnote o leggendarie come Pigmei, Sciapodi, Blemmi, Antipodi… Anche sull’altra faccia del vaso ci vengono riproposti l’esotico e il gigantesco. Ma qui il gigante è un personaggio di rango, che giace a terra, forse ferito e fatto prigioniero insieme al suo sodale che, le caviglie chiuse e legate entro pesanti anelli, lo accudisce passandogli il cibo imbandito per lui e recatogli da una donna, in un ambiente che una serie di crateri impilati qualifica come una cantina. E come la funzione del luogo collega il tema a quello della opposta faccia del vaso (che, ricordiamo, è esso stesso un cratere!), così anche quel nobile prigioniero e il suo “attendente” – che dritti in piedi sovrasterebbero dell’intero busto la statura della donna – potrebbero condividere le origini di quel guardiano, o comunque ricondursi ad esse: se è vero che le strane “gabbie” in cui ci appaiono chiuse le teste dei due prigionieri trovano l’unico riscontro archeologico disponibile in quelle, di ferro, che ricoprono – senza tuttavia avvolgerle interamente – la testa di due personaggi, un uomo e una donna, sepolti nella necropoli ternana di S. Pietro in Campo-ex Poligrafico Alterocca, riportati in luce dagli scavi che la Soprintendenza archeologica per l’Umbria vi ha condotto tra il 1996 e il 1999 (fig. 5). Quale che ne fosse la vera natura e funzione (forse soltanto funeraria), è possibile che il ricordo del singolarissimo costume invalso tra gli Umbri Nahartes nel VII sec. a.C. sia pervenuto, deformato e promosso a connotato “etnico”, all’orecchio del ceramografo greco, magari per il tramite del ricco committente ceretano? Ma ascoltiamo altre voci. Anche Dionisio di Alicarnasso, nelle sue Antichità Romane (I, 20, 4), ci parla, pure a distanza di quattro secoli e nel quadro di un racconto diverso, di una sovrapposizione dei Pelasgi (poi Tirreni-Etruschi) sugli Umbri. Dunque anche qui la presenza umbra è vista precedere quella etrusca: ma il quadro incomincia a farsi variegato. Perché qui gli Umbri una loro “grande città” l’avevano: Cortona, prima che i Pelasgi la conquistassero; ma annotiamo il fatto che, pur essendo, i secondi, sospinti da fame di terra, la ricchezza di Cortona è connotata soprattutto da ricchi pascoli (eubòtos chòra), ciò che ben si attaglia al profilo economico e

culturale che conosciamo peculiare delle genti che gravitavano attorno alla dorsale appenninica. Notiamo anche che, “prima della città” la presenza degli Umbri (gens antiquissima Italiae secondo Plinio, anzi “antidiluviani” secondo una pseudo-etimologia greca del loro nome ch’egli annota!) spinge le proprie tracce anche a occidente del Tevere e che, una volta assestatesi le due etnìe – etrusca e umbra - nelle rispettive sedi storiche, si delineano marginali e assidui conflitti (menzionati anch’essi da Plinio, Nat. Hist., III 14-15, e da Strabone, Geografia, V I 10) che, non spostando sostanzialmente il confine consolidato, sanno più di reciproche scorrerie e sconfinamenti che di vere e proprie migrazioni e conquiste. È forse appunto una di queste fortunate imprese quella che un illustre etrusco di Perugia, agli inizi del V sec. a.C., celebra tra le res gestae proprie o, più probabilmente, di un proprio avo, addirittura dettandola a una rinomata bottega di Chiusi come tema da raffigurare sulla fronte del proprio sarcofago, rinvenuto in una tomba della necropoli dello Sperandio, a settentrione della città (fig. 6). Qui la conquista è sintetizzata nell’avanzare di un animato corteo di uomini e animali (montoni e muli carichi delle loro some), preceduto da tre personaggi chiaramente vittime della cattura e simbolo del bene conquistato: essi procedono infatti legati per il collo l’uno all’altro, recano sulle spalle una pecora e il rozzo taglio dei capelli “a ciotola” – in netto contrasto con l’educata acconciatura alla moda ellenica degli altri – li qualifica chiaramente come rustici e, letteralmente, “inurbani”: pastori. Abbiamo qui il ricordo di una incursione etrusca con razzia di bestiame in terra umbra, o della conquista di una delle loro cittadelle “ricche” - come la grande Cortona – “di pascoli”?Che i signori umbri dell’entroterra, del resto, fossero i primi a definire la propria ricchezza in termini di possesso di bestiame e terre da pascolo ce lo dimostra, pochi decenni dopo (l’esibizione de) la fortunata impresa dell’aristocratico perugino, un ricco possidente umbro, inumato nella tomba 12 della necropoli in località Malpasso di Gualdo Tadino, nel cui corredo spicca un cratere attico a figure rosse, databile nel secondo quarto del V sec. a.C.; qui, sulla faccia principale campeggia Argo, l’occhiuto custode di Io, la fanciulla amata da Giove e da lui trasformata in giovenca per sottrarla alla gelosia di Giunone (fig. 7). È certo da ricondurre a una scelta del committente umbro la rara raffigurazione di Argo vivo e minaccioso anziché vittima soccombente all’assalto di Hermes (tema, questo, assai più familiare fra i ceramisti attici e i loro clienti etruschi “cittadini di città”): e come la candida giovenca è efficace marchio di qualità del patrimonio vantato dal signorotto tadinate, così il mitico guardiano onniveggente lo è della sua capacità di difenderlo. L’archeologia, dunque, conferma e arricchisce questo quadro fatto di vicinanza a tratti conflittuale e di una alterità culturale che non esclude condivisioni, contaminazioni, integrazione ed emulazione. Che mandrie e greggi – per loro costume irriguardose di confini politici! – fossero risorse condivise da Etruschi e Umbri nell’intero distretto collinare fra Tevere e Trasimeno lo abbiamo già visto affermato per Cortona “dai ricchi pascoli” e lo mostrano i numerosi ex-voto che vediamo deposti nei santuari della zona (da Monte Acuto di Umbertide al Pasticcetto di Magione). Ebbene: proprio a una bottega di bronzisti di quella Cortona che dedica al culto locale preziosi ex-voto, l’uno raffigurante Culsans, dio bifronte delle porte urbiche (fig. 8), e l’altro Selvans, dio dei confini territoriali (divinità preposte entrambe, dunque, alla stanzialità sia nella sua accezione pubblica che privata), penso sia da attribuire una statuina votiva coeva, rinvenuta dalle parti di Città di Castello, che però ci rinvia a tutt’altro panorama (fig. 9a-b). Essa rappresenta infatti uno strano personaggio dalla testa ritorta, il volto dal lato delle spalle. Lo schema iconografico dell’uomo che avanza con la testa rivolta indietro è già di casa nella Volsinii multietnica del VI sec.

a.C., dove si affianca, nella locale produzione vascolare in bucchero, a quello dell’uomo gradiente armato di lancia: così associando l’immagine del (capo) guerriero a quella del (capo) pastore. Nella creatura raffigurata dal nostro bronzetto, databile al IV sec. a.C., ho proposto di riconoscere l’immagine di una divinità - forse condivisa dal pantheon etrusco e umbro? - protettrice di mandrie e greggi: essa indossa, non a caso, una pelle di lupo, nemico atavico delle medesime, mentre il gesto occasionale di un accorto mandriano – guardarsi attorno e alle spalle - è trasformato in eccezionale attributo congenito del dio. Perugia stessa, del resto, dà più di un segno della prossimità e occasionale sovrapposizione dei due orizzonti culturali e linguistici. Il primo, e più significativo, ho da tempo proposto di riconoscerlo nell’ormai celebre “alfabetario” etrusco, databile attorno alla metà del VI sec. a.C., inciso sotto il piede di una coppa di bucchero relitto del corredo di una tomba sita a occidente della città (Via Pellini) (fig. 10). Qui vediamo un alfabeto etrusco di tipo settentrionale “modificato” alle cui ultime due lettere (φ e χ) una diversa mano ne ha sovrapposte quattro (a b a t) di proporzioni maggiori. L’intenzione di obliterare le une aggiungendo le altre è resa evidente dallo spazio che il secondo scriba avrebbe avuto a disposizione, se fosse stato interessato soltanto all’aggiunta. Senza tornare qui su argomentazioni già da me esposte a suo tempo, mi limito a riconoscere nel possessore del vasetto - e suggeritore della modifica - un perugino di origine umbra, forsebilingue ma certamente di attitudini fonatorie “umbrofone”, cui erano estranee le lettere obliterate, mentre quelle aggiunte lo erano all’alfabeto etrusco pre-confezionato sulla sua coppa, “modificato” appunto in tal senso rispetto all’antico modello greco euboico.Di circa due secoli più tarda è la coppia di schinieri in bronzo rinvenuti in una ricca tomba della necropoli perugina del Frontone, sui quali è ripetuta la dicitura tvtas, che inequivocabilmente ne fa l’oggetto di una assegnazione “pubblica” (fig. 11). La schietta origine italica del termine ha portato gli studiosi a privilegiare l’interpretazione della loro presenza nella tomba come parte di un bottino di guerra umbro, caduto in mano dell’etrusco ivi sepolto. In tal caso il documento andrebbe ad arricchire il dossier dei conflitti umbro-etruschi cui abbiamo fatto cenno. Ma il contesto archeologico indica, proprio in quegli anni, Perugia come il centro di produzione di splendide panoplie - non certo attribuibili a fabbrica umbra - simili a quella esibita in questa tomba, alla quale si aggiunge la testimonianza di una seconda coppia di schinieri (purtroppo perduti) marcati dallo stesso termine e rinvenuti nella tomba dei Volumni: ciò che mi induce a suggerire (lectio certo difficilior!) che il termine di origine umbra possa essere stato precocemente acquisito, a Perugia, dal lessico istituzionale etrusco e qui sia passato, con uno slittamento semantico non incomprensibile, ad indicare non più il corpo civico in quanto tale (in etrusco spur-), ma la comunità degli armati, l’esercito. Il che trasferirebbe la testimonianza resa da questi schinieri al livello di cui stiamo appunto discorrendo.È da inserire in questo stesso contesto, a mio avviso, anche un connotato che appare peculiare della onomastica personale etrusca quale ci è rivelata da iscrizioni di piena età ellenistica in un’area che si estende per l’appunto tra Chiusi e Perugia. Qui ricorrono infatti gentilizi formati sull’etnonimo umre (umrana, umrina ecc.), di oriundi umbri dunque, di prima o seconda generazione. Ma ho proposto anche di riconoscervi nomi etruschi autonomamente formati, secondo un costume attestato nel mondo italico (Quintus, Sextus, Septimius, Octavius…) che pareva finora latitante in quello etrusco, sulla base di numerali etruschi ben riconoscibili: semφ-, cezp-, nurφ-, (“sette”, “otto”, “nove”, da cui Caspre, Sepre, Nufre). Ciò che confermerebbe il panorama nel quale ci troviamo immersi, dove gli scambi e le reciproche interferenze si mescolano e fioriscono su un solido fondo di almeno parziali (e cioè localmente circoscritte) affinità culturali. La lezione forse più durevole impartita dal mondo etrusco agli Umbri è stato l’alfabeto stesso.

