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GIANLUIGI BIZIOLI - Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale

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GIANLUIGI BIZIOLI - Il processo di integrazione dei principi tributari nel rapporto fra ordinamento costituzionale, comunitario e diritto internazionale

PROBLEMI ATTUALI DI DIRITTO TRIBUTARIO Collana diretta da Franco Gallo e Raffaello Lupi

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IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE

DEI PRINCIPI TRIBUTARI NEL RAPPORTO FRA ORDINAMENTO COSTITUZIONALE,

COMUNITARIO E DIRITTO INTERNAZIONALE

GIANLUIGI BIZIOLI

CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI

2008

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

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© Copyright 2008 by Wolters Kluwer Italia Srl

ISBN 978-88-13-27064-3

A norma della legge sul diritto d’autore e del codice civile è vietata la riproduzione di questo libro o di parte di esso con qualsiasi mezzo, elettronico, meccanico, per mezzo di fotocopie, microfilms, registrazioni o altro.

Stampato in Italia – Printed in Italy Tipolito Stamperia Stefanoni – Bergamo

INDICE - SOMMARIO

Introduzione...............................................................................................XI

CAPITOLO I LA SOVRANITÀ DEI PRINCIPI

I RAPPORTI FRA ORDINAMENTO INTERNAZIONALE, COMUNITARIO ED INTERNO NELLA PROSPETTIVA DELL’INTEGRAZIONE DEI PRINCIPI

COSTITUZIONALI 1. I rapporti fra ordinamento giuridico internazionale e ordinamenti statuali: profili teorici. .................................................................................2 1.1. Le dottrine dualiste (o pluraliste)..........................................................2 1.2. (segue). Le dottrine moniste. ..............................................................11 1.3. Il superamento delle teorie dualiste e moniste. Le “nuove” dottrine costituzionaliste e la prospettiva assiologica. ............................................16 1.3.1. Le teorie dei “valori costituzionali”.................................................21 1.3.2. Le teorie del “pluralismo costituzionale”. .......................................27 2. I rapporti fra ordinamento giuridico internazionale e ordinamenti statuali: profili dogmatici...........................................................................30 2.1. Il valore internazionalista nella Costituzione italiana. Il disegno originario. ..................................................................................................31 2.1.1. L’art. 10, primo comma, Cost. e le norme internazionali generalmente riconosciute. ........................................................................32 2.1.2. L’art. 10, primo comma, Cost. ed i trattati internazionali. Ricostruzione della loro rilevanza in una prospettiva assiologicamente orientata. ....................................................................................................34 2.1.3. L’art. 11 Cost. e la cooperazione in materia internazionale. In particolare, sua qualificazione come European Clause. ............................38 2.1.4. Integrazione europea e principi fondamentali del sistema costituzionale. ............................................................................................45 2.1.5. Conseguenze della ricostruzione proposta sul piano delle fonti. Abbandono del criterio formale nella sistemazione del rapporto fra ordinamento comunitario e statale.............................................................48

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2.2. La modifica del Titolo V della Costituzione. Il nuovo art. 117, primo comma, Cost. ed il vincolo dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. ............................................................................................56 3. I rapporti fra ordinamento comunitario, interno ed internazionale. La prospettiva comunitaria. ............................................................................62 3.1. Prevalenza dell’ordinamento comunitario su quello statale. ..............63 3.2. (segue). Rilevanza dell’ordinamento statale per l’ordinamento comunitario. ...............................................................................................67 3.3. I rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamento internazionale....................................................................................................................71 3.3.1. (segue). In particolare, i rapporti fra ordinamento comunitario e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dalla coesistenza alla rilevanza sul piano ermeneutico. ...............................................................................79

CAPITOLO II LA GIUSTIFICAZIONE DELL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA

1. Premessa. ...............................................................................................83 2. Le giustificazioni (o fondamenti) ed i criteri di riparto dell’onere tributario: una introduzione storica............................................................84 2.1. Le “crossing traditions” della finanza pubblica. La Public Finance e la Finanzwissenschaft quali espressioni della contrapposta visione dello stato............................................................................................................86 2.2. Evoluzione dei criteri di riparto nelle costituzioni moderne. Il paradigma dell’eguaglianza. ......................................................................88 3. Il dovere inderogabile di solidarietà quale fondamento della prestazione tributaria e condizione per realizzare l’integrazione della persona nella vita dello stato. Gli altri principi (o valori) costituzionali in materia tributaria: rinvio..........................................................................................................93 4. Il dovere tributario, il diritto internazionale e l’ordinamento comunitario. .............................................................................................100 4.1. Incommensurabilità con l’esperienza statale. I vincoli internazionali all’imposizione tributaria.........................................................................100 4.2. Natura e funzione della fiscalità nei trattati europei. Peculiarità dei tributi doganali. L’armonizzazione fiscale come strumento per assicurare la neutralità economica: rinvio. ...............................................................102

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CAPITOLO III

LA DEFINIZIONE DEL DOVERE TRIBUTARIO EGUAGLIANZA E CAPACITÀ CONTRIBUTIVA, NON DISCRIMINAZIONE E

INTERESSE FISCALE 1. Introduzione.........................................................................................110 Sezione I. Eguaglianza tributaria. 2. Eguaglianza e capacità contributiva: una sintesi delle posizioni dottrinali. .................................................................................................111 3. Dovere tributario e principio di eguaglianza. La funzione distributiva e redistributiva dell’imposizione tributaria.................................................114 3.1. Evoluzione dell’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. ..........................................................................................119 3.2. (segue). Evoluzione dell’eguaglianza tributaria nella giurisprudenza della Corte costituzionale. .......................................................................123 4. Assenza di limiti consuetudinari all’imposizione tributaria nel diritto internazionale. Il principio di non discriminazione nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. ..................................................................130 5. La neutralità economica dell’imposizione quale funzione sottesa all’armonizzazione fiscale nel Trattato Ce. .............................................135 5.1. (segue). La peculiarità delle misure fiscali in materia ambientale..................................................................................................................143 6. Il principio di non discriminazione in ragione della nazionalità. Profili generali. ...................................................................................................145 6.1. Il principio di non discriminazione in ragione della nazionalità e le libertà fondamentali. Il superamento dell’equivalenza ed il divieto di misure indistintamente applicabili (o non discriminatorie). ....................148 6.2. Le libertà fondamentali come limite alla potestà impositiva degli stati membri. Irrilevanza delle “mere disparità” fra i sistemi tributari e delle misure applicabili indistintamente. ..........................................................152 6.3. (segue). Il divieto di discriminazione fiscale in materia di imposte dirette. I diversi metodi di confronto e la coerenza dei sistemi tributari nella prospettiva statale e comunitaria.....................................................156 6.4. Il divieto di discriminazione in ragione della nazionalità dei prodotti..................................................................................................................167 6.5. Il divieto di aiuti di stato e il carattere “selettivo” delle disposizioni statali. Il divieto di imposizioni protezioniste..........................................169 Sezione II. L’interesse fiscale. 7. L’interesse fiscale nell’ordinamento costituzionale italiano................176

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8. La progressiva formazione ed il progressivo riconoscimento dell’interesse fiscale nell’ordinamento comunitario. Duplicità di presupposti di tale nozione. .....................................................................179 8.1. L’interesse finanziario dell’Unione europea: il caso dell’iva. ..........180 8.2. La tutela dell’interesse fiscale degli stati membri attraverso le cause di giustificazione alle libertà fondamentali. Il rule of reason test. ..............182 9. Conclusioni. .........................................................................................184

CAPITOLO IV LA DEFINIZIONE DEL DOVERE TRIBUTARIO

CONSENT ALL’IMPOSIZIONE E NO TAXATION WITHOUT REPRESENTATION: DAL VALORE DEMOCRATICO ALLA TAXATION WITH NO REPRESENTATION

1. Introduzione.........................................................................................187 Sezione I. La riserva di legge tributaria nell’ordinamento costituzionale. 2. Le origini della riserva di legge in materia tributaria. .........................188 3. L’art. 23 della Costituzione: oggetto e disciplina della riserva di legge in materia di prestazioni imposte. ................................................................200 3.1. Le prestazioni patrimoniali imposte. ................................................202 3.2. La disciplina della riserva di legge. ..................................................206 3.3. Valore della riserva di legge tributaria e disciplina legislativa. Della diversa rigidità dell’art. 23 Cost. .............................................................210 3.4. Considerazioni conclusive sul valore della riserva di legge in materia tributaria. Rilevanza dell’ordinamento comunitario e internazionale per una sua ricostruzione unitaria: rinvio. .....................................................219 Sezione II. La riserva di legge tributaria nel diritto internazionale. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. 4. Legalità e riserva di legge nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Profili generali.......................................................................228 4.1 (segue). Profili tributari. ....................................................................234 Sezione III. Il principio democratico e la legalità tributaria nell’ordinamento comunitario. 5. Le forme del processo decisionale comunitario. In particolare, della formazione del bilancio dell’Unione europea e degli atti normativi in materia tributaria. Alla ricerca del valore democratico nel processo decisionale comunitario in materia finanziaria. .......................................236 5.1. Introduzione......................................................................................236 5.2. Il processo decisionale in materia finanziaria e tributaria. La procedura di approvazione del bilancio comunitario, di adozione delle risorse proprie e di armonizzazione fiscale......................................................................238

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6. Processo decisionale in materia finanziaria e principio democratico. La legittimazione democratica indiretta e gli elementi di democrazia dell’ordinamento comunitario. ................................................................249 7. Processo decisionale comunitario, comunità di diritto e principio di legalità. ....................................................................................................260 8. Conclusioni. .........................................................................................264 Bibliografia. ............................................................................................ 267

INTRODUZIONE

Il presente lavoro muove della consapevolezza, da tempo maturata

nella dottrina costituzionalista(1), ma anche in quella tributarista(2), che il processo giuridico europeo pone delicati problemi di natura costituzionale. Questi problemi riguardano, anzitutto, l’adeguata comprensione dell’apertura dell’ordinamento costituzionale italiano alle fonti comunitarie ma, soprattutto, la progressiva influenza che tale ordinamento esercita sulla definizione dei valori fondamentali della materia tributaria. Una simile influenza, sebbene in termini più contenuti, deriva anche dal diritto internazionale e, in particolare, dalle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo, in grado di condizionare, sul piano ermeneutico, il significato delle disposizioni costituzionali (in questo senso, da ultimo, Corte cost., sentenze 24 ottobre 2007, n. 348 e 349).

Partendo da questa generale assunzione, si è cercato di dimostrare, nel primo capitolo, che l’apertura costituzionale nei confronti dell’ordinamento comunitario e del diritto internazionale non risponde più a logiche formalistiche, legate al solo valore e alla forza degli atti normativi, sulla base della concezione metagiuridica dell’esclusività di ciascun ordinamento giuridico statale, bensì ad esigenze di integrazione fra principi e valori giuridici appartenenti ad ordinamenti distinti. In questo senso, quale corollario della pluralità di principi e di valori che permeano gli ordinamenti discende l’impossibilità di considerare ciascun principio e valore nei termini assoluti propri della logica di non contraddizione aristotelica, e perciò reciprocamente escludenti. L’obiettivo diviene, diversamente, realizzare, attraverso una “scambievole limitazione”(3), la concordanza fra i diversi principi e valori in gioco. Si tratta quindi di un processo di integrazione poiché essenziale diviene la componente dinamica che consente una continua rimeditazione dei risultati ottenuti senza che mai un valore possa sopraffare o eliminare gli altri. È, dunque, (1) M. LUCIANI, La Costituzione italiana e gli ostacoli all’integrazione europea, in Pol. Dir., 1992, 557; M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995; per la dottrina straniera, cfr., per tutti, I. PERNICE e F. MAYER, La Costituzione integrata dell’Europea, 43 ss., in G. ZAGREBELSKY, Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Roma-Bari, 2003. (2) C. SACCHETTO, Il diritto comunitario e l’ordinamento tributario italiano, 221 ss., in B. PEZZINI e C. SACCHETTO (a cura di), Dalle costituzioni nazionali alla Costituzione europea. Potestà, diritti, doveri e giurisprudenza costituzionale in materia tributaria, Milano, 2001; A. FANTOZZI, Un’occasione sfumata?, in Riv. Dir. Trib., 2003, I, 155 ss.; F. GALLO, Ordinamento comunitario e principi fondamentali tributari, Napoli, 2006. (3) P. HÄBERLE, Le libertà fondamentali nello stato costituzionale, Roma, 2005, 74.

INTRODUZIONE

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un processo eminentemente culturale e, come tale, un processo che coinvolge in maniera significativa le istituzioni – in primo luogo, le supreme corti nazionali ed europee – e la società.

I capitoli successivi sono dedicati all’accertamento degli effetti di questo processo di integrazione sulla materia tributaria. Il punto di partenza è costituito dalla ricerca della giustificazione costituzionale del fenomeno tributario (capitolo secondo). I capitoli terzo e quarto, diversamente, riguardano i vincoli alla specificazione del dovere di solidarietà tributaria, in particolare il principio di eguaglianza e capacità contributiva ed il “consenso” all’imposizione.

Questo lavoro è stato chiuso in anticipo rispetto alle previsioni dell’autore, per esigenze non esclusivamente scientifiche. Esso costituisce quindi un primo tentativo, una sorta di avvicinamento, agli obiettivi sopra descritti che troveranno definitiva sistemazione in un successiva riedizione.

CAPITOLO I

LA SOVRANITÀ DEI PRINCIPI. I RAPPORTI FRA ORDINAMENTO INTERNAZIONALE, COMUNITARIO ED INTERNO NELLA PROSPETTIVA

DELL’INTEGRAZIONE DEI PRINCIPI COSTITUZIONALI

SOMMARIO: 1. I rapporti fra ordinamento giuridico internazionale e ordinamenti

statuali: profili teorici. - 1.1. Le dottrine dualiste (o pluraliste). - 1.2. (segue). Le dottrine moniste. - 1.3. Il superamento delle teorie dualiste e moniste. Le “nuove” dottrine costituzionaliste e la prospettiva assiologica. - 1.3.1. Le teorie dei “valori costituzionali”. - 1.3.2. Le teorie del “pluralismo costituzionale”. - 2. I rapporti fra ordinamento giuridico internazionale e ordinamenti statuali: profili dogmatici. - 2.1. Il valore internazionalista nella Costituzione italiana. Il disegno originario. - 2.1.1. L’art. 10, primo comma, Cost. e le norme internazionali generalmente riconosciute. - 2.1.2. L’art. 10, primo comma, Cost. ed i trattati internazionali. Ricostruzione della loro rilevanza in una prospettiva assiologicamente orientata. - 2.1.3. L’art. 11 Cost. e la cooperazione in materia internazionale. In particolare, sua qualificazione come European Clause. - 2.1.4. Integrazione europea e principi fondamentali del sistema costituzionale. - 2.1.5. Conseguenze della ricostruzione proposta sul piano delle fonti. Abbandono del criterio formale nella sistemazione del rapporto fra ordinamento comunitario e statale. - 2.2. La modifica del Titolo V della Costituzione. Il nuovo art. 117, primo comma, Cost. ed il vincolo dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. - 3. I rapporti fra ordinamento comunitario, interno ed internazionale. La prospettiva comunitaria. - 3.1. Prevalenza dell’ordinamento comunitario su quello statale. - 3.2. (segue). Rilevanza dell’ordinamento statale per l’ordinamento comunitario. - 3.3. I rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamento internazionale. - 3.3.1. (segue). In particolare, i rapporti fra ordinamento comunitario e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dalla coesistenza alla rilevanza sul piano ermeneutico.

CAPITOLO I

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1. I RAPPORTI FRA ORDINAMENTO GIURIDICO INTERNAZIONALE E ORDINAMENTI STATUALI: PROFILI TEORICI.

1.1. Le dottrine dualiste (o pluraliste).

I rapporti fra ordinamento internazionale e ordinamenti statali possono essere assunti ad oggetto di studio sia dalla teoria generale del diritto sia dalla dogmatica, ovvero come regolati dal diritto positivo(1).

Nella prima accezione, l’indagine è diretta alla ricostruzione dei diversi modelli teorici, indipendenti dalle specifiche soluzioni positive adottate, che la letteratura giuridica ha elaborato per spiegare i rapporti fra diversi ordini normativi. Non appare del tutto superfluo premettere che tali ricostruzioni sono inevitabilmente dominate, nella loro idea iniziale, dal giudizio di valore dell’interprete(2) e dalle condizioni storico-politiche in cui questo si trova ad operare.

Seguendo questa impostazione, le teorie dualiste (o pluraliste) si possono considerare una conseguenza della definitiva affermazione storica della sovranità statale, intesa quale “valutazione esclusiva della condotta umana” da parte dell’ordinamento statale(3). Rispetto all’assetto politico e giuridico medievale, viene meno il carattere universale del fenomeno giuridico, poiché l’esclusività della valutazione statale produce inevitabilmente la relatività (spaziale) dei valori giuridici.

Date queste premesse di ordine empirico, nel modello teorico dualista l’ordinamento internazionale e quello statale sono considerati ordinamenti distinti e reciprocamente indipendenti nelle loro sfere formali e materiali. In una prima approssimazione (come si dirà a breve, la teoria dualista può essere, in ragione dei presupposti teorici, suddivisa in almeno tre grandi partizioni), queste teorie ritengono che l’ordinamento internazionale e gli ordinamenti statali abbiano origine da differenti norme fondamentali e che,

(1) In questo senso, R. GUASTINI, Diritto internazionale, diritto comunitario, diritto interno: monismo o dualismo?, 1195, in Scritti in memoria di L. Paladin, Padova, 2004 e, in termini generali, ID., Dalle fonti alle norme, Torino, 1992, 290 ss. (2) Si vedano le osservazioni svolte da M. PLANCK, La fisica nella lotta per la concezione del mondo, 138 ss., in Scienza, filosofia e religione, Milano, 1973: “proprio all’inizio di ogni conoscenza scientifica deve essere presa una decisione sull’impostazione stessa della considerazione; e per questa decisione non possono bastare le motivazioni oggettive, ma debbono essere coinvolti giudizi di valore”. Queste considerazioni sono state riprese, citando M. PLANCK, Vorträge und Erinnerungen, Stuttgart, 1949, 311, da H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, Torino, 1975, 378, rilevando che la “decisione” circa il primato dell’ordinamento internazionale o statale “è fuori dalla scienza giuridica: essa può essere determinata (...) per esempio, da considerazioni politiche”. (3) Sulla nozione di esclusività dell’ordinamento, si rinvia a F. MODUGNO, Pluralità degli ordinamenti, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985, 1.

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per conseguenza, ciascuno possa disciplinare in maniera esclusiva i rapporti di propria competenza.

Questi elementi sono presenti nella struttura delle tesi dualiste fini dall’origine, la cui costruzione originaria può farsi risalire, come noto, a Heinrich Triepel(4). Diritto internazionale e diritto statale possono considerarsi “antitetici”, per Triepel, in due diversi sensi: “la loro antitesi è, in primo luogo, un’antitesi fra i rapporti sociali regolati; il diritto internazionale regola relazioni diverse da quelle cui dà norma il diritto interno. Il loro contrapposto è, in secondo luogo, un contrapposto tra le fonti da cui derivano”(5). Per quanto attiene al primo profilo, il diritto interno “disciplina con le sue norme giuridiche ““relazioni” attinenti a tutti i subietti che considera suoi “sudditi””, mentre il diritto internazionale i soli rapporti fra gli Stati sovrani(6). L’individuo non è quindi titolare di alcuna situazione giuridica soggettiva che abbia rilevanza per l’ordinamento internazionale: “il singolo è incapace di essere soggetto di diritti ed obblighi individuali derivanti dall’ordinamento giuridico di quella comunanza [di Stati]”. E, ancor più lucidamente, “è indifferente che siano in gran parte interessi suoi quelli che le norme di diritto internazionale mirano a tutelare, dappoichè oggidì siamo in complesso d’accordo che non ogni norma emanata nell’interesse di una determinata persona, faccia di questa persona un soggetto di diritto”(7).

Sul piano delle relazioni fra i due ordinamenti, il diverso ambito di applicazione ratione subiectae delle norme internazionali e di quelle statali impone all’ordinamento statale l’obbligo della “traduzione”(8) delle prime da regole interstatali a regole interindividuali. In altri termini, nella loro

(4) H. TRIEPEL, Völkerrecht und Landesrecht, Leipzig, 1899, trad. it. Diritto internazionale e diritto interno, Torino, 1913. (5) H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, cit., 11. (6) H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, cit., 21-22, ove afferma che “i rapporti che il diritto interno disciplina non sono adatti ad essere regolati dal diritto internazionale e viceversa. Diritto internazionale e diritto interno, presupposto che sgorghino da fonti diverse, non possono non avere contenuto diverso. (…). Se esiste un diritto internazionale, esso, abbiam detto, non può valere che a dar norma ai rapporti reciproci di Stati coordinati”. (7) H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, cit., 22. Nello stesso senso, P. HEILBORN, Das System des Völkerrechts entwickelt aus den völkerrechtlichen Begriffen, Berlin, 1896, 64 ss. (8) Il termine è utilizzato da A. D’ATENA, Adattamento del diritto interno al diritto internazionale, in Enc. Giur. Treccani, I, Roma, 1988, 1, che ritiene (2) i termini “traduzione”, “trasformazione” ed “adattamento (o adeguamento)” “convenzioni terminologiche prive di un apprezzabile rilievo sostanziale”.

CAPITOLO I

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originaria struttura prescrittiva le norme internazionali sono refrattarie ad essere immesse negli ordinamenti statali(9).

Questo primo elemento, tuttavia, non è in grado di reggere l’intero impianto teorico poiché, come si cercherà di evidenziare nel successivo paragrafo, l’adattamento del diritto internazionale al diritto interno è condizione necessaria anche delle teorie moniste.

Nella elaborazione di Triepel, la seconda “antitesi” riguarda la diversa natura dei “soggetti” da cui tale diritto promana. La comunità internazionale è comunità appartenente ad un genus diverso rispetto a “quelle organizzate, composte di una pluralità di uomini e che attendono a porre norme giuridiche ai rapporti della loro vita sociale”, ovverosia alle comunità che sottopongono i propri membri “all’impero delle sue [loro] norme”(10). Dalla diversità ontologica fra comunità internazionale e Stato discende la diversità della norma fondamentale costitutiva del fenomeno giuridico. Se per gli Stati la fonte prima del diritto è individuabile nella volontà dello Stato, ridotto icasticamente a soggetto antropomorfo, la fonte prima della comunità internazionale “può essere soltanto una comune volontà di due o più Stati, ridotta e fusa ad unità mediante il consenso”(11).

(9) La “traduzione” delle norme internazionali, quindi, “va al di là del puro valore formale” acquisendo rilevanza sul piano sostanziale. Così D. ANZILOTTI, Corso di diritto internazionale, Roma, 1928, 59-60. (10) H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, cit., 17. (11) H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, cit., 33 ss. L’Autore ha cura di specificare adeguatamente i presupposti che costituiscono tale “comune volontà”: “ciò che genera la norma giuridica non è la dichiarazione della volontà comune, ma la reciproca dichiarazione delle singole volontà che si fondono. Perciò non è necessario, né esatto concepire questa norma giudica come espressione della volontà di una comunione di Stati o di un sistema di Stati raffigurato come una collettività o altrimenti come una unità” (76). Simili considerazioni si trovano nella dottrina italiana. Cfr. D. ANZILOTTI, Teoria generale della responsabilità dello Stato nel diritto internazionale. I. Il problema della responsabilità di diritto internazionale, Firenze, 1902, 54 ss., che osserva che solo mediante l’accordo si può formare quella “volontà comune degli Stati, che dicemmo essere condizione indispensabile per l’esistenza di norme giuridiche regolatrici dei rapporti interstatuali”. La tesi della “comune volontà” quale fonte del diritto internazionale è stata criticata da G. JELLINEK (Allegemeine Staatslehre, Berlin, 1914, trad. it., La dottrina generale del diritto dello Stato, Milano, 1949): “qualsiasi volontà unitaria ha bisogno di un titolare di volontà unitaria. Or, se la volontà comune è una volontà unitaria, essa ha pur bisogno di un subietto unitario e, di conseguenza, non la si può distinguere da quella di una comunità: e si perviene allora alla civitas maxima, comunque la si possa designare. (…). Nessuna scoperta giuridica è in grado di sopperire questa alternativa: o una volontà estranea o la volontà propria costituisce il fondamento giuridico di una obbligazione” (74, nota 11). Per S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1951, l’individuazione nella “volontà collettiva” della sola fonte del diritto internazionale condurrebbe alla conseguenza “che non il diritto internazionale esiste, ma tanti diritti internazionali quanti sono questi accordi”

LA SOVRANITÀ DEI PRINCIPI

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Tale volontà comune trovava espressione nell’accordo normativo (Vereinbarung).

Il modello teorico elaborato da Triepel, quindi, conduce alla prefigurazione di due distinti ordini di norme la cui genesi, nonché fondamento dell’obbligatorietà, è rinvenibile in due distinte “norme fondamentali”: la volontà del singolo Stato quale fonte del diritto statale e la volontà degli Stati quale fonte di un autonomo ordinamento internazionale(12).

Le descritte “antitesi” fra diritto internazionale e diritto statale producono due “ordinamenti giuridici differenti” dotati di un proprio ambito soggettivo e materiale di validità e di efficacia. Le regole internazionali, quindi, non solo devono essere tradotte in norme interindividuali ma devono essere, altresì, rese esecutive all’interno dell’ordinamento statale. Poiché l’elemento costitutivo originario di quest’ultimo è individuato nella volontà statale, solo un atto (o un fatto) che sia espressione di tale volontà può essere valido e produrre effetti nell’ordinamento interno. In questo modo, la sistemazione cui giunge la teoria dualista di Triepel appare perfettamente coerente con la premessa ideologica iniziale, ovverosia l’esclusività della valutazione giuridica statale (e internazionale) dei rispettivi ambiti delle relazioni materiali.

Individuati gli elementi costitutivi, rispettivamente, dell’ordinamento internazionale e di quello statale, questa dottrina si preoccupa di descrivere il tipo di relazione giuridica che può instaurarsi fra i due diversi ordinamenti.

Triepel riconduce queste relazioni all’istituto della “recezione” nella duplice forma della trasformazione della norma internazionale e di riproduzione tout court del suo contenuto(13). I rapporti giuridici fra diritto internazionale e diritto interno sono regolati, quindi, dalla norma statale (57). Queste considerazioni sono state riprese e sviluppate da M. GIULIANO, La comunità internazionale e il diritto, Padova, 1950, 79 ss. (12) Sull’obbligatorietà del diritto internazionale, Triepel si esprime in questo modo: “io vedo la ragione della forza obbligatoria del diritto internazionale in primo luogo nel fatto che la volontà comune, il cui contenuto si presenta allo Stato sotto la figura di norma della sua condotta verso altri Stati, non rappresenta una volontà esclusivamente estranea, ma una volontà che è nel tempo stesso la volontà sua, di modo che non gli si impone nulla che esso non abbia imposto a sé stesso” (H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, cit., 82). (13) H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, cit., 112; 120 ss.; 156; 167 ss.: “(…) non si deve mai perder di vista che recezione di norme giuridiche significa incorporazione di tali norme nel sistema del diritto interno; che cioè mediante la recezione la norma di diritto internazionale diventa norma di diritto interno con tutti gli effetti formali e sostanziali che a quest’ultima son proprii” (171). Il TRIEPEL opera un’accurata classificazione dei tipi di recezione del diritto internazionale (168) che possono essere sintetizzati in recezione materiale e formale.

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che, nella generalità dei casi dovrà operare una trasformazione della norma internazionale per consentirne l’adattamento e, in tutti i casi, per darne efficacia nell’ordinamento interno. Accanto ai rapporti fra norme, Triepel considera una seconda tipologia di relazioni fra diritto internazionale e diritto interno: quelle fra le fonti di diritto. In questo secondo ordine di considerazioni, la relazione investe i rapporti fra ordinamenti, rilevando una generica “superiorità” del diritto internazionale in confronto a quello interno. Questa “superiorità” si manifesta nella capacità di “conferire diritti e di imporre obblighi allo Stato” a cui può dare esecuzione “con tutti i mezzi che il diritto internazionale accorda”. Si tratta di una “superiorità” sui generis, non assimilabile alla sovraordinazione fra diritto statuale e diritto infra-statuale, poiché “il diritto internazionale, che è come una rete sospesa al di sopra degli Stati, ha bisogno di trovare negli Stati dei solidi sostegni cui appoggiarsi”(14). Nondimeno, tale superiorità assume rilevanza giuridica, generando un illecito internazionale nel caso di violazione delle norme internazionali da parte dell’ordinamento statale(15).

Nell’opera di Triepel trovano quindi una compiuta sistemazione tutti gli elementi propri della rappresentazione dualista dei rapporti fra ordinamento internazionale e statuale: separazione formale e materiale degli ordinamenti nonché una compiuta elaborazione teorica delle loro reciproche relazioni.

Le implicazioni teoriche di tale costruzione sono state mantenute anche quando, in un momento successivo, si riconsiderò il fondamento (giuridico) dell’ordinamento internazionale, ricondotto al principio “pacta sunt servanda” in luogo dell’originario principio della volontà comune degli Stati(16).

Nell’ambito delle tesi dualiste bisogna dar conto, con una certa approssimazione, di almeno due altre grandi sistemazioni teoriche. La prima si può riferire a Jellinek ed è costruita intorno al concetto di “sovranità statuale” elaborato dall’Autore. La seconda sistemazione, quella di Santi Romano, appare decisamente distante dalle precedenti quanto ai presupposti teorici, sebbene giunga a risultati simili rispetto alle relazioni ordinamentali.

(14) H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, cit., 262 ss. (15) H. TRIEPEL, Diritto internazionale e diritto interno, cit., 269, “internazionalmente importante è tutto il diritto statuale, la cui introduzione o il cui mantenimento implicano l’esercizio di una facoltà concessa dal diritto internazionale, l’adempimento, ovvero la violazione di un obbligo internazionale dello Stato”. (16) Questo mutamento d’opinione è particolarmente evidente nell’opera di ANZILOTTI che modifica la sua iniziale posizione (cfr. nota 11) per una più matura considerazione del fondamento del diritto internazionale in Corso di diritto internazionale, cit., 43 e 48 ss.

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La c.d. teoria dell’“auto-limitazione” o dell’“auto-obbligazione” dello Stato discende dalla peculiare concezione del diritto e della sovranità statale di Jellinek. Per questo Autore, “potere sovrano dello Stato è, adunque, un potere, che non ne conosce altro superiore a sé stesso, quindi, è nel tempo stesso potere indipendente e supremo. La prima caratteristica si manifesta prevalentemente verso l’esterno, nei rapporti dello Stato sovrano con altre potenze; la seconda verso l’interno, nel confronto con le personalità in esso contenute. Ma entrambi questi caratteri sono fra loro inseparabilmente uniti”(17). Nonostante il suo carattere supremo, ovverosia il carattere illimitato ed illimitabile, Jellinek distingue il concetto di sovranità “in fatto” dalla sovranità “giuridica”, riconducendo quest’ultima sotto il diritto: “(…) sovranità significa, dunque, la proprietà di un potere statale, in forza della quale questo potere ha la capacità esclusiva di giuridica autodeterminazione ed autobbligazione”. In estrema sintesi, nella elaborazione di Jellinek esiste una contrapposizione fra Stato “in fatto” e sovranità “in fatto” che appartengono al mondo reale, al sein, per dirla à la Kelsen, ed ordinamento giuridico (e diritto) derivante dalla volontà dello Stato “in fatto”, che appartengono al sollen(18). L’ordinamento giuridico, detto altrimenti, è il risultato della volontà dello Stato “in fatto”, anche in questo caso ipostatizzato in una concezione antropomorfa. Nella dottrina generale di Jellinek, la volontà dello Stato che pone l’ordinamento è priva di limite mentre l’ordinamento giuridico costituito è sottoposto a limiti esterni ed interni. Ritroviamo in nuce tutti gli elementi teorici che il costituzionalismo successivo ricondurrà alla dicotomia fra potere costituente e potere costituito.

Jellinek riconosce chiaramente che il diritto internazionale ed il suo ordinamento sono qualcosa di diverso rispetto al diritto statuale e che il primo “si sviluppa e sussiste indipendentemente dallo Stato, come esigenza delle relazioni internazionali, come convinzioni ed aspirazioni dei popoli e degli uomini di Stato”(19). Nondimeno, la sua validità ed efficacia per il diritto interno derivano dalla volontà dello Stato, ovverosia dall’autolimitazione da parte dello Stato: “la decisione ultima circa la sua esistenza spetta alle collettività, per le quali esso deve valere, cioè agli

(17) G. JELLINEK, La dottrina generale del diritto dello Stato, cit., 71-72. (18) La dimostrazione dei limiti della sovranità è condotta ricorrendo al concetto di essenzialità per lo Stato dell’ordinamento giuridico: “ma se è essenziale allo Stato il possedere un ordinamento giuridico, è già con ciò senz’altro negata la dottrina della illimitatezza assoluta del potere statale. Lo Stato non sta in tal modo al di sopra del diritto da potersene per suo conto sbarazzare. Solo il come, non il se dell’ordinamento giuridico sta in suo potere: nel suo potere e di fatto e di diritto”. G. JELLINEK, La dottrina generale del diritto dello Stato, cit., 73 e 76. (19) G. JELLINEK, La dottrina generale del diritto dello Stato, cit., 74.

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Stati. Se questi riconoscono il diritto internazionale come per loro medesimi obbligatorio, è dato così, in ragione della natura psicologica di ogni diritto, la base sicura per la esistenza di esso”(20).

Rispetto alla costruzione dualista del Triepel, quindi, muta solo la concezione del fondamento del fenomeno giuridico internazionale, che non è ricondotta alla volontà comune degli Stati, ma resta inalterata la sistemazione teorica dei rapporti fra ordinamento internazionale e statale. In entrambi i casi, la norma internazionale può produrre effetti giuridici nell’ordinamento statale solo se questo, attraverso la volontà espressa da un atto interno, riproduca la norma internazionale ovvero gli conferisca efficacia attraverso il rinvio(21).

Anche la sistemazione “istituzionale” di Santi Romano giunge a simili risultati in tema di rapporti fra ordinamento interno e ordinamento internazionale (o, più generalmente, in tema di rapporti fra ordinamenti giuridici). Con ciò, s’intende osservare che tutte le teorie presentante in questo paragrafo condividono i comuni elementi della reciproca separazione fra ordinamento interno e internazionale e della necessità di un “rinvio” di un ordinamento all’altro ovvero dell’“incorporazione” delle norme “esterne” per dare loro efficacia giuridica, sebbene non condividano i presupposti teorici alla base della definizione del fenomeno giuridico.

Per Santi Romano “è (...) un postulato, che si debbono senz’altro ritenere erronee o incomplete quelle definizioni, partendo dalle quali si giunge a negare il diritto internazionale, sia nella sua stessa esistenza, sia – ciò che, dopo tutto, non è molto diverso – nella sua autonomia, in quanto lo si consideri come un’estrinsecazione o proiezione del diritto interno dei vari Stati. La definizione del diritto deve essere data in modo che vi si possa comprendere quel che, non soltanto per tradizione scientifica, ma per sentimento comune, e soprattutto, per pratica costante, e non mai smentita, viene considerato tale. Altrimenti essa è arbitraria: non la realtà si deve – dal giurista – subordinare al concetto, ma questo a quella”(22). Coerentemente, la comunità internazionale, non diversamente da altre

(20) G. JELLINEK, Allegemeine Staatslehre, Berlin, 1900, trad. it., La dottrina generale dello Stato. I. Studi introduttivi – Dottrina generale sociale dello Stato, Milano, 1921, 669. (21) Questa concezione dei rapporti fra diritto internazionale e diritto interno trova ancora riscontro in parte della dottrina moderna. Si veda B. CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2002, 8-9 che osserva: “in realtà nessun artificio dialettico è in grado di negare l’eterna verità insita nella teoria dell’autolimitazione (e osservata, come si diceva, anche dall’uomo della strada), e cioè il fatto che la comunità internazionale nel suo complesso non dispone di mezzi giuridici per reagire efficacemente ed imparzialmente in caso di violazione di norme internazionali”; A. BALDASSARRE, Globalizzazione contro democrazia, Roma-Bari, 2002, 50 ss., “ebbene, il nomos che regola e giustifica l’ordine internazionale dell’epoca moderna è, senz’alcun dubbio, la sovranità dello Stato (nazionale)”. (22) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 52.

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“realtà” o “fatti” sociali, deve essere ricondotta al concetto di “istituzione”(23). Appare del tutto inutile, in considerazione della diffusione che la teoria di Romano ha avuto, soprattutto in Italia, rilevare che l’istituzione è, per Romano, la traduzione in termini giuridici della realtà sociale. Diversamente dal normativismo, quindi, le norme non esauriscono il diritto (e l’ordinamento giuridico(24)), ma costituiscono un effetto(25) dell’organizzazione e delle relazioni sociali. Il diritto, prima d’essere norma, è un fatto sociale ed è inseparabile da quest’ultimo.

La parte seconda de L’ordinamento giuridico è interamente dedicata alla ricostruzione teorica dei rapporti fra istituzioni. All’interno di tale categoria, le istituzioni che assumono maggiore rilevanza (anche ai fini della presente indagine) sono quelle “originarie”, ovverosia “quelle in cui si concreta un ordinamento giuridico che non è posto da altre istituzioni e che è quindi, quanto alla sua fonte, indipendente”(26). Il carattere originario dell’istituzione si manifesta attraverso la pretesa affermazione dell’esclusività dei suoi valori giuridici (o fatti sociali) rispetto a quelli di altre istituzioni. Nondimeno, come chiaramente precisato da Romano, la pretesa affermazione di esclusività non importa necessariamente la negazione dei valori giuridici esterni ma, diversamente, la potestà esclusiva dell’istituzione di stabilire i valori cui attribuire “rilevanza” interna(27). Nella costruzione dell’Autore, ordinamento internazionale e ordinamento statuale sono separati, in particolare “ciascuno di essi è indipendente ed ha una propria autonomia, in modo che nel suo ambito esplica liberamente la sua vita e la sua forza”(28). (23) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 54 ss. “(...) anche il diritto internazionale, come quello statuale, nel suo primo momento si afferma come istituzione, come prodotto necessario dell’organizzazione interstatuale, della struttura con cui, di fatto e di diritto assieme, essa si è venuta formando. (...). Il momento dunque in cui sorge la prima pietra di quest’ultimo, fondamento delle altre che vi si accumuleranno ulteriormente, non è segnato, come crede la dottrina ora dominante, da questi accordi, ma dal sorgere della stessa comunità internazionale odierna” (60-61). Per un approfondimento della idea romaniana di diritto internazionale, si rinvia ai contributi di P. ZICCARDI, Il diritto internazionale, 147 e L.M. BENTIVOGLIO, Santi Romano e la dottrina italiana di diritto internazionale: un esempio di “convergenze parallele”, 191, entrambi in P. BISCARETTI DI RUFFIA (a cura di), Le dottrine giuridiche di oggi e l’insegnamento di Santi Romano, Milano, 1977. (24) Si ricorda che nella costruzione romaniana il concetto di istituzione coincide con quello di ordinamento giuridico. Cfr., a titolo meramente esemplificativo, S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 96, “il concetto di istituzione, nel quale abbiamo rinvenuto, anzi col quale abbiamo identificato quello di ordinamento giuridico”. (25) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 16, ove rileva che “la sostituzione di certe norme con altre è piuttosto l’effetto anziché la causa di una modificazione sostanziale dell’ordinamento”. (26) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 141. (27) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit. 145-146, nota 95bis. (28) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 115.

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Nonostante tale autonomia, l’ordinamento internazionale e quello interno possono assumere reciproco rilievo, che Romano riconduce all’istituto della “rilevanza”(29). La rilevanza è concetto giuridico, “da non confondersi con l’importanza di fatto, che un ordinamento può avere per un altro”, e si sostanzia nell’esistenza di un “titolo giuridico” che condizioni “l’esistenza o il contenuto o l’efficacia” di un ordinamento(30).

Gli ordinamenti statali costituiscono il presupposto (da intendersi quale titolo giuridico) dell’ordinamento internazionale sebbene non ne rappresentino la fonte costitutiva o norma fondamentale che si mantiene distinta ed autonoma. In questo senso, l’ordinamento statale assume rilevanza per l’esistenza di quello internazionale(31). Quanto al contenuto, l’ordinamento internazionale assume rilevanza in funzione di coordinazione degli ordinamenti statuali “in modo che questi siano obbligati a dare ciascuno al proprio un contenuto circoscritto con vari criteri, che ora importano il dovere negativo di non estenderlo se non al proprio territorio e ai propri sudditi, ora importano anche il dovere positivo di riferirsi in certe materie al diritto degli altri Stati”(32). Alla rilevanza in termini di efficacia, Romano dedica poche righe, rinviando alla trattazione generale relativa al titolo giuridico, osservando che l’efficacia dei trattati internazionali è condizionata all’emanazione, da parte degli Stati contraenti, di un diritto oggettivo che ha l’effetto di “far verificare la condizione apposta a quel trattato”(33).

Appaiono molto interessanti, soprattutto quale strumento di comprensione del fondamento della giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamento statuale, le considerazioni che Romano riserva al diritto internazionale privato. Gli ordinamenti statali, infatti, possono dare rilevanza sul piano degli effetti al diritto di altri Stati “riconoscendo il regolamento che essi fanno di certe

(29) La “rilevanza” non è limitata ai rapporti fra ordinamento internazionale e statale bensì è istituto di teoria generale, applicabile a tutte le relazioni ordinamentali. Riconduce i rapporti fra ordinamento internazionale e statale al concetto della “rilevanza” anche R. MONACO, L’ordinamento internazionale in rapporto all’ordinamento statuale, Torino, 1932, 48-49, che, conclusivamente, osserva: “così, in base a presupposti diversi, l’analisi di questo nuovo indirizzo metodologico [quello “istituzionale” di Romano] ci ha portato ad accostarci alla separazione fra diritto statuale e diritto internazionale, sostenuta dalla dottrina dualistica facente capo al Triepel ed all’Anzilotti”. (30) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 145. Sul punto, si veda anche C. PINELLI, Costituzione e principio di esclusività. I. Percorsi scientifici, Milano, 1990, 23-24. (31) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 156 ss., ove si afferma che “l’insieme degli ordinamenti statuali è una condizione della sua stessa esistenza” (157). (32) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 166. (33) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 190 che richiama la posizione di H. TRIEPEL, Völkerrecht und Landesrecht, Leipzig, 1899, 290 ss.

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materie e astenendosi dal regolarle positivamente da sé”(34). Il profilo che più interessa in questa sede concerne proprio la costruzione che l’Autore propone degli effetti prodotti dalla norma straniera. Per Romano, “l’efficacia di una legge straniera è determinata dalla legge nazionale, senza che la legge straniera cessi, per quest’ultima, di esistere come tale e si trasformi anch’essa in legge nazionale. Principio questo che è vero, non solo quando l’efficacia che le è consentita è uguale a quella sua originaria; ma anche quando è diversa, maggiore e minore”(35). La “legge straniera” assume rilevanza per l’ordinamento nazionale quale “fatto” cui quest’ultimo attribuisce efficacia formale nei limiti dell’atto di rinvio. In termini diversi, la “legge straniera” non assume una rilevanza propria o diretta sul piano degli effetti, bensì meramente derivata dalla norma statuale che le attribuisce efficacia giuridica. Queste considerazioni possono essere trasferite, senza particolari variazioni, anche alle norme di diritto internazionale e, parzialmente a quelle di diritto comunitario, allorché sia data efficacia attraverso il rinvio c.d. formale o non recettizio, automatico o puntuale.

1.2. (segue). Le dottrine moniste.

Nonostante il comune nomen, la varietà delle teorie moniste è ancor più accentuata rispetto a quelle dualiste. Il momento di unità e sintesi di tali teorie può essere individuato nel comune fondamento metodologico: la dottrina pura del diritto (Reine Rechtslehre) elaborata da Hans Kelsen. Pur partendo da tale comune presupposto, ampiamente sviluppato da Kelsen nel lavoro Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts. Betraig zu einer Reinen Rechtslehre(36), le teorie moniste arrivano all’opposta conclusione della prevalenza dell’ordinamento internazionale rispetto a quello statale (almeno nella formulazione originaria).

Non si può certamente in questa sede affrontare l’esame, neppure sommario, degli elementi caratterizzanti la dottrina pura del diritto. Tali elementi, ovviamente, devono considerarsi presupposti. Oggetto dell’analisi sono le conseguenze che tale metodo giuridico produce nella sistemazione dei rapporti fra diritto internazionale e diritto statale.

(34) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 185; ma anche Corso di diritto internazionale, Padova, 1939, 52. (35) S. ROMANO, L’ordinamento giuridico, cit., 188-189. (36) La prima edizione fu pubblicata dalla Mohr (Tübingen) nel 1920. Le idee sviluppate nell’opera sono state successivamente riprese in Le rapports de système entre le droit interne et le droit international public, in Recueil des Cours – Académie de Droit International de la Haye (1926-IV), Leiden, 1970, 231 e in General Theory of Law and State, Cambridge, 1949.

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La sistemazione dei rapporti fra ordinamenti è, in Kelsen, ricondotta all’assioma dell’unità (Ausschliesslichkeit), nel senso aristotelico di non contraddizione logica, dei rapporti fra diritto internazionale e diritto statale. Questa unità è garantita dall’applicazione al sistema giuridico di un metodo logico-trascendentale del conoscere puro sulla base di una ipotesi produttiva originaria, “di un postulato epistemologico che non può non avere – come il sistema unitario e coerente delle norme – il carattere della ipoteticità o idealità”(37). La dottrina pura del diritto mira a depurare integralmente il metodo giuridico qualsiasi riferimento ad elementi empirici sulla base di un presupposto della coerenza (non contraddittorietà) interna alla teoria.

I presupposti della costruzione kelseniana si riducono essenzialmente a due: l’ipotesi originaria, rappresentata dalla Grundnorm, e il divieto di contraddittorietà interno ad ogni sistema giuridico, ovverosia la possibilità di far discendere logicamente e senza contraddizioni dalla norma fondamentale l’intero ordinamento giuridico(38).

Nella prima parte del lavoro, Kelsen critica le concezioni della sovranità statale dell’epoca e le sostituisce con una accezione formale, strettamente connessa alla norma ipotetica o Grundnorm. Per Kelsen ““sovrana” è (...) solo la norma. (…). Presupporre però una norma o un sistema di norme, un ordinamento, come “supremi”, è una metafora di una determinata qualificazione logica dell’ordinamento. Questa norma viene così posta o presupposta come logica, non ulteriormente derivabile”(39). La sovranità quindi non è né libertà o illimitatezza del potere statale né indipendenza assoluta di un ente da altri enti o poteri, bensì corrisponde all’originarietà di un ordinamento, ovverosia all’impossibilità logica che questo possa essere derivato da un altro sistema di norme(40).

(37) Così A. CARRINO, Presentazione, V (XV) della trad. it. di H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, Milano, 1989. (38) Si vedano, in questo senso, le considerazioni di R. MONACO, L’ordinamento internazionale in rapporto all’ordinamento statuale, cit., 14-15, “tale norma fondamentale, come elemento unificatore del sistema, conferirebbe forza obbligatoria successivamente a tutti gli ordini giuridici, ciascuno dei quali sarebbe da intendersi delegato dall’ordine immediatamente superiore. Così si procederebbe dall’uno all’altro fino a giungere all’elemento primo della organizzazione giuridica: la persona fisica”. (39) H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, cit., 15. (40) È inutile sottolineare che tale conclusione è intimamente connessa alla equiparazione fra Stato ed ordinamento propria della Reine Rechtslehre. Si vedano le considerazioni immediatamente successive di Kelsen: “se invece si ammette che lo Stato, come si offre alla teoria normativa del diritto e dello Stato, è norma o ordinamento e come tale si identifica col diritto, con l’ordinamento giuridico definito “Stato”, che a sua volta coincide con l’ordinamento statale definito “diritto”, allora lo Stato sovrano è un ordinamento

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L’attribuzione al concetto di sovranità di due distinti significati, interno ed esterno, è foriera, per l’Autore, di un’evidente contraddizione logica, che dipende “dal fatto che si concepisce lo Stato come un’entità che è sovraordinata agli esseri umani che ne costituiscono i sudditi, ma paritaria (non sovraordinata) rispetto ad altre entità, cioè agli altri Stati. Lo Stato, perciò, è qualcosa di supremo, più esattamente qualcosa di superiore, solo in rapporto ai suoi sudditi e non agli altri Stati coordinati con lui, rispetto ai quali quindi viene definito solo come “indipendente”, non come qualcosa di superiore”(41).

Questa visione “totalizzante” del concetto di sovranità (rectius: di ordinamento sovrano) è all’origine del complessivo ripensamento kelseniano dei rapporti fra ordinamento internazionale e statuale. Le dottrine dualiste risultano inevitabilmente costruite sopra un compromesso fortemente “realistico”: l’assolutezza del potere dello Stato entro il proprio territorio e la relativizzazione della sovranità sul piano dei rapporti internazionali(42).

Diversamente, il significato di sovranità quale attributo di un sistema di norme e la rigorosa applicazione del principio di non contraddizione logica conduce Kelsen a configurare l’ordinamento internazionale e quello statale come il prodotto di un’unica norma fondamentale da cui si possono derivare, secondo il metodo proprio della Stufenbau, tutte le norme dell’unico ordinamento giuridico. Mettendo su un piano di parità tutti gli Stati sovrani, infatti, si nega qualsiasi valore alla sovranità poiché “ogni potere è supremo, cioè “sovrano”, nella misura in cui sta in gioco solo

supremo, che non deriva da nessun altro ordinamento superiore o che si presuppone supremo” (17-18). Si noti che la caratteristica della “non derivazione” dell’ordinamento statale sovrano rappresenta l’elemento qualificante delle istituzioni “originarie” di S. ROMANO (Principi di diritto costituzionale generale, Milano, 1946, 68). (41) H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, cit., 58-59. (42) Queste considerazioni sono ampiamente sviluppate da G. SILVESTRI, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Torino, 2005, 45-46. La contrapposizione fra “esclusività” e “relatività” degli ordinamenti giuridici è evidenziata anche da M. GIULIANO, La comunità internazionale e il diritto, cit., 123-124, e da F. MODUGNO, Pluralità degli ordinamenti, cit., 1 ss., il quale osserva che “l’ordinamento come realtà storica si pluralizza in numerosi centri di valutazioni esclusive” e nega che tale fatto possa generare contraddittorietà “perché i termini, o momenti dello sviluppo dialettico del concetto, si trovano su piani diversi ed irriducibili”. Il riconoscimento di una doppia accezione della sovranità, interna ed esterna, è stato accolto anche dalla giurisprudenza internazionale. Nella sentenza relativa all’isola di Palmas, in Reports of International Arbitral Awards, II, 829 ss., il giudice Huber ha affermato che “sovereignty in the relations between States signifies independence. Independence in regard to a portion of a globe is the right to exercise therein, to the exclusion of any other State, the function of a State”.

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rispetto a quei soggetti riguardo ai quali viene presupposto come “potere””(43). Si deve quindi “far cadere la rappresentazione della sovranità dell’ordinamento giuridico dello Stato particolare” ed ipotizzare che “al di sopra degli Stati particolari esiste un ordinamento giuridico internazionale che solo delega un ordinamento coercitivo, di regola efficace, come ordinamento parziale”(44).

Sul piano dei rapporti fra ordinamenti, quindi, l’ordinamento giuridico dello stato deve essere considerato compreso in quello internazionale, nel senso che il primo costituisce una parte del diritto internazionale(45). Kelsen si avvede del principale problema di tale costruzione allorché afferma che “la comunità giuridica internazionale, così come essa si presenta nell’ipotesi del primato dell’ordinamento giuridico internazionale, è (…) una comunità giuridica primitiva e in questo senso, ma solo in questo senso, essa non è uno “Stato”, mancando, innanzi tutto, di un organo particolare per il perfezionamento dell’ordinamento giuridico da costituire”(46). Tuttavia, l’assenza di coazione del diritto internazionale non è in grado di inficiare la correttezza della costruzione teoria kelseniana. L’ordinamento internazionale, nella prospettiva kelseniana, opererebbe attraverso la delega dell’esercizio dei poteri agli organi statali, al cui ordinamento possono essere riferiti gli attribuiti della coercizione ed effettività giuridica(47). Ulteriore corollario di questa visione teorica, è la parziale sovrapposizione dei soggetti del diritto internazionale e del diritto statale, poiché del primo fanno parte sia gli Stati sia gli individui.

Su queste stesse basi teoriche può essere giustificata anche l’opposta conclusione della sovraordinazione (o del primato) dell’ordinamento statale su quello internazionale. I presupposti non mutano: il concetto di

(43) H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, cit., 361. Ancor, più chiaramente, alla nota 16, l’Autore aggiunge che “limitare la sovranità al significato di una suprema esistenza all’interno significa in verità abbandonare il dogma della sovranità”. (44) H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, cit., 146-147. (45) H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, cit., 303 ss. Si vedano le considerazioni a questo proposito di M. GIULIANO, La comunità internazionale e il diritto, cit., 121, “l’ordinamento giuridico internazionale non può quindi essere configurato, nel quadro delle concezioni kelseniane, che come un ordinamento di ordinamenti giuridici, come un ordinamento parziale nel quadro in un più vasto, universale, ordinamento giuridico le cui altre parti componenti sarebbero date dai molteplici ordinamenti statuali, dai molteplici Stati = ordinamenti giuridici”. (46) H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, cit., 383. Si veda, anche. H. KELSEN, Le rapports de système entre le droit interne et le droit international public, cit., 311 ss. (47) H. KELSEN, General Theory of Law and State, cit., 342 ss.

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sovranità riferibile ad un ordine di norme anziché ad un entità di fatto (o sociale) e l’unità/non contraddittorietà del sistema normativo nel suo complesso. Tale unità sistematica è riconducibile al meccanismo del “riconoscimento”, per un determinato ambito delle relazioni giuridiche, delle norme di diritto internazionale da parte della costituzione dello Stato sovrano(48). Attraverso tale “riconoscimento” il diritto internazionale diviene parte dell’ordinamento giuridico statale, che quindi conserva nei suoi confronti il carattere di ordinamento sovrano. Come si può intuire, la differenza fondamentale fra questa elaborazione teorica e quella dualista, a cui sul piano degli effetti può certamente essere accostata, è data dal differente fondamento normativo delle due costruzioni. La costruzione monista statale, infatti, nega un autonomo fondamento concettuale al diritto internazionale, che discenderebbe dall’ordinamento statale. Come sopra evidenziato, diversamente, la teoria dualista pone sullo stesso piano i due ordinamenti in ragione delle due distinte fonti originarie da cui discendono.

La costruzione monista dei rapporti fra ordinamento internazionale ed ordinamento interno non priva di significato il problema dell’adattamento dell’ordinamento interno a quello internazionale. I rapporti giuridici fra ordinamenti e l’adattamento sono due ambiti d’indagine indipendenti, seppur collegati. Il primo, come si è cercato di evidenziare, riguarda il fondamento costitutivo originario della comunità internazionale e dello stato e, di conseguenza, la rilevanza giuridica, in termini d’efficacia, delle norme dell’uno per l’altro. Il secondo, diversamente, consiste nella trasformazione/traduzione delle norme internazionali destinate generalmente a regolare i rapporti fra Stati in norme applicabili ai soggetti degli ordinamenti nazionali. La trasformazione consiste, quindi, nella modifica dell’originaria struttura prescrittiva delle norme internazionali. L’adattamento interno è, in questo senso, attività statale necessaria anche nell’ambito delle costruzioni moniste dei rapporti fra ordinamento

(48) Questa costruzione, elaborata originariamente da A. VERDROSS, Zur Konstruktion des Völkerrechts, in Zeitschrift für Völkerrechts, 1914, 329 (339 ss.) è considerata anche da H. KELSEN, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Contributo per una dottrina pura del diritto, cit., 223 ss.; ID., General Theory of Law and State, cit., 380-388. Kelsen, come si è già rilevato supra, considera la scelta fra il primato del diritto internazionale e quello del diritto statale in funzione delle personali preferenze “etiche e politiche”: chi propenda per il nazionalismo e l’imperialismo sceglierà la seconda, all’opposto chi simpatizzi per gli ideali internazionalistici e pacifisti. Lo stesso Verdross pochi anni dopo l’elaborazione ne abbandonò il sostegno, per aderire alla tesi della supremazia del diritto internazionale (cfr. A. VERDROSS, Die völkerrechtswidrige Kriegshandlung und der Strafanspruch der Staaten, Berlin, 1920, 34 ss.).

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internazionale e statale allorché la norma internazionale abbia quali destinatari gli Stati(49).

In conclusione, si osserva che la teoria monista statale è derivata, pur mutandone sensibilmente i presupposti, dalla configurazione dei rapporti interstatuali quale “diritto pubblico esterno”. Come noto, questa elaborazione, che risale all’idealismo filosofico hegeliano(50), comporta la negazione dell’esistenza di un ordinamento internazionale distinto da quello interno. Nel modello teorico configurato da tali autori, il diritto internazionale non sarebbe altro dal diritto interno se non per le materie oggetto della disciplina ovverosia “null’altro che la generalizzazione delle concordanze rilevabili nei vari e distinti “diritti pubblici esterni” degli Stati”(51).

1.3. Il superamento delle teorie dualiste e moniste. Le “nuove” dottrine costituzionaliste e la prospettiva assiologica.

La capacità euristica dei modelli teorici dualisti e monisti è stata messa in crisi dal mutamento, dopo la seconda guerra mondiale, di alcuni degli elementi fondamentali della struttura dello stato e della comunità internazionale.

(49) A. VERDROSS, Fondement du droit international, in Recueil des Cours – Académie de Droit International de la Haye (1927-I), Leiden, 1972, 247 (305). Anche Kelsen, sebbene, come rilevato supra, ritenga gli individui soggetti di diritto internazionale, riconosce che, in determinati casi la norma internazionale possa essere indeterminata quanto all’elemento soggettivo. In questo caso, la trasformazione del diritto internazionale è rimessa alle norme di diritto interno in virtù della generale delega dell’ordinamento internazionale a quello statale in materia di organizzazione delle competenze. Per un’ampia ricostruzione e critica del pensiero kelseniano in tema di adattamento, si rinvia a A. LA PERGOLA, Costituzione e adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale, Milano, 1961, 31 ss. (50) Il punto B della sezione Terza (der Staat) della Parte Terza (die Sittlichkeit) delle Grundlinien der Philosophie des Rechts (Belin, 1821) è dedicato proprio all’äussere Staatsrecht (diritto statuale esterno). Al § 333, HEGEL ne fornisce la definizione: “aber deren Werhältnis ihre Souveränität zum Prinzip hat, so sind sie insofern im Naturzustande gegeneinander, und ihre Rechte haben nicht in einem allgemeinen zur Macht über sie konstituierten, sondern [nur] in ihrem besonderen Willen ihre Wirklichkeit” (“poiché il rapporto tra gli Stati ha per principio la loro sovranità, ecco allora che in questo senso gli Stati sono l’uno verso l’altro nello stato di natura, e i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale costituita a potere sopra di essi, bensì soltanto nella loro volontà particolare”). Quest’ordine d’idee è condiviso anche da John AUSTIN (Lectures on Jurisprudence, or the Philosophy of Positive Law, London, 1899, 372 ss.) ed ampiamente sviluppato da P. ZORN, Die deutschen Staatsverträge, in Zeitschrift für die gesamte Staatswissenschaft, 1880, 1 ss. e K. BERGBOHM, Staatsverträge und Gesetze als Quellen des Völkerrechts, Dorpat, 1877, 19 ss. (51) Questa la definizione datane da M. GIULIANO, La comunità internazionale e il diritto, cit., 77. Per un approfondimento della teoria, si rinvia a J.C. BLUNTSCHLI, Das moderne Völkerrecht der civilisirten Staaten als Rechtsbuch dargestellt, Erlangen, 1878, 59.

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Un primo elemento si riferisce alla “rifondazione” dei sistemi giuridici nazionali prodotta dall’entrata in vigore di carte costituzionali “rigide” dai contenuti fortemente innovativi rispetto a quelle tardo ottocentesche. La rigidità delle costituzioni ha prodotto una rivoluzione rispetto al previgente sistema delle fonti incentrato sulla legge quale volontà generale di una data collettività. In particolare, la legge ordinaria ha perso definitivamente il ruolo di centralità e primazia gerarchica(52) conferitogli dalla Rivoluzione francese e dalla successiva codificazione napoleonica quale espressione della souveraineté nationale. È appena il caso di rilevare che la perdita di centralità scaturisce sia dalla previsione di un procedimento formale “aggravato” per la revisione della Costituzione, che garantisce a quest’ultima fonte una posizione di supremazia formale sulla legge, sia per la previsione di nuovi soggetti, accanto al Parlamento – Governo e Regioni – dotati di potestà legislativa. Quanto ai contenuti, la novità riguarda soprattutto i diritti e le libertà della persona e delle formazioni sociali. In primo luogo, come è stato acutamente sottolineato da autorevole dottrina, le costituzioni moderne hanno affermato la preesistenza e l’anteriorità logica dei diritti fondamentali dell’uomo rispetto a ogni istituzione politica e a ogni potere costituito, compreso il legislatore, sia ordinario che costituzionale(53). I diritti e le libertà fondamentali, quindi, separandosi

(52) Sulla centralità e primazia gerarchica della legge nello “Stato di diritto” ottocentesco, si legga l’acuta ricostruzione di G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 33 ss., il quale riconosce che la coerenza dell’ordinamento giuridico, in tale contesto, “era un presupposto che la scienza giuridica poteva considerare come un carattere logico dell’ordinamento, compattamente costruito sulla base di alcuni principî e valori essenziali e non contestati all’interno della classe politica, i principî e i valori dello stato nazional-liberale” (36). Ma si vedano le pagine profetiche di B. CONSTANT, Principi di politica, Soveria Mannelli, 2007, 503 ss., (come noto, il libro è del 1806, ma è stato pubblicato solo nel 1980) che individuava la deriva totalitaria della rivoluzione francese nell’assenza di limiti, nella specie dei diritti e delle libertà fondamentali, da contrapporre alla volontà generale popolare (“dal momento che là dove gli usurpatori sono tutto i cittadini non sono niente, si è pensato che affinché il popolo fosse tutto era necessario che gli individui non fossero niente. Questa massima è una falsità evidente. Essa fa sì che la libertà non sia altro che una nuova forma di dispotismo. Là dove l’individuo non è nulla, il popolo non è nulla”). Cfr., anche, C. SCHMITT, Legalität und Legitimität, Berlin, 1993, 67, che, riferendosi alla monarchia costituzionale tedesca afferma che fu “in weiten Masse und gerade am entscheidenden Punkt, nämlich hinsichtlich seines Gesetzesbegriffs, ein parlamentarischer Gesetzgebungsstaat”; A. RUGGERI, Fatti e norme nei giudizi sulle leggi e le “metamorfosi” dei criteri ordinatori delle fonti, Torino, 1994, 7 ss. e per la materia tributaria, A.J. MARTÍN JIMÉNEZ, El derecho financiero constitucional de la Unión europea, in Rev. Esp. Der. Fin. (Civitas), 2001, 111 (112). (53) Così, testualmente, A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, in Enc. Giur. Treccani, XI, 1989, 1. Nello stesso senso, S. GALEOTTI, Garanzia costituzionale, in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1969, 490 (496 ss.) che individua l’effettività della rigidità della Costituzione “in quanto si muova dall’idea di una sfera di valori che si vuole sottratta all’azione dell’autorità

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definitivamente dalla legge, si pongono ad un livello giuridico distinto da quello della legge e perciò fuori dalla disponibilità del legislatore ordinario. In secondo luogo, diversa è la formulazione di tali diritti e libertà rispetto alle costituzioni tardo-ottocentesche. Le carte dei diritti garantiscono, infatti, l’effettivo godimento di tali diritti e non la sola, generica, formulazione e prevedono diritti c.d. di nuova generazione, i diritti sociali. Da ultimo, la tutela delle disposizioni costituzionali è affidata, seguendo l’insegnamento kelseniano(54) e la lezione americana(55), ad una specifica corte cui sono affidati i controlli di costituzionalità sulle leggi ordinarie(56).

Questi mutamenti delle basi giuridiche costituiscono la progressiva assimilazione del pluralismo sociale, ovverosia di una società segnata dalla presenza di una varietà di gruppi sociali, portatori di interessi, ideologie e progetti differenziati. In questo senso, come è stato osservato, alla Costituzione è assegnato “il compito di realizzare la condizione della possibilità della vita comune”(57).

Quanto alla comunità internazionale, sono distintamente rilevabili due ordini di fattori. Da un lato, seppur in modo lento ed irregolare, mutano alcune delle caratteristiche strutturali costitutive dell’ordinamento internazionale. Ai fini di questo lavoro, interessa rilevare che la soggettività degli individui nel diritto internazionale è, almeno in determinati settori, ormai un elemento accolto sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza. Dall’altro lato, nel secondo dopoguerra la comunità internazionale ha assistito al moltiplicarsi delle organizzazioni internazionali a carattere regionale e settoriale. Se l’esempio paradigmatico

(…); trattasi evidentemente di una sfera di valori che, se sfugge essenzialmente al principio d’autorità, s’incentrerà sul principio opposto, quello di libertà”; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., 74 ss. che rileva che “nella scienza costituzionale di oggi, il linguaggio dei diritti ha preso il sopravvento su ogni altro linguaggio” (84); N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1997, passim. (54) H. KELSEN, La garantie juridictionnelle de la Constitution (La justice constitutionnelle), in Rev. Droit Publ. Sc. Pol., 1928, trad. it., La giustizia costituzionale, Milano, 1981. (55) E.S. CORWIN, The “Higher law”. Background of American Constitutional Law, Ithaca, 1963, 55 ss. (56) Ritiene cha appartenga “in modo necessario ed indefettibile all’oggetto della garanzia costituzionale il controllo giuridico (quale ne sia poi il modo di strutturazione, giurisdizionale o meno) sulla costituzionalità delle legge e degli atti normativi”, S. GALEOTTI, Garanzia costituzionale, cit., 501-502. (57) G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., 9, che aggiunge: “questa è la condizione delle costituzioni democratiche nel tempo del pluralismo. In questa condizione, vi è stato chi ha ritenuto possibile sostituire, nella funzione ordinante, la sovranità dello Stato (e di ciò che di esclusivo, semplificante, orientante essa di per sé conteneva) con la sovranità della Costituzione”. Simili considerazioni sono svolte, per la materia tributaria, da P. BORIA, L’interesse fiscale, Torino, 49 ss.

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è rappresentato dalla Comunità economia europea (ora, Comunità europee(58)), molti altri testimoniano questa tendenza: il Consiglio d’Europa, il General Agreement on Trade and Tariff (GATT, ora World Trade Organisation (WTO) e così via. Indubbiamente, l’istituzione delle Comunità europee ha profondamente segnato l’evoluzione o, forse, la discontinuità(59) nell’evoluzione, dell’ordinamento internazionale. In prima approssimazione (la questione sarà approfondita nei successivi paragrafi), pur ritenendo non priva di enfasi la qualificazione delle Comunità europee come “ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale”(60), si deve nondimeno ritenere che il diritto comunitario presenti alcuni caratteri di specificità rispetto a quello internazionale(61). In primo luogo, i Trattati comunitari definiscono un sofisticato complesso istituzionale per l’esercizio delle competenze ivi previste. Se questo elemento è comune ad altre organizzazioni internazionali, l’elemento di assoluta originalità è costituito da uno spiccato grado di istituzionalizzazione che culmina nella previsione di un organo giurisdizionale deputato all’interpretazione degli atti comunitari e

(58) Come noto, il fenomeno giuridico comunitario non è unitario. Il Trattato di Maastricht del 1992 ha istituto, accanto alle Comunità europee, l’Unione europea, fondata su tre pilastri: quello comunitario (il Trattato di Roma), la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione in materia di affari interni e giudiziari (CGAI), parte della c.d. cooperazione intergovernativa. Nel proseguo della trattazione i termini “ordinamento comunitario”, “ordinamento europeo”, “trattati comunitari” e “trattati europei” saranno utilizzati quali sinonimi, tesi ad includere sia il diritto comunitario sia quello dell’Unione europea. (59) In questo senso, anche, G. ITZCOVICH, Integrazione giuridica. Un’analisi concettuale, in Dir. Pubbl., 2005, 749 (759), che, riferendosi ai modelli predisposti per spiegare i rapporti fra diritto internazionale e diritto interno, rileva una “netta discontinuità” fra questi e l’integrazione giuridica europea. (60) Corte di giustizia Ce, 5 febbraio 1963, causa 26/62, Nv Algemene Transport – en Expeditie Onderneming Van Gend en Loos vs. Amministrazione olandese delle imposte, in Racc., 3, para. IIB. (61) Parla di specificità “rispetto al genus cui appartengono”, pur ritenendo l’ordinamento comunitario pienamente ancorato alla “dimensione internazionale”, G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2003, 88 ss.; 196-197. Cfr., anche, P. FOIS, Sulla questione dei rapporti tra il diritto comunitario e il diritto internazionale, in Riv. Dir. Int. Priv. Proc., 1984, 5 (30) che impiega la nozione di “ordinamento internazionale particolare”; T.C. HARTLEY, The Foundations of European Community Law, Oxford, 2003, 89 (“ultimately, therefore, Community law is a sub-system of international law. However, if a group of states conclude a set of treaties to govern their relations with each other in a given area, international law permits them to create a new system of law that is self-contained and separate from international law”); M. CONDINANZI, Comunità europee, Unione europea e adattamento, 150 (155 ss.), in S.M. CARBONE, R. LUZZATTO, A. SANTA MARIA, Istituzioni di diritto internazionale, Torino, 2003; L. SICO, Ordinamento comunitario e diritto internazionale: un matrimonio ancora non a rischio di scioglimento, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., 2003, 1704 (1711-1712).

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imperniato sulla stretta cooperazione fra questo ed i giudici statali. Un secondo profilo di specificità riguarda la diretta rilevanza, per il diritto comunitario, della posizione giuridica soggettiva del singolo, che non richiede, quanto alla sua efficacia, alcun intervento da parte degli Stati membri(62).

Questi elementi, insieme ad altri che in questa sede non possono essere menzionati, hanno prodotto una indubbia frattura della capacità esplicativa degli opposti schematismi unità versus separazione che le teorie dualiste e moniste proponevano nella descrizione dei rapporti inter-ordinamentali e dei sistemi delle fonti giuridiche(63). Viene meno il valore euristico sia di una sistemazione piramidale(64) sia di un modello separato degli ordinamenti. Viene meno, ancor prima, l’assioma giuspositivista di un ordinamento giuridico chiuso e dato, le cui norme possono essere conosciute attraverso l’attività d’interpretazione. In una parola, viene meno l’assoluta distinzione fra essere e dover essere, fra giudizio di fatto e giudizio di valore(65).

(62) Questi elementi sono stati evidenziati chiaramente dalla dottrina in tempi non sospetti. Cfr. A. TIZZANO, La Corte di giustizia delle Comunità europee, Napoli, 1967, 11-13. (63) Rileva una crisi delle fonti del diritto, in termini storico-teorici, anche P. GROSSI, Santi Romano: un messaggio da ripensare nella odierna crisi delle fonti, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2006, 377 (381), che nega tuttavia una “crisi del diritto” ma che, diversamente, essa sia imputabile alle “forme in cui il potere ha obbligato il diritto a manifestarsi, in quelle che per l’appunto i giuristi chiamano fonti, rivestimenti spesso troppo stretti e soffocanti in relazione al libero e spontaneo assestarsi del mutamento socio-economico e culturale”. Similmente, M.G. LOSANO (Diritto turbolento. Alla ricerca di nuovi paradigmi nei rapporti fra diritti nazionali e normative sovrastatali, in Riv. Int. Fil. Dir., 2005, 403 (413 e 428)) ritiene che il “pluralismo giuridico” non possa essere spiegato dal “rigoroso positivismo legislativo”. (64) Per alcuni tentativi di ricostruzione del rapporto fra diritto comunitario e diritto interno in chiave teorica kelseniana, si veda C. LEBEN, À propos de la nature juridique des Communautés européennes, in Droits, 1991, 61; C. RICHMOND, Preserving the Identity Crisis. Autonomy, System and Sovereignty, in Law Phil., 1997, 377; I. WEYLAND, The Application of Kelsen’s Theory of the Legal System to European Community Law. The Supremacy Puzzle Resolved, in Law Phil., 2002, 1; U. BINDREITER, Why Grundnorm? A Treatise on the Implications of Kelsen’s Doctrine, The Hague, 2002, 153. (65) Si leggano le lucide osservazioni di L. MENGONI, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, 32, “la dogmatica positivistica del XIX secolo tende con il metodo della scomposizione analitica e della ricomposizione sintetica, ad ordinare il diritto in un sistema di concetti assiologicamente neutrali, destinati ad operare come “fattori di computo” il cui risultato è la decisione del caso concreto”. Nello stesso senso, N. BOBBIO, Il positivismo giuridico, Torino, 1996, 133 ss., “il positivismo giuridico nasce dallo sforzo di trasformare lo studio del diritto in una vera e propria scienza che abbia gli stessi caratteri delle scienze fisico-matematiche, naturali e sociali. Ora il carattere fondamentale della scienza, secondo le varie correnti del positivismo filosofico, consiste nella sua avalutatività, cioè nella distinzione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, e nella rigorosa esclusione di questi ultimi

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La reazione è venuta soprattutto dalla dottrina costituzionalista che per prima ha sentito il bisogno di ripensare i modelli teorici di fronte ai mutamenti di forma e di sostanza del costituzionalismo ed alla progressiva erosione della sovranità statale ad opera delle diverse organizzazioni sopranazionali. Un elemento accomuna questa letteratura: il definitivo superamento del formalismo giuridico a favore di una ricostruzione sostanziale delle relazioni ordinamentali. Sia le dottrine che considerano la Costituzione una “tavola dei valori di libertà e di giustizia sociale” sia le dottrine del “pluralismo costituzionale” ricostruiscono i rapporti ordinamentali non in termini di fondamento, validità ed efficacia degli ordinamenti e delle fonti del diritto quanto, soprattutto, in termini di integrazione di regole giuridiche appartenenti ad ordinamenti diversi nella formazione della norma applicabile alle fattispecie concrete. 1.3.1. Le teorie dei “valori costituzionali”.

Le Costituzioni dei Paesi democratici sono, per queste dottrine, una “tavola dei valori di libertà e di giustizia sociale”(66). In particolare, due idee strettamente connesse caratterizzerebbero il cambiamento prodotto dalle carte costituzionali: “la prima di esse è che la Costituzione abbia realmente adempiuto ad un’opera di omogeneizzazione delle diverse ideologie ed abbia saputo attrarle ad un disegno costituzionale realmente unificante; la seconda idea – che è un corollario della prima – è che i valori

dall’orizzonte della scienziato, al quale spetta di formulare soltanto giudizi di fatto”. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., 161. (66) Così A. BALDASSARRE, Costituzione e teoria dei valori, in Pol. Dir., 1991, 639 (653 ss). Nelle stesso senso, C. MEZZANOTTE, Corte costituzionale e legittimazione politica, Roma, 1984, in part. 102 ss.; ID., Quale sistema delle fonti? Le fonti tra legittimazione e legalità, in Queste Istituzioni, 1991, 50 (53-54); G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., 49 ss; 62 ss; 147 ss.; R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992, 11 ss.; A. RUGGERI, Fatti e norme nei giudizi sulle leggi e le “metamorfosi” dei criteri ordinatori delle fonti, cit., 22 ss.; M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, Milano, 1995, 158 ss.; G. SILVESTRI, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, cit., 69 ss.; G. AZZARITI, Interpretazione e teoria dei valori: tornare alla Costituzione, 237 (239 ss.), in A. PALAZZO (a cura di), L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo, Napoli, 2001; A. LONGO, Valori, principi e Costituzione:qualche spunto sui meccanismi di positivizzazione delle istanze assiologiche di base, in Dir. Soc., 2002, 75 (95 ss.). Per la dottrina statunitense, cfr., per tutti, R. DWORKIN, Taking Rights Seriously, Boston, 1977, 24 ss. e 71 ss.: “the difference between legal principles and legal rules is a logical distinction. Both sets of standards point to particular decisions about legal obligation in particular circumstances, but they differ in the character of the direction they give. Rules are applicable in all-or-nothing fashion. (…). Principles have a dimension that rules do not – the dimension of weight or importance”. In quest’ordine d’idee s’è posto, fin dall’inizio, il Bundesverfassungsgericht tedesco. Cfr. BVerfGE 2, 12; 12, 51; 35, 114.

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immessi in Costituzione diano luogo ad un sistema complesso si, ma ordinato ed immune da contraddizioni logiche, e pertanto oggettivamente conoscibile da parte di chi possegga le qualità soggettive appropriate”(67). Ancor più chiaramente, in tema di sovranità si è affermato che “il capovolgimento ricercato dalla dottrina costituzionalistica della seconda metà del XX secolo consiste nella sostituzione del fondamento di valore al fondamento di autorità”(68). Come è stato autorevolmente sottolineato, tale mutamento segna il passaggio dallo “Stato di diritto” ottocentesco allo “Stato costituzionale”(69).

Nel genus delle teorie dei valori si possono individuare almeno due distinti orientamenti.

In una prima accezione, si parla di teoria dei valori costituzionali(70) come una tecnica ricostruttiva ed interpretativa della Costituzione. Il punto di partenza, secondo questa concezione consiste nel “riprendere Kelsen e rovesciare Kelsen. Riprendere Kelsen significa essenzialmente sottolineare

(67) C. MEZZANOTTE, Corte costituzionale e legittimazione politica, cit., 106-107, ove si precisa anche che “con questo non si vuol dire che, a seguito della emanazione della Costituzione, l’unificazione delle conoscenze si sia effettivamente realizzata: siamo qui sul terreno delle ideologie, non della realtà (se l’unificazione fosse stata reale e non, appunto, meramente ideologica, non ci sarebbe stato, fra l’altro, nessun bisogno di una Corte costituzionale); si intende più semplicemente affermare che l’idea di quella unità, con la Corte costituzionale, è stata istituzionalizzata, e, quindi, direbbe Habermas, posta come richiesta oggettiva, e perciò, se non è idea reale, ha tuttavia ampiamente dimostrato di essere attiva ed influente”. (68) G. SILVESTRI, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, cit., 71. Una simile tesi è sviluppata da M. LUCIANI, Tramonto della sovranità e diritti fondamentali, in Critica marxista, 5, 1993, 20 ss.; M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 210 ss. (69) P. HÄBERLE, Die Wesensgehaltgarantie des Artikel 19 Abs. 2 Grundgesetz - Zugleich ein Beitrag zum institutionellen Verständnis der Grundrechte und zur Lehre des Gesetzesvorbehalts, Heidelberg, 1983, trad. it. Le libertà fondamentali nello stato costituzionale, Roma, 1993, 39 ss. Tale concetto è stato ripreso ed ampiamente sviluppato da G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., 39 ss. (70) La letteratura che accoglie l’interpretazione per valori della Costituzione non concorda sulle stipulazioni definitorie dei termini principio e valore. Una parte della dottrina nega l’utilità della distinzione fra valore e principio, foriera di “complicazione”, pur ritenendo che le formule di “principio”, più che interpretate “devono essere intese nel loro ethos” e quindi connotate da una forte valenza assiologica (G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., 148-149; 173, nota (3)). Un secondo orientamento si risolve nel considerare il valore un elemento pregiudico, ininfluente nel mondo del diritto, destinato a trovare in quest’ultimo la sua più prossima concretizzazione positiva (G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel sindacato di costituzionalità, Milano, 2000, 313; L. D’ANDREA, Ragionevolezza e legittimazione del sistema, Milano, 2005, 17-18; 49). Un terzo, e maggioritario, orientamento, riconosce l’utilità della nozione di valore che entra nell’ordinamento “in sé”, quale entità distinta, seppur molto contigua, al principio. In questo lavoro i termini “principio” e “valore” saranno utilizzati come sinonimi.

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la grande scoperta che sta a base del suo lavoro complessivo: la democrazia (pluralistica) presuppone che si riconosca il primato del momento normativo su qualsiasi altro momento costitutivo dell’ordinamento giuridico. (…). Rovesciare Kelsen significa capovolgere il suo approccio normativo-formale in uno normativo-sostanziale”(71). Questa concezione, dunque, riparte dal concetto kelseniano di “ordinamento” come insieme di norme assegnando alle disposizioni costituzionali, nel loro significato essenziale, la dimensione assiologica, il ruolo di garantire l’unità dell’ordinamento giuridico in un contesto profondamente segnato dal pluralismo sociale ed istituzionale.

Esiste una differenza logico-giuridica fondamentale dello Stato “costituzionale” rispetto allo Stato “legislativo-parlamentare”. Il secondo è dominato dalla mera “legalità”, ovverosia una “razionalità-rispetto-al-fine”; il primo è strutturato secondo una “doppia legalità”, quella della Costituzione e quella della legge (ordinaria), che risponde a due differenti forme di razionalità: alla razionalità rispetto al fine si aggiunge la “razionalità-rispetto-ai-valori” costituzionali(72).

Conformemente a questo metodo teorico “i valori sostanziali (o materiali) sono gli elementi primi delle disposizioni costituzionali e il loro

(71) A. BALDASSARRE, Costituzione e teoria dei valori, cit., 653-654; F. MODUGNO, Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, in Costituzionalismo.it, 2005, 4. In senso contrario, F. PIZZETTI, L’ordinamento costituzionale per valori, in Dir. Eccl., 1995, 66 (77), il quale, in un’ottica rigidamente positivista, nega la validità e la necessità di un simile tentativo di rilettura, evidenziando il valore “sostanzialmente” garantista del puro formalismo kelseniano che si basa sulla “assoluta rilevanza delle regole e delle procedure come elemento costitutivo dell’ordinamento sia da un punto di vista “formale” che da un punto di vista “sostanzialmente sostanziale” (nel senso che la struttura gerarchica e garantistica sono il riflesso di una concezione “sostanziale” e non solo formale dell’ordinamento)”. Un forte richiamo “a una dimensione ordinativa più speculare di interessi, di idealità, di valori circolanti nella società” ed il rifiuto di una “visione rigidamente normativistica” considerata “antistorica” è stata recentemente proposta da Paolo GROSSI attraverso una rilettura ed attualizzazione del pensiero di Santi Romano (Santi Romano: un messaggio da ripensare nella odierna crisi delle fonti, cit., 391). (72) C. MEZZANOTTE, Corte costituzionale e legittimazione politica, cit., 115 e 120 ss., richiamando M. WEBER, Economia e società, I, Milano, 1980, 21 ss.; A. BALDASSARRE, Costituzione e teoria dei valori, cit., 655; F. MODUGNO, I principi supremi come parametro del controllo di legittimità costituzionale, 280 (286), in F. MODUGNO, A.S. AGRÒ, A. CERRI, Il principio di unità del controllo sulle leggi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Torino, 1997; A. LONGO, Valori, principi e Costituzione:qualche spunto sui meccanismi di positivizzazione delle istanze assiologiche di base, cit., 108 e 121, che osserva che la relazione tra principio e norma è relazione da fine a mezzo ed il giudizio su tale relazione va condotto in termini di “utilità, adeguatezza, attitudine, opportunità del principio inferiore dal principio superiore”.

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contenuto essenziale”(73). Il sistema giuridico, per conseguenza, “non può essere decifrato con chiavi unitarie, ma va letto tenendo simultaneamente aperte due prospettive: l’unità (che non è, si ripete, ontologica ma è solo un’idea istituzionalizzata) e il pluralismo, o se si preferisce, l’istanza di compiutezza del sistema dei valori e l’alternatività dei fini”(74). Questo significa, in termini generali, che, se si vogliono evitare semplificazioni, si devono rigettare sia quelle concezioni che guardano alla costituzione come un sistema di principi (o valori) compiuto, autosufficiente e oggettivamente conoscibile(75), sia il normativismo costituzionale, che considera la costituzione alla stregua di un insieme di precetti, non diversi dagli altri, che fanno parte integrante dell’ordinamento giuridico(76).

Il richiamo ai valori non deve far pensare a derive giusnaturaliste poiché attraverso questa tecnica non si sostituisce al dato positivo, la disposizione costituzionale, alcun elemento metagiuridico né si sovrappone una propria gerarchia culturale a quella espressa dalle disposizioni costituzionali. Diversamente, i valori “rappresentano il massimo atto d’orgoglio del diritto positivo, in quanto costituiscono il tentativo di “positivizzare” quel che, per secoli, si era considerato appannaggio del diritto naturale, appunto: la determinazione della giustizia e dei diritti umani”(77).

Secondo questo ordine d’idee, esisterebbe una continua integrazione fra i valori del sistema costituzionale e quelli dei vari sottosistemi giuridici che compongono l’ordinamento nel suo complesso. Tale integrazione si svolgerebbe “dall’alto” attraverso il “condizionamento ermeneutico”(78) delle norme costituzionali su quelle di diritto comune ma anche “dal basso” attraverso la continua specificazione del senso costituzionale da parte dei principi subordinati(79).

(73) A. BALDASSARRE, Costituzione e teoria dei valori, cit., 658. Anche coloro che avversano la c.d. “teoria dei valori”, riconoscono che i primi dodici articoli della Costituzione, rubricati “Principi fondamentali”, possano effettivamente considerarsi quali “norme-principio”, ovverosia disposizioni che prescivono un obiettivo o riconoscono un diritto senza prevedere alcuna disciplina di esso (cfr. A. PACE, Interpretazione costituzionale e interpretazione per valori, in Costituzionalismo.it, 2006, 5). (74) C. MEZZANOTTE, Corte costituzionale e legittimazione politica, cit., 110. (75) In questo senso, C. MORTATI, Costituzione (dottrine generali), in Enc. Dir., XI, 139 (169 ss.). (76) Per questa impostazione, v. soprattutto, V. CRISAFULLI, La costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, 1952, passim; ID., Le norme “programmatiche” della Costituzione, 59, in Studi di diritto costituzionale in memoria di L. Rossi, Milano, 1952. (77) G. ZAGREBLESKY, Il dirtto mite, cit., 155. (78) A. FALZEA, Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica. I. Teoria generale del diritto, Milano, 1999, 484. (79) Si veda, in questo senso, R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, cit., 19, ove si parla, rispettivamente, di

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La conseguenza immediata di tale ricostruzione teorica sul piano delle fonti del diritto è quella di “negare ogni configurazione monistico-gradualistica dell’ordinamento (dalla costituzione alle legge ecc.)”, almeno al livello costituzionale e legislativo(80). Non esiste più un vertice, nemmeno assiologico, bensì una sorta di “rete” o di “ragnatela”(81) di valori, in cui il sistema costituzionale consolida un legame diverso a secondo del sottosistema con il quale si va a confrontare. La composizione in unità di un dato ordinamento giuridico non può più essere ricondotta alla sola forma e forza degli atti normativi bensì, ed in maniera preponderante, al “valore” in termini sostanziali che le disposizioni esprimono ed ai rapporti fra le differenti istanze assiologiche(82). È in primo luogo attraverso il contenuto (rectius: il valore) delle norme che si può perviene ad una sistemazione dell’assetto delle fonti del diritto.

Questo processo, che trova la sua manifestazione più evidente nel sindacato di legittimità costituzionale, è stato ritenuto il completamento del “paradigma positivistico” che si concretizza nella soggezione del diritto “non solo alle condizioni di esistenza e di validità formale delle leggi prodotte ma anche delle loro condizioni di validità sostanziale; non solo,

verfassungskonforme Auslegung e, per assonanza, di gesetzekonforme Auslegung. Cfr., anche, A. LONGO, Valori, principi e Costituzione:qualche spunto sui meccanismi di positivizzazione delle istanze assiologiche di base, cit., 141. (80) C. MEZZANOTTE, Corte costituzionale e legittimazione politica, cit., 119. Sintomatiche di questo mutamento d’indirizzo nello studio delle fonti del diritto sono le considerazioni di A. LONGO, Valori, principi e Costituzione:qualche spunto sui meccanismi di positivizzazione delle istanze assiologiche di base, cit., 101-102, ove rileva che “la riconduzione del diritto positivo ad un fondamento etico, è un fenomeno che nato come contenutistico è divenuto strutturale perché, oramai, attinente alle stesse categorie di produzione, modificazione (e soprattutto interpretazione) del sistema giuridico”. (81) Si riferisce ad un “modello reticolare e pluridimensionale” per ricostruire i rapporti ordinamentali fra diritto interno, internazionale e comunitario, M.G. LOSANO, Diritto turbolento. Alla ricerca di nuovi paradigmi nei rapporti fra diritti nazionali e normative sovrastatali, cit., 407 e 421 ss. Di “nessi circolari e ricorsivi fra ordinamenti” parla U. BRECCIA, Immagini della giuridicità contemporanea tra disordine delle fonti e ritorno al diritto, in Pol. Dir., 2006, 361 (375). (82) Cfr., A. RUGGERI, Metodi e dottrine dei costituzionalisti ed orientamenti della giurisprudenza costituzionale in tema di fonti e della loro composizione in sistema, in Dir. Soc., 2000, 141 (152 e 166 ss.) il quale rileva che “alle sistemazioni secondo forma potrà darsi solo un primo rilievo, indiziario ma non, appunto, risolutivo, dovendosi verificare – come si è venuti dicendo – che il quadro da esse risultanti corrisponda alle esigenze più avvertite e reali della Costituzione così come della società, nello sviluppo storico che incessantemente le attraversa e connota” (174); ID., Fatti e norme nei giudizi sulle leggi e le “metamorfosi” dei criteri ordinatori delle fonti, cit., 41. Persuaso della necessità di ricorrere al solo criterio formale nella configurazione delle fonti nell’ordinamento italiano è L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 25, sebbene riconosca, in determinate situazioni, l’esistenza di “una gerarchia delle norme piuttosto che delle fonti in sé considerate” distinguendo fra “disposizioni di principio e disposizioni di dettaglio” (91).

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insomma, alle forme della produzione legislativa ma anche ai contenuti legislativi prodotti”(83). Nella giurisprudenza costituzionale, tale processo si realizza attraverso il costante bilanciamento(84) dei valori costituzionali in base al canone della ragionevolezza, ovverosia la soluzione “che è più ragionevole al fine di assicurare una convivenza comune dei consociati nel massimo rispetto possibile dei principi e delle istituzioni costituzionali”(85).

Tale bilanciamento coinvolge qualsiasi valore dell’ordinamento, sebbene la dottrina e la giurisprudenza riconoscano l’esistenza, in ciascuna carta costituzionale, di un nucleo assiologico fondamentale che, sebbene non lo sottragga al confronto con gli altri, sia inviolabile. Tale nucleo, espressione del contratto costituzionale originario, avrebbe lo scopo di garantire l’essenza della democrazia pluralista.