L’Etruria esibisce una consuetudine e dimestichezza con l’uso della scrittura, tipica di una società precocemente urbanizzata, che ne determina una evoluzione continua che il mondo umbro non richiede e dunque non sviluppa in modo autonomo. E se il riconoscimento di una iscrizione redatta in un alfabeto definito “proto-umbro” su di un cratere a colonnette in bucchero databile tra il VII e il VI sec. a. C. e rinvenuto nella necropoli del Ferrone di Tolfa, ci mostra che anche gli Umbri, come altre comunità linguistiche dell’Italia antica - tra cui i Latini, i Sabini, i Falisci - si dettero prontamente un alfabeto (forse più come segno di autoidentificazione “nazionale” che come strumento pratico di comunicazione), è un fatto che nelle rarefatte occasioni di ricorso alla scrittura, per lo più di carattere religioso e pubblico, offerte alle comunità umbre dal loro proprio modus vivendi, viene preso a modello e strumento l’alfabeto presentato pro tempore dal centro etrusco più vicino e influente: così per quello impiegato nella versione più antica del maggior testo umbro, le Tavole Iguvine, è stato suggerito un modello elaborato fra Chiusi, Cortona e Perugia, mentre l’estensore delle dediche a Cupra da Colfiorito sembra piuttosto aver guardato in direzione di Volsinii. Proprio intorno a Perugia continuerà a gravitare, forse favorito anche dalla vocazione multiculturale della città, un polo di tradizioni scrittorie cui dobbiamo un costume - anche “editoriale” - capace di attraversare il confine e dettare la stesura di grandi testi di rilevanza pubblica, come quelli rituali contenuti nel Liber linteus di Zagabria (fig. 12) e nelle prime Tavole Iguvine (fig. 2), o quelli pubblicati nella Tabula Cortonensis (fig. 13) o nello stesso Cippo Perugino.Certo è, che le grandi città etrusche prossime al confine esercitarono presto una grande attrazione sulle genti umbre d’Oltre Tevere: non solo come luoghi di produzione esse stesse e punti di rilancio di beni suntuari di produzione più remota che le necropoli umbre mostrano da tempo apprezzati ed esibiti, ma come modelli di coesistenza strutturata capaci di interlocuzioni di più vasto respiro: e la migrazione verso di essi sembra avere anticipato di almeno due secoli la piena urbanizzazione dei loro propri antichi insediamenti. Ne fanno fede, a Volsinii, i Fulvi, i Flavi, i Blaesi il cui nome etruschizzato in gentilizio li mostra già dal VI sec. a.C. integrati al ceto dominante della città, mentre il fanum Voltumnae, il grande santuario federale etrusco, richiamava là annualmente - certo non da solo - “per antica consuetudine” un rappresentante ufficiale (sacerdos) delle comunità umbre. Concluderò con un passo indietro nel tempo. Nell’anonimo guerriero cui venne eretta, agli inizi del VI sec. a. C., la stele rinvenuta a Montegualandro, a nord-ovest di Tuoro sul Trasimeno (fig. 14), è stato riconosciuto un “uomo d’arme” di quelli che, tra VII e VI secolo appunto, troviamo attivi tra quel mondo italico da cui molti di loro provengono e le città etrusche maggiori. La stele tace sulla sua identità, mentre complessi epitaffi corredano le stele erette in onore di quei suoi predecessori e colleghi sepolti nelle città cui erano emigrati. Primo tra questi è l’Auvele Feluskes, di origini falische, raffigurato sulla nota stele di Vetulonia e là attivo nella seconda metà del VII sec. a. C. Colpisce qui, nella “muta” Vetulonia, la ricchezza della formula onomastica, completa di patronimico e metronimico, chiamata a designarlo, e ancor più il formulario adottato (che ricorre significativamente in altre stele simili) in cui l’indicazione di pertinenza - solitamente sufficiente in epigrafi funerarie - è nettamente distinta dalla vera e propria dedica del monumento, qui mutuata dal frasario votivo o del dono (mini muluvaneke). Ciò suona, già di per sé, conferma di un rapporto tra dedicante e dedicatario che prevale sulla consanguineità e la esclude. Si è pensato a sodalità tra compagni d’arme: ipotesi in sé plausibile (e tornano alla mente i due illustri personaggi - “prigionieri” ma accuditi con palese rispetto, e l’uno subordinato all’altro - raffigurati sul cratere ceretano che abbiamo ricordato all’inizio (fig. 4), ai quali forse si prospettava un analogo destino di servitù e di

gloria?); ma non mi sembra da escludere, con parziale ribaltamento del ruolo solitamente ipotizzato fra i due, che il dedicante, Hirumina, fosse l’indigeno d’alto rango (nelle) cui (file) Auvele aveva offerto i propri servigi: ciò che conferirebbe al suo gesto proprio il sapore che la formula adottata adombra (scioglimento d’un voto), e alla esauriente e articolata presentazione del “capitano di ventura” quasi il sapore di un curriculum vitae a beneficio di quanti l’avevano visto all’opera, ma cui era estraneo. Ciò che al dedicatario della stele di Montegualandro non serviva: era probabilmente il suo luogo di nascita il piccolo borgo sul confine tra Perugia e Cortona cui aveva fatto ritorno in vita e in cui fu sepolto.Resta dunque chiara la testimonianza di una ulteriore e antica forma di mobilità che coinvolse certo anche il mondo umbro ed ebbe a protagonisti capi guerrieri italici in cerca di fortuna nelle città etrusche.

Page 6: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversaFRANCESCO RONCALLI

Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro in realtà includeva e celava quello, più impegnativo, ad entrare direttamente nel merito del tema prescelto, ho pensato che la sola cosa – e la più onesta - da fare fosse raccogliere alcune mie osservazioni e riflessioni maturate lungo l’arco di quasi mezzo secolo di dimestichezza con la materia e provare a ordinarle secondo il filo logico più rispondente alle intenzioni del committente.Cominciando dal titolo. Perché la prossimità geografica fra Etruschi e Umbri ha per l’appunto i connotati, ab origine, di un vicinato attivo in entrambe le direzioni – non è sempre così anche tra popoli confinanti – ben oltre la sfera del semplice scambio commerciale.È il “padre” della storiografia occidentale, Erodoto, a dircelo con parole che il titolo che ho scelto non fa che parafrasare e integrare, nel celebre passo delle Storie (I, 94) in cui racconta di come i Lidi, in cerca di nuove terre spinti da una prolungata carestia, dopo lunga navigazione approdarono “presso gli Umbri” e vi si stabilirono fondandovi le loro città.Della realtà e antichità di questo incontro le testimonianze archeologiche sono ormai molteplici: ma alcune di queste, pur cronologicamente pertinenti ai tempi che chiamiamo “storici”, sembrano, per loro natura, in grado di risospingerlo indietro, ben oltre la soglia segnata dalla conoscenza e dall’uso della scrittura presso entrambe quelle civiltà.Tra le prime e più significative vi è quella offertaci da una serie di piatti di impasto rosso, prodotti a Cerveteri nel VII sec. a.C., di provenienza tombale, corredati da scritte indicanti il nome del proprietario nonché quello che in etrusco designava il tipo di vaso cui furono apposte: “spanti”, dunque equivalente appunto al nostro “piatto” (fig. 1). Il termine ricorre identico nella Tavola Iguvina IV, 2 (fig. 2), dove designa la superficie piana dell’altare sul quale si compiono le azioni rituali prescritte. A dispetto della seriorità del documento umbro rispetto a quelli etruschi, e pur prescindendo da considerazioni linguistiche, che si tratti di un termine umbro importato in Etruria e non viceversa, è confermato sia dalla ben attestata propensione etrusca ad importare il “bene” – materiale o immateriale: un oggetto, un personaggio del mito, un costume – unitamente al nome che lo designa “alla fonte” (basta pensare alla serie di nomi di vasi pertinenti al simposio che l’Etruria ha attinto al lessico greco, certo “convogliati” dalla importazione dalla Grecia di quel costume), sia dal fatto che il carattere eminentemente religioso (dove le tradizioni sono gelosissime) dell’oggetto del culto che il termine designa non è compatibile con una sua estrazione esotica, profana e “minore”, chiamato com’è a indicare nientemeno che una parte dell’altare (alla cui “mensa” mai potrebbe applicarsi il termine “piatto”, né al “calice” quello di “bicchiere”!). Il fatto dunque sembra accreditare il mondo umbro di un prestigio in materia religiosa che non può essersi limitato all’accoglimento isolato di una parola: e sappiamo bene che quella religiosa non è componente secondaria del profilo culturale etrusco quale lo vedevano e definivano le civiltà contemporanee.Che del resto proprio in questo campo l’Etruria possa fornire riscontri archeologici concreti a prassi rituali condivise con gli Umbri, lo mostra con grande evidenza il caso del noto “altarino” in pietra rinvenuto nel santuario della necropoli orvietana della Cannicella (fig. 3), le cui caratteristiche sia strutturali che formali lo indicano funzionale ad atti rituali che si compivano sia al di sopra che al di sotto di esso, destinati pertanto, presumibilmente, sia a divinità uranie che ctonie: ciò che richiama direttamente – anche per le modeste dimensioni - proprio quell’ereçlo- (“arula, altarino” appunto) menzionato nella medesima Tavola (IV, 17, 19), “sotto” e “sopra” il quale (supu e super rispettivamente) il sacerdote officiante era chiamato a compiere, inginocchiato (kunikaz), operazioni cultuali distinte.