Un secondo orientamento che può essere ricondotto alla “teoria dei valori”, sostenuto soprattutto da Peter Häberle, introduce la dimensione dei valori nell’ambito di un approccio “culturale” dello studio del diritto(86). I valori sono entità culturali di natura obiettiva che rappresentano i centri di unificazione di diritti e di doveri, di scelte soggettive e di limiti normativi. In questo senso, i valori sono il collante delle “istituzioni” che, in quanto tali, contribuiscono a configurare. Per Häberle “uno dei propositi del

(83) Così, L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Roma-Bari, 2001, 35 e 157. (84) Come rileva G. ITZCOVICH, L’integrazione europea tra principi e interessi. Il dialogo fra giudici tedeschi e Corte di giustizia nella “guerra delle banane”, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2004, 385 (387), “il giudizio di bilanciamento (…) è (…) una tecnica di argomentazione giuridica storicamente situata, caratteristica soprattutto, anche se non esclusivamente, della giurisprudenza costituzionale europea ed americana della seconda metà del Novecento”. (85) C. MEZZANOTTE, Quale sistema delle fonti? Le fonti tra legittimazione e legalità, cit., 54 ss.; A. BALDASSARRE, Esistono norme giuridiche sopra-costituzionali?, 1679 (1684 ss.), in Le ragioni del diritto. Scritti in onore di L. Mengoni, III, Milano, 1995; G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., 168 “nel linguaggio oggi corrente, questa attenzione al possibile, nella realizzazione dei principî, si denomina “ragionevolezza”: una discutibile espressione per indicare ciò che classicamente si indicava come la “prudenza” nella trattazione del diritto”. (86) Questa teoria è stata sviluppata soprattutto nei lavori Verfassungslehre als Kulturwissenschaft, Berlin, 1998 (trad. it., Per una dottrina della Costituzione come scienza della cultura, Roma, 2001) seconda edizione dell’originale pubblicato, con lo stesso titolo, nel 1982. I concetti sono ripresi anche in Europäische Verfassungslehre, Baden-Baden, 2006, 9 ss.; Costituzione e identità culturale. Tra Europa e Stati Nazionali, Milano, 2006. L’idea di una base culturale del diritto si trova già nel più “realista” dei giuristi italiani dello scorso secolo: Santi Romano. Si legga il giudizio sugli articoli dello Statuto Albertino che, a parer dell’illustre A., “somigliano a delle semplici intestazioni di libri, le cui pagine sono state lasciate bianche e che vengono a poco a poco riempite con i materiali che forniscono i nostri usi e costumi politici, le nostre incipienti tradizioni, in una parola, l’evolversi della nostra vita pubblica” (corsivo aggiunto). S. ROMANO, Le prime carte costituzionali, 151 (164), in Lo Stato moderno e la sua crisi, Milano, 1969.

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concetto di scienza della cultura è quello di cogliere ciò che di profondo vi è “dietro” ai testi normativi; (...) il regolamento giuridico è solo una delle dimensioni possibili. (...). La costituzione non è solo un testo giuridico o un armamentario di regole normative, ma anche l’espressione di uno stadio evolutivo culturale, un mezzo di autorappresentazione culturale del popolo, lo specchio di un patrimonio culturale e fondamento delle sue speranze”(87).

Questo metodo nello studio del diritto è applicabile anche al contesto internazionale ed europeo, dove si parla di “identità internazionale” ed “europea”. Quest’ultima, in particolare, “comprende ciò che tutte le culture giuridiche europee hanno in comune, ad esempio i principi del “diritto costituzionale europeo comune (dignità umana, separazione dei poteri in senso orizzontale e verticale, neutralità ideologica dello stato, diritti umani, tutela delle minoranze, democrazia pluralistica e indipendenza della magistratura, in parte confluiti nei criteri di adesione di Copenhagen; ne fanno ugualmente parte la metodica e la scienza giuridica)”(88). La costruzione di una identità culturale europea presupporrebbe quindi un metodo interpretativo sincronico e diacronico degli elementi che ne compongono la base culturale (“als horizontale Rechtsvergleichung in der Zeit (Verfassungsgeschichte) und als vertikale Rechtsvergleichung im Raum (zeitgenössische Komparatistik)”)(89). 1.3.2. Le teorie del “pluralismo costituzionale”.

Una seconda prospettiva teorica sostanziale nella ricostruzione dei rapporti ordinamentali è quella del c.d. “pluralismo costituzionale”(90).

Al sintagma “pluralismo costituzionale” non corrisponde, in realtà, un solo modello teorico, ma tali modelli possono essere ricostruiti intorno ad un minimo comune denominatore ontologico ed ad un medesimo presupposto metodologico.

Quanto a quest’ultimo, le teorie del pluralismo costituzionale costituiscono una reazione all’ordinamento comunitario(91) e al corrispondente tramonto dell’esclusività della sovranità statale, già anticipata quasi un secolo fa da Santi Romano in relazione ai rapporti (87) P. HÄBERLE, Costituzione e identità culturale. Tra Europea e Stati Nazionali, cit., 11. (88) P. HÄBERLE, Costituzione e identità culturale. Tra Europea e Stati Nazionali, cit., 58. (89) P. HÄBERLE, Europäische Verfassungslehre, Baden-Baden, 2006, 9 e, in particolare, 53 ss. (90) Il termine è stato coniato da N. WALKER, The Idea of Constitutional Pluralism, Mod. Law Rev., 2002, 317 (333 ss.). (91) In questo senso, chiaramente, N. WALKER, The Idea of Constitutional Pluralism, cit., 337, “EU law (…) poses the most pressing paradigm-challenging test to what we might call constitutional monism. (…) namely the idea that the sole centres or units of constitutional authorities are states”.

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infrastatali. Il comune dato di partenza è, quindi, l’assunzione, quasi assiomatica, dell’esistenza di almeno tre diversi ordini normativi che, differentemente, interagiscono e interferiscono fra loro. Questa lineare conclusione è ulteriormente complicata dalla moltiplicazione degli ordinamenti all’interno di ognuno dei tre genus ordinamentali sopra individuati.

Quanto ai contenuti, le teorie del pluralismo costituzionale possono essere sintetizzate intorno a due elementi, consapevoli che questa generalizzazione riduce l’accuratezza della ricostruzione. In primo luogo, “the only viable and the only acceptable ethic of political responsibility for the new configuration is one which premised upon mutual recognition and interpretation of constitutional sites located at different levels”(92). Tale mutual recognition produce un capovolgimento nella ricostruzione dei rapporti fra i diversi livelli normativi, la cui relazione “is now horizontal rather than vertical – heterarchical rather than hierarchical”(93).

Una delle più note espressioni del pluralismo costituzionale è il c.d. “multilevel constitutionalism”. Questo concetto considera l’attuale ordine giuridico come il risultato di un processo costituzionale dinamico diretto a costituire e sviluppare un’accentuata cooperazione internazionale. La costituzione multilivello non è un atto puntuale, quanto un procedimento “costituente” progressivo (“bits and pieces”(94)) di creazione di principi e norme. In questi termini, limitando la prospettiva d’indagine all’ordinamento comunitario, l’Unione europea non avrebbe una costituzione, bensì una “multilevel constitution: a constitution made up of the constitutions of the Member States bound together by a complementary constitutional body consisting of the European Treaties (Verfassungsverbund)”(95).

L’idea di una costituzione multilivello poggia essenzialmente sul concetto di sovranità divisa (“divided sovereignty”). Questa accezione della sovranità, elaborata per giustificare il fondamento teorico degli Stati

(92) N. WALKER, Late Sovereignty in the European Union, 3 (4), in N. WALKER (Ed.), Sovereignty in Transition, Oxford, 2003. (93) N. WALKER, The Idea of Constitutional Pluralism, cit., 337. (94) L’espressione è di D. CURTIN, The Constitutional Structure of the Union: A Europe of Bits and Pieces, in Comm. Mark. Law Rev., 1993, 17. (95) I. PERNICE, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited?, in Comm. Mark. Law Rev., 1999, 703 (707). L’originaria elaborazione di questo concetto si trova in I. PERNICE, Die Dritte Gewalt im europäischen Verfassungsverbund, in EuR, 1996, 27 ss. Lo stesso Autore definirà poi questa “multilevel constitution” come “the European Constitution” (I. PERNICE, The Role of National Parliaments in the European Union, WHI – Paper, n. 5, 2001, 11).

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federali(96), è stata applicata anche ai rapporti fra ordinamento interno ed internazionale. La divisione della sovranità non sarebbe altro che la ripartizione delle competenze fra distinti centri istituzionali che ne eserciterebbero i contenuti secondo regole proprie, in parte diverse da quelle statali. La sovranità divisa, quindi, coglie uno degli aspetti ed uno dei contenuti del termine sovranità (cfr. infra par. 2.2.2.). Nondimeno, la caratteristica essenziale per potersi parlare di multilivello costituzionale “is that the legitimacy of the various levels of government is not derived from one another. Rather, each level of government has “original” legitimacy, insofar as it is democratically founded on the general will of the people affected by its policies, on the one hand, and has direct jurisdiction over the people (citizenry) from which its legitimacy is derived, on the other”(97).

In ragione di queste premesse, i trattati comunitari, ma anche altre norme internazionali, quali la Convenzione europea per i diritti dell’uomo e la World Trade Organization ed i livelli sub-statali di governo, non devono essere viste come istituzioni e norme separate rispetto agli ordinamenti interni, bensì complementari a questi ultimi nella definizione del contenuto dei diritti e delle garanzie individuali. Nella specie, il processo comunitario avrebbe generato un nuovo contratto sociale a livello europeo che “although the form of an international treaty is maintained, such treaties can be regarded, therefore, as a common exercise of constitution-making power by the peoples of the participation State. Constituting the European Union and making its policies are joint exercise of the people’s sovereignty” (98). Il risultato di questo processo costituzionale sarebbe una modifica “either implicit or express” delle Costituzioni nazionali nella parte in cui queste non sono compatibili con il diritto comunitario. In particolare, “national constitutions, thus, are open for the constitution of a supranational framework of political deliberation, decision-making and action which stems from the citizens of the Member

(96) Cfr. A. DE TOCQUEVILLE, De la démocratie en Amérique, Paris, 1986, chapitre VIII, che parla di “partager la souverainité”. Una rivisitazione del concetto si trova in I. PERNICE, The framework rivisited: Constitutional, federal and subsidiarity issues, in Col. Jour. Eur. Law, 1996, 403 (418 ss.). (97) I. PERNICE, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited?, cit., 709. (98) L’espressione European social contract è stata introdotta da J.H.H. WEILER, “‘… We will do. And Hearken’. Reflections on a Common Constitutional Law for the European Union”, 413 (439), in R. BIEBER, P. WIDMER (Eds.), L’espace constitutionnel européen. Der europäische Verfassungsraum. The European constitutional area, Zürich, 1995, e quindi ripresa da I. PERNICE, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited?, cit., 710 e 717-718.

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States and integrates their institutions as elements in a new system of multilevel democracy”(99).

2. I RAPPORTI FRA ORDINAMENTO GIURIDICO INTERNAZIONALE E ORDINAMENTI STATUALI: PROFILI DOGMATICI.

In una diversa prospettiva metodologica, i rapporti fra ordinamento

internazionale e statale possono essere oggetto d’indagine in chiave dogmatica. Le relazioni ordinamentali sono descritte a partire dal dato giuridico positivo che si rinviene, nel caso di specie, perlopiù nelle Carte fondamentali dei vari ordinamenti. È stato rilevato(100) che, a differenza dell’indagine teorica, che necessariamente distingue fra molti ordinamenti giuridici, il punto di vista dogmatico, pur riconoscendo la pluralità degli ordinamenti, non può che collocarsi all’interno di uno e non più di uno di essi e, dal punto di vista interno, l’ordinamento che vale, nel senso di obbligatorio, è sempre e solo uno.

Queste conclusioni non mutano anche nel caso in cui si privilegi, conformemente alla impostazione prevalente in questa sede, una ricostruzione assiologicamente orientata dei rapporti fra ordinamenti, ovverosia basata sulla concorrenza fra valori giuridici appartenenti ad ordinamenti diversi, anziché fra fonti di produzione. L’analisi verrà condotta su due diversi piani: quello statale, al fine di accertare la rilevanza giuridica delle norme internazionali e comunitarie e quello comunitario, per accertare la rilevanza delle norme statali ed internazionali.

Non sarà assunto il terzo, possibile, piano d’indagine, quello internazionale poiché in tale contesto la rilevanza delle norme statali e comunitarie assume un significato solo, per così dire, traslato. Le norme comunitarie, pur dotate di caratteri peculiari, possono essere ricondotte al

(99) I. PERNICE, The Role of National Parliaments in the European Union, cit., 11. (100) G. ITZCOVICH, Integrazione giuridica. Un’analisi concettuale, cit., 769 ss., queste conclusioni sono obbligate dalla nozione stessa di ordinamento giuridico che, nella sua essenza, riconduce all’ordine, all’unità. Per questo, “se fosse possibile considerare due norme giuridiche incompatibili, prodotte da fonti distinte, come entrambe valide e applicabili a un determinato caso, senza che l’ordinamento offra un criterio per la soluzione del conflitto, l’ordinamento non sarebbe ordinato: sarebbe una pluralità irriducibile di ragioni fra loro incommensurabili, non un ordinamento giuridico” (770-771). Analoghe considerazioni sono espresse da E. CANNIZZARO, Esercizio di competenze e sovranità nell’esperienza giuridica dell’integrazione europea, in Riv. Dir. Cost., 1996, 75 (90), ove rileva che una ricostruzione dei rapporti fra ordinamento comunitario e interno in termini di legittimità “appare limitata all’ordinamento di riferimento; una valutazione capace di imporsi rispetto a tutti i sistemi di riferimento ha come unico parametro quello dell’effettività”.

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genus dell’ordinamento internazionale(101). Le norme interne, invece, assumono rilevanza giuridica nell’ordinamento internazionale quale oggetto del divieto di giustificare l’inadempimento degli obblighi internazionali(102). Ancora più intensamente, la Corte Permanente di Giustizia Internazionale ha sostenuto, nel caso Scambio di popolazioni greche e turche (PCIJ, Series B, n. 10, 20), l’esistenza di un obbligo generale per gli Stati di conformare il proprio diritto interno agli obblighi internazionali. La dottrina internazionalista, tuttavia, ritiene che tale norma non abbia carattere consuetudinario né di principio generale(103). In secondo luogo, non può essere disconosciuto che i fatti e gli atti giuridici statali (e comunitari) abbiano una rilevanza nella formazione delle norme internazionali e delle decisioni dei tribunali internazionali. 2.1. Il valore internazionalista nella Costituzione italiana. Il disegno originario.

Fra i Principi Fondamentali della Costituzione italiana sono ricomprese tre disposizioni che fanno riferimento ad ordinamenti o a fonti del diritto in qualche modo “esterne”: si dispone la reciproca indipendenza e sovranità degli “ordini” statuale e ecclesiale (art. 7 della Costituzione (Cost.)); si impone l’obbligo di conformarsi alle “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” (art. 10, comma 1, Cost.), si dettano regole in merito alla condizione dello straniero (art. 10, commi 2, 3 e 4, Cost.) e si consentono le “limitazioni di sovranità” necessarie alla costituzione di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni (art. 11 Cost.). Altre disposizioni sono contenute nell’art. 35, comma 3, Cost. in materia di lavoro e negli artt. 87, comma 8, e 80 Cost. che attribuiscono, rispettivamente, al Presidente della Repubblica il potere di ratifica dei trattati internazionali ed al Parlamento il potere di autorizzazione alla ratifica dei trattati per le fattispecie tassativamente indicate.

(101) Come si è già rilevato, è la stessa Corte di giustizia che riconosce tale conclusione nella causa 26/62, Van Gend en Loos, para. IIB. (102) Questo principio è stato riconosciuto dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale (“Permanent Court of International Justice” PCIJ) nel caso Cittadini polacchi a Danzica, PCIJ, Series A/B, n. 44, 1931, 24, e nel caso Zone franche, PCIJ, Series A/B, n. 46, 167, ed è stato codificato dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 all’art. 27: “A party may not invoke the provisions of its internal law as justification for its failure to perform a treaty”. (103) M. GIULIANO, Diritto internazionale. I. La società internazionale e il diritto, Milano, 1974, 287 ss.; A. CASSESE, Diritto internazionale, Bologna, 2006, 285-286. Contra: P. MALANCZUK, Akehurst’s Modern Introduction to International Law, London, 1997, 64; I. BROWNLIE, Principles of International Law, Oxford, 1998, 35.

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2.1.1. L’art. 10, primo comma, Cost. e le norme internazionali generalmente riconosciute.

L’art. 10, comma 1, Cost. prescrive la conformità dell’ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Tale disposizione introduce nel sistema un meccanismo di adeguamento automatico alle norme internazionali “generalmente riconosciute” ma pone, soprattutto, delle garanzie costituzionali nei confronti di queste norme(104).

Il primo profilo della norma in questione, quello della predisposizione di un meccanismo automatico di adeguamento dell’ordinamento interno a quello internazionale, riguarda la procedura formale di adattamento ed esecuzione delle norme internazionali nell’ordinamento interno. La dottrina ha attribuito a tale norma due diversi, e parzialmente contrapposti, significati. Per alcuni, l’art. 10, comma 1, Cost. dovrebbe essere considerato una norma sulla produzione(105). L’adeguamento all’ordinamento internazionale si realizzerebbe, istante per istante, attraverso la produzione di norme interne non scritte conformi a quelle internazionali realizzando contemporaneamente la trasformazione della struttura della norma internazionale e attribuendovi efficacia. In un affinamento teorico di questa tesi, l’art. 10 è qualificato quale norma che rinvia ai fatti di produzione dell’ordinamento internazionale. Tali fatti, diversamente valutati dall’ordinamento internazionale e statale che vi fa rinvio, sarebbero idonei a creare, modificare o estinguere norme corrispondenti nell’ordinamento interno in virtù del rinvio contenuto nell’art. 10, comma 1, Cost.(106).

In una diversa prospettiva(107), l’art. 10, comma 1, Cost. si dovrebbe considerare quale rinvio formale che attribuisce direttamente alle norme internazionali efficacia giuridica nell’ordinamento interno. Naturalmente, questa prospettiva presuppone che la norma internazionale possa essere applicata nell’ordinamento interno senza alcuna modificazione del suo contenuto originario, ovverosia che la norma disciplini direttamente rapporti intersoggettivi. (104) E. CANNIZZARO, Trattati internazionali e giudizio di costituzionalità, Milano, 1991, 281. (105) L’originaria formulazione di questa tesi si deve a T. PERASSI, La Costituzione italiana e l’ordinamento internazionale, in Scritti giuridici, I, Milano, 1958, 415 (429); Id., Lezioni di diritto internazionale, II, Padova, 1957, .29. Similmente, A. AMATUCCI, Il conflitto tra norme internazionali ed interne tributarie, 81 (82), in Studi in onore di V. Uckmar, I, Padova, 1997; C. SACCHETTO, Le fonti del diritto internazionale tributario, 47 (54), in AA.VV., Corso di diritto tributario internazionale, Padova, 2005. (106) Per questa raffinata costruzione teorica, cfr. A. LA PERGOLA, Costituzione e adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale, cit., 81 ss. (107) M. MIELE, La costituzione italiana ed il diritto internazionale, Milano, 1951, 15 ss.

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In sintesi, sul piano formale l’art. 10, comma 1, Cost. opera quale ordine di applicazione diretto ad attribuire efficacia giuridica ad una regola sprovvista di tale capacità nell’ordinamento interno(108). Nonostante la differente formulazione letterale, la norma richiama l’art. 4 della Costituzione di Weimar(109), che considera “parte” dell’ordinamento interno le norme fondamentali dell’ordinamento internazionale.

Sebbene l’efficacia formale della disposizione non possa essere elusa, la prospettiva d’indagine adottata in questa sede privilegia gli elementi di ordine sostanziale.

L’art. 10, comma 1, Cost. rivela che il sistema dei principi (o valori) dell’ordinamento costituzionale italiano non è un sistema chiuso(110). Tale norma costituisce, infatti, lo strumento attraverso cui le regole fondamentali della comunità internazionale fanno ingresso nell’ordinamento interno. Il sistema dei principi (o valori) costituzionali, quindi, si compone non solo di quelli affermati espressamente dalla Carta fondamentale ma anche di quelli propri dell’ordinamento internazionale(111). Questa interpretazione è condivisa anche dalla Corte costituzionale che ha ritenuto le norme internazionali generalmente riconosciute possano derogare alle norme costituzionali, con il solo limite dei principi e diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale(112).

(108) Conformemente, E. CANNIZZARO, A. CALIGIURI, sub Art. 10, 242 (245), in Commentario alla Costituzione. Artt. 1-54, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino, 2006. (109) Tale articolo disponeva “Die allgemein anerkannten Regeln des Völkerrechts gelten als bindende Bestandteile des deutschen Rechtsrecht” (“Le regole generalmente riconosciute del diritto internazionale valgono come elementi vincolanti del diritto imperiale tedesco”). L’art. 25 della Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania (Grundgesetz) non si discosta da tale formula: “Die allgemeinen Regeln des Völkerrechtes sind Bestandteil des Bundesrechtes” (“Le regole generali del diritto internazionale sono elementi costitutivi del diritto federale”). (110) Condividono questa interpretazione, fra gli altri, V. ONIDA, Costituzione italiana, in Dig. Disc. Pubbl., IV, Torino, 1989, 321 (334); C. SACCHETTO, Il diritto internazionale tributario tra norme del sistema costituzionale italiano, effettività ed utopia, 299 (302-303), in L. PERRONE e C. BERLIRI, Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006; G. FERRARA, Sulle fonti del diritto. Qualche premessa, in Costituzionalismo.it, 2006. (111) Parla di un “arricchimento” del “quadro del sistema costituzionale” anche E. CANNIZZARO, Trattati internazionali e giudizio di costituzionalità, cit., 284. Questa impostazione è condivisa anche da una parte della dottrina tedesca. Cfr., K. VOGEL, Die Verfassungsetnscheidung des Grundgesetz für eine internationale Zusammenarbeit, 3 (33 ss.), in K. VOGEL, Der offene Finanz- und Steuerstaat. Ausgewählte Schriften 1964 bis 1990, Heidelberg, 1991. (112) Il tema dei limiti dei principi supremi o fondamentali sarà ripreso ampiamente infra al para. 3.2. L’affermazione dei “controlimiti” all’apertura alle norme internazionali generalmente riconosciute si trova in Corte cost., sentenza 18 giugno 1979, n. 48, in Giur.

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Il procedimento di assorbimento dei principi (o valori) fondamentali internazionali da parte dell’ordinamento costituzionale interno produce, ovviamente, un aumento della complessità del sistema costituzionale e della difficoltà di una riduzione all’unità sistematica.

L’art. 10, comma 1, Cost., è quindi norma strumentale (o se si preferisce, norma sulla produzione giuridica) poiché consente l’ingresso nell’ordinamento costituzionale interno di valori e principi dell’ordinamento internazionale ma è, allo stesso tempo, un valore supremo della Costituzione, e perciò irriducibile. Tale disposizione costituisce la formalizzazione costituzionale della (necessaria) interdipendenza fra Stati e della necessità di realizzare un determinato modus vivendi nella sfera delle relazioni internazionali(113). 2.1.2. L’art. 10, primo comma, Cost. ed i trattati internazionali. Ricostruzione della loro rilevanza in una prospettiva assiologicamente orientata.

È assolutamente superfluo ribadire che l’art. 10, primo comma, Cost. non si applica agli accordi internazionali. Il costituente ha infatti voluto assegnare solo alle norme che disciplinano i principi costitutivi dell’ordinamento internazionale la garanzia sostanziale più intensa(114). L’ordinamento interno attribuisce quindi valore costituzionale alle norme internazionali che siano riconosciute come tali dalla generalità degli stati che compongono la comunità internazionale.

Questa conclusione merita, tuttavia, alcune ulteriori precisazioni e dev’essere delimitata nella sua assolutezza.

In primo luogo, il costituente ha assegnato un valore sostanziale più intenso agli accordi internazionali stipulati in determinati ambiti materiali.

Cost., 1979, 373, giustificata in ragione dei “cardini” della sovranità popolare e della rigidità della Costituzione (punto 3 del considerato in diritto). (113) In questo senso, quasi testualmente, E. CANNIZZARO, Trattati internazionali e giudizio di costituzionalità, cit., 269-270. Un’ampia ed articolata ricostruzione degli ideali “internazionalisitici” delle forze politiche presenti nella Costituente è offerta da A. Cassese, Lo Stato e la Comunità internazionale, 461 ss., in Commentario della Costituzione. Principi fondamentali. Artt. 1-12, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1975. Di assoluta rilevanza appare la notazione che “le norme internazionalistiche della Costituzione presentano, sotto il profilo della loro genesi, una caratteristica importante: mentre numerose altre disposizioni costituzionali furono il frutto di un compromesso, spesso difettoso, tra varie tendenze politico-ideologiche contrastanti – talché Calamandrei potè dire che la Costituzione dava “una impressione di eterogeneità” – le norme internazionalistiche risultarono da una ampia convergenza tra le principali forze politiche italiane” (462). (114) In questo senso, ampiamente, G. BARILE, Diritto internazionale e diritto interno. Rapporti fra sistemi omogenei ed eterogenei di norme giuridiche, Milano, 1964, 13 ss, 71 ss., 109 ss.

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Questo è il caso dell’art. 10, secondo comma, Cost. che, in merito alla condizione dello straniero, rinvia alle norme dei trattati internazionali(115); l’art. 11 Cost., per gli accordi internazionali che assicurino la pace e la giustizia fra le Nazioni, e l’art. 35, secondo comma, Cost., che, in maniera speculare, “promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro”. In tutti questi casi, le norme convenzionali rese esecutive, realizzando direttamente valori e principi costituzionali, sono dotate di una resistenza all’abrogazione superiore rispetto alla loro forza. Gli atti normativi successivi dotati della medesima forza, quindi, non possono abrogare gli atti di esecuzione precedenti. Rispetto a tali trattati, si realizza una dissociazione fra forma degli atti di esecuzione e valore giuridico. Poiché funzionali alla realizzazione delle disposizioni costituzionali, le norme convenzionali non possono in alcun modo derogarvi. Ad eccezione dei trattati che trovano “copertura” nell’art. 11 Cost. (su cui ampiamente infra), tali norme trovano nella Costituzione un limite sostanziale inderogabile(116)

Un secondo effetto prodotto dal richiamo costituzionale è dato dal fatto che le norme convenzionali possono costituire parametro di legittimità nei giudizi di costituzionalità, ovverosia operare quale tertium comparationis nell’accertamento della legittimità degli atti legislativi interni.

Conclusioni analoghe possono essere estese, ad avviso di chi scrive, anche agli altri valori e principi costituzionali, a prescindere da un espresso richiamo formale della disciplina internazionale. In particolare, indipendentemente dall’atto formale con cui i trattati internazionali sono

(115) In questo senso, cfr., Corte cost., sentenza 18 maggio 1960, n. 32, in Giur. Cost., 1960, 537; sentenza 23 novembre 1967, n. 120, in Foro It., 1968, I, 20, para. 2 del considerato in diritto; sentenza 22 dicembre 1980, n. 188, in Giur. Cost., 1980, 1612; sentenza 20 maggio 1982, n. 96, in Giur. Cost., 1982, 957; sentenza 6 giugno 1989, n. 323, in Giur. Cost., 1989, 1473; sentenza 23 novembre 2006, n. 393, in Giur. Cost., 2006, 4106, punto 6.1. del considerato in diritto. Cass., I, sentenza 14 giugno 2002, n. 8503; Cass., I, sentenze 6 aprile 2004, n. 6759 e 6760, punto 2.6. della motivazione, entrambe in banca dati DeAgostiniProfessionale. Per la dottrina, A. LA PERGOLA, Costituzione e adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale, cit., 320 ss.; A. CASSESE, L’efficacia delle norme italiane di adattamento alla convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. Int. Dir. Priv. Proc., 1969, 918 (932); A. BERNARDINI, Formazione delle norme internazionali e adattamento al diritto interno, Pescara, 1973, 168, 183. (116) Di questo avviso è anche la Corte cost., sentenza 21 giugno 1979, n. 54, in Giur. Cost., 1979, 527, ove, riferendosi ai trattati internazionali che “danno esecuzione” all’art. 10, comma 2, Cost., si rileva che “anche in questo campo (…) qualora non vengano in considerazione “norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”, s’impone la comune esigenza di verificare la conformità delle leggi e delle fonti equiparate rispetto ad ogni norma o principio costituzionale” (punto 5 della motivazione in diritto).

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stati resi esecutivi e, quindi, della corrispondente efficacia giuridica, le norme convenzionali acquistano una rilevanza giuridica del tutto peculiare nella misura in cui rendono effettivi i valori e principi costituzionali(117). Questa peculiarità produce, come si è sopra cercato di evidenziare, la resistenza di tali norme convenzionali all’abrogazione di atti normativi successivi (in deroga al principio lex posterior derogat priori) e la loro qualificazione quale parametro di legittimità costituzionale contribuendo a determinare e a specificare il contenuto materiale delle norme costituzionali.

È bene ribadire che questa ricostruzione lascia impregiudicati i risultati sopra raggiunti in merito all’art. 10, primo comma, Cost. L’adattamento automatico, quindi, è applicabile alle sole norme internazionali generalmente riconosciute. I trattati internazionali, per produrre effetti nell’ordinamento interno, devono essere necessariamente sempre resi esecutivi da un atto (normativo) interno.

L’ambito di applicazione privilegiato di applicazione di questo modello dei rapporti fra norme interne e convenzionali è naturalmente quello dei diritti dell’uomo, ovvero quei trattati e quelle norme convenzionali in qualche modo collegati all’art. 2 Cost(118). Ma tale ambito non esaurisce le fattispecie, una volta accertata la possibilità che anche altri atti internazionali possano concorrere alla realizzazione del sistema costituzionale di valori.

Da ultimo, non è superfluo ribadire di nuovo che i trattati internazionali, seppur concorrenti a realizzare valori costituzionali, non possono derogare alle disposizioni della Costituzione, siano esse da considerare fondamentali o meno.

(117) Una costruzione analoga dei rapporti fra diritto interno e diritto internazionale convenzionale si trova in G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale. I. Il sistema delle fonti del diritto, Torino, 1988, 125; G. BARILE, Costituzione e diritto internazionale. Alcune considerazioni generali, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1986, 951 (970 ss.), che, tuttavia, limita tale effetto ai soli diritti dell’uomo (art. 2 Cost.) e al principio di eguaglianza (art. 3 Cost.); E. CANNIZZARO, Trattati internazionali e giudizio di costituzionalità, cit., 185 ss.; 368 ss.; ID., Gerarchia e competenza nei rapporti fra trattati e leggi interne, in Riv. Dir. Int., 1993, 351 (365 ss.). (118) Questa conclusione trova una conferma anche nell’ordinamento internazionale. L’art. 60, para. 5, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 considera inapplicabili al diritto umanitario sia il principio dell’inadimplenti non est adimplendum, sia il principio delle rappresaglie specifiche, che importi, cioè, la violazione di un diritto dell’uomo (“5. Paragraphs 1 to 3 do not apply to provisions relating to the protection of the human person contained in treaties of a humanitarian character, in particular to provisions prohibiting any form of reprisals against persons protected by such treaties”).

LA SOVRANITÀ DEI PRINCIPI

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Questo modello teorico trova qualche riferimento anche nella giustizia costituzionale, in particolare nella sentenza 19 gennaio 1993, n. 10(119). In questa pronuncia, il giudice costituzionale ha utilizzato alcune disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentale del 1950 ed il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, entrambe rese esecutive dall’Italia, per chiarire il significato del fondamentale diritto di difesa contenuto nell’art. 24, secondo comma, Cost. Riferendosi al diritto dell’imputato di essere dettagliatamente informato nella lingua da lui conosciuta, la Corte ha affermato che “poiché si tratta di un diritto la cui garanzia, ancorché esplicitata da atti aventi il rango della legge ordinaria [gli accordi internazionali sopra citati], esprime un contenuto di valore implicito nel riconoscimento costituzionale, a favore di ogni uomo (cittadino o straniero), del diritto inviolabile alla difesa (art. 24, secondo comma, della Costituzione), ne consegue che, in ragione della natura di quest’ultimo quale principio fondamentale, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, il giudice è sottoposto al vincolo interpretativo di conferire alle norme, che contengono le garanzie dei diritti di difesa in ordine alla esatta comprensione dell’accusa, un significato espansivo, diretto a render concreto ed effettivo, nei limiti del possibile, il sopra indicato diritto dell’imputato” (punto 3 del considerato in diritto).

Seppur con molta cautela – il testuale richiamo ai principi fondamentali; alle fonti a competenza atipica; l’ambito dei diritti dell’uomo – il giudice costituzionale adotta una soluzione interpretativa che deriva dal collegamento fra valori costituzionali e disposizioni contenute in trattati resi esecutivi da leggi ordinarie(120).

(119) In Riv. Dir. Int., 1993, 255. La rilevanza costituzionale delle convenzioni in materia di diritti dell’uomo è stata, più recentemente, affermata nelle sentenze 29 gennaio 1996, n. 15, in Riv. Dir. Int., 1996, 504; 12 dicembre 1998, n. 399, in Riv. Dir. Cost., 1999, 504; 22 ottobre 1999, n. 388, in Riv. Dir. Int., 2000, 215; sentenza n. 393 del 2006, punto 6.1. del considerato in diritto. (120) Riferendosi alla situazione precedente alla novella dell’art. 117, comma 1, Cost., il giudice costituzionale nella sentenza 24 ottobre 2007, n. 348, al punto 4.3. del considerato in diritto, osserva: “rimanevano notevoli margini di incertezza, dovuti alla difficile individuazione del rango delle norme CEDU, che da una parte si muovevano nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali delle persone, e quindi integravano l’attuazione di valori e principi fondamentali protetti dalla stessa Costituzione italiana, ma dall’altra mantenevano la veste formale di semplici fonti di grado primario. Anche a voler escludere che il legislatore potesse modificarle o abrogarle a piacimento, in quanto fonti atipiche (secondo quanto affermato nella sentenza n. 10 del 1993 di questa Corte, non seguita tuttavia da altre pronunce dello stesso tenore), restava il problema degli effetti giuridici di una possibile disparità di contenuto tra le stesse ed una norma legislativa posteriore”. Più cauta ma significativa anche la sentenza 24 ottobre 2007, n. 349, che dopo aver rilevato che la sentenza n. 10 del 1993 “è rimasta senza seguito”, afferma che dalla giurisprudenza

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Nei paragrafi successivi il rapporto fra norme interne e convenzionali sarà ripreso e sviluppato in relazione al vincolo degli “obblighi internazionali” contenuto nell’art. 117, primo comma, Cost. 2.1.3. L’art. 11 Cost. e la cooperazione in materia internazionale. In particolare, sua qualificazione come European Clause.

Sebbene l’art. 11 non presenti una suddivisione in commi, esso contiene due distinte norme: una prima, che dispone il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali; una seconda, che consente le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento o ad organizzazioni internazionali che assicurino la pace e la giustizia fra le Nazioni. Norme distinte, dunque, anche sotto il profilo strutturale, l’una prevedendo un divieto pressoché assoluto e l’altra regolando le condizioni di fondo dell’azione internazionale dell’Italia, ma accomunate da una medesima ratio che, accanto all’evidente apertura internazionalista, può essere sintetizzata nel pacifismo e nel solidarismo delle relazioni internazionali del nostro Paese(121).

Oggetto d’interesse della presente trattazione sono, naturalmente, la seconda e la terza proposizione dell’art. 11 Cost. che, nonostante abbiano interessato la letteratura giuridica quasi esclusivamente per la ricostruzione dei rapporti fra ordinamento interno ed ordinamento comunitario, regolano un ambito materiale ben più ampio. In primo luogo, la disposizione non si riferisce ai soli atti internazionali istitutivi di “organizzazioni internazionali” bensì anche a forme non istituzionalizzate delle relazioni internazionali che possano comunque produrre una limitazione di sovranità statale. In una prima approssimazione, quindi, qualsiasi vincolo, di fonte interna o internazionale, che sia funzionale agli obiettivi indicati dall’art. 11 Cost. dovrebbe ricadere nell’ambito di applicazione della disposizione. Poiché ogni trattato internazionale comporta un limite, più o meno ampio

costituzionale è desumibile “un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme della Convenzione [Cedu], in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi nell’intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare” (enfasi aggiunta) (punto 6.1.2. della motivazione in diritto). (121) Questi elementi emergono chiaramente da una lettura storica, fondata sui lavori preparatori alla Costituzione, della disposizione. Un’ampia ricostruzione è contenuta in A. CASSESE, Lo Stato e la Comunità internazionale, cit., 468 ss.; Parte dei documenti che la letteratura costituzionalista elaborò nel corso dell’elaborazione della Costituzione sono stati ripubblicati in Riv. Dir. Int., 1977, 334 ss., e commentati, soprattutto la relazione Ago-Morelli alla I Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, da A. CASSESE, Il contributo degli internazionalisti ai lavori del Ministero per la Costituente, in Riv. Dir. Int., 1977, 47.

LA SOVRANITÀ DEI PRINCIPI

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alla sovranità dello Stato, diviene essenziale individuare il discrimen fra gli atti, interni e internazionali, che comportano una limitazione di sovranità ai sensi dell’art. 11 Cost. e quelli che ne sono esclusi. La disposizione costituzionale offre, a questo proposito, un’indicazione ampia, inerente alle finalità che gli atti e le organizzazioni internazionali devono perseguire. Il rischio, come è stato puntualmente rilevato, è che tale delimitazione teleologica possa “tradursi in “quello cui si vuole o si ha interesse che esso si riferisca”, dal momento che un fenomeno organizzativo internazionale persino parziale, settoriale, regionalmente delimitato risponderebbe, o verrebbe asserito rispondere, allo scopo di migliorare i rapporti fra Stati coinvolti (…), di renderli più pacifici o meno esposti ad ostilità reciproche, di stabilire normative o meccanismi che riducano al minimo i possibili conflitti e ne predispongano i mezzi di soluzione”(122).

La giurisprudenza costituzionale sul punto non offre molto aiuto, in ragione dell’esiguità delle pronunce in merito. La questione si è posta con riferimento alla stipula dell’Accordo generale sulle tariffe e sul commercio (General Agreement on Tariffs and Trade, GATT). In queste occasioni(123), la Corte costituzionale non ha accolto l’interpretazione, contenuta nell’istanza di rimessione del giudice a quo, favorevole a considerare un’organizzazione internazionale con finalità esclusivamente economiche quale organizzazione che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. La Corte, sebbene non manchi di richiamare le finalità del GATT, ha particolarmente enfatizzato il carattere “sovranazionale” delle organizzazione internazionali cui l’art. 11 Cost. si applica(124). Accanto alla (122) A. BERNARDINI, L’art. 11 della Costituzione rivisitato, in Riv. Dir. Int., 1997, 609 (650). (123) Si tratta delle sentenze 20 maggio 1982, n. 96, in Giur. Cost., 1982, 957, e 25 luglio 1985, n. 219, in Giur. Cost., 1985, 1688. Entrambe le pronunce si riferiscono alla materia tributaria, avendo ad oggetto l’applicazione dell’art. III, par. 2, del GATT che regola gli scambi fra i Paesi aderenti all’accordo in base al divieto di discriminazione fiscale fra i prodotti importati e quelli interni (“The products of the territory of any contracting party imported into the territory of any other contracting party shall not be subject, directly or indirectly, to internal taxes or other internal charges of any kind in excess of those applied, directly or indirectly, to like domestic products”). In entrambi i casi si trattava di accertare la legittimità di una norma interna successiva che modificava in aumento l’aliquota d’imposta dei soli prodotti importati, in violazione della legge ordinaria d’esecuzione dell’accordo GATT. (124) Al punto 6 della sentenza n. 96 del 1982, la Corte osserva che “i precetti [artt. 11 e 10 Cost.] che si assumono violati erigono a limite della legge ordinaria il rispetto dei trattati istitutivi di organizzazioni sovranazionali, qual è la CEE (…)”. Più sfumata, seppure richiami la sentenza n. 96 del 1982, la posizione nella successiva pronuncia n. 219 del 1985. Al punto 5.1 di quest’ultima sentenza, la Corte afferma: “(...) la legge di esecuzione del GATT non deve, né può essere assimilata, sul piano delle fonti interne, a quella emanata per conferire efficacia interna al Trattato di Roma: la quale ultima, in conformità ed adempimento di tale precetto costituzionale, ha autorizzato la limitazione dei poteri

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rilevanza, espressamente prevista dal disposto costituzionale, dell’elemento teleologico per determinare le organizzazioni internazionali rientranti nella terza proposizione dell’art. 11 Cost., la giurisprudenza costituzionale sembra aggiungerne uno di tipo materiale, riconducibile alla struttura istituzionale e normativa delle organizzazioni internazionali. In questo senso, non solo non si dovrebbero (il condizionale è d’obbligo vista l’assenza di giurisprudenza sul punto) ricomprendere fra gli ordinamenti che assicurino la pace e la giustizia fra le Nazioni gli atti unilaterali dello Stato a rilevanza internazionale e gli accordi internazionali non istitutivi di una organizzazione, ma fra quest’ultime solo quelle che assicurino pace e giustizia e abbiano carattere “sovranazionale”.

In aggiunta all’elemento teleologico, l’art. 11 Cost. richiede che l’instaurazione di un ordinamento o di organizzazioni internazionali avvenga “in condizioni di parità con gli altri Stati”.

Se tali elementi sussistono, indipendente appare lo strumento giuridico diretto ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni, sia esso un’attività o un atto statale che abbia rilevanza internazionale, sia esso un’attività o un atto internazionale, costitutivo o meno di una organizzazione. La disposizione costituzionale, quindi, non garantisce una determinata attività o un atto, interno o internazionale, in sé, ma in funzione della realizzazione delle finalità costituzionalmente rilevanti(125). Le garanzie apprestate sono, in definitiva, funzionalmente orientate ai valori del sistema costituzionale.

Proprio in relazione agli obiettivi che l’attività internazionale dello Stato deve perseguire, la pace e la giustizia fra le Nazioni, si realizza un ideale raccordo fra la seconda e la terza proposizione dell’art. 11 Cost. e la prima, che esprime il ripudio per la guerra. Nel nuovo ordine di relazioni internazionali voluto dal costituente, trova spazio non solo il rispetto delle norme internazionali dirette ad assicurare la coesistenza pacifica fra gli Stati sovrani, bensì, in chiave propositiva, la promozione delle condizioni che possano assicurare i valori di libertà e giustizia affermati dal nuovo

sovrani dello Stato e il relativo trasferimento ad un ente del tipo sovrannazionale, come esigeva l’ingresso dell’Italia nell’ordinamento del Mercato Comune. Il GATT, per parte sua, è solo un accordo tariffario e commerciale. La regola, in esso posta, del pari trattamento tributario dei prodotti non è assistita da alcun titolo per valere come criterio di raffronto nei riguardi della legge ordinaria”. (125) Così si esprime la letteratura internazionalista; cfr. A. MIGLIAZZA, Le comunità europee in rapporto al diritto internazionale e al diritto degli Stati membri, Milano, 1964, 63 ss.; G.L. TOSATO, I regolamenti delle Comunità europee, Milano, 1965, 305 ss.; F. SORRENTINO, Corte costituzionale e Corte di giustizia delle comunità europee, I, Milano, 1970, 88 ss.; G. TREVES, Le limitazioni di sovranità ed i trattati internazionali, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1973, 561 (562 ss.); G. STROZZI, Regioni e adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale, Milano, 1983, 63 ss.; E. CANNIZZARO, Trattati internazionali e giudizio di costituzionalità, cit., 298-299.

LA SOVRANITÀ DEI PRINCIPI

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assetto costituzionale(126). A tal fine, l’art. 11 Cost. consente l’ingresso, nell’ordinamento costituzionale interno, di valori e principi propri dell’ordinamento internazionale capaci di realizzare questo nuovo ordine. Tale effetto è espressamente riconosciuto dalla disposizione in oggetto allorché, consentendo “limitazioni alla sovranità”, riconosce che tali valori possano porsi in contrasto con quelli interni(127).

Proprio sul sintagma “limitazioni di sovranità” ci si deve ora soffermare. È di immediata percezione, sul piano lessicale(128), la sua formulazione in termini negativi: non “trasferimenti di sovranità”(129) ma un ben più generico vincolo alla sovranità statale. L’idea del limite rimanda immediatamente alla concezione teorica di Jellinek del fenomeno internazionale, per il quale l’ordinamento internazionale assume rilevanza interna non di per sé ma in ragione dell’autolimitazione degli Stati sovrani(130). In questo senso, gli Stati vanterebbero una sorta di primato rispetto all’ordinamento internazionale, potendo disporre delle norme

(126) Così, A. CASSESE, Lo Stato e la Comunità internazionale, 472, cit.; E. CANNIZZARO, Trattati internazionali e giudizio di costituzionalità, cit., 295 e 314 ss., che definisce tale ordine “etico” e attribuisce al concetto di giustizia la “volontà di realizzare un modello internazionale che tenda a realizzare un equilibrio fra entità nazionali” (316). (127) In questo senso, E. CANNIZZARO, Trattati internazionali e giudizio di costituzionalità, cit., 305-306. Di “autorruptura constitucional” in relazione all’art. 93 della Costituzione spagnola, parla E. ALONSO GARCÍA, La incidencia en el ordenamiento constitucional español de la Ley Orgánica 10/1985, de 2 de agosto, de autorización para la adhesión de España a las Comunidades Europeas, come puesta en prática del artículo 93 de la Constitución Española, 354 (356), in E. GARCÍA DE ENTERRÍA, J.D. GONZÁLEZ CAMPOS, S. MUÑOZ MACHADO (dir.), Tratado de Derecho Comunitario Europeo, I, Madrid 1986. (128) Aspetto colto anche da A. BERNARDINI, L’art. 11 della Costituzione rivisitato, cit., 625, che afferma che la nozione costituzionale delle “limitazioni di sovranità” ex art. 11 Cost. è di natura “intransitiva”. Da questa iniziale premessa, l’Autore deriva che tra le “limitazioni di sovranità (...) rientrano senz’altro (...) i vincoli del tipo solo “obbligatorio”” (corsivo aggiunto). (129) In questo modo (“Hoheitsrechte übertragen”) si esprimono sia l’art. 23 del Grundgesetz della Repubblica federale di Germania sia l’art. 9 del Bundes-Verfassungsgesetz della Repubblica federale d’Austria; di “attribuzione dell’esercizio di determinati poteri” (“L’exercice de pouvoirs déterminés peut être attribué par un traité ou par une loi à des institutions de droit international public”) parla l’art. 34 della Costituzione belga e l’art. 93 della Costituzione spagnola (“tratados por los que se atribuya a una organización o institución internacional el ejercicio de competencias derivadas de la Constitución”); “di esercitare in comune alcune delle proprie competenze” (“d’exercer en commun certaines de leurs compétences”) l’art. 88-1 della Costituzione francese. (130) Si veda anche A. BERNARDINI, L’art. 11 della Costituzione rivisitato, cit., 611-612; E. CANNIZZARO, Esercizio di competenze e sovranità nell’esperienza giuridica dell’integrazione europea, cit., 78, 85 e 88, ove afferma che “l’idea comunque della assoluta libertà degli Stati, e dei vincoli internazionali come frutto di autolimitazione, ha attraversato l’intero arco del pensiero scientifico e riemerge tuttora a proposito del fenomeno dell’integrazione europea” (78).

CAPITOLO I

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internazionali cui attribuire efficacia interna ma, soprattutto, potendo disporre della competenza originaria (Kompetenz-Kompetenz) nei rapporti fra ordinamenti. Il fondamento teorico di questa ricostruzione deve, tuttavia, essere rivalutato in ragione del nuovo contesto in cui l’autolimitazione a favore di ordinamenti ed organizzazioni internazionali è stato inserito (si rinvia alle considerazioni svolte nel para. 1.3.). Se è indubbiamente vero che la disposizione si riferisce a “limitazioni” della sovranità, tale elemento di ordine formale deve essere superato in ragione della qualificazione della norma, nella sua essenza, quale valore fondamentale della Costituzione italiana in materia di rapporti internazionali. Al pari dell’art. 10 Cost., di cui ne costituisce ideale continuazione ma anche una sostanziale evoluzione, l’art. 11 esprime l’esigenza di apertura alla costruzione di un più stabile assetto delle relazioni internazionali(131). In questa ricostruzione, l’apertura internazionalista dell’ordinamento trova anche il proprio limite. Gli ordinamenti internazionali (e sopranazionali) trovano nei principi e valori fondamentali interni il limite alla possibilità di una “illimitata” espansione.

Definito il senso delle “limitazioni” costituzionali, è necessario definire cosa s’intenda per “sovranità”. Il termine “sovranità”, infatti, ha valenza polisemica(132) e si presta ad assumere significati diversi in ragione dei problemi giuridici o politici che in concreto di volta in volta s’intende risolvere. La sovranità, come si è già ampiamente messo in evidenza nella prima parte di questo capitolo, può riferirsi all’insieme delle potestà dello Stato e allora si definisce in termini di “esclusività” interna e di “relatività” esterna; può riferirsi alle norme, configurandosi come attributo dell’ordinamento supremo nella riflessione kelseniana; può, infine, riferirsi ai valori essenziali di una data comunità.

(131) Ancora più incisiva è, come già rilevato, la posizione di I. PERNICE, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited?, cit., 717, che osserva che le disposizioni costituzionali relative all’Unione europea “constitute a reservation and procedure fixed in the national social contract for the conclusion and development together with the peoples of other European countries, of a European (or even international) social contract”. Queste considerazioni trovano riscontro anche nella giurisprudenza costituzionale. Nella sentenza 27 dicembre 1973, n. 183, in Giur. Cost., 1973, 2401, punto 5 del considerato in diritto, la Corte osserva che “il costituente, dopo aver stabilito all’art. 10 che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generale, ha inteso con l’art. 11 definire l’apertura dell’Italia alle più impegnative forme di collaborazione e organizzazione internazionale”. (132) Un’accurata ricostruzione storica dei vari significati del termine sovranità è effettuata da G. SILVESTRI, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, cit., 9 ss.

LA SOVRANITÀ DEI PRINCIPI

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Una ulteriore accezione di sovranità, e, più esattamente di “limitazioni di sovranità” scaturisce, secondo quanto già detto, proprio dall’applicazione che s’è fatta dell’art. 11 Cost. È noto che, in assenza di una espressa previsione costituzionale che disciplini il processo di partecipazione dell’Italia all’Unione europea, la giurisprudenza costituzionale (e la dottrina) hanno ricondotto all’art. 11 Cost., seconda e terza proposizione, la progressiva cessione di funzioni e di poteri all’Unione europea. Tale disposizione può inserirsi quindi a pieno titolo fra le c.d. “European Clauses”, ovverosia fra quelle disposizioni costituzionali per mezzo delle quali gli ordinamenti statali hanno acconsentito alla partecipazione al processo di integrazione giuridica comunitario(133). Nella oramai consolidata giurisprudenza costituzionale, le limitazioni di sovranità devono essere intese quali “limitazioni dei poteri dello Stato in ordine all’esercizio delle funzioni legislativa, esecutiva e giurisdizionale, quali si rendevano necessarie per l’istituzione di una Comunità tra gli Stati europei, ossia di una nuova organizzazione interstatuale, di tipo sopranazionale, a carattere permanente, con personalità giuridica e capacità di rappresentanza internazionale. (…). È stato così attuato da ciascuno degli Stati membri un parziale trasferimento agli organi comunitari dell’esercizio della funzione legislativa, in base ad un preciso criterio di riparazione di competenze per le materie analiticamente indicate nelle parti seconda e terza del Trattato”(134). Ad avviso della Corte(135), quindi, per limitazione di sovranità deve intendersi la limitazione delle funzioni e

(133) Il mancato riferimento, espresso, nella disposizione de qua alle organizzazioni europee deve essere addebitato al timore di poter pregiudicare i delicati equilibri internazionali dell’epoca (in questo senso, G. VEDOVATO, I rapporti internazionali dello Stato, 87 (95) in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, a cura di P. CALAMANDREI e A. LEVI, I, Firenze, 1950). L’assenza di tale riferimento non deve, tuttavia, considerarsi un sintomo di chiusura o indifferenza verso queste esperienze. Così A. CASSESE, Art. 11, 577 (578), in Commentario della Costituzione. Principi fondamentali. Artt. 1-12, a cura di G. BRANCA, Bologna-Roma, 1975; ma anche G.L. TOSATO, I regolamenti delle Comunità europee, cit., 300 ss.; E. CANNIZZARO, Trattati internazionali e giudizio di costituzionalità, cit., 297 ss. In senso decisamente contrario, A. BERNARDINI, L’art. 11 della Costituzione rivisitato, cit., 616; 620 ss.; 637 ss., che sottolinea con forza “l’ispirazione universalistica dell’articolo nella sua interezza” che emergerebbe sia dai lavori preparatori sia da elementi antecedenti i lavori stessi. (134) Corte cost., sentenza n. 183 del 1973, punto 5 del considerato in diritto. (135) Questi argomenti sono stati riproposti nelle successive pronunce aventi ad oggetto i rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamento interno. Si veda, Corte cost., sentenza 30 ottobre 1975, n. 232, punto 4 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1975, 2211; sentenza 8 giugno 1984, n. 170, punto 4 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1984, 1098; sentenza 18 aprile 1991, n. 168, punto 4 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1991, 1409; sentenza 7 novembre 1995, n. 482, para. 7 del considerato in diritto, in Giur. Cost. 1995, 4093.

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delle competenze previste dalla Carta costituzionale(136). In questa accezione di sovranità, l’art. 11, seconda e terza proposizione, consentirebbe, per via convenzionale, l’ingresso nel sistema interno di principi e valori propri di quegli ordinamenti che realizzano la pace e la giustizia fra le Nazioni.

Quanto al riparto di competenze fra Unione europea e Stati nazionali, né la Corte costituzionale né la dottrina(137) hanno approfondito il problema che, diversamente dalle certezze manifestate dalla giurisprudenza costituzionale, è tutt’altro che ispirato a precisi criteri di riparto. Le competenze della Comunità europea non sono identificate “analiticamente” per materia, bensì in maniera funzionale e, quindi, oggetto di possibile espansione attraverso disposizioni, quali l’art. 308 del Trattato Ce che attribuisce alla Comunità i poteri necessari al perseguimento di quelle finalità cui non corrisponde la previsione della necessaria azione comunitaria (norma sui poteri impliciti), ed attraverso l’ampio utilizzo dell’interpretazione teleologica da parte del giudice comunitario.

Il riparto delle competenze fra ordinamento comunitario e ordinamento interno è, di conseguenza, solo potenzialmente definito, ovverosia definito nelle sue finalità e nei suoi obiettivi ma non, come nella tradizione costituzionale degli Stati federali, in base ad un elenco analitico delle materie di competenza dello Stato federale e degli Stati membri(138).

In questo ordine di considerazioni, quindi, l’art. 11 Cost. non differirebbe, quanto alla natura, dall’art. 10, comma 1. In entrambi i casi, le norme sarebbero lo strumento per la realizzazione del principi (o valore) fondamentale di apertura del sistema costituzionale(139).

(136) M. CARTABIA, L. CHIEFFI, Art. 11, 263 (285), in Commentario alla Costituzione. Artt. 1-54, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino, 2006. (137) Ad eccezione di isolati casi: E. CANNIZZARO, Esercizio di competenze e sovranità nell’esperienza giuridica dell’integrazione europea, cit., 75; ID., Democrazia e sovranità nei rapporti tra Stati membri e Unione europea, in Dir. Unione Europea, 2000, 241. (138) In questo senso, J.H.H. WEILER, Il sistema comunitario europeo, Bologna, 1985, 113 ss.; G. DEMURO, La giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di applicazione dei regolamenti comunitari, in Giur. Cost., 1987, 2366 (2381); M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 18-19; 230-231; G. GAJA, Sulla definizione delle competenze esclusive della Comunità europea, 547 (549 ss.), in Lo stato delle istituzioni italiane – Problemi e prospettive, Milano, 1994; E. CANNIZZARO, Esercizio di competenze e sovranità nell’esperienza giuridica dell’integrazione europea, cit., 93-94; L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, cit., 429. (139) Il termine “apertura” (“öffnen”) dello stato costituzionale è utilizzato anche da P. KIRCHHOF, Die Gewaltenbalance zwischen staatlichen und europäischen Organen, in JZ, 1998, 965 (970) per descrivere la funzione dell’art. 23, para. 1, della legge fondamentale tedesca. Nello stesso senso, per la materia fiscale, P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 407.

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2.1.4. Integrazione europea e principi fondamentali del sistema costituzionale.

Alla incessante espansione delle competenze comunitarie e, quindi, quale limite all’apertura internazionalista ed alle “limitazioni di sovranità”, la Corte costituzionale ha posto freno non sul lato delle competenze quanto sul lato dei diritti e dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, elaborando la nota giurisprudenza dei “controlimiti”(140). Diversamente da altre Carte costituzionali(141), infatti, l’art. 11 Cost. non individua analiticamente i presupposti e le condizioni per la partecipazione al processo di integrazione europea e per il mantenimento di tale vincolo.

L’affermazione dell’esistenza di principi inviolabili della Costituzione ha la propria matrice teorica nel dibattito dottrinale sorto intorno al problema dei limiti alla revisione costituzionale(142). Nello sviluppo di tale “dottrina”, tuttavia, ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza costituzionale. In una prima fase, la Corte ha contrapposto il limite dei “principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato” alle norme concordatarie(143), all’apertura al diritto comunitario(144) ed al diritto internazionale generalmente riconosciuto(145). Solo nella famosa sentenza n. 1146 del 1988(146), la Corte ha ritenuto che “la Costituzione contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da

(140) Si legga, in questo senso, M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 212: “il richiamo alla sovranità dello Stato risponde all’esigenza di affermare un momento di irriducibilità dell’ordinamento italiano nei rapporti gli altri ordinamenti, e questo viene individuato, non già in un assetto del potere, bensì nel nucleo dei valori fondanti dell’ordinamento costituzionale”. (141) Non è possibile effettuare in questa sede una comparazione delle c.d. “European clauses”. Con intento meramente descrittivo, si richiama, l’art. 23, para. 1, del Grundgesetz che, nel suo primo periodo, individua i presupposti dell’integrazione comunitaria attraverso le condizioni essenziali che l’ordinamento comunitario deve possedere: “Zur Verwirklichung eines vereinten Europas wirkt die Bundesrepublik Deutschland bei der Entwicklung der Europäischen Union mit, die demokratischen, rechtsstaatlichen, sozialen und föderativen Grundsätzen und dem Grundsatz der Subsidiarität verpflichtet ist und einen diesem Grundgesetz im wesentlichen vergleichbaren Grundrechtsschutz gewährleistet” (“Per la realizzazione di un’Europa unita la Repubblica federale di Germania collabora allo sviluppo dell’Unione Europea che è fedele ai principi federativi, sociali, dello Stato di diritto e democratico nonché al principio di sussidiarietà e che garantisce una tutela dei diritti fondamentali sostanzialmente paragonabile a quella della presente Legge fondamentale”). (142) M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 141 ss. (143) Corte cost., sentenza 1 marzo 1971, n. 30, punto 3 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1971, 150; sentenza 1 marzo 1971, n. 31, in Giur. Cost., 1971, 154. (144) Corte cost., sentenza n. 183 del 1973, para. 9 del considerato in diritto. (145) Corte cost., sentenza n. 48 del 1979, para. 3 del considerato in diritto. (146) Corte cost., sentenza 29 dicembre 1988, n. 1146, in Giur. Cost., 1988, 5565.

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altre leggi costituzionali”. Tali sono quei principi che “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (punto 2.1. del considerato in diritto). I diritti e i principi fondamentali, ovvero “i valori supremi” dell’ordinamento costituzionale, quindi, operano indistintamente quale limite alla revisione dall’interno e all’apertura all’esterno dell’ordinamento costituzionale e si pongono a garanzia ultima di quest’ultimo. Ciò che resta precluso alla revisione costituzionale ed al diritto internazionale e comunitario non è la modifica o la deroga delle disposizioni costituzionali ma, piuttosto, del loro contenuto di principio o di valore(147). L’inviolabilità non è quindi un predicato delle disposizioni scritte della Costituzione, bensì un quid ad esse connesso, che pure non si risolve completamente in esse.

Quanto, più specificamente, al rapporto fra ordinamento comunitario ed ordinamento interno, la più compiuta definizione del limite è contenuta nella sentenza n. 232 del 1989(148). In questa pronuncia, la Corte costituzionale individua chiaramente la sua competenza ad accertare, “attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del Trattato, così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana”.

È stato osservato(149), che la dottrina dei “controlimiti” può operare secondo due diverse direttrici. Da un lato, i principi supremi possono essere utilizzati per porre un limite effettivo all’integrazione fra ordinamenti, ovverosia porli in posizione alternativa e concorrenziale; dall’altro lato, all’opposto, essi possono servire l’esigenza di mantenere una possibilità di intervento e controllo continuo dello Stato sulle competenze trasferite in capo ad altri ordinamenti (in primo luogo, quello comunitario), in funzione della realizzazione di coordinamento giuridico dei valori materiali degli stessi. Questo sembra essere l’orientamento

(147) Così, testualmente, M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 167 (cfr. anche 196 ss.). Nella sentenza 2 febbraio 1982, n. 18, in Giur. Cost., 1982, 138, la Corte costituzionale individua, in uno dei rarissimi casi, un principio supremo dell’ordinamento nel diritto alla tutela giurisdizionale. Ma tale diritto “si colloca al dichiarato livello di principio supremo solo nel suo nucleo più ristretto ed essenziale, cui si è innanzi accennato; ma tale qualifica non può certo estendersi ai vari istituti in cui esso concretamente si estrinseca e secondo le mutevoli esigenze storicamente si atteggia, pur se taluni di questi istituti siano garantiti da precetti costituzionali” (punto 4 del considerato in diritto; enfasi aggiunta). (148) Corte cost., sentenza 21 aprile 1989, n. 232, punto 3.1. del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1989, 1001. (149) Da M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 201-202; 216-217.

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assunto dalla giurisprudenza costituzionale nella pronuncia n. 232 del 1989 e questo è il modello cui si ispirerà la presente indagine(150).

(150) I principi supremi o fondamentali dell’ordinamento sono stati impiegati quali limiti all’integrazione comunitaria anche in altre esperienze europee. Senza alcuna pretesa di esaustività, si propongono, in estrema sintesi, il caso spagnolo e quello, decisamente controverso, tedesco. La situazione normativa spagnola è speculare a quella italiana poiché in entrambi i casi il testo costituzionale non pone limiti espressi al processo di integrazione comunitaria. Fino al Trattato che istituisce una Costituzione europea, il Tribunal Constitucional non aveva elaborato una specifica dottrina dei contro limiti (cfr., A.J. MARTÍN JIMÉNEZ, El derecho financiero constitucional de la Unión europea, cit., 127 ss.). Solo nella sentenza sulla ratifica di tale trattato, la Corte ha affermato che “esa interpretación debe partir del reconocimiento de que la operación de cesión del ejercicio de competencias a la Unión europea y la integración consiguiente del Derecho comunitario en el nuestro propio imponen límites inevitables a las facultades soberanas del Estado, aceptables únicamente en tanto el Derecho europeo sea compatible con los principios fundamentales del Estado social y democrático de Derecho establecido por la Constitución nacional. Por ello la cesión constitucional que el art. 93 CE posibilita tiene a su vez límites materiales que se imponen a la propia cesión. Esos límites materiales, no recogidos expresamente en el precepto constitucional, pero que implícitamente se derivan de la Constitución y del sentido esencial del propio precepto, se traducen en el respeto de la soberanía del Estado, de nuestras estructuras constitucionales básicas y del sistema valores y principios fundamentales consagrados en nuestra Constitución, en el que los derechos fundamentales adquieren sustantividad propia (art. 10.1 CE), límites que, como veremos después, se respetan escrupulosamente en el Tratado objeto de nuestro análisis” (Tribunal Constitucional, declaración n. 1/2004 del 13 dicembre 2004, punto 2 dei fundamentos jurídicos). Una ancor più articolata evoluzione giurisprudenziale del rapporto fra ordinamento comunitario ed interno è rintracciabile nella giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht (BVerfG) tedesco. In una prima fase, fino al famosissimo Maastricht-Urteil del 1993, il Tribunale costituzionale tedesco aveva affermato la propria competenza nel caso di violazione degli standards inderogabili dei diritti fondamentali previsti dal Grundgesetz (BVerfG, sentenza 29 maggio 1974 (Solange I), in BVerfGE 37, 271 e sentenza 22 ottobre 1986 (Solange II), in BVerfGE 73, 339). Questo orientamento è stato rimesso in discussione con la pronuncia sulla compatibilità del Trattato di Maastricht con i principi fondamentali che reggono l’ordinamento costituzionale tedesco. In tale giudizio, il BVerfG affermò con decisione la proprio competenza giurisdizionale, distinta e separata rispetto a quella del giudice comunitario, sulla legittimità degli atti normativi comunitari, in particolare in materia di diritti fondamentali dell’uomo. Si derogava, in questo modo, all’esclusivo monopolio giurisdizionale comunitario, previsto dagli artt. 230 ss. del Trattato CE e si instaurava una doppio giudizio, da parte di due diverse Corti, sulla medesima fattispecie (BVerfG, sentenza 12 ottobre 1993, in BVerfGE 89, 155 [225]). Alla garanzia degli standards inviolabili, veniva così a sostituirsi la tutela effettiva dei diritti previsti dalla Costituzione tedesca. La giurisprudenza è ritornata nell’alveo originario con la decisione sul mercato delle banane del 2000, ove è stato riaffermata la competenza giurisdizionale del BVerfG nei limiti della violazione degli standards inderogabili dei diritti fondamentali (BVerfG, sentenza 7 giugno 2000, in BVerfGE 102, 147 [207]).

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2.1.5. Conseguenze della ricostruzione proposta sul piano delle fonti. Abbandono del criterio formale nella sistemazione del rapporto fra ordinamento comunitario e statale.

La qualificazione dell’art. 11 Cost., seconda e terza proposizione, quale principio fondamentale che realizza l’apertura del sistema costituzionale agli ordinamenti ed alle organizzazioni internazionali dirette ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni si riflette sul modo d’intendere il sistema delle fonti del diritto. Tali accordi internazionali e le fonti da essi derivate godrebbero, indipendentemente dalla forma di esecuzione, di una efficacia giuridica del tutto peculiare, in grado di derogare anche le norme costituzionali. Il sistema delle fonti, quindi, non potrebbe più essere ricostruito secondo i tradizionali criteri di sistemazione basati sulla forma degli atti bensì in ragione di criteri assiologici, di valore(151).

Come è noto, infatti, i Trattati comunitari sono stati resi esecutivi in Italia per mezzo di una legge ordinaria (l. 25 giugno 1952, n. 766 per il Trattato CECA e la legge 14 ottobre 1957, n. 1203 per la CEE e l’EURATOM, nonché con legge ordinaria si sono rese esecutive le successive modifiche ed integrazioni ai suddetti Trattati). Tali atti normativi si limitano a disporre “la piena e intera esecuzione” dei Trattati. Ciononostante, sia i Trattati sia le fonti derivate comunitarie hanno una “forza” giuridica superiore a quella della legge ordinaria poiché resistono alle successive leggi contrarie (“forza” passiva) ma, soprattutto, sono in grado di innovare l’ordinamento giuridico interno anche derogando alle norme costituzionale (“forza” attiva), salvo i limiti dei principi e diritti fondamentali. Rispetto alla concezione “classica” della composizione in sistema delle fonti del diritto, quindi, viene meno la corrispondenza fra “forma” e “forza” e viene derogata la regola secondo cui le fonti di primo grado costituiscono un numerus clausus(152).

Nella ricostruzione dell’assetto complessivo dei rapporti fra ordinamento interno e ordinamento comunitario e, soprattutto, dell’assetto complessivo dei rapporti fra fonti, il criterio formale è subordinato ad un criterio assiologicamente orientato. Come è stato acutamente osservato, “il passaggio dalla teoria delle fonti alla teoria delle norme è (…) obbligato e non eludibile se si vuol dar un senso concreto, non meramente retorico-declamatorio, ad una teoria della Costituzione come teoria dei valori: se si conviene, insomma, che non i contenitori ma i contenuti, le norme e non (151) Considerazioni simili sono espresse da A. Ruggeri, Metodi e dottrine dei costituzionalisti ed orientamenti della giurisprudenza costituzionale in tema di fonti e della loro composizione in sistema, cit., 175-176. (152) Si veda, per tutti, V. CRISAFULLI, Fonti del diritto (dir. cost.), in Enc. Dir., XVII, Milano, 1968, 925 (940).

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gli atti, sono in grado di rendere la misura “vivente” delle realizzazioni storiche dei valori”(153). Per questa via, quindi, il valore delle norme si misura sul terreno dell’interesse o del fine, più che su quello dei connotati strutturali.

Ciò che riveste interesse è che le fonti comunitarie non trovano una corrispondenza fra forma dell’atto attraverso cui l’ordinamento vi ha attribuito efficacia e “valore” giuridico e che, dunque, non possono essere in alcun modo apprezzate in prospettiva formale-astratta. L’unico apprezzamento che può farsi è quello, sul piano assiologico-sostanziale, della coerenza del mezzo prescelto con il fine comunitario e, perciò, col valore dell’apertura inter- e sovrastatale(154). Come si è già cercato di evidenziare, questo non costituisce certo una situazione isolata ma è frutto di una più ampia visione internazionalista espressa dalla Costituzione che si apre alle norme “esterne” – internazionali, comunitarie e canoniche – fino al limite dei principi fondamentali. Semmai esiste una differenza quantitativa fra le varie fattispecie. Mentre le norme internazionali generalmente riconosciute e quelle canoniche coprono un ambito materiale molto ridotto degli ordinamenti giuridici, confinato pressoché al solo ambito della garanzia giurisdizionale del singolo, il diritto comunitario si estende ormai a qualsiasi settore materiale dell’ordinamento.

Per questa via, la giurisprudenza costituzionale ha progressivamente ammesso la prevalenza delle norme comunitarie(155) ed il loro effetto diretto, nella forma peculiare della “non applicazione” della norma interna(156). Questa giurisprudenza costituzionale, ancora schiacciata su posizioni formalmente dualiste moderate, soprattutto nella descrizione dei rapporti interordinamentali qualificati in termini di “separazione-coordinazione”, appare indubbiamente riduttiva rispetto al reale stato delle situazione e non perfettamente coerente con la ricostruzione dell’efficacia delle norme comunitarie(157). È certamente evidente, soprattutto in una

(153) Così, A. RUGGERI, Fatti e norme nei giudizi sulle leggi e le “metamorfosi” dei criteri ordinatori delle fonti, cit., 25; ID., Metodi e dottrine dei costituzionalisti ed orientamenti della giurisprudenza costituzionale in tema di fonti e della loro composizione in sistema, cit., 176. (154) Così, A. RUGGERI, Fatti e norme nei giudizi sulle leggi e le “metamorfosi” dei criteri ordinatori delle fonti, cit., 82. (155) Corte cost., sentenza n. 183 del 1973; sentenza 30 ottobre 1975, n. 232, in Giur. Cost., 1975, 2211. (156) Corte cost., sentenza 8 giugno 1984, n. 170, in Giur. Cost., 1984, 1098. (157) Indizi per un mutamento della giurisprudenza costituzionale, forse per merito soprattutto del nuovo art. 117, comma 1, Cost., si possono rintracciare nella sentenza 3 novembre 2005, n. 406, in Giur. Cost., 2005, 4429, ove il giudice costituzionale utilizza direttamente le disposizioni contenute nella Direttiva comunitaria quale parametro di costituzionalità per dichiarare l’incostituzionalità di alcune disposizioni di una legge della

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prospettiva empirica, che l’ordinamento interno e quello comunitario debbano ormai leggersi attraverso dinamiche di integrazione(158), ovverosia attraverso il processo di reciproco condizionamento ed influenza materiale fra principi (o valori) appartenenti ad ordinamenti giuridici diversi(159). Ciò

Regione Abruzzo, ritenendo superfluo il decreto legislativo di attuazione delle medesima Direttiva. Se questo orientamento venisse confermato, non si potrebbe continuare a parlare di fonti comunitarie come “fonti appartenenti ad un ordinamento esterno” bensì quali fonti interne. (158) Il termine “integrazione” può essere letto in termini “neutrali”, ovverosia un processo giuridico diretto a trasformare “previously separate units into componenti of a coherent system” (così, K.W. DEUTSCH, The Analysis of International relations, Englewood Cliffs, 1978, 198). Ma il termine integrazione ha avuto una specifica elaborazione nella dottrina costituzionalista tedesca con la c.d. Integrationslehre di R. Smend. La sintesi si trova nella nozione di Costituzione elaborata dall’Autore: “la costituzione è l’ordinamento giuridico dello Stato, più precisamente della vita in cui esso ha la sua realtà vitale, cioè il suo processo di integrazione. Il senso di questo processo è la sempre nuovo produzione della totalità di vita dello Stato, e la costituzione è la normazione tramite leggi (gesetzliche Normierung) di singoli aspetti di questo lungo processo” (R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale, Milano, 1988, 150). (159) L’idea che il processo di integrazione europeo abbia prodotto uno “spazio giuridico comune” è, in termini diversi, comune a buona parte della dottrina. Il comune denominatore di questo orientamento è il rifiuto di concepire i rapporti fra trattati europei e costituzioni nazionali in termini gerarchici. Cfr. M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 217; J.H.H. WEILER, U.R. HALTERN, The Autonomy of Community Legal Order: Through the Looking Glass, in Harv. Jour. Int. Law, 1996, 411 (447) (“the constitutional discourse in Europe must be conceived as a conversation of many actors in a constitutional interpretative community, rather than a hierarchical structure with the ECJ at the top”); I. PERNICE, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited?, cit., 707 ss.; N. MACCORMICK, Questioning Sovereignty: Law, State and Nation in the European Commonwealth, Oxford, 1999, 105; U.K. PREUSS, The Constitution of a European Democracy and the Role of the Nation State, in Ratio Juris, 1999, 417 (420-421) (“the Community is a process of an institutionalized interaction between actors whose roles and functions are not preestabilished in an overarching concept of political unity; rather, they are shaped in an open process in which a broad range of possible developments may surface and pushed forward by agents which possibly will only be generated in this very process”); J. SCHWARZE, The Birth of a European Constitutional Order, 530 (545), in J. SCHWARZE (ed.), The Birth of a European Constitutional Order. The Interaction of National and European Constitutional Law, Baden-Baden, 2000 (“national law and Community law can no longer be understood as completely separate legal spheres”); N. WALKER, Late Sovereignty in the European Union, 3 (19 ss.), in N. WALKER, Sovereignty in Transition, Oxford, 2003 (“pluralistic legal order”); F. SORRENTINO, I vincoli dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali, Relazione tenuta al Convegno “L’attuazione del Titolo V della Costituzione” il 16, 17 e 18 settembre 2004, pubblicata in www.federalismi.it, 4; P. MENGOZZI, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione europea, Padova, 2006, 236 ss. Di “senso comune giuridico”, trasponendo riflessioni di H.G. Gadamer, parla anche G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., 170, quale “terreno d’intesa e di reciproca comprensione in ogni discorso giuridico, la condizione per la risoluzione dei contrasti attraverso la discussione invece che attraverso la sopraffazione”. Per la materia tributaria, un accenno si

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non toglie che diritto internazionale, diritto comunitario e diritto statale – come chiaramente ammesso dalla stessa Corte di giustizia comunitaria(160) – continuino ad appartenere a tre distinti ordini giuridici, dotati di un diverso nomos, di istituzioni proprie e di specifiche disposizioni sulla produzione giuridica nonché sull’interpretazione.

L’analisi del rapporto fra norme comunitarie e norme interne necessita quindi di una duplice prospettiva(161). Sul piano sottocostituzionale, le dinamiche normative possono continuare ad essere lette in chiave di prevalenza e di diretta efficacia del diritto comunitario(162); prevalenza che si manifesta anche sul piano ermeneutico attraverso la interpretazione del diritto interno in maniera conforme al diritto comunitario. L’accertamento della concorrenza fra la norma comunitaria e di quella interna è affidato, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale, al sindacato diffuso dei giudici comuni che dovranno selezionare, in relazione alla fattispecie concreta, la norma applicabile. trova in P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 437-438. Questa posizione è addirittura superata da F. PIZZETTI, I nuovi elementi “unificanti” del sistema costituzionale italiano, in le istituzioni del federalismo, 2002, 221, che, nell’interpretazione dei “vincoli comunitari” posti dal “nuovo” art. 117, comma 1, Cost., alla legislazione statale e regionale, osserva che “oggi non è più sufficiente affermare che la logica antica della separazione dell’ordinamento italiano rispetto a quello comunitario ha ormai definitivamente e formalmente ceduto all’opposta logica dell’integrazione fra gli ordinamenti. Come è stato detto anche da altri, proprio in virtù del nuovo testo dell’art. 117, è necessario riconoscere che i rapporti tra l’ordinamento europeo e quello italiano sono ora disciplinati in modo tale da configurare qualcosa di molto vicino all’esistenza di un ordinamento complessivamente unitario”. Aperture in questa direzione sembrano giungere anche dalla Corte costituzionale che, nella recente pronuncia n. 348 del 2007, sebbene in un obiter dicta, osserva che la Cedu, diversamente dell’Unione europea, è “configurabile come un trattato internazionale multilaterale (...) da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri” (punto 3.3. del considerato in diritto). (160) Nella famosa sentenza Costa (Corte di giustizia Ce, sentenza 15 luglio 1964, causa 6/64, F. Costa v. Enel, in Racc. 1129) la Corte affermò che, attraverso i Trattati gli Stati membri hanno istituito “un proprio ordinamento giuridico” ed una “comunità senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacita giuridica, di capacita di rappresentanza sul piano internazionale”. (161) Questa duplice prospettiva è accolta anche da A.J. MARTÍN JIMÉNEZ, El derecho financiero constitucional de la Unión europea, cit., 123-124. (162) Questo dato è comunemente accolto da tutta la dottrina che, diversamente, resta seriamente divisa quanto alla ricostruzione teorica di tale rapporto. Cfr., A. CELOTTO, Le “modalità” di prevalenza delle norme comunitarie sulle norme interne: spunti ricostruttivi, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1999, 1473; V. ONIDA, “Armonia fra diversi” e problemi aperti. La giurisprudenza costituzionale sui rapporti tra ordinamento interno e comunitario, in Quad. Cost., 2002, 549; G. ZAGREBELSKY, Corti europee e corti nazionali, 531, in S. PANUNZIO (a cura di), I costituzionalisti e l’Europa, Milano, 2002.

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Sul piano dei principi costituzionali, diversamente, i rapporti e le dinamiche normative, che coinvolgono anche l’ordinamento internazionale generale ed i trattati internazionali dotati di “copertura” costituzionale, devono leggersi in chiave di reciproca influenza e relazione(163). La ricostruzione dei rapporti fra Unione europea ed ordinamento statale si sposta dal piano formale della “rilevanza” degli atti giuridici “esterni” all’ordinamento al piano sostanziale dell’integrazione fra principi e valori costituzionali e comunitari (o, più ampiamente, esterni); dal piano delle fonti, al piano dei principi, appunto(164). Il profilo d’interesse per l’interprete si sposta dai meccanismi formali attraverso cui le fonti comunitarie operano nell’ordinamento interno ai criteri di riparto delle competenze fra ordinamento internazionale, comunitario ed interno ed al contenuto dei fatti e degli atti giuridici. In questo senso, l’integrazione fra gli ordinamenti avviene soprattutto attraverso l’attività ermeneutica e di bilanciamento dei principi e valori espressi dai due ordinamenti giuridici operata dalle corti supreme(165). La concorrenza fra principi e valori non

(163) Chiaramente, in questo senso, P. RIDOLA, Il principio democratico fra stati nazionali e Unione europea, in Nomos, 2000, 75 (78): “e tuttavia può osservarsi che la tensione dialettica, già presente nel modello della Integrationslehre smendiana, fra l’integrazione radicata nella storia e nei destini dello stato nazionale ed un tipo di integrazione fondata sui valori costituzionali, intesi come fattori di riconoscimento di un’identità comune, tenda già a risolversi, nell’evoluzione dei trattati avviata sin dall’Atto unico europeo del 1996, nella prevalenza di una dimensione fondativi dei nuovi principi dell’ordinamento comunitario, la quale carica il processo di integrazione europea di valenze non sconosciute ai percorse teorici della Verfassungslehre europea del XX secolo”. (164) In questo senso, chiaramente, A. PIZZORUSSO, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, 2002, 7-8, che, riferendosi alle tradizioni costituzionali comuni ai paesi del continente europeo afferma: “minore è invece la consapevolezza del fatto che in tali circostanze siffatte tradizioni possano assumere una funzione del genere di quella che normalmente è propria delle “fonti del diritto”, nel senso tecnico con cui questa espressione è usata dai giuristi per indicare i modi di produzione o di ricognizione dei principi e delle regole che costituiscono gli “ordinamenti giuridici” e, più specificamente, che esse possano assumere il ruolo, comunemente studiato anche nella prospettiva propria dei politologi, che è stato progressivamente assunto dalle “costituzioni” moderne””. (165) Secondo quell’attività definita judicial constitutionalisation da G.F. MANCINI, The Making of a Constitution for Europe, in Comm. Mark. Law Rev., 1989, 595 (603). In termini sostanzialmente analoghi A. RUGGERI, Continuo e discontinuo nella giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sent. n. 170 del 1984, in tema di rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento interno: dalla “teoria” della separazione alla “prassi” dell’integrazione intersistemica?, in Guir. Cost., 1991, 1583 (1617 ss.); M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit. 234, che afferma che “a livello di valori fondamentali, i rapporti tra l’ordinamento comunitario e l’ordinamento interno non rispondono al modello dualistico rigorosamente inteso”. La progressiva apertura degli ordinamenti nazionali a valori esterni è descritta negativamente – in termini di perdita di legalità – da G. AZZARITI, Principio di legalità tra Stato di diritto e Stato costituzionale, in Costituzionalismo.it, 2006: “la relativizzazione del

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può affidarsi, almeno al più alto livello di ogni ordinamento giuridico, a relazioni e concetti assoluti (quali prevalenza, deroga, disapplicazione, ecc.) ma a strumenti “miti”(166), quali la ragionevolezza o la prudentia, che consentono la costante ricerca di un punto d’incontro dei valori in gioco(167).

L’ipotesi della rottura dei rapporti interordinamentali, nei termini di violazione dei principi e dei diritti fondamentali dell’ordinamento costituzionale, sebbene molto abbia contribuito (e contribuisca tuttora) allo sviluppo dell’ordinamento comunitario (si vedrà che il riconoscimento dei diritti umani da parte della Corte comunitaria è stata una reazione obbligata alla giurisprudenza costituzionale, soprattutto tedesca, degli anni ’70), resta in questo quadro un’ipotesi-limite, residuale. Alla dottrina dei controlimiti non si ricollega una specifica “sanzione”, come una sentenza di annullamento, risarcimento o condanna; essa appare piuttosto il presupposto per l’implementazione di un “dialogo” fra corti (e più genericamente istituzioni). Nell’ambito, quindi, dei rapporti fra diritto comunitario e diritto statale “i paradossi della teoria dell’ordinamento giuridico (“questioni logicamente in decidibili”) sembrano risolvibili

valore assiologico della costituzione contribuisce a produrre un’attenuazione della sua “forza” normativa. (…). La “perdita” di centralità costituzionale non è recuperabile sul piano più esteso dell’ordinamento europeo o genericamente sovranazionale: alla superiorità in grado della costituzione nazionale non basta sostituire un’ipotetica superiorità in grado dei Trattati comunitari (comunque denominati). Sono in fondo le stesse teorie multilevel – che si pongono il problema della “composizione” ed “armonizzazione” dei diversi livelli costituzionali vigenti in ordinamenti diversi – ad ammettere che non v’è un problema di semplice gerarchizzazione delle fonti e dunque di mera sostituzione della superiorità normativa delle costituzioni con quella di altre fonti sovranazionali. Se la questione che si pone è quella della presenza di norme che si collocano tutte a livello costituzionale, al vertice di ordinamenti tra loro diversi, ma tra loro intrecciati e tendenti all’integrazione, è impossibile pensare che la legalità possa essere garantita in forza di una superiorità gerarchica di una fonte rispetto ad ogni altra”. (166) Alla “mitezza costituzionale” si riferisce G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., 11 ss. (ma passim) che osserva che “la visione (...) sottintesa non è quella del rapporto di esclusione e sopraffazione (nel senso dell’amico-nemico hobbesiano e schmittiano) ma quella inclusiva dell’integrazione attraverso l’intreccio di valori e procedure comunicative” (enfasi aggiunta). (167) I fenomeni sociali, di cui il diritto rappresenta una delle più acute espressioni, tendono a ripresentarsi nel corso della storia con caratteri simili o, almeno, a ripetere determinate esperienze. Suggestive, in questo senso, appaiono quindi le parole di P. CALAMANDREI, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, 77 (89), in Studi sul processo civile, IV, Padova, 1957: “traversiamo in questi decenni un periodo d’accelerata trasformazione sociale, che rimette in discussione molti dei tradizionali concetti giuridici, un tempo considerati incrollabili, e che ce li fa apparire oggi, seppur ancora venerandi, tuttavia non più adeguati a esprimere una realtà sociale che va rapidamente in cerca di nuove vie”.

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attraverso una pragmatica dell’argomentazione giuridica”(168). I valori ed i principi fondamentali dell’ordinamento consentono di attivare, produrre e chiudere un dialogo fra attori costituzionali non integrati in un ordine giuridico unitario. Nei settori in cui la competenza comunitaria e quella interna si sovrappongono(169), i valori comunitari al momento dell’effettiva applicazione negli ordinamenti interni subiscono inevitabilmente l’influenza, e per ciò stesso, la (parziale) trasformazione dei loro contenuti ad opera delle norme interne. Essi ritornano quindi all’origine, nell’ordinamento comunitario, portando con sé queste mutazioni e così chiudendo il cerchio della reciproca influenza.

Si viene quindi formando, sul modello giuridico pre-codificazione, una sorta di ius commune europeo ovvero di common law europeo, che non si sostituisce ai diritti nazionali ma, proprio come lo ius commune medievale, li modella ed integra. Questo ius commune o common law è un fatto essenzialmente culturale, secondo l’insegnamento di parte autorevole della dottrina costituzionalista europea (Häberle), che trova nelle supreme corti nazionali, europee ed internazionali il proprio motore propulsore (similmente a quanto accadde nell’Inghilterra feudale all’inizio del XI secolo(170)).

Si assiste quindi progressivamente, in estrema sintesi, alla formazione di un diritto comune incentrato su alcuni principi fondamentali non ad opera, come nell’esperienza statale, di istituzioni unitarie ed accentrate – il sovrano e le assemblee rappresentative nell’esperienza continentale; i giudici nell’esperienza inglese – bensì di apparati (in particolare di giudici) formalmente distinti. In questo quadro di intenso pluralismo istituzionale, che riflette un altrettanto profondo pluralismo sociale, si assiste alla sostituzione della tradizionale figura della sovranità personale ad una sovranità di principi e di valori giuridici che costituiscono gli elementi costituenti del ordinamento giuridico europeo.

Gli effetti di tale processo non sono determinabili, se non in chiave esclusivamente teorica, a priori ed in astratto, ma devono essere sempre accertati in concreto. Esiste una sorta di “circolazione giuridica” che si esprime in un duplice verso: dai trattati europei alle costituzioni nazionali e

(168) Così, G. ITZCOVICH, L’integrazione europea tra principi e interessi. Il dialogo fra giudici tedeschi e Corte di giustizia nella “guerra delle banane”, cit., 420. (169) Stabilisce una diretta connessione fra sovrapposizione di competenze e di valori sostanziali dell’ordinamento interno e comunitario anche M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 232. (170) Questa evoluzione è accuratamente descritta da A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa. 1. Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, 1982, 479 ss. Il termine ius commune è utilizzato da R. ALONSO GARCÍA, Derecho comunitario. Sistema constitucional y administrativo de la Comunidad Europea, Madrid, 1994, 245.

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da queste ultime a quelli. Non di rado, proprio questo secondo percorso è quello più carico di significato e di conseguenze(171). Come è stato acutamente sottolineato, questo “circolo produttivo” di fonti e norme genera “un assetto (…) “mobile” e relativo, ricevendo da fatti e valori la sua sistemazione ma anche la spinta per la ricerca di nuovi equilibri”(172).

Questo metodo e queste osservazioni generali possono essere trasferite anche alla materia tributaria(173). L’istituzione delle Comunità europee (la comunità internazionale ha sempre inciso poco sulla materia tributaria attraverso le norme consuetudinarie ed i principi generali) ha inferto un colpo definitivo alla concezione della Costituzione quale strumento monopolistico dei valori e principi della materia tributaria. I trattati comunitari hanno provocato una sorta di rottura dell’unità sistematica (o della tensione verso l’unità sistematica) dell’ordinamento costituzionale. Altri valori, altri principi regolano la materia tributaria a livello europeo e pervadono lo “spazio” giuridico interno. Il contesto giuridico, come si è cercato di evidenziare, si è allargato fino a ricomprendere i valori della

(171) La più raffinata rappresentazione teorica di questo processo, relativamente al rapporto fra Costituzione e leggi ordinarie, si deve a A. ROSS, Theorie der Rechtsquellen, Leipzig-Wien, 1929, ove, alla piramide kelseniana venne sostituita l’immagine della durchgehende Korrelation delle fonti, che si componevano dinamicamente in sistema attraverso la induktive e deduktive Zusammenhandlung. In questo senso, con riguardo all’ordinamento interno, si veda F. MODUGNO, Appunti dalle lezioni sulle Fonti del Diritto, Torino, 2005, 30, ove, riferendosi alla legge afferma che la posizione che quest’ultima svolge nel sistema normativo “consiste non soltanto nel subire limiti dalla sola Costituzione, ma, anche e soprattutto, nel rappresentare il primo e fondamentale momento di integrazione della Costituzione” (corsivo aggiunto). (172) A. RUGGERI, Metodi e dottrine dei costituzionalisti ed orientamenti della giurisprudenza costituzionale in tema di fonti e della loro composizione in sistema, cit., 178. P. GROSSI, Mitologie giuridiche della modernità, Milano, 2001, 8 e 16, inserisce tra le mitologie giuridiche della modernità il “decrepito schema della gerarchia delle fonti”. (173) Accenni, in questa direzione, si trovano in A.J. MARTÍN JIMÉNEZ, El derecho financiero constitucional de la Unión europea, cit., 159; L. CARPENTIERI, R. LUPI, D. STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, 8-9 (ove, riferendosi alle istituzioni europea si parla di “osmosi” e all’ordinamento internazionale di “compenetrazione tra diritto internazionale e diritto interno”); P. BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2005, 71-72 (che di “rapporto di integrazione dinamica tra la trama assioligica enunciata nella carta costituzionale ed i valori espressi in sede comunitaria attraverso i modelli tipici del bilanciamento dei valori” e di “processo di osmosi tra i valori costituzionali ed i valori comunitari”); F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, Valencia, 2005, 87 ss.; J.M. CALDERÓN CARRERO, Una introducción al Derecho Comunitario como fuente del Derecho Financiero y Tributario: ¿Hacia un ordenamiento financiero “bifronte” o “dual”?, in Rev. Esp. Der. Fin., 2006, 707 (727 ss.); G. MELIS, Coordinamento fiscale nell’Unione europea, in Enc. Dir., Annali, I, 2007, 394 (404) (che, riferendosi alla giurisprudenza comunitaria, parla di “trasformazione indotta” dei sistemi tributari interni sia per “sottrazione” sia per “addizione”).

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comunità internazionale e, soprattutto, quelli dell’ordinamento comunitario. Questo significa che la riserva di legge tributaria, il principio dell’eguaglianza tributaria e della capacità contributiva hanno subito e, continuano a subire, una costante modificazione di contenuto prodotta dal recepimento di quelli europei.

L’ambizioso tentativo di ricostruire i principi ordinatori della materia tributaria è ciò che ci si propone nei prossimi capitoli. 2.2. La modifica del Titolo V della Costituzione. Il nuovo art. 117, primo comma, Cost. ed il vincolo dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali.

L’art. 117, primo comma, Cost., come modificato dall’art. 3 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, prevede che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni debba essere esercitata nel rispetto dei “vincoli comunitari” e degli “obblighi internazionali”. Come noto, l’occasio legis di tale modifica deve ascriversi alla più ampia riforma delle autonomie territoriali e alla ridefinizione dei rapporti fra livello di governo centrale, regionale e locale. La nuova disposizione costituzionale, quindi, sconta una doppia natura ed una doppia funzione. Per un verso, si interseca con i successivi commi dell’art. 117 dedicati al c.d. potere estero della regioni, alle quali è attribuita l’attuazione e l’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea (comma 5) e la facoltà di concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali di altri Stati che rientrino nella loro competenza (comma 9). Per altro verso, si riconnette e completa le altre disposizioni internazionaliste previste dalla Costituzione. L’approfondimento dell’art. 117, comma 1, Cost. in questa sede è naturalmente limitato a questo secondo profilo d’indagine.

Dei due limiti posti alla potestà legislativa, quello che ha per oggetto gli “obblighi internazionali” è, sul piano interpretativo, quello che solleva la maggiori incertezze. La letteratura giuridica che ha affrontato il tema è nettamente divisa. Da un lato, una parte della dottrina ritiene che la nuova disposizione abbia inciso sul sistema delle fonti; dall’altro lato, altri autori considerano che essa abbia per oggetto il solo rapporto fra potestà legislativa concorrente, statale e regionale, e che, quindi, non si estenda al rapporto fra fonti interne e esterne all’ordinamento giuridico.

All’interno della prima “categoria” possiamo delineare almeno due distinte tesi interpretative. Secondo alcuni, la modifica dell’art. 117, comma 1, Cost., avrebbe prodotto sia l’automatico adattamento dell’ordinamento interno ai trattati internazionali sia la sovraordinazione

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rispetto alle leggi ordinarie(174). Più precisamente, dalla previsione che il legislatore statale e il legislatore regionale sono vincolati al rispetto degli “obblighi internazionali” dovrebbe dedursi che i trattati “siano immediatamente rilevanti per l’ordinamento giuridico italiano: senza, cioè, bisogno che ne sia ordinata l’esecuzione”(175), al pari delle norme internazionali generalmente riconosciute, e che le norme ivi contenute non possano essere modificate o abrogate da atti legislativi interni successivi. La nuova disposizione non avrebbe, secondo tale interpretazione, derogato le norme costituzionali (internazionali) relative alla ratifica degli atti internazionali, che ne attribuiscono la competenza al Presidente della Repubblica (art. 87, comma 8, Cost.) e che, in determinati casi, subordinano la ratifica all’autorizzazione parlamentare (art. 80 Cost.), ma solo la prassi legislativa che prevede la necessaria esecuzione dei trattati internazionali conclusi dall’Italia.

Per altra dottrina, diversamente, il vincolo degli “obblighi internazionali” produrrebbe esclusivamente una maggiore resistenza, rispetto alla forza degli atti normativi che contengono le norme di adattamento, delle norme convenzionali nei confronti degli atti legislativi successivi(176). In questo senso, tale maggiore resistenza dovrebbe essere (174) A. D’ATENA, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, in Rass. Parl., 2002, 913 (924 ss.); F. PIZZETTI, I nuovi elementi “unificanti” del sistema costituzionale italiano, cit., 241-242; ID., L’evoluzione del sistema italiano fra “prove tecniche di governance” e nuovi elementi unificanti. Le interconnessioni con la riforma dell’Unione europea, in le Reg., 2002, 677 (684); G.U. RESCIGNO, Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in Dir. Pubbl., 2002, 767 (782 ss.); A. GUAZZAROTTI, Niente di nuovo sul fronte comunitario? La Cassazione in esplorazione del nuovo art. 117, comma 1, Cost., in Giur. Cost., 2003, 467 (477 ss.) che attribuisce rilevanza ermeneutica al trattato internazionale che contenga disposizioni non self-executing (“se esso contiene norme non self-executing, queste ultime non resteranno nel limbo “pregiuridico”, come accadeva finora, ma potranno essere utilizzate come parametro interposto di costituzionalità di altre norme di legge interne, anche previgenti, potendosi così sanzionare, entro certi limiti, l’omessa attuazione del trattato da parte degli organi interni”) (485). Questa tesi sembra condivisa anche da L. Elia che, nell’audizione dinanzi alla Commissione Affari costituzionali del Senato del 23 ottobre 2001, affermava che l’art. 117, comma 1, Cost. “può essere sostanzialmente ritenuto incline al riconoscimento di tale superiorità, naturalmente senza toccare la formazione del processo che porta a far valere nel diritto interno le norme dei trattati, nel senso che il Parlamento rimarrebbe sempre competente ad intervenire in base all’articolo 80 della Costituzione in cui si disciplina l’autorizzazione alla ratifica. Però, una volta ratificato il trattato, la normativa in esso contenuta avrebbe un rango gerarchicamente superiore a quello delle norme di legge ordinaria”. (175) A. D’ATENA, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, cit., 924-925. (176) M.A. SANDULLI, Due aspetti della recenti riforma al titolo V della Costituzione, in Rass. Parl., 2001, 949, che parla di “rango superprimario” delle norme convenzionali (950); M. LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni a statuto ordinario. Prime

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assicura, ordinariamente, sul piano ermeneutico e quindi prevalentemente ad opera del giudice ordinario e solo eccezionalmente ed in via residuale attraverso il sindacato di costituzionalità(177).

Anche nell’ambito del secondo orientamento interpretativo è possibile individuare due diverse tesi, accomunate, in termini negativi, dall’attribuzione all’art. 117, comma 1, Cost., di irrilevanza sul piano delle fonti. La nuova disposizione opererebbe, per alcuni, “sui rapporti fra ordinamenti, senza alcuna pretesa di ridisegnare direttamente i rapporti tra le rispettive fonti”(178). Questa previsione, dunque, sarebbe diretta

osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, relazione tenuta al Convegno “Il nuovo Titolo V della Costituzione. Lo Stato delle autonomie”, Roma, 16 dicembre 2001, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 3 ss. del dattiloscritto; B. CONFORTI, Sulle recenti modifiche della Costituzione italiana in tema di rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, in Foro. It., 2002, V, 229; ID., Diritto internazionale, Napoli, 2002, 321; B. CARAVITA DI TORITTO, La Costituzione dopo la riforma del Titolo V. Stato, regioni e autonomie fra Repubblica e Unione europea, Torino, 2002, 117; G.F. FERRARI, Il primo comma dell’art. 117 della Costituzione e la tutela internazionale dei diritti, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., 2002, 1849 (1851 ss.); A. ANZON, I poteri delle regioni dopo la riforma costituzionale, Torino, 2002, 224 ss.; G. MELIS, Vincoli internazionali e norma tributaria interna, in Riv. Dir. Trib., 2004, 1083 (1096). Per G. GLADIO, Rispetto dei trattati internazionali: un nuovo obbligo del legislatore statale, in Quad. Cost., 2002, 605, la supremazia dei trattati rispetto alla legge ordinaria non sarebbe “incondizionata” ma dovrebbe essere soggetta “al bilanciamento di interessi costituzionali” e perciò “derogabile in presenza di rilevanti interessi di natura costituzionale”. Anche F. SORRENTINO, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, cit., 1356-1537 e 1359-1360, pur condividendo l’interpretazione che l’art. 117, comma 1, Cost. rafforzi la posizione delle norme interne di adattamento ai trattati internazionali, attribuisce a tale norme anche un “obbligo di adeguamento (di recezione e comunque di esecuzione interna)” diretto al legislatore statale e regionale. Da ultimo, P. BRACCO, Italy, 245 (263), in G. MAISTO (ed.), Tax Treaties and Domestic Law, Amsterdam, 2006, afferma la prevalenza generale delle norme convenzionali sebbene ne attribuisca l’effetto non all’art. 117, comma 1, Cost. “which in my view is a mere codification of the obligation derived from the pacta sunt servanda principle contained in Art. 10 of the Italian Constitution”. (177) B. CONFORTI, Sulle recenti modifiche della Costituzione italiana in tema di rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, cit., 230. Questo sembra essere anche l’orientamento della Suprema Corte di cassazione, dopo un iniziale orientamento teso a non attribuire efficacia innovata all’art. 117, comma 1, Cost. (cfr. sentenza alla nota successiva). Per la prevalenza in via ermeneutica dei trattati, cfr. Cass., I, sentenza 6 aprile 2004, n. 6760 e n. 6759, punto 2.6. della motivazione; Cass., ss.uu., ordinanza 9 giugno 2004, n. 10978; Cass., sez. lav., sentenza 8 novembre 2004, n. 21248; Cass., I, sentenza 22 giugno 2005, n. 13441; Cass, I, sentenza 30 agosto 2005, n. 17500, tutte in BancaDati DeAgostiniProfesionale. (178) C. PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro It., 2001, V, 194 (195); L. ELIA, Introduzione, 9 ss., in T. GROPPI e M. OLIVETTI (a cura di), La Repubblica delle autonomia. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, Torino, 2001. Questa interpretazione trova una conferma in un obiter dicta della pronuncia della Suprema Corte

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esecuzione del generale “principio di pari trattamento” previsto dall’art. 114, primo comma, Cost., diretto ad escludere che la legislazione statale, attraverso l’esecuzione di trattati internazionali, possa introdurre per la legislazione regionale vincoli ulteriori e diversi da quanto previsto dalla Costituzione.

Per altri, diversamente, la superiorità degli obblighi internazionali rispetto alla potestà legislativa statale e regionale sarebbe funzionale al nuovo riparto delle competenze stabilito dall’art. 117, comma 1, Cost., diretto a garantire, in via primaria, “l’assetto di competenze fra Stato e Regioni che vede non già una ripartizione, ma un vero e proprio concorso di poteri sul piano esterno”(179). L’art. 117, comma 1, Cost., garantirebbe, sul piano interno, il rispetto delle competenze esterne fissato dal nuovo art. 117, comma 5, Cost., ovverosia che gli accordi conclusi dalle Regioni (al pari di quelli dello Stato, ma sul punto la novella costituzionale non produce novità) siano vincolanti anche per il legislatore statale(180).

I dubbi interpretativi manifestati dalla dottrina nei primi commenti sono stati parzialmente superati dall’art. 1, comma 1, della l. 5 giugno 2003, n. 131, recante “Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3” (nota come legge “La Loggia”). Tale disposizione prevede che “costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all’articolo 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’articolo 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali”. Come si può agevolmente rilevare, il richiamo ai vincoli prodotti dagli artt. 10, primo comma, e 11 Cost. e dall’ordinamento comunitario è del tutto ridondante, poiché tali effetti sono direttamente attribuibili alle disposizioni costituzionali. Il richiamo dei “trattati internazionali” può qualificarsi quale ulteriore indice,

di cassazione, V, 10 dicembre 2002, n. 17564, in Giur. Cost., 2003, 459, ove, riferendosi ai profili comunitari della disposizione de qua, la Corte osserva che la tesi “continuista” (o “minimalista”) avrebbe “l’ulteriore conseguenza – ed è questo il punto che rileva specificamente – che, a maggior ragione, dovrebbe escludersi ogni ipotesi di surrettizia innovazione della disciplina dei rapporti (tra l’altro) della legge statale con la normativa comunitaria derivata”. (179) E. CANNIZZARO, Gli effetti degli obblighi internazionali e le competenze estere di Stato e Regioni, in le istituzioni del federalismo, 2002, 13; ID., La riforma “federalista” della Costituzione e gli obblighi internazionali, in Riv. Dir. Int., 2001, 921 (928 ss.). (180) E. CANNIZZARO, Gli effetti degli obblighi internazionali e le competenze estere di Stato e Regioni, cit., 26-27.

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rispetto a quanto già evidenziato dalla dottrina, dell’incidenza dell’art. 117, comma 1, Cost. sul sistema delle fonti(181).

Questa tesi è stata accolta, recentemente, dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 del 2007. In particolare, la Corte ha escluso che l’art. 117, comma 1, Cost. abbia effetti limitati esclusivamente al riparto di competenze fra Stato e regioni, chiarendo che “se da una parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altra attrae le stesse nella sfera di competenza di questa Corte, poiché gli eventuali contrasti non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale”(182). In secondo luogo, la Corte ha ribadito la diversità dell’art. 117, comma 1, Cost. rispetto agli artt. 10 e 11 Cost., nel senso che le disposizioni contenute nei trattati internazionali “non producono effetti diretti nell’ordinamento interno” ma richiedono sempre l’intervento, in funzione di adattamento, del legislatore statale (punti 3.3. ss. del considerato in diritto).

L’art. 117, comma 1, Cost., richiama, accanto agli obblighi internazionali, anche i vincoli derivanti dall’“ordinamento comunitario”(183). La formulazione letterale della disposizione e, per

(181) Si veda, sul punto, il revirement, di C. PINELLI, Attuazione dell’art. 117, comma 1 e 3, della Costituzione in materia di legislazione regionale, 20, in AA.VV., Legge “La Loggia”. Commento alla legge 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, Rimini, 2003, che riconosce che l’art. 117, comma 1, Cost. ha dato vita ad un dispositivo automatico di adattamento al diritto internazionale. (182) Corte cost., sentenza 24 ottobre 2007, n. 348, punti 4.3. e 4.4. del considerato in diritto; sentenza 24 ottobre 2007, n. 349, punto 6.2. del considerato in diritto. Al punto 4.5. del considerato in diritto della sentenza n. 348 del 2007, la Corte precisa: “la struttura della norma costituzionale, rispetto alla quale è stata sollevata la presente questione, si presenta simile a quella di altre norme costituzionali, che sviluppano la loro concreta operatività solo se poste in stretto collegamento con altre norme, di rango sub-costituzionale, destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere. Le norme necessarie a tale scopo sono di rango subordinato alla Costituzione, ma intermedio tra questa e la legge ordinaria. A prescindere dall’utilizzazione, per indicare tale tipo di norme, dell’espressione “fonti interposte”, ricorrente in dottrina ed in una nutrita serie di pronunce di questa Corte”. (183) Si ricorda che una più ampia formula relativa al riconoscimento del processo di integrazione comunitaria era contenuta nel progetto di legge costituzionale di “Revisione della Parte II della Costituzione” elaborato nel 1997 dalla Commissione bicamerale presieduta dall’on. M. D’Alema. Tale disposizione prevedeva: “1. L’Italia partecipa, in condizioni di parità con gli altri Stati e nel rispetto dei principi supremi dell’ordinamento e dei diritti inviolabili della persona umana, al processo di integrazione europea; promuove e favorisce lo sviluppo dell’Unione europea ordinata secondo il principio democratico e il principio di sussidiarietà. 2. Ulteriori limitazioni di sovranità sono approvate a maggioranza

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ragioni di coerenza sistematica, le conclusioni raggiunte sul significato del vincolo degli “obblighi internazionali”, sembrerebbero rimettere in discussione l’attuale status giuridico dei rapporti fra ordinamento interno e comunitario faticosamente elaborato dalla Corte costituzionale e, in particolare, sembrerebbero reintrodurre il sindacato di costituzionalità per far valere la incompatibilità delle norme interne in contrasto con quelle comunitarie (ritornando così al meccanismo di prevalenza del diritto comunitario elaborato dalla sentenza n. 232 del 1975). Questa interpretazione della disposizione non appare tuttavia possibile alla luce della giurisprudenza costituzionale ma, soprattutto, della giurisprudenza comunitaria. Essa farebbe ritornare i rapporti fra ordinamento interno e comunitario ad una situazione conflittuale impensabile allo stato attuale di evoluzione del processo di integrazione comunitaria(184).

Anche in questo caso, i primi commenti a tale disposizione non sono concordi. Da un lato, si prospetta una soluzione “continuista” e non innovativa della disposizione che non influirebbe sulla giustificazione costituzionale della partecipazione al processo di integrazione comunitaria, saldamente ancorata all’art. 11 Cost(185). Al contrario, per altri, il rispetto

assoluta dei componenti di ciascuna Camera e possono essere sottoposte a referendum a norma dell’articolo 104”. (184) Con le sentenze 10 novembre 1994, n. 384, in Giur. Cost., 1994, 3455, e 30 marzo 1995, n. 94, in Giur. Cost., 1995, 788, la Corte costituzionale ha dichiarato la propria competenza ad annullare le norme interne in contrasto con l’ordinamento comunitario promosse in via principale per violazione dell’art. 11 Cost. Queste conclusioni sono state ribadite nonostante la modifica dell’art. 127 Cost. e l’eliminazione del controllo preventivo delle delibere regionali, mutando il parametro di costituzionalità dall’art. 11 Cost. all’art. 117, comma 1, Cost., nella sentenza n. 406 del 2005. La prevalenza del diritto comunitario si manifesta quindi in maniera differente in ragione del tipo di processo instaurato: attraverso il meccanismo della “non applicazione” della norma interna dinanzi al giudice ordinario; attraverso la dichiarazione di incostituzionalità e l’annullamento della norma interna nei giudizi in via principale. A favore dell’annullamento delle norme interne in contrasto con il diritto comunitario anche nel caso in cui siano rinviate alla Corte in via incidentale è A. CELOTTO, La Corte costituzionale finalmente applica il primo comma dell’art. 117 Cost. (in margine alla sent. n. 406 del 2005), in www.giustamm.it, poiché in tal modo si contribuirebbe “a quell’opera di depurazione dell’ordinamento delle antinomie comunitarie, che certo non contribuisce alla certezza del diritto e alla conformità dei rapporti fra ordinamenti”. (185) In questo senso F. SORRENTINO, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, cit., 1358, che, muovendo dalla differente formulazione dei vincoli comunitario ed internazionale rileva che “non si è in presenza di obblighi specifici, ma della generale soggezione del nostro al sistema comunitario”. Cfr., anche, B. CONFORTI, Sulle recenti modifiche della Costituzione italiana in tema di rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, cit., 231-232; A. D’ATENA, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, cit., 916, 919-920, che parla di “codificazione dell’esistente”; P. CARETTI, Stato, regioni, enti locali tra innovazione e continuità, 61, in Scritti sulla riforma del Titolo V della Costituzione, Torino,

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dei vincoli comunitari avrebbe ridotto gli ordinamenti interno e comunitario ad un sistema giuridico unitario ed integrato(186).

Che i rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamento interno siano informati a dinamiche di integrazione, in luogo della separazione, è già stato ampiamente messo in evidenza nel para. 2.1.5. Integrazione significa che, pur riconoscendo l’esistenza di due distinti ordinamenti in ragione della fonte originaria, i valori ed i principi “costituzionali” di tali ordinamenti concorrono alla formazione di un unico sistema normativo. In questo senso, l’art. 117, comma 1, Cost. non fa altro che rafforzare le conclusioni già raggiunte attraverso l’interpretazione dell’art. 11 Cost. 3. I RAPPORTI FRA ORDINAMENTO COMUNITARIO, INTERNO ED INTERNAZIONALE. LA PROSPETTIVA COMUNITARIA.

L’integrazione dei principi (o valori) dei diversi ordinamenti, secondo

la prospettiva accolta nelle pagine precedenti, non opera, come si è già cercato di evidenziare, in un’unica direzione, dagli ordinamenti internazionale e comunitario verso quelli statali ma anche nella direzione opposta. In alcuni ambiti materiali, come quello dei diritti fondamentali dell’uomo, questa integrazione opera addirittura in maniera privilegiata, proprio partendo dalle “tradizioni costituzionali comuni” degli stati membri. Quindi non solo il quadro dei valori comunitari tende a realizzare e completare quello costituzionale ma anche, e forse addirittura in un prius temporale, quest’ultimo chiude le (vistose) lacune dell’ordinamento comunitario.

2003; T. GROPPI, L’incidenza del diritto comunitario sui rapporti Stato-Regioni dopo la riforma del Titolo V, 27, in G. VOLPE (a cura di), Alla Ricerca dell’Italia Federale, 2003; G. TESAURO, Diritto comunitario, cit., 204-205. In questo senso, ora, anche la giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto che, l’art. 117, comma 1, Cost. abbia “confermato il precitato orientamento giurisprudenziale” in tema di rapporti fra ordinamento interno e comunitario (sentenza n. 348 del 2007, punto 3.3. del considerato in diritto). (186) Questa è l’interpretazione di F. PIZZETTI, I nuovi elementi “unificanti” del sistema costituzionale italiano, cit., 240 (ma, anche, L’evoluzione del sistema italiano fra “prove tecniche di governance” e nuovi elementi unificanti. Le interconnessioni con la riforma dell’Unione europea, cit., 682) che osserva che “i rapporti tra l’ordinamento europeo e quello italiano sono ora disciplinati in modo tale da configurare qualcosa di molto vicino all’esistenza di un ordinamento complessivamente unitario”. Cfr., anche, L. TORCHIA, I vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario nel nuovo Titolo V della Costituzione, in le Reg., 2001, 1203 (1207); R. CALVANO, La Corte di giustizia e la Costituzione europea, Padova, 2004, 270-271; ID., La Corte costituzionale “fa i conti” per la prima volta con il nuovo art. 117 comma 1 Cost. Una svista o una svolta monista della giurisprudenza costituzionale sulle “questioni comunitarie”?, in Giur. Cost., 2005, 4436 (4439).

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Nei successivi paragrafi oggetto d’analisi saranno, sempre nella prospettiva che si è sopra definita dogmatica, le relazioni ordinamentali fra Unione europea, comunità internazionale e Stati membri, dalla prospettiva propria dell’ordinamento comunitario. La ricostruzione presuppone due distinti ambiti relazionali e due direzioni. Nel primo senso, saranno analizzati i rapporti fra ordinamento comunitario e statale e fra ordinamento comunitario e internazionale. Quanto alla direzione, si rileverà l’incidenza del diritto comunitario su quello interno ed internazionale e, di converso, l’influenza e la rilevanza giuridica di quest’ultimi sull’ordinamento comunitario. 3.1. Prevalenza dell’ordinamento comunitario su quello statale.

I rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamento statale sono informati ai principi di prevalenza e di diretta efficacia. Né l’uno né l’altro trovano un espresso riconoscimento nei trattati europei, fatta salva l’attribuzione della “diretta applicabilità” ai regolamenti comunitari da parte dell’art. 249 del Trattato Ce(187).

Non è possibile, né opportuno, in questa sede ripercorrere, attraverso la giurisprudenza comunitaria, l’evoluzione dei due summenzionati principi. È sufficiente ricordare che per efficacia diretta (o diretta applicabilità)(188) s’intende l’attribuzione ai soggetti, da parte delle norme comunitarie, di diritti soggettivi che possono essere “fatti valere” dinanzi ai giudici nazionali(189). L’efficacia diretta riguarda qualsiasi norma comunitaria, indipendentemente dai destinatari dell’atto normativo, che sia sufficientemente precisa ed incondizionata e la cui applicazione non richieda l’emanazione di ulteriori atti comunitari o nazionali, di esecuzione o comunque integrativi(190).

La dottrina ha rilevato che l’effetto diretto ha, nella giurisprudenza comunitaria, un duplice fondamento strutturale, di tipo sostanziale o

(187) Un indiretto riconoscimento di tali principi è contenuto nel Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità stipulato nel 1997 e allegato ai trattati europei che, al para. 2, afferma: “L’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità (…) non deve ledere i principi elaborati dalla Corte di giustizia relativamente al rapporto fra diritto nazionale e diritto comunitario”. Espresso riconoscimento alla prevalenza del diritto comunitario è contenuto nel Trattato che istituisce una Costituzione europea (GUCE 16 dicembre 2004, C 310, 1) all’art. I-6: “La Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione nell’esercizio delle competenze a questa attribuite prevalgono sul diritto degli Stati membri”. (188) Come rileva G. TESAURO, Diritto comunitario, cit., 163-164, la distinzione fra effetto diretto e diretta applicabilità non trova alcun riscontro nella giurisprudenza comunitaria. (189) Corte di giustizia, causa 26/62, Van Gend & Loos, para. II.B della motivazione. (190) Per ulteriori approfondimenti si rinvia a G. TESAURO, Diritto comunitario, cit., 165 ss.; T.C. HARTLEY, The Foundations of European Community Law, cit., 198 ss.

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processuale. In particolare, l’effetto diretto può essere definito come situazione giuridica soggettiva ovvero come diritto (potestativo) di agire in via giurisdizionale. Sebbene parte della dottrina restringa la nozione dell’effetto diretto alla componente processuale(191), sembra più corretto ritenere che l’attribuzione di posizioni giuridiche soggettive al singolo costituisca la condizione necessaria – eventualmente anche tacita o implicita – della efficacia diretta. Ai caratteri della norma – di chiarezza, precisione e determinatezza – deve aggiungersi la possibilità di ricavare dalla stessa “una regola di condotta suscettibile di interessare direttamente la situazione dei singoli”(192).

Strettamente collegato all’effetto diretto è il secondo principio strutturale dell’ordinamento comunitario, quello della prevalenza (o primato o preminenza) del diritto comunitario che importa la disapplicazione (o non applicazione) delle norme interne contrastanti. La più chiara formulazione di questo principio, enunciato nel caso Costa, si trova nella successiva pronuncia Simmenthal: “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale” (para. 24 delle motivazioni)(193). (191) Cfr. M. RUFFERT, Rights and Remedies in European Community Law: A comparative View, in Com. Mark. Law Rev., 1997, 307 (312 ss.); S. PRECHAL, Directives in European Community Law, Oxford, 1995, 266 ss; F.A. GARCÍA PRATS, Incidencia del derecho comunitario en la configuracion juridica del derecho financiero (I): la accion del Tribunal de Justicia de Luxemburgo, in Rev. Der. Fin. Hac. Pubbl., 2001, 257 (269). (192) Così S. AMADEO, Norme comunitarie, posizioni giuridiche soggettive e giudizi interni, Milano, 2002, 21 ss., 127 e 169 ss., che osserva – 23, nota 51 – che tale duplice fondamento dell’efficacia diretta, in termini sostanziali di situazioni giuridiche soggettive e processuali di “diritto di agire”, è dovuta alle differenti concezioni esistenti negli ordinamenti nazionali in merito alla individuazione delle posizioni giuridiche che costituiscono il presupposto dell’azione giudiziale. Si pensi, in questo senso, alla contrapposizione, nel nostro ordinamento, fra diritto soggettivo e interesse legittimo che, distinti sul piano sostanziale, trovano un eguale riconoscimento nell’art. 24 cost. nel diritto di agire in tutela degli interessi sottesi. Anche la dottrina tedesca è assestata su queste posizioni, riassunte nella dottrina dello Schutznorm. Cfr., ex pluribus, J. CALLIES, Zur unmittelbar Wirkung der EG-Rechtlinie über die Unweltverträglichkeitsprüfung und ihrer Umsetzung im deutschen Immissionsschutzrecht, in NZV, 1996, 339 (340 ss.); I. BRINKER, Die unmittelbare Anwendbarkeit von EG-Rechtlinien bei der Vergabe öffentlicher Aufträge, in EWS, 1995, 255 (257 ss.). (193) Corte di giustizia, sentenza 9 marzo 1978, causa 106/77, Amministrazione delle finanze dello Stato v. Simmenthal SpA, in Racc., 629. Queste conclusioni sono costanti in tutta la

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Il primato del diritto comunitario si può manifestare in maniera indiretta, sia attraverso l’obbligo, derivato dal principio di leale cooperazione ex art. 10 del Trattato, di interpretare il diritto statale in maniera conforme al diritto comunitario, anche se non dotato di efficacia diretta (interpretazione adeguatrice)(194), sia dall’obbligo di risarcire il danno (conformemente all’istituto della responsabilità da fatto illecito o aquiliana) derivanti dalla mancata trasposizione interna di atti comunitari da parte di uno stato membro(195).

I risultati cui la giurisprudenza comunitaria è pervenuta in tema di rapporti fra ordinamento comunitario ed ordinamento interno costituiscono un dato empirico ormai unanimemente, con la vistosa eccezione dei principi supremi dell’ordinamento, accolto. Come si è detto, tuttavia, i principi dell’effetto diretto e della prevalenza non trovano alcun riconoscimento positivo nei trattati europei. La giurisprudenza comunitaria ha costruito tali principi strutturali, in primo luogo, deducendoli dalla peculiare natura e dall’autonomia di cui godrebbe l’ordinamento comunitario rispetto a quello internazionale (e statale) e, in secondo luogo, in ragione delle funzioni e sugli obiettivi attribuiti alla Comunità dagli stati membri(196). Questi elementi sono presenti già nelle sentenze Van Gend &

successiva giurisprudenza. Cfr., recentemente, sentenza 8 giugno 2000, causa C-258/98, Procedimento penale a carico di G. Carra e altri, in Racc., I-4217, para. 16 della motivazione; sentenza 28 giugno 2001, causa C-118/00, G. Larsy v. Institut national d’assurances sociales pour travailleurs indépendants (INASTI), in Racc., I-5063, para. 51-52 della motivazione; sentenza 9 settembre 2003, causa C-198/01, Consorzio Industrie Fiammiferi (CIF) v. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in Racc., I-8055, para. 48 della motivazione. (194) Corte di giustizia, sentenza 10 aprile 1984, causa 14/83, S. Von Colson ed E. Kamann v. Land Nordrhein-Westfalen, in Racc., 1891, para. 28 della motivazione; sentenza 13 novembre 1990, causa C-106/89, Mareleasing SA v. Comercial Internaciónal de Alimentación SA, in Racc., I-4135: “nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’art. 189, terzo comma, del Trattato” (para. 8 della motivazione). Sul punto, P. MENGOZZI, Il diritto comunitario e dell’Unione europea, Vol. XV, Padova, 1997, 158, in F. GALGANO (diretto da), Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia; T.C. HARTLEY, The Foundations of European Community Law, cit., 219 ss. (195) Corte di giustizia, sentenza 19 novembre 1991, cause riunite da C-6/90 a C-9/90, A. Francovich e D. Bonifici e altri v. Repubblica italiana, in Racc., I-5357 (196) Su questi problemi, si veda anche, C. VEDDER, Einwirkungen des Europarechts auf das innerstaatliche Recht und auf internationale Verträge der Mitgliedstaaten: die Regelung der Doppelbesteuerung, 1 (3), in K. VOGEL (Hrsg.), Europarecht und Internationales Steuerrecht, Münchener Schriften zum Internationalen Steuerrecht, Heft 19, München, 1999; J. WOUTERS, National Constitutions and the European Union, in Legal Issues Eur. Int., 2000, 25 (64 ss.).

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Loos e Costa ove si afferma, rispettivamente, che “la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale”; che tale ordinamento è “integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri”; che tali caratteri “hanno per corollario l’impossibilità per gli stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune”. Quanto al secondo fondamento della prevalenza e dell’effetto diretto, la Corte osserva che “lo scopo del Trattato Cee, cioè l’instaurazione di un mercato comune il cui funzionamento incide direttamente sui soggetti della Comunità, implica che esso va al di là di un accordo che si limitasse a creare degli obblighi reciproci fra gli stati contraenti”. Questi argomenti non sono stati ulteriormente sviluppati nella successiva giurisprudenza, ma ripetuti costantemente quasi ad attribuire loro “evidenza assiomatica”(197).

È stato acutamente osservato, che la sentenza Costa risponde a due esigenze logiche, parzialmente contradditorie: “une logique apparente, qui déduit la primauté du droit communautaire de sa nature propre et une logique intérieure, exactement inverse, que déduit la nature spécifique du droit communautaire de la nécessité de lui assurer la priorité au plan interne”(198). Se queste affermazioni sono corrette, l’attuale struttura dell’ordinamento comunitario ed i suoi rapporti con quello interno sono giustificati, in ultima istanza, da ragioni pragmatiche, coincidenti con l’effettività (o effet utile) dei Trattati europei, che costituirebbero una “existential condition”(199). Se l’ordinamento comunitario s’impone (prevale) su quello interno in ragione di un fatto giuridico, i rapporti fra ordinamento comunitario e statale trovano la loro chiave di lettura nelle norme sul riparto delle competenze. Il processo di integrazione comunitario (ovverosia, l’ordinamento giuridico integrato di cui parlava la Corte di giustizia già nel 1964), dunque, è originato da una limitazione di sovranità statale e va realizzandosi attraverso una “sovranità ripartita” fra trattati europei e costituzioni nazionali.

(197) Il termine è impiegato da J. WOUTERS, National Constitutions and the European Union, cit., 66. (198) B. DE WITTE, “Reour à Costa”. La primauté du droit communautaire à la lumière du droit international, in Rev. Trim. Droit Eur., 1984, 425 (445). (199) P. PESCATORE, Aspects judiciaires de l’“acquis communautaire”, in Rev. Trim. Droit Eur., 1981, 617 (631).

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3.2. (segue). Rilevanza dell’ordinamento statale per l’ordinamento comunitario.

La prevalenza del diritto comunitario si estende a qualunque norma interna, anche di rango costituzionale.

Nella giurisprudenza meno recente questo orientamento è affermato dalla Corte in maniera perentoria ed assoluta(200). Nel caso Stork, relativo al Trattato Ceca, la Corte delimita la propria competenza alla sola interpretazione dei trattati, che esclude “la censura relativa al fatto che l’Alta Autorità con la sua decisione avrebbe violato principi fondamentali della Costituzione tedesca (in particolare gli artt. 2 e 12)”(201). Ancor più chiaramente, nel caso Leonesio, la Corte esclude che l’art. 81, comma 4, della Costituzione italiana possa ostacolare la “efficacia immediata di una disposizione comunitaria né, di conseguenza, l’esercizio immediato dei diritti soggettivi che detta disposizione attribuisca ai singoli”(202).

A partire dagli anni ’70, con la sentenza Internationale Handelsgesellschaft, alla prevalenza del diritto comunitario sulle costituzioni nazionali, la Corte fa seguire il riconoscimento delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri(203). Tali tradizioni costituirebbero

(200) Già nella causa 6/64, Costa, la prevalenza è affermata rispetto a “qualsiasi provvedimento interno” (corsivo aggiunto). (201) Corte di giustizia, sentenza 4 febbraio 1959, causa 1/58, Friedrick Stork et Co. v. Alta Autorità della Ceca, in Racc., 43, para. 4.A) della motivazione. Cfr., anche, sentenza 15 luglio 1960, cause riunite 36-38/59 e 40/59, Präsident, Geitling, Mausegatt e I. Nold v. Alta Autorità della Ceca, in Racc., 829, para. II della motivazione; sentenza 17 ottobre 1989, cause riunite 97/87, 98/87 e 99/87, Dow Chemical Iberica SA e Alcudia, Empresa para la Industria Quimica, SA e Empresa Nacional del Petroleo SA v. Commissione delle Ce, in Racc., 3165, para. 38 della motivazione; parere 15 novembre 1994, 1/94, Competenza della comunità a stipulare accordi internazionali in materia di servizi e di tutela della proprietà intellettuale, in Racc., I-5267, para. XX della motivazione. (202) Corte di giustizia, sentenza 17 maggio 1972, causa 93/71, O. Leonesio v. Ministero dell’agricoltura e foreste della Repubblica italiana, in Racc. 287, para. 23 della motivazione. (203) In realtà, già con la sentenza 12 novembre 1969, causa 29/69, E. Stauder v. Città di Ulm-Sozialamt, in Racc., 419, para. 7, la Corte ritenne i diritti fondamentali della persona “parte dei principi generali del diritto comunitario, di cui la Corte garantisce l’osservanza”. Solo con la successiva sentenza Internationale Handelsgesellschft, tuttavia, la tutela dei diritti fondamentali rientrerà nella “tradizione costituzionale comune agli Stati membri” di cui la Corte garantisce la protezione. È appena il caso di sottolineare che il ricorso alla “tradizione” costituisce la “finzione” originaria alla base dello sviluppo del common law inglese: “ciò che rispetto alle dottrine continentali ha differenziato il mondo inglese non è stata dunque la mancanza del principio della certezza come valore di fondo né, al limite, la mancanza di un’esigenza positivistica, bensì la soluzione tecnica volta a rendere operante quel principio: soluzione-finzione trovata (...) nell’idea che il giudice non debba creare, ma s c o p r i r e nella tradizione un diritto già esistente” (così, A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa. 1. Le fonti e il pensiero giuridico, cit., 484-485).

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“parte integrante dei principi giuridici generali di cui la Corte di giustizia garantisce l’osservanza” e, soprattutto, la loro tutela è funzionale alla “struttura e (…) finalità della Comunità”(204). Il ricorso alle “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” era, per la Corte un passaggio obbligato per dare effettività all’autonomia dell’ordinamento comunitario che, come s’è detto, è alla base della sistemazione dei rapporti fra ordinamento comunitario e statale. Solo avocando a sé l’esclusiva competenza a pronunciarsi sull’interpretazione e sulla validità degli atti comunitari, la Corte avrebbe potuto “difendere” l’autonomia ordinamento comunitario dalla medesima pretesa avanzata dalle Supreme Corti nazionali(205).

La tutela dei principi e dei diritti fondamentali, nella forma delle tradizioni costituzionali comuni, trova eco anche nelle altre istituzioni comunitarie. Di particolare rilevanza appare la dichiarazione comune di Parlamento, Consiglio e Commissione che richiama al rispetto diritti fondamentali quali risultano “dalle Costituzioni degli Stati membri nonché dalla Convenzione europea”(206).

Con il Trattato di Maastricht e l’istituzione dell’Unione europea, il richiamo delle tradizioni costituzionali comuni è stato

(204) Corte di giustizia, sentenza 17 dicembre 1970, causa 11/70, Internationale Handelsgesellschft MbH v. Einfuhrund Vorratsstelle für Getreide und Futtermittel, in Racc., 1125, para. 4 della motivazione. Nelle sentenze successive: 13 dicembre 1979, causa 44/79, L. Hauer v. Land Rheinland-Pfalz, in Racc., 3727, para. 4 e 5 della motivazione; sentenza 19 giugno 1980, cause riunite 41/79, 121/79 e 796/79, V. Testa e altri v. Bundesanstalt für Arbeit, in Racc., 1979, para. 18 della motivazione; sentenza 26 giugno 1980, causa 136/79, National Panasonic (Uk) Limited v. Commissione delle Ce, in Racc., 2033, para. 18 della motivazione; sentenza 10 luglio 1984, causa 63/83, Regina v. K. Kirk, in Racc,. 2689, para. 22 delle motivazioni; sentenza 15 maggio 1986, causa 222/84, M. Johnston v. Chief Constable Of The Royal Ulster Constabulary, in Racc., 1651, para. 18 della motivazione; sentenza 18 giugno 1991, causa C-260/89, Elliniki Radiophonia Tileorassi Anonimi Etairia e Panellinia Omospondia Syllogon Prossopikou Ert v. Dimotiki Etairia Pliroforissis e Sotirios Kouvelas e Nicolaos Avdellas e altri, in Racc., I-2925, para. 41 della motivazione. (205) J.H.H. WEILER, Eurocracy and Distrust. Some Questions Concerning the Role of the European Court of Justice in the Protection of Fundamental Human Rights within the Legal Order of the European Communities, in Wash. Law Rev., 1986, 1103 (1132); M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 36; A.J. Martín Jiménez, El derecho financiero constitucional de la Unión europea, cit., 131; T.C. HARTLEY, The Foundations of European Community Law, cit., 135; 138. Non è superfluo ricordare che è proprio negli anni ’70, con le sentenze Frontini e Solange I, che le Corti costituzionali italiana e tedesca dichiarano la propria competenza in materia di tutela dei principi supremi dell’ordinamento interno. (206) In Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee (GUCE), 27 aprile 1977, C 103, 1.

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costituzionalizzato(207) dall’art. 6 del Trattato Ue (applicabile quindi non solo al diritto comunitario ma anche alle politiche esclusive dell’Unione europea) che, dopo aver vincolato le istituzioni europea ai principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, ritenuti principi comuni degli Stati membri (para. 1), impone il rispetto dei “diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario” (para. 2).

Come è stato osservato, le “tradizioni costituzionali comuni”, al pari della Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, non costituiscono delle fonti comunitarie(208). L’art. 6, para. 2, non è una clausola che contiene un “rinvio recettizio” agli ordinamenti nazionali ed al diritto internazionale bensì individua un elemento giuridico “privilegiato” per la costruzione dei valori e principi comunitari. Le “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”, nella misura in cui siano riconosciuti come principi comunitari, assurgono a diritto “costituzionale” non scritto dell’ordinamento comunitario e, insieme alle disposizioni dei trattati, ne costituiscono i valori ed i principi fondamentali(209). Al pari delle disposizioni di trattati, quindi, i principi fondamentali dell’ordinamento costituiscono parametro di legittimità degli atti comunitari e di quelli statali.

Il richiamo alle “tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri” determina anche la stretta dipendenza (o interdipendenza)

(207) Parte della dottrina ritiene che la positivizzazione delle “tradizioni costituzionali comuni” non abbia prodotto alcuna “novazione” della fonte originaria, per cui il loro riconoscimento “come fonte del diritto comunitario deve essere tuttora considerato come risultato di una regola giurisprudenziale e non di una regola derivante dall’accordo degli stati (i quali si sono limitati a subirla)”. Così, A. PIZZORUSSO, Il patrimonio costituzionale europeo, cit., 21. (208) A. PIZZORUSSO, Il patrimonio costituzionale europeo, cit., 25-26. Questa conclusione è confermata da quegli autori che negano che la Corte di giustizia abbia un’autonoma concezione dei diritti fondamentali. Cfr. F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, Padova, 2003, 194, che rinvia, in nota a A. BALDASSARRE, La Carta dei diritti europei, Relazione tenuta al Seminario “I mutamenti costituzionali in Italia nel quadro dell’integrazione europea”. (209) Si leggano le parole dell’Avvocato generale de Lamothe nelle conclusioni presentate nella causa Internationale Handelsgeselleschaft: “i principi fondamentali di diritto interno (…) contribuiscono a formare quella base filosofica, politica e giuridica comune agli Stati membri, sulla quale, secondo il sistema pretoriano, sorge un diritto comunitario non scritto”.

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dell’ordinamento comunitario rispetto a quello interno(210). Si consolida ancor di più quello stretto legame di presupposizione fra le comunità europee e gli stati membri che non si limita, come si è tradizionalmente sottolineato, alla presupposizione organizzativa (il diritto comunitario è applicato per mezzo degli apparati statali) ma diviene, più intensamente, presupposizione giuridica.

Per tale ragione, diviene rilevante individuare sia il procedimento di formazione sia il contenuto proprio delle valori e dei principi comunitari. Quanto al primo aspetto, è stato correttamente osservato che la Corte non adotta un criterio specifico di comparazione, bensì opera una “integrazione selettiva” dei principi degli ordinamenti nazionali(211). L’interesse della giurisprudenza comunitaria non è rivolto ai diversi gradi di comunanza fra i principi degli Stati membri quanto, piuttosto, alla loro consonanza al sistema comunitario europeo. In questo senso, le Costituzioni degli Stati membri costituiscono delle semplici fonti di ispirazione per la Corte, “la quale si prefigge il compito di rielaborare i principi reperiti negli ordinamenti statali alla luce della struttura e degli obiettivi della Comunità”(212).

Se la giurisprudenza comunitaria rielabora, come si è cercato di dimostrare, i principi degli ordinamenti statali, questi assumono nell’ordinamento comunitario un contenuto del tutto, o in parte, nuovo.

(210) In questo senso, chiaramente, P. KIRCHHOF, Die Gewaltenbalance zwischen staatlichen und europäischen Organen, cit., 965: “Das originär Europäische dieses Rechts liegt deshalb zunächst in den Mitgliedstaaten und ihren Verfassungen”. (211) Così, M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 33. Si veda, anche, P.J.G. KAPTEYN, P. VERLOREN VAN THEMAAT, Introduction to the Law of the European Communities, London, 1998, 276-277; A.J. MARTÍN JIMÉNEZ, El derecho financiero constitucional de la Unión europea, cit., 133, che osserva: “la metodología empleada por el TJCE para proteger los derechos, ésta dista mucho de ser la búsqueda de un mínimo o un máximo común denomindor entre todas esas fuentes, más bien el TJCE ha actuado movido por dos criterios: “la mayor progresividad” (se buscan las formulaciones más juiciosas o mejor fundadas) y “la funcionalidad” (hay que tener en cuenta las peculiaridades del ordenamiento comunitario, en le que el concreto derecho va a ser integrado”; T.C. HARTLEY, The Foundations of European Community Law, cit., 134-135; 138-139; P. MENGOZZI, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione europea, cit., 236-237. In termini decisamente critici, B. DE WITTE, The Past and Future Role of the European Court of Justice in the Protection of Human Rights, 859 (878), in P. ALSTON (ed.), The EU and Human Rights, Oxford, 1999: “One could even say that the Court of Justice is not genuinely interested in finding out whether there is a “common tradition” among the Member States concerning the legal regime of a particular rule. References to specific national legal systems are perfunctory and haphazard. A national constitutional court judgement has never been cited”. (212) Così, M. CARTABIA, Principi inviolabili e integrazione europea, cit., 35. Ma, cfr., anche G. GAJA, Aspetti problematici della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario, in Riv. Dir. Int., 1988, 574 (588 ss.).

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Nel passaggio dagli ordinamenti nazionali a quello comunitario, che, conformemente alla dottrina della comparazione, potremmo definire “trapianto”, i principi fondamentali subiscono una profonda trasformazione, causata dalla specificità (o autonomia) propria degli obiettivi e delle politiche comunitarie. Anche nella prospettiva comunitaria, quindi, l’aspetto di gran lunga più interessante dell’analisi dei rapporti ordinamentali e, di riflesso dei rapporti fra fonti, non risiede nei criteri di composizione sistematica delle fonti dei due ordinamenti, quanto nell’accertamento della reciproca integrazione fra le norme (i principi ed i valori) dell’uno e dell’altro. Verificare come questo procedimento opera in relazione alla materia tributaria è, come già anticipato, scopo dei capitoli che seguono. 3.3. I rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamento internazionale.

La ricostruzione dei rapporti fra ordinamento comunitario e ordinamento internazionale è stata condizionata dal riconoscimento dell’autonomia del primo che ha prodotto, quale conseguenza, la separazione dell’ordinamento comunitario rispetto al genus originario.

Oltre all’autonomia dell’ordinamento comunitario, i rapporti con il diritto internazionale sono stati influenzati dal riconoscimento della personalità giuridica internazionale alla Comunità europea, ex art. 208 del Trattato Ce(213).

Quale soggetto internazionale, la Comunità europea è vincolata dal diritto internazionale generale(214). Il riconoscimento espresso di tale vincolo appare solo in tempi relativamente recenti nella giurisprudenza comunitaria. Con la sentenza Poulsen del 1992, la Corte afferma che “le competenze della Comunità devono venir esercitate nel rispetto del diritto internazionale e che, perciò, il summenzionato art. 6 va interpretato, e la sua sfera d’applicazione circoscritta, alla luce delle norme pertinenti del

(213) Una simile previsione non è contenuta nel Trattato Ue. La maggior parte della dottrina è orientata a negare, per tale ragione, che l’Unione europea possa considerarsi soggetto internazionale. Si rinvia, per tutti, a D. CURTIN, The Constitutional Structure of the Union: A Europe of Bits and Pieces, in Com. Mark. Law Rev., 1993, 15 (17 ss.). (214) La dottrina considera tale conseguenza addirittura quale “corollario” della soggettività internazionale. Cfr., S. AMADEO, La Corte di giustizia delle Comunità europee ed i rapporti tra diritto comunitario e diritto internazionale generale, in Riv. Dir. Int. Priv. Proc., 2000, 895 (897). In termini simili, L. SICO, Ordinamento comunitario e diritto internazionale: un matrimonio ancora non a rischio di scioglimento, cit., 1704. Nella giurisprudenza comunitaria, cfr., sentenza 14 luglio 1976, cause riunite 3/76, 4/76 e 6/76, C. Kramer e altri, in Racc., 1279, para 17 della motivazione. Si veda, anche, G. MAISTO, Le interrelazioni tra “diritto tributario comunitario” e “diritto tributario internazionale”, in Riv. Dir. Trib., 2006, I, 865 (868-869).

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diritto marittimo internazionale”(215). Il diritto internazionale generale produce effetti diretti nell’ordinamento comunitario, indipendentemente da qualsiasi attività di adattamento e diviene, quindi, parametro di legittimità degli atti comunitari(216).

Più complessa è la questione se il diritto internazionale generale possa derogare le norme dei trattati.

Ad avviso della dottrina, considerata l’assenza di una specifica norma nei trattati relativa ai rapporti fra diritto comunitario e internazionale generale, la posizione monista della Corte di giustizia rifletterebbe “the common denominator of the constitutional systems encompassed by the Community”(217), collocando, quindi, le norme internazionali generali al vertice dell’ordinamento comunitario in una posizione del tutto analoga a quella dei trattati istitutivi(218). In maniera analoga al rapporto fra norme internazionali generali e ordinamento statale, anche in questo caso, i valori ed i principi fondamentali dell’ordinamento internazionale sono parte dell’ordinamento comunitario, integrando il contenuto e delimitando le competenze. Non si avrebbe quindi ragione di derogare al normale rapporto fra fonti non scritte e fonti scritte dell’ordinamento internazionale. Le norme dei trattati europei sarebbero subordinate alle

(215) Corte di giustizia, sentenza 24 novembre 1992, causa C-286/90, Anklagemyndigheden v. P.M. Poulsen e Diva Navigation Corp., in Racc., I-6019, para. 9 della motivazione. Cfr., anche, Tribunale di primo grado, sentenza 22 gennaio 1997, causa T-115/94, Opel Austria GmbH v. Consiglio dell’Unione europea, in Racc., II-39, para. 90 della motivazione; Corte di giustizia, sentenza 27 novembre 1997, causa C-27/96, Danisco Sugar AB v. Allmänna Ombudet, in Racc., I-6653, para. 24 ss.; sentenza 16 giugno 1998, causa C-162/96, A. Racke GmbH & Co. v. Hauptzollamt Mainz, in Racc., I-3655, para. 45 e 46 della motivazione; sentenza 27 febbraio 2002, causa C-37/00, H. Weber v. Universal Ogden Services Ltd., in Racc., I-2013, para. 35-36 della motivazione; sentenza 18 novembre 2003, causa C-216/01, Budéjovický Budvar, národní podnik v.Rudolf Ammersin GmbH, non ancora pubblicata, para. 152-153 della motivazione. (216) Delimitando l’indagine alla sola materia tributaria, la Corte di giustizia ha utilizzato il “principio internazionale” della residenza per valutare la generale legittimità di disposizioni interne che informano il presupposto del tributo alla residenza dei soggetti. Cfr., sentenza 14 febbraio 1995, causa C-279/93, Finanzamt Köln-Altstadt v. R. Schumacker, in Racc., I-225, ove si afferma che “anche il diritto tributario internazionale [das internationale Steuerrecht, nella lingua processuale originale], in ispecie il modello di convenzione dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) in materia di doppia imposizione, ammette che in via di principio spetta allo Stato di residenza tassare il contribuente in modo globale, prendendo in considerazione gli elementi inerenti alla sua situazione personale e familiare” (enfasi aggiunta) (para. 32 della motivazione). (217) J. KOKOTT e F. HOFFMEISTER, A. Racke GmbH & Co. v. Hauptzollamt Mainz. Case C-162/96. Court of Justice of the European Communities, June 16, 1998, in Am. Jour. Int. Law, 1999, 205 (207). (218) L. SICO, Ordinamento comunitario e diritto internazionale: un matrimonio ancora non a rischio di scioglimento, cit., 1706.

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sole norme internazionali generale cogenti (jus cogens(219)), mentre potrebbero derogare tutte le altre(220). Non vi sono, tuttavia, in giurisprudenza indicazioni espresse sul punto. Nella sentenza Factortame, il giudice comunitario sembra ammettere la prevalenza delle norme consuetudinarie anche rispetto ai principi fondamentali del diritto comunitario – come quello di non discriminazione in ragione della nazionalità – rilevando che il diritto statale “potrebbe rilevare soltanto nell’ipotesi in cui le prescrizioni del diritto comunitario relative all’esercizio, da parte degli Stati membri, della competenza loro attribuita in materia di immatricolazione di una nave fossero in conflitto con le norme del diritto internazionale”(221).

Anche nel caso del diritto internazionale generale, la Corte di giustizia oltre all’impiego quale parametro di legittimità, ha utilizzato tali norme ai fini della formazione di principi non scritti del diritto comunitario(222). Uno dei casi più recenti è rappresentato dal riconoscimento della responsabilità degli stati membri nei confronti dei singoli per la violazione del diritto comunitario anche qualora l’azione od omissione illecita siano attribuibili a specifici organi (es. i giudici ordinari) o enti (es. gli enti territoriali) indipendenti sul piano normativo interno(223).

Dal riconoscimento della personalità giuridica alla Comunità europea deriva anche la potestà di concludere accordi internazionali.

Tale potestà può essere prevista espressamente dai trattati comunitari, secondo il principio delle competenze attribuite, ma può trovare fondamento solo indiretto “sia nel Trattato nel suo complesso, sia nelle sue singole disposizioni”(224). Nella medesima pronuncia AETS, inoltre, la

(219) L’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati definisce lo jus cogens nel seguente modo: “For the purposes of the present Convention, a peremptory norm of general international law is a norm accepted and recognized by the international community of States as a whole as a norm from which no derogation is permitted and which can be modified only by a subsequent norm of general international law having the same character”. (220) G. GAJA, Fonti comunitarie, in Dig. Disc. Pubbl., VI, Torino, 1991, 433 (453). (221) Corte di giustizia, sentenza 25 luglio 1991, causa C-221/89, The Queen v. Secretary of State for Transport, ex parte Factortame Ltd e altri, in Racc., I-3905, para. 16 della motivazione. (222) S. AMADEO, La Corte di giustizia delle Comunità europee ed i rapporti tra diritto comunitario e diritto internazionale generale, cit., 901 ss.; P. MENGOZZI, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione europea, cit., 240-242. (223) Cfr., ex pluribus, Corte di giustizia, sentenza 13 dicembre 1991, causa C-33/90, Commissione delle Ce v. Repubblica italiana, in Racc., I-5987, para. 24 della motivazione; sentenza 16 gennaio 2003, causa C-388/01, Commissione delle Ce v. Repubblica italiana, in Racc., I-721, para. 27 della motivazione. (224) Corte di giustizia, sentenza 31 marzo 1971, causa 22/70, Commissione delle Ce v. Consiglio delle Ce (AETS), in Racc., 263, para. 12-15 della motivazione.

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Corte ha delineato il famoso principio del “parallelismo” fra competenze interne ed esterne, secondo il quale i trattati conferiscono alla Comunità la competenza a stipulare accordi internazionali sia nei settori materiali di cui dispone competenza interna(225), indipendentemente dall’effettivo esercizio di tali competenze(226), sia nei settori armonizzati, indipendentemente dall’attribuzione di una espressa competenza(227).

(225) Corte di giustizia, causa 22/70, AETS, para 12-15 della motivazione: “in mancanza di disposizioni del trattato che disciplinino esplicitamente la negoziazione e la conclusione di accordi internazionali nel campo della politica dei trasporti – categoria alla quale l’AETS sostanzialmente appartiene – si deve aver riguardo al modo in cui il trattato nel suo complesso disciplina i rapporti con gli stati terzi. L’art. 210 stabilisce che “la Comunità ha personalità giuridica”. Questa disposizione, che si trova all’inizio della parte sesta del Trattato, dedicata alle “disposizioni generali e finali”, implica che, nelle relazioni esterne, la Comunità può stabilire dei rapporti contrattuali con gli Stati terzi per l’intera gamma degli scopi enunziati nella prima parte del Trattato, di cui la Sesta costituisce la prosecuzione. Onde accertare, in un caso determinato, se la Comunità sia competente a concludere accordi internazionali, si deve prendere in considerazione sia il Trattato nel suo complesso, sia le sue singole disposizioni”. (226) Corte di giustizia, cause riunite 3/76, 4/76 e 6/76, Kramer, para. 40 ss. della motivazione; parere della Corte di giustizia del 26 aprile 1977, n. 1/76, Accordo relativo all’istituzione di un fondo europeo d’immobilizzazione della navigazione interna, in Racc., 741, para. 2 della motivazione; sentenza 5 maggio 1981, causa 804/79, Commissione delle Ce v. Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord, in Racc., 1045, para. 30-31 della motivazione. (227) Ancora Corte di giustizia, causa 22/70, AETS, para. 16-19 della motivazione: “tutte le volte che (per la realizzazione di una politica comune prevista dal trattato) la Comunità ha adottato delle disposizioni contenenti, sotto qualsivoglia forma, norme comuni, gli Stati membri non hanno più il potere – né individualmente, né collettivamente – di contrarre con gli Stati terzi obbligazioni che incidano su dette norme. Man mano che queste norme comuni vengono adottate, infatti, si accentra nella Comunità la competenza ad assumere e ad adempiere – con effetto per l’intera sfera in cui vige l’ordinamento comunitario – degli impegni nei confronti degli Stati terzi. Di conseguenza, nell’attuare le disposizioni del Trattato non è possibile separare il regime dei provvedimenti interni alla Comunità da quello delle relazioni esterne”. In dottrina, G. TESAURO, Diritto comunitario, cit., 75-76; L. SICO, Ordinamento comunitario e diritto internazionale: un matrimonio ancora non a rischio di scioglimento, cit., 1709. Questi due aspetti sono sintetizzati nel parere 7 febbraio 2006, n. 1/03, Competenza della Comunità a concludere la nuova Convenzione di Lugano concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, non ancora pubblicato, al para. 114 della motivazione: “La competenza della Comunità a concludere accordi internazionali può non soltanto essere attribuita espressamente dal Trattato, ma altresì derivare implicitamente da altre disposizioni del Trattato e da atti adottati, nell’ambito di tali disposizioni, dalle istituzioni comunitarie (v. sentenza AETS, cit., punto 16). La Corte ha inoltre concluso che, ogniqualvolta il diritto comunitario abbia attribuito a tali istituzioni determinati poteri sul piano interno, onde realizzare un certo obiettivo, la Comunità è competente ad assumere gli impegni internazionali necessari per raggiungere tale obiettivo, anche in mancanza di espresse disposizioni al riguardo (citati pareri 1/76, punto 3, e 2/91, punto 7)”.

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Di conseguenza, la Comunità dispone del potere esclusivo di stipulare accordi internazionali con Stati terzi nelle materie di cui gode di competenza (interna e/o esterna) esclusiva o, pur non disponga di competenza esclusiva, la materia sia integralmente disciplinata dal diritto comunitario (in forza del principio di sussidiarietà (art. 5, par. 2, del Trattato Ce o dei poteri impliciti (art. 308 del Trattato Ce)). Gli accordi conclusi dagli stati membri in tali materie sono quindi invalidi per violazione delle norme sulla competenza determinate dai trattati comunitari. Tale invalidità (comunitaria) non produce necessariamente l’invalidità dei trattati stipulati dagli stati membri sul piano del diritto internazionale(228). Ai sensi dell’art. 46, para. 1, della Convenzione del diritto dei trattati di Vienna, infatti, le convenzioni internazionali sono comunque valide “unless that violation [is] manifest and concerns a rule of its internal law of fundamental importance”. Un accordo contratto in violazione di norme comunitarie, e quindi invalido, potrebbe essere dunque perfettamente valido sul piano internazionale.

La sola ipotesi residuale di competenza degli stati membri a stipulare accordi internazionali nelle materie attribuite dai trattati alle comunità europee dovrebbe essere quella di revisione (o modifica) dei medesimi, che presuppone, naturalmente un accordo fra tutti gli stati membri. È noto, tuttavia, che l’art. 48 del Trattato Ue disciplina uno specifico procedimento di revisione dei trattati che, diversamente dalla normale procedura, prevede la partecipazione, nella fase iniziale del procedimento ed in funzione propositiva e consultiva, delle istituzioni comunitarie. Dubbia appare, quindi, non solo la possibilità di procedere alla revisione dei trattati secondo il normale procedimento di formazione di un accordo internazionale(229), ma anche la possibilità di modificare i trattati senza

(228) Richiama questo aspetto, P. FOIS, Sulla questione dei rapporti tra il diritto comunitario e il diritto internazionale, cit., 30. (229) Nel senso della esclusione della possibilità di modificare il trattato secondo procedure diverse da quelle tipizzate, Corte di giustizia, sentenza 8 aprile 1976, causa 43/75, G. Defrenne v. SA SABENA, in Racc., 455, para. 56-58 della motivazione: “il Trattato non può infatti essere modificato – salve restando le disposizioni specifiche – se non mediante una revisione da effettuarsi ai sensi dell’art . 236”; parere del 14 dicembre 1991, n. 1/91, Progetto di accordo tra la Comunità ed i Paesi dell’Associazione europea di libero scambio, relativo alla creazione dello spazio economico europeo, in Racc., I-6079, para. 32 della motivazione; Tribunale di primo grado, sentenza 10 luglio 1991, causa T-70/89, British Broadcasting Corporation e BBC Enterprises Ltd v. Commissione delle Ce, in Racc., II-535, para. 77 della motivazione. Nel senso espresso nel testo, T. BALLARINO, Lineamenti di diritto comunitario e dell’Unione europea, Padova, 1997, 164-165; P.J.G. KAPTEYN, P. VERLOREN VAN THEMAAT, Introduction to the Law of the European Communities, cit., 96-97. Di opposto parere, prima del Trattato di Maastricht, era P. FOIS, Sulla questione dei rapporti tra il diritto comunitario e il diritto internazionale, cit., 14 ss., 31 e, dopo Maastricht, in maniera

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limiti. Nel parere n. 1/91 relativo all’accordo per la creazione di uno spazio economico europeo (SEE), la Corte ha osservato che, benché la creazione di un sistema giurisdizionale che preveda una Corte competente ad interpretare le disposizioni dell’accordo non sia in contrasto con il diritto comunitario, “l’art. 238 [art. 310] del Trattato CEE non fornisce alcuna base per l’istituzione di un sistema giurisdizionale che pregiudichi l’art. 164 [art. 220] del detto Trattato e, più in generale, gli stessi principi fondamentali della Comunità”(230).

Nei settori in cui la Comunità dispone di competenza concorrente con quella degli stati membri la potestà di stipulare accordi internazionali con stati terzi deve essere esercitata congiuntamente agli stati membri (c.d. accordi misti).

Gli accordi conclusi dalla Comunità con uno o più stati terzi ovvero organizzazioni internazionali (sia esclusivi, sia accordi misti(231)) sono immediatamente applicabili sia nell’ordinamento comunitario sia negli ordinamenti statali (art. 300, para. 7, Trattato Ce). Come affermato dalla Corte, le disposizioni di un accordo internazionale “formano, dal momento della sua entrata in vigore, parte integrante dell’ordinamento comunitario”(232). Per stati membri, l’obbligatorietà dell’accordo internazionale e la diretta applicabilità delle sue disposizioni derivano direttamente dall’ordinamento comunitario e, in particolare, dall’art. 300, para. 7, del Trattato(233).

problematica, G. GAJA, Introduzione al diritto comunitario, Roma-Bari, 1997, 95-96 che ritiene che “la circostanza che gli Stati membri non seguano la procedura stabilita per la revisione dall’art. N può comunque costituire un indice della assenza di una volontà di derogare al Trattato; gli accordi conclusi fra gli Stati membri devono allora essere intesi come subordinati al Trattato stesso”. (230) Corte di giustizia, parere del 14 dicembre 1991, n. 1/91, Progetto di accordo tra la Comunità ed i Paesi dell’Associazione europea di libero scambio, relativo alla creazione dello spazio economico europeo, in Racc., I-6079, para. 71 della motivazione. La tesi dell’esistenza di un nucleo di principi fondamentali non modificabili dagli Stati membri è stata avanzata in dottrina da P. PESCATORE, Aspects judiciaires de l’“acquis communautaire”, cit., 622 ss. Cfr., anche, C. CURTI GIALDINO, Acquis communautaire, in Dir. Un. Eur., 1996, 643 (657 ss.); P. MENGOZZI, Il diritto comunitario e dell’Unione europea, cit., 100-101; G. GAJA, Introduzione al diritto comunitario, cit., 96; G. TESAURO, Diritto comunitario, cit., 96. (231) Corte di giustizia, sentenza 30 settembre 1987, causa 12/86, M. Demirel v. Schwaebisch Gmuend (Stadt), in Racc., 3719, para. 9 della motivazione; sentenza 7 ottobre 2004, causa C-239/04, Commissione delle Ce v. Repubblica francese, non ancora pubblicata, para. 25 della motivazione. (232) Corte di giustizia, sentenza 30 aprile 1974, causa 181/73, R. e V. Haegeman v. Stato belga, in Racc., 449, para. 3-5 della motivazione. (233) In questo senso, G. GAJA, Fonti comunitarie, cit., 450 ss.; M. CONDINANZI, Comunità europee, Unione europea e adattamento, cit., 159-160; L. SICO, Ordinamento comunitario e diritto internazionale: un matrimonio ancora non a rischio di scioglimento, cit., 1710.

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A prescindere dalla natura (esclusiva o mista), gli accordi internazionali stipulati dalla Comunità e/o dagli stati membri sono subordinati (gerarchicamente) alla disposizioni dei trattati. Tale obbligo si estende anche ai trattati stipulati dagli stati membri con altri stati membri o stati terzi(234). Il parametro di legittimità è individuato in senso ampio. Se la violazione riguarda norme “procedurali”, ovvero norme sulla competenza, l’accordo internazionale sarà invalido nella sua totalità. Diversamente, se l’accordo internazionale è incompatibile con norme “sostanziali” dei trattati, la disapplicazione è limitate alle sole norme incompatibili con i trattati comunitari.

A fondamento di tale conclusione la Corte richiama l’art. 10 del Trattato Ce che impone agli Stati membri la leale collaborazione

Questo aspetto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza comunitaria. Cfr., Corte di giustizia, sentenza 26 ottobre 1982, causa 104/81, Hauptzollamt Mainz v. C.A. Kupferberg und Cie KG AA, in Racc., 3641, para. 2 della motivazione: “a norma dell’art . 228 , n. 2 del Trattato, gli Stati membri sono vincolati nello stesso modo delle istituzioni della Comunità dagli accordi internazionali che queste hanno il potere di concludere, nel garantire il rispetto degli impegni derivanti da un accordo del genere essi adempiono un obbligo non solo nei confronti del paese terzo interessato, ma anche e soprattutto verso la Comunità che si e assunta la responsabilità del corretto adempimento dell’accordo. In tale modo le disposizioni di questo fanno parte integrante dell’ordinamento giuridico comunitario. Dalla natura comunitaria di queste disposizioni convenzionali deriva che i loro effetti nella Comunità non possono variare a seconda che la loro applicazione incomba, in pratica, alle istituzioni comunitarie o agli Stati membri e, in quest’ultimo caso, a seconda degli effetti che il diritto di ciascuno degli Stati membri attribuisce, nell’ordinamento interno, agli accordi internazionali da essi conclusi. Spetta pertanto alla Corte, nell’ambito della sua competenza ad interpretare le disposizioni degli accordi, il garantire la loro applicazione uniforme nell’intera Comunità”. Cfr., anche, causa C-162/96, Racke, para. 31 della motivazione. (234) Sul punto, cfr. la c.d. giurisprudenza Open skies, che ha dichiarato incompatibili con l’art. 52 del Trattato Ce gli accordi in materia di trasporto aereo stipulati da alcuni stati membri con gli Stati Uniti. Corte di giustizia, sentenza 5 novembre 2002, causa C-466/98, Commissione delle Ce v. Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, in Racc., I-9427, para. 41 della motivazione; causa C-467/98, Commissione delle Ce v. Regno di Danimarca, in Racc., I-9519, para. 127 della motivazione; sentenza 5 novembre 2002, causa C-468/98, Commissione delle Ce v. Regno di Svezia, in Racc., I-9575, para. 118 della motivazione; sentenza 5 novembre 2002, causa C-469/98, Commissione delle Ce v. Regno di Finlandia, in Racc., I-9627, para. 124 della motivazione; sentenza 5 novembre 2002, causa C-471/98, Commissione delle Ce v. Regno del Belgio, in Racc., I-9681, para. 136 della motivazione; sentenza 5 novembre 2002, causa C-472/98, Commissione delle Ce v. Granducato del Lussemburgo, in Racc., I-9741, para. 127 della motivazione; sentenza 5 novembre 2002, causa C-475/98, Commissione delle Ce v. Repubblica d’Austria, in Racc., I-9797, para. 137; sentenza 5 novembre 2002, causa C-476/98, Commissione delle Ce v. Repubblica federale di Germania, in Racc., I-9855, para. 149 della motivazione. In materia fiscale, cfr. la sentenza 21 settembre 1999, causa C-307/97, Compagnie de Saint-Gobain, Zweigniederlassung Deutschland v. Finanzamt Aachen-Innenstadt, in Racc., I-6161, para. 59 ss. della motivazione.

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nell’esecuzione degli obblighi derivanti dal Trattato(235). Anche in questo caso, si deve aggiungere che l’invalidità sul piano comunitario non si riflette necessariamente su quello internazionale, regolato, come ricordato supra, dall’art. 46, para. 1, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.

La sola eccezione all’invalidità degli accordi stipulati in violazione delle norme del trattato è prevista, in applicazione del principio pacta sunt servanda(236), dal primo para. dell’art. 307 del Trattato Ce per i “diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1° gennaio 1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall’altra”(237).

Questa disposizione è stata utilizzata per giustificare l’applicazione delle norme del GATT, cui gli Stati membri avevano aderito prima della costituzione della Comunità economica europea, accordo suscettibile di incidere sulle medesime materie disciplinate dal trattato comunitario(238). La Corte ha fatto applicazione di tale principio nel recente caso C-216/01, Budéjovický Budvar in cui, al fine di accertare l’efficacia di un trattato fra ex Repubblica di Cecoslovacchia e Repubblica d’Austria ha fatto ampio riferimento al principio internazionale di continuità dei trattati, demandandone al giudice di rinvio l’accertamento(239). Quanto al secondo para. dell’art. 307 che impone allo “Stato o gli Stati membri interessati” di ricorrere “a tutti i mezzi atti ad eliminare le incompatibilità constatate”, la Corte suggerisce l’adozione dell’interpretazione conforme (“ove possibile

(235) Corte di giustizia, sentenza 8 giugno 1971, causa 78/70, Deutsche Grammophon Gesellschaft mbH v Metro-SB-Großmärkte GmbH & Co. KG, in Racc., 487, para. 5 della motivazione. (236) Cfr., Corte di giustizia, sentenza 4 luglio 2000, causa C-84/98, Commissione delle Ce v. Repubblica portoghese, in Racc., I-5215, para 53 della motivazione. (237) Questa disposizione riproduce sostanzialmente l’art. 30, para. 2, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati: “2. When a treaty specifies that it is subject to, or that it is not to be considered as incompatible with, an earlier or later treaty, the provisions of that other treaty prevail”. (238) Corte di giustizia, sentenza 12 dicembre 1972, cause riunite da 21/72 a 24/72, International Fruit Company N.V. ed Altri v. Produktschap Voor Groenten en Fruit, in Racc., 1219, para. 10/12 della motivazione: “è pacifico che, quando hanno stipulato il Trattato Cee, gli Stati membri erano vincolanti dal GATT mediante un negozio concluso fra loro, essi non hanno potuto sottrarsi agli obblighi contratti nei confronti dei Paesi terzi. Al contrario, la loro volontà di rispettare gli obblighi del GATT si desume tanto dallo stesso Trattato Cee, quanto dalle dichiarazioni fatte dagli Stati membri in occasione della presentazione del Trattato alle altre parti contraenti del GATT, in osservanza dell’obbligo sancito dall’art . XXIV di questo”. (239) Corte di giustizia, causa C-216/01, Budéjovický Budvar, para. 144 ss. della motivazione.

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e nel rispetto del diritto internazionale”) ovvero, in ultima istanza, il ricorso alla denuncia del trattato internazionale(240). 3.3.1. (segue). In particolare, i rapporti fra ordinamento comunitario e Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dalla coesistenza alla rilevanza sul piano ermeneutico.

Il rapporto fra ordinamento comunitario e Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali non può essere descritto, alla stregua di quanto descritto nel paragrafo precedente, in termini di competenza e prevalenza, bensì in termini di integrazione. Questo metodo, che ha avuto (ed ha, tuttora) la propria via privilegiata nella giurisprudenza comunitaria(241), ha trovato la positiva codificazione nell’art. 6, para. 2, del Trattato Ue che impone all’Unione il rispetto dei diritti fondamentali “quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, oltre che dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. In aggiunta, il 7 dicembre 2000, a Nizza, Parlamento, Consiglio e Commissione hanno siglato e proclamato la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea” che riunisce, in un unico testo i diritti civili, politici, economici e sociali delle Comunità europee. La Carta non è dotata di efficacia vincolante, non essendo stata “allegata” ad alcun trattato di revisione. Si deve nondimeno osservare che la questione della vincolatività della Carta dei diritti si pone, in concreto, solo in relazione ai diritti nuovi, ovverosia ai diritti non regolati né dai trattati né previsti dalla Convenzione europea né, da ultimo, previsti dalle costituzioni nazionali(242). In aggiunta, la

(240) Corte di giustizia, causa C-216/01, Budéjovický Budvar, para. 169 e 171 della motivazione (241) Con la sentenza Nold (14 maggio 1974, causa 4/73, J. Nold, Kohlen- und Baustoffgrosshandlung v. Commissione delle Ce, in Racc., 491), la Corte di giustizia ha riconosciuto che i “trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo, cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito possono del pari fornire elementi di cui occorre tenere conto nell’ambito del diritto comunitario” (para. 13 della motivazione). Altre pronunce hanno richiamato espressamente disposizioni della Convenzione per i diritti dell’uomo (artt. 8, 9, 10 e 11 della Convenzione e art. 2 del Protocollo n. 4). Cfr. Corte di giustizia, sentenza 28 ottobre 1975, causa 36/75, R. Rutili v. Ministre de l’Interieur, in Racc., 1219. Recentemente, Cfr. sentenza 12 giugno 2003, causa C-112/00, E Schmidberger, Internationale Transporte und Planzüge v. Republik Österreich, in Racc., I-5659, para. 71 ss. della motivazione; sentenza 3 maggio 2005, cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02, S. Berlusconi, S. Adelchi, M. Dell’Utri et a., non ancora pubblicata, para. 67 della motivazione. (242) In questo senso, F. POCAR, Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 1178 (1181), in F. POCAR (a cura di), Commentario breve ai trattati della Comunità e dell’Unione europea, Padova, 2001; I. VIARENGO, La Carte dei diritti fondamentali dell’Unione europea, 197 (210), in B. NASCIMBENE (a cura di), La

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giurisprudenza comunitaria ha già fatto ampio richiamo, sul piano ermeneutico, ai diritti ivi previsti(243).

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo può dunque dirsi a tutti gli effetti parte sostanziale dell’ordinamento comunitario, sebbene ne sia formalmente separata, essendo espressione di un autonomo trattato multilaterale. In questo senso, la Corte ha ribadito che “benché il rispetto dei diritti fondamentali che fanno parte integrante dei detti principi generali costituisca un presupposto della legittimità degli atti comunitari, tali diritti non possono di per sé comportare un ampliamento dell’ambito di applicazione delle disposizioni del Trattato oltre i poteri della Comunità” (corsivo aggiunto)(244). In questo modo, si è voluto ribadire l’autonomia dell’ordinamento comunitario e “precisare che i diritti fondamentali da esso tutelati scaturiscono da una fonte di diritto autonoma, cioè dai principi generali del diritto comunitario” come accertati dalla Corte comunitaria(245).

A questo proposito, sebbene l’ipotesi di una formale adesione dell’Unione europea alla Convenzione sia stata considerata, essa è stata ritenuta non compatibile con l’ordinamento comunitario dal parere n. 2/94. La Corte ha ritenuto che “allo stato attuale del diritto comunitario, la Comunità non ha la competenza per aderire alla Convenzione” perché “nessuna disposizione del Trattato attribuisce alle istituzioni comunitarie, in termini generali, il potere di dettare norme in materia di diritti dell’uomo o di concludere accordi internazionali in tale settore” e perché “l’adesione alla Convenzione determinerebbe una modificazione sostanziale dell’attuale regime comunitario dei diritti dell’uomo, in quanto comporterebbe l’inserimento della Comunità in un sistema istituzionale internazionale distinto, nonché l’integrazione del complesso delle

Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Profili ed effetti nell’ordinamento italiano, Milano, 2002. (243) A mero titolo esemplificativo, cfr., Tribunale di primo grado, sentenza 30 gennaio 2002, causa T-54/99, max.mobil Telekommunikation Service GmbH v. Commissione delle Ce, in Racc., II-313, para. 48 della motivazione: “poiché nel caso di specie si tratta di un ricorso contro un atto di rigetto di una denuncia, si deve sottolineare, in via preliminare, che il trattamento diligente ed imparziale di una denuncia trova espressione nel diritto ad una buona amministrazione, che rientra tra i principi generali dello Stato di diritto comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Infatti, l’art. 41, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 conferma che “[o]gni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione””. (244) Corte di giustizia, sentenza 17 febbraio 1998, causa C-249/96, L.J. Grant v. South-West Trains Ltd., in Racc., I-621, para. 45 della motivazione. (245) Così, G. STROZZI, Diritto istituzionale dell’Unione europea. Dal trattato di Roma al trattato di Amsterdam, Torino, 1998, 209.

LA SOVRANITÀ DEI PRINCIPI

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disposizioni della Convenzione nell’ordinamento giuridico comunitario. E una tale modifica del regime comunitario della materia rivestirebbe carattere costituzionale, ed esulerebbe per sua propria natura dai limiti dell’art. 235 [308]”(246).

(246) Corte di giustizia, parere 28 marzo 1996, n. 2/94, Adesione della Comunità alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in Racc., I-1759.

CAPITOLO II

LA GIUSTIFICAZIONE DELL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Le giustificazioni (o fondamenti) ed i criteri di

riparto dell’onere tributario: una introduzione storica. - 2.1. Le “crossing traditions” della finanza pubblica. La Public Finance e la Finanzwissenschaft quali espressioni della contrapposta visione dello stato. - 2.2. Evoluzione dei criteri di riparto nelle costituzioni moderne. Il paradigma dell’eguaglianza. - 3. Il dovere inderogabile di solidarietà quale fondamento della prestazione tributaria e condizione essenziale per realizzare l’integrazione della persona nella vita dello stato. Gli altri principi (o valori) costituzionali in materia tributaria: rinvio. - 4. Il dovere tributario, il diritto internazionale e l’ordinamento comunitario. - 4.1. Incommensurabilità con l’esperienza statale. I vincoli internazionali all’imposizione tributaria. - 4.2. Natura e funzione della fiscalità nei trattati europei. Peculiarità dei tributi doganali. L’armonizzazione fiscale come strumento per assicurare la neutralità economica: rinvio.

1. PREMESSA. Nel presente e nei prossimi capitoli si cercherà di ricostruire la

giustificazione (o il fondamento) dell’imposizione tributaria ed i principi (o valori) che concorrono alla sua definizione. L’analisi avrà ad oggetto i principi (o valori) che possono dirsi comuni in una prospettiva interordinamentale. La finalità propria di questo lavoro, quindi, è quella di determinare i principi in materia tributaria risultanti dalla relazione materiale reciproca dell’ordinamento interno con quello comunitario e con il diritto internazionale secondo il modello delineato nel capitolo primo. In particolare, si è evidenziato che, allo stato attuale, i rapporti fra ordinamento interno, comunitario ed internazionale possono essere adeguatamente letti solo in una prospettiva assiologica, che dia conto della progressiva costituzione, a livello costituzionale o, in termini generici, supra-legislativo, di principi comuni di diritto tributario – una sorta di common law o di ius commune – prodotto dall’interazione e dalla reciproca integrazione fra i valori espressi dai diversi ordini normativi.

CAPITOLO II

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Il punto di partenza sono le disposizioni costituzionali interne ed il loro contenuto(1).

Questa prima parte dell’indagine sarà prevalentemente descrittiva, fondata sui risultati cui la giurisprudenza costituzionale e la dottrina tributarista italiana è pervenuta. Per quanto possibile, la ricostruzione di queste disposizioni e principi non si limiterà al solo dettato positivo, ma sarà preceduta da una minima indagine storica, volta a coglierne la genesi ed il fondamento originario.

Nella seconda parte, diversamente, si procederà alla ricerca dei medesimi valori nell’ordinamento comunitario ed in quello internazionale, completando la fase dell’indagine che potremmo definire “sincronica”. Il “valore aggiunto” della trattazione consiste nella individuazione del contenuto essenziale dei principi (o valori) costituzionali tributari che risulta dall’integrazione materiale degli ordinamenti interno, comunitario ed internazionale.

In questo capitolo si tratterà della giustificazione costituzionale dell’imposizione tributaria e, in particolare, della sintesi espressa attraverso il sintagma “dovere inderogabile di solidarietà” dell’art. 2 Cost. Nei successivi l’indagine avrà ad oggetto i principi (o valori) costituzionali che definiscono e specificano tale dovere. In questa trattazione sarà mantenuta ferma la tradizionale ripartizione fra principi sostanziali e formali. 2. LE GIUSTIFICAZIONI (O FONDAMENTI) ED I CRITERI DI RIPARTO DELL’ONERE TRIBUTARIO: UNA INTRODUZIONE STORICA.

La giustificazione (o fondamento) dell’imposizione tributaria appare

strettamente dipendente dall’ideologia politica e giuridica intorno al concetto di stato(2). In una prima approssimazione, questo significa che la

(1) Questo percorso metodologico appare obbligato secondo la prospettiva dogmatica delineata nel capitolo primo. Cfr. le argomentazioni sviluppate da A. PIZZORUSSO, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, 2002, 29 ss. (2) Un simile ordine di idee è accolto e sviluppato da J.A. SCHUMPETER, The Crisis of the Tax State, in International Economic Papers, 4, London, 1954, 5 (6-8); da V. ONIDA, Le leggi di spesa nella Costituzione, Milano, 1969, 165; da K. VOGEL, The Justification for Taxation: A Forgotten Question, in Am. Jour. Jur., 1988, 19 (33) e, più recentemente, è stato sviluppato da F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Bologna, 2007, 5 ss., il quale, all’analisi del fondamento dell’imposizione nell’ordinamento costituzionale italiano, premette un’ampia indagine delle teorie politiche dello Stato e, in maniera paradigmatica, della giustificazione “etica” del tributo. Si deve precisare che nella tradizione giuridica inglese non esiste il concetto di stato, sostituito dalle istituzioni/organi che compongono il regno (cfr., F. D’AGOSTINO, The State

LA GIUSTIFICAZIONE DELL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA

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ricerca del fondamento del tributo non può essere dissociata da quella della giustificazione teorica dell’organizzazione politica statale, richiedendo una breve ricognizione delle teorie politiche e giuridiche che hanno accompagnato la formazione dello stato moderno e contemporaneo.

Fino alle costituzioni del dopoguerra il dato giuridico appariva solo una delle componenti in grado di determinare il risultato finale, ovvero in grado di determinare la giustificazione dell’imposizione tributaria, sia perché le costituzioni sette-ottocentesche – con la vistosa eccezione delle esperienza costituzionali inglese e statunitense – contenevano regole che potevano essere interamente modificate o disapplicate dal legislatore ordinario, sia perché in molte di esse lo Stato, nella manifestazione delle proprie competenze sovrane essenziali, fra cui rientrava anche la materia tributaria, era posto fuori dalla legalità costituzionale. La sovranità, in questo senso, non era (e non poteva essere) un attributo riferibile alla costituzione quanto, piuttosto, esclusivamente allo stato(3). Pur non potendo dirsi assoluta, soffrendo comunque di limitazioni, la sovranità era, per ampi margini, estranea a qualsiasi forma di regolamentazione giuridica. Coerentemente, se la “sovranità tributaria” dello Stato non derivava ed era regolata solo parzialmente dalla costituzione, ne discendeva l’impossibilità logica di costruire il fondamento dell’imposizione tributaria esclusivamente sulla base del dato giuridico(4).

Questa generale assunzione postula quale conseguenza non solo la dipendenza dell’imposizione tributaria e della sua giustificazione dall’idea di stato ma anche, e soprattutto, l’essere indissociabile rispetto allo stato. Il fenomeno tributario, con la fine dell’ordine politico medievale, è sempre stato pensato, concepito e costruito in funzione pressoché esclusiva dell’esperienza statale(5). Nelle altre forme di organizzazione politica,

under the Rule of Law, 105 (118), in A.R. RIEU. e G. DUPRAT (Eds.), Euorpean Democratic Culture, London-New York, 1995). Questo aspetto non modifica l’affermazione del testo, che può essere estesa ad ogni polity. (3) Una ampia e penetrante ricostruzione di questo percorso storico è fatta da G. SILVESTRI, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, 9 (26 ss.), in Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Torino, 2005. (4) In questo si manifestava, con tutta evidenza, il limite derivante dalla netta separazione fra sein e sollen della costruzione teorica kelseniana, ovverosia dell’incapacità di spiegare adeguatamente la “realtà” dello stato in base al solo dato giuridico, sebbene tale teoria abbia avuto il merito di aprire la strada alla trasformazione dello Stato ed alla concezione della sovranità in termini esclusivamente oggettivi. Sulla questione, ampiamente, ancora G. SILVESTRI, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, cit., 45 ss. (5) Nella fase storica precedente il fondamento dell’imposizione tributaria era da ricercarsi nella sistemazione data dalla filosofia scolastica e, in particolare, da F. SUAREZ nel Libro V del Tractatus de legibus ac deo legislatore (1612). Secondo questa ricostruzione, il tributo era una obbligazione che poteva essere imposta solo in casi di straordinaria necessità. Le

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l’imposizione tributaria assume una natura e funzione incommensurabile rispetto all’esperienza statale. Ciò si verifica non solo nel diritto internazionale ma anche nell’Unione europea (che dal primo, almeno originariamente, deriva) e, soprattutto, è testimoniato dalle prime esperienze federali.

Questo significa altresì che non è possibile riferirsi univocamente alla “giustificazione” dell’imposizione tributaria ma che questa ricerca assume necessariamente un carattere storico e, quindi, diacronico(6). La ricerca del fondamento dell’imposizione tributaria è segnata, per sua natura, dalla relatività che si manifesta sia nella dimensione temporale sia in quella spaziale, manifestando, nello stesso periodo storico, contenuti diversi.

Da ultimo, la giustificazione dell’imposizione tributaria è questione diversa, sebbene significativamente condizionante, rispetto a quella dei criteri relativi al riparto degli oneri tributari fra i consociati(7). In una prima approssimazione, salvo quanto si dirà nel prosieguo, la giustificazione attiene alla ragione ed alla funzione dell’imposizione tributaria all’interno di un dato ente o organizzazione politica, diversamente, i criteri di riparto degli oneri tributari si riferiscono alle modalità attraverso cui tale funzione viene realizzata e, per conseguenza, attengono ai limiti o vincoli al potere impositivo.

2.1. Le “crossing traditions” della finanza pubblica. La Public Finance e la Finanzwissenschaft quali espressioni della contrapposta visione dello stato.

Pur con significativi distinguo, la ricostruzione della giustificazione del fenomeno tributario può essere ricondotta a due opposte idee di stato: quella che ha le proprie basi nel “contratto sociale” di T. Hobbes, H. Grotius e di J. Locke e nell’idealismo di G.W.F. Hegel.

entrate ordinarie, infatti, derivavano dai beni che rientravano nel patrimonio del sovrano (indistinguibili dal patrimonio “pubblico”) ed il tributo era una entrata eccezionale e residuale che manifestava l’assenza di un vero e proprio potere pubblico. Questa dipendenza del tributo alle spese pubbliche (eccezionali) è rilevata anche da L.V. BERLIRI, La giusta imposta, Milano, 1975, 34. (6) Cfr., in questo senso, L. VON STEIN, Lehrbuch der Finanzwissenschaft, Leipzig, 1885, citato da K. VOGEL, The Justification for Taxation: A Forgotten Question, cit., 37 nota 106. Posizioni analoghe si trovano in J.A. SCHUMPETER, The Crisis of the Tax State, cit., 8 nota 5. (7) Questa distinzione era ben presente ad uno dei fondatori della finanza pubblica tedesca. Cfr. A. WAGNER, Finanzwissenschaft. II. Theorie der Besteuerung, Gebührenlehre und allgemeine Steuerlehre, Leipzig, 1890, 217. Ma si veda, anche, L.V. BERLIRI, La giusta imposta, cit., 38, che individua un “interesse esterno fra ente pubblico e contribuente” e un “conflitto interno fra contribuente e contribuenti”; G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004, 203 e 208.

LA GIUSTIFICAZIONE DELL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA

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Nella ricostruzione di J. Locke lo stato trova la propria fonte di legittimazione nell’individuo e, più specificamente, nei “diritti naturali” dell’individuo, fra cui rientrano anche quelli economici e, in particolare, il diritto di proprietà. L’interesse generale (e, più precisamente, l’interesse dello stato) risulta quindi quale mera somma degli interessi dei singoli. L’imposizione tributaria trova quindi un limite inviolabile derivante dalla natura pre-giuridica dei diritti economici degli individui.

Diversamente, nell’esperienza continentale, sia nella versione germanica sia in quella francese, lo Stato è altro dalla somma degli interessi individuali e si affianca e contrappone idealmente, con potestà e facoltà proprie, agli individui. In questa costruzione la posizione giuridica individuale è generalmente recessiva rispetto all’interesse generale fra cui emerge, per importanza e significato, l’interesse fiscale(8).

Queste opposte concezioni si riflettono sullo sviluppo del costituzionalismo moderno. Nella tradizione inglese, ripresa e sviluppata dall’esperienza americana, la costituzione rappresenta una sorta di “reazione” delle assemblee rappresentative e dei giudici nei confronti del crescente assolutismo regio in difesa della costituzione medievale(9). La sintesi giuridica di questo percorso è la rule of law, ovvero la subordinazione degli organi/istituzioni del regno alle regole giuridiche. Come si dirà più diffusamente al capitolo seguente, la rule of law si manifesta attraverso la supremazia del parlamento ma, anche, nel riconoscimento dei diritti fondamentali della persona come risultano dalla common law.

Lo stato-persona costruito dall’idealismo tedesco, diversamente, diventa il centro assoluto dei rapporti pubblicistici e la sovranità tributaria, in questa costruzione, diviene una specie di “diritto naturale” dello stato “di cui questo è titolare in forza delle stesse ragioni che giustificano la sua esistenza”(10).

Questa radicale contrapposizione del concetto di stato ha prodotto conseguenze rilevanti sulla giustificazione dell’imposizione tributaria. Se nella teoria contrattualistica il diritto di proprietà, configurato come diritto naturale, presuppone che l’imposizione tributaria costituisca un limite alla realizzazione della persona, nel pensiero tedesco comincia ad affiorare

(8) Queste considerazioni sono ampiamente sviluppate da L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 11 ss. (9) In questo senso, N. MATTEUCCI, Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Torino, 1976, 53 ss. Si veda anche C.H. MCILLWAIN, Costituzionalismo antico e moderno, Bologna, 1990. (10) L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 21.