Ma Erodoto, in quel celebre passo, ci dice anche dell’altro: “… e lì costruirono le loro città, che abitano tuttora”. Non avrebbe certo mancato di dire, se del caso, che si era trattato di una conquista o occupazione di città umbre da parte degli Etruschi, visto che comunque era là, “presso gli Umbri”, ch’essi si erano insediati. Ma no: le città, come lui le vede, sono una novità, una creatura dei Tirreni, cioè etrusca. Non dobbiamo chiedere a Erodoto quello che non gli interessa di dire: e cioè che anche gli Umbri conoscevano insediamenti stabili, anche cospicui, entro strutture verosimilmente edificate e comunità organizzate: ai suoi occhi il modus habitandi etrusco è incentrato su di un rapporto stabile e strutturato città-territorio, mentre quello umbro evoca ai suoi occhi un orizzonte culturale pre-urbano, caratterizzato da mobilità agricolo-pastorale e colorato, si direbbe, come vedremo, dall’esotismo dei “popoli dell’interno”. Di una alterità, appunto, che assume i connotati espliciti della superiorità etrusca (esaltata dalla interpretatio greca) e dell’esotismo umbro ci parla un cratere corinzio conservato al Louvre, rinvenuto in una tomba di Cerveteri e databile entro il primo quarto del VI sec. a.C. (figg. 4a-b), su una faccia del quale è rappresentato un episodio di chiaro sapore farsesco che vede un attore con maschera di satiro danzare mentre un altro suona gli aulòi, e due altri ancora, intenti a trasportare (rubare?) un’anfora di vino, sono minacciati da un personaggio anch’esso a suo modo mascherato (da un gigantesco fallo) che li minaccia armato di due bastoni. Ebbene: le dramatis personae sono così denominate dalle scritte che corredano il quadretto: la coppia musico/danzatore “Buontempone” (Eunos), la coppia di ladruncoli “Filantropo” (Ophelandros); e il minaccioso e superdotato guastafeste? “Umbro” (Omriqòs). Dove il conseguito status evidentemente servile è corredato, nel racconto greco-etrusco, di tratti peculiari o mostruosi, quasi associando il nostro (esperto guardiano?) a creature malnote o leggendarie come Pigmei, Sciapodi, Blemmi, Antipodi… Anche sull’altra faccia del vaso ci vengono riproposti l’esotico e il gigantesco. Ma qui il gigante è un personaggio di rango, che giace a terra, forse ferito e fatto prigioniero insieme al suo sodale che, le caviglie chiuse e legate entro pesanti anelli, lo accudisce passandogli il cibo imbandito per lui e recatogli da una donna, in un ambiente che una serie di crateri impilati qualifica come una cantina. E come la funzione del luogo collega il tema a quello della opposta faccia del vaso (che, ricordiamo, è esso stesso un cratere!), così anche quel nobile prigioniero e il suo “attendente” – che dritti in piedi sovrasterebbero dell’intero busto la statura della donna – potrebbero condividere le origini di quel guardiano, o comunque ricondursi ad esse: se è vero che le strane “gabbie” in cui ci appaiono chiuse le teste dei due prigionieri trovano l’unico riscontro archeologico disponibile in quelle, di ferro, che ricoprono – senza tuttavia avvolgerle interamente – la testa di due personaggi, un uomo e una donna, sepolti nella necropoli ternana di S. Pietro in Campo-ex Poligrafico Alterocca, riportati in luce dagli scavi che la Soprintendenza archeologica per l’Umbria vi ha condotto tra il 1996 e il 1999 (fig. 5). Quale che ne fosse la vera natura e funzione (forse soltanto funeraria), è possibile che il ricordo del singolarissimo costume invalso tra gli Umbri Nahartes nel VII sec. a.C. sia pervenuto, deformato e promosso a connotato “etnico”, all’orecchio del ceramografo greco, magari per il tramite del ricco committente ceretano? Ma ascoltiamo altre voci. Anche Dionisio di Alicarnasso, nelle sue Antichità Romane (I, 20, 4), ci parla, pure a distanza di quattro secoli e nel quadro di un racconto diverso, di una sovrapposizione dei Pelasgi (poi Tirreni-Etruschi) sugli Umbri. Dunque anche qui la presenza umbra è vista precedere quella etrusca: ma il quadro incomincia a farsi variegato. Perché qui gli Umbri una loro “grande città” l’avevano: Cortona, prima che i Pelasgi la conquistassero; ma annotiamo il fatto che, pur essendo, i secondi, sospinti da fame di terra, la ricchezza di Cortona è connotata soprattutto da ricchi pascoli (eubòtos chòra), ciò che ben si attaglia al profilo economico e

culturale che conosciamo peculiare delle genti che gravitavano attorno alla dorsale appenninica. Notiamo anche che, “prima della città” la presenza degli Umbri (gens antiquissima Italiae secondo Plinio, anzi “antidiluviani” secondo una pseudo-etimologia greca del loro nome ch’egli annota!) spinge le proprie tracce anche a occidente del Tevere e che, una volta assestatesi le due etnìe – etrusca e umbra - nelle rispettive sedi storiche, si delineano marginali e assidui conflitti (menzionati anch’essi da Plinio, Nat. Hist., III 14-15, e da Strabone, Geografia, V I 10) che, non spostando sostanzialmente il confine consolidato, sanno più di reciproche scorrerie e sconfinamenti che di vere e proprie migrazioni e conquiste. È forse appunto una di queste fortunate imprese quella che un illustre etrusco di Perugia, agli inizi del V sec. a.C., celebra tra le res gestae proprie o, più probabilmente, di un proprio avo, addirittura dettandola a una rinomata bottega di Chiusi come tema da raffigurare sulla fronte del proprio sarcofago, rinvenuto in una tomba della necropoli dello Sperandio, a settentrione della città (fig. 6). Qui la conquista è sintetizzata nell’avanzare di un animato corteo di uomini e animali (montoni e muli carichi delle loro some), preceduto da tre personaggi chiaramente vittime della cattura e simbolo del bene conquistato: essi procedono infatti legati per il collo l’uno all’altro, recano sulle spalle una pecora e il rozzo taglio dei capelli “a ciotola” – in netto contrasto con l’educata acconciatura alla moda ellenica degli altri – li qualifica chiaramente come rustici e, letteralmente, “inurbani”: pastori. Abbiamo qui il ricordo di una incursione etrusca con razzia di bestiame in terra umbra, o della conquista di una delle loro cittadelle “ricche” - come la grande Cortona – “di pascoli”?Che i signori umbri dell’entroterra, del resto, fossero i primi a definire la propria ricchezza in termini di possesso di bestiame e terre da pascolo ce lo dimostra, pochi decenni dopo (l’esibizione de) la fortunata impresa dell’aristocratico perugino, un ricco possidente umbro, inumato nella tomba 12 della necropoli in località Malpasso di Gualdo Tadino, nel cui corredo spicca un cratere attico a figure rosse, databile nel secondo quarto del V sec. a.C.; qui, sulla faccia principale campeggia Argo, l’occhiuto custode di Io, la fanciulla amata da Giove e da lui trasformata in giovenca per sottrarla alla gelosia di Giunone (fig. 7). È certo da ricondurre a una scelta del committente umbro la rara raffigurazione di Argo vivo e minaccioso anziché vittima soccombente all’assalto di Hermes (tema, questo, assai più familiare fra i ceramisti attici e i loro clienti etruschi “cittadini di città”): e come la candida giovenca è efficace marchio di qualità del patrimonio vantato dal signorotto tadinate, così il mitico guardiano onniveggente lo è della sua capacità di difenderlo. L’archeologia, dunque, conferma e arricchisce questo quadro fatto di vicinanza a tratti conflittuale e di una alterità culturale che non esclude condivisioni, contaminazioni, integrazione ed emulazione. Che mandrie e greggi – per loro costume irriguardose di confini politici! – fossero risorse condivise da Etruschi e Umbri nell’intero distretto collinare fra Tevere e Trasimeno lo abbiamo già visto affermato per Cortona “dai ricchi pascoli” e lo mostrano i numerosi ex-voto che vediamo deposti nei santuari della zona (da Monte Acuto di Umbertide al Pasticcetto di Magione). Ebbene: proprio a una bottega di bronzisti di quella Cortona che dedica al culto locale preziosi ex-voto, l’uno raffigurante Culsans, dio bifronte delle porte urbiche (fig. 8), e l’altro Selvans, dio dei confini territoriali (divinità preposte entrambe, dunque, alla stanzialità sia nella sua accezione pubblica che privata), penso sia da attribuire una statuina votiva coeva, rinvenuta dalle parti di Città di Castello, che però ci rinvia a tutt’altro panorama (fig. 9a-b). Essa rappresenta infatti uno strano personaggio dalla testa ritorta, il volto dal lato delle spalle. Lo schema iconografico dell’uomo che avanza con la testa rivolta indietro è già di casa nella Volsinii multietnica del VI sec.

a.C., dove si affianca, nella locale produzione vascolare in bucchero, a quello dell’uomo gradiente armato di lancia: così associando l’immagine del (capo) guerriero a quella del (capo) pastore. Nella creatura raffigurata dal nostro bronzetto, databile al IV sec. a.C., ho proposto di riconoscere l’immagine di una divinità - forse condivisa dal pantheon etrusco e umbro? - protettrice di mandrie e greggi: essa indossa, non a caso, una pelle di lupo, nemico atavico delle medesime, mentre il gesto occasionale di un accorto mandriano – guardarsi attorno e alle spalle - è trasformato in eccezionale attributo congenito del dio. Perugia stessa, del resto, dà più di un segno della prossimità e occasionale sovrapposizione dei due orizzonti culturali e linguistici. Il primo, e più significativo, ho da tempo proposto di riconoscerlo nell’ormai celebre “alfabetario” etrusco, databile attorno alla metà del VI sec. a.C., inciso sotto il piede di una coppa di bucchero relitto del corredo di una tomba sita a occidente della città (Via Pellini) (fig. 10). Qui vediamo un alfabeto etrusco di tipo settentrionale “modificato” alle cui ultime due lettere (φ e χ) una diversa mano ne ha sovrapposte quattro (a b a t) di proporzioni maggiori. L’intenzione di obliterare le une aggiungendo le altre è resa evidente dallo spazio che il secondo scriba avrebbe avuto a disposizione, se fosse stato interessato soltanto all’aggiunta. Senza tornare qui su argomentazioni già da me esposte a suo tempo, mi limito a riconoscere nel possessore del vasetto - e suggeritore della modifica - un perugino di origine umbra, forsebilingue ma certamente di attitudini fonatorie “umbrofone”, cui erano estranee le lettere obliterate, mentre quelle aggiunte lo erano all’alfabeto etrusco pre-confezionato sulla sua coppa, “modificato” appunto in tal senso rispetto all’antico modello greco euboico.Di circa due secoli più tarda è la coppia di schinieri in bronzo rinvenuti in una ricca tomba della necropoli perugina del Frontone, sui quali è ripetuta la dicitura tvtas, che inequivocabilmente ne fa l’oggetto di una assegnazione “pubblica” (fig. 11). La schietta origine italica del termine ha portato gli studiosi a privilegiare l’interpretazione della loro presenza nella tomba come parte di un bottino di guerra umbro, caduto in mano dell’etrusco ivi sepolto. In tal caso il documento andrebbe ad arricchire il dossier dei conflitti umbro-etruschi cui abbiamo fatto cenno. Ma il contesto archeologico indica, proprio in quegli anni, Perugia come il centro di produzione di splendide panoplie - non certo attribuibili a fabbrica umbra - simili a quella esibita in questa tomba, alla quale si aggiunge la testimonianza di una seconda coppia di schinieri (purtroppo perduti) marcati dallo stesso termine e rinvenuti nella tomba dei Volumni: ciò che mi induce a suggerire (lectio certo difficilior!) che il termine di origine umbra possa essere stato precocemente acquisito, a Perugia, dal lessico istituzionale etrusco e qui sia passato, con uno slittamento semantico non incomprensibile, ad indicare non più il corpo civico in quanto tale (in etrusco spur-), ma la comunità degli armati, l’esercito. Il che trasferirebbe la testimonianza resa da questi schinieri al livello di cui stiamo appunto discorrendo.È da inserire in questo stesso contesto, a mio avviso, anche un connotato che appare peculiare della onomastica personale etrusca quale ci è rivelata da iscrizioni di piena età ellenistica in un’area che si estende per l’appunto tra Chiusi e Perugia. Qui ricorrono infatti gentilizi formati sull’etnonimo umre (umrana, umrina ecc.), di oriundi umbri dunque, di prima o seconda generazione. Ma ho proposto anche di riconoscervi nomi etruschi autonomamente formati, secondo un costume attestato nel mondo italico (Quintus, Sextus, Septimius, Octavius…) che pareva finora latitante in quello etrusco, sulla base di numerali etruschi ben riconoscibili: semφ-, cezp-, nurφ-, (“sette”, “otto”, “nove”, da cui Caspre, Sepre, Nufre). Ciò che confermerebbe il panorama nel quale ci troviamo immersi, dove gli scambi e le reciproche interferenze si mescolano e fioriscono su un solido fondo di almeno parziali (e cioè localmente circoscritte) affinità culturali. La lezione forse più durevole impartita dal mondo etrusco agli Umbri è stato l’alfabeto stesso.

L’Etruria esibisce una consuetudine e dimestichezza con l’uso della scrittura, tipica di una società precocemente urbanizzata, che ne determina una evoluzione continua che il mondo umbro non richiede e dunque non sviluppa in modo autonomo. E se il riconoscimento di una iscrizione redatta in un alfabeto definito “proto-umbro” su di un cratere a colonnette in bucchero databile tra il VII e il VI sec. a. C. e rinvenuto nella necropoli del Ferrone di Tolfa, ci mostra che anche gli Umbri, come altre comunità linguistiche dell’Italia antica - tra cui i Latini, i Sabini, i Falisci - si dettero prontamente un alfabeto (forse più come segno di autoidentificazione “nazionale” che come strumento pratico di comunicazione), è un fatto che nelle rarefatte occasioni di ricorso alla scrittura, per lo più di carattere religioso e pubblico, offerte alle comunità umbre dal loro proprio modus vivendi, viene preso a modello e strumento l’alfabeto presentato pro tempore dal centro etrusco più vicino e influente: così per quello impiegato nella versione più antica del maggior testo umbro, le Tavole Iguvine, è stato suggerito un modello elaborato fra Chiusi, Cortona e Perugia, mentre l’estensore delle dediche a Cupra da Colfiorito sembra piuttosto aver guardato in direzione di Volsinii. Proprio intorno a Perugia continuerà a gravitare, forse favorito anche dalla vocazione multiculturale della città, un polo di tradizioni scrittorie cui dobbiamo un costume - anche “editoriale” - capace di attraversare il confine e dettare la stesura di grandi testi di rilevanza pubblica, come quelli rituali contenuti nel Liber linteus di Zagabria (fig. 12) e nelle prime Tavole Iguvine (fig. 2), o quelli pubblicati nella Tabula Cortonensis (fig. 13) o nello stesso Cippo Perugino.Certo è, che le grandi città etrusche prossime al confine esercitarono presto una grande attrazione sulle genti umbre d’Oltre Tevere: non solo come luoghi di produzione esse stesse e punti di rilancio di beni suntuari di produzione più remota che le necropoli umbre mostrano da tempo apprezzati ed esibiti, ma come modelli di coesistenza strutturata capaci di interlocuzioni di più vasto respiro: e la migrazione verso di essi sembra avere anticipato di almeno due secoli la piena urbanizzazione dei loro propri antichi insediamenti. Ne fanno fede, a Volsinii, i Fulvi, i Flavi, i Blaesi il cui nome etruschizzato in gentilizio li mostra già dal VI sec. a.C. integrati al ceto dominante della città, mentre il fanum Voltumnae, il grande santuario federale etrusco, richiamava là annualmente - certo non da solo - “per antica consuetudine” un rappresentante ufficiale (sacerdos) delle comunità umbre. Concluderò con un passo indietro nel tempo. Nell’anonimo guerriero cui venne eretta, agli inizi del VI sec. a. C., la stele rinvenuta a Montegualandro, a nord-ovest di Tuoro sul Trasimeno (fig. 14), è stato riconosciuto un “uomo d’arme” di quelli che, tra VII e VI secolo appunto, troviamo attivi tra quel mondo italico da cui molti di loro provengono e le città etrusche maggiori. La stele tace sulla sua identità, mentre complessi epitaffi corredano le stele erette in onore di quei suoi predecessori e colleghi sepolti nelle città cui erano emigrati. Primo tra questi è l’Auvele Feluskes, di origini falische, raffigurato sulla nota stele di Vetulonia e là attivo nella seconda metà del VII sec. a. C. Colpisce qui, nella “muta” Vetulonia, la ricchezza della formula onomastica, completa di patronimico e metronimico, chiamata a designarlo, e ancor più il formulario adottato (che ricorre significativamente in altre stele simili) in cui l’indicazione di pertinenza - solitamente sufficiente in epigrafi funerarie - è nettamente distinta dalla vera e propria dedica del monumento, qui mutuata dal frasario votivo o del dono (mini muluvaneke). Ciò suona, già di per sé, conferma di un rapporto tra dedicante e dedicatario che prevale sulla consanguineità e la esclude. Si è pensato a sodalità tra compagni d’arme: ipotesi in sé plausibile (e tornano alla mente i due illustri personaggi - “prigionieri” ma accuditi con palese rispetto, e l’uno subordinato all’altro - raffigurati sul cratere ceretano che abbiamo ricordato all’inizio (fig. 4), ai quali forse si prospettava un analogo destino di servitù e di

gloria?); ma non mi sembra da escludere, con parziale ribaltamento del ruolo solitamente ipotizzato fra i due, che il dedicante, Hirumina, fosse l’indigeno d’alto rango (nelle) cui (file) Auvele aveva offerto i propri servigi: ciò che conferirebbe al suo gesto proprio il sapore che la formula adottata adombra (scioglimento d’un voto), e alla esauriente e articolata presentazione del “capitano di ventura” quasi il sapore di un curriculum vitae a beneficio di quanti l’avevano visto all’opera, ma cui era estraneo. Ciò che al dedicatario della stele di Montegualandro non serviva: era probabilmente il suo luogo di nascita il piccolo borgo sul confine tra Perugia e Cortona cui aveva fatto ritorno in vita e in cui fu sepolto.Resta dunque chiara la testimonianza di una ulteriore e antica forma di mobilità che coinvolse certo anche il mondo umbro ed ebbe a protagonisti capi guerrieri italici in cerca di fortuna nelle città etrusche.

Page 7: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversaFRANCESCO RONCALLI

Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro in realtà includeva e celava quello, più impegnativo, ad entrare direttamente nel merito del tema prescelto, ho pensato che la sola cosa – e la più onesta - da fare fosse raccogliere alcune mie osservazioni e riflessioni maturate lungo l’arco di quasi mezzo secolo di dimestichezza con la materia e provare a ordinarle secondo il filo logico più rispondente alle intenzioni del committente.Cominciando dal titolo. Perché la prossimità geografica fra Etruschi e Umbri ha per l’appunto i connotati, ab origine, di un vicinato attivo in entrambe le direzioni – non è sempre così anche tra popoli confinanti – ben oltre la sfera del semplice scambio commerciale.È il “padre” della storiografia occidentale, Erodoto, a dircelo con parole che il titolo che ho scelto non fa che parafrasare e integrare, nel celebre passo delle Storie (I, 94) in cui racconta di come i Lidi, in cerca di nuove terre spinti da una prolungata carestia, dopo lunga navigazione approdarono “presso gli Umbri” e vi si stabilirono fondandovi le loro città.Della realtà e antichità di questo incontro le testimonianze archeologiche sono ormai molteplici: ma alcune di queste, pur cronologicamente pertinenti ai tempi che chiamiamo “storici”, sembrano, per loro natura, in grado di risospingerlo indietro, ben oltre la soglia segnata dalla conoscenza e dall’uso della scrittura presso entrambe quelle civiltà.Tra le prime e più significative vi è quella offertaci da una serie di piatti di impasto rosso, prodotti a Cerveteri nel VII sec. a.C., di provenienza tombale, corredati da scritte indicanti il nome del proprietario nonché quello che in etrusco designava il tipo di vaso cui furono apposte: “spanti”, dunque equivalente appunto al nostro “piatto” (fig. 1). Il termine ricorre identico nella Tavola Iguvina IV, 2 (fig. 2), dove designa la superficie piana dell’altare sul quale si compiono le azioni rituali prescritte. A dispetto della seriorità del documento umbro rispetto a quelli etruschi, e pur prescindendo da considerazioni linguistiche, che si tratti di un termine umbro importato in Etruria e non viceversa, è confermato sia dalla ben attestata propensione etrusca ad importare il “bene” – materiale o immateriale: un oggetto, un personaggio del mito, un costume – unitamente al nome che lo designa “alla fonte” (basta pensare alla serie di nomi di vasi pertinenti al simposio che l’Etruria ha attinto al lessico greco, certo “convogliati” dalla importazione dalla Grecia di quel costume), sia dal fatto che il carattere eminentemente religioso (dove le tradizioni sono gelosissime) dell’oggetto del culto che il termine designa non è compatibile con una sua estrazione esotica, profana e “minore”, chiamato com’è a indicare nientemeno che una parte dell’altare (alla cui “mensa” mai potrebbe applicarsi il termine “piatto”, né al “calice” quello di “bicchiere”!). Il fatto dunque sembra accreditare il mondo umbro di un prestigio in materia religiosa che non può essersi limitato all’accoglimento isolato di una parola: e sappiamo bene che quella religiosa non è componente secondaria del profilo culturale etrusco quale lo vedevano e definivano le civiltà contemporanee.Che del resto proprio in questo campo l’Etruria possa fornire riscontri archeologici concreti a prassi rituali condivise con gli Umbri, lo mostra con grande evidenza il caso del noto “altarino” in pietra rinvenuto nel santuario della necropoli orvietana della Cannicella (fig. 3), le cui caratteristiche sia strutturali che formali lo indicano funzionale ad atti rituali che si compivano sia al di sopra che al di sotto di esso, destinati pertanto, presumibilmente, sia a divinità uranie che ctonie: ciò che richiama direttamente – anche per le modeste dimensioni - proprio quell’ereçlo- (“arula, altarino” appunto) menzionato nella medesima Tavola (IV, 17, 19), “sotto” e “sopra” il quale (supu e super rispettivamente) il sacerdote officiante era chiamato a compiere, inginocchiato (kunikaz), operazioni cultuali distinte.