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un’idea di imposizione come partecipazione dell’individuo alla società(11). Von Stein appare il precursore della moderna concezione dell’imposizione quale fattore e strumento di integrazione dell’individuo in una data comunità(12).

Si può nondimeno evincere un elemento comune alla tradizione continentale europea ed americana sintetizzabile nella imprescindibilità dell’imposizione tributaria rispetto a qualsiasi fenomeno sociale organizzato. L’esistenza di spese non immediatamente riferibili ad un singolo consociato presuppone per sua natura l’imposizione tributaria e la scelta di criteri di riparto per la copertura di tali spese. In questo senso, indipendentemente dalla giustificazione teorica dell’imposizione tributaria, addirittura con precedenza logica sul legame fra dovere tributario ed eguaglianza, si va formando un autonoma regola costituzionale di favore alla riscossione dei tributi(13).

2.2. Evoluzione dei criteri di riparto nelle costituzioni moderne. Il paradigma dell’eguaglianza.

La questione della ripartizione del carico tributario fra i soggetti appartenenti ad una determinata collettività è strettamente connessa, nel tempo moderno, al principio di eguaglianza(14). I fondamenti teorici di questa ideologia emergono con tutta evidenza dai contributi di A. Smith, di J. Locke, di D. Hume e di B. Constant, le cui idee influenzeranno, in vario modo, i redattori della Declaration of the thirteen United States of America (11) Si leggano le pagine di L. VON STEIN, On Taxation, 28 ss., in R.A. MUSGRAVE e A.T. PEACOCK, Classics in the Theory of Public Finance, New York, 1994: “stated in the most general terms, this means that taxation is the economic expression of the individual’s cohesion with the nation. (…). There is no doubt that the community of people with its interaction between all is one of the two major conditions of all progress, the other being the unfolding of the individual’s possibilities. What I am, what I have and what I do belongs in some part to what I have received through the community. The strength of community resides in what each individual surrenders to it from his personal life – material, spiritual and social matters. It is thus – even mathematically – impossible that the community should offer the individuals the conditions of economic accomplishment, unless the individuals return to it part of their earnings made possible by the very existence of the community”. (12) Queste due tradizioni teoriche sono state definite crossing traditions da R.A. MUSGRAVE, Crossing Traditions, 63 (73-77), in H. HAGEMANN, Zur deutschsprachigen wirtschaftswissenschaftlichen Emigration nach 1933, Marburg, 1997. (13) Per ulteriori approfondimenti, si rinvia a P. BORIA, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 11 ss. (14) Concorde, A. FEDELE, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, 1 (3), in L. PERRONE e C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006. Una recente ricostruzione dell’eguaglianza nella tradizione francese si trova in C. LARRÈRE, L’égalité fiscale: une invention républicaine?, 89 ss., in T. BERNS, J.C.K. DUPONT, M. XIFARAS (sous la direction de), Philosophie de l’impôt, Bruxelles, 2006.

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del 4 luglio 1776 e la Déclaration des Droits de l’homme et du citoyen del 26 agosto 1789.

Si deve preliminarmente rilevare che questa relazione fra ripartizione del carico tributario ed eguaglianza non è presente nella tradizione giuridica britannica per la semplice ragione che non è identificabile in tale ordinamento un principio costituzionale di eguaglianza(15) e, in particolare, un principio costituzionale di eguaglianza tributaria(16). Come si rileverà trattando del consenso all’imposizione, nella tradizione giuridica britannica la materia tributaria è dominata dai principi della rule of law e della supremacy of the Parliament. In particolare quest’ultimo principio è tradizionalmente considerato assoluto, sebbene trovi significativi limiti nelle carte costituzionali (Magna Charta e Bill of rights) e nella common law. Ad entrambe le fonti giuridiche menzionate è estranea la regola dell’eguaglianza quale principio generale e, in particolare, quale principio applicabile all’area dell’imposizione tributaria(17). Tale principio costituisce quindi una regola giuridica estranea alla tradizione giuridica inglese che nondimeno si sta progressivamente imponendo attraverso fonti esterne, in particolare il principio di non discriminazione comunitario e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

È propriamente nell’esperienza giuridica continentale ed americana che è radicata la relazione fra riparto dei tributi ed eguaglianza. Prendendo avvio dalle carte costituzionali americane, precedenti rispetto a quelle europee, i primi esempi sono rappresentati dalle Costituzioni della Pennsylvania del 28 settembre 1776, che all’art. VIII afferma “every member of society hath a right to be protected in the enjoyment of life, liberty and property, and therefore is bound to contribute his proportion towards the expence of that protection”(18) e di quella del Maryland dell’11 novembre 1776 (art. XIII: “the levying taxes by the poll is grievous and oppressive, and ought to be abolished; that paupers ought not to be

(15) In questo senso, si veda S. FREDMAN, Equality: A New Generation?, in Ind. Law Jour., 2001, 145 (149). (16) P. BAKER, United Kingdom, 165 ss., in G.T.K. MEUSSEN (Ed.), The Principle of Equality in European Taxation, The Hague – London – Boston, 1999. (17) Esemplare è la pronuncia della House of Lords, R. v. Inland Revenue Commissioners, ex parte: National Federation of Self-Employed and Small Businesses Ltd. [1982] A.C. 617, citata da P. BAKER, United Kingdom, cit., 166, il quale rileva, altresì, che, sebbene non possa configurarsi un principio di eguaglianza sostanziale in materia tributaria, possa tuttavia riconoscersi nell’ordinamento inglese un principio di eguaglianza riferibile ai procedimenti legislativo e di applicazione dei tributi (167). (18) L’attuale formulazione dell’art. VIII, § 1, rappresenta un’evoluzione rispetto al precedente disposto: “all taxes shall be uniform, upon the same class of subjects, within the territorial limits of the authority levying the tax, and shall be levied and collected under general laws”.

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assessed for the support of government; but every other person in the State ought to contribute his proportion of public taxes, for the support of government, according to his actual worth, in real or personal property, within the State”(19). Simili disposizioni si ripetono nelle costituzioni del Massachusetts (1780), del Vermont (1793), delle Rhode Islands (1842)(20).

Quanto all’Europa continentale, una delle prime affermazioni si trova nell’art. 13 della Déclaration des Droits de l’homme et du citoyen del 26 agosto del 1789: “Pour l’entretien de la force publique, et pour les dépenses d’administration, une contribution commune est indispensable: elle doit être également répartie entre tous les citoyens, en raison de leurs facultés”(21). Disposizioni simili sono riprodotte nei testi costituzionali spagnolo – la Costituzione di Cadice del 1812 “la Pepa”(22) – e italiano – lo Statuto albertino del 1848.

Una considerazione del tutto peculiare merita l’esperienza tedesca in ragione dell’andamento definito “sinusoidale”(23) della propria vicenda istituzionale-costituzionale e per la formazione della teoria dei diritti pubblici soggettivi che, come detto, hanno influenzato significativamente la costruzione del rapporto autorità-libertà in ambito tributario.

A conferma della peculiarità dell’esperienza costituzionale tedesca è il fatto che il principio dell’eguaglianza tributaria trova riconoscimento solo nella Costituzione di Weimer dell’11 agosto 1919, ovverosia più di un secolo dopo la Déclaration francese. L’art. 134, infatti, affermava che: “alle Staatsbürger ohne Unterschied tragen im Verhältnis ihrer Mittel zu allen öffentlichen Lasten nach Maßgabe der Gesetze bei”, cui si

(19) Nei documenti precedenti alla dichiarazione d’indipendenza americana, nella Charter of Maryland del 1632 l’art. XVII specifica che è attribuito al barone di Baltimora il potere “to assess and impose the said Taxes and Subsidies there, upon just Cause and in due Proportion”. (20) Un’analisi dettagliata dell’evoluzione storica nelle costituzioni degli stati americani del rapporto fra imposizione tributaria ed eguaglianza si trova in W.B. BARKER, The Three Faces of Equality: Constitutional Requirements in Taxation, in Dir. Prat. Trib. Int., 2007, 405 (412 ss.). (21) In realtà, una prima affermazione dell’eguaglianza tributaria può essere fatta risalire alla deliberazione degli Stati Generali di Francia convocati da Jean II le Bon nell’inverno del 1355. L’art. 13 della Déclaration è stato riprodotto nelle successive costituzioni del 1815 e del 1830 (art. 2: “Ils [les Français] contribuent indistinctement, dans la proportion de leur fortune, aux charges de l’État). (22) Art. 8: “También está obligado todo español, sin distinción alguna, a contribuir en proporción de sus haberes para los gastos del Estado”. (23) F. LANCHESTER, Le costituzioni tedesche da Francoforte a Bonn. Introduzione e testi, Milano, 2002, 26.

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accompagnava il generale riconoscimento dell’eguaglianza dinanzi alla legge (art. 109: “alle Deutschen sind vor dem Gesetze gleich”)(24).

Nella precedente fase storica caratterizzata dal regime monarchico puro, l’affermazione costituzionale dell’eguaglianza tributaria è limitata alla c.d. costituzione di Francoforte del 1849 il cui Titolo VI era dedicato a “die Grundrechte des deutschen Volkes”. L’art. IX, § 173, affermava infatti che “Die Besteuerung soll so geordnet werden, daß die Bevorzugung einzelner Stände und Güter in Staat und Gemeinden aufhört”. Non solo la disposizione è formulata in termini negativi, in luogo della formulazione in termini di eguaglianza, ma, quel che più conta, è che l’intero Titolo VI venne interamente abrogato con il Bundesbeschluß über die Aufhebung der Grundrechte des deutschen Vorkes del 23 agosto del 1851 che segna l’inizio del declino tedesco verso la strada autoritaria. Nella successiva Costituzione del 1871, quella dell’unificazione dei territori germanici, non è rinvenibile alcuna disposizione inerente al rapporto fra autorità ed individuo, e ciò non solo per la materia tributaria.

Questa vistosa assenza è dovuta, oltre alla peculiare concezione dello stato e della sovranità dello stato di cui si è detto sopra, anche alla forma federale dello Stato, la cui competenza in materia tributaria era significativamente limitata a favore degli stati membri. Non è affatto sorprendente a questo proposito l’assenza di un qualsiasi riferimento all’eguaglianza tributaria anche nella originaria versione della Costituzione federale degli Stati Uniti e la contemporanea presenza, in maniera diffusa, in pressoché tutte le costituzioni degli stati membri. La funzione della costituzione federale era limitata, almeno originariamente, al solo riparto delle competenze fra centro e stati membri. Alle costituzioni di quest’ultimi era demandato il compito di regolare il rapporto fra autorità e libertà (o autorità ed individuo), anche in materia tributaria.

Come si è già anticipato, lo Statuto albertino conteneva, all’art. 25, una previsione che traduce nell’ordinamento italiano l’art. 2 delle costituzioni francesi del 1814 e del 1830(25). La disposizione prevedeva che i regnicoli “contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro

(24) Come è noto, l’attuale testo costituzionale fondamentale tedesco (Grundgesetz) non riproduce una disposizione simile a quella dell’art. 134 della Costituzione di Weimer. Il Grundgesetz si limita al riconoscere il principio generale dell’eguaglianza. Altrettanto noto, tuttavia, è il fatto che la giurisprudenza costituzionale tedesca ha ampiamente sviluppato uno specifico principio di eguaglianza tributaria. (25) Conclusione confermata da F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Art. 25, 51 (52, ma anche 56), in Commento allo Statuto del Regno, II, Torino, 1909: “formandosi poscia lo Statuto, la traduzione letterale dell’articolo 2 delle costituzioni francesi del 1814 e del 1830 trovò luogo in quest’articolo 25 così naturalmente, che i verbali del Consiglio di Conferenza non ne conservano nessunissima traccia”.

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averi, ai carichi dello Stato”. Sul piano sistematico, la norma completava il trittico delle proposizioni statutarie dedicate all’eguaglianza giuridica(26).

La dottrina maggioritaria interpretava tale disposizione proprio quale specificazione in materia tributaria del generale principio di eguaglianza. La medesima dottrina escludeva, altresì, che l’art. 25 dello Statuto avesse potuto costituire uno “specifico “diritto subiettivo all’uguaglianza davanti le imposte””, né fosse diretto ad organizzare o disciplinare (sia pure nelle sue grandi linee) il sistema tributario ma “ciò che lo Statuto intese ordinare [all’autorità pubblica], è che si faccia pagare a ciascuno in ragione degli averi: e con questo, una sola specie d’imposta essa escluse realmente, l’imposta che in economia si qualifica “uguale” cioè la capitazione, il trattamento identico di capacità contributive diverse”(27).

La Costituzione italiana contiene due disposizioni che regolano il rapporto tributario, generalmente definite come limiti formali e sostanziali alla potestà di imposizione(28). Da un punto di vista generalissimo, sia l’art. 23 Cost. sia l’art. 53 Cost. sono unite alle precedenti disposizioni dello Statuto albertino – rispettivamente gli artt. 30 e 25 – da una sorta di ideale

(26) L’art. 24 affermava: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”. La disposizione aveva un precedente nello stesso Regno sabaudo, il cui Codice civile albertino statuiva all’art. 426: “I tributi ed altre pubbliche imposizioni saranno sempre regolati nella distribuzione in modo che ognuno porti il proprio peso, e si mantenga perpetuamente l’universalità del concorso”. Nelle costituzioni preunitarie frequente è la presenza di una disposizione dedicata all’eguaglianza tributaria: Costituzione di Bologna del 1796, art. XVI: “l’oggetto di qualunque imposizione è il pubblico bene. Il riparto fra i contribuenti dee regolarsi in proporzione delle loro facoltà”; Costituzione della Repubblica Cispadana del 1797, art. X: “Ogni contribuzione è stabilita, a norma de’ pubblici bisogni ed interessi. Ogni contribuzione diretta viene ripartita fra i contribuenti in proporzione delle loro facoltà”; Prima e Seconda Costituzione della Repubblica Cisalpina (rispettivamente del 1797 e del 1798) e Costituzione della Repubblica Romana del 1798, art. 16: “Tutte le contribuzioni sono stabilite per l’utile generale, e debbono esser ripartite tra i contribuenti in ragione delle loro facoltà”; Costituzione napoletana del 1799, art. 16: “Ha il dritto [il popolo] di imporre le contribuzioni necessarie alle pubbliche spese”; Costituzione del Regno delle due Sicilie del 1821, art. 326: “Le contribuzioni saranno ripartite proporzionalmente alle facoltà di ciascuno senza eccezione né privilegio di sorta”; Statuto del Granducato di Toscana del 1848, art. 2: “I Toscani, qualunque sia il culto che esercitano, sono tutti eguali al cospetto della legge, contribuiscono indistintamente agli aggravi dello Stato in proporzione degli averi, e sono tutti egualmente ammessibili agl’impieghi civili e militari”. (27) F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Art. 25, cit., 55-56. Ripetutamente gli Autori qualificano l’art. 25 dello Statuto quale “guarentigia formale”. Sulla natura non vincolante, da intendersi quale “indicazione programmatica sufficientemente vaga”, si veda anche il Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea Costituente. V. Finanza. I Relazione, Roma, 1946, 12. (28) In questo senso, per tutti, E. DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2007, 84.

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continuità poiché, anche queste ultime disposizioni erano dirette a orientare il procedimento di formazione delle leggi tributarie ed il loro contenuto. Escludendo la differente formulazione, e soprattutto, il differente documento in cui sono contenute, l’aspetto “rivoluzionario” della Costituzione italiana è la qualificazione del dovere tributario come dovere inderogabile di solidarietà. In questa definizione, nel rapporto fra diritti inalienabili e doveri inderogabili e nel principio di eguaglianza sostanziale sono contenute le premesse del radicale cambiamento realizzato dalla Carta costituzionale nella configurazione del rapporto tributario.

3. IL DOVERE INDEROGABILE DI SOLIDARIETÀ QUALE FONDAMENTO DELLA PRESTAZIONE TRIBUTARIA E CONDIZIONE PER REALIZZARE L’INTEGRAZIONE DELLA PERSONA NELLA VITA DELLO STATO. GLI ALTRI PRINCIPI (O VALORI) COSTITUZIONALI IN MATERIA TRIBUTARIA: RINVIO.

La Costituzione italiana definisce il concorso alle spese pubbliche quale di dovere di solidarietà. Tale qualificazione emerge chiaramente dal collegamento fra l’art. 53, comma 1, Cost. e l’art. 2 Cost., il cui combinato disposto configura il dovere tributario quale specificazione della più ampia categoria dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale(29).

(29) In questo senso, P. BARILE, Corso di diritto costituzionale, Padova, 1962, 258; I. MANZONI, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, 20 ss.; G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, 351 ss.; C. CARBONE, I doveri pubblici individuali nella Costituzione, Milano, 1968, 188 ss.; F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 71 ss. Nella dottrina e manualistica più recente, G.A. MICHELI, Corso di diritto tributario, Torino, 1989, 89; L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 149 ss.; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 34; A. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, I, Torino, 2003, 15; ID., La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., 1; G. TINELLI, Istituzioni di diritto tributario, Padova, 2003, 34; G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit., 211; G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2005, 142-144; R. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2005, 10; C. SACCHETTO, Il dovere di solidarietà nel diritto tributario: l’ordinamento italiano, 167 (171 ss.), in B. PEZZINI e C. SACCHETTO, Il dovere di solidarietà, Milano, 2005; F. MOSCHETTI, Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, 39 (41), in L. PERRONE e C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006; E. DE MITA, I doveri costituzionali, 1 ss., in Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006; F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. 1. Parte generale, Torino, 2006, 66-67. In termini comparatistici, cfr. C. SCAILTEUR, Le devoir fiscal, Bruges, 1950; J. CASALTA NABAIS, O dever fundamental de pagar impostos, Coimbra, 2004, in particolare la parte II “configuração constitucional do dever de pagar impostos”.

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L’art. 2 Cost. precisa che è compito della “Repubblica” richiedere l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, ritenendo necessaria la mediazione legislativa e costituendo, in modo complementare, la relativa competenza. In questo senso, la disposizione costituzionale assegna agli organi costituzionali e, in particolare, all’organo legislativo, i poteri necessari a definire, attuare e garantire l’effettività del dovere tributario(30). Da ciò deriva che i doveri costituzionali, e il dovere tributario in particolare, non sono fonte costituiva diretta di situazioni giuridiche soggettive, bensì valgono ad individuare specifici interessi (o valori) della comunità che la Costituzione ha ritenuto fondamentali(31).

La qualificazione del concorso alle spese pubbliche in termini di dovere di solidarietà costituisce il punto di partenza obbligato per qualsiasi ulteriore indagine intorno ai caratteri del fenomeno tributario nell’ordinamento costituzionale italiano, configurandosi come un prius logico(-giuridico) indispensabile alla successiva specificazione dei caratteri che tale dovere può assumere(32).

Questo non significa che l’assenza di tale disposizione avrebbe impedito al legislatore l’esercizio della potestà impositiva(33). La

(30) La dottrina è unanime sul punto. Cfr. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1958, 746; G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, 20; A. Barbera, Art. 2, cit., 50 (99), in G. BRANCA (a cura di), Principi fondamentali. Art. 1-12. Commentario delle Costituzione, Bologna-Roma, 1975; A. PACE, Problematica delle libertà costituzionali. Parte generale, Padova, 2003, 16; L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 189 ss. (31) Così L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 193. (32) Conformemente ancora G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, cit., 21: “invero, il concetto di competenza e quello – funzionalmente ad esso collegato – di limite concorrono ad individuare, da un lato, gli strumenti organizzativi destinati, tra l’altro, a determinare la specifica attuazione dei doveri postulati dall’art. 2 Cost. e, d’altro canto, ad accompagnare e indirizzarne la realizzazione circoscrivendo per un verso il contenuto – non tanto sul piano astratto, quanto su quello concreto – e tracciando limiti di forma e di procedura alle attività in cui le competenze in parola si estrinsecano”; ma anche 394: “la potestà tributaria precede e condiziona tutto quest’ordine di rapporti dal punto di vista strumentale, come lo precede e condiziona, sotto il profilo materiale, il dovere di prestazione tributaria di cui all’art. 53 Cost. Da tale dovere, infatti, la stessa potestà tributaria risulta condizionata nel quadro del nostro ordinamento”. Cfr., altresì, K. VOGEL, The Justification for Taxation: A Forgotten Question, cit., 22; G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit., 218: “in questa prospettiva, l’art. 53 Cost. avrebbe, come si è già rilevato, il compito di specificare la natura “concorsuale” di tale dovere e, correlativamente, di definire i criteri cui si informa la disciplina del riparto, risultando l’affermazione del dovere contributivo in sé il necessario antecedente logico-giuridico della disciplina dettata dalla disposizione in esame”. (33) Così, anche, R. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, cit., 9. Autorevole dottrina costituzionalista considerava, immediatamente dopo l’entrata in vigore della Costituzione, l’art. 53 Cost. del tutto superfluo “poiché le imposte che siano sancite per legge dovranno essere corrisposte per la fondamentale ragione che si deve osservare la legge, non perché la

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qualificazione in termini di dovere di solidarietà, diversamente, vale ad escludere ab origine configurazioni giuridiche diverse dell’imposizione tributaria ovverosia, in termini positivi, costituisce il principio (o valore) fondamentale intorno a cui costruire il sistema tributario.

Quanto al primo profilo, ancor prima di averne compiutamente chiarito il significato, la qualificazione della prestazione tributaria quale dovere di solidarietà esclude che essa possa essere intesa per indicare uno degli “oneri proprii della sudditanza politica” in cui si esprimeva il “dovere di obbedienza del suddito”(34). Ad escludere, cioè, il fondamento metagiudico dell’imposizione, radicato nella sovranità dello Stato, e che, come tale, appariva estraneo alla possibilità di una regolamentazione giuridica, anche costituzionale, e produceva la compressione delle situazioni giuridiche soggettive fino al loro annullamento(35). Una tale configurazione esclude altresì che il fenomeno tributario possa essere ricostruito esclusivamente in termini di limitazione dei diritti economici del soggetto come “corrispettivo” economico o giuridico delle spese e dei servizi resi dagli enti pubblici.

La qualificazione della prestazione tributaria in termini di “dovere” non costituisce in sé una novità di qualche rilievo rispetto al quadro giuridico precedente alla Costituzione repubblicana(36). Dal dovere costituzionale (tributario) in sé considerato non discende che il vincolo per il legislatore di costruire il rapporto tributario in termini di obbligatorietà, elemento già ampiamente acquisito dalle costruzioni teoriche precedenti.

La radicale novità costituzionale può essere, diversamente, ricondotta ad un duplice ordine di fattori: da un lato, la congiunta previsione, nell’art.

Costituzione eccezionalmente così disponga in questo modo” (G. BALLADORE PALLIERI, La nuova Costituzione italiana, Milano, 1948, 63). (34) V.E. ORLANDO, Introduzione al diritto amministrativo. Le teorie fondamentali, vol. I, Milano, 1900, 34, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano. Ma, cfr., anche, A.D. GIANNINI, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, 3: “l’imposta non ha, giuridicamente, altro fondamento che la giustifichi se non questo solo della soggezione alla potestà finanziaria dello Stato”. (35) Chiaramente, in questo senso, I. MANZONI, Il principio di capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 21-22: “se non può più accogliersi, di fronte all’espresso dettato dell’art. 53 Cost. ed al principio di capacità contributiva ivi affermato, una spiegazione del dovere di prestazione tributaria in termini di pura e semplice soggezione al potere d’imperio statale, non è peraltro neppure possibile ricondurre tale dovere ad un semplice stato di sudditanza, in funzione esclusiva di un principio di stretta solidarietà politica”. Diffusamente, sul punto, L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 149-152; 154 ss. (36) Osserva infatti G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, cit., 37, che i doveri costituzionali si “estrinsecano”, sul piano categoriale, in termini di “imperatività” che appare “strumentalizzata nel quadro logico dell’adempimento ad opera dello Stato e si risolve in attribuzione di competenza a favore dei pubblici poteri””.

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2 Cost., dei diritti inviolabili dell’uomo e dei doveri inderogabili di solidarietà; dall’altro lato, la concreta specificazione dei doveri costituzionali quali doveri di solidarietà.

Questi argomenti sono già ampiamente indicativi della radicale diversità del fondamento dell’imposizione tributaria nell’ordinamento costituzionale rispetto ad altre esperienze storiche precedenti o contemporanee. La formulazione dell’art. 2 Cost. ed il coerente svolgimento nelle successive disposizioni costituzionali risolve definitivamente la contrapposizione ed il conflitto fra diritti inviolabili e doveri inderogabili dell’uomo, componendo i termini libertà/autorità come “due momenti coevi ed coessenziali, creati dalle medesime norme”(37). In questo nuovo ordine, l’art. 2 Cost. realizza, nella sua unità(38), il collegamento fra l’esigenza personalistica dei diritti e quella solidaristica dei doveri e diviene condizione essenziale per consentire l’effettiva partecipazione della persona allo svolgimento della vita politica, economica e sociale. Proprio i doveri di solidarietà costituiscono la nuova chiave di lettura dell’intero ordinamento costituzionale(39), poiché rappresentano lo strumento di “integrazione della persona nella vita dello Stato e della comunità sociale”(40). Tale integrazione passa attraverso il (37) Così C. LAVAGNA, Autorità, in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, 477 (481). Si veda, anche, F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, cit., 65: “In esso [art. 2] viene offerta una soluzione all’antico problema del rapporto tra libertà del cittadino e autorità dello Stato: né il singolo è un mezzo per il bene collettivo, né lo Stato è un mezzo per il bene del singolo. Lo Stato garantisce la tutela di fondamentali diritti dell’uomo, ma, al contempo, con l’imposizione degli inderogabili rapporti di solidarietà, assicura il raggiungimento del bene sociale”; A. BARBERA, Art. 2, cit., 100-101, per il quale tale collegamento dovrebbe “contribuire a fare ulteriormente svanire, nella prospettiva delle esigenze di sviluppo della “persona”, la stessa classica categoria interpretativa del rapporto autorità-libertà (…) a vantaggio di una più incisiva dialettica fra “solidarietà” e “dissenso””. (38) P. BARILE, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova, 1953, 148, rileva che il costituente ha voluto “costruire un concetto unitario, funzionale, del comportamento del soggetto privato nella vita costituzionale”. (39) “Norma chiave” è definita da C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 718. Cfr., anche, C. CARBONE, I doveri pubblici individuali nella Costituzione, Milano, 1968, 91 nota 5. (40) Così, G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, cit., 51, i cui argomenti sono ripresi e sviluppati da L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 159 ss.; F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, Milano, 2002, 97-98.; E. DE MITA, I doveri costituzionali, cit., 5. F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, cit., 70 (nota 37) osserva: “a nostro avviso, il concetto di solidarietà è certo legato a quello di integrazione dei cittadini nella vita economia e sociale del Paese, ma non si identifica con esso. È vero che senza l’uno non si ha l’altro, ma l’integrazione, più che coincidere con la solidarietà, né è piuttosto un risultato. In quanto cioè si attuino rapporti solidali, si potrà giungere ad una progressiva integrazione di tutti nell’organizzazione del Paese”. È sufficiente rilevare, a questo proposito, che l’integrazione può essere considerata anche – ed anzi, questo è storicamente

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rafforzamento del “valore della persona umana” a cui risulta collegata “l’intera gamma delle potenzialità di azione, vale a dire tanto quelle inerenti alla propria “sfera privata”, quanto quelle che si proiettano nel campo delle relazioni sociali e politiche”(41) ma, contemporaneamente, rifiuta ogni deriva atomistica imponendo a ciascuno, attraverso l’art. 2 Cost., l’adempimento dei doveri inderogabili. La centralità del principio personalistico nella Costituzione “va inteso in senso solidaristico o comunitario”(42), derivante dalla necessità di definire “l’autocoscienza individuale di ciascuno nel rapporto con il prossimo, con l’altro da sé”(43).

il significato attribuitogli – come processo materiale e giuridico. Cfr., R. SMEND, Costituzione e diritto costituzionale, Milano, 1988, 75 ss.: “ciò costituisce il processo centrale della vita statale, se si vuole, il suo nucleo essenziale, per caratterizzare il quale ho già proposto altrove il termine di integrazione”. (41) A. BALDASSARRE, Libertà. I) Problemi generali, in Enc. Giur. Treccani, XIX, Roma, 1990, 20, ma anche ID., Diritti inviolabili, in Enc. Giur. Treccani, XI, 1989, 16, ove l’originarietà del singolo è completata “dalla intersoggettività, dalla socialità”. Rileva L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 156 (ma v. anche 158 ss.) che “entrambe le tradizioni del costituzionalismo liberale [quella anglosassone e quella continentale] (...) si incontravano (...) su questo comune aspetto, inerente alla mancata considerazione dell’“ontologia sociale” della persona, ovvero, di quella dimensione reale e situata dell’individuo che costituisce, invece, il punto di riferimento intorno al quale gravita il sistema costituzionale attuale”. (42) V. SPAGNUOLO VIGORITA, L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Napoli, 1959, 89; C. SACCHETTO, Il dovere di solidarietà nel diritto tributario: l’ordinamento italiano, cit., 177. Non è fatto complicato attribuire alla matrice ideologica socialista e comunista e alla tradizione teologica tomistica il concetto “dovere di solidarietà”, mentre tale concetto rimane estraneo a quella liberale. Come è noto, la teologia tomistica assume un dato ordine dell’universo, nel quale la posizione dell’uomo è prestabilita ed assunta come vera e giusta e, di conseguenza, doverosa. In un sistema di giustizia oggettiva non vi è spazio per la categoria dei diritti ma assume una posizione dominante quella dei doveri di tutti verso ciascuno. L’enciclica Rerum novarum è eloquente in questo senso: “16. Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia” (enfasi aggiunta). Nelle società giuste, afferma G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 114, “la categoria dominante è quella dei doveri, non quella dei diritti”. Attribuisce all’influenza della dottrina sociale cattolica la seconda parte dell’art. 2 Cost., anche, C. CARBONE, I dovere pubblici individuali nella Costituzione, cit., 21, mentre per A. BARBERA, Art. 2, cit., 51, la maggiore preoccupazione per la sinistra era di “evitare che in nome dei diritti dell’individuo si introducessero inceppanti limitazioni al programma di governo economico-sociale che il legislatore avrebbe dovuto portare avanti”. (43) F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, cit., 78 ss. Il rifiuto della figura dell’individuo quale “sovrano isolato” nell’ordinamento costituzionale e, all’opposto, la costruzione quale individuo “sociale” è l’interpretazione ampiamente accolta anche dal Bundesverfassungsgericht. Cfr, BVerfGE 4, 7 (15): “Das Menschenbild des Grundgesetzes ist nicht das eines isolierten souveränen Individuums; das Grundgesetz hat vielmehr die Spannung Individuum - Gemeinschaft im Sinne der

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Tale nuovo ordine si caratterizza per una nuova idea di libertà che può essere compendiata nel “principio di liberazione dalla privazione”(44), quale condizione personale atta a consentire un’adeguata valorizzazione della dignità umana. In questo senso, il dovere tributario, quale dovere di solidarietà, costituisce lo strumento economico privilegiato per consentire la realizzazione dell’integrazione della persona all’interno della comunità sociale(45).

Questa ricostruzione è completata dal declassamento dei diritti economici da diritti della persona a diritti per la persona. Il dovere di solidarietà tributaria richiede una unitaria considerazione solo con i diritti inviolabili della persona, fra cui non rientrano i quelli economici. Si compie, attraverso la Carta costituzionale, il definitivo superamento delle tradizioni giuridiche liberali ottocentesche che concepivano i diritti economici, e il diritto di proprietà in particolare, quali limite naturale al dovere tributario(46).

Dall’art. 2 Cost. deriva inoltre una precisa indicazione del carattere solidale del dovere tributario, nella triplice valenza politica, economica e sociale(47). In una prima approssimazione, la solidarietà tributaria esprime

Gemeinschaftsbezogenheit und Gemeinschaftsgebundenheit der Person entschieden, ohne dabei deren Eigenwert anzutasten. Das ergibt sich insbesondere aus einer Gesamtsicht der Art. 1, 2, 12, 14, 15, 19 und 20 GG. Dies heißt aber: der Einzelne muß sich diejenigen Schranken seiner Handlungsfreiheit gefallen lassen, die der Gesetzgeber zur Pflege und Förderung des sozialen Zusammenlebens in den Grenzen des bei dem gegebenen Sachverhalt allgemein Zumutbaren zieht, vorausgesetzt, daß dabei die Eigenständigkeit der Person gewahrt bleibt”. (44) Così A. BALDASSARRE, Diritti sociali, in Enc. Giur. Treccani, XI, 1989, 10. (45) In questo senso, chiaramente, F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 62, che rileva: “la tassazione, pur traducendosi in un sacrificio economico individuale, tende – se equamente distribuita – ad “arricchire” indirettamente la persona quale componente della società”. È appena il caso di rilevare, rinviando sul punto al capitolo successivo, che le finalità promozionali o redistributive non devono considerarsi “esclusive” ma convivono con le più tradizionali funzioni fiscali. Sul punto, correttamente, G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit., 215. (46) Da ultimo, chiaramente, sul punto F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 69. Questo aspetto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza costituzionale che esclude dal sindacato di costituzionalità della legge tributaria la rilevanza dei diritti economici. Cfr., L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 289 ss.; A. FEDELE, Dovere tributario e garanzie dell’iniziativa economica e della proprietà nella Costituzione italiana, 19 (25 ss.), in B. PEZZINI e C. SACCHETTO, Dalle costituzioni nazionali alla Costituzione europea. Potestà, diritti, doveri e giurisprudenza costituzionale in materia tributaria, Milano, 2001. (47) La Corte costituzionale nella sentenza 28 febbraio 1992, n. 75, in Giur. Cost., 1992, 404, ha definito la solidarietà il principio che, “comportando l’originaria connotazione dell’uomo uti socius, è posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, tanto da essere solennemente riconosciuto e garantito, insieme ai diritti inviolabili

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la natura funzionale agli obiettivi costituzionali delle risorse finanziarie(48). La Carta costituzionale, anche in questo caso, abbandona le precedenti configurazioni dell’imposizione tributaria quale strumento di finanza “neutrale”, ed erige a principio (o valore) fondamentale dell’ordinamento il dovere di solidarietà tributaria quale strumento diretto alla realizzazione della dignità e del pieno sviluppo della persona umana(49). La solidarietà tributaria, quindi, deve essere intesa quale principio (o valore) che richiede che il concorso alle spese pubbliche sia adeguato al fine di perseguire il nuovo ordine sociale ed economico delineato dalla Costituzione(50).

Sebbene il dovere tributario tragga origine, come si è detto, dall’appartenenza ad una polis, il riferimento alla solidarietà politica contenuto nell’art. 2 Cost. assume solo un valore indiretto(51). Sul piano soggettivo, quindi, il dovere tributario non appare più direttamente

dell’uomo, dall’art. 2 della Carta costituzionale come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente”; si tratta di una “istanza dialettica volta al superamento del limite atomistico della libertà individuale, nel senso che di tale libertà è una manifestazione che conduce il singolo sulla via della costruzione dei rapporti sociali e dei legami tra gli uomini”. (48) F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. 1. Parte generale, cit., 67. (49) Che la ricostruzione del principio di solidarietà passi attraverso il concetto di persona umana è autorevolmente sostenuto, da ultimo, da F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, cit., 57 ss. (50) In questo senso, chiaramente, L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 198 (“dalla Costituzione, quindi, emerge un “principio di liberazione dalla privazione” in forza del quale la persona, considerata nella concretezza della sua esistenza, diviene il punto di riferimento di un processo di trasformazione rivolto a correggere, in armonia con i principi dell’“economia mista” e dello “Stato sociale”, la distribuzione naturale delle risorse”); A. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 38; F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2006, 5, e, da ultimo, ampiamente, F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 46 ss. e 61 ss. (per i fondamenti filosofici ed etici); 68 ss. (per l’analisi della Costituzione italiana); 103 ss. (“è, dunque, la giustizia sociale (…) il valore che guida la politica fiscale nell’ottica solidaristica ed egualitaria richiamata dagli artt. 2 e 3, Cost.”). (51) G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, cit., 360. Riafferma la preferenza per una collocazione del dovere tributario nella categoria dei doveri di solidarietà politica “in quanto lo scopo verso il quale converge l’azione comune è la sussistenza della collettività in sé”, G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit., 216. La qualificazione dell’imposizione tributaria nell’ordinamento costituzionale italiano in termini di (un non meglio giuridicamente determinato) dovere politico (di fedeltà) verso lo Stato è, storicamente, il primo significato attribuito all’art. 53, comma 1, Cost. Si veda, in questo senso, A. AMORTH, La Costituzione italiana. Un commento sistematico, Milano, 1948. 70; P. BISCARETTI DI RUFFIA, Diritto costituzionale, Napoli, 1958, 625. Tale ricostruzione aveva tuttavia quale effetto sostanziale la svalutazione della portata giuridica della disposizione costituzionale (in questo senso, per la dottrina tributarista, cfr., per tutti, A.D. GIANNINI, I rapporti tributari, 273 (284), in P. CALAMANDREI e A. LEVI (diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, I, Firenze, 1950).

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connesso con lo status di cittadino, bensì alla partecipazione, espressa da indici economici e sociali, alla vita della comunità(52).

La realizzazione del dovere di solidarietà tributaria è rimessa al legislatore che è tenuto ad operare il riparto della spesa pubblica fra i consociati “in ragione della capacità contributiva”. In questo senso, la capacità contributiva diviene il principio sostanziale attraverso cui si specifica il dovere di solidarietà e, come tale, il criterio di riparto dei carichi tributari nell’ordinamento costituzionale italiano.

4. IL DOVERE TRIBUTARIO, IL DIRITTO INTERNAZIONALE E L’ORDINAMENTO COMUNITARIO.

4.1. Incommensurabilità con l’esperienza statale. I vincoli internazionali all’imposizione tributaria.

Autorevole dottrina rilevava, nell’immediato dopoguerra, che non è possibile riscontrare nell’ordinamento internazionale un fenomeno, inteso quale complesso di potestà, diritti, doveri e rapporti giuridici, analogo a quello tributario statale(53). Tale conclusione era allora giustificata dal fatto che la comunità internazionale fosse costituita da soggetti che, dal punto di vista giuridico, dovevano considerarsi egualmente sovrani ed indipendenti (regem superiorem non reconoscentes) e, di conseguenza, dall’assenza di qualsiasi forma di organizzazione politica cui fosse attribuibile una competenza in materia tributaria nonché dalla mancata rilevanza giuridica dell’individuo.

Nonostante sia trascorso più di mezzo secolo e, seppur lentamente, il diritto internazionale si sia evoluto ed abbia attribuito una qualche

(52) In questo si sostanzia, in una prima approssimazione, l’art. 2 del dpr 22 dicembre 1986, n. 917 (tuir) che distingue i soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle persone fisiche in ragione della residenza. A sua volta, quest’ultima è costituita non solo da elementi di natura economica ma anche di tipo sociale (“la dimora abituale” della persona). Sul punto, da ultimo, G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, Milano, 2004, 357-359. (53) Così, M. UDINA, Il diritto internazionale tributario, Vol. X, Padova, 1949, 16 ss., in P. FEDOZZI e S. ROMANO (a cura di), Trattato di diritto internazionale, che osserva:“l’imposizione, considerata quale fatto economico e giuridico nello stesso tempo, per cui una prestazione pecuniaria dev’essere compiuta coattivamente da un soggetto a favore di un altro soggetto, di solito nell’interesse, almeno indiretto, di entrambi, non esiste secondo il diritto internazionale contemporaneo”. Ma cfr., anche, per osservazioni simili, G.C. CROXATTO, La imposizione delle imprese con attività internazionale, Padova, 1965, 61; ID., Diritto internazionale tributario, in Dig. Disc. Priv., Sez. Comm, IV, Torino, 1989, 640 (641); C. SACCHETTO, Tutela all’estero dei crediti tributari dello Stato, Padova, 1978, 72 nota 15; L. CARPENTIERI, R. LUPI, D. STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, 19 ss.

LA GIUSTIFICAZIONE DELL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA

101

rilevanza all’individuo, quelle conclusioni continuano ad essere utili per descrivere l’attuale situazione del diritto internazionale(54).

La medesima dottrina, proprio per distinguere il fenomeno tributario statale da quello internazionale, utilizzò la nozione di diritto internazionale tributario, da intendersi come insieme delle norme internazionali che si riferiscono all’esercizio della potestà normativa statuale in materia tributaria(55). La suddetta nozione è, quindi, individuata attraverso l’utilizzo, in via principale, del criterio della provenienza della fonte giuridica delle norme (l’ordinamento internazionale) ed in via derivata del criterio ratione materiae.

Tali norme sono contenute, in genere, in trattati multilaterali o bilaterali e, in numero decisamente limitato, sono composte da norme consuetudinarie internazionali ed hanno ad oggetto i più disparati settori della materia tributaria. Nella loro relazione con l’ordinamento interno, tali norme condividono un’univoca funzione, quella di limitare in vario modo e a vario effetto le regole tributarie statali. In questo senso, le norme internazionali presuppongono l’imposizione tributaria statale e quindi, intervenendo in una fase successiva, non ne modificano la qualificazione giuridica come dovere di solidarietà sopra delineata(56). (54) Condivide la conclusione C. GARBARINO, Introduzione alla tassazione del reddito transnazionale, 15 (17 ss.), in La fiscalità internazionale, Torino, 2000. (55) M. UDINA, Il diritto internazionale tributario, cit., 24. Per la letteratura straniera, si veda, A.H. QURESHI, The Public International Law of Taxation. Text, Cases and Materials, London-Dordrecht-Boston, 1994, 2-3. Questa definizione è stata criticata sia dalla dottrina interna sia da quella internazionale. Per la prima, cfr. G. TESAURO, Il finanziamento delle organizzazioni internazionali, Napoli, 1969, 191, che ne mette in dubbio i presupposti metodologici rilevando che si tratta di “una pura trasposizione di pseudo-sistematiche classificazioni del diritto interno nel diritto internazionale”. L’Autore utilizza la nozione di diritto tributario internazionale non solo per comprendere le norme statali relative a fattispecie con elementi di estraneità all’ordinamento interno, bensì qualunque norma internazionale in materia tributaria. La giustificazione di tale metodo dovrebbe farsi risalire alla assenza di un vero e proprio fenomeno tributario a livello internazionale che si rifletterebbe, facendone venir meno il significato, sulla nozione di diritto internazionale tributario (25-34). In quest’ordine di idee si colloca anche la dottrina tedesca che riconduce all’unico concetto “Internationales Steuerrecht” sia le norme internazionali che limitano la potestà normativa statuale sia le norme di diritto interno che disciplinano fattispecie con elementi estranei all’ordinamento interno (Aussenteuerrecht). Cfr., O. BÜHLER, Prinzipien des Internationalen Steuerrechts, Amsterdam, 1964, 3 ss.; K. VOGEL, Der räumliche Anwendungsbereich der Verwaltungsrechtsnorm, Frankfurt am Main-Berlin, 1965, 168 ss.; ID., Il diritto tributario internazionale, 365 ss., in A. AMATUCCI (diretto da), Trattato di diritto tributario. Annuario, Padova, 2001. (56) Si veda, chiaramente, in questo senso G.C. CROXATTO, La imposizione delle imprese con attività internazionale, cit., 42: “ciò che nell’ordine internazionale deve essere ricercato e determinato non è la sfera entro la quale lo Stato può esercitare la sua potestà se sussistono determinate condizioni, bensì i limiti di diritto internazionale che sono posti

CAPITOLO II

102

Attenendo ai vincoli relativi all’esercizio della potestà impositiva, la trattazione di tali norme è rinviata al capitolo successivo. Conformemente agli scopi dell’indagine, essa verrà ristretta alle sole norme internazionali che assumono rilevanza costituzionale, ovverosia le norme consuetudinarie in materia tributaria e quelle contenute nelle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo.

4.2. Natura e funzione della fiscalità nei trattati europei. Peculiarità dei tributi doganali. L’armonizzazione fiscale come strumento per assicurare la neutralità economica: rinvio.

I trattati europei non definiscono in termini generali il fondamento e, conseguentemente, la natura dell’imposizione tributaria. Questa conclusione appare inevitabile ove si osservi che, diversamente dalle esperienze statali, l’Unione europea non è dotata di una potestà impositiva nel senso sopra specificato(57) e che, quindi, al pari della dimensione internazionale, si debba parlare di imposizione tributaria solo in senso traslato.

Sebbene questa iniziale considerazione possa essere accolta nella sua genericità, essa soffre nondimeno di una evidente eccezione nel settore doganale(58). In quest’area, l’Unione europea è dotata di una competenza (normativa) esclusiva da cui l’art. 23, para. 1, del Trattato Ce fa discendere i poteri di adottare “una tariffa doganale comune” da applicarsi ai rapporti tributari sorti con i paesi terzi. Ne consegue che l’azione comunitaria in questo settore comporta l’uniformità della disciplina tributaria, eliminando ogni residua discrezionalità normativa degli Stati membri. Di potestà (normativa) impositiva in senso tradizionale (rectius: statale) si deve quindi parlare in questo caso, anche perché i tributi doganali svolgono, nel settore doganale, una funzione (anche) fiscale, ovverosia di reperimento delle risorse finalizzate alla copertura delle spese dell’Unione.

La Corte di giustizia comunitaria non ha interpretato direttamente il concetto di dazio doganale o, più precisamente, avuto occasione di definire la natura dei dazi doganali. Essa è tuttavia intervenuta in modo ampio e puntuale sul concetto di “tassa di effetto equivalente” ad un dazio

all’attività dello Stato, la quale è in principio libera e può essere svolta finchè non intervengano tali limitazioni”. In senso analogo, C. SACCHETTO, Territorialità (dir. trib.), in Enc. Dir., XLIV, Milano, 1992, 303 (310 ss.). (57) Concordano, D.W. WILLIAMS, EC Tax Law, London and New York, 1998, 5; F. FICHERA, Fisco ed Unione europea: l’acquis communautarie, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2003, I, 427 (429). (58) In questo senso anche A. FANTOZZI, Autorità e consenso nell’armonizzazione comunitaria degli ordinamenti tributari, relazione tenuta al Convegno di studi del 14-15 settembre 2007 svoltosi a Catania, 8-9 del dattiloscritto.

LA GIUSTIFICAZIONE DELL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA

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doganale, a cui si estende il divieto di imposizione all’interno del territorio comunitario al pari dei dazi doganali. Nella definizione della giurisprudenza, l’espressione “tassa di effetto equivalente” denota “qualsiasi onere pecuniario imposto unilateralmente, a prescindere dalla sua denominazione e dalla sua struttura, che colpisca le merci in ragione del fatto che esse varcano la frontiera (...) anche se non viene riscossa a beneficio dello Stato”(59). Da tale definizione discende, limitatamente allo specifico interesse di questa trattazione, la doverosità della prestazione e la specificazione del presupposto, che deve essere collegato al passaggio della frontiera del bene. Il requisito della doverosità è stato ulteriormente precisato dalla giurisprudenza con riferimento alle prestazioni pecuniarie “imposte” che costituiscono la remunerazione di un servizio connesso al passaggio della frontiera della merce. Queste prestazioni non rientrano nel concetto di tassa di effetto equivalente se il servizio è reso individualmente e a favore dell’operatore, e non in vista di un interesse generale(60), e se il corrispettivo pagato è proporzionato alla qualità ed al costo del servizio reso(61). La natura di tassa di effetto equivalente è esclusa anche nel caso di prestazioni richieste in base a normative comunitarie se connesse ad un servizio effettivamente reso e, soprattutto, se non eccedenti “il costo effettivo dell’operazione”(62).

La natura di tributaria delle tasse di effetto equivalente è stata quindi determinata in ragione del carattere di corrispettività della prestazione pecuniaria rispetto ad un servizio effettivamente reso dagli stati membri e della proporzionalità di tale servizio. Si tratta dunque di un criterio di natura funzionale connesso alla divisibilità del servizio prestato ovvero in ragione del rapporto fra costo ed entità della prestazione.

Questa definizione non deve essere sopravvalutata perché appare inscindibile dall’ambito materiale in cui è stata elaborata, quello della creazione di una unione doganale(63). In questo senso, la nozione di tassa di

(59) Fra le tante, Corte di giustizia Ce, sentenza 27 febbraio 2003, causa C-389/00, Commissione delle Ce v. Repubblica federale di Germania, in Racc., I-2001, para. 22 della motivazione. (60) Corte di giustizia, sentenza 15 dicembre 1993, cause riunite C-277/91, C-318/91 e C-319/91, Ligure Carni Srl e Genova Carni Srl v. Unita Sanitaria Locale N. XV di Genova e Ponente Spa v. Unita Sanitaria Locale N. XIX di La Spezia d Co.Ge.Se.Ma Coop A R L., in Racc., I-6621, para. 31 della motivazione. (61) Corte di giustizia, sentenza 2 maggio 1990, causa C-111/89, Stato dei Paesi Bassi (Ministerie Van Landbouw En Visserij) v. P. Bakker Hillegom Bv, in Racc., I-1735, para. 12-13 della motivazione. (62) Corte di giustizia, sentenza 25 gennaio 1977, causa 46/76, W.J.G. Bauhuis v. Stato olandese, in Racc., 1355, para. 41-42 della motivazione. (63) Come rileva L. DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, 108 ss., il rapporto fra “entità dell’imposizione e costo (o valore) della prestazione

CAPITOLO II

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effetto equivalente risente della specificità e degli obiettivi della libera circolazione delle merci all’interno del territorio comunitario(64).

Nei settori diversi da quello doganale, l’Unione europea è dotata di competenze che hanno come oggetto l’armonizzazione dei tributi indiretti (art. 93 del Trattato Ce), il ravvicinamento delle legislazioni in materia fiscale (artt. 94 e 95, para. 2, del Trattato Ce) e la materia ambientale (artt. 174 e 175 del Trattato Ce). Non solo, quindi, non esiste una generale potestà (normativa) impositiva nell’ordinamento comunitario, ma nemmeno si può dire che i trattati attribuiscano all’Unione europea una competenza generale in materia fiscale. Come si dimostrerà nel capitolo quarto, la frammentazione normativa del settore fiscale investe non solo l’oggetto ma anche la tipologia di procedimenti di normazione.

In una prima approssimazione, nonostante tale frammentazione, l’azione normativa dell’Unione europea in materia tributaria è accomunata dal contenuto e dalla funzione strumentale rispetto agli obiettivi comunitari indicati all’art. 2 del Trattato Ce(65). Quanto al primo profilo, il ravvicinamento delle legislazioni (nella misura necessaria al funzionamento del mercato comune) costituisce una delle azioni comuni previste dall’art. 3, para. 1, lett. h), del Trattato Ce. Il termine “ravvicinamento” è formalmente impiegato dall’art. 94 del Trattato Ce per attribuire alle istituzioni comunitarie una competenza normativa generale – perché non ristretta ad uno specifico settore – e residuale – perché applicabile nel caso in cui manchi una disposizione specifica – in funzione dell’instaurazione e del funzionamento del mercato comune (o interno). Diversamente, l’art. 93, utilizza il termine “armonizzazione” delle imposte sulla cifra d’affari, imposte di consumo ed altre imposte indirette; lo stesso

pubblica” ha assunto rilevanza anche nell’interpretazione dei c.d. “diritti di carattere remunerativo” vietati dall’art. 12 della Direttiva del Consiglio del 17 luglio 1969, n. 69/335/CEE, relativa all’annosa vicenda della compatibilità della tassa di concessione governativa per l’iscrizione delle società nel registro delle imprese. (64) In questo senso, cfr. anche le considerazioni sviluppate da P.M. HERRERA MOLINA, G.T.K. MEUSSEN e P. SELICATO, II. The Concept of Tax in EU Law, draft report at the Annual Conference on “The Concept of Tax” of the European Association of Tax Law Professor, Caserta 2005. (65) In questo senso, chiaramente, C. SACCHETTO, Armonizzazione fiscale nella Comunità Europea, in Enc. Giur. Treccani, Agg. III, Roma, 1994, 2. Ma si veda anche G. CASADO OLLERO, Fondamiento jurídico y limítes de la armonizacion fiscal en el Tratado de la CEE, in Rev. Der. Fin., 1983, 226 ss.; ID., L’ordinamento comunitario e l’ordinamento tributario interno, 505 (524; 543-544), in A. AMATUCCI (a cura di), Trattato di diritto tributario. Annuario, Padova, 2001; A. FANTOZZI, Armonizzazione fiscale tra modelli comunitari e autonomia normativa degli stati, Relazione tenuta al Convegno di studio “Le ragioni del diritto tributario in Europa” svoltosi a Bologna il 26-27 settembre 2003, 1 del dattiloscritto; ID., Autorità e consenso nell’armonizzazione comunitaria degli ordinamenti tributari, cit., 4-5 del dattiloscritto.

LA GIUSTIFICAZIONE DELL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA

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termine è utilizzato anche nel Titolo XIX dedicato all’ambiente. Nonostante l’opinione contraria di parte della dottrina(66), non sembra potersi ravvisare nella diversa formula delle sopraccitate disposizioni un diverso contenuto delle competenze normative comunitarie nella materia fiscale. Armonizzazione e ravvicinamento possono ridursi ad un medesimo genus (o istituto) giuridico che ha come oggetto il procedimento con il quale “i vari paesi effettuano di comune accordo, o l’Autorità preposta al Trattato impone, la modifica di una data norma o di un dato tributo o l’adeguamento della struttura essenziale di un’imposta in conformità ad un modello unico”(67). Le diverse graduazioni, la diversa intensità e il diverso ambito materiale che tale azione normativa può assumere non incidono sulla natura giuridica dell’istituto, che ha quale oggetto la riduzione delle disparità normative esistenti fra gli Stati membri nel settore tributario. Al fine della qualificazione della natura dell’istituto, dunque, non assumono rilevanza quali elementi definitori dell’istituto il fatto che l’armonizzazione/ravvicinamento riguardino l’intero sistema tributario, una sua parte, un tributo, specifiche porzioni di tributo ovvero la disciplina delle fattispecie interne e/o di quelle trasfrontaliere, poiché questi, come si dirà al successivo capitolo, riguardano, alternativamente, ad elementi metagiuridici inerenti alla definizione delle politiche fiscali a livello comunitario e quindi antecedenti all’intervento di armonizzazione/ravvicinamento, ovvero alla fase successiva degli effetti dell’azione normativa.

(66) F. CARUSO, Armonizzazione dei diritti e delle legislazioni nella comunità europea, in Enc. Giur. Treccani, Agg. II, 1993, 2; P. ADONNINO, Armonizzazione fiscale nell’Unione europea, in Enc. Dir., Agg. III, 1999, 276 (277). (67) Così, C. COSCIANI, Problemi fiscali del mercato comune, Milano, 1958, 89. Seguono questo indirizzo, C. SACCHETTO, Armonizzazione fiscale nella Comunità Europea, cit., 2; F.A. GARCÍA PRATS, Incidencia del derecho comunitario en la configuracion juridica del derecho financiero (II): politicas comunitarias con incidencia sobre el derecho financiero, in Rev. Der. Fin. Hac. Pubbl., 2001, 519 (557-558); P. BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2005, 61-62 (che rileva che la differenza terminologica “non sembra ... possa rivelarsi indicativa di una diversità assiologica tra i due istituti”); G. MELIS, Coordinamento fiscale nell’Unione europea, in Enc. Dir., Annali, I, 2007, 394 ss., che, in luogo dei termini armonizzazione/ravvicinamento, utilizza quello di “coordinamento”. La posizione è supportata dalla giurisprudenza. Cfr., Corte di giustizia Ce, 5 luglio 1988, causa 269/86, W.J.R. Mol v. Inspecteur der Invoerrechten en Accijnzen, in Racc., 3627, para. 14 della motivazione; 5 luglio 1988, causa 289/86, Vereniging Happy Family v. Inspecteur der Omzetbelasting, in Racc., 3655, para. 16 della motivazione (“a questo proposito si deve rilevare che la sesta direttiva è basata sugli artt. 99 e 100 [93 e 94] del trattato CEE e persegue l’armonizzazione o il ravvicinamento delle normative degli Stati membri in fatto di imposte sulla cifra d’affari “nell’interesse del mercato comune”).

CAPITOLO II

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In secondo luogo, si è detto che le diverse fattispecie di armonizzazione(68) fiscale condividono i medesimi presupposti per il loro esercizio, che si possono sintetizzare nell’accertamento della “necessità” dell’azione comunitaria per l’instaurazione ed il funzionamento del mercato comune (interno)(69). Il Trattato Ce stabilisce quindi una stretta interdipendenza fra le competenze in materia fiscale ed i principi di sussidiarietà (art. 3, para. 2) e di proporzionalità (art. 3, para. 2, del Trattato Ce)(70), nel senso che l’accertamento della necessarietà dell’azione normativa comunitaria e la coerenza con gli obiettivi che si intendono perseguire costituisce un presupposto giuridico indispensabile per l’esercizio dei poteri di armonizzazione in materia tributaria.

In sintesi, quindi, il ruolo delle disposizioni fiscali nei trattati europei è quello di ripartire la competenza fra Unione europea e Stati membri e di consentire la realizzazione del mercato comune (o interno) come spazio giuridico senza ostacoli alla circolazione dei fattori produttivi(71). In questo senso, i principi di sussidiarietà e proporzionalità rappresentano le “norme chiave” nel processo di integrazione fra i principi (o valori) sottesi all’imposizione tributaria statale e quelli comunitaria. Tali principi richiedono – ex art. 5 del Trattato Ce – una valutazione comparativa della sede istituzionale ed ordinamentale più adeguata per la realizzazione degli obiettivi comunitari.

Dai trattati europei, quindi, non emerge alcuna specifica indicazione relativa alla configurazione giuridica del rapporto tributario(72), poiché oggetto delle norme fiscali europee è il rapporto fra Unione europea e stati membri (ed eventualmente fra stato ed enti territoriali(73)), e non quello fra Unione europea e contribuente. La ricerca condotta in questa sede sul fondamento dell’imposizione tributaria nei trattati europei non può dare

(68) Considerate le conclusioni raggiunte, nel prosieguo del testo i termini “armonizzazione”, “ravvicinamento” e “coordinamento” saranno utilizzati quali sinonimi per riferirsi alle competenze normative in materia tributaria dell’Unione europea. (69) Conformemente, G. MELIS, Coordinamento fiscale nell’Unione europea, cit., 402-403, che parla di azione comunitaria che si svolge per “gradi” diversi. (70) Si veda, ancora, C. SACCHETTO, Armonizzazione fiscale nella Comunità Europea, cit., 2. (71) Come si dirà nel prossimo capitolo, il mercato comune deve considerarsi, allo stesso tempo, obiettivo e strumento delle azioni comunitarie e, nel caso di specie, dell’azione di ravvicinamento. Obiettivo perché formalmente previsto dagli artt. 2 e 14 del Trattato Ce; strumento perché presupposto alla realizzazione degli obiettivi indicati all’art. 2. (72) Così anche F. FICHERA, Fisco ed Unione europea: l’acquis communautarie, cit., 429 ss.; P. BORIA, Diritto tributario europeo, cit., 29 ss. condivide la conclusione che per la fiscalità comunitaria “appare irrilevante la regolazione della dialettica di base del fenomeno fiscale”. (73) Corte di giustizia CE, sentenza 6 settembre 2006, causa C-88/03, Repubblica portoghese v. Commissione delle Ce, non ancora pubblicata, para. 59 ss. in cui la Corte detta i criteri in base ai quali i sistemi tributari infra-territoriali possono considerarsi compatibili con l’ordinamento comunitario.

LA GIUSTIFICAZIONE DELL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA

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quindi che esiti negativi. Questo significa, che l’ordinamento comunitario non influenza – se non limitatamente all’area doganale – la qualificazione del fondamento dell’imposizione tributaria come dovere di solidarietà, che è lasciata, conformemente al principio di sussidiarietà, alla competenza dei singoli Stati membri(74).

Diversamente, i trattati europei influenzano la definizione dei criteri di riparto dei carichi pubblici, aggiungendo alla funzione “tradizionale” dell’imposizione tributaria negli ordinamenti statali di procurare un’entrata all’ente pubblico e, soprattutto, alla funzione solidaristica (o redistributiva) quella, preminente in sede comunitaria, della neutralità economica, ovverosia della riduzione degli ostacoli al funzionamento del mercato interno. L’imposizione tributaria non è considerata uno strumento funzionale alla promozione di un determinato assetto sociale, ma è preminentemente uno strumento neutrale che deve lasciare alle sole forze di mercato la realizzazione di “uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, la parità tra uomini e donne, una crescita sostenibile e non inflazionistica, un alto grado di competitività e di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri” (art. 2 Trattato Ce). In questa accezione, la neutralità cui le competenze europee in tema di armonizzazione fiscale sono finalizzate deve intendersi diretta a riconoscere lo status quo realizzato dai soli meccanismi di mercato, ovverosia la non alterazione delle posizioni giuridiche soggettive dei singoli all’interno dell’ordinamento comunitario. Questo non significa che l’impostazione di fondo dei trattati europei è fideisticamente liberista, ma, al contrario, che l’intervento è concepito esclusivamente in funzione di regolamentazione del mercato e, solo in via sussidiaria e successiva, per rimediare agli insuccessi prodotti dal mercato.

Queste considerazioni saranno oggetto di ulteriore approfondimento nel capitolo successivo, cui si fa rinvio.

A ben vedere, le conclusioni raggiunte richiamano le esperienze federali cui si è accennato nell’introduzione storica. L’esperienza statunitense è, in questo senso, estremamente istruttiva(75). Si è visto come le varie costituzioni delle ex colonie britanniche contenessero al proprio interno la definizione del fenomeno tributario, quantomeno in termini

(74) Concorde, sul punto, F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 134 nota 2. (75) Sul punto, si rinvia alla ricostruzione di C.H. JOHNSON, Righteous Anger at the Wicked States. The Meaning of the Founders’ Constitution, New York, 2005.

CAPITOLO II

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funzionali, diretti a fissare nel “contratto sociale”, in funzione di limite, la necessarietà dell’imposizione tributaria. Lo stesso per i principati e città stato tedesche che, in una prima fase aderiranno all’unione doganale e, a partire dal 1871 alla costituzione federazione prussiana. All’opposto, le costituzioni federali non contenevano alcun riferimento all’imposizione se non in relazione al riparto delle competenza fra federazione e stati membri.

In questi casi, il principio dominante, anche in tema di definizione dell’imposizione tributaria, è quello di sussidiarietà. Al livello di governo più basso spetta la definizione della natura del rapporto tributario che, ovviamente, appare condizionato in maniera significativa dalle tradizioni storiche, culturali e sociali. A livello federale (o, per l’Unione europea, a livello sovrastatale), tale definizione è presupposta e l’interesse focalizzato sui criteri di riparto delle competenze normative e, quindi, sui limiti all’esercizio della potestà normativa tributaria dei vari livelli di governo.

CAPITOLO III

LA DEFINIZIONE DEL DOVERE TRIBUTARIO. EGUAGLIANZA E CAPACITÀ CONTRIBUTIVA, NON

DISCRIMINAZIONE E INTERESSE FISCALE

SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. Eguaglianza e capacità contributiva: una sintesi

delle posizioni dottrinali. - 3. Dovere tributario e principio di eguaglianza. La funzione distributiva e redistributiva dell’imposizione tributaria. - 3.1. Evoluzione dell’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. - 3.2. (segue). Evoluzione dell’eguaglianza tributaria nella giurisprudenza della Corte costituzionale. - 4. Assenza di limiti consuetudinari all’imposizione tributaria nel diritto internazionale. Il principio di non discriminazione nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. - 5. La neutralità economica dell’imposizione quale funzione sottesa all’armonizzazione fiscale nel Trattato Ce. - 5.1. (segue). La peculiarità delle misure fiscali in materia ambientale. - 6. Il principio di non discriminazione in ragione della nazionalità. Profili generali. - 6.1. Il principio di non discriminazione in ragione della nazionalità e le libertà fondamentali. Il superamento dell’equivalenza ed il divieto di misure indistintamente applicabili (o non discriminatorie). - 6.2. Le libertà fondamentali come limite alla potestà impositiva degli stati membri. Irrilevanza delle “mere disparità” fra i sistemi tributari e delle misure applicabili indistintamente. - 6.3. (segue). Il divieto di discriminazione fiscale in materia di imposte dirette. I diversi metodi di confronto e la coerenza dei sistemi tributari nella prospettiva statale e comunitaria. - 6.4. Il divieto di discriminazione in ragione della nazionalità dei prodotti. - 6.5. Il divieto di aiuti di stato e il carattere “selettivo” delle disposizioni statali. Il divieto di imposizioni protezioniste. - 7. L’interesse fiscale nell’ordinamento costituzionale italiano. - 8. La progressiva formazione ed il progressivo riconoscimento dell’interesse fiscale nell’ordinamento comunitario. Duplicità di presupposti di tale nozione. - 8.1. L’interesse finanziario dell’Unione europea: il caso dell’iva. - 8.2. La tutela dell’interesse fiscale degli stati membri attraverso le cause di giustificazione alle libertà fondamentali. Il rule of reason test. - 9. Conclusioni.

CAPITOLO III

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1. INTRODUZIONE. La concreta definizione del dovere di solidarietà tributaria, si è

rilevato, richiede l’azione di mediazione del legislatore che “è chiamato a tradurlo in posizioni soggettive (diritti soggettivi in senso proprio, interessi legittimi, obblighi) in relazione ai concreti rapporti della vita”(1). La qualificazione della prestazione tributaria in termini di dovere di solidarietà politica, economica e sociale nel senso specificato rappresenta dunque solo il punto di partenza per la successiva determinazione dei vincoli e dei limiti posti dalla Costituzione alla specificazione del dovere tributario.

La dottrina tributaria distingue tradizionalmente fra vincoli di ordine “sostanziale”, eguaglianza e capacità contributiva, e vincoli di natura “formale”, la riserva di legge. Questo capitolo è dedicato all’esame, nella prospettiva dell’integrazione dei principi, dei limiti appartenenti alla prima categoria, ovverosia l’eguaglianza tributaria e la capacità contributiva. Si deve avvertire, altresì, che la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza costituzionale riconoscono l’esistenza di un interesse generale alla riscossione dei tributi (“interesse fiscale”). Come si dirà nella successiva analisi, tale interesse appare sussidiario agli artt. 3 e 53 Cost., poiché diretto a porre deroghe al dovere tributario rispetto alla disciplina ordinaria dei tributi determinata conformemente ai predetti principi costituzionali. Per tale ragione, l’indagine intorno all’interesse fiscale seguirà quella dell’eguaglianza e della capacità contributiva.

In ambito internazionale, i limiti all’imposizione tributaria derivano sostanzialmente dal principio di non discriminazione. La dottrina internazionalista ha ampiamente dimostrato l’inesistenza di una norma consuetudinaria che impone l’eguale trattamento in ragione della nazionalità o di altri criteri. Il divieto di discriminazione, quindi, deriva da specifici accordi conclusi dall’Italia che hanno, secondo la ricostruzione accolta in questa sede, rilevanza, almeno sul piano ermeneutico, costituzionale.

Più articolata, ovviamente, la situazione dell’ordinamento comunitario. Si è già detto che un primo limite all’imposizione discende dalla ripartizione della competenza fra Unione europea e stati membri e, più precisamente, dagli obiettivi perseguiti attraverso l’azione di armonizzazione. Limiti ancor più intensi, perché trasversali rispetto al riparto delle competenze fra Unione europea e stati membri, sono posti dai

(1) L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano, 1996, 191 (ma anche 195), che richiama le conclusioni di A. BALDASSARRE, Libertà. I) Problemi generali, in Enc. Giur. Treccani, XIX, Roma, 1990, 28.

EGUAGLIANZA TRIBUTARIA

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principi fondamentali del diritto comunitario. Il riferimento, ovviamente, è al principio di non discriminazione in ragione della nazionalità, nelle sue varie espressioni funzionali al perseguimento del mercato interno e di un regime di concorrenza non distorsivo.

Alla riserva di legge sarà dedicato il capitolo successivo.

Sezione I. Eguaglianza tributaria 2. EGUAGLIANZA E CAPACITÀ CONTRIBUTIVA: UNA SINTESI DELLE POSIZIONI DOTTRINALI.

L’art. 53, comma 1, Cost. informa alla capacità contributiva il dovere

di concorrere alle spese pubbliche. La capacità contributiva assume rilevanza, in una prima approssimazione, quale criterio di riparto delle spese pubbliche fra i consociati, risolvendosi “in criterio di razionalità complessiva del sistema e dell’intera disciplina del concorso alle pubbliche spese, secondo il medesimo indirizzo consolidatosi nell’applicazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3, c. 1, Cost.”(2). Questa interpretazione, che considera l’art. 53, comma 1, Cost. un’espressione del principio di eguaglianza, costituisce la base minima comune, cui sembra aderire unanimemente la dottrina tributarista(3).

(2) A. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario. Parte I, Torino, 2003, 32; ID., La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, 1 (3; 20 ss.), in L. PERRONE e C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006: “in quanto riparto dei carichi pubblici, la funzione fiscale evoca essenzialmente problemi di giustizia distributiva. (…). Trattandosi di individuare “giusti” criteri di riparto, il valore costituzionale di riferimento non può che rinvenirsi nel principio di eguaglianza” e, ampiamente, F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, Bologna, 2007, 97 ss. (3) Cfr., per tutti, A. FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 38; G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 151 (“trasferito in campo tributario il principio di eguaglianza ha inglobato – nella giurisprudenza della Corte – la capacità contributiva nel senso che le condizioni oggettive e soggettive da considerare per stabilire se vi sia o faccia difetto la parità di trattamento sono gli indici di capacità contributiva. Per ciò la capacità contributiva funge, in campo tributario, da elemento di completamento dell’eguaglianza”). In senso contrario, da ultimo, P. BORIA, Il bilanciamento di interesse fiscale e capacità contributiva nell’apprezzamento della Corte costituzionale, 57 (67), in L. PERRONE e C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006: “i due principi [capacità contributiva ed eguaglianza] si collegano a funzioni radicalmente diverse: la capacità contributiva fornisce una indicazione in ordine al riparto dei carichi fiscali tra i consociati in collegamento a fatti che denotino una forza economica; il principio di eguaglianza costituisce il criterio relazionale che orienta il bilanciamento dei vari principi

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È opportuno altresì rilevare fin d’ora che la dottrina, in maggioranza, non considera l’art. 53, comma 1, Cost., un criterio di riparto esclusivamente “neutrale” ma, all’opposto, ritiene che sia strumentale al perseguimento degli obiettivi indicati dalla Costituzione e, in particolare, alla rimozione degli ostacoli che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3, comma 2, Cost.)(4). In questo senso, l’art. 53 Cost. sarebbe funzionale al disegno di giustizia sociale prefigurato dalla Costituzione italiana.

Abbandonata questo comune significato, le posizioni divergono sensibilmente sia riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 53, comma 1, sia riguardo al significato da attribuire alla “capacità contributiva”.

Una parte della dottrina, ritiene che l’art. 53, comma 1, Cost. operi esclusivamente come criterio di riparto delle spese pubbliche e che, di conseguenza, esprima esigenze di coerenza e razionalità del sistema tributario(5). Tale razionalità dovrebbe essere misurata con riferimento alla disciplina di ciascun tributo e del sistema tributario nel suo complesso.

Secondo questa ricostruzione, la capacità contributiva non esprimerebbe valori in sé, bensì “un’esigenza di congruità funzionale delle scelte legislative circa i criteri di riparto dei carichi pubblici”(6). Proprio in quanto regola dell’equo, giusto e razionale riparto, l’art. 53, comma 1, Cost., si estenderebbe all’intero sistema tributario, ricomprendendo anche i tributi di natura “paracommutativa”.

Il corollario più significativo, e più discusso, che discende da questa interpretazione è che i tributi possono assumere, quale presupposto impositivo, qualsiasi indice valutabile economicamente, indipendentemente dal fatto che implichi la disponibilità dei mezzi necessari all’adempimento del dovere tributario. Così, “è il solo fatto

costituzionali coinvolti nella materia tributaria e dunque, in relazione a quanto visto finora, della capacità contributiva medesima oltre che dell’interesse fiscale”. (4) In termini risoluti, da ultimo, F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 103 ss. (“è, dunque, la giustizia sociale (…) il valore che guida la politica fiscale nell’ottica solidaristica ed egualitaria richiamata dagli artt. 2 e 3, Cost.”). Si veda, anche, F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2006, 67 (“la politica tributaria è uno degli strumenti fondamentali dell’azione pubblica rivolta al perseguimento di quel fine [art. 3, comma 2]”). (5) In questo senso, A. FEDELE, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., 14 ss.; F. GALLO, L’imposta regionale sulle attività produttive e il principio di capacità contributiva, in Giur. Comm., 2002, 131 ss.; F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 85 ss.; L. PALADIN, Il principio di eguaglianza tributaria nella giurisprudenza costituzionale italiana, in Riv. Dir. Trib., 1997, 305 (306 ss.); S.F. COCIANI, Attualità o declino del principio della capacità contributiva?, in Riv. Dir. Trib., 2004, 823 (837 ss.). (6) Così A. FEDELE, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., 21.

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dell’inserimento della persona-contribuente in un contesto istituzionale e sociale e non quello della sua identificazione con un soggetto titolare di diritti soggettivi a contenuto patrimoniale, che dovrebbe giustificare, in via generale e astratta, l’assunzione della persona stessa a soggetto passivo d’imposta in relazione anche a indici di potenzialità economica rappresentati da posizioni e valori – “capacitazioni”, direbbe Amartya Sen – solo socialmente rilevanti, purché espressivi, in termini di vantaggio, di una capacità differenziata economicamente valutabile”(7).

Diversamente, la dottrina maggioritaria interpreta tale sintagma non solo come criterio di partecipazione alle spese pubbliche, bensì anche come limite all’imposizione tributaria(8). Tale interpretazione postula un concetto qualificato di capacità contributiva come “forza economica”, intesa quale “indice rivelatore di ricchezza ossia una disponibilità di mezzi economici potenzialmente scambiabili sul mercato”(9) e individua nell’art. 53 la “espressione di un sistema di valori”(10). Queste posizioni, sebbene riconoscano il valore del giudizio di coerenza e razionalità della disciplina tributaria, rilevano nel giudizio di idoneità alla contribuzione desumibile dal presupposto economico il corretto significato della capacità contributiva(11). In questo senso, la capacità contributiva dovrebbe esprimere non solo una forza economica reale ma anche la “imputabilità” di tale forza al soggetto(12).

(7) F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 86-87. (8) In questo senso, E. GIARDINA, Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, Milano, 1961, 434 ss.; I. MANZONI, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1965, 13 ss.; F. GAFFURI, L’attitudine alla contribuzione, Milano, 1969, 63 ss.; ID., Il senso della capacità contributiva, 25 (31 ss.), in L. PERRONE e C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006; F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, cit., 217 ss.; ID., Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, 38 (43 ss.), in L. PERRONE e C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006; G. FALSITTA, Il doppio concetto di capacità contributiva, in Riv. Dir. Trib., 2004, II, 889 ss.; ID., Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, 146-147; G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione, Torino, 1995, 95 (108 ss.); A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 38 ss.; E. DE MITA, Il principio di capacità contributiva, 106 ss., in Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006. (9) Ancora G. FALSITTA, Il doppio concetto di capacità contributiva, cit., 899. (10) F. MOSCHETTI, Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, cit., 41. (11) Ancora, F. MOSCHETTI, Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, cit., 45. (12) G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, cit., 146; F. MOSCHETTI, Il principio di capacità contributiva, espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, cit., 48.

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All’interno di questa posizione, parte della dottrina ritiene che l’art. 53, comma 1, Cost. non si applichi alle prestazioni tributarie “divisibili” o “commutative”, perché esse troverebbero già in nuce nella disciplina istitutiva il criterio cui informare il riparto della spesa pubblica(13).

Non è necessario, in questa sede, indagare ulteriormente il significato dell’art. 53 Cost. e, in particolare, della capacità contributiva. Ai fini del presente lavoro è sufficiente aver presentato, in maniera assolutamente schematica, i termini essenziali della questione. Come si vedrà nel prosieguo della trattazione, il maggior vincolo che il diritto internazionale e l’ordinamento comunitario pone all’ordinamento interno è quello del divieto di discriminazione o, più genericamente, di trattamento differenziato. In questa prima direzione, la capacità contributiva, intesa nel senso assoluto, appare presupposta, e quindi non direttamente rilevante, all’indagine. Per tale ragione, un approfondimento specifico sarà riservato solo al principio costituzionale dell’eguaglianza in materia tributaria.

Il principio della capacità contributiva sarà, diversamente, richiamato nel paragrafo dedicato alla politica ambientale dell’Unione europea. I tributi ambientali in senso proprio(14), colpendo comportamenti inquinanti o che recano danno all’ambiente, creano problemi di compatibilità con la concezione della capacità contributiva in senso assoluto.

3. DOVERE TRIBUTARIO E PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA. LA FUNZIONE DISTRIBUTIVA E REDISTRIBUTIVA DELL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA.

La capacità contributiva esprime dunque un criterio di “giustizia fiscale”(15) che discende dal collegamento fra l’art. 53 e l’art. 3 Cost. In questo senso, l’esigenza di razionalità e coerenza nel riparto delle spese

(13) In questo senso, F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, cit., 100, il quale ritiene che “il particolare collegamento fra art. 53 e art. 2 fa sì che debbano escludersi dal primo quei tributi che abbiano come loro causa giuridica, intesa nel senso di ratio, non un dovere di solidarietà, ma una particolare prestazione o un particolare servizio ricevuti dalla pubblica amministrazione. Naturalmente non ci riferiamo ad un collegamento con l’attività o il bene pubblico che sia puramente estrinseco od occasionale, ma ad un collegamento che individui la giustificazione sostanziale della contribuzione”. Nello stesso senso, da ultimo, Corte cost., sentenza 4 aprile 2001, n. 96, punto 8 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, Milano, 2003, 1082: “il principio della capacità contributiva riguarda soltanto le contribuzioni relative a prestazione di servizi il cui costo non si possa determinare divisibilmente”. (14) Per questa definizione, cfr. F. GALLO, F. MARCHETTI, I presupposti della tassazione ambientale, in Rass. Trib., 1999, 115 (121 ss.). (15) F. BATISTONI FERRARA, Art. 53, 1, in Commentario della Costituzione fondato da G. BRANCA e continuato da A. PIZZORUSSO, Art. 53-54, Bologna-Roma, 1994; F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 85 ss.

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pubbliche fra i consociati trova concretizzazione nel canone dell’eguaglianza tributaria(16).

Sebbene individuato con il medesimo nomen, l’art. 3 Cost. esprime due distinti principi, definiti in termini di eguaglianza formale e sostanziale. Il primo si risolve in un divieto di trattamenti fiscali discriminatori non giustificati. Tale principio è formulato in termini generali – “tutti i cittadini (...) sono eguali davanti alla legge” – alla cui previsione è fatta seguire un’elencazione, meramente indicativa e non esaustiva, dei “criteri discriminatori”(17).

L’art. 3, comma 1, Cost. è, come noto, uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto ottocentesco che presupponeva (e postulava) una netta separazione fra la società civile e quella politica, ovverosia fra l’uomo individualmente considerato e l’uomo “sociale”(18). Tale principio consentiva di assicurare le condizioni di eguaglianza giuridica necessarie per il godimento, all’interno della società civile, delle dotazioni “naturali” di ciascun individuo(19). In sostanza, tale principio costituiva (e costituisce tuttora) il riconoscimento della “possibilità di cimentarsi, di mettere a prova la propria attuale efficienza, comunque acquisita, e, dunque, di avere un posto nella società corrispondente ad essa”(20). Si tratta di un principio di contenuto meramente negativo che, prescindendo dalla effettiva condizione della persona all’interno della società, riconosce, attraverso l’eguaglianza giuridica, la sostanziale diseguaglianza naturale della persona(21).

In questo senso, il principio di eguaglianza formale si risolve, per la materia fiscale, in un divieto di irragionevoli discriminazioni soggettive ed

(16) Così, A. FEDELE, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., 10; F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 97 ss. Cfr., anche, S. LA ROSA, Riflessioni sugli “interventi guida” della Corte costituzionale in tema di eguaglianza e capacità contributiva, 185 (189), in V. UCKMAR, L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano. Atti del Convegno “I settanta anni di “Diritto e pratica tributaria””, Padova, 2000. (17) Questa conclusione è accolta dalla dottrina costituzionalista. Cfr., per tutti, C. ESPOSITO, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, 25 (30); C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, 1019; G.U. RESCIGNO, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana, 79 (83-84), in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 1998, Principio di eguaglianza e principio di legalità nella pluralità degli ordinamenti giuridici, Padova, 1999. (18) In questo senso, chiaramente, A. BALDASSARRE, Libertà. I) Problemi generali, cit., 9; G. ZAGREBLESKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 20 ss. (19) A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Esame analitico e ipotesi ricostruttive, Milano, 1976, 7. (20) Ancora A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Esame analitico e ipotesi ricostruttive, cit., 7. (21) G.U. RESCIGNO, Istituzioni di diritto pubblico, Bologna, 1984, 665.

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oggettive valutate, all’interno dello stesso ordinamento, in termini simili(22). La ulteriore specificazione di questa generale conclusioni è rinviata ai successivi paragrafi dedicati all’evoluzione giurisprudenziale dell’eguaglianza costituzionale.

Il concetto di eguaglianza sostanziale espresso dal secondo comma è diversamente funzionale alla promozione delle condizioni indispensabili per creare omogeneità nel godimento di diritti e delle libertà sociali(23). La funzione dell’eguaglianza sociale non è quindi meramente negativa bensì è finalizzata alla promozione delle condizioni per un’esistenza libera e dignitosa. Il Costituente ha, in questo modo, riconosciuto la diseguaglianza sociale alla base della moderna società ed ha orientato il disegno costituzionale al superamento della concezione egualitaria formale accogliendo una diversa “legalità sociale”.

Il punto di congiunzione fra i due principi dell’eguaglianza costituzionale è stato individuato nell’affermazione di “pari dignità sociale” della persona(24). Questo concetto deve intendersi non solo quale astratta eguaglianza di fronte alla legge, ma soprattutto quale “parità di situazioni di partenza, che andrebbe il più possibile mantenuta per consentire alle persone di svilupparsi liberamente” nel quadro dei principi segnato dalla Costituzione(25). In questo senso, l’ordinamento costituzionale presuppone un valore di “giustizia sociale” inteso quale realizzazione della partecipazione di tutti i consociati al godimento dei diritti e, in particolare, dei diritti sociali. Non è difficile individuare la matrice prima di queste conclusioni che, affondando le radici nell’eguale valore di ogni persona, deve “sfociare nell’integrazione della comunità intorno ai principi istituzionali dell’ordinamento”(26).

In questo contesto, l’imposizione tributaria appare uno degli strumenti di promozione della suaccennata “pari dignità sociale” e della creazione

(22) Si è rilevato che l’eguaglianza e la diversità delle situazioni possono essere “valutate con riferimento all’ordinamento giuridico” e quindi due situazioni sono eguali se tali ritenute dal legislatore ovvero debbono “essere ritenute eguali quelle situazioni che solo arbitrariamente possono essere distinte dal legislatore”, ancorando “le classificazioni legali alle comuni valutazioni sociali dei fatti umani”. In questo senso, S. LA ROSA, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968, 66-67. (23) In questo senso, si veda, P. PERLINGIERI, Eguaglianza, capacità contributiva e diritto civile, Rass. Civ., 1980, 724 (734 ss.). (24) G. FERRARA, La pari dignità sociale (Appunti per una ricostruzione), 1089 ss., in Studi in onore di G. Chiarelli, II, Milano, 1974. (25) F. MODUGNO, Principi generali dell’ordinamento, in Enc. Giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, 1 (20). (26) F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale italiano, Milano, 2002, 97; F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, Padova, 2003, 39.

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delle condizioni per un’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese(27). Questa funzione si realizza sia attraverso la raccolta e l’impiego di risorse destinate a finanziare le spese pubbliche sia attraverso la definizione degli indici economici di riparto delle spese pubbliche. Tale riparto non è dunque (solo) “neutrale”(28), ovverosia indifferente all’ordine dei diritti generato dal mercato, ma è diretto ad incidere sulle situazioni soggettive al fine favorire il riequilibrio delle diverse situazioni naturali di partenza.

Anche in questo caso, il vincolo per il legislatore si pone in termini razionalità e coerenza che, tuttavia, non è assunta, staticamente, in ragione dell’eguaglianza dinanzi alla legge, bensì in ragione della differenza di fatto delle condizioni economiche e sociali della persona(29).

È importante sottolineare con estrema precisione che, nonostante la Costituzione prefiguri una specifica funzione promozionale, o strumentale alla promozione dei fini e degli obiettivi costituzionali, del dovere tributario, la finalità redistributiva non deve necessariamente manifestarsi in tutti i tributi e gli istituti tributari. Accanto a tributi con funzione redistributiva, il nostro ordinamento costituzionale ammette anche “tributi la cui funzione solidale è limitata al necessario profilo del concorso alle spese pubbliche della singola collettività”(30).

La funzione redistributiva è realizzata, in primo luogo attraverso la scelta razionale degli indici di concorso ma, anche, per espressa previsione

(27) In questo senso, anche, L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 209 e, riferendosi all’“interesse fiscale”, anche P. BORIA, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 109: “si può sostenere che l’interesse collettivo verso il quale si indirizza l’obiettivo di reperimento delle risorse finanziarie necessarie per le spese pubbliche è l’interesse della società che risulterà dal processo di rimozione degli ostacoli fattuali diretto a favorire la trasformazione del contesto generale, politico economico e sociale, così da permettere il pieno sviluppo della personalità dei consociati”; C. SACCHETTO, Il dovere di solidarietà nel diritto tributario: l’ordinamento italiano, 167 (187-188), in B. PEZZINI e C. SACCHETTO, Il dovere di solidarietà, Milano, 2005 (28) In questo senso, da ultimo, C. SACCHETTO, Il dovere di solidarietà nel diritto tributario: l’ordinamento italiano, cit., 187 ss. (29) Questa complessità del rapporto fra imposizione tributaria e eguaglianza è stata colta nella propria interezza da S. LA ROSA, Eguaglianza tributaria ed esenzioni fiscali, Milano, 1968, 29: “le funzioni dell’attività impositiva sono aumentate di pari passo con l’estendersi dei compiti degli enti pubblici, ed hanno determinato l’accostamento di nuovi valori all’antica aspirazione all’uniforme distribuzione degli oneri fiscali. La parità di trattamento oggi non esaurisce più la giustizia tributaria, ed il suo studio impone, anzitutto, l’identificazione dei limiti in cui essa è ancora assunta a valore fondamentale (pur se non più unico) del diritto tributario”. Queste considerazioni sono ripetute, in sintesi, in S. LA ROSA, Le agevolazioni tributarie, 401 (418), in A. AMATUCCI, (a cura di), Trattato di diritto tributario, I, Tomo I, Padova, 1994. (30) A. FEDELE, La funzione fiscale e la “capacità contributiva” nella Costituzione italiana, cit., 5-6 e 21.

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costituzionale, attraverso lo strumento della progressività (art. 53, comma 2, Cost.). La progressività è requisito che informa l’intero sistema tributario e, richiedendo che il concorso alle spese pubbliche sia ripartito fra i consociati in misura più che proporzionale, si collega direttamente all’art. 3, comma 2, Cost.(31).

Un ulteriore vincolo che emerge da questa ricostruzione è identificabile nella illegittimità della compressione della posizione economica del soggetto al di sotto del minimo necessario per la sussistenza, ovvero, come è stato felicemente notato, dell’illegittimità che i “costi di solidarietà” possano essere addossati ai soggetti passivi della solidarietà medesima(32). Una conferma di questa soluzione è data dalla risalente decisione della Corte costituzionale che, nella pronuncia n. 97 del 1968, richiama il “fondamentale principio di eguaglianza sostanziale, al quale lo Stato deve ispirarsi anche nell’uso dello strumento fiscale” quale giustificazione delle esenzioni per i soggetti sprovvisti di reddito minimo(33). La centralità della “dignità della persona”, inoltre, consente di escludere che la legge tributaria possa rendere un soggetto “un caso sociale” salvo poi assicurare, attraverso gli interventi di sviluppo della persona umana nel contesto dell’art. 3, para. 2, Cost., il minimo per l’esistenza(34).

(31) Sul tema, C. SACCHETTO, Il dovere di solidarietà nel diritto tributario: l’ordinamento italiano, cit., 188 ss., e, da ultimo, R. SCHIAVOLIN, Il principio di “progressività del sistema tributario”, 151 ss. (in part. 156 ss.), in L. PERRONE e C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006, il quale rileva che “non solo parte della dottrina riconosce a detto comma valore precettivo, nonostante la difficoltà del controllo di legittimità costituzionale, ma la stessa giurisprudenza sopra ricordata ci sembra non tanto svalutarlo in assoluto, quanto considerare prioritaria la difesa della discrezionalità del legislatore nell’attuarlo, ed in tal modo ne offre una significativa chiave di lettura” (154). (32) La dottrina unanimemente riconosce la tutela del minimo vitale. Limitando la rassegna esclusivamente alle opere monografiche, cfr. E. GIARDINA, Le basi teoriche del principio della capacità contributiva, cit., 447 ss.; I. MANZONI, Il principio della capacità contributiva nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 148 ss.; G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, 373; F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, cit., 227; L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, cit., 210; P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 218; F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 108 ss. Diversa è la giustificazione di F. GAFFURI, L’attitudine alla contribuzione, cit., 124, secondo il quale “la necessità di affrancare dal tributo i più bassi valori della ricchezza destinati al sostentamento del singolo, deriva ancor più spiccatamente dalla opinione secondo la quale il principio di capacità contributiva tutela il mantenimento di un’economia privata”. (33) Corte cost., sentenza 10 luglio 1968, n. 97, in Giur. Cost., 1968, 1543, punto 2 del considerato in diritto. (34) Questa conclusione è condivisa anche da F. MOSCHETTI, Il principio della capacità contributiva, cit., 253 ss.; L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti

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3.1. Evoluzione dell’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

In termini assolutamente generali, l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di eguaglianza appare riducibile a due successivi orientamenti.