Ma Erodoto, in quel celebre passo, ci dice anche dell’altro: “… e lì costruirono le loro città, che abitano tuttora”. Non avrebbe certo mancato di dire, se del caso, che si era trattato di una conquista o occupazione di città umbre da parte degli Etruschi, visto che comunque era là, “presso gli Umbri”, ch’essi si erano insediati. Ma no: le città, come lui le vede, sono una novità, una creatura dei Tirreni, cioè etrusca. Non dobbiamo chiedere a Erodoto quello che non gli interessa di dire: e cioè che anche gli Umbri conoscevano insediamenti stabili, anche cospicui, entro strutture verosimilmente edificate e comunità organizzate: ai suoi occhi il modus habitandi etrusco è incentrato su di un rapporto stabile e strutturato città-territorio, mentre quello umbro evoca ai suoi occhi un orizzonte culturale pre-urbano, caratterizzato da mobilità agricolo-pastorale e colorato, si direbbe, come vedremo, dall’esotismo dei “popoli dell’interno”. Di una alterità, appunto, che assume i connotati espliciti della superiorità etrusca (esaltata dalla interpretatio greca) e dell’esotismo umbro ci parla un cratere corinzio conservato al Louvre, rinvenuto in una tomba di Cerveteri e databile entro il primo quarto del VI sec. a.C. (figg. 4a-b), su una faccia del quale è rappresentato un episodio di chiaro sapore farsesco che vede un attore con maschera di satiro danzare mentre un altro suona gli aulòi, e due altri ancora, intenti a trasportare (rubare?) un’anfora di vino, sono minacciati da un personaggio anch’esso a suo modo mascherato (da un gigantesco fallo) che li minaccia armato di due bastoni. Ebbene: le dramatis personae sono così denominate dalle scritte che corredano il quadretto: la coppia musico/danzatore “Buontempone” (Eunos), la coppia di ladruncoli “Filantropo” (Ophelandros); e il minaccioso e superdotato guastafeste? “Umbro” (Omriqòs). Dove il conseguito status evidentemente servile è corredato, nel racconto greco-etrusco, di tratti peculiari o mostruosi, quasi associando il nostro (esperto guardiano?) a creature malnote o leggendarie come Pigmei, Sciapodi, Blemmi, Antipodi… Anche sull’altra faccia del vaso ci vengono riproposti l’esotico e il gigantesco. Ma qui il gigante è un personaggio di rango, che giace a terra, forse ferito e fatto prigioniero insieme al suo sodale che, le caviglie chiuse e legate entro pesanti anelli, lo accudisce passandogli il cibo imbandito per lui e recatogli da una donna, in un ambiente che una serie di crateri impilati qualifica come una cantina. E come la funzione del luogo collega il tema a quello della opposta faccia del vaso (che, ricordiamo, è esso stesso un cratere!), così anche quel nobile prigioniero e il suo “attendente” – che dritti in piedi sovrasterebbero dell’intero busto la statura della donna – potrebbero condividere le origini di quel guardiano, o comunque ricondursi ad esse: se è vero che le strane “gabbie” in cui ci appaiono chiuse le teste dei due prigionieri trovano l’unico riscontro archeologico disponibile in quelle, di ferro, che ricoprono – senza tuttavia avvolgerle interamente – la testa di due personaggi, un uomo e una donna, sepolti nella necropoli ternana di S. Pietro in Campo-ex Poligrafico Alterocca, riportati in luce dagli scavi che la Soprintendenza archeologica per l’Umbria vi ha condotto tra il 1996 e il 1999 (fig. 5). Quale che ne fosse la vera natura e funzione (forse soltanto funeraria), è possibile che il ricordo del singolarissimo costume invalso tra gli Umbri Nahartes nel VII sec. a.C. sia pervenuto, deformato e promosso a connotato “etnico”, all’orecchio del ceramografo greco, magari per il tramite del ricco committente ceretano? Ma ascoltiamo altre voci. Anche Dionisio di Alicarnasso, nelle sue Antichità Romane (I, 20, 4), ci parla, pure a distanza di quattro secoli e nel quadro di un racconto diverso, di una sovrapposizione dei Pelasgi (poi Tirreni-Etruschi) sugli Umbri. Dunque anche qui la presenza umbra è vista precedere quella etrusca: ma il quadro incomincia a farsi variegato. Perché qui gli Umbri una loro “grande città” l’avevano: Cortona, prima che i Pelasgi la conquistassero; ma annotiamo il fatto che, pur essendo, i secondi, sospinti da fame di terra, la ricchezza di Cortona è connotata soprattutto da ricchi pascoli (eubòtos chòra), ciò che ben si attaglia al profilo economico e

culturale che conosciamo peculiare delle genti che gravitavano attorno alla dorsale appenninica. Notiamo anche che, “prima della città” la presenza degli Umbri (gens antiquissima Italiae secondo Plinio, anzi “antidiluviani” secondo una pseudo-etimologia greca del loro nome ch’egli annota!) spinge le proprie tracce anche a occidente del Tevere e che, una volta assestatesi le due etnìe – etrusca e umbra - nelle rispettive sedi storiche, si delineano marginali e assidui conflitti (menzionati anch’essi da Plinio, Nat. Hist., III 14-15, e da Strabone, Geografia, V I 10) che, non spostando sostanzialmente il confine consolidato, sanno più di reciproche scorrerie e sconfinamenti che di vere e proprie migrazioni e conquiste. È forse appunto una di queste fortunate imprese quella che un illustre etrusco di Perugia, agli inizi del V sec. a.C., celebra tra le res gestae proprie o, più probabilmente, di un proprio avo, addirittura dettandola a una rinomata bottega di Chiusi come tema da raffigurare sulla fronte del proprio sarcofago, rinvenuto in una tomba della necropoli dello Sperandio, a settentrione della città (fig. 6). Qui la conquista è sintetizzata nell’avanzare di un animato corteo di uomini e animali (montoni e muli carichi delle loro some), preceduto da tre personaggi chiaramente vittime della cattura e simbolo del bene conquistato: essi procedono infatti legati per il collo l’uno all’altro, recano sulle spalle una pecora e il rozzo taglio dei capelli “a ciotola” – in netto contrasto con l’educata acconciatura alla moda ellenica degli altri – li qualifica chiaramente come rustici e, letteralmente, “inurbani”: pastori. Abbiamo qui il ricordo di una incursione etrusca con razzia di bestiame in terra umbra, o della conquista di una delle loro cittadelle “ricche” - come la grande Cortona – “di pascoli”?Che i signori umbri dell’entroterra, del resto, fossero i primi a definire la propria ricchezza in termini di possesso di bestiame e terre da pascolo ce lo dimostra, pochi decenni dopo (l’esibizione de) la fortunata impresa dell’aristocratico perugino, un ricco possidente umbro, inumato nella tomba 12 della necropoli in località Malpasso di Gualdo Tadino, nel cui corredo spicca un cratere attico a figure rosse, databile nel secondo quarto del V sec. a.C.; qui, sulla faccia principale campeggia Argo, l’occhiuto custode di Io, la fanciulla amata da Giove e da lui trasformata in giovenca per sottrarla alla gelosia di Giunone (fig. 7). È certo da ricondurre a una scelta del committente umbro la rara raffigurazione di Argo vivo e minaccioso anziché vittima soccombente all’assalto di Hermes (tema, questo, assai più familiare fra i ceramisti attici e i loro clienti etruschi “cittadini di città”): e come la candida giovenca è efficace marchio di qualità del patrimonio vantato dal signorotto tadinate, così il mitico guardiano onniveggente lo è della sua capacità di difenderlo. L’archeologia, dunque, conferma e arricchisce questo quadro fatto di vicinanza a tratti conflittuale e di una alterità culturale che non esclude condivisioni, contaminazioni, integrazione ed emulazione. Che mandrie e greggi – per loro costume irriguardose di confini politici! – fossero risorse condivise da Etruschi e Umbri nell’intero distretto collinare fra Tevere e Trasimeno lo abbiamo già visto affermato per Cortona “dai ricchi pascoli” e lo mostrano i numerosi ex-voto che vediamo deposti nei santuari della zona (da Monte Acuto di Umbertide al Pasticcetto di Magione). Ebbene: proprio a una bottega di bronzisti di quella Cortona che dedica al culto locale preziosi ex-voto, l’uno raffigurante Culsans, dio bifronte delle porte urbiche (fig. 8), e l’altro Selvans, dio dei confini territoriali (divinità preposte entrambe, dunque, alla stanzialità sia nella sua accezione pubblica che privata), penso sia da attribuire una statuina votiva coeva, rinvenuta dalle parti di Città di Castello, che però ci rinvia a tutt’altro panorama (fig. 9a-b). Essa rappresenta infatti uno strano personaggio dalla testa ritorta, il volto dal lato delle spalle. Lo schema iconografico dell’uomo che avanza con la testa rivolta indietro è già di casa nella Volsinii multietnica del VI sec.