Nella prima fase il sindacato di eguaglianza era inteso restrittivamente con riferimento solo agli espliciti divieti di cui all’art. 3, comma 1, Cost., restando riservata al legislatore la classificazione normativa delle situazioni eguali. Il principio di eguaglianza, conformemente a questo primo orientamento, vieta le distinzioni correlate a fattori meramente soggettivi(35). Sintomatica appare la sentenza n. 3 del 1957, in cui la Corte osserva che il principio di eguaglianza non deve essere inteso nel senso che “il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale. Ma lo stesso principio deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione. La valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore, salva l’osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma del citato art. 3” (enfasi aggiunta)(36). La Corte costituzionale escludeva il proprio sindacato di costituzionalità al di là dell’accertamento del rispetto dei limiti espressi del divieto di non discriminazione posti dall’art. 3, comma 1(37). L’approccio del giudice costituzionali, cit., 210-212, che rileva che “difficilmente si potrebbe ritenere estraneo al nostro ordinamento questo principio di sussidiarietà fiscale dell’intervento fiscale-assistenziale dello Stato” (210). In termini generali, E. TOSATO, Sul principio di sussidiarietà dell’intervento statale, 83 (86 ss.), in E. TOSATO, Persona, società intermedie e stato. Saggi, Milano, 1989 (“la società ha ragione e dovere di intervenire quando, e solo quando, i singoli componenti non possono fare da sé, con le proprie forze”); F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, cit., 56 (“una corretta esplicazione del principio di solidarietà non sembra nemmeno potersi rinvenire in quella particolare configurazione dello Stato sociale che è lo Stato assistenziale”). In senso contrario, cfr. P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 219: “è, pertanto, ben ammissibile che la misura del minimo imponibile possa ridursi, fino talora quasi a scomparire, in ragione di un incremento di altri strumenti di protezione e promozione dei bisogni elementari dell’individuo e della sua famiglia”. (35) A. CERRI, Uguaglianza (principio costituzionale di), in Enc. Giur. Treccani, XXXII, Roma, 2005, 8. (36) Corte cost., sentenza 26 gennaio 1957, n. 3, in Giur. Cost., 1957, 11. (37) In senso analogo, cfr. Corte cost., 26 gennaio 1957, n. 28, in Giur. Cost., 1957, 398: “la valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da disciplinare non può non essere riservata al potere discrezionale del legislatore, salva l’osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma dell’art. 3 della Costituzione, ai sensi del quale le distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche e di

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costituzionale era, secondo queste linee, ancorato ad una concezione meramente formale dell’eguaglianza, secondo l’ordine di idee prospettato nel paragrafo precedente. È opportuno rilevare, nondimeno, che questo orientamento giurisprudenziale trovava una sorta di “apertura” in direzione dello scrutinio di leggi speciali e di eccezione, nonché sui presupposti oggettivi che richiedevano una regola legislativa differenziata(38).

Questa prima impostazione venne presto abbandonata dalla Corte costituzionale, dapprima ritenendo che non si “compiono valutazioni di natura politica, e nemmeno si controlla l’uso del potere discrezionale del legislatore, se si dichiara che il principio dell’eguaglianza è violato, quando il legislatore assoggetta ad una indiscriminata disciplina situazioni che esso stesso considera e dichiara diverse”(39) e poi, in maniera ancor più netta introducendo il criterio della “ragionevolezza” per accertare il diverso trattamento di due situazioni(40).

Lo sviluppo ulteriore della giurisprudenza costituzionale è approdato alla costruzione del principio di eguaglianza quale “norma generale al massimo grado”(41), perché inteso come vincolo alla complessiva funzione classificatoria del legislatore ordinario. In questo senso, si assiste ad un allargamento dell’oggetto del sindacato di costituzionalità, proprio in ragione della differente interpretazione del principio di eguaglianza

condizioni personali e sociali non possono essere assunte quali criteri validi per la adozione di una disciplina diversa”. Era questa, in particolare, la posizione di C. ESPOSITO, Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, cit., 26-29. I termini della questione sono ricostruiti da F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 29 ss.: “di qui il fiorire di interpretazioni restrittive, accomunate – pur nella varietà delle impostazioni – dal fatto di giungere ad assegnare alla proclamazione secondo cui “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge” un significato corrispondente alla primitiva concezione liberale del principio di eguaglianza, riassumibile nella massima dell’universalità delle leggi, secondo la quale, cioè, le norme di legge dovrebbero dirigersi simultaneamente a tutti i consociati (e quindi essere formulate in termini soggettivamente universali, indicando il soggetto di imputazione delle conseguenze giuridiche previste con formule quali “chiunque”, “tutti”, “il cittadino”). Cfr., anche, F. SORRENTINO, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia delle Comunità europee, in Pol. Dir., 2001, 179 (180-181). (38) Si veda, in questo senso, la ricostruzione di L. PALADIN, Il principio costituzionale di eguaglianza, Milano, 1965, 173 ss. e 193. (39) Corte cost., 14 luglio 1958, n. 53, punto 2 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1958. (40) Corte cost., 29 marzo 1960, n. 15, punto 3 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1960: “la giurisprudenza di questa Corte è costante nel senso che il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni” (enfasi aggiunta). (41) La definizione è utilizzata da F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 36, che richiama L. PALADIN, Il principio costituzionale di eguaglianza, cit., 147; 170.

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all’interno dell’ordinamento costituzionale, teso ad accertare non solo il controllo della coerenza interna alla disciplina, ovverosia che non sia troppo ristretta rispetto alla ratio legis, “ma anche della sua conformità all’intero sistema, vale a dire al complesso dei principi costituzionali che valgono a qualificare, in un ordinamento “a doppia legalità” formale-materiale, la prassi dei rapporti politici, sociali ed economici”(42).

La dottrina ha rilevato in questa evoluzione giurisprudenziale il definitivo abbandono dell’eguaglianza formale di stampo ottocentesco che si è “trasfigurata” in un giudizio di eguaglianza-ragionevolezza in merito al fine di ciascuna disposizione di legge con il sistema complessivo dei principi costituzionali(43). La sentenza n. 219 del 1975 sulla parificazione retributiva fra i professori universitari e quella dei dirigenti appare argomentata in chiave di ragionevolezza quando rileva che la “equiparazione (sotto il profilo sottolineato del potenziale accesso ad identico vertice di coefficiente o parametro terminale) delle due categorie in discorso - traducendo, per la sua non accidentalità ma anzi uniforme ripetizione in un notevole arco temporale, un giudizio di valore espresso dal legislatore ex suo more, in termini di equivalenza, fra le due categorie pur strutturalmente diverse dei docenti e dei dirigenti - non poteva non porsi come un limite alla permanente discrezionalità del legislatore medesimo”(44).

Si è altresì acutamente dimostrato che la giurisprudenza costituzionale in materia di eguaglianza evidenzierebbe l’esistenza di un “nucleo forte”(45) corrispondente ai criteri enunciati nella prima parte dell’art. 3, comma 1, Cost., ad eccezione della generica previsione dell’eguaglianza senza distinzione di “condizioni personali e sociali”. In questi casi, infatti, il

(42) Così, F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 102-103. (43) Cfr., A. CERRI, Uguaglianza (principio costituzionale di), cit., 8-9: “il punto di passaggio dal nucleo forte all’ambito allargato di applicabilità del principio di eguaglianza è dato proprio dalla distinzione fra “condizioni sociali” e meri “concetti di genere”, fra distinzioni che si riferiscono a categorie di effettiva pregnanza sociale e distinzioni che si riferiscono a categorie che ne sono prive. (...). È evidente che, in questi casi, ancor più visibilmente il controllo alla stregua di uguaglianza tende alla massima astrattezza piuttosto che alla sua massima generalità (compatibilità con il fine perseguito); muove, dunque, nel senso di una ragionevolezza da intendere come massima coerenza oggettiva del sistema”. (44) Corte cost., sentenza 17 luglio 1975, n. 519, punto 7 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1975, 447. Similmente, 27 giugno 1973, n. 91, in Giur. Cost., 1973, 299; sentenza 15 aprile 1993, n. 163, in Giur. Cost., 1993, 1189. (45) Il termine è utilizzato da A. CERRI, Uguaglianza (principio costituzionale di), cit., 4 e F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 42.

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sindacato di costituzionalità sarebbe decisamente più severo, vigendo una sorta di “presunzione di irragionevolezza”(46).

Una breve notazione conclusiva merita la struttura del sindacato di costituzionalità impiegato dalla Corte nell’applicazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza. Tale struttura può essere sinteticamente ridotta a due momenti: l’accertamento della “omogeneità” o “disomogeneità”(47) delle fattispecie o situazioni oggetto di confronto e la ricostruzione della ratio (o delle rationes) della disciplina, considerata indispensabile alla individuazione di eventuali “giustificazioni” del diverso trattamento di casi simili ovvero dell’eguale trattamento di situazioni diverse. In realtà, tale riduzione non è sufficientemente rappresentativa del sindacato di costituzionalità perché i vari momenti suindicati tendono a confondersi reciprocamente. In una prima fase, infatti, la Corte effettua una verifica preliminare del diverso (o eguale) trattamento di due fattispecie, di due fattispecie in base ad una norma o ad una sola di esse(48). La questione centrale è però quella della ragione del differente (o eguale) trattamento(49). Solo dopo avere individuato le finalità presupposte alla disciplina normativa, la Corte affronta il giudizio relativo all’omogeneità o meno delle fattispecie/norme poste a raffronto per verificare che la disciplina non sia troppo ristretta rispetto allo scopo perseguito (ovvero troppo ampia) e, in secondo luogo, accerta l’esistenza di motivi di giustificazione al differente (eguale) trattamento normativo.

(46) Così, P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, 84; F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 44-45. In questo senso, Corte cost., sentenza n. 163 del 1189, ove si parla di “diritto alla parità di trattamento fra uomo e donna” (punto 3 del considerato in diritto). (47) I termini sono frequentemente indicati nella giurisprudenza costituzionale. Cfr., ad esempio, sentenza 23 aprile 1998, n. 142, punto 2 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1998, 1115. (48) Questa casistica è tratta da L. PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza: aprile 1979-dicembre 1983, 120 (192; 222-223), in Scritti su “La giustizia costituzionale” in onore di V. Crisafulli, I, Padova, 1985. (49) Corte cost., sentenza 26 ottobre 2000, n. 441, punto 3 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 2000, 3314: “secondo la giurisprudenza di questa Corte (vedi, tra le altre, sentenze n. 89 del 1996 e n. 5 del 2000), al fine di stabilire se una disposizione sia tale da determinare una irragionevole differenziazione di situazioni meritevoli di eguale tutela, il relativo giudizio va incentrato sul “perché” la legge operi, all’interno dell’ordinamento, quella specifica distinzione (ovvero, a seconda dei casi, quella specifica equiparazione), sì da trarne le dovute conclusioni circa il corretto uso del potere normativo”.

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3.2. (segue). Evoluzione dell’eguaglianza tributaria nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

La giurisprudenza costituzionale ha, fin dall’inizio, utilizzato congiuntamente – sebbene in maniera non reciprocamente esclusiva, soprattutto nelle prime pronunce(50) – l’art. 53, comma 1, Cost. e il principio di eguaglianza. Nella sentenza n. 92 del 1963, la Corte ha affermato che “il primo comma dell’art. 53, nel sancire non già solo il dovere delle prestazioni tributarie, ma altresì il principio della correlazione di queste con la capacità contributiva di ciascuno” impone “al legislatore, oltre all’obbligo di non disporre prestazioni che siano in contrasto con i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione a tutela della persona, altresì l’obbligo di commisurare il carico tributario in modo uniforme nei confronti dei vari soggetti, allorché sia dato riscontrare per essi una perfetta identità della situazione di fatto presa in considerazione dalla legge al fine dell’imposizione del tributo. Ed è a questa ultima esigenza, esattamente ricollegata dall’ordinanza al principio generale di eguaglianza sancito nell’art. 3 della Costituzione”(51).

Quale espressione dell’art. 3 Cost., la capacità contributiva deve intendersi come esigenza di razionalità dell’imposizione tributaria sia sotto il profilo del fondamento – ovverosia del collegamento effettivo tra il dovere tributario e l’indice considerato – e della coerenza delle fattispecie con il presupposto considerato(52). A questo giudizio di coerenza, che può essere definito “interno” ad un singolo istituto tributario o ad un singolo tributo, deve aggiungersi un giudizio di coerenza (o, meglio, ragionevolezza) riferito all’intero sistema tributario per accertare se i tributi che lo compongono realizzino razionalmente il riparto dei carichi pubblici in ragione della funzione distributiva e redistributiva dell’imposizione tributaria. (50) Cfr., ad esempio, in tema di retroattività della legge tributaria la sentenza 16 giugno 1964, n. 45, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, Milano, 1984, 186, che qualifica la capacità contributiva come “l’idoneità del contribuente a corrispondere la prestazione coattiva imposta” rilevando che tale idoneità debba porsi in relazione col presupposto. Questa formula è frequentemente richiamata dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., più recentemente, sentenza 26 luglio 2000, n. 362, punto 6 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 933), sebbene spesso in modo apodittico, senza trovare riscontro nelle successive argomentazioni svolte dalla Corte. (51) Corte cost., sentenza 18 giugno 1963, n. 92, punto 4 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1963, 768. Nello stesso senso, sentenza 13 dicembre 1963, n. 155, punto 2 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, cit., 168, e più, recentemente, sentenze 19 novembre 1987, n. 400, punto 5 del considerato in diritto, E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, 596, 15 marzo 1996, n. 73, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 437. (52) E. DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2007, 86 ss.

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Gli esempi più significativi del primo orientamento si trovano nelle famose pronunce sul cumulo dei redditi dei coniugi e sulla discriminazione qualitativa dei redditi da lavoro autonomo. Nella prima, sentenza n. 179 del 1976, la Corte definisce irragionevole, sulla base del principio dell’eguaglianza e della capacità contributiva, il fatto che “un soggetto (il marito) possa e debba presentare una maggiore capacità contributiva per l’esistenza di redditi altrui di cui non abbia legalmente il possesso, e cioè il godimento o l’amministrazione senza obbligo della resa dei conti”. Questa conclusione discende coerentemente dalla premessa che “di regola i redditi sono prodotti separatamente e tenuti distinti ed anche quando siano posti in comune, non è solo il marito a poterne disporre ma lo sono entrambi i coniugi, con un grado maggiore o minore di autonomia a seconda dei casi”(53).

Ancor più chiaramente nella pronuncia sull’ilor, ove la Corte ha dimostrato l’assenza di coerenza fra il disegno legislativo, anch’esso segnato da “ambiguità”, e la sua concreta realizzazione che condurrebbe alla imposizione di redditi di fonte non patrimoniale. La sentenza ha abbandonato lo schema del giudizio di eguaglianza per affidarsi a quello della razionalità e della coerenza dell’imposizione rispetto alla ratio originaria della disciplina. In questo senso, dopo aver rilevato la funzione discriminatoria della disciplina ilor (punto 3 del considerato in diritto), la Corte ha dimostrato, anche ricorrendo ad elementi desunti dal sistema delle imposte sui redditi – nozione di reddito d’impresa e classificazioni operate dalle normative anteriori – che l’inclusione dei redditi di lavoro autonomo costituiva “una scelta di comodo, utile per superare le difficoltà operative inerenti all’esatta determinazione di una categoria così composita come quella costituita dai redditi patrimoniali”(54). Partendo dalla ricostruzione della ratio sottesa all’imposta, la Corte ha valutato la scelta di assoggettare ad imposizione i redditi di lavoro autonomo anche sulla base di elementi e caratteri estranei alla stessa disciplina ilor, ma pur sempre nell’ambito della disciplina delle imposte sui redditi, elevando “il principio di

(53) Corte cost., sentenza 15 luglio 1976, n. 179, punto 7 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, cit., 455, che prosegue ammettendo l’inesistenza di qualsiasi giustificazione costituzionale diversa dall’eguaglianza ad un siffatto trattamento fiscale: “d’altra parte manca la possibilità che alla normativa de qua si riconosca la funzione di limite (alla eguaglianza giuridica dei coniugi) posto “a garanzia dell’unità familiare”, giacché a costituire e mantenere questa potrebbe giovare un regime di comunione dei beni e dei redditi relativi, ma non di certo un sistema tributario basato sopra un fittizio possesso di redditi comuni”. Per una critica sul punto, cfr. E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, cit., 8. (54) Corte cost., 26 marzo 1980, n. 42, punto 4 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, cit., 535.

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razionalità e coerenza a vero e proprio principio cardine dell’ordinamento”(55).

L’accertamento della razionalità e della coerenza della disciplina istitutiva del tributo trova un limite nella discrezionalità del legislatore tributario(56). L’assorbimento della questione nell’area della discrezionalità del legislatore non consente alcun giudizio di costituzionalità sul diverso trattamento fiscale delle fattispecie considerate. Nella sentenza n. 143 del 1982, la Corte non ritiene irragionevole l’imposizione di un limite quantitativo alla deduzione degli interessi passivi dei soli imprenditori individuali dal reddito d’impresa poiché “spetta al legislatore, secondo le sue valutazioni discrezionali di individuare gli oneri deducibili considerando il necessario collegamento con la produzione del reddito, il nesso di proporzionalità con il gettito generale dei tributi, nonché l’esigenza fondamentale di adottare le opportune cautele contro le evasioni di imposta”(57).

Non appare facile tracciare una netta linea di confine fra le due situazioni, salvo rilevare l’ampiezza dei confini della discrezionalità legislativa e la tendenza della Corte a favorire un concetto di eguaglianza formale, ancorato strettamente alle classificazioni adottate dal legislatore tributario. A titolo meramente esemplificativo, si inscrive in questo orientamento giurisprudenziale la sentenza 104 del 1985 in cui sono stati dichiarati incostituzionali gli artt. 12, lett. d) e 13 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, nella parte in cui “non prevedono la esclusione della tassazione separata dei redditi costituiti da emolumenti arretrati per lavoro

(55) Così, E. DE MITA, Principio di non discriminazione e deroghe giustificate in base al diritto interno nella giurisprudenza della Corte costituzionale, 81 (85-86), in Interesse fiscale e tutela del contribuente. Le garanzie costituzionali, Milano, 2006. (56) La discrezionalità del legislatore può essere intesa in tre diverse accezioni (così, B. PEZZINI, Corte costituzionale e controllo della discrezionalità del legislatore, 76 (76-77), in B. PEZZINI e C. SACCHETTO, Dalle costituzioni nazionali alla Costituzione europea. Potestà, diritti, doveri e giurisprudenza costituzionale in materia tributaria, Milano, 2001): in primo luogo, quale attività sottratta al controllo di costituzionalità; in secondo luogo, in quanto attività vincolata (parzialmente) dalla costituzione; in terzo luogo in quanto definisce le situazioni in cui la concretizzazione della norma costituzionale dipende dal legislatore. Queste tre ipotesi possono estendersi astrattamente anche al controllo costituzionale delle leggi tributarie ai sensi degli artt. 3 e 53 Cost. In particolare, nella terza accezione, il controllo costituzionale dovrebbe riferirsi alla coerenza del sistema tributario complessivo rispetto agli obiettivi dettati dall’art. 3, comma 2, Cost. (57) Corte cost., sentenza 27 luglio 1982, n. 143, punto 7 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, cit., 687. In maniera analoga, sentenza 19 giugno 1998, n. 227, punti 4 e 5 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 654, in cui la corte non ammette l’equiparazione ai fini della deducibilità degli oneri dal reddito prodotto fra gli enti non commerciali e le persone fisiche e gli enti commerciali.

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dipendente quando tali redditi cumulati con gli altri percepiti dal contribuente nei singoli anni cui si riferiscono, non superano il minimo imponibile”. L’ammissibilità del confronto, e l’incostituzionalità del differente trattamento, era determinata dall’appartenenza di tali redditi alla medesima categoria(58).

A conferma dell’orientamento formalistico della giurisprudenza costituzionale sugli artt. 53 e 3 Cost. si aggiunge anche l’assenza, pressoché integrale, di pronunce costituzionali il cui sindacato abbia ad oggetto la ragionevolezza e la coerenza dei singoli tributi rispetto al sistema tributario ovvero in termini di razionalità del riparto dei carichi impositivi riferito al complesso del sistema tributario(59). La giurisprudenza costituzionale sembra operare una sorta di self-restraint rispetto all’ordinamento tributario che resta ancorato alla sola esigenza di eguaglianza formale.

Questo orientamento è chiaramente evidenziato dalle pronunce sulla costituzionalità delle imposte (patrimoniali) sui beni immobili (isi ed ici). Nella sentenza n. 21 del 1996 l’ordinanza di rinvio prospettava una presunta violazione degli artt. 3 e 53 Cost. da parte della disciplina istitutiva dell’imposta straordinaria sugli immobili in ragione della discriminazione fra patrimonio immobiliare, oggetto dell’imposizione, e patrimonio di altra natura. La Corte ha rigettato la questione ritenendo che non può essere oggetto di sindacato costituzionale poiché “resta affidata alla discrezionalità del legislatore l’individuazione delle situazioni espressive della idoneità dei singoli cittadini all’obbligazione di imposta, salvo il controllo di costituzionalità sotto il profilo della non arbitrarietà e

(58) Corte cost., sentenza 17 aprile 1985, n. 104, punto 2 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., 205. Similmente, per il regime impositivo delle plusvalenze, la Corte ha ritenuto illegittima la differente modalità di determinazione del valore di acquisto di terreni in ragione del titolo di acquisto (pur considerando nella discrezionalità del legislatore i diversi criteri di determinazione della base imponibile dei terreni edificabili). Cfr., sentenza 9 luglio 2002, n. 328, punto 6.2. del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 1274. (59) A conclusioni simili sono pervenuti G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, cit., 130-131; L. PALADIN, Il principio di eguaglianza tributaria nella giurisprudenza costituzionale italiana, cit., 309 (ove si richiamano le espresse considerazioni in questo senso dei Presidenti della Corte costituzionale G. Conso e M Ferri); 313. S. LA ROSA, Riflessioni sugli “interventi guida” della Corte costituzionale in tema di eguaglianza e capacità contributiva, cit., 187, attribuisce questa situazione alla “collocazione istituzionale della Corte Costituzionale nel nostro ordinamento” che “ne fa essenzialmente un organo di garanzia, più che di positivo orientamento dell’evoluzione del nostro ordinamento”.

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non irrazionalità”(60). La discrezionalità del legislatore, come già rilevato, diviene limite assoluto all’accertamento della razionalità delle scelte legislative. Ancor più chiaramente nelle pronunce n. 143 e 146 del 1992 in cui la Corte, riferendosi al diverso trattamento degli eredi del contribuente ai fini del condono, ritiene che la “diversità delle imposte prese in considerazione” non renda possibile “in linea generale, al fine di riscontrare una disparità di trattamento, la comparazione trasversale di istituti e normative di settore” (enfasi aggiunta)(61). In questo senso si inserisce anche la sentenza n. 73 del 1996 relativa all’imposta straordinaria sui depositi bancari e postali in cui si afferma che la straordinarietà dell’imposizione sia tale da non alterare “il sistema tributario visto in tutte le sue componenti”(62).

Il caso più recente è rappresentato dalla sentenza sull’irap, ove la Corte non si spinge fino a sindacare la coerenza del tributo nel sistema tributario nel suo complesso, ma si limita ad accertarne la razionalità rispetto alla presupposto impositivo. La prima questione è stata risolta riconducendo nell’alveo della discrezionalità del legislatore, “con il solo limite della non arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva”(63). Quanto al secondo profilo evidenziato, la sentenza ha individuato il presupposto nel “valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate” e, in ragione della coerenza e razionalità interna all’imposta, rileva che “nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione (...) risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta” (punto 9.2. del considerato in diritto).

Non è certamente compito facile individuare le ragioni di questa applicazione strettamente formale del principio di eguaglianza e di capacità contributiva.

(60) Corte cost., sentenza 5 febbraio 1996, n. 21, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 427. (61) Corte cost, sentenza 30 marzo 1992, n. 143, punto 4 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., 1549 (Lo stesso Autore osserva (9) che “ciò che manca nella giurisprudenza che ha enfatizzato la “natura, oggetto e struttura” delle singole imposte è la spiegazione di che cosa s’intenda per “peculiarità delle singole imposte””). Nello stesso senso, ordinanza 30 marzo 1992, n. 146, ivi, 1616; ordinanza 4 maggio 2005, n. 181, in Giur. Cost., 2005, 895, in cui la Corte afferma che sia tutt’altro che incoerente, in ragione “della profonda diversità di natura e struttura” dell’imposta di registro e dell’iva, concedere l’esenzione dalla prima, e non anche dalla seconda, per gli acquisti di beni strumentali all’attività di un soggetto onlus. (62) Corte cost., sentenza 15 marzo 1996, n. 73, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 437. (63) Corte cost., sentenza 21 maggio 2001, n. 156, punto 6.2. del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 1098.

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In parte tali ragioni hanno carattere meta-giuridico, connesso a valutazioni di carattere politico. In particolare, si è parlato, parafrasando una pronuncia costituzionale, di “affievolimento del diritto costituzionale rispetto a valutazioni politiche”(64). La considerazione di elementi di natura meta-giuridica emergono chiaramente dalle motivazioni di alcune decisioni costituzionali. In particolare, nella sentenza n. 574 del 1988, Socof, e nella sentenza n. 21 del 1996, sull’imposta straordinaria sugli immobili, la Corte giustifica la propria posizione restrittiva in ragione dell’obiettivo di “contenere l’onere gravante sul bilancio statale per la soddisfazione delle esigenze degli enti locali, in una situazione economica del Paese che, come si legge nei lavori parlamentari dell’epoca (...) si presentava in termini di notevole gravità ed esigeva dai cittadini “sacrifici straordinari” per reperire ulteriori risorse da destinare ai comuni”(65). Parte della dottrina costituzionalista ha ravvisato in questi richiami l’enucleazione di un “principio generale di equilibrio finanziario” dedotto dall’art. 81, comma 4, Cost.(66), ed utilizzato nel bilanciamento con l’eguaglianza e la capacità contributiva.

Queste argomentazioni sono complementari a quelle che valorizzano, nella giurisprudenza costituzionale, il carattere temporaneo e straordinario di alcuni tributi introdotti proprio per fronteggiare la situazione finanziaria del Paese. Espressamente in questo senso, nella sentenza n. 251 del 1996, la Corte ha sottolineato il “carattere straordinario [dell’imposta] che, proprio in ragione delle sue peculiarità, rende di per sé discutibile il

(64) E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., 4-5, il quale fa riferimento alle sentenze 28 maggio 1987, n. 211, ivi, 553; 19 maggio 1988, n. 574, ivi, 821 e 19 maggio 1988, n. 575, ivi, 824, considerate “decisioni con motivazioni attente alle finalità politiche delle leggi tributarie esaminate”. (65) Corte cost., sentenza 19 maggio 1988, n. 574, punto 2 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., 821; sentenza 5 febbraio 1996, n. 21, punto 4 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 427, (“l’imposta straordinaria sugli immobili costituisce un tributo la cui istituzione, come emerge dai lavori parlamentari, aveva il fine di reperire mezzi per il bilancio dello Stato in una situazione economica del Paese che appariva di notevole gravità, esigendo dai cittadini sacrifici straordinari – peraltro limitati ad un solo anno). Similmente, nella sentenza 30 luglio 1984, n. 238, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., 68, ove il principio di eguaglianza è derogato in ragione delle “precipue esigenze finanziarie cui la disciplina censurata corrispondeva”. (66) L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritto costituzionali, cit., 341 ss.; L. PALADIN, Il principio di eguaglianza tributaria nella giurisprudenza costituzionale italiana, cit., 319-320. In senso contrario, cfr. V. ONIDA, Giudizio di costituzionalità delle leggi e responsabilità finanziaria del Parlamento, 25 (31), in Le sentenze della Corte costituzionale e l’art. 81, u.c., della Costituzione, Milano, 1993, il quale fa notare che le sentenze di annullamento delle leggi tributarie “fanno semplicemente valere una violazione costituzionale (...) e nel far ciò, [la Corte] non incontra limiti di sorta”.

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confronto con la disciplina applicabile alle imposte ordinarie”(67). In particolare, la Corte ritiene che tributi straordinari ed eccezionali, per natura e perché circoscritti temporalmente, non possano “alterare il sistema tributario, considerato in tutte le sue componenti”(68).

Per altra parte, le ragioni devono ricondursi alla specifica tecnica casistica adottata dal legislatore che impedisce la ricostruzione in sistema dell’insieme delle disposizioni in materia tributaria. In questo senso, la stessa giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che l’ordinamento tributario sia retto da una sorta di “principio della polisistematicità”(69). Naturalmente, l’impossibilità di ricostruire in sistema le norme tributarie impedisce ab origine la possibilità di riferire la coerenza di una norma, di un istituto o di una imposta all’ordinamento nel suo complesso. In altre parole, sarebbe il contesto normativo specifico dell’ordinamento tributario ad impedire l’evoluzione dell’eguaglianza formale all’eguaglianza-ragionevolezza(70).

(67) Corte cost., sentenza 16 luglio 1996, n. 251, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 451. (68) Si vedano la sentenza 23 maggio 1985, n. 159, punto 5.2. del considerato in diritto in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., 257 e l’ordinanza 2 febbraio 1988, n. 131, ivi, 893. Sul punto, si rinvia alla critica di E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., 5, che osserva che “finanza straordinaria non vuol dire imposizione al di fuori della regole, come la stessa Corte aveva stabilito (307/1983)”. (69) Questa espressione è utilizzata da Corte cost., ordinanza 16 novembre 1993, n. 392, in Giur. Cost., 1993, 3314, in cui si qualifica l’ordinamento tributario quale “ordinamento cui afferiscono produzioni normative talora non coordinate e, segnatamente nei decreti emanati in attuazione della legge delega n. 825 del 1971, inquadrate in micro sistemi settoriali, che rendono particolarmente difficile l’individuazione di principi generali, applicabili al di fuori dello specifico settore nel quale sono inseriti”. La medesima espressione è stata utilizzata dalla sentenza 12 settembre 1995, n. 430, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 356, e sentenza 23 luglio 2002, n. 375, punto 3.2. del considerato in diritto, ivi, 1291. Su punto, cfr. L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritto costituzionali, cit., 337 (che fa riferimento al “dogma” della “peculiarità delle singole imposte”); L. PALADIN, Il principio di eguaglianza tributaria nella giurisprudenza costituzionale italiana, cit., 315. (70) E. DE MITA, Principio di non discriminazione e deroghe giustificate in base al diritto interno nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., 87: “vi sono una serie di istituti che non rispondono a questo o quel tributo, ma sono posti o nell’interesse fiscale, inteso come interesse generale alla riscossione dei tributi, protetto dalla Costituzione, o nell’interesse del contribuente, che si concreta nella legalità dell’imposizione. Quando si parla di motivazione dell’accertamento, di rappresentanza, di solidarietà, di sostituzione, di notificazione di atti, di ripetizione dell’indebito, di domicilio fiscale, di rapporti di rivalsa, di decadenza e prescrizione, data la funzione di questi istituti, tendenzialmente sganciati dal presupposto, è difficile immaginare l’opportunità di tante discipline quanti sono i tributi”; S. LA ROSA, Riflessioni sugli “interventi guida” della Corte costituzionale in tema di eguaglianza e capacità contributiva, cit. 190.

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4. ASSENZA DI LIMITI CONSUETUDINARI ALL’IMPOSIZIONE TRIBUTARIA NEL DIRITTO INTERNAZIONALE. IL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE NELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO.

La questione dell’esistenza di norme consuetudinarie che vincolano

l’esercizio della potestà normativa tributaria è assai risalente ed ha richiamato l’attenzione di larga parte della dottrina internazionalista. Non potendosi, in questa sede, ripercorrere analiticamente le tappe che hanno segnato questo cammino, si privilegerà un approccio sincretista, volto a descrivere le diverse posizioni della letteratura sulle singole questioni.

La dottrina, senza eccezioni, ritiene esistente una norma consuetudinaria che esenta dall’imposizione gli stati e gli altri soggetti internazionali “per tutte quelle attività che i soggetti stessi esplicano all’interno dei singoli ordinamenti stranieri, presentandosi quali soggetti di diritto privato o pubblico di questi ultimi, in stretta connessione colle loro funzioni sovrane internazionali o interne”(71). Diversamente, sembra rimessa alle regole di cortesia internazionale, e quindi non costituire norma consuetudinaria, l’esenzione di una simile esenzione agli agenti diplomatici e consolari(72).

A parte tali questioni, sicuramente marginali in ragione della loro delimitazione soggettiva, i maggiori problemi riguardano la individuazione di una norma consuetudinaria che delimiti la potestà degli stati sovrani nella scelta dei fatti generatori dei tributi e di una norma consuetudinaria che vieti differenti trattamenti fra cittadino e straniero e fra stranieri.

Quanto alla prima, la dottrina appare divisa fra coloro che negano l’esistenza di un qualsiasi vincolo all’esercizio della potestà normativa tributaria, ammettendo l’esistenza di soli limiti spaziali al concreto esercizio della potestà amministrativa tributaria(73), e coloro i quali, (71) Così, M. UDINA, Il diritto internazionale tributario, X, Padova, 1949, 145, in P. FEDOZZI e S. ROMANO (a cura di), Trattato di diritto internazionale. Sul punto, G.C. CROXATTO, La imposizione delle imprese con attività internazionale, Padova, 1965, 54-55; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 208-209; G. MELIS, Vincoli internazionali e norma tributaria interna, in Riv. Dir. Trib., 2004, I, 1083 (1099). (72) Ancora M. UDINA, Il diritto internazionale tributario, cit., 157; G.C. CROXATTO, La imposizione delle imprese con attività internazionale, cit., 56 ss.; C. SACCHETTO, Territorialità (dir. trib.), in Enc. Dir., XLIV, Milano, 1992, 303 (327 ss.); G. MELIS, Vincoli internazionali e norma tributaria interna, cit., 1099-1100. (73) In questo senso, S. STEVE, Sulla tutela internazionale della potestà tributaria, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1940, I, 256; G. BISCOTTINI, Diritto amministrativo internazionale, II, Padova, 1966, 365; G.C. CROXATTO, La imposizione delle imprese con attività internazionale, cit., 44 ss.; C. SACCHETTO, Territorialità (dir. trib.), cit., 324 ss.; L. CARPENTIERI, R. LUPI, D. STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, cit., 20-21; G. MELIS, Vincoli internazionali e norma tributaria interna, cit., 1103; G. MAISTO, Le interrelazioni tra “diritto tributario comunitario” e “diritto tributario internazionale”,

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diversamente, ritengono che il diritto internazionale consuetudinario imponga allo stato un “reasonable link” soggettivo o oggettivo con il territorio nella scelta dei presupposti impositivi(74).

Non si può nemmeno ritenere esistente una norma consuetudinaria che vieti il diverso trattamento fra cittadini e stranieri, e fra stranieri di diversi stati(75).

Il principio di non discriminazione è affermato, diversamente, dall’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Tale disposizione, rubricata “Prohibition of discrimination”, afferma che “the enjoyment of the rights and freedoms set forth in this Convention shall be secured without discrimination on any ground such as sex, race, colour, language, religion, political or other opinion, national or social origin, association with a national minority, property, birth or other status”(76). Gli elementi che si impongono con evidenza ad una prima lettura sono due. In primo luogo, l’art. 14 introduce nel sistema convenzionale un principio generale di non discriminazione, come risulta dall’espressione “senza distinzione di alcuna specie”. I criteri di classificazione delle fattispecie dettati dalla disposizione costituiscono, quindi, delle mere esemplificazioni non esaustive(77). In secondo luogo, l’ambito di applicazione della disposizione è ristretto esclusivamente al “godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti” dal sistema convenzionale. Il

in Riv. Dir. Trib., 2006, I, 865 (869-870); per la dottrina straniera, B.J. ARNOLD, Tax Discrimination Against Aliens, Non-Residents, and Foreign Activities: Canada, Australia, New Zeland, the United Kingdom, and the United States, Canadian Tax Paper n. 90, Canadian Tax Foundation, 1991, 7; A.A. KNECHTLE, Basic Problems in International Fiscal Law, London, 1979, 134 ss. e 150; A.H. QURESHI, The Freedom of a State to Legislate in Fiscal Matter Under General International Law, in Bulletin Int. Tax., 1987, 14 (21). (74) Così, I. BROWNLIE, Principles of Public International Law, Oxford, 1990, 298; F.A. MANN, Further Studies in International Law, Oxford, 1990, 13; R.J. JEFFERY, The Impact of State Sovereignty on Global Trade and International Taxation, The Hague-London-Boston, 1999, 52 ss. In questo senso, anche, Bundesverfassungsgericht, 22 marzo 1983, in BvefGE 63, 343. (75) Vedi, per tutti, L. CARPENTIERI, R. LUPI, D. STEVANATO, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, cit., 21-22. (76) Le lingue ufficiali della Convenzione sono il francese e l’inglese (art. 12 dello Statuto del Consiglio d’Europa del 5 maggio 1949). Esistono traduzioni non ufficiali dei testi, fra cui quella in italiano, che saranno riportate in nota. Art. 14: “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato, senza distinzione di alcuna specie, come di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. (77) La dottrina non ha mancato di sottolineare la similarità fra l’art. 14 Cedu e l’art. 3, comma 1, Cost. Cfr. A. DI PIETRO, Italy, 115 (117-118), in G.T.K. MEUSSEN (Ed.), The Principle of Equality in European Taxation, The Hague-London-Boston, 1999.

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momento costitutivo della garanzia offerta dalla disposizione deriva, dunque, dall’applicabilità alla fattispecie concreta di uno dei diritti o delle libertà previste dalla Cedu(78). Come ha chiarito la Corte dei diritti dell’uomo nel caso Rasmussen, l’applicazione del principio di non discriminazione non presuppone necessariamente la violazione di uno dei diritti convenzionali, ma, più semplicemente, che la fattispecie rientri nell’ambito di applicazione della Convenzione o dei Protocolli(79).

L’applicabilità del principio di non discriminazione alla materia tributaria dipende, quindi, dalla rilevanza di tale materia nel sistema convenzionale. A questo proposito, alla materia tributaria si fa espresso riferimento solo al para. 2 dell’art. 1 del Protocollo addizionale che introduce una deroga al generale diritto “al rispetto dei beni” (“possissions” o, in francese “droit au respect de biens”), sancito dal para. 1 della medesima disposizione, del seguente tenore: “the preceding provisions shall not, however, in any way impair the right of a State to enforce such laws as it deems necessary to control the use of property in accordance with the general interest or to secure the payment of taxes or other contributions or penalties” (enfasi aggiunta)(80). La materia tributaria, in questo senso, non costituisce oggetto di specifica disciplina e protezione della Convenzione, ma è richiamata perché, in ragione dell’interesse generale che riveste, non deve essere considerata come un limite al godimento dei diritti di proprietà(81).

(78) In dottrina, questo meccanismo è stato descritto come “canone interpretativo (c.d. interpretazione funzionale) al complesso delle situazioni giuridiche soggettive statuite altrove all’interno del testo convenzionale, nonché nei protocolli addizionali”. Cfr., M. GREGGI, Dall’interesse fiscale al principio di non discriminazione nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2001, I, 412 (415), cui si rinvia anche per la bibliografia citata. (79) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 28 novembre 1984, Rasmussen v. Denmark, in Series A n. 87, para. 29: “Article 14 (art. 14) complements the other substantive provisions of the Convention and the Protocols. It has no independent existence since it has effect solely in relation to “the enjoyment of the rights and freedoms” safeguarded by those provisions. Although the application of Article 14 (art. 14) does not necessarily presuppose a breach of those provisions - and to this extent it has an autonomous meaning -, there can be no room for its application unless the facts at issue fall within the ambit of one or more of the latter”. (80) Art. 1, para. 2, del Protocollo addizionale: “Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende” (enfasi aggiunta). (81) Questa interpretazione è avvalorata dal fatto che, nella vasta giurisprudenza sull’art. 1, para. 1, del Protocollo addizionale, nessun tributo o disciplina tributaria statale è stata dichiarata incompatibile per violazione del diritto di “proprietà”. Per la giurisprudenza fino al 2000, si rinvia a P. BAKER, Taxation and the European Convention on Human Rights, in Eur. Tax., 2000, 298 (302 ss.).

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La struttura dell’art. 1, para. 1, sembra ripetere quella degli altri diritti e libertà fondamentali della Cedu: riconoscimento del diritto ed affermazione delle eccezioni(82). Il diritto al proprio patrimonio è quindi un diritto della persona e come tale, almeno in principio, assoluto, nonostante la natura economica.

A prescindere dalla struttura, il secondo paragrafo dell’art. 1 del Protocollo addizionale può essere interpretato come una specificazione dei limiti (delle eccezioni) al libero godimento del diritto sui propri beni ovvero come un completamento del contenuto di tale diritto. Nel primo senso, l’imposizione tributaria dovrebbe essere considerata un esempio, probabilmente il più rilevante, dell’interesse generale previsto nel para. 1(83). Nel secondo senso, diversamente, l’imposizione tributaria non deve essere considerata esclusivamente in termini negativi bensì quale riconoscimento di un interesse proprio degli Stati membri finalizzato all’esercizio delle pubbliche funzioni(84). Le conseguenze dell’una o dell’altra interpretazione non sono di poco conto. Nel primo caso, i limiti al godimento del diritto – fra cui l’imposizione tributaria – qualificandosi come eccezione dovrebbero essere interpretati restrittivamente. Nel secondo caso, diversamente, dovendosi bilanciare (la giurisprudenza parla di “fair balance” o “juste équilibre”) su un piano di sostanziale parità l’interesse individuale e quello collettivo (o pubblico), il giudizio dovrebbe ripetere i medesimi caratteri sopra delineati nella c.d. teoria dei valori costituzionali.

(82) Questo argomento è confermato espressamente dalla versione inglese della disposizione. (83) In questo senso s’esprime la Commissione europea dei diritti dell’uomo. Cfr., decisione 16 gennaio 1995, Travers et 27 Autres v. l’Italie, para. 4 en droit: “la Commission rappelle ensuite que l’imposition est en principe une ingérence dans le droit garanti par le premier alinéa de l’article 1 du Protocole N° 1 et que cette ingérence se justifie, conformément au deuxième alinéa de cet article, qui prévoit expressément une exception pour ce qui est du paiement des impôts ou d’autres contributions”. In dottrina, P. BAKER, Taxation and the European Convention on Human Rights, cit., 302. (84) In questo senso sembra esprimersi la Corte europea dei diritti dell’uomo. Cfr., sentenza 23 febbraio 1995, Gasus Dosier- und Fördertechnik Gmbh v. The Netherlands, in Series A306-B, para. 62: “according to the Court’s well-established case-law, the second paragraph of Article 1 of Protocol No. 1 (P1-1) must be construed in the light of the principle laid down in the Article’s (P1-1) first sentence. Consequently, an interference must achieve a “fair balance” between the demands of the general interest of the community and the requirements of the protection of the individual’s fundamental rights. The concern to achieve this balance is reflected in the structure of Article 1 (P1-1) as a whole, including the second paragraph: there must therefore be a reasonable relationship of proportionality between the means employed and the aim pursued”.

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Questo secondo significato sembra trovare conferma nella giurisprudenza relativa al principio di non discriminazione(85). Nonostante la Corte abbia dichiarato l’estensione del principio di non discriminazione all’esercizio della potestà tributaria, ampia discrezionalità è lasciata agli stati membri nella individuazione delle situazioni similari(86). Nel caso Galeotti Ottieri della Ciaja, relativo all’applicazione di aliquote progressive all’imposta sulle successioni italiana, la Corte ha osservato che “the Contracting States enjoy a wide margin of appreciation in assessing whether and to what extent differences in otherwise similar situations justify a different treatment”(87). In questo filone giurisprudenziale si inseriscono tutte le pronunce di rigetto in merito al carattere discriminatorio del differente trattamento fiscale fra reddito di lavoro dipendente e reddito di lavoro autonomo(88) e del differente trattamento fiscale fra coppie sposate e non sposate(89).

In aggiunta, il diverso trattamento fiscale “is discriminatory if it “has no objective and reasonable justification”, that is, if it does not pursue a “legitimate aim” or if there is not a “reasonable relationship of proportionality between the means employed and the aim sought to be realised””(90).

Sul fronte opposto si pone l’interessante caso Darby(91). Nel caso di specie, la discriminazione derivava dal fatto che l’esenzione dalla Church tax, e il contemporaneo assoggettamento ad un tributo sostitutivo con aliquota ridotta, era subordinata alla previa elezione della residenza in Svezia. I soggetti non residenti e non appartenenti alla chiesa luterana svedese erano discriminati rispetto ai soggetti residenti e non appartenenti alla chiesa luterana (para. 32). Oltre alla ammissibilità della comparazione fra residenti e non residenti, dalla pronuncia emerge una chiara indicazione sulla natura delle giustificazioni al differente trattamento. Al para. 34, la

(85) A medesime conclusioni giunge anche F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 60, interpretando l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza che disciplina il diritto di proprietà similmente all’art. 1 Protocollo Cedu. (86) Concorda, A. DI PIETRO, Italy, cit., 120. (87) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 22 giugno 1999, Galeotti Ottieri Della Ciaja and six others v. Italy. Cfr., anche, sentenza 4 settembre 1996, Gianquitto v. Italy sul differente trattamento fiscale, non discriminatorio, di pensioni di lavoro e di guerra. (88) Cfr., fra le altre, Commissione europea dei diritti dell’uomo, sentenza 19 dicembre 1974, X v. Austria. (89) Cfr., fra le altre, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 ottobre 1993, Feteris-Geerards v. The Netherlands. (90) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 28 ottobre 1987, Inze v. Austria, in Series A126, para. 41. (91) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 23 ottobre 1990, Darby v. Sweden, in Series A n. 187, para. 30.

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Corte dichiara che “the measure complained of cannot be seen as having had any legitimate aim under the Convention”, ritenendo quindi che le sole finalità e gli scopi che emergono dal sistema dei diritti convenzionale possano giustificare il diverso trattamento(92). 5. LA NEUTRALITÀ ECONOMICA DELL’IMPOSIZIONE QUALE FUNZIONE SOTTESA ALL’ARMONIZZAZIONE FISCALE NEL TRATTATO CE.

L’art. 93 del Trattato Ce attribuisce alle istituzioni comunitarie la

competenza per l’armonizzazione fiscale delle imposte indirette “nella misura” necessaria ad assicurare l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno(93). Il ravvicinamento delle legislazioni nazionali è previsto, in termini generali, dall’art. 3, para. 1, lett. h), il quale individua le “azioni” comunitarie funzionali e strumentali al perseguimento degli obiettivi comunitari indicati dall’art. 2 del Trattato Ce.

I poteri normativi comunitari sono quindi caratterizzati in termini positivi in funzione del mercato interno(94). La nozione giudica di mercato interno assolve ad una duplice funzione: da un lato, il mercato interno è uno strumento, insieme all’unione economica e monetaria ed alle azioni e politiche indicate agli artt. 3 e 4 del Trattato Ce, per il perseguimento degli obiettivi comunitari previsti dall’art. 2; dall’altro lato, esso rappresenta un

(92) In questo senso, cfr. P. BAKER, Taxation and the European Convention on Human Rights, cit., 317; M. GREGGI, Dall’interesse fiscale al principio di non discriminazione nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cit., 440 e 444. Gli altri casi in cui l’art. 14 ha trovato positiva applicazione in materia tributaria riguardano il diverso trattamento in ragione del sesso. Cfr., a titolo esemplificativo, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 21 febbraio 1997, Van Raalte v. The Netherlands, in Reports 1997-I. (93) Come rileva G. TESAURO, Diritto comunitario, Padova, 2003, 368: “le espressioni mercato comune, mercato interno e mercato unico sono in pratica equivalenti”; esse saranno quindi utilizzate nel testo in maniera indifferenziata. Nello stesso senso, A.J. MARTÍN JIMÉNEZ, Towards Corporate Tax Harmonization in the European Community. An Institutional and Procedural Analysis, London-The Hague-Boston, 1999, 6. Per una differente soluzione, che non trova riscontro né nei trattati né nella giurisprudenza comunitaria, cfr. P.J.G. KAPTEYN, P. VERLOREN VAN THEMAAT, Introduction to the Law of the European Communities, London, 1998, 575, che ritengono il mercato interno “forms part of the concept of a common market, but is logically distinct from that concept”. (94) Questa affermazione è generalmente condivisa in dottrina. Cfr., fra i tanti, F.A. GARCÍA PRATS, Incidencia del derecho comunitario en la configuracion juridica del derecho financiero (II): politicas comunitarias con incidencia sobre el derecho financiero, in Rev. Der. Fin. Hac. Pubbl., 2001, 519 (553-554): “No constituye [la armonización], por tanto, un fin en sí misma, sino un medio para alcanzar los objetivos de la Comunidad tanto mediatos como immediatos”.

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obiettivo dell’ordinamento comunitario(95). Dalla nozione e dalla (doppia) natura di mercato interno discendono conseguentemente i caratteri che concorrono alla definizione della politica fiscale comunitaria e, in corrispondenza, i vincoli alla potestà legislativa degli stati membri in materia tributaria.

La definizione di mercato interno è positivamente sancita dall’art. 14 del Trattato Ce come “spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni del presente trattato”. Questa disposizione, introdotta dall’Atto Unico Europeo del 1986, riproduce parzialemente una più ampia nozione sviluppata dalla giurisprudenza comunitaria che definisce il mercato interno in termini di comparazione con il mercato nazionale come spazio privo di ostacoli agli scambi economici(96). In questi (più ampi) termini, la nozione di mercato interno descrive uno spazio giuridico di libertà esteso al territorio europeo(97), al cui interno trovano riconoscimento i principi, i valori e gli interessi definiti dai trattati europei. Costituiscono tale nozione, in primo luogo, le libertà di circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali (c.d. “libertà fondamentali”), il regime di libera concorrenza (art. 3, para. 1, lett. g)), ma anche azioni orizzontali, quali quelle commerciali (art. 3, para. 1, lett. b)). Consapevoli del fatto che la sola affermazione e garanzia di libertà e diritti economici non avrebbe consentito la realizzazione del mercato interno (c.d. integrazione negativa), i Padri Fondatori hanno previsto una specifica competenza positiva diretta al ravvicinamento graduale dei sistemi giuridici statali.

In termini di sintesi, si potrebbe definire il mercato interno come il mercato privo di ostacoli di qualsiasi genere all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciute dai trattati comunitari ed in cui sono garantite le essenziali condizioni per una libera e leale concorrenza. Questa

(95) Oltre all’espressa previsione contenuta nell’art. 14 del Trattato Ce, l’art. 4, para. 1, prevede “l’adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle politiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni” (enfasi aggiunta). (96) Si veda Corte di giustizia, sentenza 5 maggio 1982, causa 15/81, Gaston Schul Douane Expediteur BV v. Ispettore dei Tributi D’importazione e delle Imposte di Consumo di Roosendaal, in Racc., I-1409, para. 33 della motivazione: “la nozione di mercato comune, elaborata dalla Corte nella sua costante giurisprudenza, mira ad eliminare ogni intralcio per gli scambi intracomunitari al fine di fondere i mercati nazionali in un mercato unico il più possibile simile ad un vero e proprio mercato interno. È importante che i vantaggi di tale mercato siano garantiti, oltre che ai commercianti di professione, anche ai privati che si trovino a intraprendere operazioni economiche oltre le frontiere nazionali”. (97) Similmente G. TESAURO, Diritto comunitario, cit., 372, che lo definisce “quadro giuridico complessivo, su scala europea, dello svolgimento dei rapporti economici”.

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conclusione è rafforzata dall’art. 4 del Trattato Ce che individua nel “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” la condizione strutturale per il perseguimento dei fini previsti dall’art. 2 del Trattato Ce.

Queste conclusioni si devono estendere anche all’art. 94 del Trattato Ce che attribuisce all’Unione europea una competenza generale in materia di ravvicinamento delle legislazioni condizionata, al pari dell’art. 93, alla incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune. La diversa formulazione di tale requisito a riguardo dei presupposti costitutivi dell’azione di armonizzazione non dovrebbe condurre a soluzioni interpretative diverse da quelle prospettate sopra: in entrambi i casi è necessaria una valutazione comparativa, conformemente al principio di sussidiarietà e di proporzionalità, in merito a quale ordinamento e quali istituzioni – statali o comunitarie – siano in grado di realizzare in maniera più adeguata le condizioni necessarie all’instaurazione ed al funzionamento del mercato interno. L’applicabilità dell’art. 94 del Trattato Ce alla materia tributaria è confermata espressamente dall’art. 95, para. 2, che introduce una deroga al normale procedimento normativo di co-decisione e impone la deliberazione all’unanimità del Consiglio per le “disposizioni fiscali”.

Poiché funzionale alla costituzione ed al funzionamento del mercato interno nel senso sopra detto, l’armonizzazione fiscale è finalizzata alla creazione di condizioni di “neutralità” fiscale nell’ordinamento comunitario. Il termine neutralità non indica uno dei tanti concetti elaborati dagli economisti in termini generali o in riferimento all’imposizione transfrontaliera(98), bensì la neutralità comunitaria che, nell’interpretazione della Corte di giustizia, corrisponde al superamento della divisione dei mercati statali al fine di unificarli in un unico mercato comune(99). L’integrazione dei mercati nazionali può essere perseguita sia attraverso

(98) Per una discussione di tali concetti, cfr. R.J. JEFFERY, The Impact of State Sovereignty on Global Trade and International Taxation, cit., 4 ss. (99) In termini simili, sebbene non coincidenti, anche A. FANTOZZI, Dalla non discriminazione all’eguaglianza in materia tributaria, 193 (202), in A. DI PIETRO (a cura di), Per una costituzione fiscale europea, Padova, 2008: “il mercato comune è quindi, nella visione accolta dai padri fondatori, una dimensione più ideale che geografica, nella quale si verifica spontaneamente il fenomeno dell’efficiente allocazione delle risorse”. Non è seriamente contestabile che l’idea alla base del mercato comune abbia un fondamento economico. In questo senso, la market integration può essere definita “as a situation such that the flows of products, services, and factors between countries are on the same terms and conditions as within countries. It implies that products can be traded between distinct markets or countries just as they are within a country” (C. ALTOMONTE, N. NAVA, Economics and Policies of an Enlarged Europe, Cheltenham-Northampton, 2005, 67).

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l’azione normativa, diretta ad omogeneizzare le regole giuridiche, sia attraverso l’eliminazione degli ostacoli alla circolazione dei fattori prodittivi ed alla concorrenza.

Vero è che, con successive modifiche, il novero degli obiettivi comunitari è stato significativamente ampliato fino a comprendere finalità latu sensu sociali(100) ma, come si dirà, lo strumento principale per realizzare tali obiettivi resta il mercato interno e una politica economica di mercato aperta e in libera concorrenza (art. 4). Altre azioni, quelle tipicamente promozionali, sono previste in via sussidiaria e solo allorché il mercato interno non consenta di raggiungere autonomamente gli obiettivi indicati all’art. 2(101).

Questa ricostruzione non sembra possa essere rimessa in discussione nemmeno dalla più recente evoluzione dell’Unione europea e, in particolare, dall’adozione della Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000. In primo luogo, come è noto, tale Carta dei diritti non ha valore giuridico obbligatorio, almeno fino alla conclusione del processo di ratifica del Trattato di Lisbona del 2007 che ridisegna sensibilmente, sul piano formale, la struttura istituzionale dell’Unione europea. Il nuovo art. 6, para. 1, del Trattato Ue attribuisce infatti alla Carta dei diritti fondamentali, nella versione adottata il 12 dicembre 2007, lo “stesso valore giuridico dei trattati”.

Piuttosto, l’irrilevanza di tale Carta nella potenziale ridefinizione delle funzioni dell’armonizzazione fiscale è data dalle clausole restrittive relative all’ambito di applicazione che ne hanno accompagnato l’adozione (anche nell’originario testo non vincolante). Lo stesso para. 1 del nuovo art. 6 del Trattato Ue precisa che “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati”. L’art. 51 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue adottata il 12 dicembre 2007 è ancor più puntuale nell’affermare che “la presente Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati” (para. 2)(102). Ad una prima lettura di tali disposizioni, sembrerebbe doversi concludere che i diritti riconosciuti dalla Carta non possono costituire la

(100) A titolo meramente esemplificativo, l’art. 2 si riferisce espressamente alla “coesione economica e sociale” e ad un “elevato livello di occupazione e protezione sociale”; il Titolo XVII è interamente dedicato alle azioni dirette alla realizzazione di tali obiettivi. (101) Concorda, F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 139-140. (102) Equivalente nella sostanza era la formulazione prevista dall’art. 51, para. 2, della Carta di Nizza del 2000: “la presente Carta non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati”.

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base giuridica per espandere le competenze comunitarie. In altre parole, tali diritti, al pari di quanto accade per quelli previsti dalla Cedu, costituiscono una mera garanzia negativa nei confronti dell’autorità (o dei poteri pubblici) e non possono costituire il fondamento per azioni di tipo promozionale(103). Se tali premesse sono corrette, la conseguenza, sul piano fiscale, è che tali diritti non possono rappresentare lo strumento giuridico per l’estensione della funzione dell’armonizzazione fiscale al di là di quanto espressamente previsto dagli artt. 93 e 94. In questo senso, l’efficacia giuridica della Carta dovrebbe “ridursi” all’estensione del novero, del contenuto e delle garanzie dei diritti dei singoli, ma, all’opposto, non dovrebbe influenzare né la determinazione delle competenze in materia fiscale comunitarie né la loro funzione(104).

Una prima conclusione che può essere raggiunta, al livello massimo di generalizzazione, è che l’armonizzazione fiscale non persegue finalità di giustizia tributaria(105), intesa nel senso di riparto solidale delle spese pubbliche in funzione distributiva e redistributiva. Non svolge in particolare, quell’azione positiva diretta a creare le condizioni per una piena realizzazione della persona all’interno della società, perché tale funzione è riconosciuta ed attribuita, almeno in principio, alle sole dinamiche di mercato(106).

Ad un ulteriore grado di approfondimento, tuttavia, si scorge che l’armonizzazione non opera in maniera uniforme. L’“unificazione” dei mercati nazionali in un unico mercato può essere perseguita, al massimo (103) Conformemente alla nota distinzione fra libertà dallo stato (rectius: dal potere pubblico) e libertà nello stato (rectius: dal potere pubblico). (104) Simili conclusioni sono raggiunte da F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 142 ss. (105) F.A. GARCÍA PRATS, Incidencia del derecho comunitario en la configuracion juridica del derecho financiero (II): politicas comunitarias con incidencia sobre el derecho financiero, cit., 562-563. J. LANG, I presupposti costituzionali dell’armonizzazione del diritto tributario in Europa, 443 (451), in A. AMATUCCI, (diretto da), Trattato di diritto tributario. Annuario, Padova, 2001, osserva tuttavia che “la razionalità economica del sistema fiscale è condizione essenziale di funzionamento del mercato. In tal senso, anche i criteri di armonizzazione del diritto europeo offrono fondamento giuridico per la realizzazione di “sistemi fiscali più razionali””. (106) Chiaramente su questi aspetti, da ultimo, F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 138-140, che però limita le proprie conclusioni al solo principio di non discriminazione. Come rileva K. VOGEL, World-Wide versus Source Taxation of Income. A Review and Reevalutation of Arguments, 59 (118), in Influence of Tax Differentials on International Competitiveness: Proceedings of the VIIIth Munich Symposium on International Taxation, Deventer, 1990, “neutrality, or its underlying basic criterion, efficiency of capital allocation, clearly is an economic aspect. Equity, on the other hand, traditionally has been a standard in legal discussion and for more than two thousand years lawyers have gained some expert knowledge on how it is structured and how it works”.

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grado, attraverso l’armonizzazione dell’intera struttura di un tributo sia con riguardo agli aspetti puramente interni sia a quelli trasfrontalieri (è il caso, ad esempio, dell’iva e delle accise) oppure attraverso l’estensione della disciplina fiscale interna alle fattispecie trasfrontaliere (ad esempio, la direttiva madre-figlia) o la previsione di un regime fiscale esclusivo per le fattispecie transfrontaliere (ad esempio, la direttiva sulle riorganizzazioni societarie). La differenza non è di poco conto. Nel primo caso, l’armonizzazione fiscale impone gli obiettivi comunitari agli ordinamenti statali; nel secondo caso, diversamente, la disciplina tributaria statale è estesa alle fattispecie trasfrontaliere, preservando il modello impositivo statale.

In questo secondo caso, che, come si dirà, può estendersi anche al principio di non discriminazione in ragione della nazionalità, gli stati membri conservano pressoché integralmente la propria potestà impositiva (o la competenza a definire il dovere tributario), ad eccezione della neutralità di trattamento fra le situazioni interne e quelle trasfrontaliere (o, più esattamente, il trattamento non meno favorevole delle situazioni trasfrontaliere rispetto a quelle interne).

Maggiore incidenza sulla definizione del dovere tributario deriva dall’armonizzazione dell’intera struttura del tributo (o di parte del tributo). In questo caso, la competenza comunitaria si sostituisce a quella statale e, come conseguenza, gli obiettivi comunitari a quelli statali. Il risultato dell’apertura costituzionale all’Unione europea è dunque l’integrazione di principi e valori comunitari all’interno del sistema tributario statale.

Tale processo di integrazione è regolato sostanzialmente dai principi delle competenze enumerate, di sussidiarietà e di proporzionalità. Questi principi determinano la “misura” e l’“intensità” dell’armonizzazione fiscale comunitaria e, di riflesso, i vincoli alla potestà impositiva statale nella definizione del dovere tributario(107).

Le competenze dell’Unione europea in materia tributaria non sono, come si è ripetutamente anticipato, generali, bensì limitate espressamente alla sola armonizzazione fiscale delle imposte indirette. Sebbene nei settori che non sono di esclusiva competenza l’Unione europea possa comunque intervenire in applicazione del principio di sussidiarietà, i presupposti previsti dall’art. 5, para. 2, del Trattato Ce divengono anche il limite delle

(107) Questa conclusione è condivisa da F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 134 nota 2 e C. SACCHETTO, Member States Tax Sovereignty Between the Principle of Subsidiarity and the Necessity of Supranational Coordination, 799 ss., in L. HINNEKENS e P. HINNEKENS (Eds.), A Vision of taxes within and outside European Borders, Alphen aan den Rijn, 2008.

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stesse competenze comunitarie(108). I poteri che derivano da tali competenze sono limitati dunque all’imposizione indiretta e soggetti all’accertamento della necessarietà e della maggior adeguatezza del livello comunitario rispetto a quello nazionale. La mancata previsione di una competenza espressa ed il principio di sussidiarietà, in altre parole, sanciscono la competenza prioritaria e privilegiata degli stati membri nel settore delle imposte dirette. Questo esclude con certezza la possibilità di armonizzare settori ad elevata “sensibilità” sociale quali l’imposta sul reddito delle persone fisiche(109). Non è certamente un caso, in aggiunta, che lo strumento giuridico attraverso cui si realizza l’armonizzazione è quello delle direttive che consente, attraverso la flessibilità della scelta dei mezzi di adattamento, un impatto “morbido” sui sistemi fiscali statali(110). Da ultimo, l’azione normativa deve essere ridotta al minimo della regolamentazione necessaria per il raggiungimento degli obiettivi. Il principio di proporzionalità consente il riconoscimento della specificità degli ordinamenti nazionali e la loro rilevanza a livello comunitario. Il caso dell’iva è, sotto questo profilo, emblematico. L’iva è per definizione l’“imposta europea” informata a criteri di neutralità, come ampiamente ripetuto dalla Corte comunitaria(111). Nonostante il disegno neutrale, tale imposta consente, in misura limitata, di determinare in funzione redistributiva, secondo i principi ed i valori propri di ciascuno stato membro, sia le aliquote sia le esenzioni e le esclusioni dall’imposta. Conclusioni simili possono essere estese anche alla disciplina delle accise.

Queste considerazioni non solo sottolineano la specialità, per materia e presupposti, dell’armonizzazione fiscale comunitaria e, per contro, la generalità della competenza tributaria degli stati membri, ma, soprattutto, la condizione di reciproca integrazione dei due sistemi in materia

(108) Concordano W. SCHÖN, Taxationa and State Aid Law in the European Union, in Comm. Mark. Law Rev., 1999, 911 (915); P. BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2005, 63. (109) Concorda, J. LANG, I presupposti costituzionali dell’armonizzazione del diritto tributario in Europa, cit., 456-457. F. GALLO, Mercato unico e fiscalità: aspetti giuridici del coordinamento fiscale, in Rass. Trib., 2000, 725, ricorda – 728 – che “la mancanza di norme espresse che prescrivono il coordinamento delle imposte dirette trova la sua base nella originaria convinzione che tali imposte costituiscono uno strumento di politica sociale e di redistribuzione del reddito che compete esclusivamente ai singoli Paesi membri”. (110) In questo senso, anche, F.A. GARCÍA PRATS, Incidencia del derecho comunitario en la configuracion juridica del derecho financiero (II): politicas comunitarias con incidencia sobre el derecho financiero, cit., 559-560. (111) Cfr., fra le tante, Corte di giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, causa C-317/94, Elida Gibbs Ltd v. Commissioners of Customs and Excise, in Racc., I-5339, para. 20 ss. della motivazione.

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tributaria(112). Per un verso, l’armonizzazione fiscale comunitaria presuppone i sistemi fiscali nazionali, il loro principi e le loro finalità. Per altro verso, nella definizione dei propri sistemi tributari, gli stati membri non possono prescindere dai tributi e dagli istituti armonizzati a livello comunitario.

Il sistema tributario che ne deriva ha natura integrata, dove convivono finalità distributive, proprie sia dell’ordinamento statale sia di quello comunitario, nella forma della neutralità economica, sia finalità redistributive o di giustizia tributaria connesse alle esigenze proprie dell’ordinamento costituzionale. Questo risultato è coerente con le conclusioni raggiunte in merito alla natura dell’imposizione tributaria nell’ordinamento statale. Sebbene questo contempli finalità redistributive connesse alla realizzazione di una pari dignità sociale di ciascuna persona, esse non possono dirsi esclusive, né escludenti di tributi o istituti tributari informati a canoni esclusivamente distributivi, conformi ai criteri dell’eguaglianza formale. L’integrazione deve intendersi proprio nel senso di completamento reciproco dei due ordinamenti tributari che appaiono “integrati nella loro diversità”(113).

Conformemente alla ricostruzione dei rapporti fra ordinamento interno ed ordinamento comunitario accolta in questo lavoro, il principio (o valore) delle neutralità economica dell’imposizione che emerge dai trattati comunitari integra la trama assiologica costituzionale in materia tributaria, ampliando il novero dei principi (o i valori) che concorrono alla definizione del dovere tributario. Deve essere quindi il legislatore tributario e gli organi comunitari con competenza normativa, nonché le corti supreme attraverso l’attività interpretativa, a delineare in concreto la struttura ed i contenuti del sistema tributario secondo la composizione (o armonizzazione) degli opposti interessi in gioco. I confini entro cui tali attività devono svolgersi è rappresentato dalla compressione assoluta di uno dei principi in gioco. In questo senso, non appare sostenibile che al sistema tributario non sia consentito di svolgere funzioni – almeno di carattere strumentale – di promozione della libertà “sociale”, ma, allo stesso modo, appare pienamente ammissibile un sistema tributario che svolga anche funzioni di neutralità economica.

(112) Non è del tutto inutile rilevare che tale integrazione non è ristretta alla sola sfera normativa, ma investe anche gli aspetti istituzionali ed organizzativi della materia tributaria. (113) L’espressione è utilizza da M. CARTABIA, “Unità nella diversità”: il rapporto tra la Costituzione europea e le costituzioni nazionali, in Dir. Un. Eur., 2005, 583, per descrivere, in termini generali, il rapporto fra ordinamento comunitario e costituzioni statali.

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5.1. (segue). La peculiarità delle misure fiscali in materia ambientale. Accanto alla previsione di competenze in materia di armonizzazione o

ravvicinamento delle imposte indirette (e dirette) funzionali alla realizzazione del mercato interno, il Trattato Ce attribuisce alle istituzioni comunitarie una espressa competenza normativa fiscale in materia ambientale. Tale competenza è deducibile dal combinato disposto degli artt. 174 e 175, para. 2, lett. b), del Trattato. La prima disposizione individua i caratteri dell’azione comunitaria in materia ambientale che è fondata, essenzialmente, “sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga”” (art. 174, para. 2) applicabili in maniera differenziata alle varie regioni dell’Unione(114). Al fine di perseguire tali obiettivi, l’art. 175 attribuisce una generale potestà normativa alle istituzioni comunitarie che può tradursi anche in “disposizioni aventi principalmente natura fiscale”.

La materia ambientale, tuttavia, ricade anche nella generale competenza sul ravvicinamento delle legislazioni di cui all’art. 94 del Trattato Ce(115). Tali competenze normative, la cui delimitazione era fonte di controversie poiché, prima del Trattato di Amsterdam, erano previsti due diversi procedimenti normativi(116), sono basate su presupposti e finalità diverse: la prima, come si è già detto, è finalizzata all’instaurazione e al funzionamento del mercato interno; la seconda, diversamente, persegue direttamente gli obiettivi di politica ambientale definitivi nell’art. 174 del Trattato Ce.

Indipendentemente dal concreto riparto fra le varie disposizioni del Trattato e dal fatto che pressoché tutte le misure adottate in materia ambientale trovino la loro base giuridica negli artt. 93 e 94 del Trattato

(114) Non sembra superfluo rilevare che l’art. 2 del Trattato Ce, che definisce gli obiettivi comunitari, riconosce fra questi “un elevato livello di protezione dell’ambiente ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo”. Per ulteriori riferimenti al ruolo della politica ambientale e ai suoi riflessi fiscali, cfr., C. VERRIGNI, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, in Rass. Trib., 2003, 1614 ss. (115) Rileva C. VERRIGNI, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, cit., 1617, che la Corte comunitaria, prima dell’introduzione dell’attuale art. 174, individuava la base giuridica dei poteri in materia ambientali nella generica disposizione sul ravvicinamento (art. 94) poiché il mancato intervento avrebbe potuto creare ingiustificate condizioni di vantaggio a livello concorrenziale e quindi alterare il funzionamento del mercato comune. (116) Alcuni criteri generali di delimitazione della competenza sono stati elaborati dalla Corte di giustizia, sentenza 11 giugno 1991, causa C-300/89, Commissione delle Ce v. Consiglio delle Ce, in Racc., I-2867; sentenza 17 marzo 1993, causa C-155/91, Commissione delle Ce v. Consiglio delle Ce, in Racc., I-939; sentenza 28 giugno 1994, causa C-187/93, Parlamento europeo v. Consiglio dell’Ue, in Racc., I-2857.

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Ce(117), l’art. 175 del Trattato Ce riconosce all’Unione europea una competenza normativa in materia fiscale diretta a garantire un “elevato livello di protezione dell’ambiente”. Diversamente dagli artt. 93 e 94 del Trattato Ce, l’azione normativa dell’Unione europea non è finalizzata, in questo specifico caso, alla neutralità economica bensì alla promozione di uno specifico interesse sociale(118).

Non si ha ragione di modificare le conclusioni raggiunte nel paragrafo precedente a riguardo dell’ambito di applicazione della disciplina in materia di politica ambientale. In particolare, le disposizioni di cui agli artt. 174 ss. del Trattato Ce si applicano solo “se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario” (art. 5, para. 2). Poiché il principio di sussidiarietà assume rilevanza generale (o orizzontale) nell’ambito dell’ordinamento comunitario, anche il riparto di competenze in materia ambientale deve essere informato a tale principio. In aggiunta, non solo la determinazione del livello di governo, ma anche l’intensità dell’azione in materia ambientale è rimessa all’art. 5 del Trattato conformemente al principio di proporzionalità dell’intervento(119).

Gli stati membri, dunque, restano liberi di determinare secondo le proprie esigenze gli interventi, anche di natura fiscale, in materia ambientale che non sono, a motivo della dimensione, attratti alla competenza comunitaria. Specifici problemi di compatibilità con l’ordinamento costituzionale emergono per i tributi ambientali in senso proprio, ovverosia quei tributi che assumono “una relazione diretta, causale, fra il presupposto e l’unità fisica (emissioni inquinanti, risorsa ambientale, bene o prodotto) che produce o può produrre un danno all’ambiente”(120). In questi casi, se la legittimità di tali tributi è assicurata, a livello comunitario, proprio dagli artt. 174 ss., lo stesso non può dirsi per l’ordinamento costituzionale che trova, nell’art. 53, comma 1, Cost., nel significato di limite assoluto, un serio vincolo all’introduzione di tributi in cui il legame con l’idoneità soggettiva alla contribuzione risulti seriamente

(117) In questo senso, si veda, da ultimo, la proposta di direttiva del Consiglio in materia di tasse relative alle autovetture (COM(2005) 261 def.). (118) Concorda, A.E. LA SCALA, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla Costituzione dell’Unione europea, Milano, 2005, 327. (119) Concorda, C. VERRIGNI, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, cit., 1627. Per la diversa opinione che l’art. 174 del Trattato Ce sia stato “costituzionalizzato” dall’ordinamento interno, cfr. F. PICCIAREDDA, P. SELICATO, I tributi e l’ambiente, Milano, 1996, 120-121. (120) F. GALLO, F. MARCHETTI, I presupposti della tassazione ambientale, cit., 119.

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attenuato(121). In questo caso, la “copertura” giuridica non può derivare dagli artt. 174 ss. del Trattato Ce perché, come detto, tali disposizioni si applicano congiuntamente ai principi di proporzionalità e sussidiarietà e, di conseguenza, si estendono esclusivamente all’azione comunitaria.

In conclusione, le competenze in materia ambientale dell’Unione europea, che comprendono anche poteri in materia fiscale, derogano le conclusioni sopra raggiunte sulla funzione neutrale dell’armonizzazione fiscale. Tali competenze, infatti, sono finalizzate alla correzione della naturale (o spontanea) distribuzione dei diritti economici prodotta dalla sole forze di mercato.

6. IL PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE IN RAGIONE DELLA NAZIONALITÀ. PROFILI GENERALI.

Il principio di non discriminazione in ragione della nazionalità,

enunciato dall’art. 12 del Trattato Ce, costituisce uno dei principi fondamentali dell’Unione europea(122). Per espressa previsione normativa, l’art. 12 può essere derogato, in funzione integrativa, dalle “disposizioni particolari” previste del Trattato Ce. L’art. 12 svolge così il ruolo di norma residuale dell’ordinamento comunitario applicabile a tutte le situazioni che non rientrano in una disposizione specifica del Trattato.

Nel novero delle disposizioni particolari rientrano le c.d. “libertà fondamentali”, ovvero la libera circolazione dei lavoratori (art. 39); la libertà di stabilimento (art. 43); la libera prestazione dei servizi (art. 49) e la libertà di circolazione dei capitali (art. 56) che vietano qualsiasi norma discriminatoria o restrittiva dell’esercizio di una delle suddette libertà da parte degli stranieri. In materia di libera circolazione dei beni (o prodotti), gli artt. 90 e 91 del Trattato prevedono, rispettivamente, che i prodotti

(121) Sul punto, si rinvia a C. VERRIGNI, La rilevanza del principio comunitario “chi inquina paga” nei tributi ambientali, cit., 1626 ss.; F. GALLO, Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, cit., 95-97. (122) La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea adottata a Lisbona il 12 dicembre 2007 contiene un intero titolo dedicato all’eguaglianza. Oltre al principio di non discriminazione in base alla nazionalità (art. 21, para. 2) sono previsti un generale principio di eguaglianza davanti alla legge (art. 20); un generale principio di non discriminazione (art. 21, para. 1: “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”) ed il riconoscimento della parità fra uomo e donna (art. 23).

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importati non subiscano imposizioni superiori a quelli nazionali ovvero che i prodotti esportati non beneficino di aiuti finanziari.

Specifici divieti di discriminazione sono posti dall’art. 141 (parità di retribuzione tra uomo e donna), dall’art. 34, para. 2, che vieta “qualsiasi discriminazione fra produttori o consumatori della Comunità”. Espressive del generale divieto di discriminazione devono ritenersi anche le norme del Trattato Ce poste a tutela della concorrenza, allorché si vieta la creazione o il mantenimento di “diritti speciali o esclusivi ” a favore di imprese pubbliche e altre imprese (art. 86, para. 1) e gli aiuti finanziari da parte dello stato che favoriscano “talune imprese o talune produzioni” (art. 87, para. 1).

Da questa rapida ricognizione dei divieti particolari di discriminazione emerge, con tutta evidenza, che il Trattato Ce ha inteso riconoscere il principio di non discriminazione in funzione della realizzazione degli obiettivi propri dell’ordinamento comunitario. Tale principio appare infatti privo di una portata “universale”, intesa come potenzialmente capace di incidere su qualsiasi campo dell’esperienza giuridica(123) ed è, diversamente, strumentale all’instaurazione e al funzionamento del mercato interno ed al mantenimento di un regime non distorto di concorrenza(124). In questa prospettiva, le libertà fondamentali e il divieto di discriminazione fiscale dei prodotti rappresentano gli elementi costitutivi (o fondanti) del mercato interno mentre il divieto di regimi speciali e di aiuti finanziari i presupposti giuridici del regime di libera concorrenza. Unitamente all’armonizzazione, queste previsioni completano il progetto giuridico del Trattato Ce volto alla costruzione, come si è rilevato al paragrafo 5., di uno “spazio comune di libertà”.

L’assenza di un generale principio di eguaglianza è stata parzialmente colmata dall’attività interpretativa della giurisprudenza comunitaria. Nella sentenza Überschär, la Corte ha affermato perentoriamente che “il principio generale di uguaglianza, di cui il divieto di discriminazione a motivo della cittadinanza è solo un’espressione specifica, è uno dei

(123) F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 94. (124) In questo senso, cfr., P. WATSON, Equality of Treatment – A Variable Concept?, in Ind. Law Jour., 1995, 33 (35); G. DE BÚRCA, The Role of Equality in European Community Law, 13 (25), in A. DASHWOOD e S. O’LEARY (Eds.), The Principle of Equal Treatment in EC Law, London, 1997; G. TESAURO, Eguaglianza e legalità nel diritto comunitario, in Dir. Un. Eur., 1999, 1 (3); G. MORE, The Principle of Equal Treatment from Market Unifier to Fundamental Right?, 517 (518), in P. CRAIG e G. DE BÚRCA, The Evolution of EU Law, Oxford, 1999; G. BRAGA, Il principio di eguaglianza nell’ordinamento europeo, 299 (300), in S. MANGIAMELI (a cura di), L’ordinamento europeo. I principi dell’Unione, Milano, 2006.

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principi fondamentali del diritto comunitario”(125). Tale principio farebbe parte, nella ricostruzione della Corte comunitaria, dei c.d. principi fondamentali senza disposizione enucleati sulla base dei materiali costituzionali offerti dagli ordinamenti statali, secondo l’orientamento emerso a partire dalla sentenza Internationale Handelsgesellschaft (cfr., supra, capitolo primo). Il principio di eguaglianza comunitario condividerebbe, secondo questa prospettiva, i contenuti propri dei principi di eguaglianza espressi dalle costituzioni statali, imponendo “che situazioni analoghe non siano trattate in maniera differenziata e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale a meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato”(126), e le singole disposizioni comunitarie contenenti divieti di discriminazione costituirebbero una specificazione di tale principio.

In secondo luogo, la giurisprudenza comunitaria ha prodotto una sensibile estensione del principio attraverso l’elaborazione della c.d. discriminazione indiretta o dissimulata. La formulazione originaria di questo orientamento si trova nella sentenza Sotgiu in cui si precisa che “il principio della parità di trattamento (...) vieta non soltanto le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, ma altresì qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi su altri criteri di riferimento, pervenga al medesimo risultato”(127).

Per effetto di questa evoluzione giurisprudenziale il principio di non discriminazione assume, almeno formalmente, il medesimo contenuto e, il giudizio di accertamento della discriminazione la medesima struttura, del principio di eguaglianza statale. Quanto, in particolare, alla struttura, la giurisprudenza comunitaria è piuttosto rigida e consolidata nel ritenere il giudizio informato a tre diverse fasi: la rilevanza della fattispecie ai fini comunitari, ovvero la presenza di elementi giuridici estranei al singolo

(125) Corte di giustizia, sentenza 8 ottobre 1980, causa 810/79, P. Überschär v. Bundesversicherungsanstalt für Angestellte, in Racc., 2747, para. 16 della motivazione. (126) Corte di giustizia, sentenza 13 dicembre 1984, causa 106/83, Sermide Spa v. Cassa Conguaglio Zucchero ed Altri, in Racc., 4209, para. 28 della motivazione. (127) Corte di giustizia, sentenza 12 febbraio 1974, causa 152/73, G.M. Sotgiu v. Deutsche Bundespost, in Racc., 153, para. 11 della motivazione. È interessante rilevare che nelle altre versioni linguistiche della sentenza il risultato della discriminazione è qualificato in termini “fattuali”: “attendu que les règles d’égalité de traitement prohibent non seulement les discriminations ostensibles, fondées sur la nationalité, mais encore toutes formes dissimulées de discrimination qui, par application d’autres critères de distinction, aboutissent en fait au même résultat” (enfasi aggiunta). Il motivo d’interesse deriva dalla riproposizione di un criterio “fattuale” di comparazione nella famosa sentenza Schumacker (14 febbraio 1995, causa C-279/93, Finanzamt Köln-Altstadt v. R. Schumacker, in Racc., I-225, para. 36 ss. della motivazione) che ha consentito il confronto fra residente e non residente che, quanto alla fonte reddituale, si trovavano nella medesima condizione.

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ordinamento statale; il confronto fra la fattispecie oggetto di controversia ed un tertium comparationis e, da ultimo, l’accertamento delle cause di giustificazione del diverso trattamento (ovvero dell’eguale trattamento).

Non è possibile in questa sede approfondire ulteriormente in termini generali il rapporto fra eguaglianza e non discriminazione, ovvero se “la situazione” comunitaria non possa dirsi “così diversa da quanto avviene negli ordinamenti nazionali”(128). Per contro, nei paragrafi che seguiranno l’analisi sarà rivolta ad accertare il rapporto fra eguaglianza e non discriminazione nello specifico settore fiscale, al fine di rilevarne le implicazioni specifiche.

L’indagine si compone di due successivi livelli. In primo luogo, deve essere indagato il rapporto fra principio di non discriminazione e mercato interno, incentrato sulla rilevanza in materia fiscale delle libertà fondamentali e sul divieto di imposizioni fiscali discriminatorie dei prodotti ai sensi dell’art. 90, prima proposizione, del Trattato Ce. Nella seconda parte, l’attenzione è rivolta al rapporto fra discriminazione e concorrenza e, in particolare alla rilevanza fiscale del divieto degli aiuti di stato e del divieto di imposizioni dirette a proteggere indirettamente altre produzioni (art. 90, seconda proposizione, Trattato Ce). 6.1. Il principio di non discriminazione in ragione della nazionalità e le libertà fondamentali. Il superamento dell’equivalenza ed il divieto di misure indistintamente applicabili (o non discriminatorie).

Nel paragrafo precedente si è rilevato che le c.d. “libertà fondamentali” (artt. 39 ss. del Trattato Ce) costituiscono una specificazione del principio di non discriminazione. Il divieto di discriminazione è espressamente previsto dall’art. 39, para. 2, ma emerge anche dagli artt. 43 e 49, dedicati, rispettivamente, al diritto di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi, che impongono il c.d. “trattamento nazionale”. Decisamente più ampia è la formulazione dell’art. 56 che vieta qualsiasi “restrizione” alla libera circolazione dei capitali e dei pagamenti fra gli stati membri, e fra gli stati membri e gli stati terzi.

Conformemente a queste disposizioni, la giurisprudenza comunitaria ha sintetizzato il contenuto delle libertà fondamentali nel senso che sebbene assicurino “in special modo (...) il beneficio della disciplina nazionale dello Stato membro ospitante, esse ostano parimenti a che lo Stato d’origine ostacoli lo stabilimento in altro Stato membro di un proprio cittadino o di una società costituita secondo la propria legislazione e

(128) Le espressioni nel testo sono di G. TESAURO, Eguaglianza e legalità nel diritto comunitario, cit., 2. Per la visione opposta, F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 93.

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corrispondente alla definizione dell’art. 58”(129). In una prima approssimazione, che sarà ulteriormente sviluppata per la materia tributaria, il divieto di discriminazione espresso dalle libertà fondamentali comunitarie non ha un contenuto univoco ma si suddivide in due distinte prescrizioni. In un primo senso, le libertà fondamentali vietano il diverso trattamento degli stranieri rispetto ai cittadini nel paese ospitante, ovvero nel paese di esercizio della libertà comunitaria (Host State Discrimination o discriminazione in senso stretto); tale divieto si estende altresì alle “restrizioni” poste dallo stato di origine all’esercizio di una delle libertà fondamentali da parte dei propri cittadini (Home State Restriction o divieto di restrizione). Nonostante il differente ambito di applicazione e i differenti effetti, queste due prescrizioni sono accomunate dal medesimo valore giuridico, rinvenibile nel principio di non discriminazione (o, secondo la giurisprudenza comunitaria, nel principio di eguaglianza)(130).

L’evoluzione giurisprudenziale in tema di libertà fondamentali – e in particolare della libera prestazione di servizi – mostra però il superamento dell’equivalenza fra il principio di non discriminazione e libertà fondamentali(131). Conformemente a questo orientamento, tali libertà sarebbero dirette all’eliminazione di qualsiasi disposizione, anche non produttiva di effetti discriminatori, che costituisca un ostacolo, di diritto o di fatto, all’esercizio della libertà fondamentali in un ordinamento diverso da quello d’origine(132). La natura indistinta della disciplina nazionale –

(129) Cfr., fra le tante, Corte di giustizia, sentenza 27 settembre 1988, causa 81/87, The Queen v. H. M. Treasury and Commissioners of Inland Revenue, ex parte Daily Mail and General Trust Plc, in Racc., 5483, para. 16 della motivazione. Si deve rilevare che, nonostante il diverso tenore letterale delle singole disposizione relative alle libertà fondamentali, esse sono interpretate in modo uniforme dalla giurisprudenza comunitaria. (130) Concorda, A. CORDEWENER, The prohibitions of discrimination and restriction within the framework of the fully integrated internal market, 1 (12), in F. VANISTENDAEL (Ed.), EU Freedoms and Taxation, Amsterdam, 2006. (131) Il divieto di qualsiasi misura non discriminatoria è sancito espressamente dall’art. 28 del Trattato Ce in relazione alla libera circolazione delle merci. Per un’approfondita ricostruzione del significato di tale disposizione nella “Costituzione economica europea”, cfr., M. POIARES MADURO, We The Court. The European Court of Justice and the European Economic Constitution, Oxford, 1998, 61 ss.; per i profili fiscali, A. CORDEWENER, Europäische Grundfreiheiten und nationales Steuerrecht, Köln, 2002, 219-222; 254 ss. (132) La sintesi di questa evoluzione è descritta dalla sentenza 3 ottobre 2000, causa C-58/98, J. Corsten, in Racc., I-7919, para. 33 della motivazione: “risulta da giurisprudenza costante che l’art. 59 del Trattato prescrive non solo l’eliminazione di qualsiasi discriminazione nei confronti del prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro in base alla sua cittadinanza, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli degli altri Stati membri, allorché essa sia tale da vietare, da ostacolare o da rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro ove fornisce legittimamente servizi analoghi” (enfasi

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ovvero non discriminatoria – sarebbe l’elemento comune di tale nozione, oltre all’impossibilità di riferirne il fondamento teorico al principio di non discriminazione (o di eguaglianza).

La situazione che meglio si presta ad identificare questi casi è quella delle discipline nazionali che richiedono, al fine dell’esercizio di una data attività, il possesso di una particolare qualifica professionale(133). Sebbene i requisiti previsti dalla disciplina nazionale si applichino indistintamente ai cittadini ed agli stranieri, questi ne risultavano particolarmente svantaggiati in ragione del fatto che già possono vantare una simile qualificazione professionale acquisita conformemente alle regole del paese di origine(134).

Il divieto di misure nazionali indistintamente applicabili si risolve, in sostanza, nell’applicazione del fondamentale principio comunitario del “mutuo riconoscimento”, in base al quale lo stato di prestazione dei servizi non deve opporre al prestatore condizioni o requisiti per lo svolgimento dell’attività economica già soddisfatti conformemente alla legislazione del proprio paese di origine(135). Il principio del mutuo riconoscimento rappresenta uno strumento giuridico alternativo, di natura negativa, all’armonizzazione degli ordinamenti statali nella misura in cui obbliga il

aggiunta). Una delle prime formulazioni del divieto di misure indistintamente applicabili si trova nella sentenza 25 luglio 1991, causa C-76/90, M. Säger v. Dennemeyer & Co Ltd., in Racc., I-4221, para. 12 della motivazione. In dottrina, cfr., P. OLIVER, W.H. ROTH, The Internal Market and the Four Freedoms, Comm. Mark. Law Rev., 2004, 407 (411 ss.); F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 101 ss. (133) Per il caso delle guide turistiche, cfr. sentenze 26 febbraio 1991, causa C-154/89, Commissione delle Ce v. Repubblica francese, in Racc., I-659; causa C-180/89, Commissione delle Ce v. Repubblica italiana, in Racc., I-709; causa C-198/89, Commissione delle Ce v. Repubblica ellenica, in Racc., I-727. (134) Norme indistintamente applicabili ritenute non compatibili con la libera prestazione dei servizi sono state individuate nell’obbligo dell’impresa prestatrice di avere la sede legale o altra dipendenza nel territorio dello Stato (sentenza 7 febbraio 2002, causa C-279/00, Commissione delle Ce v. Repubblica italiana, in Racc., I-1425); ovvero nell’iscrizione nel registro delle imprese di operatori stabiliti in altri paesi membri (sentenza 9 luglio 1997, cause riunite C-34/95, C-35/95 e C-36/95, Konsumentombudsmannen (KO) v. De Agostini (Svenska) Förlag AB e TV-Shop i Sverige AB, in Racc., I-3843); ovvero norme che vietino la prestazione di servizi di promozione telefonica di servizi finanziari sia a soggetti residenti sia a soggetti non residenti sul territorio (sentenza 10 maggio 1995, causa C-384/93, Alpine Investments Bv v. Minister Van Financiën, in Racc., I-1141). (135) Il principio venne originariamente elaborato nel settore della libera circolazione delle merci, al fine di imporre il riconoscimento delle caratteristiche tecniche dei prodotti importati (cfr., Corte di giustizia, sentenza 20 febbraio 1979, causa 120/78, Rewe-Zentral AG v. Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, in Racc., 649, para. 14 della motivazione) e, quindi, esteso anche al riconoscimento delle cognizioni e qualifiche soggettive acquisite nello stato di origine (sentenza 7 maggio 1991, causa C-340/89, I. Vlassopoulou v. Ministerium für Justiz, Bundes- und Europaangelegenheiten Baden-Württemberg, in Racc., I-2357, para. 15 della motivazione).

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paese di destinazione a riconoscere la disciplina giuridica del paese dell’origine. La vis espansiva di questa interpretazione è stata compensata dalla c.d. rule of reason che consente di non estendere il riconoscimento della disciplina straniera qualora le misure statali siano necessarie a soddisfare “esigenze imperative attinenti, in particolare, all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori”(136) (enfasi aggiunta).

In termini unitari, e di sintesi, si può rilevare che la ratio che accomuna le diverse interpretazioni delle libertà fondamentali è l’effetto ostativo delle misure nazionali all’accesso del mercato interno (“market access test”)(137). L’interpretazione giurisprudenziale conferma, in questo modo, che il carattere unitario delle disposizioni deve essere rinvenuto nella strumentalità alla costituzione e funzionamento del mercato interno. Come già si è detto a proposito dell’armonizzazione fiscale, anche le libertà fondamentali comunitarie non sono riconosciute dall’ordinamento comunitario per sé, come “diritti della persona” (fondamentali o meno), ma esclusivamente nella misura necessaria all’instaurazione ed al mantenimento del mercato interno.

Dalla impossibilità di ridurre i vari significati delle libertà fondamentali al principio di non discriminazione si deriva, altresì, che esse tendono ad avvicinarsi, in alcune applicazioni, alla natura e struttura propria delle libertà economiche, nella specie delle libertà di movimento(138). (136) Corte di giustizia, causa 120/78, Rewe-Zentral Ag, para. 8 della motivazione. (137) Di “teoria dell’ostacolo” parla T. BALLARINO, Manuale di diritto dell’Unione europea, Milano, 2001, 436. (138) Concorda su questa duplicità di significato M. LEHNER, Limitation of the national power of taxation by the fundamental freedoms and non-discrimination clauses of the EC Treaty, in EC Tax Rev., 2001, 5 (7): “It therefore seems proper to conceive the concept of fundamental freedoms as an umbrella concept which is put in concrete terms by the non-discrimination clauses (which are equality-based) and the prohibition of restrictions (which are designed as liberty rights)”. In realtà, come si dirà nel testo, non sembra corretta la distinzione fra non discriminazione e restrizione perché tali termini sono utilizzati in maniera sostanzialmente indifferente dalla Corte comunitaria. La distinzione assume rilevanza, diversamente, fra principio di non discriminazione (o divieto di restrizione) e misure indistintamente applicabili (o non discriminatorie). Parte della dottrina ha notato che, a partire dal caso Gebhard (sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94, R. Gebhard v. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Milano, in Racc., I-4165) si sarebbe prodotto “a qualitative leap” nella interpretazione delle libertà fondamentali. In particolare, l’assenza, in alcuni casi giurisprudenziali, di qualsiasi elemento di estraneità all’ordinamento giuridico statale obbligherebbe a ripensare le libertà fondamentali non più “as a mere right to move, but rather as a right to pursue an economic activity in another country or even, in the Gourmet type of situations, in one’s own country. The Community rights then becomes akin to the claim that, in national contemporary liberal democracies, citizens have against their own State not to be unjustly limited in their

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6.2. Le libertà fondamentali come limite alla potestà impositiva degli stati membri. Irrilevanza delle “mere disparità” fra i sistemi tributari e delle misure applicabili indistintamente.

La Corte di giustizia ha esteso l’applicazione delle libertà fondamentali alla materia tributaria a partire dalla famosissima sentenza avoir fiscal del 1986(139). Non appare superfluo ricordare che le libertà fondamentali sono applicabili alle sole imposte dirette(140), in ragione dell’esistenza di uno specifico divieto di discriminazione fiscale dei prodotti, che normalmente costituiscono il presupposto delle imposte indirette.

Anche in materia fiscale si distinguono agevolmente due diversi orientamenti giurisprudenziali, riconducibili al principio di non discriminazione in ragione della nazionalità, rispettivamente, nello stato della fonte del reddito (principio di non discriminazione in senso proprio o

freedom, be this freedom economic or of another kind”. Così, E. SPAVENTA, From Gebhard to Carpenter: Towards a (non)-Economic European Constitution, in Comm. Mark. Law Rev., 2004, 743 (750 e 765). (139) Corte di giustizia, sentenza 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione delle Ce v. Repubblica francese, in Racc., 273. (140) Le questioni problematiche connesse a tale estensione possono sostanzialmente ridursi a due: la competenza esclusiva degli stati membri in materia di imposte dirette e la residenza fiscale quale criterio personale di collegamento di tali imposte al territorio di uno stato. Quanto al primo ordine di questioni, la Corte ha, fin dalla sentenza avoir fiscal, considerato l’art. 43 del Trattato un diritto “assoluto” che, come tale, “non può giustificare disparità di trattamento”, neppure nei settori non armonizzati del diritto comunitario. La più matura formulazione di questo orientamento si trova nelle pronunce successive. Cfr., ad esempio, 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer plc v. David Halsey (Her Majesty’s Inspector of Taxes), non ancora pubblicata, para. 29 della motivazione: “si deve rammentare che, secondo una giurisprudenza costante, se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario”. Costituendo uno degli elementi fondamentali su cui poggia la definizione di mercato interno, tali diritti non troverebbero alcun limite nel riparto delle competenze fra Unione europea e stati membri. Quanto ai criteri di classificazione vietati, la soluzione era già implicita nella giurisprudenza in tema di discriminazione indiretta o dissimulata di cui al caso Sotgiu. Si veda a questo proposito la sentenza 8 maggio 1990, causa 175/88, K. Biehl v. Administration Des Contributions, in Racc., I-1779, para. 13 e 14 della motivazione: “si deve rilevare inoltre che, secondo la giurisprudenza della Corte, le norme relative alla parità di trattamento vietano non soltanto le discriminazioni palesi in base alla cittadinanza, ma anche qualsiasi discriminazione dissimulata che, basandosi su altri criteri di distinzione, pervenga di fatto al medesimo risultato. (...) . A questo proposito va osservato che il criterio che ricollega alla residenza nel territorio nazionale l’eventuale rimborso dell’imposta versata in eccesso, sebbene si applichi indipendentemente dalla cittadinanza del contribuente interessato, rischia di danneggiare in particolare i contribuenti cittadini di altri Stati membri, giacché saranno spesso questi ultimi a lasciare il paese o a stabilirvisi durante l’anno”.

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Host State Discrimination) e nello stato di residenza (divieto di restrizione o Home State Restriction) (141).

Non sembra, diversamente, si possa estendere alla materia fiscale il divieto di misure non discriminatorie o indistintamente applicabili(142). Questa conclusione ammette tuttavia dei margini di incertezza. In primo luogo, la Corte di giustizia non ha mai escluso espressamente l’estensione del divieto di misure non discriminatorie alla materia fiscale. Per contro, il caso Futura Participations(143), sembra proprio un esempio appartenente a questa categoria. Nel caso di specie, infatti, la Corte ha giudicato incompatibile con l’art. 43 del Trattato Ce l’obbligo di tenuta di una separata contabilità – in aggiunta a quella della casa madre situata in un altro paese membro – per la stabile organizzazione, condizione per permettere il riporto delle perdite fiscali in misura non forfettaria. La peculiarità del caso, sottolineata dalla dottrina, consiste nel fatto che tale

(141) Per una ricostruzione dell’evoluzione delle libertà fondamentali nella giurisprudenza comunitaria in materia tributaria, cfr. F. TESAURO, Il ruolo della Corte di Giustizia nel coordinamento della tassazione delle società, in TributImpresa, 2004, 3 ss.; C. SACCHETTO, Le libertà fondamentali ed sistemi fiscali nazionali attraverso la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE in materia di imposte dirette, 43 ss., in V. UCKMAR (coord. da), La normativa tributaria nella giurisprudenza delle corti e nella nuova legislatura. Atti del Convegno gli ottant’anni di Diritto e Pratica Tributaria, Padova, 2007; V. UCKMAR, Il ruolo della Corte costituzionale in materia tributaria nell’era della Corte di Giustizia Europea, 283 (284 ss.), in L. PERRONE e C. BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006; A. FANTOZZI, Dalla non discriminazione all’eguaglianza in materia tributaria, cit., 194 ss. La giurisprudenza comunitaria utilizza i termini discriminazione e restrizione in modo sostanzialmente interscambiabile. Un esempio di questo uso alternativo può trovarsi nella sentenza 12 dicembre 2006, causa C-446/04, Test Claimant in the FII Group Litigation v. Commissioners of Inland Revenue, non ancora pubblicata. In dottrina, M. GAMMIE, The compatibility of national tax principles with the single market, 105 (108), in F. VANISTENDAEL (Ed.), EU Freedoms and Taxation, Amsterdam, 2006: “a confusing word is “discrimination”. At first glance the Court is not always consistent or particularly careful in its use of this word. It appears to use the word not only to refer to nationality discrimination but also in a more general sense of any difference (of which discrimination is but one example) that affects market access. As a result, it is not always clear whether the Court regards the discrimination as involving a breach of the nationality non-discrimination principle or of the market access principle”. (142) Se ne veda l’accurata indagine giurisprudenziale svolta da J. SNELL, Non-discriminatory Tax Obstacles in Community Law, in Int. Comp. Law Quart., 2007, 339 (349 ss.). L’Autore individua – 355 – le ragioni di tale mancata estensione nella “political sensitivity of fiscal issues”, in ragione del fatto che “regulation and taxation pursue fundamentally different objectives and are therefore legitimized in different ways” e, da ultimo, che l’estensione produrrebbe “formidable practical problems”. (143) Corte di giustizia, sentenza 15 maggio1997, causa C-250/95, Futura Participations SA and Singer v. Administration des contributions, in Racc., I-2471.

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illegittimità riguardava una norma procedurale, non sostanziale, della disciplina del tributo(144).

In secondo luogo, la giurisprudenza ha accolto il concetto di “mere disparità” fra i diversi sistemi tributari statali ed escluso che tali situazioni possano costituire una violazione delle libertà fondamentali. Non è tuttavia compito facile distinguere questa categoria da quella delle disposizioni (fiscali) non discriminatorie o indistintamente applicabili.

Il termine “mere disparità” ricorre nella causa Schempp ove la Corte rileva che “il trattamento sfavorevole addotto dal sig. Schempp deriva, in realtà, dal fatto che il regime tributario applicabile agli assegni alimentari nello Stato membro di residenza della sua ex moglie è diverso da quello adottato dallo Stato membro in cui egli risiede” e da ciò consegue che “l’art. 12 CE non riguarda le eventuali disparità di trattamento che possono derivare, per le persone e per le imprese soggette al diritto comunitario, dalle divergenze esistenti tra le legislazioni dei vari Stati membri, dal momento che ciascuna di dette legislazioni si applica a chiunque sia ad essa soggetto, secondo criteri oggettivi e indipendentemente dalla nazionalità”(145). La questione riguardava la deducibilità ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche dell’assegno di mantenimento corrisposto al coniuge non residente. La legislazione fiscale tedesca subordinava (e subordina) la deducibilità di tali somme alla loro effettiva imposizione nell’altro stato membro di residenza. Poiché, nel caso di specie, l’Austria non assoggettava ad imposizione tali redditi, le somme corrisposte a titolo di mantenimento non erano deducibili. La Corte ha ritenuto che il sistema tributario tedesco disciplinasse in maniera coerente la condizione di deducibilità delle somme pagate a titolo di assegno di mantenimento poiché sia quelle corrisposte a soggetti residenti (art. 22, punto 1a, Einkommensteuergesetz) sia quelle corrisposte a non residenti potevano essere dedotte solo se imponibili per il percettore del reddito. Di conseguenza, la differenza di trattamento nel caso di specie discenderebbe, nell’interpretazione della Corte, dalla appartenenza dei soggetti a due diversi ordinamenti tributari statali.

(144) Maggiori difficoltà di sistemazione trovano i casi Sandoz (sentenza 14 ottobre 1999, causa C-439/97, Sandoz GmbH v. Finanzlandesdirektion für Wien, Niederösterreich und Burgenland, in Racc., I-7041) e De Coster (sentenza 29 novembre 2001, causa C-17/00, F. De Coster v. Collège des bourgmestre et échevins de Watermael-Boitsfort, in Racc., I-9445). Per i dubbi interpretativi che tali casi pongono, si veda A. CORDEWENER, The prohibitions of discrimination and restriction within the framework of the fully integrated internal market, cit., 28-29; R. MASON, A Theory of Tax Discrimination, Jean Monnet Working Paper 9/2006, 34 ss. (145) Corte di giustizia, 12 luglio 2005, causa C-403/03, E. Schempp v. Finanzamt München V, non ancora pubblicata, para. 32 e 34 della motivazione.

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In realtà, come è stato dimostrato(146), il caso de quo dovrebbe farsi rientrare nelle consuete forme di restrizione prodotte da disposizioni discriminatorie, poiché il sistema tributario tedesco non richiedeva l’effettivo assoggettamento ad imposizione degli assegni di mantenimento in capo al percipiente. In virtù del minimo esente, infatti, si possono produrre delle situazioni in cui è ammessa la deducibilità delle somme corrisposte anche se non imponibili in capo al soggetto percipiente, producendo un differente trattamento fra la situazione interna e quella trasfrontaliera.

Un espresso riferimento alla non illegittimità comunitaria delle “disparità fiscali” è contenuto anche in un obiter dicta del caso (non fiscale) Peralta. Al para. 34 della motivazione, la Corte osserva che “in mancanza di armonizzazione comunitaria, uno Stato membro può, direttamente o indirettamente, imporre regole tecniche, che sono proprie ad esso e che non si ritrovano necessariamente negli altri Stati membri, ad imprese di trasporto marittimo che, come quella che occupa il signor Peralta, sono stabilite sul suo territorio e utilizzano navi che battono la sua bandiera. Ma le difficoltà che possono derivarne per queste imprese non pregiudicano la libertà di stabilimento ai sensi dell’art. 52 del Trattato. Infatti, queste difficoltà non hanno in via di principio una natura diversa da quelle che possono avere la loro origine nelle disparità tra le legislazioni nazionali, relative ad esempio al costo del lavoro, agli oneri sociali o al regime fiscale”(147).

La più attenta dottrina ha cercato di classificare le tipologie di misure che potrebbero rientrare fra quelle non discriminatorie o indistintamente applicabili incompatibili con le libertà fondamentali. Un primo gruppo comprende quelle norme (fiscali) che “due to their mere existence and close link to a particular economic activity, cause an absolute burden to cross-border transactions”(148). Nella seconda categoria rientrano le norme (fiscali) che causano un doppio onere (“dual burden”) ad una specifica attività transfrontaliera(149).

(146) Da R. MASON, A Theory of Tax Discrimination, cit., 48. (147) Corte di giustizia, sentenza 14 luglio 1994, causa C-379/92, Procedimento penale a carico di M. Peralta, in Racc., I-3453, para. 34 della motivazione. (148) A. CORDEWENER, The prohibitions of discrimination and restriction within the framework of the fully integrated internal market, cit., 35. (149) A. CORDEWENER, The prohibitions of discrimination and restriction within the framework of the fully integrated internal market, cit., 36. Cfr., anche, B.J.M. TERRA P.J. WATTEL, European Tax Law, The Hague, 2005, 53 ss., i quali definiscono le disparità come “obstacles to intra-Community economic activity caused by differences between the legal systems of two or more different Member States”; M. LEHNER, Tax consequences resulting from the application of the non-restriction principle in the areas other than taxation:

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L’applicazione alla materia tributaria del divieto di misure indistintamente applicabili legittimerebbe il confronto di norme appartenenti ad ordinamenti giuridici diversi che regolano una medesima fattispecie transnazionale(150). Tale confronto presuppone, ovviamente, un singolo ordinamento tributario europeo(151) o, almeno, un sistema delle imposte dirette armonizzato nella sua struttura fondamentale perché, in caso contrario, qualsiasi disposizione fiscale nazionale risulterebbe incompatibile con le libertà fondamentali nella misura in cui il debito d’imposta del soggetto passivo risulti superiore alle situazioni similari puramente interne. Una tale soluzione interpretativa accentuerebbe in maniera significativa i problemi di compatibilità fra le libertà fondamentali ed i principi che regolano il riparto delle competenze in materia tributaria. 6.3. (segue). Il divieto di discriminazione fiscale in materia di imposte dirette. I diversi metodi di confronto e la coerenza dei sistemi tributari nella prospettiva statale e comunitaria.

Nella assoluta maggioranza dei casi in materia fiscale, la giurisprudenza comunitaria ha interpretato le libertà fondamentali come espressione del generale principio di non discriminazione, conformemente

distinction between discriminatory and non-discriminatory restrictions, 47 (48 ss.), in F. VANISTENDAEL (Ed.), EU Freedoms and Taxation, Amsterdam, 2006. La illegittimità del doppio onere fiscale, nella forma della doppia imposizione generata da due distinte potestà impositive statali, è stata affrontata e risolta negativamente nella sentenza 12 maggio 1998, causa C-336/96, Coniugi Gilly v. Directeur des services fiscaux du Bas-Rhin, in Racc., I-2793. (150) Affermare che l’applicazione delle misure non discriminatorie postuli un confronto fra diverse fattispecie non significa ricondurre tale divieto al principio di non discriminazione poiché, quest’ultimo, presuppone necessariamente che il confronto sia ristretto alle norme di un solo ordinamento giuridico. Il confronto fra due fattispecie in ragione di norme aventi origine in ordinamenti diversi produrrà sempre, per definizione, un diverso trattamento. All’opposto, il principio di non discriminazione (o di eguaglianza) assume un significato ed un senso solo se il confronto avviene fra norme omogenee, in quanto appartenenti ad un medesimo ordinamento. Su questi aspetti, cfr. E. REIMER, Die Auswirkungen der Grundfreiheiten auf das Ertragsteuerrecht der Bundesrepublik Deutschland – Eine Bestandsaufnahme –, 39 (58-59), in M. LEHNER (Hrsg.), Grundfreiheiten im Steuerrecht der EU-Staaten, München, 2000): “Man könnte zwar hier eine Art Gesamtschuld beider beteiligter Staaten annehmen. Sie würde dazu führen, dass der überbelastete Bürger sich einen der beiden Staaten herausgreifen und von ihm die Reduktion der Steuern bis zu der Gesamtbelastung verlangen könnte, die sich ergäbe, wenn sein Fall sich allein in diesem Staat abspielte”. (151) In questo senso, M. LEHNER, Tax consequences resulting from the application of the non-restriction principle in the areas other than taxation: distinction between discriminatory and non-discriminatory restrictions, cit., 71.

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ad una struttura ternaria di giudizio (fattispecie transnazionale, norma statale e fattispecie ipotetica esclusivamente interna)(152).

Oltre alla suaccennata distinzione fra Host State Discrimination e Home State Restriction, questa giurisprudenza può essere ricostruita sistematicamente anche in ragione della diversa estensione dei termini di confronto assunti nel giudizio di accertamento della discriminazione. Un primo gruppo di sentenze evidenzia che tali termini sono ristretti all’interno di un singolo ordinamento giuridico statale. All’opposto, in un secondo gruppo di casi l’oggetto del confronto è ampliato ad elementi di diritto o di fatto estranei all’ordinamento statale in cui avviene la comparazione.

Nel primo gruppo rientrano i casi relativi al trattamento fiscale della stabile organizzazione(153) e alla mancata estensione ai soggetti non residenti di agevolazioni fiscali direttamente connesse al reddito prodotto(154). In tutti questi casi, gli elementi di fatto costitutivi della fattispecie transnazionale e quelli di diritto che la disciplinano sono ristretti ad un solo ordinamento statale(155). La discriminazione deriva dunque dal fatto che tale ordinamento ha adottato, nella definizione del proprio sistema, dei tributi o degli istituti tributari, un criterio di distinzione, quello della residenza, proibito dal diritto comunitario.

Questa giurisprudenza è quindi comodamente riconducibile all’operare di un principio di eguaglianza formale e il differente trattamento fiscale è causato dall’incoerenza o irrazionalità interna al sistema tributario rispetto al criterio della nazionalità previsto dalle libertà fondamentali(156). Gli effetti prodotti sull’ordinamento costituzionale

(152) P. PISTONE, The Impact of Community Law on Tax Treaties. Issues and Solutions, The Hague-London-New York, 2002, 48 ss.; F.A. GARCÍA PRATS, EC Law and Direct Taxation: Towards a Coherent System of Taxation?, Report to the EATLP Annual Conference, Helsinki 7-9 June 2007, 13. (153) Si veda, fra le tante, Corte di giustizia, causa 270/83, avoir fiscal. (154) La prima pronuncia sul tema è la sentenza 12 giugno 2003, causa C-234/01, A. Gerritse v. Finanzamt Neukölln-Nord, non ancora pubblicata. (155) Ad eccezione, ovviamente, di quelli relativi alla residenza del soggetto. (156) Concorda, A. FANTOZZI, Dalla non discriminazione all’eguaglianza in materia tributaria, cit., 201. Un simile orientamento è accolto anche dalla US Supreme Court nell’interpretazione della Privileges and Immunities Clause. Nella sentenza Austin v. New Hampshire, 420 US 656 (1975), la Corte ha rilevato che “the constitutionality of one State’s statutes affecting nonresidents [cannot] depend upon the present configuration of the statutes of another State” (668). Ulteriori indicazioni giurisprudenziali e dottrinali sono rinvenibili in M. DE WOLF, Souverainité fiscale et principe de non discrimination dans la jurisprudence de la Cour de Justice des Communautés européennes et de la Cour suprême des Etats-Unis, Bruxelles, 2005, 115 ss.; R. MASON, A Theory of Tax Discrimination, cit., 16 ss.; T.A. KAYE, Tax Discrimination: A Comparative Analysis of US and EU Approaches, 191 (215

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italiano dalle libertà fondamentali possono dunque essere ricondotti ad una integrazione dei criteri di trattamento vietati previsti dall’art. 3, comma 1, Cost.(157). Questo significa, dunque, che il legislatore tributario statale, nella determinazione del dovere tributario non è vincolato in modo assoluto dalle libertà fondamentali, ma può decidere in via primaria conformemente alle proprie regole costituzionali. Le libertà fondamentali importano che l’esercizio della competenza in materia tributaria sia coerente con il principio della non discriminazione in base alla nazionalità o, più precisamente, che la potestà tributaria non distingua fra residenti e non residenti nei casi similari(158).

Nelle prime pronunce sulle libertà fondamentali, la Corte si era mossa lungo questa linea interpretativa ritenendo che il differente trattamento fiscale potesse essere giustificato dalla coerenza fiscale del sistema tributario. Nella sentenza Bachmann, la Corte ha giustificato il regime fiscale belga che consentiva la deducibilità esclusivamente ai premi corrisposti a società assicurative residenti nel territorio dello stato perché correlata alla successiva imposizione al momento della maturazione delle rendite. Come rilevato dalla Corte, “la coerenza di siffatto regime fiscale, la cui configurazione spetta a ciascuno Stato membro, presuppone, pertanto, che, nell’ipotesi in cui sia obbligato ad ammettere la detrazione dei contributi d’assicurazione sulla vita versati in un altro Stato membro, lo Stato in questione possa percepire l’imposta sulle somme dovute dagli

ss.), in R.S. AVI-YONAH, J.R. HINES JR., M. LANG, Comparative Fiscal Federalism. Comparing the European Court of Justice and the US Supreme Court’s Tax Jurisprudence, Alphen aan den Rijn, 2007. (157) Si ricorda, a tal proposito, che la dottrina considera le condizioni (sesso, razza, ecc.) dettate dall’art. 3, comma 1, Cost. come “una serie di specifici divieti di discriminazione” che non condizionano la costruzione di un generale principio di eguaglianza. Questa conclusione è confermata anche dal fatto che, mentre il principio costituzionale di eguaglianza è principio generale, nell’ordinamento comunitario il principio di eguaglianza nasce come divieto di discriminazione in settori specifici. In questo senso, F. SORRENTINO, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia delle Comunità europee, cit., 180 ss.; F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 223 ss. (“il principio della parità di trattamento giuridico, enunciato dall’art. 3, comma 1, Cost., sembrerebbe, dunque, semplicemente ribadito, sotto alcuni aspetti e, sotto altri, integrato e sviluppato dal diritto comunitario”). (158) Si ricorda che la distinzione in ragione della residenza non costituisce un criterio di classificazione normativa incompatibile per natura con il diritto comunitario. Tale criterio produce effetti discriminatori esclusivamente nei casi in cui la situazione di residente e non residente è di fatto simile. In questo senso, causa C-279/93, Schumacker, para. 31 della motivazione: “in materia di imposte dirette la situazione dei residenti e quella dei non residenti non sono di regola analoghe”.

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assicuratori”(159). Questo orientamento è stato successivamente esteso a ricomprendere, con la sentenza Wielockx, la disciplina convenzionale e, definitivamente modificato a partire dalla pronuncia Verkooijen(160), che ha ritenuto non applicabile la coerenza fiscale quando manca “un legame diretto tra la concessione di un vantaggio fiscale e la compensazione di tale vantaggio con un prelievo fiscale perché si tratta, per esempio, d’imposte distinte o del trattamento fiscale di soggetti passivi diversi”(161) estendendo, definitivamente, il confronto a norme e fatti di più ordinamenti giuridici.

La conclusione raggiunta, che il principio di non discriminazione in ragione della nazionalità costituisce una integrazione dell’art. 3, comma 1, Cost., non dovrebbe porsi in contrasto nemmeno con l’art. 53 Cost., nella parte in cui richiede a “tutti” di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Conformemente ai risultati di una recente dottrina, infatti, il pronome “tutti” esprimerebbe, in termini generali, la necessità che il dovere tributario sia basato sulla “partecipazione alla comunità statuale (ossia l’essere ad essa appartenenti)” ma che la nozione di appartenenza non possa essere concepita in termini unitari, “presentandosi invece in gradi e livelli di intensità diversi”(162). Conformemente a questa ricostruzione, dunque, la distinzione fra residenti e non residenti sarebbe giustificata dalla diversa intensità del collegamento con il territorio da ravvisarsi “nell’esercizio di diritti e poteri riconosciuti dall’ordinamento rivolti alla realizzazione di concreti interessi economici, sociali e politici del soggetto”(163). Invero, come si dirà tra breve, il principio di non discriminazione non proibisce agli stati membri di imporre ai propri residenti un “più intenso” dovere tributario rispetto ai non residenti, come sembrerebbe emergere la ricostruzione sopra proposta, bensì che i non residenti non siano discriminati, nella sostanza o nella forma, rispetto ai residenti.

All’opposto, in un secondo (consistente) gruppo pronunce la definizione giudiziale della fattispecie transnazionale è allargata ad elementi di diritto o di fatto estranei all’ordinamento statale in cui il confronto è effettuato. Il caso Schumacker è, sotto questo profilo esemplare, poiché il trattamento discriminatorio del lavoratore dipendente (159) Corte di giustizia, sentenza 28 gennaio 1992, causa C-204/90, H.M. Bachmann v. Stato belga, in Racc., I-249, para. 23 della motivazione. (160) Corte di giustizia, sentenza 6 giugno 2000, causa C-35/98, Staatssecretaris van Financiën v. B. G. M. Verkooijen, in Racc., I-4071, para. 57 della motivazione. (161) Corte di giustizia, sentenza 18 settembre 2003, causa C-168/01, Bosal Holding BV v. Staatssecretaris van Financiën, in Racc., I-9409, para. 29-30 della motivazione. Sul punto, si rinvia, per tutti a F. TESAURO, Il ruolo della Corte di Giustizia nel coordinamento della tassazione delle società, cit., 5-6. (162) G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit., 275-276. (163) Ancora G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit., 295.

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non residente dipendeva non solo dalla mancata considerazione della situazione personale del soggetto non residente da parte del sistema tributario tedesco ma anche dalla disciplina belga che non consentiva la concessione di agevolazioni fiscali personali e familiari ai residenti senza redditi di fonte interna. Il confronto, in questo caso, non è limitato al solo regime impositivo tedesco, ma coinvolge il, ed è condizionato dal, trattamento fiscale del soggetto non residente nel paese di residenza(164). Questo stesso metodo è stato utilizzato anche nel caso Manninen, in cui il credito d’imposta per redditi derivanti da partecipazioni estere deve essere commisurato al livello di imposizione dello stato della fonte del reddito(165) (164) Corte di giustizia, causa C-279/93, Schumacker, para. 38 della motivazione: “per quanto riguarda un non residente che percepisce in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede la parte essenziale dei suoi redditi e la quasi totalità dei suoi redditi familiari, la discriminazione consiste nel fatto che la situazione personale e familiare di questo non residente non è presa in considerazione né nello Stato di residenza né in quello dell’occupazione” (enfasi aggiunta). Nel senso del testo, A. CORDEWENER, Europäische Grundfreiheiten und nationales Steuerrecht, cit., 493 ss.; ID., The prohibitions of discrimination and restriction within the framework of the fully integrated internal market, cit., 23-24; D. WEBER, In search of a (new) equilibrium between tax sovereignty and the freedom of movement within the EC, Deventer, 2006, 42. Nella stessa sentenza, la Corte richiama, per la prima volta, il concetto della capacità contributiva. Tale espressione è utilizzata per indicare tutti i redditi prodotti e la situazione personale e familiare di un soggetto (es. para. 32 della motivazione). Si tratta, quindi, di un concetto di capacità contributiva qualificata dalla considerazione di alcune delle condizioni personali del soggetto. A tale qualificazione, tuttavia, non deve darsi un peso eccessivo poiché, nel contesto della sentenza, la capacità contributiva è utilizzata esclusivamente quale termine di comparazione per accertare la condizione di similarità fra residenti e non residenti. In questo senso, non è intesa in senso assoluto, diretta a determinare l’attitudine alla contribuzione di un soggetto, quanto, diversamente, quale elemento di comparazione che integra la nozione di non discriminazione. Concorda con queste conclusioni, F.A. GARCÍA PRATS, La jurisprudencia del TJCE y el artículo 33 de la Ley del Impuesto de la Renta de no Residentes (De la Asunción del principio de capacidad económica come principio del ordenamiento comunitario), in Rev. Esp. Der. Fin. (Civitas), 2003, 61 (76-77): “el juez comunitario exige la proyección del principio de capacidad económica en materia de imposición sobre la renta como consecuencia lógica de la aplicación del principio comunitario de no discriminación, a pesar de que el ordenamiento comunitario no recoja en su seno la exigencias de aquel principio, si bien las mismas deben incorporarse al acervo de los derechos alegables por los sujetos que ejercen las libertades comunitarias”. (165) Corte di giustizia, sentenza 7 settembre 2004, causa C-319/02, P. Manninen, non ancora pubblicata, para. 46 della motivazione: “la concessione ad un azionista fiscalmente residente in Finlandia e che detenga azioni di una società avente sede in Svezia di un credito d’imposta calcolato in base all’imposta da questa dovuta a titolo d’imposta sulle società in tale ultimo Stato membro non comprometterebbe la coerenza del regime tributario finlandese e costituirebbe una misura meno restrittiva per la libera circolazione dei capitali di quella prevista dalla normativa fiscale finlandese” (enfasi aggiunta). Nello stesso senso, sentenza 6 marzo 2007, causa C-292/04, W. Meilicke, H.C. Weyde, M. Stöffler v. Finanzamt Bonn-Innenstadt, non ancora pubblicata, para. 28 ss. della motivazione.

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e nel caso Marks and Spencer, in cui la restrizione causata dal sistema britannico dipende, alternativamente, dal regime fiscale di riporto delle perdite del paese di residenza della società controllata ovvero dal fatto che alla controllata non sia consentito il riporto delle perdite(166).

In queste pronunce, il giudizio di comparazione non è ristretto agli elementi di diritto e di fatto di un solo ordinamento giuridico ma impone il confronto fra una fattispecie, quella transnazionale, regolata da norme appartenenti a due (o più) ordinamenti o condizionata da fatti appartenenti a due (o più) ordinamenti ed una fattispecie esclusivamente interna (tertium comparationis). Nonostante l’assenza di un ordinamento tributario unico (o armonizzato), il confronto è spostato, dal singolo ordinamento statale, all’ordinamento comunitario nel suo complesso. La coerenza e l’irrazionalità non sono più attributi verificabili in riferimento ad un solo sistema tributario, ma sono condizioni presupposte all’intero sistema tributario comunitario (coerenza comunitaria).

I confini fra i due metodi di confronto non sono ancora ben definiti. Il caso paradigmatico è costituito dalla tassazione del dividendi trasfrontalieri e, in particolare, dal caso Denkavit Internationaal(167). In questa sentenza, la Corte, dopo aver ritenuto che il sistema francese di tassazione dei dividenti corrisposti ai soggetti non residenti, che applicava una ritenuta a titolo d’imposta pari al 25% del reddito distribuito rispetto all’esenzione del 95% dei dividendi distribuiti ad un soggetto residente, fosse incompatibile con le libertà fondamentali(168), ha considerato, nell’interpretazione della seconda e terza questione pregiudiziale, congiuntamente la disciplina dello stato della fonte del reddito (Francia) e di quello di residenza del percipiente (Paesi Bassi). Conformemente a questa premessa, la discriminazione/restrizione del regime impositivo dei dividendi corrisposti a soggetti non residenti non è causata solo dalla disciplina francese, bensì dalla “applicazione combinata della Convenzione franco-olandese e della legislazione olandese” (enfasi aggiunta) (para. 47 della motivazione). La discriminazione/restrizione

(166) Corte di giustizia, causa C-446/03, Marks and Spencer, para. 56. Dalle conclusioni dell’Avvocato generale del 7 aprile 2005, para. 76, l’oggetto del confronto emerge con evidenza: “In circostanze come quelle del caso di specie, pertanto, occorre che lo Stato membro tenga conto del trattamento applicabile alle perdite delle filiali nel loro Stato di stabilimento”. In dottrina, cfr. F. VANISTENDAEL, The ECJ at the Crossroad: Balancing Tax Sovereignty against the Imperatives of the Single Market, in Eur. Tax., 2006, 413 (415). (167) Corte di giustizia, sentenza14 dicembre 2006, causa C-170/05, Denkavit International BV, Denkavit France SARL v. Ministre de l’Économie, des Finances et de l’Industrie, non ancora pubblicata. (168) Conformemente alla decisione della Corte Efta, sentenza 23 novembre 2004, causa E-1/04, Fokus Bank ASA v. The Norwegian State, represented by Skattedirektoratet (the Directorate of Taxes), in Reports of the Efta Court, 11.

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deriva quindi dall’effetto congiunto di due sistemi tributari e, in particolare, della legislazione olandese che, esentando i dividendi, non permette il corretto funzionamento della convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni.

Sulla medesima questione, nella recente sentenza Amurta, la Corte si è limitata a ribadire l’incompatibilità della disciplina fiscale statale che assoggetta a ritenuta d’imposta i dividendi corrisposti a soggetti non residenti ed esenta quelli distribuiti ai residenti, conformemente ai precedenti Focus Bank e Denkavit Internationaal (prima questione interpretativa), non affrontando, diversamente, la questione della rilevanza, ai fini della soluzione della causa, né della disciplina derivante dalla convenzione contro la doppia imposizione né di quella dell’altro stato membro perché “non è ravvisabile alcun elemento nell’ordinanza di rinvio da cui evincere che il Gerechtshof te Amsterdam abbia inteso riferirsi alle pertinenti disposizioni della convenzione contro le doppie imposizioni”(169).

L’ampliamento dei termini del giudizio di comparazione coinvolge anche un secondo profilo. Fino al caso olandese D.(170), la comparazione della fattispecie transnazionale, qualunque fosse la ricostruzione, era stata limitata ad un tertium comparationis puramente interno. Nella pronuncia citata, diversamente, il confronto è effettuato fra due soggetti non residenti appartenenti a due stati membri diversi. Nel caso di specie, come è noto, la comparazione è stata rifiutata in ragione della “reciprocità” delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione (para. 61-62 della motivazione). Lo stesso confronto è stato tuttavia considerato ammissibile nella sentenza Cadbury and Schweppes(171) e in alcuni passaggi delle conclusioni degli avvocati generali relativi ad altre cause(172). In quest’ultima pronuncia, la Corte si è limitata ad utilizzare il confronto con

(169) Corte di giustizia, sentenza 8 novembre 2007, causa C-379/05, Amurta S.G.P.S. v. Inspecteur van de Belastingdienst, non ancora publicata, para. 81 della motivazione. Le conclusioni dell’Avvocato generale del 7 giugno 2007 propendevano chiaramente per l’esclusione della rilevanza della legislazione fiscale dell’altro stato membro (para. 54). (170) Corte di giustizia, sentenza 5 luglio 2005, causa C-376/03, D. v. Inspecteur van de Belastingdienst/Particulieren/Ondernemingen buitenland te Heerlen, non ancora pubblicata. (171) Corte di giustizia, sentenza 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes plc, Cadbury Schweppes Overseas Ltd v. Commissioners of Inland Revenue, non ancora pubblicata. (172) Sul punto, cfr. A. CORDEWENER, EC law protection against “horizontal” tax discrimination on the rise – or how to play snooker in an Internal Market, in EC Tax Rev., 2007, 210 ss.; ID., The prohibitions of discrimination and restriction within the framework of the fully integrated internal market, cit., 25-26, che definisce tale tipo di confronto come “discriminazione orizzontale”.

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i soggetti non residenti al fine di rafforzare il più consueto tertium comparation costituito da una fattispecie puramente interna(173). Ancor più chiaro è stato l’Avvocato generale Mengozzi che, nella causa Columbus Container Services, individua nel “rischio di frammentazione del mercato comune implicato da disposizioni nazionali come quelle della legislazione del Regno Unito sulle SEC” il fondamento “all’origine del riconoscimento, da parte della Corte, dell’oggettiva equiparabilità tra, da un lato, la situazione di una società residente che abbia costituito una controllata in uno Stato membro in cui il livello impositivo sia inferiore a quello previsto dalla normativa del Regno Unito sulle SEC, e, dall’altro, quella delle società residenti che abbiano costituito una controllata in uno Stato membro in cui il livello impositivo sia superiore a quello previsto dalla medesima normativa. Infatti, in entrambi i casi, si tratta di una società che intende far valere il suo diritto di stabilimento nello Stato membro di sua scelta”(174).

Questa ricostruzione, necessariamente sintetica, dovrebbe aver consentito di evidenziare che, all’interno dello stesso principio di non discriminazione sotteso alle libertà fondamentali, sono identificabili distinti presupposti e differenti effetti. L’applicazione del principio di non discriminazione ristretto al solo ordinamento giuridico statale lascia sostanzialmente impregiudicata la potestà normativa tributaria degli stati membri nel settore delle imposte dirette. Conformemente a questa prospettiva, si è già anticipato, le libertà fondamentali integrerebbero le cause di discriminazione vietate dell’art. 3, comma 1, Cost., prevedendo un autonomo divieto di discriminazione del trattamento fiscale del soggetto non residente rispetto al residente(175). Tale divieto, di conseguenza, impone agli stati membri di estendere il trattamento fiscale interno a non

(173) Al para. 44 della motivazione, la Corte osserva: “se (...) una società residente ha costituito una SEC in uno Stato membro dove quest’ultima è soggetta a un minor livello impositivo nel senso della legislazione sulle SEC, gli utili realizzati dalla controllata sono, ai sensi della detta legislazione, attribuiti alla società residente e tassati in suo capo. Al contrario, se la controllata è stata costituita e assoggettata ad imposta nel Regno Unito o in altro Stato membro in cui non soggiace a un livello impositivo minore nel senso della legislazione sulle SEC, tale legislazione non trova applicazione e, conformemente alla legislazione del Regno Unito sull’imposta societaria, la società residente non viene più tassata per gli utili della controllata” (enfasi aggiunta). (174) Conclusioni AG del 29 marzo 2007, causa C-298/05, Columbus Container Services BVBA & Co v Finanzamt Bielefeld-Innenstadt, non ancora pubblicata, para. 117. (175) Questa conclusione non è lontana dalla interpretazione dell’art. 3, comma 1, Cost. da parte della Corte costituzionale. Nella sentenza 27 luglio 1982, n. 142, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, cit., 680, la Corte, pur non confrontando residenti e non residenti, dichiara che la mancata concessione della deducibilità delle spese sanitarie sostenute all’estero dal soggetto residente costituisce una discriminazione irrazionale e quindi incostituzionale.

CAPITOLO III

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residenti o a residenti con fonti di reddito (o di patrimonio) all’estero, consentendo loro la definizione del dovere tributario secondo gli obiettivi delle proprie carte costituzionali(176).

Maggiori problemi comporta l’interpretazione del principio di non discriminazione che estende il giudizio di confronto ad una pluralità di ordinamenti giuridici e, come conseguenza, ad una pluralità di sistemi tributari(177). In questo senso, come si è già si è rilevato, gli effetti sugli ordinamenti costituzionali statali sono più penetranti perché la ricerca della coerenza si sposta sul piano giuridico dell’ordinamento comunitario e l’obiettivo diviene l’eliminazione della maggiore imposizione del soggetto non residente rispetto al soggetto residente con redditi localizzati in un solo stato. Il vincolo imposto al legislatore tributario statale non si esaurisce in quello di non discriminare i non residenti (o residenti con attività all’estero) rispetto ai residenti conformemente alla disciplina interna statale, bensì di assicurare che il non residente (o residente con attività all’estero) non subisca maggiori imposizioni rispetto al residente per effetto dell’operare congiunto di due (o più) sistemi tributari.

Si prospetterebbe, in questa direzione, un percorso simile a quello avvenuto per i prodotti attraverso il c.d. “mutuo riconoscimento” delle legislazioni fiscali straniere(178). L’estensione di questo obbligo alla materia tributaria richiederebbe, in primo luogo, di determinare quale stato – quello della fonte del reddito o quello di residenza – sia tenuto ad

(176) Sul punto si vedano anche le considerazioni di M. LEHNER, Tax consequences resulting from the application of the non-restriction principle in the areas other than taxation: distinction between discriminatory and non-discriminatory restrictions, cit., 64 ss., il quale, richiamando K. VOGEL, Die Besonderheit des Steuerrecht, afferma che “he [Vogel] pointed out that taxation very directly (“unvermittelt”) poses the question of justice. This refers to the position of the individual taxpayer and constitutes an important difference of constitutional requirements necessary to justify differentiations between regulations in the field of direct taxation on one side and rules which regulate trading with goods or rendering services on the other”. (177) Questo effetto delle libertà fondamentali è stato riconosciuto anche da F. VANISTENDAEL, Le nuove fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario, 91 (120-121), in A. DI PIETRO (a cura di), Per una costituzione fiscale europea, Padova, 2008, il quale, riferendosi al “nuovo” principio di coerenza, rileva che “un simile criterio deve applicarsi non soltanto all’interno del sistema fiscale finlandese, ma anche nel contesto della tassazione transnazionale dei dividendi all’interno dell’UE. (…). Applicando il principio di coerenza nei rapporti tributari fra Stati Membri differenti, la Corte prende in considerazione il passaggio del reddito dallo Stato della fonte a quello di residenza, entrambi parte del mercato unico, verificando che nell’intero percorso siano rispettati le libertà ed il principio di non-discriminazione”. (178) Sull’impossibilità della “circolazione” della legge tributaria, cfr. R. LUPI, Concorrenza tra ordinamenti, comunità europee e prelievo tributario, 163 (164 ss.), in A. ZOPPINI (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti giuridici, Roma-Bari, 2004.

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eliminare l’ostacolo derivante dalla doppia imposizione, con conseguenze rilevanti definizione del dovere tributario.

Questa conclusione produce qualche problema anche con il riparto delle competenze comunitarie in materia fiscale che, come si è dimostrato sopra, attribuisce agli stati membri la competenza esclusiva in materia di imposte dirette, salvo i vincoli imposti dalle libertà fondamentali(179). Tali vincoli, tuttavia, devono essere ridotti a quelli che producono effetti di neutralità fiscale rispetto ai principi liberamente determinati dagli stati membri, tipicamente la non discriminazione fra soggetti non residenti e residenti (o residenti con attività all’estero), non anche la “omogeneizzazione” del trattamento fiscale complessivo di residenti e non residenti. La comparazione fra norme appartenenti a sistemi tributari diversi e la ricerca della relativa coerenza acquista significato esclusivamente – si rinvia sul punto all’insegnamento della Suprema Corte statunitense – in un sistema tributario unico o fortemente armonizzato, i cui principi ispiratori possono essere utilizzati per accertare l’esistenza o meno di una coerenza del sistema a livello comunitario. Diversamente, in un ordinamento giuridico che comprende al proprio interno sistemi tributari differenziati, la coerenza deve essere stabilita esclusivamente in relazione al singolo ordinamento secondo la regola del “trattamento nazionale”.

È appena il caso di sottolineare, da ultimo, che l’integrazione opera anche in senso inverso, dalle norme costituzionali ai trattati comunitari. Il principio di non discriminazione comunitario, infatti, esclude la c.d. reverse discrimination, ovvero la discriminazione (fiscale) dei cittadini rispetto agli stranieri (e dei residenti rispetto ai non residenti). Il principio di costituzionale di eguaglianza si differenzia, in questo caso, in maniera evidente rispetto al principio di non discriminazione comunitario, che ne integra e completa il contenuto(180).

Un caso simile si è verificato rispetto agli artt. 41 e 3 Cost. In particolare, la Corte di giustizia aveva escluso che i vincoli di protezione delle tradizioni alimentari posti dalla l. 4 luglio 1967, n. 580 a carico dei (179) Sul punto insiste particolarmente D. WEBER, In search of a (new) equilibrium between tax sovereignty and the freedom of movement within the EC, cit., 33 e 37. In senso contrario, cfr. F. VANISTENDAEL, The ECJ at the Crossroad: Balancing Tax Sovereignty against the Imperatives of the Single Market, cit., 419: “even if two national tax systems or two tax treaties are in question, the ECJ is entitled to base its decisions on the nature and the internal logic and (yes!) on the cohesion of the tax systems to eliminate double taxation, whereby one system must leave the priority to tax to another”; ID., Le nuove fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario, cit., 102, che ritiene tale conclusione derivi da “un uso improprio del principio di sussidiarietà, che invece sembra applicabile solo agli atti legislativi delle istituzioni comunitarie”. (180) Corte cost., sentenza 30 dicembre 1997, n. 443, Giur. Cost., 1997, 3904.

CAPITOLO III

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soli produttori di paste alimentari situati nel territorio italiano potessero annoverarsi fra i limiti al principio di libera circolazione delle merci. La Corte costituzionale, attraverso il combinato disposto dell’art. 3 e 41 Cost., ha estenso ai produttori stabiliti sul territorio italiano la possibilità di usufruire delle medesime condizioni dei soggetti stranieri.

In materia tributaria un caso di reverse discrimination si è presentato in relazione alla disciplina di rimborso meno favorevole dei tributi riscossi in violazione del divieto di “tasse di effetto equivalente”. La questione è molto nota. Nella sentenza Just, la Corte di giustizia dichiarò che l’incorporazione del tributo nel prezzo del bene e, quindi, la traslazione del costo economico su terzi soggetti, potesse costituire un motivo legittimo di esclusione del diritto di rimborso(181). Il legislatore italiano, con l’art. 19 del d.l. 30 settembre 1982, n. 688, integrò la norma sui pagamenti indebiti prevedendo come condizione di rimborso, per i tributi riscossi in violazione dell’ordinamento comunitario, che non fosse avvenuta la traslazione su terzi e che tale prova, solo documentale, spettasse al contribuente. Questa seconda condizione venne modificata, a causa dell’incompatibilità con l’ordinamento comunitario dell’inversione della prova e della restrizione dei mezzi probatori alle sole prove documentali(182), dall’art. 29 della l. 29 dicembre 1990, n. 428, che distingueva fra fattispecie puramente interne e “comunitarie”, assoggettando solo le prime alla disciplina più restrittiva. L’evoluzione normativa e giurisprudenziale creò dunque un doppio binario normativo per il rimborso dei tributi, quello interno meno favorevole rispetto a quello comunitario. Questa differenza di trattamento è stata ritenuta incostituzionale per violazione dell’art. 24 Cost., dalla sentenza n. 114 del 2000(183), e per violazione dell’art. 3 Cost., dalla sentenza 332 del 2002, nella parte in cui, operando l’inversione della prova, è stato leso il “canone della ragionevolezza”(184).

(181) Corte di giustizia, sentenza 27 febbraio 1980, causa 68/79, Hans Just I/S v. Ministero danese delle imposte ed accise, in Racc., 501, para. 22 seguenti della motivazione. (182) Corte di giustizia, sentenza 9 novembre 1983, causa 199/82, Amministrazione delle finanze dello Stato v. Spa San Giorgio, in Racc., 3595, para. 14 della motivazione. (183) Corte cost., sentenza 21 aprile 2000, n. 114, punto 5.1. ss. del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 896. Il parametro di costituzionalità è stato ristretto all’art. 24 Cost. a causa dell’ordinanza di rimessione del giudice a quo. Questa limitazione è sottolineata dalla Corte che ha rilevato: “premesso che il sindacato della Corte è in questa sede limitato ai parametri costituzionali evocati dai rimettenti - tra i quali non figura l’art. 3 Cost.”, lasciando trasparire che l’art. 3 Cost. fosse il parametro idoneo a risolvere il caso (punto 5.2. del considerato in diritto). (184) Corte cost., sentenza 9 luglio 2002, n. 332, punto 3.1. del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 1284.

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Come la Corte costituzionale ha rilevato, queste decisioni sono frutto di una rimeditazione della propria giurisprudenza a causa del mutamento del “quadro normativo” e delle pronunce della Corte di giustizia al fine di eliminare dall’ordinamento la disparità di trattamento fra situazioni interne e comunitarie(185). 6.4. Il divieto di discriminazione in ragione della nazionalità dei prodotti.

L’art. 90 del Trattato Ce pur presentandosi quale disposizione unitaria esprime due diverse funzioni. La prima proposizione, vietando imposizioni sui prodotti degli altri stati membri superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari, completa la disciplina dell’unione doganale e della libera circolazione delle merci(186). Come visto per le libertà fondamentali, il divieto di discriminazione è strumentale alla instaurazione ed al funzionamento del mercato interno.

La seconda proposizione, diversamente, è complementare alla disciplina sulla concorrenza, avendo quale obiettivo l’eliminazione delle imposizioni aventi natura protezionistica. In questo senso, l’art. 87 del Trattato Ce ha ad oggetto gli aiuti finanziari, fra i quali sono ricomprese le agevolazioni fiscali, diretti alle imprese, mentre l’art. 90, seconda proposizione, ha ad oggetto i prodotti(187). Stante la non omogeneità di funzione, le due disposizioni saranno oggetto di separata trattazione.

Il divieto previsto dalla prima proposizione dell’art. 90 si applica a qualsiasi imposizione sui prodotti di altri stati membri superiore a quelle sui prodotti interni similari. Il termine “imposizione” si riferisce a qualsiasi tributo e, più specificamente, qualsiasi elemento riferibile alla disciplina del tributo (aliquota, base imponibile, metodo di riscossione; sanzioni, ecc.). La valutazione comparativa richiesta dalla norma si radica intorno alla “similarità” dei prodotti. La giurisprudenza comunitaria ha interpretato il concetto di similarità in senso ampio, sostanziale, diretto ad “accertare se, nella stessa fase produttiva o distributiva, entrambi i prodotti abbiano, agli occhi del consumatore, proprietà analoghe e rispondano alle medesime esigenze”(188). La comparazione presuppone quindi l’accertamento delle (185) Sul punto si rinvia per ulteriori approfondimenti a M. ALLENA, Gli effetti giuridici della traslazione delle imposte, Milano, 2005, 84 ss. (186) Così, anche, A.E. LA SCALA, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla Costituzione dell’Unione europea, cit., 134-135. (187) In questo senso, A.J. EASSON, Taxation in the European Community, London, 1993, 49 ss.; F.A. GARCÍA PRATS, Incidencia del derecho comunitario en la configuracion juridica del derecho financiero (II): politicas comunitarias con incidencia sobre el derecho financiero, cit., 525. (188) Corte di guistizia, sentenza 17 febbraio 1979, causa 45/75, Rewe-Zentrale des Lebensmittel-Grosshandels Gmbh v. Hauptzollamt Landau/Pfalz, in Racc., 181, para. 12 della motivazione.

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caratteristiche oggettive dei prodotti e, in una seconda fase, “il fatto che le due categorie possano o meno rispondere alle stesse esigenze dei consumatori”(189). Al fine di dare una maggiore oggettività e certezza al giudizio di comparazione, la Corte utilizza, in via sussidiaria, criteri formali quali la classificazione dei prodotti ai fini statistici o doganali(190).

Il divieto di discriminazione fiscale dei prodotti importati non è assoluto. Il differente trattamento può essere giustificato da finalità comunitarie e, per quanto più interessa, da finalità ed obiettivi statali nel limite della compatibilità con gli altri principi comunitari(191). In questo senso, l’art. 90, prima proposizione, ripete la medesima struttura di giudizio del principio di eguaglianza ex art. 3, comma 1, Cost. e delle libertà fondamentali. Nella sentenza Hansen la Corte ha affermato che allo “stadio attuale della sua evoluzione, ed in mancanza di unificazione o armonizzazione delle norme rilevanti in materia, il diritto comunitario non vieta agli stati membri di concedere agevolazioni fiscali, sotto forma di esenzione da tributi o riduzione di questi, a taluni tipi di prodotti alcolici o a talune categorie di produttori; agevolazioni fiscali del genere possono infatti servire a legittimi fini economici e sociali, quali l’uso, da parte della distilleria, di determinate materie prime, la conservazione della produzione di bevande alcoliche tipiche di alto livello qualitativo, o il mantenimento in vita di talune categorie di imprese, come le distillerie agricole”(192) (enfasi aggiunta). La promozione di fini economici e sociali statali, quindi, non deve porsi in contrasto né con i principi dei trattati europei(193) né con

(189) Corte di giustizia, sentenza 4 marzo 1986, causa 243/84, John Walker and Sons Ltd v. Ministeriet For Skatter Og Afgifter, in Racc., 875, para. 11 della motivazione. L’evoluzione e gli effetti di tale criterio sono evidenziati da C. SACCHETTO, I divieti di discriminazione contenuti nell’art. 95 CEE. L’evoluzione dell’interpretazione della Corte di giustizia CEE e l’applicazione nell’ordinamento italiano, in Dir. Prat. Trib., 1984, I, 499 (505 ss.); A.J. EASSON, Taxation in the European Community, cit., 41 ss. (190) Fra le tante, Corte di giustizia, sentenza 27 febbraio 1980, causa 169/78, Commissione delle Ce v. Repubblica italiana, in Racc., 385, para. 5 della motivazione: “le classificazioni della tariffa doganale comune, concepite ai fini degli scambi extracomunitari, non forniscono indicazioni decisive per stabilire se prodotti diversi si trovino fra loro in rapporto di similarità ai sensi dell’art . 95, 1° comma, del Trattato Cee, oppure in rapporto di concorrenza, anche parziale, indiretta o potenziale, ai sensi del 2° comma dello stesso articolo”. (191) P.J.G. KAPTEYN, P. VERLOREN VAN THEMAAT, Introduction to the Law of the European Communities, cit., 609 ss.; F. AMATUCCI, Il principio di non discriminazione fiscale, Padova, 2003, 194 ss. (192) Corte di giustizia, sentenza 10 ottobre 1978, causa 148/77, H. Hansen Jun. et O.C. Balle Gmbh et co. V. Hauptzollamt di Flensburg, in Racc., 1787, para. 16 della motivazione. (193) Su punto, F. AMATUCCI, Il principio di non discriminazione fiscale, cit., 198 ss.

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quelli derivanti della normazione derivata, allorché la materia sia stata oggetto di specifica armonizzazione.

Come si è detto, l’art. 90, prima proposizione, non si differenzia, strutturalmente, rispetto al principio di non discriminazione dedotto dalle libertà fondamentali, poiché il trattamento discriminatorio può, in entrambi i casi, essere giustificato in ragione di interessi ed esigenze di fatto, statali o comunitari. La differenza, che si anticipa, attiene al contenuto di tali mezzi di giustificazione, perché la giurisprudenza comunitaria sull’art. 90, prima proposizione, non sembra ammettere fra le cause di giustificazione quella fiscale, ovverosia consentire discriminazioni di trattamento al fine di garantire o rafforzare la riscossione dei tributi.

In una prima approssimazione, questa differenza attiene alla diversa rilevanza comunitaria del settore delle imposte indirette e di quelle dirette. Solo il primo, come si è cercato di dimostrare, appare (o appariva al tempo dell’istituzione delle Comunità economiche europee) strettamente necessario al funzionamento del mercato interno. Per tale ragione, eventuali deroghe all’applicazione di tale principio devono essere legittimate da ragioni esterne alla materia fiscale.

6.5. Il divieto di aiuti di stato e il carattere “selettivo” delle disposizioni statali. Il divieto di imposizioni protezioniste.

La disciplina comunitaria della concorrenza è informata a due regole complementari. La prima riguarda i comportamenti delle imprese che non devono pregiudicare, attraverso strategie concertate, il libero manifestarsi delle dinamiche concorrenziali liberamente generate dal mercato nonché che siano pregiudicate a causa della concentrazione di potere economico e commerciale in pochi operatori economici (art. 81 ss. del Trattato Ce). La seconda regola proibisce, salvo specifiche deroghe, aiuti finanziari a talune imprese o produzioni da parte degli stati membri che falsino la concorrenza intra-comunitaria (art. 87 ss.) ed imposizioni dirette a proteggere, direttamente o indirettamente, i prodotti nazionali (art. 90, seconda proposizione).

Il divieto di comportamenti anti-concorrenziali non assume, in termini generali, una diretta rilevanza ai fini fiscali perché destinato a regolare i soli rapporti fra soggetti privati.

Diversamente, l’art. 87, para. 1, utilizzando il termine generico di “aiuti” concessi dallo Stato, si riferisce a qualsiasi vantaggio economicamente apprezzabile concesso ad un’impresa con un intervento pubblico, indipendentemente dalla forma giuridica attraverso cui tale

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vantaggio si concretizza(194). Rientrano quindi in tale nozione anche le agevolazioni di natura fiscale che non costituiscono, per lo stato, un esborso ma collocano i “beneficiari in una situazione finanziaria più favorevole di quella degli altri soggetti tributari passivi”(195).

I presupposti costitutivi della nozione di aiuto di stato emergono chiaramente dalla definizione dell’art. 87, para. 1: una misura che, direttamente o indirettamente, produca un vantaggio economico per l’impresa; sia “imputabile” allo stato; favorisca solo “talune imprese o talune produzioni” e, da ultimo, falsi o minacci di falsare la concorrenza a livello comunitario(196).

Fra questi presupposti, quello che può assumere diretta incidenza nella definizione del dovere tributario è quello della “selettività” degli aiuti di stato, ovvero disposizioni fiscali (o regimi fiscali) dirette a favorire solo talune imprese o produzioni. Nella definizione giurisprudenziale (ripresa dalla Commissione)(197), tali misure fiscali devono “conferire ai beneficiari un vantaggio che alleggerisca gli oneri normalmente gravanti sul loro

(194) Su questo punto la giurisprudenza comunitaria è consolidata fin dall’inizio. Cfr., in relazione al Trattato Ceca, Corte di giustizia, sentenza 23 febbraio 1961, causa 30/59, De Gezamenlijke Steenkolenmijnen in Limburg v. L’Alta Autorità della Ceca, in Racc., 3, para. I.B. della motivazione: “il Trattato non definisce espressamente il concetto di sovvenzione o aiuto contemplato nell’art. 4 C. Nella terminologia corrente una sovvenzione è una prestazione in danaro o in natura concessa per sostenere un’impresa indipendentemente da quanto i clienti di questa pagano per i beni o servizi da essa prodotti; il concetto di aiuto è molto vicino al precedente e ne accentua la natura teleologica: l’aiuto sarebbe caratterizzato dal fatto di essere destinato al conseguimento di un determinato fine il quale non potrebbe essere raggiunto senza un impulso esterno. Il concetto di aiuto è tuttavia più comprensivo di quello di sovvenzione dato che esso vale a designare non soltanto delle prestazioni positive del genere delle sovvenzioni stesse, ma anche degli interventi i quali, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, ne hanno la stessa natura e producono identici effetti” (enfasi aggiunta). (195) In questo senso, fra le tante, Corte di giustizia, 15 marzo 1999, causa C-387/92, Banco de Credito Industrial Sa, divenuto Banco Exterior de España Sa v. Ayuntamiento de Valencia, Racc., I-877, para. 14 della motivazione. (196) Cfr., Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese, in GUCE 10 dicembre 1998, C 384, 3. In dottrina, F. FICHERA, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1992, 234 ss.; ID., Gli aiuti fiscali nell’ordinamento comunitario, in Riv. Fir. Fin. Sc. Fin., 1998, I, 84; W. SCHÖN, Taxationa and State Aid Law in the European Union, cit., 919 ss.; P. RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comunitari in materia di aiuti di Stato: i poteri del giudice nazionale, in Rass. trib., 2003, 330; C.H.J.I. PANAYI, State Aid and Tax: the Third Way?, in Intertax, 2004, 283 (285-286); G. FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di stato, Pisa, 2007, 10 ss.; L. SALVINI (a cura di), Aiuti di stato in materia fiscale, Padova, 2007, parte I. (197) Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese, cit., para. 9.

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bilancio” (enfasi aggiunta). Il concetto di selettività non è dunque un concetto assoluto ma di relazione, poiché richiede di individuare e comparare le disposizioni fiscali di favore ed il regime tributario “ordinario” (o “generale”). In questo senso, la disposizione si inserisce nel novero di quelle dirette a vietare discriminazioni (nella forma di vantaggi) di natura economica che consentano a determinati operatori economici di assumere una posizione privilegiata all’interno del mercato(198).

Dalla natura relazionale della selettività si può desumere altresì che dall’art. 87, para. 1, non deriva alcun vincolo per gli stati membri in merito alla definizione dei regimi tributari “ordinari”, ma, all’opposto, tale disposizione si applica esclusivamente alle “eccezioni” rispetto a tale sistema(199).

In una prima approssimazione, dunque, l’espressione “talune imprese o talune produzioni” non limita il potere degli stati membri di determinare il sistema tributario conformemente ai propri principi costituzionali, anche in funzione promozionale di determinati obiettivi ed interessi(200). Queste misure fiscali non possono, dunque, essere considerate per natura come aiuti di stato.

Ammessa questa prima classificazione, le misure fiscali possono estendersi “a favore di tutti gli agenti economici che operano sul territorio di uno Stato membro”(201) ovvero riguardare uno specifico territorio o un gruppo ristretto di soggetti o di attività.

(198) Cfr., Corte di giustizia, sentenza 11 luglio 1996, causa C-39/94, Syndicat français de l’Express international (SFEI) e altri v. La Poste e altri, in Racc., I-3547, para. 60 della motivazione. Così, anche, F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 167; P. BORIA, Diritto tributario europeo, cit., 60-61; G. GRAZIANO, La selettività e gli aiuti regionali, 220 (224-225), in L. SALVINI (a cura di), Aiuti di stato in materia fiscale, Padova, 2007. (199) Il termine “eccezione” è utilizzato dalla Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese, cit., para. 16. (200) Conformemente, Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese, cit., para. 13: “Questa condizione non restringe tuttavia il potere degli Stati membri di scegliere la politica economica che ritengono più appropriata e, in particolare, di ripartire la pressione fiscale nella maniera prescelta sui diversi fattori di produzione”. Si veda, anche, Corte di giustizia, sentenza 2 luglio 1974, causa 173/73, Repubblica italiana v. Commissione delle Ce, in Racc., 709, para. 34 ss. della motivazione. In dottrina, K. BACON, State Aids and General Measures, in Year. Eur. Law, 1997, 269; G. TESAURO, Diritto tributario, cit., 759: F. RASI, I confini della nozione, 55 (64), in L. SALVINI (a cura di), Aiuti di stato in materia fiscale, Padova, 2007; G. FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di stato, cit., 7 ss. (201) Ancora, Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese, cit., para. 13. Cfr., anche, fra le tante, Corte di giustizia, sentenza 8 novembre 2001, causa C-143/99, Adria-Wien Pipeline

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Un primo profilo della specialità (o selettività) opera dunque con riferimento al territorio. I sistemi tributari regionali o locali, nella misura in cui favoriscono determinate imprese o produzioni, possono costituire aiuti di stato vietati(202). Un secondo profilo di selettività concerne l’introduzione di “deroghe” o “eccezioni” rispetto al regime tributario “ordinario” nella forma di agevolazioni ovvero di regimi “sostitutivi” rispetto a quello ordinario. Il carattere selettivo non qualifica necessariamente la misura fiscale come aiuto di stato poiché, come affermato dalla Corte comunitaria, può essere giustificato “dalla natura o dalla struttura del sistema”(203).

Esistono dunque due diversi stadi di definizione della nozione di aiuto di stato. In primo luogo, le previsioni normative dirette a definire il sistema tributario ordinario non sono, per natura, aiuti di stato, ma rientrano nella potestà normativa tributaria degli stati membri. Le misure diverse dalle precedenti che favoriscono “talune imprese o talune produzioni” possono avere carattere generale – e quindi non incompatibili con il diritto comunitario – ovvero avere carattere speciale e, dunque, selettivo. Sebbene proibite dall’art. 87, primo para., le misure selettive posono possono essere giustificate in ragione della “natura o struttura del sistema” tributario(204). GmbH e Wietersdorfer & Peggauer Zementwerke GmbH v. Finanzlandesdirektion für Kärnten, in Racc., I-8365, para. 35 della motivazione: “un provvedimento statale che avvantaggia indistintamente l’insieme delle imprese ubicate nel territorio nazionale non può costituire un aiuto di Stato”. (202) La questione è diventata di estrema attualità soprattutto dopo il c.d. caso Azzorre (sentenza 6 settembre 2006, causa C-88/03, Repubblica portoghese v. Commissione delle Ce, non ancora pubblicata). Questo profilo della selettività non può essere specificamente sviluppato nel presente lavoro. Sul punto di rinvia a C. SACCHETTO, Federalismo fiscale tra modelli esteri e vincoli comunitari, in Riv. It. Dir. Pubbl. Com., 1998, 645 (654 ss.); A.E. LA SCALA, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla Costituzione dell’Unione europea, cit., 454 ss.; A. FANTOZZI, L’Europea ipoteca il federalismo fiscale, in il Sole 24 Ore, 28 settembre 2006, 25; A CARINCI, Autonomia impositiva degli enti sub-statali e divieto di aiuti di stato, in Rass. Trib., 2006, 1760; G. FRANSONI, Gli aiuti di Stato tra autonomia locale e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2006, 249; V. FICARI, Aiuti fiscali regionali, selettività e “insularità”: dalle Azzorre gli enti locali italiani, in Dir. Prat. Trib. Int., 2007, 319; G. GRAZIANO, La selettività e gli aiuti regionali, cit., 230 ss. (203) Questa giustificazione è stata introdotta, per la prima volta, dalla Commissione con la Decisione 13 marzo 1966, n. 96/369/CEE e ripresa dalla Corte di giustizia nella causa 173/73, Repubblica italiana v. Commissione delle Ce, para. 33 della motivazione. (204) La dottrina concorda sulla distinzione. Cfr., F. FICHERA, Le agevolazioni fiscali, cit., 235; W. SCHÖN, Taxationa and State Aid Law in the European Union, cit., 927-928: “only tax rules which try to describe the parameters of the tax basis according to the “ability to pay” of the taxpayer belong to its “nature and general scheme”. If the Member State decides to reduce the tax burden with respect to some factors of production (research and development etc.), it deviates from this general scheme in order to further non-fiscal economic objectives. (…). In order to get a correct picture of the notion of State aid with

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La distinzione fra misure che non rientrano nel campo di applicazione dell’art. 87, primo para., del Trattato Ce e misure generali, benché ammissibile sul piano teorico, è nondimeno decisamente problematica da un punto di vista pratico e lascia ampi margini di incertezza(205). La Commissione, nella Comunicazione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese, indica, quali esempio della seconda categoria, la progressività del sistema delle imposte sui redditi (para. 24); i criteri di determinazione degli ammortamenti (para. 24); l’esenzione dalle imposte sui redditi delle organizzazioni senza scopo di lucro (para. 25); i regimi fiscali semplificati per settori particolari come l’agricoltura e la pesca (para. 27). Se questi ultimi possono risultare in bilico fra misure generali e selettive e quindi trovare giustificazione nella natura o struttura del sistema, la progressività del sistema, la determinazione dei criteri di ammortamento e l’esenzione per gli enti non profit rientrano, senza dubbio, nella piena potestà degli stati membri di determinare le caratteristiche del proprio sistema tributario e, quindi, non si possono considerare, per definizione, aiuti di stato.

respect to taxes one should accept the fundamental distinction between measures in accordance with the “general scheme” which deal with the fiscal aspects of a tax and do not constitute aid at all and general tax incentives which constitute a non-selective and therefore non-prohibited form of State aid”; P. LAROMA JEZZI, Principi tributari nazionali e controllo sopranazionale sugli aiuti fiscali, in Rass. Trib., 2003, 1074 (1077); C.H.J.I. PANAYI, State Aid and Tax: the Third Way?, cit., 294: “the concepts of generality and selectivity are not mutually exclusive”; P. BORIA, Diritto tributario europeo, cit., 60. Critico G. FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di stato, cit., 11 nota 6: “forse, la tesi che considera la selettività quale posterius rispetto alla nozione di aiuto può essere utilmente rettificata ritenendo che tutti gli aiuti sono necessariamente selettivi (o abbiano carattere di specialità), là dove gli aiuti incompatibili sono specificamente selettivi rispetto a “determinate imprese e produzioni””. (205) Cfr., in questo senso, C.H.J.I. PANAYI, State Aid and Tax: the Third Way?, cit., 296: “early on the case law revealed how the delineation of the internal logic of a system is a highly ambiguous and daunting task. It featured in almost every subsequent case and sometimes led to divergences of approach between the Advocate-General and the Court”; G. FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di stato, cit., 13; G. GRAZIANO, La selettività e gli aiuti regionali, cit., 227. Alcune indicazioni di carattere generale sulla nozione di “natura e struttura del sistema” tributario provengono dalla causa Azzorre, C-88/03. Al para. 81 della motivazione, la Corte osserva che “una misura in deroga rispetto all’applicazione del sistema fiscale generale può essere giustificata dalla natura e dalla struttura generale del sistema tributario qualora lo Stato membro interessato possa dimostrare che tale misura discende direttamente dai principi informatori o basilari del suo sistema tributario. In proposito va operata una distinzione fra, da un lato, gli obiettivi che persegue un determinato regime fiscale e che sono ad esso esterni e, dall’altro, i meccanismi inerenti al sistema tributario stesso, necessari per il raggiungimento di tali obiettivi” (enfasi aggiunta). Solo i secondi dovrebbero costituire motivi di giustificazione alle misure fiscali “selettive”.

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Nel quadro delineato, il solo elemento di certezza deriva dal metodo di accertamento dell’esistenza di una giustificazione alle misure selettive che è basato sugli effetti prodotti delle disposizioni agevolative(206). Il privilegio concesso a tale metodo confina l’accertamento dei motivi e della ratio delle misure fiscali ad una posizione del tutto sussidiaria e marginale.

Un secondo elemento di sintesi consiste nel fatto che la Commissione e la Corte di giustizia hanno introdotto, nella ricostruzione del concetto di aiuto di stato, un giudizio simile a quello della rule of reason delle libertà fondamentali. In questo senso, accanto alla previsione di un regime di concorrenza non distorto quale azione strumentale alla realizzazione del mercato interno, divengono rilevanti (e si contrappongono) per via giurisprudenziale interessi e valori statali. La disciplina comunitaria degli aiuti di stato subisce, dunque, due diverse limitazioni, nella forma del giudizio di bilanciamento fra diversi principi e valori: quella espressamente prevista dall’art. 87, para. 2 e 3, del Trattato Ce e quella enucleata dalla giurisprudenza comunitaria nella specie di coerenza e razionalità delle misure di agevolazione fiscale con il sistema tributario statale.

Da questa ricostruzione emerge che la disciplina comunitaria degli aiuti di stato condivide la medesima giustificazione teorica delle libertà fondamentali, sintetizzabile nel riconoscimento delle condizioni e dei diritti generati dagli assetti economici del mercato come strumento per perseguire gli obiettivi comunitari(207). Questo non significa tuttavia che il Trattato Ce sia ispirato da una cieca fiducia nelle forze del mercato e che assegni a quest’ulimo la esclusiva valutazione delle scelte economiche allocative. In primo luogo, come si è già rilevato, il mercato comune non è un ordine “naturale” bensì “un obiettivo da realizzare attraverso la predisposizione di una cornice di regole e di principi giuridici diretti in particolare a tutelare la concorrenza, a tal fine limitando la libertà d’azione sia dei pubblici poteri che degli stessi soggetti imprenditoriali”(208). Il Trattato comunitario, quindi, restringe l’azione dei pubblici poteri a quella di regolamentazione del mercato. In secondo luogo, il Trattato Ce (e la (206) W. SCHÖN, Taxationa and State Aid Law in the European Union, cit., 922; G. FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di stato, cit., 10-11: tale specificazione “non deve essere letta nel senso che il divieto di aiuti di stato si risolve in un generale rifiuto di ogni misura idonea ad alterare il normale operare delle dinamiche del mercato, bensì come impossibilità di delimitare la nozione di aiuti solo alle misure che assumano determinate “forme” e, quindi, quale affermazione della necessità di adottare un approccio fondato sulla “sostanza” effettuale”. (207) Cfr., in questo senso, anche C. OHLER, Die fiskalische Integration in der Europäische Gemeinschaft, Baden-Baden, 1997, 327 ss. (208) Così, F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., 166.

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giurisprudenza comunitaria) hanno previsto una serie di interventi correttivi alla disciplina generale allorché la sola concorrenza (ed il mercato interno) non consentano di realizzare efficacemente gli obiettivi comunitari(209). Questo meccanismo opera attraverso un continuo bilanciamento assiologico fra valori ed interessi diversi(210), sia appartenenti all’ordinamento comunitario sia agli ordinamenti statali.

In conclusione, dunque, l’art. 87 del Trattato Ce lascia margini significativi alla discrezionalità al legislatore statale nella definizione del dovere tributario conformemente ai propri principi costituzionali(211). Anche le disposizioni fiscali selettive, sia sul piano generale sia su quello territoriale, possono trovare giustificazione sia ai sensi dei para. 2 e 3 dell’art. 87 sia in ragione della “natura o la struttura” del sistema (o sottosistema) tributario in cui sono inserite.

Come si è già rilevato in apertura di paragrafo, l’art. 90, seconda proposizione, vieta imposizioni interne applicate ai prodotti degli altri stati

(209) Cfr., anche, G. MORE, The Principle of Equal Treatment from Market Unifier to Fundamental Right?, cit., 518-519; F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit. 170 (“il Trattato, quindi, prevede che, in nome di finalità sociali, il principio del divieto per lo Stato di alterare la concorrenza tra imprese attraverso misure discriminatorie possa essere sacrificato”); P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 430-431; P. RUSSO, Le agevolazioni e le esenzioni fiscali alla luce dei principi comunitari in materia di aiuti di Stato: i poteri del giudice nazionale, cit., 332, (che parla di “accentuazione dei profili “solidaristici”); A.E. LA SCALA, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla Costituzione dell’Unione europea, cit., 390-391; G. FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di stato, cit., 26 ss.: “l’ordinamento comunitario, in altri termini, non si disinteressa affatto della realizzazione di altri obiettivi ed interessi propri delle singole comunità statuali che formano l’Unione e che, in termini molto generali, potrebbero essere individuati con il nome di “progresso sociale”” ma, ancor più specificamente, “la Commissione è chiamata a valutare caso per caso se – nella prospettiva comunitaria – l’interesse economico e sociale cui è finalizzata una determinata misura statale meriti di essere perseguito oppure sia recessivo rispetto ad altri interessi e, in particolare, a quello della libertà di concorrenza”. (210) La natura speciale delle deroghe al regime di concorrenza è evidenziata dalla giurisprudenza comunitaria. Cfr., fra le tante, Tribunale di primo grado, sentenza 27 febbraio 1997, causa T-106/95, Fédération française des sociétés d’assurances (FFSA), Union des sociétés étrangères d’assurances (USEA), Groupe des assurances mutuelles agricoles (Groupama), Fédération nationale des syndicats d’agents généraux d’assurances (FNSAGA), Fédération française des courtiers d’assurances et de réassurances (FCA) e Bureau international des producteurs d'assurances et de réassurances (BIPAR) v. Commissione delle Ce, in Racc., II-229, para. 173 della motivazione; sentenza 12 dicembre 1996, causa T-380/94, Association internationale des utilisateurs de fils de filaments artificiels et synthétiques et de soie naturelle (AIUFFASS) e Apparel, Knitting & Textiles Alliance (AKT) v. Commissione delle Ce, in Racc., II-2169, para. 54 della motivazione. (211) Concorda, G. FRANSONI, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di stato, cit., 32: “la competenza degli stati rimane amplissima per tutte le forme di intervento che non siano, anche potenzialmente, in contrasto con la libertà di concorrenza”.

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membri che siano dirette “a proteggere indirettamente altre produzioni”. Rispetto all’art. 90, prima proposizione, la norma si distingue perché non prevede la similarità fra i prodotti ma proibisce, in maniera più ampia, trattamenti fiscali protezionistici(212). Questo effetto si produce se la prestazione tributaria “sia o meno tale da influenzare il mercato di cui trattasi diminuendo il consumo potenziale dei prodotti importati a vantaggio dei prodotti nazionali concorrenti”(213). Ancora una volta, il carattere protezionista è determinato in ragione dell’alterazione dell’equilibrio del mercato.

L’art. 90, seconda proposizione, completa dunque la previsione normativa di cui al primo paragrafo proibendo qualunque forma di protezionismo fiscale nei confronti dei prodotti importati, indipendentemente dal fatto che sia parziale, indiretta o meramente potenziale.

Sezione II. L’interesse fiscale 7. L’INTERESSE FISCALE NELL’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE ITALIANO.

La Corte costituzionale ha enucleato dall’art. 53 Cost. un autonomo

principio posto “a tutela dell’interesse generale alla riscossione dei tributi, che è condizione di vita per la comunità, perché rende possibile il regolare funzionamento dei servizi statali”(214).

Questo principio è stato definitivo dalla dottrina “interesse fiscale”(215) poiché consente al legislatore tributario di rafforzare le garanzie poste a

(212) Come osserva A.J. EASSON, Taxation in the European Community, cit., 50: “unlike Article 95(1) [90(1)], no reference is made to “domestic” products. Interpreted literally, the second paragraph would be infringed if a product imported from one Member State were taxed in such a way as to protect some other imported product, from another Member State or from a third country. (…) . However, the case law seems to make it clear that Article 95(1) [90(1)] is only infringed where the protected products are principally of domestic origin”. (213) Corte di giustizia, sentenza 9 luglio 1987, causa 356/85, Commissione delle Ce v. Regno del Belgio, in Racc., 3299, para. 15 della motivazione. (214) Corte cost., sentenza 9 aprile 1963, n. 45, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, cit., 141. Cfr., nello stesso senso, sentenza 26 novembre 1964, n. 61, punto 2 del considerato in diritto, ivi, 193; sentenza 26 giugno 1965, n. 50, punto 1 del considerato in diritto, ivi, 206; sentenza 25 luglio 1984, n. 226, punto 6 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., 59; sentenza 23 luglio 1987, n. 283, punto 15 del considerato in diritto, ivi, 564; sentenza 23 luglio 2002, n. 375, punto 3.1. del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. III. 1993-2002, cit., 1291. (215) E. DE MITA, Principi di diritto tributario, cit., 2007, 99.

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presidio di una “regolare” riscossione dei tributi, modificando l’ordinaria la disciplina sostanziale e procedimentale del tributo. In questo senso, l’interesse fiscale costituirebbe un principio (o valore) costituzionale che si pone, sul piano assiologico, in concorrenza rispetto agli altri principi e valori dettati dalla Costituzione italiana, e, anzitutto, con il principio della capacità contributiva e dell’eguaglianza tributaria nel senso descritto nei paragrafi precedenti.

L’interesse fiscale trova la propria origine nelle deroghe al diritto comune in funzione di garanzia dell’obbligazione tributaria. In questo senso, nelle prime ricostruzioni dottrinali assume la denominazione di “particularisme” fiscale(216), che presuppone una ricostruzione del diritto tributario nell’alveo del diritto civile e dell’obbligazione. Con l’introduzione delle costituzioni rigide del secondo dopo guerra, al termine “particolarismo” è stato attribuito un significato diverso, più coerente con i caratteri e la struttura del “nuovo” ordinamento costituzionale. Di “Besonderheit des Steuerrechts”, allora, si è parlato con riferimento al fatto che l’imposizione tributaria, rispetto ad altri settori del diritto, e soprattutto a quello civile, pone “questioni di giustizia”(217), da intendersi nel senso dell’equo riparto dei carichi pubblici e della tutela della libertà economica individuale.

Nonostante l’utilizzo del medesimo termine, “particolarismo”, i contenuti appaino profondamente diversi. Nella ricostruzione di Geny, il particolarismo descrive una deroga ai principi comuni; diversamente, nell’accezione proposta da Vogel, il termine è assunto quale criterio distributivo dei carichi pubblici in ragione di esigenze di giustizia dettate dalla carta costituzionale.

Nella prospettiva teorica accolta in questo lavoro, si deve escludere che con il termine “interesse fiscale” si indichi un criterio distributivo dei carichi pubblici, poiché questa funzione è svolta dal principio di capacità contributiva ed eguaglianza tributaria secondo quell’esigenza di integrazione sostanziale della persona nella comunità statale(218).

(216) F. GENY, Le particularisme du droit fiscal, 193 (197 ss.), in Mélanges en l’honneur du professeur René Carré de Malberg, Paris, 1933). Il termine “particolarismo” trova echi anche nella giurisprudenza costituzionale: “la materia tributaria, per la sua particolarità e per il rilievo che ha nella Costituzione l’interesse dello Stato alla percezione dei tributi, giustifica discipline differenziate, in materia di accertamento, rispetto alla disciplina generale delle presunzioni” (sentenza n. 283 del 1987, punto 15 del considerato in diritto). (217) K. VOGEL, Die Besonderheit des Steuerrechts, in Der offene Finanz und Steuerstaat, Heidelberg, 509. Una ricostruzione della questione è offerta da A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 10 ss. (218) Anche A. FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario. Parte I, cit., 15-16, rileva che l’interesse pubblico alla rapida e sicura riscossione delle entrate tributarie è estraneo all’art. 53 Cost. “che riguarda, invero, la disciplina del “concorso” dei soggetti ad esso

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Diversamente, l’interesse fiscale costituisce un principio costituzionale sussidiario rispetto agli artt. 53 e 3 Cost.(219) che consente al legislatore fiscale di sacrificare, entro un limite ragionevole, la razionalità e la coerenza del sistema per perseguire l’obiettivo di un’efficiente ed efficace adempimento del dovere tributario. Proprio perché esterno rispetto al dovere inderogabile di solidarietà ed alle caratteristiche da assunte attraverso gli artt.. 53 e 3 Cost., l’interesse fiscale acquista un ruolo subordinato nella composizione assiologica dei principi o valori costituzionali in materia tributaria.

In termini di sintesi, l’interesse fiscale può essere definito come il principio (costituzionale) che giustifica quelle norme tributarie, sia inerenti alla struttura del tributo sia relative all’applicazione del tributo o strumentali alla applicazione del tributo, che rafforzano la posizione del fisco rispetto a quella del contribuente in funzione della realizzazione del dovere tributario. In questo senso, l’interesse fiscale richiede la semplicità dei tributi, fra cui rientra la “tipizzazione legale” dei fatti tassabili; la previsione di norme di contrasto all’evasione e l’elusione nonché, sul lato

tenuti e della sua misura, non la correlazione fra pubblici poteri e situazioni dei privati nelle diverse modalità di attuazione dei tributi”. Per tali ragioni, non si può accogliere la ricostruzione proposta da P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 101 ss., che riconduce l’interesse fiscale “nella categoria dei diritti sociali ed in specie dei diritti sociali condizionati” ed il conseguente collegamento con l’art. 3, comma 2, Cost. “quale indeclinabile meccanismo di conseguimento della logica di “pari opportunità””. Si veda, anche, Il bilanciamento di interesse fiscale e capacità contributiva nell’apprezzamento della Corte costituzionale, cit., 57-58, ove si ritiene che “l’interesse fiscale delineato in consonanza con l’art. 3 comma 2 Cost. porta ad un sintesi feconda, in cui sembrano stemperarsi i profili di netta antitesi tra l’interesse della comunità e l’interesse del singolo consociato, attraverso la dissoluzione dello stato di (mera) soggezione al potere pubblico e la contestuale valorizzazione della dimensione comunitaria dell’individuo rispetto al programma di autorealizzazione della persona umana”. (219) Questo sembra anche la concezione di E. DE MITA, Principi di diritto tributario, cit., 100, ove rileva che “il limite delle deroghe sta insomma non solo nel corretto perseguimento del fine tributario, ma nel non violare giammai il principio di capacità contributiva” (enfasi aggiunta). Si veda, anche, E. DE MITA, Principio di non discriminazione e deroghe giustificate in base al diritto interno nella giurisprudenza della Corte costituzionale, cit., 82: “l’interesse fiscale diventa quindi parametro per legittimare o meno sul piano costituzionale una serie di norme che diversamente non troverebbero giustificazione nell’ordinamento”. Cfr., anche, L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritto costituzionali, cit., 249 e 255-256: “nonostante l’“interesse fiscale” (in senso stretto) venga riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale come oggetto di una distinta protezione in Costituzione, a questo – in quanto non riconducibile ai dovere inderogabili – la stessa giurisprudenza non sembra considerare riferibile il paradigma proprio dei valori costituzionali preminenti e in capo ad esso si ravvisa, più semplicemente, una rafforzata capacità di giustificare, ai sensi dell’art. 3, I comma, e dell’art. 53, I comma, determinate discipline impositive”; G. FRANSONI, La territorialità nel diritto tributario, cit., 220.

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della applicazione e riscossione, norme che assicurino un efficiente ed efficace risultato di tali attività(220). Per contro, “l’interesse fiscale non può essere la comodità del fisco, né l’arbitrio, né l’irragionevolezza”(221).

8. LA PROGRESSIVA FORMAZIONE ED IL PROGRESSIVO RICONOSCIMENTO DELL’INTERESSE FISCALE NELL’ORDINAMENTO COMUNITARIO. DUPLICITÀ DI PRESUPPOSTI DI TALE NOZIONE.

Poiché l’imposizione tributaria non assume, nell’ordinamento

comunitario, la funzione di finanziare le spese pubbliche, non sembrerebbe, almeno in via teorica e di prima approssimazione, potersi ragionevolmente sostenere l’esistenza di un interesse fiscale, ovverosia di un interesse proprio rivolto al rafforzamento dell’efficacia della riscossione dei tributi.

Questa conclusione, tuttavia, non appare corretta ed aderente alla realtà. Nonostante l’Unione europea non sia dotata, se non in maniera del tutto residuale, di una potestà d’imposizione, il bilancio comunitario non è,

(220) Questi aspetti sono condivisi dalla dottrina e, in particolare, da E. DE MITA, Principi di diritto tributario, cit., 99 ss.; L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritto costituzionali, cit., 249-251. Un’analitica ricostruzione è offerta, da ultimo, da P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 201 ss., che distingue fra interesse fiscale nella definizione delle fattispecie impositive (in cui assumo rilevanza le presunzioni fiscali e l’inversione dell’onere della prova, gli obblighi fiscali (sostituzione d’imposta e solidarietà), minimo imponibile, elusione ed evasione fiscale), della fase procedimentale (istruttoria, accertamento e riscossione) e delle sanzioni. (221) A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 12; E. DE MITA, Principi di diritto tributario, cit., 100. Alle “mere administrative convenience” che sono “odiosi” privilegi della pubblica amministrazione fa riferimento anche Justice J. Brennan in the US Supreme Court case Frontiero v. Richardson, 411 U.S. 677 (1973). Rientrano fra le mere administrative convenience, ad esempio, la proroga dei termini dell’amministrazione finanziaria. Sul punto, si vedano le sentenza 15 aprile 1992, n. 177, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, cit., 1557 e la sentenza n. 375 del 2002, punto 3.1. del considerato in diritto: “il regime differenziato introdotto dalla disposizione censurata mira ad ovviare al sensibile aggravio di lavoro che prevedibilmente sarebbe derivato agli uffici finanziari dalla necessità di eseguire le operazioni di verifica richieste dalle dichiarazioni integrative dei contribuenti che si sarebbero avvalsi del condono, con conseguenti rischi di disservizio e di decorrenza degli ordinari termini di prescrizione e di decadenza della pretesa fiscale. Per fronteggiare questa eccezionale e transitoria situazione, il legislatore è intervenuto sui termini in questione, perché, per un limitato periodo di tempo, gli uffici potessero essere sgravati di alcune attività, tra cui quelle connesse all’accertamento e alla liquidazione delle suddette imposte complementari e suppletive. La finalità della disposizione censurata è pertanto pur sempre riconducibile ad una ragione di tutela dell’interesse dell’Amministrazione finanziaria al regolare accertamento e riscossione delle imposte”.

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finanziato solo da trasferimenti degli stati membri bensì, come risulterà dal prossimo capitolo, da risorse definite “proprie”.

Il Trattato Ce detta una specifica disciplina, nel Titolo rubricato “Disposizioni finanziarie”, a tutela degli “interessi finanziari” della Comunità europea, cha ha trovato ulteriore attuazione attraverso il Regolamento 18 dicembre 1995, n. 2988/95 (in GUCE 23 dicembre 1995, L 312)(222).

Quest’interesse finanziario “specifico” comunitario assume consistenza anche nel settore fiscale poiché, come noto, il bilancio comunitario si compone dei tributi doganali riscossi dalle amministrazioni finanziarie statali e dell’iva, determinata su basi statistiche “teoriche” armonizzate calcolate sulla base del gettito iva nazionale. Per questo, la corretta applicazione del sistema uniforme dei tributi doganali e del sistema comune dell’iva acquisiscono un valore strumentale decisivo al fine dell’equilibrio globale del sistema delle risorse proprie.

La rilevanza comunitaria dell’interesse fiscale si manifesta anche per altra via, attraverso il riconoscimento, a livello comunitario, del carattere fondamentale di tale principio per gli stati membri e dunque quale “tradizione costituzionale comune degli stati membri”. In questa seconda accezione, l’interesse fiscale rileva solo come interesse mediato a livello comunitario, ma testimonia la progressiva importanza che vanno assumendo i principi ed i valori giuridici nazionali nell’ordinamento comunitario(223). 8.1. L’interesse finanziario dell’Unione europea: il caso dell’iva.

In una recente comunicazione, la Commissione europea rileva che “la frode dell’iva mette a repentaglio gli interessi finanziari della Comunità di cui all’art. 280 del Trattato Ce”(224). L’interesse finanziario collegato

(222) L’art. 1 di tale regolamento individua gli obiettivi generali di tale regolamentazione: “1. Ai fini della tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee è adottata una normativa generale relativa a dei controlli omogenei e a delle misure e sanzioni amministrative riguardanti irregolarità relative al diritto comunitario. 2. Costituisce irregolarità qualsiasi violazione di una disposizione del diritto comunitario derivante da un’azione o un’omissione di un operatore economico che abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio generale delle Comunità o ai bilanci da queste gestite, attraverso la diminuzione o la soppressione di entrate provenienti da risorse proprie percepite direttamente per conto delle Comunità, ovvero una spesa indebita”. (223) Si veda anche A.E. LA SCALA, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla Costituzione dell’Unione europea, cit., 147: “il diritto comunitario non si disinteressa (...) della protezione degli interessi finanziari degli Stati membri”. (224) Commissione delle Ce, Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo e al Comitato economico e sociale europeo del 31 maggio 2006 (COM(2006), 254 def.).

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all’iva è stato espressamente indicato nei “considerando” della Direttiva del Consiglio 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE (in GUCE 11 dicembre 2006, L 347, 1) – atto normativo che ha sostituito la sesta Direttiva iva del 1977 – che individua nell’esigenza di finanziare il bilancio comunitario uno dei presupposti dell’armonizzazione della base imponibile iva.

In questa direzione, la giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto la legittimità di quei provvedimenti statali diretti “a preservare il più efficacemente possibile i diritti dell’erario”(225). In questi casi, oggetto della controversia era la compatibilità con l’art. 21, n. 3, della sesta Direttiva iva, di una obbligazione solidale del cessionario per il debito d’imposta del cedente. In particolare, nel più recente dei casi citati, la disposizione si applicava se “at the time of the supply the person knew or had reasonable grounds to suspect that some or all of the VAT payable in respect of that supply, or on any previous or subsequent supply of those goods, would go unpaid” (Section 77A VAT Act 1994). La Corte ha dichiarato non incompatibile con il diritto comunitario sia il regime di solidarietà sia il fatto che questo fosse basato su una presunzione sempreché potesse essere superata fornendo la prova contraria (para. 31 della motivazione), operando un bilanciamento fra l’interesse fiscale e il principio fondamentale dell’iva, la neutralità dell’imposizione.