a.C., dove si affianca, nella locale produzione vascolare in bucchero, a quello dell’uomo gradiente armato di lancia: così associando l’immagine del (capo) guerriero a quella del (capo) pastore. Nella creatura raffigurata dal nostro bronzetto, databile al IV sec. a.C., ho proposto di riconoscere l’immagine di una divinità - forse condivisa dal pantheon etrusco e umbro? - protettrice di mandrie e greggi: essa indossa, non a caso, una pelle di lupo, nemico atavico delle medesime, mentre il gesto occasionale di un accorto mandriano – guardarsi attorno e alle spalle - è trasformato in eccezionale attributo congenito del dio. Perugia stessa, del resto, dà più di un segno della prossimità e occasionale sovrapposizione dei due orizzonti culturali e linguistici. Il primo, e più significativo, ho da tempo proposto di riconoscerlo nell’ormai celebre “alfabetario” etrusco, databile attorno alla metà del VI sec. a.C., inciso sotto il piede di una coppa di bucchero relitto del corredo di una tomba sita a occidente della città (Via Pellini) (fig. 10). Qui vediamo un alfabeto etrusco di tipo settentrionale “modificato” alle cui ultime due lettere (φ e χ) una diversa mano ne ha sovrapposte quattro (a b a t) di proporzioni maggiori. L’intenzione di obliterare le une aggiungendo le altre è resa evidente dallo spazio che il secondo scriba avrebbe avuto a disposizione, se fosse stato interessato soltanto all’aggiunta. Senza tornare qui su argomentazioni già da me esposte a suo tempo, mi limito a riconoscere nel possessore del vasetto - e suggeritore della modifica - un perugino di origine umbra, forsebilingue ma certamente di attitudini fonatorie “umbrofone”, cui erano estranee le lettere obliterate, mentre quelle aggiunte lo erano all’alfabeto etrusco pre-confezionato sulla sua coppa, “modificato” appunto in tal senso rispetto all’antico modello greco euboico.Di circa due secoli più tarda è la coppia di schinieri in bronzo rinvenuti in una ricca tomba della necropoli perugina del Frontone, sui quali è ripetuta la dicitura tvtas, che inequivocabilmente ne fa l’oggetto di una assegnazione “pubblica” (fig. 11). La schietta origine italica del termine ha portato gli studiosi a privilegiare l’interpretazione della loro presenza nella tomba come parte di un bottino di guerra umbro, caduto in mano dell’etrusco ivi sepolto. In tal caso il documento andrebbe ad arricchire il dossier dei conflitti umbro-etruschi cui abbiamo fatto cenno. Ma il contesto archeologico indica, proprio in quegli anni, Perugia come il centro di produzione di splendide panoplie - non certo attribuibili a fabbrica umbra - simili a quella esibita in questa tomba, alla quale si aggiunge la testimonianza di una seconda coppia di schinieri (purtroppo perduti) marcati dallo stesso termine e rinvenuti nella tomba dei Volumni: ciò che mi induce a suggerire (lectio certo difficilior!) che il termine di origine umbra possa essere stato precocemente acquisito, a Perugia, dal lessico istituzionale etrusco e qui sia passato, con uno slittamento semantico non incomprensibile, ad indicare non più il corpo civico in quanto tale (in etrusco spur-), ma la comunità degli armati, l’esercito. Il che trasferirebbe la testimonianza resa da questi schinieri al livello di cui stiamo appunto discorrendo.È da inserire in questo stesso contesto, a mio avviso, anche un connotato che appare peculiare della onomastica personale etrusca quale ci è rivelata da iscrizioni di piena età ellenistica in un’area che si estende per l’appunto tra Chiusi e Perugia. Qui ricorrono infatti gentilizi formati sull’etnonimo umre (umrana, umrina ecc.), di oriundi umbri dunque, di prima o seconda generazione. Ma ho proposto anche di riconoscervi nomi etruschi autonomamente formati, secondo un costume attestato nel mondo italico (Quintus, Sextus, Septimius, Octavius…) che pareva finora latitante in quello etrusco, sulla base di numerali etruschi ben riconoscibili: semφ-, cezp-, nurφ-, (“sette”, “otto”, “nove”, da cui Caspre, Sepre, Nufre). Ciò che confermerebbe il panorama nel quale ci troviamo immersi, dove gli scambi e le reciproche interferenze si mescolano e fioriscono su un solido fondo di almeno parziali (e cioè localmente circoscritte) affinità culturali. La lezione forse più durevole impartita dal mondo etrusco agli Umbri è stato l’alfabeto stesso.

L’Etruria esibisce una consuetudine e dimestichezza con l’uso della scrittura, tipica di una società precocemente urbanizzata, che ne determina una evoluzione continua che il mondo umbro non richiede e dunque non sviluppa in modo autonomo. E se il riconoscimento di una iscrizione redatta in un alfabeto definito “proto-umbro” su di un cratere a colonnette in bucchero databile tra il VII e il VI sec. a. C. e rinvenuto nella necropoli del Ferrone di Tolfa, ci mostra che anche gli Umbri, come altre comunità linguistiche dell’Italia antica - tra cui i Latini, i Sabini, i Falisci - si dettero prontamente un alfabeto (forse più come segno di autoidentificazione “nazionale” che come strumento pratico di comunicazione), è un fatto che nelle rarefatte occasioni di ricorso alla scrittura, per lo più di carattere religioso e pubblico, offerte alle comunità umbre dal loro proprio modus vivendi, viene preso a modello e strumento l’alfabeto presentato pro tempore dal centro etrusco più vicino e influente: così per quello impiegato nella versione più antica del maggior testo umbro, le Tavole Iguvine, è stato suggerito un modello elaborato fra Chiusi, Cortona e Perugia, mentre l’estensore delle dediche a Cupra da Colfiorito sembra piuttosto aver guardato in direzione di Volsinii. Proprio intorno a Perugia continuerà a gravitare, forse favorito anche dalla vocazione multiculturale della città, un polo di tradizioni scrittorie cui dobbiamo un costume - anche “editoriale” - capace di attraversare il confine e dettare la stesura di grandi testi di rilevanza pubblica, come quelli rituali contenuti nel Liber linteus di Zagabria (fig. 12) e nelle prime Tavole Iguvine (fig. 2), o quelli pubblicati nella Tabula Cortonensis (fig. 13) o nello stesso Cippo Perugino.Certo è, che le grandi città etrusche prossime al confine esercitarono presto una grande attrazione sulle genti umbre d’Oltre Tevere: non solo come luoghi di produzione esse stesse e punti di rilancio di beni suntuari di produzione più remota che le necropoli umbre mostrano da tempo apprezzati ed esibiti, ma come modelli di coesistenza strutturata capaci di interlocuzioni di più vasto respiro: e la migrazione verso di essi sembra avere anticipato di almeno due secoli la piena urbanizzazione dei loro propri antichi insediamenti. Ne fanno fede, a Volsinii, i Fulvi, i Flavi, i Blaesi il cui nome etruschizzato in gentilizio li mostra già dal VI sec. a.C. integrati al ceto dominante della città, mentre il fanum Voltumnae, il grande santuario federale etrusco, richiamava là annualmente - certo non da solo - “per antica consuetudine” un rappresentante ufficiale (sacerdos) delle comunità umbre. Concluderò con un passo indietro nel tempo. Nell’anonimo guerriero cui venne eretta, agli inizi del VI sec. a. C., la stele rinvenuta a Montegualandro, a nord-ovest di Tuoro sul Trasimeno (fig. 14), è stato riconosciuto un “uomo d’arme” di quelli che, tra VII e VI secolo appunto, troviamo attivi tra quel mondo italico da cui molti di loro provengono e le città etrusche maggiori. La stele tace sulla sua identità, mentre complessi epitaffi corredano le stele erette in onore di quei suoi predecessori e colleghi sepolti nelle città cui erano emigrati. Primo tra questi è l’Auvele Feluskes, di origini falische, raffigurato sulla nota stele di Vetulonia e là attivo nella seconda metà del VII sec. a. C. Colpisce qui, nella “muta” Vetulonia, la ricchezza della formula onomastica, completa di patronimico e metronimico, chiamata a designarlo, e ancor più il formulario adottato (che ricorre significativamente in altre stele simili) in cui l’indicazione di pertinenza - solitamente sufficiente in epigrafi funerarie - è nettamente distinta dalla vera e propria dedica del monumento, qui mutuata dal frasario votivo o del dono (mini muluvaneke). Ciò suona, già di per sé, conferma di un rapporto tra dedicante e dedicatario che prevale sulla consanguineità e la esclude. Si è pensato a sodalità tra compagni d’arme: ipotesi in sé plausibile (e tornano alla mente i due illustri personaggi - “prigionieri” ma accuditi con palese rispetto, e l’uno subordinato all’altro - raffigurati sul cratere ceretano che abbiamo ricordato all’inizio (fig. 4), ai quali forse si prospettava un analogo destino di servitù e di

Fig. 1. Cerveteri, Museo archeologico nazionale cerite “Claudia Ruspoli”. Piatto d’impasto rosso con iscrizione “spanti”.

Fig. 2. Gubbio, Palazzo dei Consoli. La Tavola Iguvina IV.

Fig. 3. Orvieto, necropoli della Cannicella. Piccolo altare in pietra.

gloria?); ma non mi sembra da escludere, con parziale ribaltamento del ruolo solitamente ipotizzato fra i due, che il dedicante, Hirumina, fosse l’indigeno d’alto rango (nelle) cui (file) Auvele aveva offerto i propri servigi: ciò che conferirebbe al suo gesto proprio il sapore che la formula adottata adombra (scioglimento d’un voto), e alla esauriente e articolata presentazione del “capitano di ventura” quasi il sapore di un curriculum vitae a beneficio di quanti l’avevano visto all’opera, ma cui era estraneo. Ciò che al dedicatario della stele di Montegualandro non serviva: era probabilmente il suo luogo di nascita il piccolo borgo sul confine tra Perugia e Cortona cui aveva fatto ritorno in vita e in cui fu sepolto.Resta dunque chiara la testimonianza di una ulteriore e antica forma di mobilità che coinvolse certo anche il mondo umbro ed ebbe a protagonisti capi guerrieri italici in cerca di fortuna nelle città etrusche.

Page 8: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversaFRANCESCO RONCALLI

Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro in realtà includeva e celava quello, più impegnativo, ad entrare direttamente nel merito del tema prescelto, ho pensato che la sola cosa – e la più onesta - da fare fosse raccogliere alcune mie osservazioni e riflessioni maturate lungo l’arco di quasi mezzo secolo di dimestichezza con la materia e provare a ordinarle secondo il filo logico più rispondente alle intenzioni del committente.Cominciando dal titolo. Perché la prossimità geografica fra Etruschi e Umbri ha per l’appunto i connotati, ab origine, di un vicinato attivo in entrambe le direzioni – non è sempre così anche tra popoli confinanti – ben oltre la sfera del semplice scambio commerciale.È il “padre” della storiografia occidentale, Erodoto, a dircelo con parole che il titolo che ho scelto non fa che parafrasare e integrare, nel celebre passo delle Storie (I, 94) in cui racconta di come i Lidi, in cerca di nuove terre spinti da una prolungata carestia, dopo lunga navigazione approdarono “presso gli Umbri” e vi si stabilirono fondandovi le loro città.Della realtà e antichità di questo incontro le testimonianze archeologiche sono ormai molteplici: ma alcune di queste, pur cronologicamente pertinenti ai tempi che chiamiamo “storici”, sembrano, per loro natura, in grado di risospingerlo indietro, ben oltre la soglia segnata dalla conoscenza e dall’uso della scrittura presso entrambe quelle civiltà.Tra le prime e più significative vi è quella offertaci da una serie di piatti di impasto rosso, prodotti a Cerveteri nel VII sec. a.C., di provenienza tombale, corredati da scritte indicanti il nome del proprietario nonché quello che in etrusco designava il tipo di vaso cui furono apposte: “spanti”, dunque equivalente appunto al nostro “piatto” (fig. 1). Il termine ricorre identico nella Tavola Iguvina IV, 2 (fig. 2), dove designa la superficie piana dell’altare sul quale si compiono le azioni rituali prescritte. A dispetto della seriorità del documento umbro rispetto a quelli etruschi, e pur prescindendo da considerazioni linguistiche, che si tratti di un termine umbro importato in Etruria e non viceversa, è confermato sia dalla ben attestata propensione etrusca ad importare il “bene” – materiale o immateriale: un oggetto, un personaggio del mito, un costume – unitamente al nome che lo designa “alla fonte” (basta pensare alla serie di nomi di vasi pertinenti al simposio che l’Etruria ha attinto al lessico greco, certo “convogliati” dalla importazione dalla Grecia di quel costume), sia dal fatto che il carattere eminentemente religioso (dove le tradizioni sono gelosissime) dell’oggetto del culto che il termine designa non è compatibile con una sua estrazione esotica, profana e “minore”, chiamato com’è a indicare nientemeno che una parte dell’altare (alla cui “mensa” mai potrebbe applicarsi il termine “piatto”, né al “calice” quello di “bicchiere”!). Il fatto dunque sembra accreditare il mondo umbro di un prestigio in materia religiosa che non può essersi limitato all’accoglimento isolato di una parola: e sappiamo bene che quella religiosa non è componente secondaria del profilo culturale etrusco quale lo vedevano e definivano le civiltà contemporanee.Che del resto proprio in questo campo l’Etruria possa fornire riscontri archeologici concreti a prassi rituali condivise con gli Umbri, lo mostra con grande evidenza il caso del noto “altarino” in pietra rinvenuto nel santuario della necropoli orvietana della Cannicella (fig. 3), le cui caratteristiche sia strutturali che formali lo indicano funzionale ad atti rituali che si compivano sia al di sopra che al di sotto di esso, destinati pertanto, presumibilmente, sia a divinità uranie che ctonie: ciò che richiama direttamente – anche per le modeste dimensioni - proprio quell’ereçlo- (“arula, altarino” appunto) menzionato nella medesima Tavola (IV, 17, 19), “sotto” e “sopra” il quale (supu e super rispettivamente) il sacerdote officiante era chiamato a compiere, inginocchiato (kunikaz), operazioni cultuali distinte.