S’inserisce in questa prospettiva anche l’enucleazione di un autonomo concetto di “abuso del diritto” in materia iva, indipendentemente dalla espressa previsione normativa. Nel caso Halifax, la Corte ha osservato che “secondo una giurisprudenza costante, gli interessati non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente del diritto comunitario. (...). La lotta contro ogni possibile frode, evasione ed abuso è, infatti, un obiettivo riconosciuto e promosso dalla sesta direttiva”(226). Non rileva in questa sede il contenuto concreto che assume la nozione di abuso del diritto in materia iva e, in come si vedrà nel successivo paragrafo, la coerenza con quello elaborato nel settore delle imposte dirette(227). Ciò che appare

(225) Corte di giustizia, 18 dicembre 1997, cause riunite C-286/94, C-340/95, C-401/95 e C-47/96, Garage Molenheide BVBA, P. Schepens, Bureau Rik Decan-Business Research & Development NV (BRD) e Sanders BVBA v. Belgische Staat, in Racc., I-7281, para. 47 della motivazione; sentenza 11 maggio 2006, causa C-384/04, Commissioners of Customs & Excise e Attorney General v. Federation of Technological Industries e altri, non ancora pubblicata, para. 30 della motivazione. (226) Corte di giustizia, sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax plc e altri v. Commissioners of Customs & Excise, non ancora pubblicata, para. 68 e 70 della motivazione. (227) La Corte comunitaria individua due distinti elementi che compongono la nozione di abuso: “risulta che, nel settore iva, perché possa parlarsi di un comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la

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rilevante è il riconoscimento, a livello comunitario, della legittimità di misure dirette a preservare e rafforzare il meccanismo di funzionamento e di riscossione dell’imposta.

Uno strumento di natura generale attraverso cui la giurisprudenza comunitaria tutela l’interesse finanziario è quello dell’interpretazione uniforme delle disposizioni della direttiva iva. Poiché la base imponibile è l’elemento cui è commisurata la determinazione delle risorse comunitarie, una diversa interpretazione ed applicazione delle stesse disposizioni condurrebbe alla violazione dell’obbligo di leale collaborazione. 8.2. La tutela dell’interesse fiscale degli stati membri attraverso le cause di giustificazione alle libertà fondamentali. Il rule of reason test.

Il diverso trattamento fiscale in ragione della nazionalità (e della residenza) proibito dalle libertà fondamentali può essere giustificato. Nella struttura del giudizio della Corte comunitaria sulle libertà fondamentali, questo accertamento costituisce, normalmente, l’ultimo stadio del giudizio.

Il Trattato Ce prevede alcune specifiche cause di giustificazione all’esercizio delle libertà fondamentali (art. 30, 39, para. 3 e 4, 45 e 46, para. 1, 55 e 58 para. 1, lett. b)), che però, ad eccezione di quest’ultima, hanno una limitata rilevanza in materia tributaria. Si tratta di giustificazioni di carattere generale attinenti alla sicurezza e all’ordine pubblico, alla salute e alla protezione dell’ambiente e del patrimonio artistico, ecc. Costituendo delle eccezioni ad un principio fondamentale, tali cause di giustificazione devono essere interpretate restrittivamente.

Nonostante la presenza di tali eccezioni, la giurisprudenza comunitaria ha elaborato, a partire dal principio Cassis de Dijon, un autonomo sistema di cause di giustificazione dirette a restringere l’esercizio delle libertà fondamentali (c.d. rule of reason test).

Fino alla sentenza Imperial Chemical Industries del 1996, la sola causa di giustificazione accolta in materia di libertà fondamentali era quella della coerenza del sistema fiscale (cfr. supra). A partire da tale pronuncia, la Corte ha cominciato ad ammettere, almeno in via teorica, la rilevanza dell’abuso del diritto quale limite all’esercizio delle libertà

traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito da queste stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmente l’ottenimento di un vantaggio fiscale. Come ha precisato l’avvocato generale al paragrafo 89 delle conclusioni, il divieto di comportamenti abusivi non vale più ove le operazioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di vantaggi fiscali” (para. 74 e 75 della motivazione). Sul tema si rinvia a H.L. MCCARTHY, Abuse of Rights: The Effect of the Doctrine on VAT Planning, in Brit. Tax Rev., 2007, 160.

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fondamentali(228). La compiuta sistemazione di tale nozione è avvenuta con la sentenza Cadbury and Schweppes. In termini estremamente sintetici, le norme anti-abuso nazionali devono “deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale”(229).

Più recentemente, la giurisprudenza comunitaria ha accettato quali cause di giustificazione delle disposizioni fiscali discriminatorie/restrittive la modalità di imposizione con ritenuta d’imposta dei redditi corrisposti a soggetti non residenti(230); l’equilibrata ripartizione del potere impositivo fra i diversi stati membri, il rischio di doppio utilizzo delle perdite e l’abuso del diritto, congiuntamente considerate(231), nonché, nel recentissimo caso C-101/05, il differente regime giuridico della circolazione dei capitali fra stati membri e stati membri e stati terzi(232). (228) Corte di giustizia,16 luglio 1998, causa C-264/96, Imperial Chemical Industries plc v. Kenneth Hall Colmer (Her Majesty’s Inspector of Taxes), in Racc., I-4695, para. 26 della motivazione. (229) Corte di giustizia, 12 settembre 2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes plc, Cadbury Schweppes Overseas Ltd v. Commissioners of Inland Revenue, non ancora pubblicata, para. 55 della motivazione. Tale definizione è stata ulteriormente sviluppata nel para. 64: “la constatazione dell’esistenza di una tale costruzione richiede, infatti, oltre ad un elemento soggettivo consistente nella volontà di ottenere un vantaggio fiscale, elementi oggettivi dai quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dall’ordinamento comunitario, l’obiettivo perseguito dalla libertà di stabilimento, quale esposto ai punti 54 e 55 della presente sentenza, non è stato raggiunto”. (230) Corte di giustizia, sentenza 3 ottobre 2006, causa C-290/04, FKP Scorpio Konzertproduktionen GmbH v. Finanzamt Hamburg-Eimsbüttel, non ancora pubblicata, para. 36 della motivazione: “la procedura della ritenuta alla fonte e il sistema della responsabilità che opera come garanzia di essa rappresentano infatti un mezzo legittimo ed appropriato per garantire la tassazione dei redditi di un soggetto stabilito al di fuori dello Stato dell’imposizione e per evitare che i redditi in questione sfuggano alla tassazione sia nello Stato di residenza che in quello in cui i servizi sono forniti”. (231) Corte di giustizia, causa C-446/03, Marks & Spencer, para. 42 ss. della motivazione. Gli stessi motivi sono richiamati dalla sentenza 18 luglio 2007, causa C-231/05, Oy AA, non ancora pubblicata, para. 51 ss. della motivazione: “come risulta dal punto 51 della citata sentenza Marks & Spencer, l’esigenza di salvaguardare la ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri è stata accolta in collegamento con altri due elementi di giustificazione, basati sui rischi di duplice presa in considerazione delle perdite e di evasione fiscale”. (232) Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, causa C-101/05, Skatteverket v. A, non ancora pubblicata, para. 61 e 62 della motivazione: “in primo luogo, i rapporti tra gli Stati membri si svolgono in un contesto normativo comune, caratterizzato dall’esistenza di una normativa comunitaria, come la direttiva 77/799, che ha stabilito obblighi reciproci di mutua assistenza. Anche se, nei settori che rientrano nell’ambito di applicazione di tale direttiva, l’obbligo di assistenza non è privo di limiti, permane nondimeno il fatto che la detta direttiva fissa un ambito di cooperazione tra le autorità competenti degli Stati membri

CAPITOLO III

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Tutte queste pronunce sono accomunate dalla progressiva formazione, a livello comunitario, di un interesse fiscale statale che si contrappone, quale causa di giustificazione, alle libertà fondamentali. La tecnica giudiziale utilizzata dalla Corte è quella consueta del bilanciamento fra principi e valori giuridici diversi: da un lato, le libertà fondamentali ed il mercato interno, dall’altro l’interesse degli stati membri al corretto funzionamento ed all’efficacia del sistema delle imposte dirette(233). 9. CONCLUSIONI.

In questo capitolo si è cercato di presentare una ricostruzione

sistematica delle dinamiche di integrazione fra l’ordinamento costituzionale, comunitario ed il diritto internazionale intorno ai principi e valori che presiedono alla specificazione sostanziale del dovere tributario.

Si è dimostrato che l’ordinamento costituzionale prefigura, attraverso il principio di capacità contributiva e di eguaglianza, i criteri per un giusto riparto dei carichi tributari in funzione della promozione della “dignità della persona”. Quello descritto è il significato comune attribuibile agli artt. 3 e 53 Cost. che consente di definire il dovere tributario sia in termini neutrali sia in termini promozionali rispetto agli obiettivi costituzionali (o in termini redistributivi). Nell’analisi delle pronunce in materia di eguaglianza tributaria è emersa la riluttanza del giudice costituzionale a

che non sussiste tra queste e le autorità competenti di un paese terzo qualora quest’ultimo non abbia preso alcun impegno di reciproca assistenza. In secondo luogo, come ha osservato l’avvocato generale ai paragrafi 141-143 delle sue conclusioni, per quanto riguarda i documenti giustificativi che il contribuente può fornire per permettere alle autorità fiscali di verificare se le condizioni previste dalla normativa nazionale siano soddisfatte, le misure comunitarie di armonizzazione che si applicano negli Stati membri in materia di contabilità delle società offrono al contribuente la possibilità di produrre dati affidabili e verificabili relativi alla struttura o alle attività di una società stabilita in un altro Stato membro, mentre siffatta possibilità non è garantita al contribuente quando si tratti di una società stabilita in un paese terzo che non è tenuto ad applicare dette misure comunitarie”. (233) Non appare, diversamente, accoglibile quella tesi che individua la formazione di un interesse fiscale nelle eccezioni, previste al para. 2 e 3 dell’art. 87 del Trattato Ce, al divieto di aiuti di stato (cfr., P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 430-431). Le conclusioni dell’Autore discendono coerentemente dalla definizione iniziale dell’interesse fiscale, cosicché tali deroghe “promuovono meccanismi di composizione dei conflitti sociali o comunque risultano dirette a favorire atti di solidarietà verso categorie “deboli””. Nella impostazione teorica adottata in questa sede, diversamente, tali deroghe appaiono come specifici principi o valori comunitari che mitigano, dall’esterno, il rigore dell’art. 87 e della protezione della concorrenza all’interno dell’Unione europea.

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sindacare le classificazioni legislative, rimettendo con frequenza alla discrezionalità del legislatore tributario le scelte operate.

L’ordinamento comunitario (e, in forma ridotta il sistema convenzionale dei diritti Cedu) è informato alla regola fondamentale del divieto di trattamenti discriminatori. Nel primo, tale regola è specificata dall’eguale possibilità di accesso ai mercati e da un regime concorrenziale non distorto. Queste condizioni possono essere realizzate attraverso l’armonizzazione, che, nella forma più intensa, consiste sostanzialmente nella riduzione dei mercati statali ad un solo mercato interno, ovverosia nell’eliminazione di qualsiasi ostacolo all’ingresso ai singoli mercati. La fiscalità, e più precisamente la specificazione del dovere tributario, è strumentale alla realizzazione di tali condizioni.

Queste conclusioni sono mitigate dalla previsione nel Trattato e dall’enucleazione, ad opera della Corte di giustizia, di interessi ed esigenze connesse agli obiettivi indicati dall’art. 2 del Trattato Ce e a quelli degli stati membri. Questo fenomeno è particolarmente evidente per il principio di non discriminazione e per gli aiuti di stato in materia fiscale.

Da un lato, quindi, la definizione del dovere tributario da parte del legislatore statale è condizionata dai valori e dai principi comunitari, strumentali ad una logica distributiva neutrale dei carichi tributari. Dall’altro lato, tuttavia, soprattutto attraverso la giurisprudenza hanno trovato riconoscimento nell’ordinamento comunitario valori e principi di natura economico-sociale e fiscale.

L’aspetto più problematico del rapporto fra ordinamento costituzionale e comunitario è quello connesso all’armonizzazione, poiché tale attività è finalizzata alla realizzazione di obiettivi, il mercato interno e la concorrenza, parzialmente non coincidenti con la finalità dell’imposizione tributaria nell’ordinamento costituzionale. In questo caso, si è detto, l’integrazione dei principi avviene attraverso la “mediazione” del principio delle competenze attribuite, della sussidiarietà e della proporzionalità che limitano l’incidenza dell’ordinamento comunitario su quello interno. Simili problemi emergono da quella giurisprudenza comunitaria che interpreta le libertà fondamentali non tanto quale proibizione di misure fiscali indistintamente applicabili, orientamento non compiutamente ascrivibile alla materia tributaria, quanto quale eliminazione delle doppie imposizioni generate dall’operare di due diversi ordinamenti statali. Questo orientamento, ancora incerto allo stato attuale di evoluzione della giurisprudenza comunitaria, non differisce dall’armonizzazione perché impone agli stati membri, in ragione del mercato interno, di “riconoscere” gli l’imposizione subita negli altri stati membri.

CAPITOLO IV

LA DEFINIZIONE DEL DOVERE TRIBUTARIO. CONSENT ALL’IMPOSIZIONE E NO TAXATION WITHOUT

REPRESENTATION: DAL VALORE DEMOCRATICO ALLA TAXATION WITH NO REPRESENTATION

SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. Le origini della riserva di legge in materia tributaria. - 3. L’art. 23 della Costituzione: oggetto e disciplina della riserva di legge in materia di prestazioni imposte. - 3.1. Le prestazioni patrimoniali imposte. - 3.2. La disciplina della riserva di legge. - 3.3. Valore della riserva di legge tributaria e disciplina legislativa. Della diversa rigidità dell’art. 23 Cost. - 3.4. Considerazioni conclusive sul valore della riserva di legge in materia tributaria. Rilevanza dell’ordinamento comunitario e internazionale per una sua ricostruzione unitaria: rinvio. - 4. Legalità e riserva di legge nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Profili generali. - 4.1 (segue). Profili tributari. - 5. Le forme del processo decisionale comunitario. In particolare, della formazione del bilancio dell’Unione europea e degli atti normativi in materia tributaria. Alla ricerca del valore democratico nel processo decisionale comunitario in materia finanziaria. - 5.1. Introduzione. - 5.2. Il processo decisionale in materia finanziaria e tributaria. La procedura di approvazione del bilancio comunitario, di adozione delle risorse proprie e di armonizzazione fiscale. - 6. Processo decisionale in materia finanziaria e principio democratico. La legittimazione democratica indiretta e gli elementi di democrazia dell’ordinamento comunitario. - 7. Processo decisionale comunitario, comunità di diritto e principio di legalità. - 8. Conclusioni.

1. INTRODUZIONE.

Il consenso all’imposizione tributaria costituisce uno dei più risalenti

principi di civiltà giuridica. Introdotto quale reazione nei confronti dell’arbitrio del sovrano sul patrimonio delle classi possidenti, esso ha progressivamente mutato contenuto e funzione. Negli ordinamenti costituzionali moderni, come sarà detto, la “riserva” di competenza al parlamento in materia tributaria si configura come attribuzione alle assemblee rappresentative delle decisioni inerenti alla determinazione dei

CAPITOLO IV

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criteri di riparto dei carichi pubblici. Tale riserva esprime dunque, in via primaria, una garanzia formale diretta ad assicurare la definizione del dovere tributario.

Nell’ordinamento comunitario, diversamente, il procedimento di formazione delle norme in materia tributaria è “riservato” al consenso unanime dei rappresentanti stati membri. In questo procedimento il ruolo del Parlamento europeo è assolutamente marginale provocando, come è stato rilevato, “uno scollamento tra dovere di contribuire e decisione politica di contribuire”(1). Questo deficit democratico, come è stato definito, costituisce un retaggio della natura internazionale delle organizzazioni europee(2) che contrasta con l’evoluzione dei modelli istituzionali comunitari negli altri settori materiali di competenza dell’Unione europea. In questo senso, come sarà dimostrato, la garanzia non deriva dal procedimento bensì dagli atti che devono conferire certezza al dovere tributario. Queste conclusioni si ritrovano anche all’interno del sistema normativo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che ha individuato nella “legge” una garanzia a tutela della prevedibilità dell’obbligazione tributaria.

Sezione I – La riserva di legge tributaria nell’ordinamento costituzionale 2. LE ORIGINI DELLA RISERVA DI LEGGE IN MATERIA TRIBUTARIA.

Secondo una risalente, ma ancor attuale, definizione, si può intendere

la riserva di legge come “una norma sulla normazione e sulla produzione normativa, la quale vincola il potere di disciplina normativa di una determinata materia all’uso di un solo tipo di atto normativo con esclusione degli atti normativi subordinati, ovvero all’uso di un solo tipo di norma, con esclusione degli atti normativi subordinati”(3). L’istituto della riserva di legge comporta, per un verso, che la legge disciplini una determinata materia o determinati oggetti attribuiti alla sua competenza

(1) C. SACCHETTO, Il diritto comunitario e l’ordinamento tributario italiano, 221 (253), in B. PEZZINI e C. SACCHETTO, Dalle costituzioni nazionali alla Costituzione europea. Potestà, diritti, doveri e giurisprudenza costituzionale in materia tributaria, Milano, 2001. (2) In questo senso, da ultimo, A. FANTOZZI, Autorità e consenso nell’armonizzazione comunitaria degli ordinamenti tributari, relazione tenuta al Convegno di studi del 14-15 settembre 2007 svoltosi a Catania, 6 del dattiloscritto (3) Così, M.S. GIANNINI, I proventi degli enti pubblici e la riserva di legge, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., I, 1957, 3 (9). Analoga definizione si trova in G. INGROSSO, Diritto finanziario, Napoli, 1954, 467.

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(aspetto positivo) e, per l’altro, che fonti diverse non possano regolare l’una o gli altri (aspetto negativo)(4).

Trattandosi di una regola che interviene nei procedimenti di produzione normativa e nel riparto di competenza fra i vari organi ed enti dello Stato, la riserva di legge, pur mantenendo una struttura formalmente molto semplice, ha assunto, storicamente, significati, funzioni e valori diversi in ragione dei differenti contesti politico-istituzionali e giuridici in cui è stata inserita(5). Questo aspetto risulta chiaramente dall’evoluzione storica della riserva di legge tributaria che, seppur sviluppatasi formalmente come garanzia della libertà e proprietà dei singoli sia nell’ordinamento inglese sia in quello tedesco, assumerà un valore profondamente diverso in ragione del diverso rapporto fra stato, istituzioni ed individuo che si andava formando nei rispettivi ordinamenti. La determinazione del valore della riserva di legge appare, quindi, fortemente condizionato dall’assetto istituzionale e dal sistema delle fonti in cui tale istituto è inserito.

È noto che le prime tracce di un istituto analogo alla riserva di legge in materia tributaria si possono individuare nelle prime carte medievali che imponevano al sovrano il consenso degli interessati o dei loro rappresentati per ogni specie di limitazione alla libertà personale e patrimoniale dei singoli(6). In particolare, proprio contro gli interventi limitativi dei diritti sui beni dei singoli si trova la prima affermazione, nella Magna Carta inglese del 1215(7) e, quindi, nella successiva Bill of Rights(8) del 1689,

(4) Per questi aspetti, cfr. F. SORRENTINO, Lezioni sulla riserva di legge. I. Introduzione e commento, Genova, 1980, 9 ss. (5) Questo aspetto è stato sottolineato, pressoché unanimemente, da tutta la dottrina che si è occupata del tema. Cfr. S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, Milano, 1963, 1; A. DI GIOVINE, Introduzione allo studio della riserva di legge nell’ordinamento costituzionale italiano, Torino, 1969, 58 ss.; A. FEDELE, sub Art. 23, 21 (21-22), in Commentario della Costituzione a cura di G. BRANCA, Art. 22-23, Bologna-Roma, 1978; ID., La riserva di legge, 156 (157), in A. AMATUCCI (a cura di), Trattato di diritto tributario, I, Tomo I, Padova, 1994; ID., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, I, Torino, 2003, 40; R. BALDUZZI, F. SORRENTINO, Riserva. I. Riserva di legge, in Enc. Dir., XL, Milano, 1989, 1207; M. BERTOLISSI, Legge tributaria, in Dig. Disc. Priv., Sez. Comm., VIII, Torino, 1992, 519 (524 ss.); G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, Torino, 1995, 56 ss. (6) C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Milano, 1975, 341-342; L. CARLASSARE, Legge (riserva di), in Enc. Giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990, 1. (7) L’art. XII della Magna Carta prevedeva espressamente che “Nullum scutagium vel auxilium ponatur in regno nostro, nisi per commune consilium regni nostri, nisi ad corpus nostrum redimendum, et primogenitum filium nostrum militem faciendum, et ad filiam nostram primogenitam semel maritandam, et ad hec non fiat nisi racionabile auxilium; simili modo fiat de auxiliis de civitate Londoniarum”.

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della necessità del consenso degli interessati(9). In tale forma, veniva consacrato il “principio di autoimposizione”, in virtù del quale tutte le limitazioni autoritativamente imposte alla libertà (patrimoniale) dei singoli avrebbero richiesto il previo consenso degli obbligati.

In realtà, il ruolo dei primi documenti medievali è fortemente svalutato dalla dottrina(10) che fa risalire l’affermazione del consenso all’imposizione, nel suo significato odierno, all’opera politica e giuridica di sir Edward Coke ed alla guerra civile del XVII secolo(11), da cui

(8) “That levying money for or to the use of the Crown by pretence of prerogative, without grant of Parliament, for longer time, or in other manner than the same is or shall be granted, is illegal”. (9) P. BARILE, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, Padova, 1953, 232, fa risalire storicamente la riserva di legge alla Petition of Rights del 1628 in tema di tributi e di sospensione e di dispensa dalle leggi vigenti. Si legga l’art. X “They do therefore humbly pray your most excellent Majesty, that no man hereafter be compelled to make or yield any gift, loan, benevolence, tax, or such like charge, without common consent by act of parliament”. (10) Svaluta decisamente la rilevanza della Magna Carta quale documento fondante il “consenso all’imposizione”, S. BARTHOLINI, Il principio di legalità dei tributi in materia di imposte, Padova, 1957, 60, nota (31): “da più recenti indagini (v. ADAMS, Constitutional History of England, London, 1948, 131 segg.), può sicuramente dedursi che il moderno principio inglese del “consent to tassation by parliament” non è sancito nei capitoli 12 e 14 della Magna Charta del 1215, ma è il risultato dell’evoluzione subita da tutt’altri principi in essa riaffermati. Tutt’altri perché si riferivano allo stato feudale, non a uno stato democratico moderno, mentre si è soliti configurarli come un preciso riscontro storico di dati normativi di quest’ultimo. I predetti capitoli non creavano un istituto di rappresentanza politica, arbitro di ogni tributo, come è l’odierno parlamento, bensì volevano assicurare il rispetto del principio feudale che al di fuori delle prestazioni dovute al sovrano in forza di consuetudine o di rapporto di vassallaggio, ma sempre da coloro che erano collegati con il Sovrano da un rapporto del genere, nessun’altra prestazione poteva essere pretesa senza il consenso di chi avrebbe dovuto pagarla. (…). Ma con la Confirmatio Chartarum del 1297 il principio dell’auto-imposizione perde ogni carattere feudale, in quanto viene esteso a tutte le imposte, e costituisce la fonte di una specifica potestà del parlamento e della relativa limitazione del potere regio”. Diversamente, V. UCKMAR, Principi comuni di diritto costituzionale tributario, Padova, 1999, 9 ss., rileva che “a ben vedere, l’origine risale ad epoca anteriore [alla Magna Carta]: ad esempio in Inghilterra il Re, che già percepiva imposte ed otteneva sussidi per diritto consuetudinario, richiedeva, per far fronte a spese straordinarie, versamenti in denaro ai vassalli e questi potevano – per quanto fosse praticamente assai difficile – rifiutarli”. (11) In questo senso, G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, cit., 28 ss. L’Autore invita a “guardare con occhio critico ai miti creati attorno ai Parlamenti medievali (ed in particolare a quello inglese) ed alla Magna Carta trasformata da uno statuto o carta di conferma di privilegi feudali in una dichiarazione di diritti propri di tutti gli Inglesi liberi. Ma è altrettanto vero che quando, agli inizi del secolo XVII, il Parlamento inglese, che si sentiva sempre più il rappresentante della nazione, cominciò a discutere gli arcana imperii e a sindacare la politica del sovrano sir Edward Coke affermava: “La Magna Carta è un colosso di statura tale da non poter

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discendono il principio di separazione di funzioni fra Re e Parlamento e, soprattutto, la soggezione al diritto del Re, ovverosia la formazione del common law come sistema di diritti supremi dell’ordinamento giuridico inglese.

L’evoluzione del principio del consenso all’imposizione, quindi, non può essere separata dall’evoluzione e dai caratteri propri dell’ordinamento giuridico inglese. Un sistema giuridico che poggia interamente sulla rule of law (o principio della supremazia o dominio della legge) ma che riconosce, diversamente dall’idea continentale della assoluta sovranità della legge, “that the constitution is pervaded by the rule of law on the ground that the general principles of the constitution (as for example the right to personal liberty, or the right of public meeting) are with us the result of judicial decisions determining the rights of private persons in particular cases brought before the Courts. General rules of constitutional law are results of ordinary law of the land”(12). Paradossalmente, ma non troppo nella struttura duale dell’ordinamento inglese che distingue il common e lo statute law, l’affermazione della supremazia della legge coesiste con la sua limitazione ad opera dei diritti fondamentali degli individui che trovano la propria fonte nelle decisioni giudiziali(13). I diritti fondamentali degli individui, fra cui quello di proprietà, quindi, costituiscono il risultato di un autonomo processo di evoluzione giurisprudenziale separato dal diritto di fonte “parlamentare”. Tali diritti e libertà sono stati (e sono tuttora) enucleati dalle Corti inglesi sulla base di un’antica tradizione consuetudinaria, le tradizioni e costumi del popolo inglese (the law of the land). In questo senso, essi costituiscono il fondamento, storico e giuridico, del sistema costituzionale inglese e non sono nella disponibilità, tranne in casi del tutto eccezionali, del Parlamento. In ragione della loro

sopportare alcun sovrano sopra di sé”. È in quegli anni, e per opera di Coke, che sorge il mito politico della Magna Carta (…)”. (12) A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, London, 1915, 188. (13) Ancora A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, cit., 189: “yet, though this is so, the dogma that the form of a government is a sort of spontaneous growth so closely bound up with the life of a people that we can hardly treat it as a product of human will and energy, does, though in a loose and inaccurate fashion, bring into view the fact that some politics, and among them the English constitution, have not been created at one stroke, and, far from being the result of legislation, in the ordinary sense of that term, are the fruit of contests carried on in the Courts on behalf of the rights of individuals. Our constitution, in short, is a judge-made constitution, and it bears on its face all the features, good and bad, of judge-made law”.

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natura giudiziale e del loro valore fondamentale precedono qualunque esperienza di stato e di governo(14).

Una seconda caratteristica della natura giudiziale dei diritti fondamentali inglesi, deriva dal fatto che essi sono inscindibili dagli strumenti creati per la loro protezione (secondo il brocardo latino, ubi ius ibi remedium)(15). L’affermazione di tali diritti avviene contestualmente, ed inseparabilmente, alla creazione delle procedure formali per la loro difesa.

In questo contesto giuridico si inserisce il diritto di proprietà, che può essere sacrificato dall’imposizione per il perseguimento di interessi pubblici, ma non oltre un certo limite, perché diritto fondamentale ed originario. Proprio perché l’interesse collettivo, rappresentato in questo caso dall’imposizione, è la somma degli interessi individuali conferiti al Governo attraverso qualcosa di molto simile ad un contratto(16), esso non

(14) Questo aspetto è stato magistralmente messo in evidenza da A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, Enc. Giur. Treccani, XI, Roma, 1989, 2, che osserva: “le più importanti Carte dei diritti inglesi (…) non dichiarano di istituire nuovi diritti, ma, pur se in effetti questo era il loro scopo, nella loro forma espressiva si richiamano sempre agli “antichi diritti e libertà” degli Inglesi, vale a dire a diritti radicati in norme (per lo più non scritte) preesistenti o anteriori alle stesse Carte, diritti che queste erano chiamate semplicemente a riconoscere o “confermare”. Che fosse storicamente vero o falso, ciò sta in ogni caso a significare che l’idea positiva posta a base del riconoscimento di quei diritti consisteva nel radicamento degli stessi in norme intangibili e immodificabili da parte dei poteri costituiti, in quanto i diritti di ogni “uomo libero” erano considerati come parti vitali della tradizione posta a fondamento della particolare identità storica, politica e giuridica del popolo inglese”. Se ne vedano accenni anche in ID., Libertà. I) Problemi generali, in Enc. Giur. Treccani, XIX, Roma, 1990, 11-12. Cfr., anche, G. AMATO, Libertà (dir. cost.), in Enc. Dir., XXIV, Milano, 1974, 272 (279 ss.); J. HABERMAS, Recht und Moral (Tanner Lectures), Frankfurt am Main, 1986, trad. it., Morale, Diritto, Politica, Torino, 1992, 70. In materia tributaria questa prospettiva è stata ampiamente discussa e sviluppata da L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritto costituzionali, Milano, 1996, 34 ss; ID., Art. 23, 484 (485), in Commentario alla Costituzione. Artt. 1-54, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino, 2006. Cfr., anche, P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 25-26. (15) Ancora A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, cit., 191: “there runs through the English constitution that inseparable connection between the means of enforcing a right and the right to be enforced which is the strength of judicial legislation. The saw, ubi jus ibi remedium, becomes from this point of view something much more important than a mere tautologous proposition. In its bearing upon constitutional law, it means that the Englishmen whose labours gradually framed the complicated set of laws and institutions which we call the Constitution, fixed their minds far more intently on providing remedies for the enforcement of particular rights or (what is merely the same thing looked at from the other side) for averting definite wrongs, than upon any declaration of the Rights of Man or of Englishmen”. (16) In questo senso, riferendosi, al Bill of Rights, N. MATTEUCCI, Organizzazione del potere e libertà. Storia del costituzionalismo moderno, Torino, 1976, 110-111, afferma: “la legge ebbe quel titolo solo per accontentare il conservatorismo dei Tories che, fedeli alla tradizione, temevano la parola contratto, la quale sembrava troppo innovatrice e

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può, anche per ragioni logiche, considerarsi superiore ai diritti individuali che ne costituiscono il presupposto.

Quello sopra descritto è il principale, ma non il solo risultato raggiunto nell’esperienza “costituzionale” inglese. Accanto al diritto dei contribuenti e dei loro rappresentanti ad assentire all’imposizione ed alla riscossione dei tributi, si pongono anche due ulteriori effetti, connaturati alla necessità del consenso all’imposizione autoritativa di prestazioni reali o personali ai singoli. Anzitutto, il potere dei contribuenti di decidere la ripartizione del ricavato delle imposte tra le varie spese pubbliche e, quindi, indirettamente di decidere quali impieghi di utilità patrimoniali o personali fossero da considerarsi pubblici. In secondo luogo, l’affermazione del potere del Parlamento a controllare, anche ex post, il rispetto del bilancio(17).

Anche nell’esperienza costituzionale tedesca la riserva di legge si afferma, storicamente, in materia tributaria(18). Anche in questo contesto, la funzione originaria della riserva di legge dev’essere individuata nell’esigenza di attribuire la competenza al Parlamento – e di converso, di sottrarla al sovrano – nelle materie che comportassero interventi pubblici limitativi della libertà e della proprietà (Freiheit und Eigentum)(19).

La riserva di legge tributaria nasce nell’ordinamento monarchico tedesco quale rivendicazione della rappresentanza popolare e del Parlamento del potere di intervento – di auto-imposizione – in settori determinati. L’istituto si afferma in un assetto politico-organizzativo caratterizzato da una situazione di (instabile) equilibrio dualistico fra Parlamento e Sovrano(20). Più precisamente, “con il riconoscimento

rivoluzionaria. In effetti, però, si trattava di un vero e proprio contratto fra il Parlamento, interprete della nazione, e il re, che diventava tale solo per volontà del Parlamento, in base a chiare clausole, che limitavano la prerogativa e stabilivano le condizioni costituzionali in base alle quali la monarchia poteva esistere e funzionare. La formula giuridica, o la natura contrattualistica del Bill, è rivoluzionaria; il contenuto tradizionale”. (17) Così, chiaramente, G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, cit., 52. Si veda, anche, P. RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte Generale, Milano, 2002, 39-40; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, Torino, 2003, 84. (18) Più precisamente, fra le specifiche materie affidate alla competenza del legislatore rientravano l’imposizione dei tributi, l’approvazione del bilancio statale e la determinazione dei reati e delle pene. (19) Cfr., S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 35. Questo valeva solo per la materia tributaria e penale, mentre una funzione diversa aveva la riserva di competenza per l’approvazione del bilancio. (20) Diffusamente, su questo dualismo istituzionale, E.W. BÖCKENFÖRDE, Der Verfassungstyp der deutschen konstitutionellen Monarchie, 146 ss., in E.W. BÖCKENFÖRDE (Hrsg.), Moderne deutsche Verfassungsgeschichte (1815-1918), Köln, 1972, che individua, nella tipizzazione della monarchia costituzionale tedesca, i caratteri del c.d. “principio

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esplicito, anche se logicamente superfluo, della sua tradizionale competenza al consenso sui tributi, la rappresentanza popolare tende a “coprirsi le spalle” in vista di una sfavorevole conclusione della sua lotta contro il potere del monarca. Mentre con l’affermazione della sua competenza ad approvare preventivamente il bilancio dello Stato, tale rappresentanza pretende d’intervenire direttamente e concretamente in uno dei più importanti atti di indirizzo politico, e quindi pone le basi per il suo futuro predominio riguardo alla determinazione di tale indirizzo: cioè le basi dell’instaurazione di un vero e proprio regime parlamentare”(21). All’origine, dunque, la riserva di legge tributaria rappresenta lo strumento giuridico per la progressiva realizzazione del principio parlamentare, ovverosia del principio della “sovranità popolare” e del concetto di “legge in senso democratico”. Alla riserva parlamentare della materia tributaria, di bilancio e penale si riconnette, e da essa in un certo senso deriva, il principio della supremazia della legge(22). Questi principi e queste regole possono essere riassunti in un’unica formula, quella del “principio di legalità”, che si esprime in due particolari aspetti, quello della “preferenza” e quello della “riserva di legge”(23), realizzando l’esempio tipico del c.d. “stato legale”.

Alla prova dei fatti, ovverosia di fronte all’evoluzione dell’ordinamento monarchico costituzionale tedesco e nella dialettica fra Parlamento e Sovrano, la riserva tributaria (ma le osservazioni possono estendersi all’istituto in generale) perde la sua originaria giustificazione e funzione garantista e si rivela un mero “dogma politico”, come tale facilmente eludibile(24). In primo luogo, in ragione delle numerose eccezioni cui la riserva di legge era sottoposta: per gli atti singoli o concreti, ovverosia non dotati di natura normativa; per gli atti regolamentari che ripetessero o integrassero la disciplina dettata dalla legge; per l’esistenza delle c.d. “autorizzazioni precostituzionali e

monarchico”, del potere legislativo espresso in collaborazione fra Monarca e Rappresentanza (Volksvertretung) e del Governo e dell’amministrazione riservati al Sovrano, che ne costituiscono prerogativa assoluta. Cfr., anche, F. LANCHESTER, Le costituzioni tedesche da Francoforte a Bonn. Introduzione e testi, Milano, 2002, 21: “il modello del costituzionalismo tedesco nella sua formula più tipica è soprattutto quello basato sullo schema conservativo dualistico, che, nella linea della classica tradizione tedesca, individua come fondamentale la dicotomia tra Stato e società civile”. (21) S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 37-38. (22) Così, S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 35-36 che a sostegno di queste considerazioni cita il pensiero di D. JESCH, Gesetz und Verwaltung, Tübingen, 1961, 102: “der strafrechtliche und der steuerrechtliche Vorbehalt als Vorläufer des allgemeinen Gesetzmässigkeiprinzipes”. (23) S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 40. (24) S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 78-83.

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consuetudinarie” (“vorkonstitutionelle und gewohnheitsrechtliche Ermächtigungen”); ma, soprattutto, in ragione del suo contenuto, poiché essa si risolveva in una semplice autorizzazione legislativa(25) che escludeva l’effettiva regolamentazione della materia oggetto dell’intervento.

Per tutte queste ragioni, la riserva di legge tributaria immediatamente dopo la sua introduzione si trasformava, ancora embrione, da riserva di libertà e proprietà in riserva di competenza del Parlamento nei confronti dell’Esecutivo monarchico. Poiché esisteva una regola in ragione della quale si riteneva dovessero spettare all’Esecutivo, in caso di dubbio, tutti i poteri che l’ordinamento esplicitamente non gli negasse, la riserva di legge determinava in senso assoluto ciò che la legge poteva fare ma anche, specularmente, solo ciò che la legge deve fare. La riserva di legge conserverà questa funzione fino al mutamento della struttura dualista dell’ordinamento costituzionale.

Con l’affermarsi delle “democrazie parlamentari” continentali – esperienza che si può ritenere si estenda dalla metà del XIX secolo fino all’avvento delle costituzioni del secondo dopoguerra – l’esperienza costituzionale tedesca perde la sua unicità e può essere assimilata, senza sostanziali differenze, alle altre esperienze europee, e quindi anche a quella italiana. Diversamente dalla situazione inglese, la cui posizione nel panorama europeo(26) rimane, fino ai giorni nostri, peculiare secondo il modello schematicamente delineato supra.

Il carattere essenziale della riserva di legge nelle democrazie parlamentari è il suo appiattirsi sul principio di legalità, producendo una sostanziale indistinzione fra le due regole, e facendo assumere alla legalità un valore generale ed incondizionato, vero e proprio fondamento di tale forma di esperienza costituzionale(27). La legalità implica la necessità di

(25) Ancora S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 61 ss. con ambia citazione bibliografica. (26) Come rileva A. BALDASSARRE, Diritti inviolabili, cit., 3-4, la tradizione giuridica britannica è ereditata dall’ordinamento costituzionale statunitense. (27) S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 100 ss.; 164-165; K. TIPKE, Die Steuerrechtsordnung, I, Köln, 2000, 121 (“der Positivist oder Begriffslegalist hält sich strong and das ius positum oder ius positivum, an das gesetze Recht, welchen Inhalt es auch immer hat”). La coincidenza fra principio di legalità e riserva di legge in materia tributaria è confermata da F. CAMMEO, Le tasse e la loro costituzionalità, in Giur. It., IV, 1899, 193 (208) ove, riferendosi all’art. 30 dello Statuto albertino, afferma esso “ha riguardo soltanto al principio più volte ricordato, che ogni coercizione sui beni deve emanare dalla legge”; ID., Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, III, Milano, 1901, 150 ss., in V.E. Orlando (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo; F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Art. 30, 180 (181), in Commento allo Statuto del Regno, II, Torino, 1909; E. Vanoni, Natura ed

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una base legale (ovvero, di una autorizzazione legislativa) per tutti gli atti dell’esecutivo. È un principio di legalità – formale, si direbbe oggi – soddisfatto da norme legislative meramente “strumentali”, senza esigere in alcun modo norme legislative tali da vincolare nel contenuto i poteri attributi alla competenza dell’esecutivo.

La peculiarità dell’art. 30 dello Statuto Albertino(28), all’interno del più generale istituto delle riserve di legge, è la previsione di una doppia deliberazione parlamentare, in primo luogo per l’imposizione del tributo e quindi, periodicamente, per la sua riscossione(29). La disposizione era informata a due diverse esigenze (o funzioni). Rispetto all’istituzione dei tributi, la norma garantiva la proprietà privata ed era intesa quale norma speciale rispetto al precedente art. 29(30). Diversamente, il consenso delle Camere per la riscossione dei tributi era ispirato all’esigenza di un controllo politico del Parlamento sull’esecutivo(31). Per il resto, “nel momento stesso in cui si afferma il principio di legalità (…) e nel momento in cui si chiamano i sudditi ad esercitare, tramite un organo rappresentativo, il potere legislativo in concorso con il sovrano, il principio dell’autoimposizione viene necessariamente a scomparire (…) per confusione o per incorporazione nel detto principio di legalità”(32).

interpretazione delle leggi tributarie, Padova, 1932, ora in Opere giuridiche, I, Milano, 1961, 1 (93). (28) Tale articolo disponeva che “nessun tributo può essere imposto e riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re”. Come è stato ampiamente notato, questa formulazione deriva, pressoché letteralmente, dalla Carta costituzionale francese del 1814 richiamandone finanche “le suggestioni del principio del consenso quale andava enucleandosi nella cultura giuridica illuministica come criterio espressivo dello scambio di utilità che doveva intercorrere tra Stato e cittadini” (così, P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 55). Cfr., anche, S. BARTHOLINI, Il principio di legalità dei tributi in materia di imposte, cit., 58 ss. (“l’art. 30 derivava immediatamente dalla costituzione francese del 1830; in essa era stata riprodotta quella del 1814, la quale era stata attinta dall’ordinamento inglese, patria della teoria politica della consensualità dell’imposta”). E. VANONI, Natura ed interpretazione delle leggi tributarie, cit., 90 ss.; G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, cit., 53-54. (29) Così, F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Art. 30, cit., 182-183. (30) In questo modo, F. CAMMEO, Le tasse e la loro costituzionalità, cit., 208; F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Art. 30, cit., 181; A. BERLIRI, Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23 della Costituzione, 137 (142 ss.) in Studi in onore di A.D. Giannini, Milano, 1961; ID., Principi di diritto tributario, II, Milano, 1972, 284. (31) In questo senso, F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Art. 30, cit., 184-186 che affermano: “la disposizione della quale abbiamo discusso, ha dunque il valore, l’importanza e l’efficacia di guarentigia dell’esistenza stessa del regime rappresentativo: è la garenzia giuridica delle garenzie politiche” (186). (32) Questa la sintesi, magistrale, di A. BERLIRI, Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23 della Costituzione, cit., 144. Nello stesso senso, G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, cit., 65.

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Questi elementi segnano in maniera profonda l’esperienza tedesca e più generalmente, continentale europea, anche nell’evoluzione successiva, e la rendono incommensurabile rispetto a quella inglese, sebbene identica, si è notato, sia l’originaria funzione dell’istituto nei due ordinamenti giuridici. L’affermazione della riserva tributaria (ma in questo caso il discorso si può estendere all’istituto in generale) nell’ordinamento tedesco costituì, originariamente, una limitazione dei poteri dell’esecutivo, ovvero del sovrano, fino alla definitiva affermazione della piena “sovranità parlamentare”. I poteri dell’esecutivo, nella monarchia costituzionale tedesca, derivavano direttamente dalla natura, posizione e funzione dell’organo piuttosto che dal diritto(33) e trovavano nella legge solo un limite estrinseco(34). Quest’aspetto è testimoniato dalle numerose deroghe alla riserva parlamentare e, conseguentemente, alla libertà e proprietà dei singoli, perché all’esecutivo era consentito intervenire generalmente attraverso atti individuali non normativi. Contestualmente, sul finire del XIX secolo i giuristi tedeschi sviluppano l’idea “della legge come imperio di una istanza legislativa sovrana, cioè svincolata da ogni contenuto”(35), sostituendo al sovrano la sovranità assoluta, ovverosia priva di alcun limite superiore, del Parlamento, similmente a quanto affermatosi in Francia con la Rivoluzione e la teorizzazione di Rousseau.

La situazione non muta nemmeno con il consolidamento delle democrazie parlamentari. Sebbene in tale sistema, come si è già indicato, tutti gli atti dell’esecutivo dovevano essere autorizzati dalla legge, la posizione del singolo non può ancora dirsi di libertà, perché condizionata senza limiti dal potere pubblico di imposizione. Non esisteva, in altre parole, uno stato di libertà precedente alla legge, ma la posizione dell’individuo dipendeva interamente da quest’ultima. Si realizzava quella equiparazione totale fra legge e diritto, di cui si è già detto nel precedente capitolo. Nonostante l’affermazione dei diritti e delle libertà individuali nelle carte costituzionali, esse, considerata la loro flessibilità e la sovranità assoluta delle assemblee legislative, potevano essere derogate da atti legislativi successivi(36). La riduzione del diritto alla legge produceva un (33) Così, chiaramente, E.W. BÖCKENFÖRDE, Gesetz und gesetzgebende Gewalt, Berlin, 1958, 324-325. (34) O. MAYER, Le droit administratif allemand, I, Paris, 1903, 96 ss. (35) Così, J. HABERMAS, Morale, Diritto, Politica, cit., 69, che prosegue: “si tratta dello stesso concetto positivistico di legge che, alla fine, verrà applicato alla legislazione parlamentare dai costituzionalisti progressisti della repubblica di Weimar, per es. da Hermann Heller: “Nello stato di diritto si chiamano leggi soltanto – e tutte – le norme giuridiche stabilite dal potere legislativo del popolo””. (36) Che la riserva di legge non costituisca una garanzia dei diritti affermati in una costituzione flessibile è affermato autorevolmente da C. SCHMITT, Legalität und Legitimität, Berlin, 1993, 76-77 ove sottolinea che “man sich der Herrschaft des Gesetz

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sostanziale annullamento della previsione costituzionale dei diritti di libertà e proprietà, tale da far apparire, soprattutto in materia tributaria, la posizione del singolo quale situazione di soggezione (una “posizione recessiva”(37)) di fronte alla manifestazione del potere d’imposizione.

L’intervento (o il consenso) del Parlamento in materia tributaria non costituiva, quindi, un atto di autoimposizione, bensì un’autolimitazione dei poteri dello Stato, questi effettivamente costituenti un prius rispetto al diritto. Lo Stato si ritraeva per dare spazio (giuridico) al singolo. L’istituto della Vorbehalt des Gesetzes, dunque, nasce come limite all’azione amministrativa, al potere dell’esecutivo (Eingengung freier Verwaltungstätigkeit).

Nell’esperienza inglese (e poi americana), all’opposto, i diritti e le libertà fondamentali (fra cui il diritto di proprietà, limitato dall’imposizione tributaria) per certi versi preesistono al fenomeno giuridico e da questo sono “conosciuti” attraverso il common law (e, per l’esperienza americana, dalla Costituzione). Detto diversamente, nelle tradizioni e nei costumi del popolo inglese si trova l’idea che l’individuo è “naturalmente” libero e, come tale, titolare di alcuni diritti fondamentali. A questi diritti i giudici garantiscono ampia tutela, secondo la ricorrente finzione delle tradizioni giuridiche, e ne danno voce e formulazione espressa(38). Diversamente dal caso tedesco, la garanzia sostanziale del

gerade in Namen der Freiheit unterwarf, (…) und alle in der Verfassung gewährleisteten Grundrechte unbedenklich dem Gesetzgeber zur Verfügung stellte, der kraft des “Vorbehalts des Gesetzes” nach seinem Ermessen in sie eingreifen durfte”. Cfr., anche, G. AMATO, Rapporti fra norme primarie e secondarie. Aspetti problematici, Milano, 1962, 132-133 e nota 3. (37) Amplius, su questi temi, L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritto costituzionali, cit., 21 ss. (38) In questo senso, non si può accogliere per interno l’opinione di G. MARONGIU, I fondamenti costituzionali dell’imposizione tributaria. Profili storici e giuridici, cit., 52-53, quando afferma che “per dire che se l’art. 30 dello Statuto albertino si ricollegava immediatamente, nella sua formulazione letterale, alle più recenti Costituzioni francesi, a quelle del 1830 e 1814, nella sostanza avrebbe consentito anche il recupero della tradizione costituzionale inglese quali che fossero i sospetti da essa ingenerati in chi lo Statuto concedette” (corsivo aggiunto). Come si è cercato di dimostrare, l’esperienza costituzionale inglese, e più genericamente, giuridica tout court, è caratterizzata da caratteri esclusivi, non trapiantabili in quelli continentali. In queste esperienze, alla sovranità assoluta del Re si sostituisce progressivamente, dopo la rivoluzione francese, quella del Parlamento; nell’esperienza costituzionale inglese, la sovranità parlamentare, seppur teoricamente assoluta, trova sempre un limite sostanziale nei diritti fondamentali dell’individuo (fra cui il diritto di proprietà) e la garanzia della tutela da parte di un organo giurisdizionale indipendente (c.d. rule of law). Sebbene l’importanza del common law sia progressivamente diminuita a favore proprio del ruolo del Parlamento, l’ordinamento giuridico inglese non può dirsi omogeneo, perché caratterizzato da due diversi centri di produzione giuridica: il Parlamento ed il Giudice, che sono condizionati e limitati

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diritto di proprietà vincola anche il sovrano (e poi il Parlamento) poiché anche quest’ultimo è vincolato, almeno a partire dalla fine della guerra civile inglese, dal common law e, in particolare, dai diritti individuali dei singoli(39). In questo senso, il consenso all’imposizione del Parlamento rappresenta solo lo strumento procedurale attraverso cui si realizza la garanzia sostanziale, ovvero i diritti di libertà e di proprietà individuali.

Come si è già rilevato nel primo capitolo di questo lavoro, il quadro teorico di riferimento muta con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana del 1948 (ma più in generale, con l’avvento delle costituzioni del secondo dopoguerra; le esperienze più vicine a quella italiana sono

reciprocamente. La separazione fra common law e statute law, non rinvenibile nel diritto continentale, costituisce la più genuina continuazione dell’esperienza giuridica romana delle origini (cfr., in questo senso, A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa. 1. Le fonti e il pensiero giuridico, cit., 480-481; 484-485). Nell’esperienza nata dalla Rivoluzione francese, diversamente, il giudice, secondo la comune formula, è la “bocca della legge”, quindi né è subordinato. Il costituzionalismo continentale di fine ’800 e d’inizio ’900 non avrebbe, quindi, potuto recuperare il significato assunto dal consenso all’imposizione in Inghilterra perché profondamente differenti era il fondamento dei rispettivi ordinamenti giuridici. Lo stesso A. cita, ripetutamente, G. REBUFFA, Costituzioni e costituzionalismi, Torino, 1990, 54 e 107-108 ove si osserva, delle costituzioni continentali: “La Costituzione anziché legge fondamentale (che serve a fissare le aree giuridicamente tutelate di ciascuno soggetto, individuale o collettivo) diventa esplicazione dei modi di essere della sovranità; (…). In tal modo perdendosi totalmente l’idea dell’origine contrattuale di ogni forma di governo, le garanzie dei diritti vengono considerate come una semplice autolimitazione della sovranità”; e dell’ordinamento costituzionale inglese: “il punto centrale, quasi l’essenza della costituzione inglese, risiede nel fatto che la tutela dei diritti trovi un giudice che la sanzioni. È questo fatto che determina una diversità radicale tra i principi delle costituzioni dell’Europa continentale e quelli della costituzione inglese: nel primo caso i diritti sono dedotti dai principi, nel secondo i principi sono dedotti dai diritti”. Cfr., nello stesso senso, A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, cit., 190. In questo senso, da ultimo, L. ANTONINI, La sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, Milano, 2005, 28 che afferma: “al di là delle indebite generalizzazioni a volte proposte dalla dottrina, quindi, si può ritenere che il concetto di “autoimposizione”, nella sua espressione, per così dire, “pura” o completa, realizzata cioè attraverso il ruolo attribuito al potere legislativo e a quello giudiziario, abbia costituito una peculiarità dell’ambiente ideologico anglosassone, dove esso appariva come declinazione particolare del più generale principio della “liberty and property clause””. (39) Condivide appieno questa prospettiva, L. ANTONINI, Dovere tributario, interesse fiscale e diritto costituzionali, cit., 36 (ma anche 39-40): “il rovesciamento dell’ordine teorico dei termini della relazione libertà-autorità evidenzia, così, nella differenza con la teoria dei diritti pubblici soggettivi, la reale portata del principio di autoimposizione, per effetto del quale la legge tributaria rileva come autolimitazione dell’individuo titolare dei diritti di libertà e proprietà, piuttosto che come autolimitazione dello Stato già titolare del diritto (“naturale”) di imposizione”.

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quella tedesca e spagnola)(40). La Costituzione del 1948 toglie dalla disponibilità del legislatore ordinario (ma anche a quello costituzionale) i valori fondamentali dell’ordinamento giuridico, operando una separazione fra diritto e legge. La legge diviene quindi solo uno strumento per la realizzazione dei valori costituzionali, non più la “volontà generale” del popolo attraverso cui s’esprime la sovranità. Questi valori condizionano tutto l’ordinamento ed a questi valori dev’essere ricostruito in chiave unitaria l’intero ordinamento.

Ancora una volta si deve sottolineare che un discorso in parte diverso deve essere fatto per l’ordinamento inglese, solo sfiorato dal processo di costituzionalizzazione nel senso continentale. Nonostante la profonda differenza che separa le due esperienze giuridiche sotto il profilo formale, si deve nondimeno osservare che con l’avvento delle costituzioni novecentesche esse appaiono accomunate, sotto il profilo strutturale, dall’indisponibilità di alcuni valori fondamentali dell’ordinamento.

I paragrafi che seguono sono dedicati alla ricostruzione del valore della riserva di legge in materia tributaria nell’ordinamento costituzionale italiano.

3. L’ART. 23 DELLA COSTITUZIONE: OGGETTO E DISCIPLINA DELLA RISERVA DI LEGGE IN MATERIA DI PRESTAZIONI IMPOSTE.

L’art. 23 Cost. prevede che “nessuna prestazione personale o

patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. La disposizione è inserita nella Parte I della Costituzione italiana – Diritti e doveri dei cittadini – al Titolo I dedicato ai Rapporti civili.

Rispetto all’immediato precedente dello Statuto albertino, l’art. 23, anche ad una prima lettura, se ne differenzia in modo significativo in almeno tre aspetti(41). In primo luogo, quanto all’ambito di applicazione, l’art. 23 Cost. si riferisce a tutte le prestazioni imposte. La disposizione dello Statuto albertino era limitata alla materia tributaria(42) e, quindi, alla (40) Questa conclusione è generalmente accolta anche da chi non impiega espressamente il metodo delineato nel capitolo primo. Cfr., A. DI GIOVINE, Introduzione allo studio della riserva di legge nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 67 ss.; K. TIPKE, Die Steuerrechtsordnung, I, Köln, 2000, 121; F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, Valencia, 2005, 33; L. ANTONINI, Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, cit., 37; ID., Art. 23, cit., 490. (41) In questo senso, A. BERLIRI, Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23 della Costituzione, cit., 154 ss. (42) Per alcuni, addirittura, alle sole imposte con esclusione, in ragione del loro carattere commutativo o volontario, delle tasse. Cfr., F. CAMMEO, Le tasse e la loro costituzionalità,

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sola garanzia della libertà patrimoniale, costituendo l’ideale continuazione del precedente art. 29 che dichiarava tutte le “proprietà inviolabili”.

Quanto alla disciplina, diversamente, l’attuale disposizione costituzionale, per un verso, ha sostituito il “consenso delle Camere e la sanzione del Re” con l’imposizione delle prestazioni “in base alla legge” e, per altro verso, ha definitivamente rotto il legame fra prestazioni patrimoniali imposte e bilancio dello stato.

Rinviando ai paragrafi successivi l’approfondimento delle prime due questioni, un breve cenno merita quest’ultimo punto. L’art. 30, come si è già anticipato, prevedeva il consenso del Parlamento (e la sanzione del Re) sia per l’istituzione del tributo sia per la sua riscossione. Nell’indagine sopra condotta sull’evoluzione storica della disposizione, s’è mostrato che le due deliberazioni garantivano altrettante funzioni, sebbene ispirate dalla comune esigenza che fossero i consociati a decidere le limitazioni al proprio patrimonio. In questo senso, l’annuale consenso alla riscossione dei tributi costituiva un completamento (o rafforzamento) della storica garanzia, poiché consentiva di determinare ex ante e di controllare ex post l’impiego delle risorse pubbliche. Col tempo, al pari dell’evoluzione subita dalla riserva di legge tributaria, la competenza del Parlamento in materia di bilancio perse, sebbene non definitivamente, il proprio legame con le esigenze garantistiche individuali per assumere un peculiare valore generale, di controllo dell’attività dell’esecutivo nella gestione delle risorse pubbliche(43). In ragione di tale mutamento, il Costituente ha inserito nella Parte II, Titolo I, Sezione II dedicata alla formazione delle leggi, la disposizione relativa alla approvazione del bilancio dello Stato (art. 81 Cost.).

La trattazione dell’art. 23 Cost. si articolerà in tre distinti momenti: l’oggetto della disposizione, la sua disciplina ed il suo valore costituzionale.

cit., 208-210; S. BARTHOLINI, Il principio di legalità dei tributi in materia di imposte, cit., 42 nota 24-bis. Diversamente, F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Art. 30, cit., 187-189, ritenevano assoggettate all’art. 30 dello Statuto albertino una parte delle tasse, quelle che contengono “quell’elemento di coercizione in omaggio al quale soltanto si comprende e si desidera la garanzia di un atto delle Camere” (187). (43) A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 100-101; L. ANTONINI, Art. 23, cit., 488. Cfr., anche, F. SAINZ DE BUJANDA, Hacienda y Derecho, I, Madrid, 1962, 328-330, che parla di “bifurcación del principio de legalidad”.

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3.1. Le prestazioni patrimoniali imposte. L’art. 23 Cost. ha riunito in un’unica disposizione costituzionale tutti

gli interventi pubblici diretti ad incidere nella sfera della libertà e della proprietà individuali(44). La formula “prestazione imposta” costituisce dunque la sintesi normativa di una pluralità di istituti accomunati al tributo dal comune elemento della non volontarietà delle prestazioni che i singoli devono a favore della pubblica amministrazione(45).

Limitatamente alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., quindi, la nozione di tributo ha perso la propria specificità, ricompresa in quella più ampia di “prestazione (patrimoniale) imposta”(46).

L’art. 23 Cost. si riferisce alle prestazioni personali e patrimoniali accomunate dalla natura “impositiva”. Da questo elemento comune deve prendere avvio l’indagine.

In una prima, tradizionale, accezione, l’imposizione si riferirebbe, senza dissensi significativi, a tutte le prestazioni derivanti da un atto di

(44) Così, A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 26-29. (45) Questa tendenza può farsi risalire, nella dottrina italiana, anzitutto all’opera di F. CAMMEO, Le tasse e la loro costituzionalità, cit., 198 ss. e Della manifestazione della volontà dello Stato nel campo del diritto amministrativo, cit., passim. In questi lavori, l’A. mette in evidenza che “nei paesi liberi, ogni limitazione di libertà deve compiersi per legge”; questa limitazione può esplicarsi in due modi: “a) sotto forma di proibizione quando siavi il divieto di ricorrere ad altri che allo Stato per il prodotto o il servizio . (...); b) sotto forma di comando, quando si imponga l’obbligo di richiedere il servizio o prodotto in via generale, oppure l’obbligo di sottostare all’intervento, sia pure individualmente utile, dello Stato in alcuna attività privata, quando lo Stato lo ritenga opportuno”; in questo senso, come in parte già anticipato, la legge era richiesta sicuramente per le imposte; diversamente, per le tasse “a) non è necessaria una legge quando il servizio o il prodotto per cui si chiede una tassa, sia fornito dagli enti pubblici senza monopolio, e lasciando libertà ai cittadini di richiederlo o meno (...); b) non è necessaria una legge quando il servizio o l’industria sia monopolizzata dagli enti pubblici, ma il compenso sia inferiore a quello che si richiederebbe sotto il regime della concorrenza, e tenda con approssimazione al costo di produzione. (...); c) è necessaria una legge quando la coazione non sia apparente o quanto meno negativa come nel caso precedente, ma sia positiva” (Le tasse e la loro costituzionalità, cit., 198, 202-203; 209). Questa evoluzione è descritta da A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 23 ss., che rinvia a S. ROMANO, Principi di diritto amministrativo italiano, Milano, 1901, 239 ss. e M.S. GIANNINI, Le obbligazioni pubbliche, Roma, 1964, 44 ss. Si veda anche A. BERLIRI, Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23 della Costituzione, cit., 155; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 20-22 e, da ultimo, L. DEL FEDERICO, Tasse, tributi paracommutativi e prezzi pubblici, Torino, 2000, che, riferendosi a Cammeo osserva “si tratta di intuizione che verrà poi ripresa ed approfondita dai giuristi di più diversa estrazione che dovranno necessariamente confrontarsi con il poliedrico concetto di “prestazioni imposte” ex art. 23 Cost.”. (46) A. Fedele, La riserva di legge, cit., 160.

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autorità alla cui costituzione non abbia concorso la volontà del soggetto(47). Tradizionale perché la necessità del consenso delle prime assemblee parlamentari s’impone proprio per contrastare il pagamento di somme di denaro o la dazione di beni decise dal Sovrano contro la volontà del soggetto. In tempi più recenti, a causa dell’influenza della dottrina tedesca, muta la terminologia ma non la sostanza delle cose. In questo senso, l’imposta diviene manifestazione della potestà d’imperio dello stato connessa alla sovranità(48), dovuta quindi in ragione di un atto autoritativo senza il concorso della volontà del soggetto. Si produce una contrapposizione duale fra le obbligazioni generate dall’autonomia negoziale (e quindi non imposte) e obbligazioni costituite dalla legge o dall’atto amministrativo, in cui la fonte determina il momento coercitivo(49). L’elaborazione del contenuto iniziale dell’imposizione, quindi, è inscindibile dalla nozione di tributo e dalla teoria tributaria.

La mancanza della volontà del soggetto non è stata considerata dalla giurisprudenza costituzionale elemento indispensabile alla nozione di

(47) Cfr., sentenza 26 gennaio 1957, n. 4, punto 3 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1957, 22,: “l’oggetto di questa norma costituzionale, che è intesa alla tutela della libertà e della proprietà individuale, è quello di determinare a quali condizioni una prestazione, personale o patrimoniale, può essere legittimamente “imposta” cioè può essere stabilita come obbligatoria a carico di una persona senza che la volontà di questa vi abbia concorso. (…). La denominazione della prestazione non è rilevante a tale effetto, poiché il criterio decisivo per ritenere applicabile l’art. 23 della Costituzione è che si tratti di prestazione obbligatoria in quanto istituita da un atto d’autorità”; sentenza 8 luglio 1957, n. 122, in Giur. cost., 1957, 1101; sentenza 16 dicembre 1960, n. 70, punto 4 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1960, 1209. (48) Si è già visto, in questo senso, F. CAMMEO, Le tasse e la loro costituzionalità, cit., 202; si vedano, anche, A.D. GIANNINI, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, 1937, 1-5; 61-62, con ampio rinvio alla letteratura tedesca (nota 1): “l’imposta, nell’aspetto giuridico, è una prestazione pecuniaria che lo Stato, o un altro ente pubblico, ha il diritto di esigere in virtù della sua potestà d’impero, originaria o derivata, nei casi, nella misura e nei modi stabiliti dalla legge, allo scopo di conseguire un’entrata. (...). l’imposta non ha, giuridicamente, altro fondamento che la giustifichi se non questo solo della soggezione alla potestà finanziaria dello Stato. (...). La potestà finanziaria, essendo uno degli aspetti del potere d’impero dello Stato, ha, naturalmente, la medesima estensione di quest’ultimo. Essa, quindi, nello Stato unitario come il nostro è teoricamente illimitata quanto al contenuto e può incondizionatamente esplicarsi, cosicché nella scelta delle specie d’imposta, nella determinazione della loro misura, e nel regolamento in genere del rapporto, lo Stato, e più precisamente i suoi organi legislativi, non incontrano nessun vincolo giuridico”); A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 23 ss.; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 17-18; 87-88. (49) Ancora A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 67. Rileva P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 66, che il momento autoritativo “venne così riferito al livello dell’atto legislativo in quanto espressione della supremazia dello Stato, ma non anche trasposto sul piano del rapporto tra contribuente ed ente impositore fino al punto di negare l’esistenza di un rapporto giuridico”.

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imposizione. In una seconda accezione di prestazione imposta, decisamente più estesa, la Corte ha ritenuto irrilevante la richiesta del servizio del privato quando la disciplina dell’assetto negoziale delle prestazioni sia interamente (o per la maggior parte) predeterminata in via autoritativa(50). Si assume in via generale, nella giurisprudenza costituzionale, che la determinazione autoritativa delle tariffe di un servizio pubblico essenziale ai bisogni della vita deve considerarsi, “nella realtà effettuale”, una vera e propria imposizione. Nella determinazione delle prestazioni imposte, si realizza in questo modo il superamento dello schermo formale della natura giuridica autoritativa dell’atto (o del provvedimento) impositivo, per assumere l’elemento materiale, l’imposizione di fatto, quale risulta dalla realtà, che produce l’annullamento della libertà del singolo e la sua riduzione a mera libertà formale(51). Questo aspetto merita, tuttavia, un’ulteriore precisazione. La giurisprudenza costituzionale non assume quale dato rilevante per qualificare la prestazione imposta gli elementi di fatto dell’imposizione, ma i soli elementi di diritto(52). Nel caso delle tariffe telefoniche, quindi, né l’elemento dell’imposizione di fatto né quello della “essenzialità” della prestazione(53) assumono un ruolo decisivo per la qualificazione della (50) In questo senso, la famosa sentenza sulle tariffe telefoniche, 9 aprile 1969, n. 72, in Giur. Cost., 1969, 490, para. 3 del considerato in diritto: “si deve affermare che il carattere impositorio della prestazione non è escluso per il solo fatto che la richiesta del servizio dipenda dalla volontà del privato: ed invero tutte le volte in cui un servizio, in considerazione di una sua particolare rilevanza, venga riservato alla mano pubblica e l’uso di esso sia da considerare essenziale ai bisogni della vita, è d’uopo riconoscere che la determinazione autoritaria delle tariffe deve assimilarsi, nella realtà effettuale, ad una vera e propria imposizione di prestazioni patrimoniali. Quando ricorrano entrambi gli indicati presupposti, il fatto che l’obbligazione al pagamento del corrispettivo del servizio presupponga la volontà dell’utente di avvalersi dello stesso non giuoca, sotto il profilo che qui viene in considerazione, un ruolo determinante. Se è vero, infatti, che il cittadino è libero di stipulare o non stipulare il contratto, è altrettanto vero che questa libertà si riduce alla possibilità di scegliere fra la rinunzia al soddisfacimento di un bisogno essenziale e l’accettazione di condizioni e di obblighi unilateralmente e autoritariamente prefissati: si tratta, insomma, di una libertà meramente formale, perché la scelta nel primo senso comporta il sacrificio di un interesse assai rilevante”. In dottrina, A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 73 ss.: “può dirsi sussistere, in tale ambito, una “prestazione patrimoniale imposta” esclusivamente nelle ipotesi in cui risulti integralmente ed inderogabilmente determinata in via autoritativa la disciplina delle reciproche prestazioni in sé sufficiente a realizzare il depauperamento patrimoniale di una delle parti” (75). (51) Cfr., in questo senso, anche E. TOSATO, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, 2007 (2113), in Scritti in onore di G. Ambrosini, III, Milano, 1970. (52) In questo senso, M. LUCIANI, Le prestazioni imposte al giudizio della Consulta, in Corr. Trib., 1988, 3139 (3140). (53) Sembrano ritenere rilevante l’essenzialità della prestazione, G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte Generale, Padova, 2003, 128; S. LA ROSA, Principi di diritto

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prestazione. Ciò che rileva, diversamente, è l’esistenza di un monopolio legale che impedisce de iure la soddisfazione di un bisogno attraverso una via alternativa(54).

Quanto alla nozione di prestazione personale e patrimoniale imposta, la ricostruzione di essa, pur non potendo essere effettuata in maniera unitaria se non a costo di un’eccessiva generalizzazione poco utile sul piano dei risultati, deve essere sempre orientata dall’esigenza originaria della disposizione costituzionale, quella di eliminare gli interventi autoritativi nella sfera personale. La dottrina ha infatti elaborato “la nozione di “prestazione imposta” comprendendo tanto delle decurtazioni patrimoniali, quanto vere e proprie ipotesi di limitazioni della libertà individuale (le “prestazioni patrimoniali”), cui ricollega la necessità della “base” legislativa”(55).

In questo senso, il contenuto delle prestazioni personali è sempre un “comportamento positivo, tale da richiedere l’esplicazione di energie fisiche ed intellettuali e da incidere sulla libera disponibilità della persona e delle attività del privato”(56).

Diversamente, la nozione di prestazione patrimoniale è fortemente condizionata da quella di tributo. Pur non costituendone la categoria esclusiva, il tributo ne costituisce certamente quella più rilevante, sia in termini qualitativi sia quantitativi. Partendo dalla nozione di tributo, quindi, l’elemento primario nella costruzione della nozione di prestazione patrimoniale è quello della diminuzione autoritativa del patrimonio del singolo(57). Non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 23 Cost, quelle prestazioni patrimoniali che, pur risultando da una disciplina autoritativa, non realizzano tale effetto. Altrimenti detto, “ai fini dell’art. 23 cost. non assumono rilievo le alterazioni qualitative della composizione del patrimonio dei privati, pur autoritativamente determinate, ma la riduzione del suo valore economico”(58). Tali fattispecie potranno, eventualmente, ricadere nell’ambito di applicazione delle libertà economiche garantite dalla Costituzione (artt. 41 ss.).

In secondo luogo, la diminuzione patrimoniale deve costituire la funzione esclusiva o principale della disciplina, indipendentemente dalla tributario, Torino, 2006, 9; S. CIPOLLINA, La riserva di legge in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, 162 (170-171), in L. PERRONE, C. BERLIRI, Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli, 2006. (54) Nel senso del testo, cfr., A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 78-80. (55) A. FEDELE, La riserva di legge, cit., 160. (56) A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 46. (57) Cfr., A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 49 ss.; ID., La riserva di legge, cit., 161-162; ID., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 43-44; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 24. (58) A. FEDELE, La riserva di legge, cit., 166.

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struttura della fattispecie – obbligatoria o reale – ovvero dall’oggetto – prestazioni pecuniarie e non pecuniarie(59). 3.2. La disciplina della riserva di legge.

Si parla di disciplina della riserva di legge in materia di prestazioni imposte in almeno due modi distinti. In via preliminare, si deve accertare quali atti soddisfano l’espressione “in base alla legge” contenuta nell’art. 23 Cost. In secondo luogo, si deve verificare quale parte della disciplina istitutiva delle prestazioni imposte debba trovare la propria fonte nella “legge” così definita. L’analisi di questo secondo punto sarà limitata ai soli tributi quali species di prestazioni patrimoniali imposte.

Si è già ricordato che lo Statuto albertino richiedeva il consenso delle Camere, frutto di un’acritica trasposizione della tradizionale formula inglese, secondo cui “the Crown demands money, the Commons grant it, and the Lords assent to the grant”(60). In realtà, la pratica legislativa e la dottrina(61) ridussero tale formula alla comune esigenza che il tributo trovasse il proprio fondamento nella legge. Il Costituente repubblicano, memore di questa evoluzione e nel quadro di una più ampia rivalutazione delle riserve legislative, ha fatto riferimento direttamente alla “legge”.

Il termine “legge” individua, in primo luogo, la legge ordinaria prevista dagli artt. 70 ss. della Costituzione. Più precisamente, tale atto costituisce lo strumento ideale, in ragione della composizione dell’organo e del procedimento di formazione, per garantire la partecipazione dei rappresentanti dei cittadini alla formazione delle decisioni in materia tributaria. La riserva di “legge” è individuata anzitutto per i caratteri propri del Parlamento (rappresentatività diretta e collegialità dell’organo) e del procedimento (confronto fra maggioranza e minoranza; pubblicità delle sedute) e, solo indirettamente per il suo contenuto materiale.

La giurisprudenza costituzionale ha, fin dall’inizio, incluso nella nozione di “legge” prevista all’art. 23 Cost. anche gli atti normativi aventi forza di legge, quali i decreti legislativi (art. 76 cost.) ed i decreti legge (art. 77 cost.)(62). (59) Ancora, A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 49 ss., che, sulla base di questo criterio, esclude che l’espropriazione per pubblica autorità rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 23 Cost. (60) T. ERSKINE MAY (LORD FARNBOROUGH), Treatise on The Law, Privileges Proceedings and Usage of Parliament, London, 1957, 677. Inizialmente il Parlamento non poteva modificare la richiesta del Sovrano, ma solamente accoglierla o respingerla. (61) Così, F. RACIOPPI, I. BRUNELLI, Art. 30, cit., 182-183. (62) A titolo meramente esemplificativo, cfr. Corte cost., sentenza 11 febbraio 1969, n. 126, punto 2 del considerato in diritto, in Giur. cost., 1969, 1736: “la garanzia stabilita nell’art. 23 della Costituzione non vieta che, con l’osservanza dei limiti stabiliti dall’art. 76 della stessa Carta costituzionale, possa essere demandata al Governo l’emanazione di atti

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L’ampliamento della nozione di “legge” si riflette inevitabilmente, come si dirà anche infra, sulla funzione dell’art. 23 Cost. I decreti legislativi ed i decreti legge, infatti, sono atti solo formalmente legislativi e, in ogni caso, risultanti dalla “cooperazione” fra Parlamento e Governo. Ammettere che essi soddisfano la riserva di legge, significa riconoscere che il fondamento di quest’ultima non può essere individuato esclusivamente nei caratteri propri del Parlamento, né di uno specifico procedimento normativo. Anche l’argomento che, per gli atti di delegazione e per i decreti legge sia comunque necessario un intervento parlamentare, preventivo o successivo, non modifica la correttezza di queste conclusioni. Il procedimento di formazione dei decreti legislativi, infatti, si perfeziona solo con la partecipazione di un organo costituzionale diverso da quello parlamentare(63). Più complesso il discorso per i decreti legge. In questo caso, poiché l’intervento del legislatore è ex post, ci si deve interrogare sull’ammissibilità costituzionale dell’integrale discrezione del Governo in una materia coperta dalla riserva di legge(64). Lo stesso legislatore tributario sembra diffidarne quando, dettando le disposizioni dello Statuto dei diritti del contribuente (l. 27 luglio 2000, n. 212) “in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione”, prevede che “non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti” (art. 4).

In conclusione, e salvo quanto si dirà nel successivo paragrafo, dall’analisi del termine “legge” sembra possa escludersi che l’art. 23 Cost. realizzi una funzione esclusivamente politico-costituzionale, volta a riservare all’organo rappresentativo, ovvero ad un particolare procedimento strumentale al carattere rappresentativo dell’organo(65), l’intervento in materia di diritti e libertà patrimoniali e personali. Con certezza, diversamente, si può affermare che alla ragione politica della

normativi in materia di imposte aventi lo stesso valore della legge ordinaria, purché la volontà del Parlamento a delegare l’esercizio della funzione legislativa, trovi essa stessa espressione nella legge formale, a conclusione della “normale procedura” di esame ed approvazione della legge, come nella specie è appunto avvenuto, in conformità dell’art. 72, ultimo comma, della Costituzione”. (63) Cfr, in questo senso, C. MEZZANOTTE, Interrogativi in tema di delegazione legislativa in materia riservata alla legge, in Giur. Cost., 1969, 1738 (1744): “non esiste una sia pur lontana analogia o somiglianza di forme tra gli atti legislativi delle Camere e quelli del Governo”. (64) L. CARLASSARE, Legge (riserva di), cit., 3. (65) A sostegno di questa prima conclusione si può aggiungere anche il divieto di referendum abrogativo per le “leggi tributarie” (art. 75, comma 2, Cost.).

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riserva si è aggiunta una ragione di ordine tecnico-giuridico(66) che riconosce a tutti gli atti dotati di forza e valore di legge idoneità di soddisfare la riserva in materia di prestazioni imposte.

Quanto alle leggi regionali (ed alle leggi provinciali di Trento e Bolzano), porsi il problema se il termine “legge” dell’art. 23 Cost. si estenda anche ad esse o meno, può apparire fuorviante. A parte il nomen iuris, tali atti sono provvisti di tutti i requisiti normalmente individuati per ritenere l’atto idoneo a regolare determinati oggetti coperti da riserva: il carattere rappresentativo dell’organo, la partecipazione delle minoranze nel procedimento di formazione dell’atto, l’articolazione e la pubblicità del procedimento, la forza di legge e, quindi, la sindacabilità ad opera della Corte costituzionale(67).

La concreta ammissibilità della legge regionale a regolare l’oggetto della riserva di legge deve essere quindi accertata attraverso le disposizioni costituzionali che disciplinano il riparto della competenza fra lo Stato e le Regioni in materia tributaria(68).

Da ultimo, un breve cenno al rapporto fra riserva di legge e diritto comunitario. La Corte costituzionale si è occupata specificamente della questione nella sentenza n. 183 del 1973, al fine di accertare se la riserva di legge ex art. 23 Cost. costituisse un limite alla diretta applicabilità nell’ordinamento interno di un regolamento comunitario. In tale pronuncia essa ha rilevato, con una motivazione invero non perfettamente coerente, che la previsione di prestazioni patrimoniali imposte con regolamento comunitario “non importa deroga alla riserva di legge sancita dall’art. 23 della Costituzione, poiché questa disposizione non è formalmente applicabile alle norme comunitarie, emanazione di una fonte di produzione autonoma, propria di un ordinamento distinto da quello interno. D’altra

(66) Così, quasi testualmente, L. CARLASSARE, Legge (riserva di), cit., 3. In questo senso, anche, C. MEZZANOTTE, Interrogativi in tema di delegazione legislativa in materia riservata alla legge, cit., 1745: “sembra quindi che la Corte, tra le possibili soluzioni da dare al problema di cui è dianzi accennato, abbia operato una decisa scelta in favore di quella che riconosce nel particolare valore (trattamento) degli atti legislativi il vero significato delle riserve di legge. L’impostazione , indubbiamente restrittiva del “contenuto garantistico” di questo istituto, trova un innegabile aggancio con la realtà dei sistemi moderni” (corsivo aggiunto). (67) Cfr., a titolo esemplificativo, Corte cost., sentenza 12 luglio 1965, n. 64, punto 6 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1965, 674,: “gli atti emanati dalla Regione nell’esercizio della competenza legislativa concorrente o sussidiaria sono, nel linguaggio dei testi costituzionali, “leggi” come le altre, l’attribuire il predetto significato all’art. 23 equivarrebbe a negare quella competenza legislativa, che la Corte ha riconosciuto alla Regione nelle sentenze più volte ricordate, precisando che trattasi di competenza non esclusiva, ma concorrente e sussidiaria della competenza statale”. Diffusamente, sul tema, L. CARLASSARE, Legge (riserva di), cit., 3-4. (68) Così, A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 91.

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parte, anche sotto un profilo sostanziale, sembra ovvio osservare che quella storica garanzia non potrebbe dirsi violata, dal momento che i regolamenti comunitari debbono statutariamente corrispondere ai principi e criteri direttivi stabiliti dal Trattato istitutivo delle Comunità” (punto 8. del considerato in diritto). Per un verso, la Corte costituzionale esclude l’applicabilità della riserva di legge ai regolamenti comunitari in ragione della separazione fra ordinamento interno e comunitario ma, per altro verso, ne esclude l’incompatibilità “sostanziale” in ragione del riparto delle competenza fra Unione europea e stati membri.

Anche senza voler ravvisare una contraddizione o incoerenza logico-giuridica, l’affermazione della Corte è certamente poco persuasiva(69). Se è corretto affermare che il carattere formale dei regolamenti deve essere valutato in ragione dei criteri direttivi e dei principi stabiliti dal Trattato, non si può altresì negare che tali caratteri non corrispondono a quelli che l’ordinamento interno prescrive per gli atti normativi che disciplinano le prestazioni patrimoniali imposte. Non si può nascondere, in altre parole, che questa giustificazione conduce, non tanto a eliminare il contrasto fra l’istituto della riserva di legge tributaria e le fonti comunitarie, quanto a mettere in evidenza con maggior intensità il “deficit democratico” che connota l’organizzazione della funzione normativa a livello comunitario. Conclusioni analoghe si deducono anche se si assume che il richiamo “ai principi e criteri direttivi stabiliti dal Trattato istituti delle Comunità” non si riferisca alle norme sul procedimento normativo, ma a quelle sulla competenza. Come si è già dimostrato, infatti, dalla separazione fra gli ordinamenti non è possibile derivare la separazione degli ambiti materiali fra Comunità e stati membri, sia perché tale confine è incerto, sia perché nelle materie di competenza esclusiva statale il diritto interno non può comunque violare i principi dell’ordinamento comunitario.

(69) Parla di “contraddittorietà” e di non “persuasività”, F. DONATI, Diritto comunitario e sindacato di costituzionalità, Milano, 1995, 72; di affermazione “insoddisfacente”, F. SORRENTINO, Regolamenti comunitari e riserva di legge, in Dir. Prat. Trib., 1974, II, 245 (247 ss.): “postulare una sorta d’indifferenza costituzionale rispetto alla disciplina comunitaria d’interi settori è puro formalismo”. Un ragionamento simile è sviluppato anche nella sentenza 27 dicembre 1965, n. 98, punto 2 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1965, 1322, ove la Corte afferma: “le disposizioni denunciate sono fuori dal dettato degli artt. 102 e 113 Cost. Tali articoli concernono soltanto la tutela dei diritti e degli interessi che sono attribuiti ad ogni soggetto per la sua posizione nell’ordinamento interno, e non dei diritti e degli interessi che gli derivano dalla sua posizione in un ordinamento estraneo com’è quello della CECA. (…). Né è esatto che, nell’ambito dell’ordinamento della CECA, risulta compressa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi previsti dall’art. 113 Cost.”.

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La Corte costituzionale è tornata sulla questione con la sentenza n. 383 del 1998(70) ritenendo che la disciplina dettata da “direttive comunitarie esecutive” possa costituire un limite alla discrezionalità dell’amministrazione e quindi soddisfare le riserve relative di legge(71). Più precisamente, la “delimitazione della discrezionalità dell’amministrazione deve essere riconosciuta alle norme comunitarie dalle quali derivino obblighi per lo Stato incidenti sull’organizzazione degli studi universitari” (punto 4.3 del considerato in diritto). In questo senso, il diritto comunitario è integralmente equiparato agli atti interni aventi forza e valore di legge in funzione del soddisfacimento delle riserve di legge “relative”, poiché qualunque atto comunitario pone “obblighi” (di varia natura) per lo Stato.

Questa giurisprudenza è stata accolta, per la materia tributaria, dalla Suprema Corte di cassazione nella sentenza n. 17564 del 2002. Dopo aver ampiamente accertato la diretta efficacia nell’ordinamento nazionale delle decisioni (negative) comunitarie in materia di aiuti di stato attraverso un’accurata ricostruzione dei precedenti nella giurisprudenza comunitaria, il giudice di legittimità ha statuito, richiamando la sentenza n. 383 del 1998, che “non può esservi dubbio, alla luce di tutte le considerazioni dianzi svolte, che le norme poste da una decisione negativa della Commissione in materia di aiuti di Stato rientrino nel novero delle “norme comunitarie dalle quali derivano obblighi per lo Stato””(72).

3.3. Valore della riserva di legge tributaria e disciplina legislativa. Della diversa rigidità dell’art. 23 Cost.

Il secondo profilo dell’indagine attiene alla determinazione della porzione della disciplina delle prestazioni imposte che deve essere prevista dagli atti legislativi sopra specificati. Dottrina e giurisprudenza qualificano infatti la riserva di legge in materia di prestazioni imposte come “relativa”(73): solo gli elementi essenziali delle prestazioni imposte sono costituzionalmente riservati alla legge(74).

(70) Corte cost., sentenza 27 novembre 1998, n. 383, in Giur. Cost., 1998, 3316. (71) Più precisamente, la Corte osserva che quando “la Costituzione configura [riserve] “aperte” a svolgimenti da parte della amministrazione, l’esistenza di direttive comunitarie esecutive comporta che l’obbligo di predisposizione diretta della normativa sostanziale entro la quale deve ridursi la discrezionalità dell’amministrazione viene alleggerendosi, per così dire, in conseguenza e proporzione alla consistenza delle direttive medesime” (punto 4.3. del considerato in diritto). (72) Cass, sez. V, sentenza 10 dicembre 2002, n. 17564, punto 5 della motivazione, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2004, II, 3. (73) Cfr., Corte Cost., sentenza 11 luglio 1969, n. 129, punto 2 del considerato in diritto in Giur. Cost., 1969: “va osservato che il principio costituzionale, secondo cui l’imposizione di prestazioni patrimoniali è autorizzata solo “in base alla legge”, esprime una riserva di legge soltanto relativa. La stessa formula espressa nell’art. 23 della Costituzione in

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Questa conclusione, sebbene consenta di cogliere un primo elemento strutturale della riserva di legge ex art. 23 Cost., non offre che una prima approssimazione del significato di relatività della riserva. Ogni ulteriore approfondimento della questione deve essere svolto parallelamente all’indagine intorno al valore dell’art. 23 Cost. Esiste, in altre parole, un certo grado di dipendenza fra il valore della disposizione costituzionale e il contenuto necessario della disciplina legislativa, poiché il primo orienta la dimensione del secondo. Invertendo i momenti dell’analisi, disciplina legislativa e quindi valore della norma, si rischia di giungere a conclusioni insoddisfacenti, se non del tutto apodittiche.

La giurisprudenza costituzionale attribuisce all’art. 23 Cost. il valore (o la funzione) di proteggere la libertà e la proprietà individuale dalla discrezionalità e dall’arbitrio dell’esecutivo (sentenza n. 4 del 1957,punto 3 del considerato in diritto). Poiché le prestazioni indicate nell’art. 23 Cost. sono accomunate dal carattere “autoritativo”, nel senso sopra specificato di

sostituzione di altra formula più restrittiva, dapprima proposta, è indicativa di questo concetto” Ritengono che tutte le riserve siano assolute, poiché una porzione della disciplina deve essere sempre disciplinata esclusivamente dalla legge, G. AMATO, Rapporti fra norme primarie e secondarie. Aspetti problematici, cit., 94; E. TOSATO, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, cit., 2120 ss. che fa discendere tale effetto dalla rigidità della Costituzione che si rifletterebbe “sulla rigidità e inderogabilità della riserva”. È noto che questa posizione dipende altresì dalla peculiare contrapposizione utilizzata dall’A. che distingue fra materia in cui cade la riserva e l’oggetto proprio di essa. Quest’ultimo si estenderebbe solo ad una parte della materia “riservata”: l’assolutezza della riserva si riferirebbe all’oggetto, non alla materia (“una volta ben delimitato il campo oggetto della riserva, questa, relativamente ad esso, non ammette distinzioni e quindi flessioni ed allentamenti, mentre relativamente a tutto ciò che non vi rientra non si pongono, in nessun modo, problemi di riserva” (2128)). (74) La necessità della predeterminazione legislativa degli elementi costitutivi della prestazione imposta segna il discrimen fra riserva di legge e principio di legalità. Si è certamente consapevoli del fatto che la distinzione è soprattutto definitoria (fino al punto che taluni Autori (cfr. E. DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2007, 105 ss. utilizzano i termini “principio di legalità” e “riserva relativa di legge) in modo sinonimo). Nella sua versione “formale”, il principio di legalità è soddisfatto anche attraverso una semplice delega all’amministrazione priva di criteri regolatori della materia. In questo senso, la riserva di legge, sebbene riconducibile al genus della legalità, se ne differenzia in maniera evidente. Nella versione “sostanziale”, riserva relativa di legge e principio di legalità tendono a coincidere, entrambe richiedendo, oltre all’autorizzazione, che la legge contenga parte della disciplina dell’oggetto da regolare. Per ulteriori indicazioni, cfr. P. BARILE, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, cit., 230 ss.; S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 283 ss.; G. AMATO, Rapporti fra norme primarie e secondarie. Aspetti problematici, cit., 129 ss.; V. BACHELET, Legge, attività amministrativa e programmazione economica, in Giur. Cost., 1961, 904 (908 ss.); G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, 387 ss.; S. LA ROSA, Principi di diritto tributario, cit., 8.

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sacrificio, personale o patrimoniale, imposto alla libertà del singolo, esse richiederebbero l’intervento dell’organo rappresentativo(75). Oltre questi generici rilievi non si può procedere in maniera unitaria, poiché la libertà personale e i diritti e le libertà economiche assumono, in Costituzione, un differente valore assiologico. La prima, infatti, costituisce un diritto inviolabile dell’ordinamento e, coerentemente, la sua protezione e garanzia costituisce la funzione prevalente ed assorbente della riserva di legge in materia di prestazioni personali imposte(76).

(75) Cfr. le osservazioni in questo senso di A.D. GIANNINI, Rapporti tributari, in P. CALAMANDREI e A. LEVI (diretto da), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, Firenze, I, 1950, 273 (274); A. BERLIRI, Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23 della Costituzione, cit., 152; ID., Principi di diritto tributario, cit., 289 ss.; G. MARONGIU, L’applicazione dei principi in materia tributaria, cit., 257; M. LONGO, Saggio critico sulle finalità e sull’oggetto dell’art. 23 della Costituzione, Torino, 1968, 59 ss.; G.A. MICHELI, Legge (diritto tributario), in Enc. Dir., XXIII, Milano, 1973, 1079 (1080); E. DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 105-106 e, ampiamente, di S. BARTHOLINI, Il principio di legalità dei tributi in materia di imposte, cit., 32 (ma, anche, 33 nota 17, 42-44, 55); 49 ss.; 78 ss.: “assumendo a postulato la coerenza dell’ordinamento tributario anteriore”, il contenuto originario del principio di legalità comporta che “i cittadini – non qualunque contribuente, dunque – consentano, attraverso la propria rappresentanza politica, alle imposte che dovranno pagare, in quanto costringa la legge, che è atto di questa rappresentanza, a determinarle, non in quanto comandi alle fonti normative diverse dalla legge di non estendersi alla materia delle imposte”. E ancora, “dal mero interesse economico a conservare i propri averi è inscindibile la consapevolezza della propria dignità, e da quest’ultima è parimenti inscindibile l’interesse politico individuale a influire sulla condotta dello Stato. La sintesi di questi tre elementi costituisce appunto l’esigenza dell’auto-imposizione. (…). Il privato è garantito come proprietario in quanto faccia parte dell’organizzazione politica, in quanto possa, perciò, influire sui sacrifici che in nome di essa vengono imposti ai suoi interessi patrimoniali. L’art. 23 non garantisce alla proprietà privata la giustizia sostanziale dei sacrifici che su di essa verranno imposti per i fini della organizzazione politica; garantisce solo che questa coordinazione finalistica sia effettiva, cioè che proceda dall’organo appositamente istituito per prendere coscienza e per esprimere i predetti fini”. Questo significato è rivalutato anche da M.A. GRIPPA SALVETTI, Riserva di legge e delegificazione nell’ordinamento tributario, Milano, 1998, 32: “il passaggio dallo stato di diritto allo stato costituzionale ha posto nell’ombra, ma non cancellato, il valore espresso dalla rappresentatività per cui è possibile il recupero, se non nel significato originario di “autoimposizione”, in quello di “consenso”, di “intervento” dei gruppi interessati nelle decisioni degli organi deliberanti: in prospettiva, il criterio della rappresentanza esprime l’esigenza di procedure che, nei rapporti tra legge e regolamento, tipici di una democrazia avanzata, includano l’ascolto delle categorie interessate” e da S. CIPOLLINA, La riserva di legge in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, cit., 167: “la ratio democratica della riserva – intesa nella sua valenza partecipativa, ossia come presenza delle minoranze nel processo formativo della legge – è, infatti, la versione evoluta della primordiale esigenza di representation, espressa dai parlamenti timocratici medievali e poi transitata nelle ideologie del liberalismo democratico ottocentesco”. (76) In questo senso, chiaramente, A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 136-138.