Ma Erodoto, in quel celebre passo, ci dice anche dell’altro: “… e lì costruirono le loro città, che abitano tuttora”. Non avrebbe certo mancato di dire, se del caso, che si era trattato di una conquista o occupazione di città umbre da parte degli Etruschi, visto che comunque era là, “presso gli Umbri”, ch’essi si erano insediati. Ma no: le città, come lui le vede, sono una novità, una creatura dei Tirreni, cioè etrusca. Non dobbiamo chiedere a Erodoto quello che non gli interessa di dire: e cioè che anche gli Umbri conoscevano insediamenti stabili, anche cospicui, entro strutture verosimilmente edificate e comunità organizzate: ai suoi occhi il modus habitandi etrusco è incentrato su di un rapporto stabile e strutturato città-territorio, mentre quello umbro evoca ai suoi occhi un orizzonte culturale pre-urbano, caratterizzato da mobilità agricolo-pastorale e colorato, si direbbe, come vedremo, dall’esotismo dei “popoli dell’interno”. Di una alterità, appunto, che assume i connotati espliciti della superiorità etrusca (esaltata dalla interpretatio greca) e dell’esotismo umbro ci parla un cratere corinzio conservato al Louvre, rinvenuto in una tomba di Cerveteri e databile entro il primo quarto del VI sec. a.C. (figg. 4a-b), su una faccia del quale è rappresentato un episodio di chiaro sapore farsesco che vede un attore con maschera di satiro danzare mentre un altro suona gli aulòi, e due altri ancora, intenti a trasportare (rubare?) un’anfora di vino, sono minacciati da un personaggio anch’esso a suo modo mascherato (da un gigantesco fallo) che li minaccia armato di due bastoni. Ebbene: le dramatis personae sono così denominate dalle scritte che corredano il quadretto: la coppia musico/danzatore “Buontempone” (Eunos), la coppia di ladruncoli “Filantropo” (Ophelandros); e il minaccioso e superdotato guastafeste? “Umbro” (Omriqòs). Dove il conseguito status evidentemente servile è corredato, nel racconto greco-etrusco, di tratti peculiari o mostruosi, quasi associando il nostro (esperto guardiano?) a creature malnote o leggendarie come Pigmei, Sciapodi, Blemmi, Antipodi… Anche sull’altra faccia del vaso ci vengono riproposti l’esotico e il gigantesco. Ma qui il gigante è un personaggio di rango, che giace a terra, forse ferito e fatto prigioniero insieme al suo sodale che, le caviglie chiuse e legate entro pesanti anelli, lo accudisce passandogli il cibo imbandito per lui e recatogli da una donna, in un ambiente che una serie di crateri impilati qualifica come una cantina. E come la funzione del luogo collega il tema a quello della opposta faccia del vaso (che, ricordiamo, è esso stesso un cratere!), così anche quel nobile prigioniero e il suo “attendente” – che dritti in piedi sovrasterebbero dell’intero busto la statura della donna – potrebbero condividere le origini di quel guardiano, o comunque ricondursi ad esse: se è vero che le strane “gabbie” in cui ci appaiono chiuse le teste dei due prigionieri trovano l’unico riscontro archeologico disponibile in quelle, di ferro, che ricoprono – senza tuttavia avvolgerle interamente – la testa di due personaggi, un uomo e una donna, sepolti nella necropoli ternana di S. Pietro in Campo-ex Poligrafico Alterocca, riportati in luce dagli scavi che la Soprintendenza archeologica per l’Umbria vi ha condotto tra il 1996 e il 1999 (fig. 5). Quale che ne fosse la vera natura e funzione (forse soltanto funeraria), è possibile che il ricordo del singolarissimo costume invalso tra gli Umbri Nahartes nel VII sec. a.C. sia pervenuto, deformato e promosso a connotato “etnico”, all’orecchio del ceramografo greco, magari per il tramite del ricco committente ceretano? Ma ascoltiamo altre voci. Anche Dionisio di Alicarnasso, nelle sue Antichità Romane (I, 20, 4), ci parla, pure a distanza di quattro secoli e nel quadro di un racconto diverso, di una sovrapposizione dei Pelasgi (poi Tirreni-Etruschi) sugli Umbri. Dunque anche qui la presenza umbra è vista precedere quella etrusca: ma il quadro incomincia a farsi variegato. Perché qui gli Umbri una loro “grande città” l’avevano: Cortona, prima che i Pelasgi la conquistassero; ma annotiamo il fatto che, pur essendo, i secondi, sospinti da fame di terra, la ricchezza di Cortona è connotata soprattutto da ricchi pascoli (eubòtos chòra), ciò che ben si attaglia al profilo economico e

culturale che conosciamo peculiare delle genti che gravitavano attorno alla dorsale appenninica. Notiamo anche che, “prima della città” la presenza degli Umbri (gens antiquissima Italiae secondo Plinio, anzi “antidiluviani” secondo una pseudo-etimologia greca del loro nome ch’egli annota!) spinge le proprie tracce anche a occidente del Tevere e che, una volta assestatesi le due etnìe – etrusca e umbra - nelle rispettive sedi storiche, si delineano marginali e assidui conflitti (menzionati anch’essi da Plinio, Nat. Hist., III 14-15, e da Strabone, Geografia, V I 10) che, non spostando sostanzialmente il confine consolidato, sanno più di reciproche scorrerie e sconfinamenti che di vere e proprie migrazioni e conquiste. È forse appunto una di queste fortunate imprese quella che un illustre etrusco di Perugia, agli inizi del V sec. a.C., celebra tra le res gestae proprie o, più probabilmente, di un proprio avo, addirittura dettandola a una rinomata bottega di Chiusi come tema da raffigurare sulla fronte del proprio sarcofago, rinvenuto in una tomba della necropoli dello Sperandio, a settentrione della città (fig. 6). Qui la conquista è sintetizzata nell’avanzare di un animato corteo di uomini e animali (montoni e muli carichi delle loro some), preceduto da tre personaggi chiaramente vittime della cattura e simbolo del bene conquistato: essi procedono infatti legati per il collo l’uno all’altro, recano sulle spalle una pecora e il rozzo taglio dei capelli “a ciotola” – in netto contrasto con l’educata acconciatura alla moda ellenica degli altri – li qualifica chiaramente come rustici e, letteralmente, “inurbani”: pastori. Abbiamo qui il ricordo di una incursione etrusca con razzia di bestiame in terra umbra, o della conquista di una delle loro cittadelle “ricche” - come la grande Cortona – “di pascoli”?Che i signori umbri dell’entroterra, del resto, fossero i primi a definire la propria ricchezza in termini di possesso di bestiame e terre da pascolo ce lo dimostra, pochi decenni dopo (l’esibizione de) la fortunata impresa dell’aristocratico perugino, un ricco possidente umbro, inumato nella tomba 12 della necropoli in località Malpasso di Gualdo Tadino, nel cui corredo spicca un cratere attico a figure rosse, databile nel secondo quarto del V sec. a.C.; qui, sulla faccia principale campeggia Argo, l’occhiuto custode di Io, la fanciulla amata da Giove e da lui trasformata in giovenca per sottrarla alla gelosia di Giunone (fig. 7). È certo da ricondurre a una scelta del committente umbro la rara raffigurazione di Argo vivo e minaccioso anziché vittima soccombente all’assalto di Hermes (tema, questo, assai più familiare fra i ceramisti attici e i loro clienti etruschi “cittadini di città”): e come la candida giovenca è efficace marchio di qualità del patrimonio vantato dal signorotto tadinate, così il mitico guardiano onniveggente lo è della sua capacità di difenderlo. L’archeologia, dunque, conferma e arricchisce questo quadro fatto di vicinanza a tratti conflittuale e di una alterità culturale che non esclude condivisioni, contaminazioni, integrazione ed emulazione. Che mandrie e greggi – per loro costume irriguardose di confini politici! – fossero risorse condivise da Etruschi e Umbri nell’intero distretto collinare fra Tevere e Trasimeno lo abbiamo già visto affermato per Cortona “dai ricchi pascoli” e lo mostrano i numerosi ex-voto che vediamo deposti nei santuari della zona (da Monte Acuto di Umbertide al Pasticcetto di Magione). Ebbene: proprio a una bottega di bronzisti di quella Cortona che dedica al culto locale preziosi ex-voto, l’uno raffigurante Culsans, dio bifronte delle porte urbiche (fig. 8), e l’altro Selvans, dio dei confini territoriali (divinità preposte entrambe, dunque, alla stanzialità sia nella sua accezione pubblica che privata), penso sia da attribuire una statuina votiva coeva, rinvenuta dalle parti di Città di Castello, che però ci rinvia a tutt’altro panorama (fig. 9a-b). Essa rappresenta infatti uno strano personaggio dalla testa ritorta, il volto dal lato delle spalle. Lo schema iconografico dell’uomo che avanza con la testa rivolta indietro è già di casa nella Volsinii multietnica del VI sec.

a.C., dove si affianca, nella locale produzione vascolare in bucchero, a quello dell’uomo gradiente armato di lancia: così associando l’immagine del (capo) guerriero a quella del (capo) pastore. Nella creatura raffigurata dal nostro bronzetto, databile al IV sec. a.C., ho proposto di riconoscere l’immagine di una divinità - forse condivisa dal pantheon etrusco e umbro? - protettrice di mandrie e greggi: essa indossa, non a caso, una pelle di lupo, nemico atavico delle medesime, mentre il gesto occasionale di un accorto mandriano – guardarsi attorno e alle spalle - è trasformato in eccezionale attributo congenito del dio. Perugia stessa, del resto, dà più di un segno della prossimità e occasionale sovrapposizione dei due orizzonti culturali e linguistici. Il primo, e più significativo, ho da tempo proposto di riconoscerlo nell’ormai celebre “alfabetario” etrusco, databile attorno alla metà del VI sec. a.C., inciso sotto il piede di una coppa di bucchero relitto del corredo di una tomba sita a occidente della città (Via Pellini) (fig. 10). Qui vediamo un alfabeto etrusco di tipo settentrionale “modificato” alle cui ultime due lettere (φ e χ) una diversa mano ne ha sovrapposte quattro (a b a t) di proporzioni maggiori. L’intenzione di obliterare le une aggiungendo le altre è resa evidente dallo spazio che il secondo scriba avrebbe avuto a disposizione, se fosse stato interessato soltanto all’aggiunta. Senza tornare qui su argomentazioni già da me esposte a suo tempo, mi limito a riconoscere nel possessore del vasetto - e suggeritore della modifica - un perugino di origine umbra, forsebilingue ma certamente di attitudini fonatorie “umbrofone”, cui erano estranee le lettere obliterate, mentre quelle aggiunte lo erano all’alfabeto etrusco pre-confezionato sulla sua coppa, “modificato” appunto in tal senso rispetto all’antico modello greco euboico.Di circa due secoli più tarda è la coppia di schinieri in bronzo rinvenuti in una ricca tomba della necropoli perugina del Frontone, sui quali è ripetuta la dicitura tvtas, che inequivocabilmente ne fa l’oggetto di una assegnazione “pubblica” (fig. 11). La schietta origine italica del termine ha portato gli studiosi a privilegiare l’interpretazione della loro presenza nella tomba come parte di un bottino di guerra umbro, caduto in mano dell’etrusco ivi sepolto. In tal caso il documento andrebbe ad arricchire il dossier dei conflitti umbro-etruschi cui abbiamo fatto cenno. Ma il contesto archeologico indica, proprio in quegli anni, Perugia come il centro di produzione di splendide panoplie - non certo attribuibili a fabbrica umbra - simili a quella esibita in questa tomba, alla quale si aggiunge la testimonianza di una seconda coppia di schinieri (purtroppo perduti) marcati dallo stesso termine e rinvenuti nella tomba dei Volumni: ciò che mi induce a suggerire (lectio certo difficilior!) che il termine di origine umbra possa essere stato precocemente acquisito, a Perugia, dal lessico istituzionale etrusco e qui sia passato, con uno slittamento semantico non incomprensibile, ad indicare non più il corpo civico in quanto tale (in etrusco spur-), ma la comunità degli armati, l’esercito. Il che trasferirebbe la testimonianza resa da questi schinieri al livello di cui stiamo appunto discorrendo.È da inserire in questo stesso contesto, a mio avviso, anche un connotato che appare peculiare della onomastica personale etrusca quale ci è rivelata da iscrizioni di piena età ellenistica in un’area che si estende per l’appunto tra Chiusi e Perugia. Qui ricorrono infatti gentilizi formati sull’etnonimo umre (umrana, umrina ecc.), di oriundi umbri dunque, di prima o seconda generazione. Ma ho proposto anche di riconoscervi nomi etruschi autonomamente formati, secondo un costume attestato nel mondo italico (Quintus, Sextus, Septimius, Octavius…) che pareva finora latitante in quello etrusco, sulla base di numerali etruschi ben riconoscibili: semφ-, cezp-, nurφ-, (“sette”, “otto”, “nove”, da cui Caspre, Sepre, Nufre). Ciò che confermerebbe il panorama nel quale ci troviamo immersi, dove gli scambi e le reciproche interferenze si mescolano e fioriscono su un solido fondo di almeno parziali (e cioè localmente circoscritte) affinità culturali. La lezione forse più durevole impartita dal mondo etrusco agli Umbri è stato l’alfabeto stesso.

L’Etruria esibisce una consuetudine e dimestichezza con l’uso della scrittura, tipica di una società precocemente urbanizzata, che ne determina una evoluzione continua che il mondo umbro non richiede e dunque non sviluppa in modo autonomo. E se il riconoscimento di una iscrizione redatta in un alfabeto definito “proto-umbro” su di un cratere a colonnette in bucchero databile tra il VII e il VI sec. a. C. e rinvenuto nella necropoli del Ferrone di Tolfa, ci mostra che anche gli Umbri, come altre comunità linguistiche dell’Italia antica - tra cui i Latini, i Sabini, i Falisci - si dettero prontamente un alfabeto (forse più come segno di autoidentificazione “nazionale” che come strumento pratico di comunicazione), è un fatto che nelle rarefatte occasioni di ricorso alla scrittura, per lo più di carattere religioso e pubblico, offerte alle comunità umbre dal loro proprio modus vivendi, viene preso a modello e strumento l’alfabeto presentato pro tempore dal centro etrusco più vicino e influente: così per quello impiegato nella versione più antica del maggior testo umbro, le Tavole Iguvine, è stato suggerito un modello elaborato fra Chiusi, Cortona e Perugia, mentre l’estensore delle dediche a Cupra da Colfiorito sembra piuttosto aver guardato in direzione di Volsinii. Proprio intorno a Perugia continuerà a gravitare, forse favorito anche dalla vocazione multiculturale della città, un polo di tradizioni scrittorie cui dobbiamo un costume - anche “editoriale” - capace di attraversare il confine e dettare la stesura di grandi testi di rilevanza pubblica, come quelli rituali contenuti nel Liber linteus di Zagabria (fig. 12) e nelle prime Tavole Iguvine (fig. 2), o quelli pubblicati nella Tabula Cortonensis (fig. 13) o nello stesso Cippo Perugino.Certo è, che le grandi città etrusche prossime al confine esercitarono presto una grande attrazione sulle genti umbre d’Oltre Tevere: non solo come luoghi di produzione esse stesse e punti di rilancio di beni suntuari di produzione più remota che le necropoli umbre mostrano da tempo apprezzati ed esibiti, ma come modelli di coesistenza strutturata capaci di interlocuzioni di più vasto respiro: e la migrazione verso di essi sembra avere anticipato di almeno due secoli la piena urbanizzazione dei loro propri antichi insediamenti. Ne fanno fede, a Volsinii, i Fulvi, i Flavi, i Blaesi il cui nome etruschizzato in gentilizio li mostra già dal VI sec. a.C. integrati al ceto dominante della città, mentre il fanum Voltumnae, il grande santuario federale etrusco, richiamava là annualmente - certo non da solo - “per antica consuetudine” un rappresentante ufficiale (sacerdos) delle comunità umbre. Concluderò con un passo indietro nel tempo. Nell’anonimo guerriero cui venne eretta, agli inizi del VI sec. a. C., la stele rinvenuta a Montegualandro, a nord-ovest di Tuoro sul Trasimeno (fig. 14), è stato riconosciuto un “uomo d’arme” di quelli che, tra VII e VI secolo appunto, troviamo attivi tra quel mondo italico da cui molti di loro provengono e le città etrusche maggiori. La stele tace sulla sua identità, mentre complessi epitaffi corredano le stele erette in onore di quei suoi predecessori e colleghi sepolti nelle città cui erano emigrati. Primo tra questi è l’Auvele Feluskes, di origini falische, raffigurato sulla nota stele di Vetulonia e là attivo nella seconda metà del VII sec. a. C. Colpisce qui, nella “muta” Vetulonia, la ricchezza della formula onomastica, completa di patronimico e metronimico, chiamata a designarlo, e ancor più il formulario adottato (che ricorre significativamente in altre stele simili) in cui l’indicazione di pertinenza - solitamente sufficiente in epigrafi funerarie - è nettamente distinta dalla vera e propria dedica del monumento, qui mutuata dal frasario votivo o del dono (mini muluvaneke). Ciò suona, già di per sé, conferma di un rapporto tra dedicante e dedicatario che prevale sulla consanguineità e la esclude. Si è pensato a sodalità tra compagni d’arme: ipotesi in sé plausibile (e tornano alla mente i due illustri personaggi - “prigionieri” ma accuditi con palese rispetto, e l’uno subordinato all’altro - raffigurati sul cratere ceretano che abbiamo ricordato all’inizio (fig. 4), ai quali forse si prospettava un analogo destino di servitù e di Fig. 7. Roma, Museo di Villa Giulia. Cratere attico a figure rosse da Gualdo Tadino. Argo e la

giovenca Io.

Fig.4a-b. Parigi, Museo del Louvre. Cratere corinzio da Cerveteri.

Fig. 5. Terni, Museo Civico. Tomba 6/1998 della necropoli ex-Poligrafico Alterocca. La “gabbia” di ferro sul capo della defunta.

Fig. 6. Perugia, Museo archeologico nazionale dell’Umbria. Sarcofago dello Sperandio.

gloria?); ma non mi sembra da escludere, con parziale ribaltamento del ruolo solitamente ipotizzato fra i due, che il dedicante, Hirumina, fosse l’indigeno d’alto rango (nelle) cui (file) Auvele aveva offerto i propri servigi: ciò che conferirebbe al suo gesto proprio il sapore che la formula adottata adombra (scioglimento d’un voto), e alla esauriente e articolata presentazione del “capitano di ventura” quasi il sapore di un curriculum vitae a beneficio di quanti l’avevano visto all’opera, ma cui era estraneo. Ciò che al dedicatario della stele di Montegualandro non serviva: era probabilmente il suo luogo di nascita il piccolo borgo sul confine tra Perugia e Cortona cui aveva fatto ritorno in vita e in cui fu sepolto.Resta dunque chiara la testimonianza di una ulteriore e antica forma di mobilità che coinvolse certo anche il mondo umbro ed ebbe a protagonisti capi guerrieri italici in cerca di fortuna nelle città etrusche.

Page 9: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Fig. 8. Cortona, MAEC. Bronzetto votivo raffigurante Culsans.

Fig. 9a-b. Perugia, Museo Archeologico Nazionale. Bronzetto votivo dai pressi di Città di Castello.

Fig. 10. Perugia, Museo Archeologico Nazionale. Fondo di coppa di bucchero con alfabetario.

Fig. 11. Perugia, Museo Archeologico Nazionale. Coppia di schinieri bronzei con iscrizione tutas, dalla necropoli del Frontone.

Page 10: Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa · Gli Etruschi presso gli Umbri e viceversa FRANCESCO RONCALLI Quando ho compreso che l’invito a presentare e presiedere questo incontro

Fig. 12. Zagabria, Museo Archeologico Nazionale. La col. X del liber linteus.

Fig. 13. Cortona, MAEC. La Tabula Cortonensis.

Fig. 14. Perugia, Museo Archeologico Nazionale. La stele di Montegualandro.