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Per quanto concerne le prestazioni patrimoniali imposte, diversamente, la giurisprudenza costituzionale è meno univoca e più oscillante. Le pronunce relative alla disciplina legislativa essenziale non sempre appaiono perfettamente coerenti con la funzione di garanzia dell’interesse individuale. Inoltre, con riguardo alle prestazioni patrimoniali imposte di fonte negoziale la Corte sembra aver subìto gli effetti della giurisprudenza costituzionale in tema di “imposizione”.

Prendendo avvio proprio da queste ultime fattispecie, si è già detto che la Corte, proprio al fine di offrire maggiore garanzia alla libertà patrimoniale, ha ampliato notevolmente l’ambito di applicazione della disposizione. In questo modo, tuttavia, come prefigurato dalla dottrina, “quanto più si tende ad allargare l’ambito di applicazione della riserva di legge, tanto più si è portati ad attenuare le esigenze che essa comporta e, in sostanza, a svuotarla di ogni effettivo contenuto garantista”(77). Si assiste, infatti, da un lato all’allargamento del novero delle prestazioni patrimoniali che rientrano nel concetto di “imposizione” e, dall’altro lato, alla riduzione dell’ambito materiale coperto della legge. Si è assistito, cioè, al progressivo svuotamento della predeterminazione legislativa della prestazione ed il conseguente rinvio a strumenti e procedimenti sostitutivi della “base legislativa” o, ancor peggio, alla piena discrezionalità amministrativa(78). In questo modo, tuttavia, si elude la garanzia

(77) E. TOSATO, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, cit., 2117. Ancor prima, l’A. afferma: “Ma d’altro lato, la Corte, che si dimostra così sensibile di fronte all’esigenza che libertà e proprietà dei cittadini siano assistiti della garanzia della riserva di legge, non si dimostra altrettanto sensibile e rigorosa nell’interpretare il senso e la portata di tale garanzia. Essa è infatti costantissima nel ritenere – d’accordo in ciò con la dottrina di gran lunga prevalente – che la riserva prevista dall’art. 23, non è, come si dice, assoluta, ma relativa e tale relatività è interpretata e applicata in modo così largo ed elastico che la garanzia della riserva si riduce spesso a qualche cosa che ha un valore del tutto evanescente, se non puramente nominale” (2116). (78) Cfr., in questo senso, Corte cost., sentenza 31 maggio 1996, n. 180, in Giur. Cost., 1996, 1664, che considera non fondata la questione di legittimità costituzionale ex art. 23 di alcune disposizioni contenute in leggi regionali che consentivano che le tariffe per i pareri igienico-sanitari fossero determinate dalla Giunta con l’assistenza di due organi tecnici, senza porre alcun vincolo, nemmeno implicito, idoneo ad indirizzare la misura della prestazione. Al punto 3.4. del considerato in diritto, la Corte afferma: “è vero infatti che le tariffe debbono essere approvate dalla Giunta regionale. Ma contestualmente è per legge disposta – onde assicurare un’effettiva congrua ponderazione degli interessi coinvolti – anche la partecipazione di organi consultivi, dotati di spiccata competenza tecnica desumibile dalla loro composizione ordinaria, allargata, nei casi previsti, alla partecipazione di altri esperti o di possibili categorie interessate”. Questo orientamento si trova anche nella sentenza 5 maggio 1988, n. 507, in Giur. Cost., 1988, 2408, in tema di “diritti” inerenti ai servizi di borsa (“si esclude altresì da questa Corte (sent. n. 34 del 1986) la violazione della norma costituzionale citata quando esista, per l’emanazione dei provvedimenti amministrativi concernenti le prestazioni, un modulo procedimentale a mezzo del quale si

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individuale posta a fondamento della norma costituzionale, poiché ampi margini normativi sono lasciati alla potestà dell’esecutivo. La riserva di legge per le prestazioni patrimoniali imposte di fonte negoziale tende ad appiattirsi, in tal modo, sul principio di legalità formale.

Questo orientamento trova giustificazione nella struttura di tali prestazioni che, seppur imposte, nel senso di non lasciare margini di scelta alla volontà individuale, prevedono una prestazione corrispettiva. La diminuzione patrimoniale conseguente al contratto è quindi, almeno in parte, compensata dalla prestazione corrispettiva resa dall’altra parte contrattuale.

Diversamente dalle prestazioni patrimoniali imposte di fonte negoziale, i tributi costituiscono la fattispecie originaria da cui deriva la categoria delle prestazioni patrimoniali imposte. Si può dire che essi rientrano ontologicamente, oltre che per ragioni storiche, nell’ambito di applicazione dell’art. 23 Cost.

Per tale ragione, la giurisprudenza costituzionale relativa agli elementi essenziali della base legislativa è indubbiamente più severa e, di conseguenza, più coerente con il fondamento teorico della garanzia costituzionale. La Corte, infatti, richiede che gli elementi essenziali che costituiscono il dovere tributario, presupposto di fatto, soggetti passivi e, almeno in parte, base imponibile, siano determinati direttamente dalla legge ovverosia determinati attraverso criteri sostitutivi, di natura tecnica e procedimentale(79). Questi ultimi elementi sono considerati in maniera comprensiva, intesi a rafforzare reciprocamente la disciplina legislativa, ma non possono, di per sé, sostituire una seppure minima predeterminazione normativa positiva(80) e la loro legittimità costituzionale dipende dall’idoneità a circoscrivere la discrezionalità dell’amministrazione.

Anche rispetto a tale categoria, si può individuare una certa tensione fra la ratio della tutela della libertà patrimoniale ed il contenuto minimo della “base legislativa”. Ciò si verifica perché la Corte ha, fin dall’inizio(81), ammesso che la legge non debba necessariamente contenere realizzi la collaborazione di più organi, al fine di evitare eventuali arbitrii dell’amministrazione” (corsivo aggiunto) punto 5.1. del considerato in diritto). (79) Cfr., a titolo esemplificativo, Corte cost., n. 507 del 1988, che individua gli elementi della fattispecie che devono essere necessariamente determinati dalla legge: “i soggetti, tenuti alla prestazione e l’oggetto della stessa, razionali ed adeguati criteri per la concreta individuazione dell’onere, e, infine, il modulo procedimentale che, come è stato precisato da questa Corte nella sentenza per ultima richiamata, concorre ad escludere l’eventualità di arbitrii da parte dell’Amministrazione” (punto 5.1. del considerato in diritto). (80) In questo senso, A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 109 ss. (81) Cfr. Corte cost., sentenza n. 4 del 1957, para. 3 del considerato in diritto; sentenza 26 gennaio 1957, n. 30, in Giur. Cost., 1957, 407; sentenza 18 marzo 1957, n. 47, punto 3 del

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un’espressa previsione del limite superiore del dovere tributario ovvero, allorché la legge individui con sufficiente determinazione la base imponibile, del limite massimo dell’aliquota. Più precisamente, la giurisprudenza costituzionale ammette che tali elementi possano essere sostituiti dalla previsione di criteri di natura tecnica(82) o procedimentale(83) e, per tale verso, trasferiti alla concreta determinazione da parte dell’amministrazione. Nella misura in cui la mancata predeterminazione legislativa o il rinvio a criteri di diversa natura non consentano di determinare adeguatamente il dovere tributario, il fondamento garantista individuale risulterà sostanzialmente eluso(84).

La giurisprudenza costituzionale ammette una diversa rigidità ed estensione della base legislativa ex art. 23 Cost. quando l’ente impositore è diverso dallo Stato. In questo caso, tuttavia, la ragione si deve individuare nell’esigenza di bilanciare valori costituzionali diversi, quello della

considerato in diritto, in Guir. Cost., 1957, 598; sentenza 6 luglio 1960, n. 51, in Giur. Cost., 1960, 105, sentenza 1963, n. 55, punto 6 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1963, 490. (82) Quale, ad esempio, il “concreto fabbisogno” per il perseguimento dei fini istituzionali nella sentenza n. 4 del 1957, punto 3 del considerato in diritto. Ritiene non sufficiente il fabbisogno finanziario al fine di limitare la discrezionalità del legislatore la successiva sentenza 30 gennaio 1962, n. 3, punto 5 del considerato in diritto, in Giur. Cost., 1962, 26. Considerazioni critiche sono espresse da M.A. GRIPPA SALVETTI, Riserva di legge e delegificazione nell’ordinamento tributario, cit., 79-80: “l’obiezione che si può muovere a questo riguardo è che i controlli costituiscono un momento successivo e non potranno mai rappresentare un criterio idoneo a circoscrivere comportamenti arbitrari della pubblica amministrazione”. (83) La sentenza n. 122 del 1957 ritiene che l’attribuzione congiunta a più Ministeri ed al Consiglio superiore dei lavori pubblici della fissazione della misura del tributo delimiti sufficientemente la discrezionalità amministrativa. (84) In questo senso, in dottrina, E. ALLORIO, La portata dell’art. 23 della costituzione e l’incostituzionalità della legge sui contributi turistici, in Dir. Prat. Trib., 1957, II, 78 (92); M.S. GIANNINI, I proventi degli enti pubblici e la riserva di legge, cit., 25 (che, rispetto alla sentenza n. 4 del 1957, osservava: “se si ritiene costituzionale il gruppo delle norme sui diritti di contratto dell’Ente risi, ben difficilmente potranno essere trovate incostituzionali norme relative ad altri proventi di altri enti, stante che le norme concernenti l’Ente sono, fra tutte, particolarmente late” (corsivo aggiunto)); G. MARONGIU, L’applicazione dei principi costituzionali in materia tributaria, in Dir. Prat. Trib., II, 1962, 251 (256-257); E. TOSATO, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, cit., 2116 nota (11); A. Fedele, sub Art. 23, cit., 116; E. De MITA, Principi di diritto tributario, cit., 107: “per quanto concerne le aliquote io credo che la legge, pur rimettendo una elasticità di manovra all’ente impositore, debba sempre indicare il massimo; e pertanto non mi sembra applicabile alle imposte il ragionamento fatto dalla Corte per la altre prestazioni, per le quali non occorrerebbe che la legge indichi il limite massimo”.

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garanzia della libertà patrimoniale e dell’autonomia tributaria degli enti territoriali(85).

Diversamente dalla giurisprudenza costituzionale, la dottrina appare assestata, quasi unanimemente, su posizioni che riconoscono alla riserva di legge la funzione di garanzia di interessi generali. Si deve preliminarmente osservare che parte della dottrina costituzionalista ha affrontato la questione del valore della riserva di legge in maniera unitaria, cercando di enucleare un fondamento comune a tutte previsioni contenute nell’ordinamento costituzionale italiano(86). Questi tentativi, riconducibili sostanzialmente ai lavori di Fois e di Di Giovine, hanno individuato il valore proprio delle riserve di legge nella tutela delle minoranze, o, più precisamente, nella garanzia rappresentata dal procedimento legislativo(87), e nel sindacato di costituzionalità(88) e nel principio democratico,

(85) In questo senso, Corte cost., sentenza 23 maggio 1966, n. 44, punto 3 del considerato in diritto, in E. DE MITA, Fisco e Costituzione. I. 1957-1983, Milano, 1984, 220 (“l’attribuzione ad enti locali di una discrezionalità nell’usare o non il potere imposizionale loro conferito, quando non ricorrano ragioni generali di imposizione obbligatoria, è conforme al principio di autonomia degli enti locali, costituzionalmente garantito (artt. 5 e 128 della Costituzione)”. Ancor più chiaramente, sentenza n. 159 del 1985 (“nel caso in esame (...) l’imposizione del tributo è giustificata, non solo dal perseguimento di un’esigenza di indubbio rilievo costituzionale, qual è quella dell’autonomia locale, ma anche dall’adozione di criteri normativi che rispondono ai dettami dell’art. 23 Cost.” (punto 4.1. del considerato in diritto)); sentenza 22 novembre 1991, n. 423, punto 2.1. del considerato in diritto, E. DE MITA, Fisco e Costituzione. II. 1984-1992, Milano, 1993. (86) Dubbi in merito a questo metodo sono espressi da L. CARLASSARE, Regolamenti dell’esecutivo e principio di legalità, Padova, 1966, 224 ss. ed ora L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 188-189, che osserva: “le riserve, insomma, non fanno sistema, a dispetto degli sforzi dottrinali tesi a rintracciarne un comune fondamento; tutt’al più, esse sono raggruppabili per settori, secondo i contenuti delle materie considerate, le loro logiche interne, i ruoli eventuali dell’esecutivo o del giudiziario nel quadro delle indispensabili discipline legislative, e via discorrendo”. La questione non può essere ulteriormente approfondita in questa sede, considerato l’oggetto del presente lavoro. Nelle riflessioni che saranno condotte d’ora innanzi, l’indagine sarà ristretta al solo valore della riserva di legge in materia tributaria. (87) S. FOIS, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 293 ss.: “quando la maggioranza vuol realizzare la sua volontà in una legge, essa incontra, nel corso del procedimento legislativo, una serie di limiti intrinseci al procedimento stesso: in particolare quelli derivanti dalla struttura collegiale dell’organo, quelli derivanti (nel nostro ordinamento) dal sistema di bicameralismo paritario, ed infine quelli derivanti dal fatto che le regole sul procedimento legislativo sono riservate ad atti che offrono alle minoranze una particolare garanzia”. (88) Sempre S. Fois, La “riserva di legge”. Lineamenti storici e problemi attuali, cit., 300 ss. quando, dopo una brevissima analisi del regime dei controlli giurisdizionali cui sono sottoposti gli atti aventi forza di legge e quelli amministrativi afferma: “su questo punto può dirsi dunque che un secondo importante aspetto della ratio della riserva si evidenzia nel fatto che essa impedisce al legislatore di far sì che i suoi atti eludano i limiti derivanti dal “trattamento” al quale essi sono assoggettati: perciò essa appare strumento rivolto ad

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espressione della sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost.(89). È del tutto superfluo osservare che questi studi attribuiscono gli stessi valori anche la riserva di legge tributaria.

Sulla scorta di questi lavori, anche la dottrina tributarista, quasi unanimemente, riconosce il superamento dell’interesse individuale quale giustificazione della riserva di legge tributaria riconducendo, di converso, all’interesse pubblico, variamente definitivo, il valore della disposizione. In questo senso, la funzione della riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte “va individuata in funzione precipua delle caratteristiche del procedimento legislativo e del regime proprio della legge e degli atti aventi forza di legge, quindi degli interessi generali (…); solo in via subordinata ed indiretta essa può dirsi realizzare una garanzia per i privati”(90). Secondo Fedele, poi, particolarmente ardua sarebbe l’individuazione analitica di tali interessi poiché “nessuna delle caratteristiche proprie del procedimento di formazione e della disciplina della legge e degli atti aventi forza di legge assume una rilevanza assolutamente predominante rispetto alle altre ai fini dell’individuazione della ratio della norma, cosicché non potrebbero risolversi i complessi problemi attinenti all’ambito di operatività ed all’efficacia dell’articolo in

assicurare un’obiettiva tutela della Costituzione e delle sue norme”. Ma si veda anche A. DI GIOVINE, Introduzione allo studio della riserva di legge nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 48-49 che, però, annovera il principio di giurisdizionalizzazione fra le funzioni (e non fra le rationes) della riserva di legge, ovvero fra gli scopi immediati cui l’istituto tende nell’ordinamento (20-21) e C. MEZZANOTTE, Interrogativi in tema di delegazione legislativa in materia riservata alla legge, cit., 1749. (89) A. DI GIOVINE, Introduzione allo studio della riserva di legge nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., 64 ss. ove si sottolinea che la scelta delle numerose fattispecie riservate alla legge “si riconnette a un’esigenza intrinseca a un regime democratico-parlamentare, ove la sovranità popolare è assunta a fondamento stesso della legittimità dell’ordinamento e in cui al popolo, oltre alla titolarità, spetta anche l’esercizio della sovranità, sicchè appare logico affidare al parlamento, come massimo gestore della sovranità popolare, decisioni politiche di fondamentale importanza, come logico appare che queste scelte s’incardinino nella legge, e cioè nell’atto tipico del parlamento, posto – anche questo in aderenza al principio democratico – al vertice della gerarchia degli atti normativi non aventi natura costituzionale o paracostituzionale” (65-66). (90) A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 135-136. Nello stesso senso, cfr., anche, F. FORTE, Note sulla nozione di tributo nell’ordinamento finanziario italiano e sul significato dell’art. 23 della Costituzione, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1956, I, 248 (274-275); G.M. LOMBARDI, Problemi costituzionali in materia tributaria, in Temi Trib., 1961, 319 (321-324); P. RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte Generale, cit., 40; G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte Generale, cit., 125-126; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 98; F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 44 ss.; L. ANTONINI, Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, cit., 39-40; ID., Art. 23, cit., 488; F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. 1. Parte Generale, Torino, 2006, 16-17.

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esame in considerazione dei riflessi funzionali di una sola fra tali caratteristiche”(91).

Queste conclusioni consentono agevolmente di superare gli elementi di incoerenza e di contraddittorietà della giurisprudenza costituzionale rilevate trattando dell’estensione della base legislativa. Mentre, infatti, “l’interesse individuale alla integrità della sua sfera patrimoniale resta identico qualunque sia la natura della prestazione che a lui venga imposta e qualunque sia l’ente impositore, ben può dirsi che i più generali interessi alla pubblicità del procedimento di formazione della disciplina, alla tutela delle minoranze, al più diretto rapporto col corpo elettorale degli organi che della disciplina stessa formulano le linee essenziali, al controllo della sostanziale legittimità costituzionale delle norme formate, assumono una diversa intensità e rilevanza in ragione della diversa natura o del diverso soggetto attivo della prestazione medesima”(92).

La dottrina tributarista, quindi, attribuisce alla riserva di legge ex art. 23 Cost. una “doppia relatività”(93). In un primo senso, relatività si deve riferire alla base legislativa che potrà limitarsi ai soli elementi fondamentali del dovere tributario. In un secondo senso, relatività significa diversa ampiezza della base legislativa in ragione del tipo di prestazione (91) A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 136. (92) A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 132. Ritengono che la disciplina della riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali imposte possa variare in ragione delle diverse prestazioni patrimoniali e dell’ente impositore, S. BARTHOLINI, Il principio di legalità dei tributi in materia di imposte, cit., 2 (“l’art. 23 cost. richiede non l’intervento di una legge purchessia, ma di una legge che adempia ad una funzione, e la funzione essendo relativa alla materia, e le materie delle prestazioni coattive essendo svariate, per ogni materia va individuata la specifica funzione della legge, al fine di ricavare esattamente norme dell’art. 23”); F. FORTE, Note sulla nozione di tributo nell’ordinamento finanziario italiano e sul significato dell’art. 23 della Costituzione, cit., 272 ss., che parla di “elasticità” della regola dell’art. 23; A. BERLIRI, Appunti sul fondamento e il contenuto dell’art. 23 della Costituzione, cit., 195 ss. (“la legge che autorizza l’emanazione di un regolamento delegato in materia tributaria deve, in relazione all’art. 53, avere un contenuto molto più dettagliato di quello che può avere, in relazione all’art. 23, la legge che autorizza l’emanazione di un regolamento delegato per prestazioni non tributarie” (199)); A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 103; M.A. GRIPPA SALVETTI, Riserva di legge e delegificazione nell’ordinamento tributario, cit., 31-32; A. FANTOZZI, Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria, in Riv. Dir. Trib., 2005, I, 3 (8-11). In senso contrario, E. TOSATO, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, cit., 2118 (che imputa tale errore ad una questione metodologica: “non è quindi la portata della riserva che si irrigidisce o si allenta in funzione del campo di applicazione. Questo si delimita invece in relazione all’oggetto di essa. Ciò significa che la determinazione delle esigenza che la riserva, per se stessa considerata, comporta, costituisce un prius nello svolgimento dell’indagine”) e 2131 nota 32. (93) Il termine “doppia relatività” è suggerito da A.M. CUBERO TRUYO, La doble relatividad de la reserva de ley en materia tributaria. Doctrina constitucional, in Rev. Esp. Der. Fin.(Civitas), 2001, 217.

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imposta e dell’ente impositore. Diverse, come già osservato, sono le ragioni di questa seconda nozione di relatività, poiché, rispetto ai tipi di prestazione, la diversa ampiezza della base legislativa è dovuta alla struttura giuridica della prestazione imposta (corrispettiva o meno); diversamente, nel caso della potestà normativa tributaria è dovuta alla coordinazione fra diversi valori costituzionali(94).

3.4. Considerazioni conclusive sul valore della riserva di legge in materia tributaria. Rilevanza dell’ordinamento comunitario e internazionale per una sua ricostruzione unitaria: rinvio.

Sebbene non sia riscontrabile una funzione univoca della riserva espressa dall’art. 23 Cost., la tendenza comune rilevabile nella breve sintesi giurisprudenziale e dottrinale proposta è quella diretta a svalutare, sebbene non ad eliminare, il significato della riserva quale garanzia individuale e, in modo parallelo, ad attribuire un ruolo decisamente preponderante ad interessi generali. Si assiste, almeno negli ordinamenti costituzionali continentali(95), ad una tensione fra la garanzia offerta dal valore democratico e della tutela del patrimonio.

(94) In questo senso, chiaramente, A. FANTOZZI, Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria, cit., 10, che parla di “contemperamento” del “valore” tributario con il “valore” dell’autonomia fiscale. Ma si veda, anche, F. FORTE, Note sulla nozione di tributo nell’ordinamento finanziario italiano e sul significato dell’art. 23 della Costituzione, cit., 276 ss.; S. BARTHOLINI, Il principio di legalità dei tributi in materia di imposte, cit., 111 ss.; A. AMATUCCI, Il procedimento imposizionale delle prestazioni tributarie nella Costituzione, in Rass. Dir. Pubbl., 1964, 1010 (1015-1016); E. TOSATO, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, cit., 2135, che testualmente afferma: “la rigorosità della riserva considerata ammette una certa attenuazione solo in relazione agli enti locali (territoriali)”, contraddicendo, almeno potenzialmente, la perentorietà dell’assolutezza della riserva di legge (cfr., nota 94); E. De Mita, Principi di diritto tributario, cit., 107. Non ammette una diversa rigidità della riserva al fine di realizzare il valore autonomista, G.M. LOMBARDI, Problemi costituzionali in materia tributaria, cit., 319 (332 nota 25; 343 ss.); ID., Contributo allo studio dei doveri costituzionali, cit., 399 nota 107. (95) In chiave comparata, si deve rilevare che il Grundgesetz non prevede espressamente la riserva di legge in materia di imposte (steuerrechtlich Gesetzesvorbehalt). La dottrina tedesca deduce tale disposto dagli artt. 2, par. 1 (libertà economica di sviluppo della propria personalità); 14, parr. 1 e 3 (che garantiscono la proprietà e prevedono l’espropriazione per il bene della collettività); 20, par. 3 (soggezione del legislatore all’ordinamento costituzionale). Più precisamente, nell’interpretazione del Bundesverfassungsgericht l’imposizione, costituendo una limitazione della libertà economica del singolo, dovrebbe essere disposta dalla legge (BVerfGE 9, 3, 11; 19, 206, 215 ss.; 19, 226, 241 ss.; 19, 243, 247; 19, 248, 251; 19, 268, 273; 31, 314, 333). La dottrina deduce quindi un duplice fondamento della riserva in materia di imposte: “eine demokratische und eine Rechtssicherheit (certainty of law, rechtszekerheid, sécurité juridique, seguridad jurídica) zielende” (K. TIPKE, Die Steuerrechtsordnung, cit., 120 ss.; ma anche, K. TIPKE, J. LANG, Steuerrecht, Köln, 2005, 103-105).

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Come si è visto, si è di volta in volta indicata quale funzione generale la tutela delle minoranze offerta dal procedimento legislativo, il principio democratico e il sindacato di costituzionalità esercitato ex art. 134 Cost. dalla Corte costituzionale sulle leggi e gli atti aventi forza di legge. Si può quindi concludere che il valore generale della riserva di legge tributaria può essere ricondotto sia alla struttura ed ai caratteri propri dell’organo parlamentare (caratteristiche precipue del procedimento legislativo, composizione “democratica” del Parlamento) sia ai caratteri propri dell’“atto legislativo” (in particolare, la sindacabilità costituzionale)(96).

Per la riserva tributaria, si deve aggiungere uno specifico interesse generale, strumentale alla realizzazione degli artt. 53 e 3 Cost. Si ritiene che l’art. 23 Cost. risponda all’esigenza di affidare al Parlamento (ed il riferimento dev’essere inteso in senso stretto, con esclusione dei Consigli regionali) la funzione di dettare le regole generali e fondamentali del concorso dei singoli alla spesa pubblica, ovverosia di dettare i criteri fondamentali per il riparto dei carichi pubblici(97). Questa soluzione non si

La Costituzione francese del 1958, diversamente, è caratterizzata dalla separazione del potere normativo fra Parlamento e Governo, ovvero fra legge e regolamento. Questa separazione fu ispirata sia dal rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, caratteristica peculiare della Costituzione del 1958, sia, soprattutto, dalla volontà di porre un limite (esterno) alla onnipotenza della “volontà della legge”. In questo senso, gli artt. 34 e 37 individuano il c.d. dominio della legge con un elenco tassativo delle materie di competenza del Parlamento (e della legge). Alla potestà regolamentare è riservata una competenza residuale (art. 37 della Costituzione francese). La materia tributaria è regolata dall’art. 14 della Déclaration des Droits de l’homme et du citoyen du 26 août 1789, cui la Costituzione del 1958 offre copertura costituzionale attraverso il richiamo nel Preambolo, e dall’art. 34.2 che attribuisce alla competenza dell’Assemblea Nazionale “l’assiette, le taux et les modalités de recouvrement des impositions de toutes natures”. Nonostante l’assolutezza della formulazione, la pratica normativa ha trasformato la riserva di legge tributaria in una riserva “relativa” (cfr., J.J. BIENVENU, T. LAMBERT, Droit fiscal, Paris, 2003, 34-37; 76 ss.). Da questa duplicità delle fonti regolatrici della materia si desume anche la duplicità delle funzioni della riserva di legge tributaria che è riserva di competenza di legge e garanzia della patrimonio del soggetto. (96) Questo aspetto è evidenziato da R. GUASTINI, Legalità (principio di), in Dig. Disc. Pubbl., IX, Torino, 1991, 85-86, che evidenzia che la legalità deve intendersi con riferimento alla “legge formale”, cioè “atto dell’organo (…) rappresentativo”, ovvero come “legge materiale”, cioè come “norma o insieme di norme giuridiche”. (97) Accenni, in questo senso, sono contenuti in F. FORTE, Note sulla nozione di tributo nell’ordinamento finanziario italiano e sul significato dell’art. 23 della Costituzione, cit., 275, quando afferma che “senza il rispetto del canone della legalità (...) non è possibile promuovere una politica fiscale razionale: non sarebbe possibile cioè usare il fattore fiscale secondo quei principii di giustizia tributaria in senso sostanziale e quei criteri di politica economica, che il Parlamento ha voluto accogliere”. Ma, si veda, G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, cit., 385 ss.: “il principio garantista (…) vuole essenzialmente (…) che la legge operante in questa materia assuma una determinata struttura e presenti, come strumento di attuazione di un dovere costituzionale, peculiari

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discosta dalle conclusioni generali sopra raggiunte. L’art. 23 Cost. rappresenterebbe un’espressione del principio democratico di cui all’art. 1 Cost., che si realizza riservando ad un organo specifico, quello rappresentativo, la potestà esclusiva in materia di politica fiscale.

Queste conclusioni devono essere rimeditate(98), poiché si riferiscono ad un sistema giuridico sostanzialmente chiuso ed autonomo rispetto ai processi normativi esterni. La realtà giuridica è, da allora, profondamente mutata, come si è cercato di dimostrare nel primo capitolo. Alla legge ordinaria ed agli atti aventi forza di legge non compete più il monopolio della produzione giuridica poiché numerose materie e funzioni sono state sottratte agli ordinamenti statali e trasferite alla competenza di quello comunitario. In aggiunta, numerosi limiti alla produzione normativa provengono anche dai trattati internazionali che, soprattutto in materia di diritti dell’uomo e di libertà fondamentali assumono, come si è mostrato, un ruolo tutto peculiare, almeno sul piano ermeneutico, nel sistema delle fonti.

È utile osservare, prima di considerare gli effetti dell’integrazione comunitaria, che anche delimitando la ricostruzione esclusivamente al piano interno, qualche critica poteva essere mossa all’individuazione del caratteristiche di imparzialità e, in particolare, che esprima norme atte a valere in via generale e astratta. C’è invero una chiara componente democratica in questa esigenza, che la legge valga in via generale, in quanto tutti devono concorrere alle pubbliche spese (art. 53 Cost.) e tutti, attraverso i loro rappresentanti hanno avuto la possibilità di accordare o negare il proprio consenso” (385-386); e, ancora: “l’individuazione della portata della riserva, da cui procede il criterio fondamentale di legalità tributaria non può quindi polarizzarsi intorno al solo art. 23 Cost., ma deve considerare l’art. 53 Cost. e, in linea subordinata lo stesso art. 3 Cost. Dall’uno e dall’altro il principio di legalità dei tributi – in attuazione del dovere costituzionale – risulta condizionato, assumendo un suo contenuto particolare” (392-393); A. FEDELE, La riserva di legge, cit., 177 ss.; A. FANTOZZI, Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria, cit., 9. Rileva che l’attribuzione all’organo di vertice della competenza in materia di scelte di politica tributaria “ha prima di tutto una funzione organizzativa, ed è giustificata indipendentemente dalla forma di stato e di governo, sia democratico, sia autoritario o addirittura totalitario” R. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2005, 21. (98) Concorda C. CALIFANO, Ordinamento tributario e ordinamento comunitario. Profili costituzionali, Bologna, 2000, 50: “è necessario trovare altri fondamenti giuridici per conciliare riserva di legge ex articolo 23 della Costituzione e operatività nel nostro sistema impositivo delle fonti comunitarie e soprattutto delle direttive”. Ritiene che debba “oramai prendersi atto in materia tributaria di un sostanziale superamento (o affievolimento) della riserva di legge”, L. PERRONE, Appunti sulle garanzie costituzionali in materia tributaria, in Riv. Dir. Trib., I, 1997, 577 (578 ss.) che, tuttavia, si limita all’esame dei soli fattori interni che hanno inciso sulla riserva di legge: decretazione d’urgenza; accertamenti induttivi e rafforzamento dell’autonomia tributaria degli enti locali. Sulle conseguenze che la riforma del Titolo V ha prodotto sulla riserva di legge si è recentemente soffermato A. FANTOZZI, Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria, cit., 25 ss.

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fondamento della riserva tributaria nella tutela delle minoranze e nel principio democratico. Fin dalle prime pronunce della Corte costituzionale, infatti, è apparso evidente che il fondamento della riserva di legge non potesse essere ravvisato in un particolare procedimento normativo, quello della formazione della legge previsto dagli artt. 70 ss. della Costituzione e dagli statuti regionali. Per essere coerente, infatti, questa tesi avrebbe dovuto escludere che procedimenti normativi diversi da quelli della legge ordinaria (statale e regionale), ed in particolare, i decreti legislativi ed i decreti legge, potessero soddisfare la riserva di legge(99). La garanzia sottesa alla riserva di legge tributaria non poteva essere individuata esclusivamente nei caratteri propri di un peculiare procedimento normativo.

Allo stesso tempo, inoltre, risultava affievolita anche la contigua giustificazione che la garanzia non discendesse dai caratteri del procedimento normativo bensì dai caratteri formali e sostanziali dell’atto (avente forza di legge). Anche in questo caso, la giurisprudenza costituzionale in tema di riserva di legge tributaria mostra che parte della fattispecie impositiva che, almeno in principio, avrebbe dovuto essere predeterminata per legge, poteva essere oggetto di determinazione attraverso elementi sostitutivi o surrogatori, non solo materiali ma anche procedimentali, nella misura in cui fosse comunque delimitata la discrezionalità dell’ente impositore(100). Si assisteva, attraverso la riduzione

(99) Diversamente, A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 92 (“gli atti normativi qui considerati [legge ordinaria e regionale, decreto legislativo e decreto legge] come idonei a soddisfare la riserva di legge ex articolo qui commentato evidenziano caratteristiche sotto taluni aspetti tendenzialmente omogenee, anche se non del tutto identiche”) sebbene poi l’Autore rilevi, nella nota 24, la diversa natura degli atti in ragione della provenienza diretta o indiretta dal Parlamento, riconoscendo che essi sono invece accomunati dal sindacato di legittimità costituzionale. (100) È noto che la Corte ha, fin dalla sentenza n. 4 del 1957, ripetuto che la legge non deve lasciare all’ente impositore l’arbitrio in merito alla determinazione della prestazione ovvero delimitarne la discrezionalità. I casi di maggior dubbio si rinvengono nelle sentenze 11 luglio 1961, n. 48, in Giur. Cost., 1961, 1010, in cui la Corte qualifica discrezionalità tecnica il potere della Commissione censuaria centrale di determinare il valore dei fondi rustici per l’applicazione dell’imposta di successione, senza che la legge preveda alcuna direttiva o criterio atti a delimitare tale potere (punto 5 del considerato in diritto); 11 luglio 1969, n. 129, in Giur. Cost., 1969, 1765, relativa all’ige, nella parte in cui il debito tributario veniva determinato attraverso canoni ragguagliati al volume degli affari, calcolato in base a dichiarazione del soggetto, o mediante l’applicazione di aliquote o quote condensate, determinate in rapporto al presunto numero degli atti economici imponibili, la cui determinazione era rimessa al Ministero delle finanze (punto. 2 del considerato in diritto); 29 marzo 1972, n. 56, in Giur. Cost., 1972, 254, in cui la Corte deduce dal presupposto del tributo il soggetto passivo (“è ovvio che, se l’atto generatore dell’imposta è l’impiego di materiale edilizio in una costruzione, debitore del tributo è soltanto colui che esegue o fa eseguire per proprio conto e nel proprio interesse la costruzione che ha richiesto

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dell’ambito della fattispecie tributaria riservato alla legge ad una progressiva “svalutazione” degli interessi generali garantiti da tale istituto(101).

Delle trattazioni generali, restava salva la giustificazione che faceva della riserva di legge una garanzia procedimentale, non sostanziale, nella misura in cui consente di azionare il sindacato di legittimità. Da riserva di natura politica, connessa alla struttura ed al carattere dell’organo cui è attribuita la competenza in materia tributaria, la riserva di legge tributaria si è trasformata progressivamente in riserva di “atto”, soddisfatta dalle caratteristiche formali degli atti legislativi in materia tributaria, avvicinandosi progressivamente al principio di legalità.

Il processo di integrazione comunitaria ha portato ulteriori elementi di complicazione alla ricostruzione delineata(102). La limitazione all’Unione europea di una parte delle competenze che la Costituzione riserva ai modi l’impiego di detto materiale” (punto 2 del considerato in diritto)); 10 luglio 1975, n. 197, in Giur. Cost., 1975, 1542, in cui la misura dell’imposta sui fabbricati di lusso era determinata utilizzando atti amministrativi costituenti la base per un diverso tributo (punto 3 del considerato in diritto). Una ricostruzione analitica, soprattutto della disciplina relativa alla determinazione quantitativa dell’obbligazione tributaria, si trova in a A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 107 ss. Condividono le considerazioni svolte nel testo, M.A. GRIPPA SALVETTI, Riserva di legge e delegificazione nell’ordinamento tributario, cit., 78 ss., che ritiene che il criterio del fabbisogno finanziario non costituisca una valida garanzia dell’arbitrio degli enti impositori; A. FANTOZZI, Il diritto tributario, cit., 93-94, che parla di “progressivo allentamento della riserva” e di incoerenza di fondo nella giurisprudenza della Corte costituzionale. (101) Queste considerazioni sono condivise ed ulteriormente sviluppate da L. ANTONINI, Art. 23, cit., 492 ss. Cfr., anche, P. STANCATI, Il dovere tributario. Aggiornamento 2005, 1228 (1266), in R. NANIA e P. RIDOLA, I diritti costituzionali, Torino, 2006. (102) In termini più ampi, cfr., F. GALLO, Mercato unico e fiscalità: aspetti giuridici del coordinamento fiscale, in Rass. Trib., 2000, 725 (727): “è nota la regola generale secondo cui il cittadino deve pagare i tributi che i rappresentanti popolari da lui eletti imporranno per finanziare la spesa di cui si avvantaggia. Orbene, con la globalizzazione il cittadino continua a votare nel paese di appartenenza e a godere in esso dei benefici della spesa pubblica, ma può in casi sempre più frequenti scegliere il paese meno esoso dove pagare almeno una parte dei tributi attraverso una opportuna localizzazione degli investimenti finanziari, delle attività produttive e, a volte, anche della propria sede di lavoro”; L. ANTONINI, La sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, cit., 19: “la globalizzazione, infatti, ha messo in crisi lo stesso paradigma di fondo della democrazia fiscale: quello della coincidenza nella medesima persona delle figure dell’elettore, del beneficiario della spesa pubblica e del contribuente. (…). Fenomeni complessi declinano la crisi dell’antico principio. Lo smalto della sua antica valenza democratica, spesso nemmeno debitamente compreso nella sua portata originaria, sembra oggi sbiadire sotto l’impatto della globalizzazione, del deficit democratico d’istituzioni soprannazionali e internazionali, della tendenza al rafforzamento dei poteri degli organi esecutivi”. Cfr., anche, G. TREMONTI, Il futuro del fisco, 49 (60), in F. GALGANO, S. CASSESE, G. TREMONTI, T. TREU, Nazioni senza ricchezza e ricchezze senza nazione, Bologna, 1993.

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ivi previsti di esercizio della sovranità popolare ha sancito la fine del monopolio normativo del Parlamento (e dei Consigli regionali). Gli atti comunitari, infatti, sono equiparati, quanto agli effetti, alla legge interna ed, anzi, prevalgono in caso di contrasto con quest’ultima. Quest’aspetto della produzione normativa ha profondamente segnato l’istituto della riserva di legge che può essere soddisfatta sia da atti interni sia dal diritto comunitario. Dopo una iniziale resistenza, questa situazione è stata espressamente riconosciuta(103) anche dalla Corte costituzionale che, nella sentenza n. 383 del 1998, ha ritenuto che le direttive comunitarie esecutive e, comunque, qualsiasi norma comunitaria che ponga un obbligo per lo stato, possano soddisfare la riserva di legge relativa ex art. 33, secondo comma, Cost. Ancor più chiara, sul punto, la Suprema Corte di cassazione che, come ricordato, nella sentenza n. 17564 del 2002 ha ritenuto che le norme comunitarie dotate di diretta efficacia possano soddisfare la riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. Sia la giurisprudenza costituzionale sia quella di legittimità ritengono che gli atti comunitari dotati di efficacia diretta soddisfino le riserve (relative) di legge e, seppure implicitamente, che tali atti possano equipararsi a quelli dotati di “forza di legge”(104).

Alla luce di questa giurisprudenza, possono considerarsi ormai definitivamente superate, sebbene se ne riconosca l’autorevolezza, quelle tesi che ritengono gli atti comunitari esclusi dall’ambito di applicazione della riserva di legge (in materia tributaria)(105). Sul piano euristico, una

(103) Non esistevano comunque dubbi, al riguardo, anche prima del suo espresso riconoscimento. Affermare, come ha fatto la Corte ripetutamente, che il diritto comunitario trova limiti interni solo nei principi supremi, significa ammettere che anche la riserva di legge, nella misura in cui non tutela tali principi, possa dirsi soddisfatta. (104) Queste conclusioni erano già state sostenute autorevolmente, in dottrina, da P. BARILE, Il cammino comunitario della Corte, in Giur. Cost., 1973, 2406 (2416), che affermava “la censura di violazione dell’art. 23 Cost. poteva essere respinta in modo assai più convincente ricordando che il regolamento comunitario è pur sempre un atto avente forza di legge” e da D. LA MEDICA, Incameramento di cauzione determinata da Regolamenti Comunitari e riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 1972, II, 3 (5). Nello stesso senso, per l’ordinamento spagnolo, in dottrina, A.M. CUBERO TRUYO, La doble relatividad de la reserva de ley en materia tributaria. Doctrina constitucional, cit., 254 e G. ORÓN MORATAL, Consecuencias de la integración en las Comunidades Europeas sobre el Derecho Financiero y Tributario, Rev. Esp. Der. Fin. (Civitas), 1998, 53 (63); in giurisprudenza, Tribunal Supremo, sala de lo contencioso-administrativo (SAN), sentenza 28 novembre 2002, citata da F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 99 nota 210. (105) A. FEDELE, sub Art. 23, cit., 96-97; ID., Appunti dalle lezioni di diritto tributario, cit., 57-58; F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. 1. Parte generale, cit., 18-19; S. CIPOLLINA, La riserva di legge in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, cit., 178; 182-183, che parla di “crisi” del principio costituzionale derivante dall’apertura dell’ordinamento giuridico a fonti di produzioni esterne, non cogliendo la (ennesima) trasformazione della norma in ragione del cambiamento dell’assetto politico-

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simile conclusione comporta inevitabilmente il definitivo superamento della riserva di legge perché consente che la specificazione del dovere tributario non sia presidiata da una regola unitaria(106).

Tuttavia, ritenere, come sembra fare la giurisprudenza costituzionale e di legittimità sopraccitata, che la riserva di legge (in materia tributaria) possa essere soddisfatta anche da fonti comunitarie, costituisce solo un punto di partenza dell’indagine, non certo un punto d’arrivo. Appare del tutto evidente, infatti, che gli organi che detengono la competenza normativa, il procedimento di formazione degli atti normativi comunitari e le caratteristiche di tali atti sono (parzialmente) diversi rispetto a quelli statali, rispondendo, tuttora, nonostante una significativa evoluzione istituzionale, alle logiche proprie delle organizzazioni internazionali, piuttosto che a quello degli Stati membri(107). Quest’aspetto è particolarmente evidente per il procedimento di armonizzazione in materia tributaria che, come sarà ampiamente illustrato infra, è ancora riservato esclusivamente al Consiglio (escludendo quindi qualsiasi intervento non

giuridico in cui s’inserisce. Ciò che entra in crisi non è il “principio costituzionale “classico” di legalità” bensì il ruolo della legge nella definizione della fattispecie impositiva. Quest’aspetto è evidenziato solo parzialmente dall’Autore, che parla di “depotenziamento della legge – e con essa della riserva”. Ma la riserva non è in sé stessa – come si dirà infra – un “principio” bensì è una tecnica per assicurare una garanzia costituzionale, in questo senso strumentale alla realizzazione di principi e valori. Il venir meno di alcuni valori sottesi alla riserva non implica necessariamente il venir meno dell’istituto, come l’esperienza storica ha dimostrato. Ciò, implica, diversamente, il mutare dei valori sottesi allo strumento costituzionale. In estrema sintesi (tutto ciò sarà ripreso), il venir meno del valore democratico non significa il venir meno della funzione della riserva di legge. Rientrano in questo ambito anche quelle tesi che ritengono che le limitazioni di cui all’art. 11 Cost. abbiano inciso anche sulle disposizioni sulla produzione normativa e, quindi, sulle riserve di legge e che il rapporto fra riserva di legge (in materia tributaria) e ordinamento comunitario dovrebbe essere confinato all’ipotesi limite di violazione di un principio costituzionale fondamentale. Cfr., in questo senso, F. SORRENTINO, Corte costituzionale e Corte di giustizia delle Comunità europee, II, Milano, 1973, 111 ss. Questa è la posizione anche di F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 106 ss., che osserva: “la delimitación de las frontiera del poder de integración resulta de capital importancia, ya que en función del criterio que adoptemos, la reserva de ley tributaria quedará afectada o saldrá indemne de la acción del poder de integración, es dicir, en la medida que otorguemos mayor o meno capacidad al artículo 93 CE para crear sectores al margen de la Constitución, será exigible o no la observancia de la regla contenida en el artículo 31.3 CE”. (106) Queste conclusioni sono condivise da F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 99, che parla di “una remisión en blanco”. (107) In questo senso, chiaramente, A. FANTOZZI, Autorità e consenso nell’armonizzazione comunitaria degli ordinamenti tributari, , relazione tenuta al Convegno di studi del 14-15 settembre 2007 svoltosi a Catania, 6 del dattiloscritto

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meramente consultivo del Parlamento europeo) ed improntato alla regola dell’unanimità.

In questo senso, non è possibile, come si è detto, continuare ad escludere gli atti comunitari dalla riserva di legge ma non è possibile nemmeno estendere, acriticamente, la riserva di legge tributaria agli atti comunitari. Questa estensione richiede di accertare se i valori garantiti dalla riserva di legge tributaria trovino eguale – o equivalente – corrispondenza nell’ordinamento comunitario e, eventualmente, nel diritto internazionale. Il riferimento fatto ai valori non è casuale. Dalla ricostruzione proposta, prima storica e quindi esegetica, si è ampiamente cercato di dimostrare che la riserva di legge è un mero strumento formale (o mero strumento tecnico) predisposto dalla Carta costituzionale per la garanzia di determinati valori sostanziali(108). Il termine “garanzia” è utilizzato in senso “oggettivo”, inteso a comprendere “tutti quei meccanismi giuridici di sicurezza che l’ordinamento costituzionale preordina al fine di salvaguardare e difendere l’integrità del suo valore normativo, cioè la sua stessa esistenza”(109).

La riserva di legge, non è, quindi, un valore in sé. Al pari delle altre disposizioni relative alla produzione giuridica(110) – come s’è mostrato per gli artt. 10 e 11 Cost. –, la riserva di legge consente la realizzazione di

(108) Sulla funzione strumentale dell’istituto della riserva di legge, cfr., G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, cit., 380 ss.: “l’art. 23 Cost. contiene una norma generale di chiusura, esprimente una garanzia di carattere essenzialmente strumentale, e, quindi, in ultima analisi, formale” (391); E. TOSATO, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, cit., 2134 nota 36; F. SORRENTINO, Regolamenti comunitari e riserva di legge, cit., 255 ss., che, tuttavia, fa discendere la strumentalità dal carattere non unitario della riserva di legge “o, all’opposto, dalla possibile affermazione della sua ecletticità”. Ma, se ne veda già un accenno in G.D. ROMAGNOSI, La scienza delle Costituzioni, Firenze, 1850, 82: “il consenso dunque dei rappresentanti non è né costitutivo, né traslativo del diritto ma è semplicemente tutelare. Esso non è impiegato che come mezzo per garantire la nazione dagli arbitrii irragionevoli”. Per la dottrina spagnola, F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 117 ss. (109) In questo senso, magistralmente, S. GALEOTTI, Garanzia costituzionale, cit., 491 che prosegue (492-493) distinguendo chiaramente l’aspetto materiale da quello formale: “l’idea di garanzia, in genere, analizzata e scomposta nei suoi elementi, implica dunque logicamente: a) l’esistenza di un interesse, ossia la relazione di utilità che lega un soggetto ad un bene; b) la previsione del pericolo, che s’avverte incombere sull’interesse; c) la predisposizione, vuoi per legge vuoi per convenzione degli stessi interessati, di un apprestamento o congegno (quale che ne sia la struttura) idoneo a conferire al portatore dell’interesse la (relativa) sicurezza che l’interesse, integralmente o per equivalente, sarà soddisfatto”. (110) Che l’art. 23 Cost. configuri una norma sulla produzione giuridica è stato autorevolmente riconosciuto da P. BARILE, Il soggetto privato nella Costituzione italiana, cit., 150.

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determinati valori. La riserva di legge in materia tributaria deve dirsi soddisfatta nella misura in cui i valori da essa espressi trovino adeguata garanzia anche nell’ordinamento comunitario e nel diritto internazionale, indipendentemente dallo strumento con cui essi siano realizzati. L’indagine, in questo senso, non sarà diretta ad accertare la presenza nell’ordinamento comunitario di uno strumento simile a quello della riserva di legge, quanto, piuttosto, a verificare se sia riscontrabile e quale sia il contenuto in tale ordinamento del valore democratico, della preferenza degli atti normativi primari, della sindacabilità di tali atti e della tutela delle libertà patrimoniali del singolo. In altre parole, una eventuale frattura fra ordinamento interno e comunitario non può essere affermata analizzando gli elementi formali dell’uno e dell’altro ordinamento, ma solo nella misura in cui si dimostri che la deroga alla riserva pregiudichi i valori che la Costituzione ha voluto garantire con tale strumento.

Quanto al profilo materiale, in secondo luogo, i valori garantiti dalla riserva di legge tributaria possono trovare nell’ordinamento comunitario e nel diritto internazionale una protezione eguale a quella dell’ordinamento statale ma anche per equivalenti(111). Non si può pretendere “che le garanzie dei diritti fondamentali e le strutture democratiche dei pubblici poteri siano nell’ordinamento comunitario identiche a quelle definite dalle norme costituzionali italiane” bensì “la posizione dei sottoposti all’autorità italiana non dovrebbe essere, quanto al godimento di quei diritti e a partecipazione democratica all’esercizio del potere, sostanzialmente deteriore”(112). In questo senso, non si può escludere l’ipotesi che la riserva di legge in materia tributaria abbia subito una nuova, ennesima, “trasformazione”(113) per effetto del mutato contesto istituzionale e

(111) In questo senso, rispetto si esprime anche la Corte costituzionale nella sentenza sentenza 21 aprile 1989, n. 232, in Giur. Cost., 1989, 1001 che ritiene garantito l’art. 24 Cost. dal sistema dei rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento comunitario (punti 3.1 e 4 del considerato in diritto). Nello stesso senso, BverfG, sentenza 12 ottobre 1993, c.d. Maastricht-Urteil: “kann insoweit demokratische Legitimation nicht in gleicher Form hergestellt werden wie innerhalb einer durch eine Staatsverfassung einheitlich und abschließend geregelten Staatsordnung”. (112) Così, F. SORRENTINO, Regolamenti comunitari e riserva di legge, cit., 249. In maniera più generale ed estesa, ID., Corte costituzionale e Corte di giustizia delle comunità europee, cit., 119 ss. Cfr, anche, C. SACCHETTO, Il diritto comunitario e l’ordinamento tributario italiano, cit., 251-252; F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 96-97. (113) In questo senso, proprio rispetto alla riserva di legge tributaria, cfr. L. ANTONINI, La sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, cit., 21; 42 ss.: “si delinea così una possibile strada per uno sforzo di trasformazione concettuale degli istituti”. L’Autore cerca di recuperare “in formule nuove, alcuni elementi della valenza democratica” sintetizzandole nella formula sussidiarietà fiscale., sebbene sia consapevole che “la sussidiarietà fiscale non potrà mai sostituire lo Stato fiscale o la democrazia rappresentativa nella funzione

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normativo derivante dall’integrazione comunitaria e, più ampiamente, dalla globalizzazione (giuridica).

Per verificare quale sia la portata di questa trasformazione, occorre analizzare il ruolo ed il valore della “legge” nel diritto internazionale, in particolare nelle Convenzioni che garantiscono i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e la rilevanza della legalità nell’ordinamento comunitario.

Sezione II – La riserva di legge tributaria nel diritto internazionale. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo

4. LEGALITÀ E RISERVA DI LEGGE NELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO. PROFILI GENERALI.

L’indagine intorno al principio di legalità tributaria nel diritto

internazionale assume rilevanza esclusivamente per la Convenzione europea per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei relativi protocolli (d’ora innanzi, Cedu). Non è dato rilevare negli altri accordi, soprattutto in quelli relativi alla materia dei diritti e delle libertà fondamentali, una significativa consistenza del tema trattato. All’opposto, la legalità costituisce un’esigenza preminente nel sistema della protezione dei diritti fondamentali della Cedu. L’art. 7 prevede, anzitutto, il generale principio di legalità in materia penale che, sebbene non possa essere considerato norma consuetudinaria, riveste indubbiamente natura di principio generale di diritto delle nazioni civilizzate ai sensi dell’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia. Quanto alle altre disposizioni, benché non esista una previsione generale, la Convenzione affida la limitazione dei diritti e delle libertà garantite alla “legge”(114), delimitando, in alcuni casi, gli ambiti materiali di

impositiva; così come in nome della sussidiarietà orizzontale non si potrà mai postulare la scomparsa dello Stato. Esistono, infatti, funzioni statali che non possono essere devolute né alla società civile, né alle realtà sub statali, perlomeno garantendo la stessa efficacia”. (114) Il termine “legge” è utilizzato dalla versione italiana della Cedu nella traduzione non ufficiale. Come già rilevato, le lingue ufficiali dell’organizzazione sono l’inglese ed il francese. Nella versione ufficiale in lingua inglese, il termine utilizzato è “law” mentre in quella francese “loi”. Anche ad una prima, sommaria, lettura, appare del tutto evidente che i due termini (e il termine italiano, assimilabile a quello francese) hanno significati diversi, il termine inglese “law” avendo un significato ben più ampio rispetto a quello francese. “Law” nell’esperienza anglosassone si traduce con il termine diritto, che comprende qualsiasi precetto giuridico vincolante indipendentemente dalla fonte di produzione. Vi rientrano non solo le norme prodotte dagli atti normativi bensì anche i principi desumibili dalla giurisprudenza, che formano la parte più antica del common law. Il termine “loi”

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tali restrizioni. Senza alcuna pretesta di esaustività, in questo senso dispongono l’art. 2 (diritto alla vita), l’art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza); l’art. 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione); art. 10 (libertà di espressione); art. 11 (libertà di riunione ed associazione); art. 1 del Protocollo addizionale (protezione della proprietà); art. 2 del Protocollo n. 4 (libertà di circolazione); art. 1 del Protocollo n. 7 (garanzie processuali in ordine all’espulsione di stranieri). L’esigenza di una base legale per legittimare gli interventi limitativi dei diritti e delle libertà previste dalla Cedu costituisce, quindi, principio comune all’intero sistema convenzionale(115).

Il termine “legge” è inteso dalla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo nella sua accezione “materiale”. L’interpretazione dei requisiti che la base legale deve assumere è quindi piuttosto ampia, richiedendo, in termini generali, che “la mesure incriminée ait une base en droit interne”(116). La base legale quindi include il diritto in senso ampio comprensivo degli atti normativi infralégislatif(117) “ainsi que la jurisprudence qui l’interprète”(118). Trascurando per un istante la

nell’esperienza continentale, diversamente, traduce solo le norme prodotte da atti normativi attraverso procedimenti tipizzati nelle c.d. fonti di produzione. Questa differenza terminologica non ha conseguenze meramente teoriche, bensì rilevanti effetti pratici sull’attività di interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo. (115) In questo senso è orientata costantemente la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Cfr., ex multis, sentenza 30 maggio 2000, Belvedere Alberghiera S.r.l. v. Italie, in Recueil des arrêts et décisions (Recueil) 2000-VI, para. 56: “La Cour rappelle que l’article 1 du Protocole n. 1 exige, avant tout et surtout, qu’une ingérence de l’autorité publique dans la jouissance du droit au respect des biens soit légale. La prééminence du droit, l’un des principes fondamentaux d’une société démocratique, est inhérente à l’ensemble des articles de la Convention (arrêt Iatridis précité, § 58) et implique le devoir de l’Etat ou d’une autorité publique de se plier à un jugement ou à un arrêt rendus à leur encontre”. In dottrina, L. LESTER OF HERNE HILL, D. PANNICK, Human Rights Law and Practice, London, 1999, 252-253; A. BERNARDI, Art. 7, 248 (248-249), in S. BARTOLE, B. CONFORTI, G. RAIMONDI, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001. (116) Corte dei diritti dell’uomo, sentenza 17 luglio 2001, Association Ekin v. France, in Recueil 2001-VIII, para. 44. La versione inglese della pronuncia è ancor più chiara sul punto: “the expression “prescribed by law” (…) requires firstly that the impugned measure should have some basis in domestic law”. Cfr., anche, sentenza 17 febbraio 2004, Maestri v. Italy, in Reports of Judgements and Decisions (Reports) 2004-I, para. 30. (117) Corte dei diritti dell’uomo, sentenza 18 giugno 1971, De Wilde, Ooms et Versyp (“Vagabondage”) v. Belgique, in Séries A n. 12, para. 93; sentenza Association Ekin, para. 46. (118) Corte dei diritti dell’uomo, sentenza 24 aprile 1990, Kruslin v. France, in Séries A n. 176-A, para. 29: “un domaine couvert par le droit écrit, la “loi” est le texte en vigueur tel que les juridictions compétentes l’ont interprété en ayant égard, au besoin, à des données techniques nouvelles”.

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giurisprudenza ed il c.d. “diritto vivente”, si nota che la legalità nel sistema della Cedu assume un significato diverso rispetto a quello proprio degli ordinamenti statali. In quest’ultimi essa s’intende come riserva di competenza e riserva di atto(119), ovvero come generale preferenza della legge per i caratteri propri dell’organo da cui promana e per i caratteri propri dell’atto giuridico. Non diversa è la situazione, sul punto, degli ordinamenti di common law in cui il principio della “Parliamentary sovereignty means neither more nor less than this, namely, that Parliament thus denned has, under the English constitution, the right to make or unmake any law whatever; and, further, that no person or body is recognised by the law of England as having a right to override or set aside the legislation of Parliament”(120). In realtà, il principio di legalità elaborato dalla Corte dei diritti dell’uomo non diverge molto dalla legalità in senso formale, poiché anche quest’ultima è soddisfatta da previsioni legislative piuttosto vaghe e solo indirette. Una effettiva differenza esiste, diversamente, rispetto all’istituto della riserva di legge in una Costituzione rigida e alla supremacy of the Parliament inglese. In questo caso, come si è detto, una parte della disciplina deve essere necessariamente riservata alla legge ovvero ad un atto legislativo, diverso dalla legge, che garantisca i medesimi interessi (generali e particolari) della legge.

Come si è anticipato, nella nozione di “legge” della Cedu dovrebbe rientrare anche la giurisprudenza. Non dovrebbero sussistere dubbi in merito riguardo ai paesi di common law. Si è già evidenziato che, nel testo in lingua inglese, diverso è il termine impiegato dalla Convenzione rispetto al testo francese. Nel primo l’esigenza della base legale è definita dalle formule “prescribed by law”, “in accordance with the law” e “provided for by law” che, quale comune denominatore, hanno il termine “law”. Diversamente, nel testo francese, si utilizza il più ristretto etimo “loi”. Vero è che nel linguaggio (continentale) comune i termini diritto (“law”) e legge (“loi”) sono utilizzati quali sinonimi. Altrettanto vero, tuttavia, è il fatto che essi hanno significati tecnici ben distinti perché il diritto, anche negli ordinamenti continentali, non può essere ridotto esclusivamente alla legge. In secondo luogo, la rule of law inglese è costituita, come si è visto, anche dai principi generali del common law(121). Non stupisce, quindi, che

(119) A questa ricostruzione si sottrae l’ordinamento costituzionale della V Repubblica francese che, come ricordato in nota 95, non conosce un principio generale di preferenza della legge bensì dispone della ripartizione di competenze, a livello costituzionale, fra legge e regolamento (fra assemblea parlamentare ed esecutivo). (120) A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, cit., 38. (121) Secondo la fondamentale tripartizione di A.V. Dicey, la rule of law può essere ricostruita intorno a tre significati: “We mean, in the first place, that no man is punishable or can be lawfully made to suffer in body or goods except for a distinct breach of law

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la Corte dei diritti dell’uomo affermi che “the word “law” in the expression “prescribed by law” covers not only statute but also unwritten law. Accordingly, the Court does not attach importance here to the fact that contempt of court is a creature of the common law and not of legislation. It would clearly be contrary to the intention of the drafters of the Convention to hold that a restriction imposed by virtue of the common law is not “prescribed by law” on the sole ground that it is not enunciated in legislation: this would deprive a common-law State which is Party to the Convention of the protection of Article 10 (2) (art. 10-2) and strike at the very roots of that State’s legal system”(122).

Maggiori problemi presenta l’inclusione della giurisprudenza quale fattore costitutivo della legalità negli ordinamenti continentali, sebbene nella già citata sentenza Kruslin, la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia affermato che “les arrêts Sunday Times, Dudgeon et Chappell concernaient certes le Royaume-Uni, mais on aurait tort de forcer la distinction entre pays de common law et pays “continentaux”; le Gouvernement le souligne avec raison. La loi écrite (statute law) revêt aussi, bien entendu, de l’importance dans les premiers. Vice versa, la jurisprudence joue traditionnellement un rôle considérable dans les seconds, à telle enseigne que des branches entières du droit positif y résultent, dans une large mesure, des décisions des cours et tribunaux. La Cour l’a du reste prise en considération en plus d’une occasion pour de tels pays. A la négliger, elle ne minerait guère moins le système juridique des États “continentaux” que son arrêt Sunday Times du 26 avril 1979 n’eût “frappé à la base” celui du Royaume-Uni s’il avait écarté la common law de la notion de “loi”” (para. 29). La portata di questa affermazione è però subito temperata dalla stessa Corte che si affretta a

established in the ordinary legal manner before the ordinary Courts of the land. (…). We mean in the second place, when we speak of the “rule of law” as a characteristic of our country, not only that with us no man is above the law, but (what is a different thing) that here every man, whatever be his rank or condition, is subject to the ordinary law of the realm and amenable to the jurisdiction of the ordinary tribunals. (…).We may say that the constitution is pervaded by the rule of law on the ground that the general principles of the constitution (as for example the right to personal liberty, or the right of public meeting) are with us the result of judicial decisions determining the rights of private persons in particular cases brought before the Courts, whereas under many foreign constitutions the security (such as it is) given to the rights of individuals results, or appears to result, from the general principles of the constitution” (A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, cit., 183 ss.). (122) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 26 aprile 1979, The Sunday Times v. The United Kingdom, in Series A n. 30, para. 47. In senso conforme, sentenza 22 ottobre 1981, Dudgeon v. The United Kingdom, in Series A n. 45, para. 44; sentenza 30 marzo 1989, Chappell v. The United Kindgom, in Series A n. 152-A, para. 52 ss.

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precisare che la “legge” dev’essere considerata nel significato fatto proprio dalla giurisprudenza(123).

La questione si è posta concretamente per l’occupazione acquisitiva nel citato caso Belvedere Alberghiera, qualificato dalla Corte quale “principio” elaborato dalle corti italiane. Poiché, ai sensi dell’art. 1 del Protocollo addizionale della Cedu, la proprietà (e più in generale, il patrimonio) può essere limitata solo alle condizioni previste dalla legge, si poneva la necessità di accertare se un principio di origine giurisprudenziale, quale l’occupazione acquisitiva, potesse soddisfare tale prescrizione. Sebbene ritenga che non sia “utile de juger in abstracto si le rôle qu’un principe jurisprudentiel, tel que celui de l’expropriation indirecte, occupe dans un système de droit continental est assimilable à celui occupé par des dispositions législatives”, la Corte ritiene comunque che il suddetto principio giurisprudenziale possa soddisfare i requisiti posti a presidio della legalità convenzionale(124). Per la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, quindi, la legalità può essere soddisfatta sia da atti normativi sia da norme e principi, qualunque ne sia la fonte giuridica, purché dotati di determinati caratteri materiali. In questo senso, anche gli atti normativi, legislativi o infralégislatif, non soddisfano la legalità in ragione degli aspetti formali dell’atto, quanto in virtù di un determinato contenuto materiale, sicché anche un atto “legislativo” potrebbe non soddisfare la legalità convenzionale.

In conclusione, la legalità nel sistema Cedu è intesa nel senso di corrispondenza al diritto, comunque determinato, delle limitazioni e restrizioni dei diritti e delle libertà previste e non necessariamente ad un atto legislativo. Non si tratta, detto altrimenti, di una riserva di competenza attribuita ad un determinato organo dotato di funzione normativa o ad un determinato atto giuridico, bensì di una riserva di diritto sostanziale.

Le caratteristiche che la norma deve possedere per poter soddisfare la previsione della base legale sono l’accessibilità per i destinatari e, soprattutto, la sufficiente precisione al fine di poterne prevedere le conseguenze e gli effetti(125). (123) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Kruslin, para. 29: “Dans un domaine couvert par le droit écrit, la “loi” est le texte en vigueur tel que les juridictions compétentes l’ont interprété en ayant égard, au besoin, à des données techniques nouvelles”. (124) Anche la Corte costituzionale italiana ritiene che la questione di legittimità costituzionale possa “avere ad oggetto l’interpretazione risultante dal “principio di diritto” enunciato dalla Corte di cassazione”. Cfr., da ultimo, sentenza 24 ottobre 2007, n. 349, punto 4 del considerato in diritto. (125) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza The Sunday Times, para. 49: “in the Court’s opinion, the following are two of the requirements that flow from the expression “prescribed by law”. Firstly, the law must be adequately accessible: the citizen must be

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Quanto al primo requisito, nel caso Špaček(126) riguardante la materia fiscale (su cui infra), la Corte europea ha analiticamente accertato la pubblicità ed accessibilità al “Financial Bullettin” per soggetti passivi, strumento attraverso cui il Ministero delle Finanze della Repubblica ceca rende pubblici regolamenti e decreti in materia fiscale. A tal fine, sono stati valutati sia elementi oggettivi – “the Financial Bulletin was created for the purpose of informing the public about measures adopted by the Ministry of Finance. It was intended for the public and, at the relevant time, was distributed, like the Official Gazette, to subscribers and sold by the retail units of the SEVT a.s. Accordingly, Financial Bulletins No. 5 and No. 6/7 were given the same publicity as the Official Gazette. The Official Gazette Act did not require the publication of such measures in the Official Gazette itself, given the silence on the matter in the empowering law - section 25 of the Private Business Activities Act”, – sia elementi soggettivi – “the predecessor of the applicant company, applied the accounting principles included in the Rules which were published in Financial Bulletin no. 5. (…) Špaček SW had accepted the Financial Bulletin as an official public source of binding regulations, and had followed it for the purposes of keeping its accounts “in compliance with accounting principles”, pursuant to section 25 of the Private Business Activities Act”.

In secondo luogo, le norme statali devono essere sufficientemente precise tali da poter consentire di determinare, con adeguato margine, gli effetti giuridici per il soggetto. Anche tale requisito consta di due distinti elementi di carattere oggettivo e soggettivo. Il primo è un carattere della norma che deve permettere al soggetto di individuare le conseguenze di un determinata azione. Rispetto a tale requisito, tuttavia, la giurisprudenza ammette una certa relatività: “whilst certainty is highly desirable, it may bring in its train excessive rigidity and the law must be able to keep pace with changing circumstances. Accordingly, many laws are inevitably couched in terms which, to a greater or lesser extent, are vague and whose interpretation and application are questions of practice”(127). Nondimeno, la prevedibilità della norma deve essere valutata anche in ragione delle qualità soggettive dei destinatari. La nozione di prevedibilità, quindi, “dépend dans une large mesure du contenu du texte dont il s’agit, du

able to have an indication that is adequate in the circumstances of the legal rules applicable to a given case. Secondly, a norm cannot be regarded as a “law” unless it is formulated with sufficient precision to enable the citizen to regulate his conduct: he must be able - if need be with appropriate advice - to foresee, to a degree that is reasonable in the circumstances, the consequences which a given action may entail”. (126) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 9 novembre 1999, Špaček v. The Czech Republic. (127) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza The Sunday Times, para. 49.

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domaine qu’il couvre ainsi que du nombre et de la qualité ́ de ses destinataires. La prévisibilité de la loi ne s’oppose pas à ce que la personne concernée soit amenée à recourir à des conseils éclairés pour évaluer, à un degré raisonnable dans les circonstances de la cause, les conséquences pouvant résulter d’un acte déterminé. Il en va spécialement ainsi des professionnels, habitués à devoir faire preuve d’une grande prudence dans l’exercice de leur métier. Aussi peut-on attendre d’eux qu’ils mettent un soin particulier à évaluer les risques qu’il comporte”(128). La prevedibilità dell’azione da parte un soggetto varia in ragione delle sue qualità personali. Di conseguenza, il grado di precisione richiesto ad una norma per soddisfare la base di legge è, a sua volta, direttamente connesso a tali qualità. Un soggetto che abitualmente, per via della propria professione o di altro, applica il diritto sarà sottoposto ad un accertamento meno intenso rispetto ad un soggetto “normale”.

In conclusione, la legalità, nel sistema dei diritti Cedu è finalizzata a consentire “au citoyen de régler sa condite; en s’entourant au besoin de conseils éclairés, il doit être à même de prévoir, à un degré raisonnable dans les circonstances de la cause, les conséquences qui peuvent découler d’un acte déterminé”(129). Il valore sotteso alla legge è dunque quello della certezza del diritto, funzionale alla protezione della sfera giuridica dell’individuo o, ancor più chiaramente, dei beni fondamentali dell’individuo. In questo senso, la “legge” (rectius: il diritto), per i suoi caratteri di generalità ed astrattezza, costituisce lo strumento più adeguato per proteggere l’individuo dall’arbitrio e dalla discrezionalità dell’amministrazione(130). La preferenza (o preminenza) del diritto non significa, in ambito Cedu, né una preferenza per un organo né per un atto quanto per determinati caratteri delle norme, intese in senso ampio volto a comprendere anche l’interpretazione giurisprudenziale.

4.1 (segue). Profili tributari.

Come si è già detto, la materia tributaria assume rilevanza nella Cedu perché il “pagamento delle imposte” costituisce un interesse espressamente riconosciuto dall’art. 1, para. 2, del Protocollo addizionale che può essere legittimamente perseguito attraverso la “legge”. La materia tributaria non

(128) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 novembre 1996, Cantoni v. Francia, in Recueil 1996-V, para. 35. (129) Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 20 maggio 1999, Rekvényi v. Hongrie, in Recueil 1999-III, para. 34. (130) Così, chiaramente, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Belvedere Alberghiera S.r.l., para. 56. In dottrina, M.L. PADELLETTI, L’occupazione acquisitiva in relazione al principio di legalità stabilito nella Convenzione europea diritti dell’uomo, in Giur. It., 2003, 2244 (2245).

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si discosta dunque dal generale canone di legalità discusso al paragrafo precedente.

La Corte ha affrontato la questione nel succitato caso Špaček. La controversia riguardava la legittimità di fonti regolamentari a disciplinare i criteri di determinazione della base imponibile dell’imposta sui redditi delle società. In particolare, la disciplina tributaria dell’epoca della causa – i fatti risalgono al 1991 – faceva coincidere il reddito tassabile con il reddito contabile senza specificare ulteriormente la fonte cui competeva la regolamentazione dei principi contabili. I criteri di determinazione della base imponibile dell’imposta sul reddito delle società erano, in questo modo, affidati, seppur indirettamente, ad una fonte regolamentare.

Nella pronuncia, la Corte non ha alcun motivo di discostarsi da quanto si è già rilevato supra. Al para. 54, infatti, afferma: “the Court considers that when speaking of “law”, Article 1 of Protocol No. 1 alludes to the same concept to be found elsewhere in the Convention, a concept which comprises statutory law as well as case-law. It implies qualitative requirements, notably those of accessibility and foreseeability”(131). Il concetto di legge tributaria non differisce rispetto a quello previsto nel resto della Convenzione. Tale concetto è ancorato ad elementi sostanziali(132), che escludono qualsiasi rilevanza di elementi formali – quali l’organo o la forma – nella definizione del termine. Anche in materia fiscale, inoltre, è ribadito che la prevedibilità non dipende solo da elementi di natura oggettiva bensì anche dal soggetto. Al para. 59 delle sentenza, la Corte osserva: “in addition, taking into consideration that the applicant company as a legal entity, contrary to an individual taxpayer, could and should have consulted the competent specialists, the publication of the Regulations in the Financial Bulletin was sufficient”.

Si possono quindi estendere, senza alcuna variazione, alla materia tributaria le conclusioni sopra raggiunte. La preferenza di legge nel sistema della Cedu può essere ricondotta ad una riserva di base normativa, indipendentemente dalla fonte e dall’autorità da cui promana, sia essa un atto legislativo, regolamentare o una decisione giurisprudenziale. Ciò che (131) Si veda anche, in materia di sanzioni amministrative fiscali, Commissione europea dei diritti dell’uomo, decisione K.G. v. Bulgaria: “the notion of lawfulness, as contained in other provisions of the Convention, requires that the impugned measure should have a basis in domestic law and that this basis should have sufficient precision, thus allowing to foresee, to a reasonable degree, the consequences of a given action. It is primarily for the national courts to interpret and apply domestic law. Problems as regards the lawfulness of a particular interference with property rights may arise, inter alia, when it is exercised in a discretionary manner and in the same time the procedure is not fair”. (132) Cfr., anche, M. GREGGI, Dall’interesse fiscale al principio di non discriminazione nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin, 2001, I, 412 (434).

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diversamente rileva è la possibilità, per l’individuo, di determinare, con sufficiente certezza, il comportamento o l’attività prescritta dalla “legge” in modo da delimitare l’arbitrio(133) e la discrezionalità dell’amministrazione (finanziaria). Come rilevato, dunque, una funzione diretta a garantire, attraverso la certezza del diritto, i diritti dell’individuo.

Sezione III – Il principio democratico e la legalità tributaria nell’ordinamento comunitario

5. LE FORME DEL PROCESSO DECISIONALE COMUNITARIO. IN PARTICOLARE, DELLA FORMAZIONE DEL BILANCIO DELL’UNIONE EUROPEA E DEGLI ATTI NORMATIVI IN MATERIA TRIBUTARIA. ALLA RICERCA DEL VALORE DEMOCRATICO NEL PROCESSO DECISIONALE COMUNITARIO IN MATERIA FINANZIARIA. 5.1. Introduzione.

La caratteristica peculiare del processo decisionale comunitario(134) è l’eterogeneità. I trattati comunitari non prevedono un unico procedimento decisionale per la formazione degli atti comunitari, bensì una pluralità di procedimenti distinti in ragione del settore o dell’ambito materiale in oggetto. Questa situazione è la conseguenza più immediata e diretta dell’originaria natura internazionalistica dell’Unione europea e, paradossalmente, della progressiva separazione rispetto a quell’esperienza. Come è stato osservato, infatti, l’assenza di una procedura tipica (o “ordinaria”) può essere ricondotta alla mancata attribuzione della funzione normativa ad un organo specifico ed alla condivisione, in varia misura, fra diverse istituzioni comunitarie di tale funzione(135). Questa confusione fra diverse funzioni è un elemento tipico delle organizzazioni internazionali,

(133) Riferimenti all’abritrarietà delle disposizioni fiscali sono contenuti in Commissione europea dei diritti dell’uomo, decisione 14 dicembre 1988, Wasa Liv Ösesidigt, Försäkringsbolaget Valands Pensionsstiftelse et al. v. Sweden: “the requirement that a measure must be prescribed by law can thus be seen to include the requirements that it must satisfy the principle of legal certainty and not be arbitrary”. (134) Con questo sintagma s’intendono i procedimenti latu senso normativi regolati dal diritto comunitario. L’espressione è adottata da A. VEDASCHI, Istituzioni europee e tecnica legislativa, Milano, 2001, 23 nota 2. (135) In questo senso, A. VEDASCHI, Istituzioni europee e tecnica legislativa, cit., 24 ss.: “così, se dal punto di vista strutturale manca una specifica attribuzione della funzione legislativa ad un organo considerato come suo titolare “naturale” (tipicamente l’organo rappresentativo), parimenti dal punto di vista formale non c’è un atto legislativo che rappresenti il “tipo” normale della fonte normativa primaria, a cui tutte le altre fonti vadano parametrate rispetto non solo alla forza, ma anche, appunto alla procedura” (26).

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in contrapposizione con il principio della separazione delle funzioni che orienta gli ordinamenti statali. Con specifico riferimento all’esperienza comunitaria, questo disordine delle forme del processo decisionale comunitario può essere riferito anche alla tumultuosa ed altalenante evoluzione istituzionale e normativa che ha segnato l’ordinamento comunitario dalla sua costituzione. I trattati comunitari sono quindi il risultato della continua ricerca di strumenti istituzionali e normativi capaci di bilanciare adeguatamente l’interesse comunitario e quello degli Stati membri. Piuttosto che favorire l’elaborazione di un quadro sistematico soddisfacente – anche in tema di procedimento decisionale – le soluzioni predisposte dai trattati comunitari hanno via via risolto questioni ed esigenze contingenti.

In assenza di una potestà normativa generale, il processo decisionale comunitario dipende dalla competenza materiale da esercitare e, più precisamente, dal fondamento giuridico della competenza normativa(136).

In termini generali, al processo decisionale comunitario possono essere ascritti non meno di cinque diversi procedimenti: quello di codecisione, di cooperazione, di consultazione o parere semplice, il parere conforme e la concertazione. Non è senza rilievo sottolineare che, fino all’Atto unico europeo, il solo procedimento previsto dai trattati era quello di consultazione. La tendenza comune riscontrabile è quindi quella di un progressivo incremento dei poteri del Parlamento europeo in ragione del fatto che quest’ultimo è organo direttamente rappresentativo dei cittadini comunitari(137). L’attuale assetto del procedimento normativo è espressione di equilibri politici ed istituzionali che possono essere schematicamente rappresentati dalla contrapposizione fra il Parlamento europeo e la Commissione europea, portatori, a vario titolo, dell’interesse comunitario, ed il Consiglio, titolare degli interessi statali.

(136) Così, Corte di giustizia, sentenza 26 marzo 1987, causa 45/86, Commissione delle Ce v. Consiglio delle Ce, in Racc. 1493, para. 11 e 12 della motivazione; sentenza 23 febbraio 1988, causa 68/86, Regno Unito v. Consiglio delle Ce, in Racc. 855, para. 5 e 6 della motivazione. Cfr., anche, A. VON BOGDANDY, Constitutional Principles for Europe, 1 (24), in E. RIEDL, R. WOLFRUM (Eds.), Recent Trends in German and European Constitutional Law, Berlin-Heidelberg-New York, 2006. (137) La dottrina rileva che, allo stato attuale, il procedimento decisionale normale è quello di codecisione previsto dall’art. 251 del Trattato CE. Cfr., per tutti, A. PETERS, European Democracy after the 2003 Convention, Comm. Mar. Law Rev., 2004, 37 (48). Questo procedimento, come è stato osservato disegna un modello “bicamerale”, in cui accanto ad una Camera rappresentativa dei popoli europei è posta un organismo rappresentativo degli stati (il Consiglio) (A. CELOTTO, Prefazione. Le “nuove” fonti nel Trattato costituzionale europeo, XII (XV), in P. BORIA, Diritto tributario europeo, Milano, 2005.

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Si deve altresì notare che, all’interno di queste macrocategorie, il procedimento può variare in relazione al quorum necessario per l’adozione dell’atto, in funzione della partecipazione dei vari organi ed istituzioni europee e dell’intervento dei vari organi consultivi. Un’adeguata analisi del processo decisionale comunitario, quindi, non può farsi in termini generali ma implica, necessariamente, la riduzione dell’indagine ad uno specifico settore materiale.

Accanto ai procedimenti normativi previsti dai trattati comunitari si pongono quelli relativi alla modifica dei trattati ed alla stipula di accordi internazionali. Queste due attività hanno una comune natura internazionale che si riflette nella forma conclusiva assunta dall’atto, quella dell’accordo internazionale. Tuttavia, come già anticipato, il procedimento di revisione dei trattati è stato assoggettato, dal Trattato di Amsterdam, ad una procedura peculiare, prevista dall’art. 48 del Trattato Ue. Non muta la forma giuridica dell’atto conclusivo della procedura di revisione, bensì il procedimento di formazione di tale atto, sottratto (in parte) alle regole del diritto internazionale. Quanto ai normali accordi internazionali, la regola generale afferma il parallelismo fra potestà normativa comunitaria (o interna) e potestà internazionale. Competente alla stipula dell’accordo internazionale dovrebbe quindi essere l’organo o l’istituzione titolare della relativa competenza a norma dei trattati comunitari (si veda supra capitolo primo). 5.2. Il processo decisionale in materia finanziaria e tributaria. La procedura di approvazione del bilancio comunitario, di adozione delle risorse proprie e di armonizzazione fiscale.

Come si è già anticipato, il processo decisionale comunitario dipende dalla “base giuridica” stabilita dai trattati per i diversi settori materiali. La successiva analisi riguarderà, con un diverso grado di approfondimento, l’intero settore finanziario, delineando i processi di approvazione del bilancio comunitario, di adozione delle risorse proprie e di armonizzazione fiscale.

Il bilancio comunitario è finanziato attraverso “risorse proprie” (art. 269 del Trattato Ce). Nonostante la particolare enfasi che suscita questa previsione normativa, solo una quota decisamente modesta e marginale delle spese dell’Unione europea è coperta effettivamente da “risorse proprie”(138), nella specie dai dazi doganali e dai prelievi agricoli. La quota residua di tali spese, e, in proporzione, decisamente prevalente, è finanziata

(138) Tali risorse sono definite “risorse proprie tradizionali” dalla Commissione Ce. Cfr., Relazione della Commissione delle Ce, Il finanziamento dell’Unione europea, del 14 luglio 2004, COM(2004) 505 def.

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dai trasferimenti da parte degli Stati membri, in proporzione a valori “teorici” dell’imposta sul valore aggiunto (iva) e al prodotto nazionale lordo (pnl). Il bilancio comunitario, diversamente da quelli statali, non è quindi composto da entrate di natura tributaria bensì, sul modello delle organizzazioni internazionali, prevalentemente da trasferimenti e finanziamenti degli stati membri. Ciò significa, in una prima approssimazione, che il fenomeno tributario non riveste, nell’ordinamento comunitario, la tradizionale funzione che assume negli ordinamenti statali volta a finanziare, attraverso forme coattive, le funzioni pubbliche. Diversamente, nell’ordinamento comunitario la politica fiscale comunitaria è funzionale al perseguimento degli obiettivi comunitari, ovverosia alla costituzione ed al funzionamento del mercato interno, uno spazio caratterizzato da libertà di movimento e di concorrenza, nonché alla realizzazione delle altre politiche o azioni comunitarie (es. la politica ambientale). L’approfondimento di questi aspetti è stato oggetto dei capitoli precedenti, cui si fa rinvio.

La procedura di approvazione del bilancio comunitario è piuttosto complessa e farraginosa, risultato di una lunga evoluzione normativa che ha prodotto, in questo ambito, un significativo aumento dei poteri del Parlamento europeo. Le regole applicabili al bilancio comunitario si desumono da una pluralità di fonti: gli artt. da 268 a 279 del Trattato Ce, il regolamento del Consiglio del 25 giugno 2002, n. 1605 e alcuni accordi interistituzionali fra Parlamento europeo, Commissione europea e Consiglio.

Ai sensi dell’art. 272, para. 3, del Trattato Ce, il procedimento di approvazione del bilancio comunitario ha inizio con la deliberazione del Consiglio, a maggioranza qualificata, del progetto redatto dalla Commissione europea(139). Tale progetto è quindi trasmesso al Parlamento europeo che può approvarlo, proporre emendamenti o respingerlo interamente. I poteri del Parlamento si distinguono in ragione della tipologia della spesa. Se le modifiche proposte dal Parlamento europeo riguardano le spese obbligatorie (ovverosia, “le spese derivanti obbligatoriamente dal trattato o dagli atti adottati a sua norma”, (art. 272, para. 4)), la decisione finale spetta al Consiglio. Nel caso di spese non obbligatorie, diversamente, la deliberazione finale è attribuita al Parlamento(140). La distinzione fra spese obbligatorie e spese non

(139) La Commissione deve trasmettere al Consiglio il progetto di bilancio entro il 1° settembre di ciascun anno. Accordi interistituzionali hanno anticipato tale scadenza ai mesi aprile-maggio. (140) La procedura è approfondita G. RIVOSECCHI, L’indirizzo politico finanziario tra Costituzione italiana e vincoli europei, Padova, 2007, 103 ss. e da L.S. ROSSI, La dinamica

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obbligatorie risiederebbe, secondo alcuni, nella necessità della legittimazione democratica delle spese(141). Le spese obbligatorie, in quando derivanti direttamente dal Trattato Ce, avrebbero trovato legittimazione democratica nel processo di ratifica del Trattato. Si tratterebbe, quindi, di una legittimazione non comunitaria ma nazionale e, di conseguenza, indiretta. Le spese non obbligatorie, diversamente, riceverebbero legittimazione democratica proprio dall’intervento del Parlamento europeo. Sulla questione del principio democratico, si tornerà più diffusamente nel paragrafo successivo.

Quando la procedura prevista dall’art. 272 è completata, il Presidente del Parlamento “constata che il bilancio è definitivamente adottato” (art. 272, para. 7). Il provvedimento che adotta il bilancio comunitario è quindi formalmente un atto del Parlamento europeo. Si tratta, nondimeno, di un’attribuzione meramente formale perché se il Parlamento europeo ed il Consiglio non raggiungono un’intesa complessiva sul progetto di bilancio, ciascuna delle due istituzioni può separatamente approvare una parte del bilancio. In questo caso, quindi, l’atto, sebbene imputabile al Parlamento europeo, è costituito da due deliberazioni non concordanti.

Nell’ambito del procedimento di approvazione del bilancio comunitario, al Parlamento europeo è quindi attribuito un ruolo significativo, sebbene ancora in posizione non paritaria con il Consiglio, specie se confrontato con quello che la medesima istituzione svolge negli altri ambiti finanziari. Spetta inoltre al Parlamento, ai sensi dell’art. 276 del Trattato Ce il controllo dell’esecuzione del bilancio. Si può concludere che tale procedimento è equiparabile, nei suoi profili generali, a quello previsto dagli ordinamenti statali poiché consente ai rappresentanti dei cittadini la partecipazione al processo di autorizzazione delle spese comunitarie.

interistituzionale nella definizione del bilancio comunitario, in Dir. Un. Eur., 2006, 179 (181 ss.). (141) C. ALTOMONTE, N. NAVA, Economics and Policies of an Enlarged Europe, Cheltenham-Northampton, 2005, 203. Non condivide questa tesi L.S. ROSSI, La dinamica interistituzionale nella definizione del bilancio comunitario, cit., 185, che ritiene alla base della soluzione adottata una ragione pragmatica: “la distinzione appare piuttosto frutto dell’intento da parte degli Stati membri di mantenere una parte significativa del potere di bilancio (l’agricoltura è considerata un settore altamente sensibile per alcuni Paesi) in capo all’istituzione che li rappresenta, il Consiglio, limitando i poteri del Parlamento”.

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Il ruolo del Parlamento europeo, tuttavia, è un ruolo dimezzato(142). La decisione relativa alle risorse proprie che, come si è già anticipato non hanno, se non in parte residuale, natura tributaria, è riservata, dall’art. 269, comma 2, del Trattato Ce, al Consiglio che delibera all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo. La peculiarità di tale procedimento è che la decisione del Consiglio deve essere sottoposta alla procedura di adattamento da parte degli Stati membri secondo le normali procedure costituzionali(143). L’adozione delle risorse proprie è affidata ad un procedimento sostanzialmente intergovernativo(144), che riveste la forma dell’accordo internazionale. La decisione sulle risorse proprie è, quindi, sottratta, se non nella sua previsione formale, al normale regime degli atti comunitari ed è rimessa alla volontà degli Stati membri.

Da questa disciplina emerge in maniera piuttosto evidente la “disparità” fra il meccanismo di decisione sulle spese e quello sulle entrate(145). Questa disparità trova il proprio fondamento in un elemento strutturale originario proprio dell’Unione europea, l’assenza di potestà impositiva e di tributi propri. L’ordinamento comunitario realizza, in questo senso, uno spostamento della manifestazione del consenso a livello statale, poiché proprio quest’ultimo soggetto è tenuto a finanziare il bilancio dell’Unione europea. La legittimazione democratica del sistema delle risorse proprie dell’Unione è quindi “indiretta” o “non comunitaria”, identificabile nelle ratifiche da parte dei parlamenti nazionali dell’accordo

(142) Non si può dar conto in questa sede, per ragioni ovvie, del rapporto fra potestà normativa e di approvazione del bilancio. Posto ai margini del processo normativo, infatti, il Parlamento ha cercato di aumentare la propria influenza attraverso i poteri connessi all’approvazione del bilancio, sostenendo che la sola previsione di spesa potesse fondare la competenza per nuove azioni comunitarie. Questa interpretazione è contraddetta dal Regolamento finanziario n. 1605 del 2002 che richiede un atto di base per l’esecuzione degli stanziamenti iscritti in bilancio per ogni azione comunitaria significativa. In questo senso anche Corte di giustizia, sentenza 11 luglio 1985, cause riunite 87 e 130/77, 22/83 e 10/84, V. Salerno e altri v. Commissione e Consiglio delle Ce, in Racc., 2523, para. 56 della motivazione. (143) L’art. 269, comma 2, del Trattato Ce è così formulato: “il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, stabilisce le disposizioni relative al sistema delle risorse proprie della Comunità di cui raccomanda l’adozione da parte degli Stati membri, in conformità delle loro rispettive norme costituzionali” (enfasi aggiunta). (144) G. TESAURO, Diritto comunitario, cit., 71; L.S. ROSSI, La dinamica interistituzionale nella definizione del bilancio comunitario, cit., 188. (145) Questo elemento di “debolezza” del ruolo del Parlamento europeo è evidenziato anche da L.S. ROSSI, La dinamica interistituzionale nella definizione del bilancio comunitario, cit., 183.

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del Consiglio europeo (la questione sarà ulteriormente approfondita nel paragrafo successivo).

Una situazione del tutto analoga si presenta in ambito tributario, con l’aggiunta del fatto che, storicamente, la potestà impositiva costituisce una delle competenze “originarie” dello stato moderno, tanto da assegnarle la medesima natura della sovranità statale (cfr. capitolo secondo).

Le disciplina del processo decisionale in materia tributaria è decisamente frammentata. L’elemento che accomuna tali disposizioni è quello di non aver beneficiato dell’evoluzione istituzionale e normativa che è rinvenibile in altri settori e che ha prodotto un aumento dei poteri del Parlamento europeo(146).

Il modello di tale procedimento è contenuto nell’art. 93 del Trattato Ce che attribuisce al Consiglio la potestà di stabilire misure di armonizzazione in materia di imposte indirette, previa proposta della Commissione e consultazione del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale. Il procedimento normativo, quindi, si compone di tre momenti: iniziativa, consultazione e decisione.

L’iniziativa procedimentale spetta alla Commissione. Tale potere non si esaurisce con la presentazione del progetto normativo bensì consente alla Commissione di modificare la proposta in qualunque momento sino alla deliberazione finale da parte del Consiglio.

Parte della dottrina attribuisce particolare rilevanza al processo di elaborazione della proposta normativa da parte della Commissione, nella misura in cui questo prevede un particolare coinvolgimento delle amministrazioni nazionali, di esperti e gruppi sociali, economici e professionali(147). Questa pratica, tuttavia, presenta numerosi profili di criticità. Sebbene la partecipazione alla predisposizione del progetto iniziale dell’atto normativo delle categorie interessate renda possibile un (146) In questo senso, A.J. MARTÍN JIMÉNEZ, El derecho financiero constitucional de la Unión europea, in Rev. Esp. Der. Fin. (Civitas), 2001, 111 (154 nota 148); F. VANISTENDAEL, No European taxation without European representation, in EC Tax Rev., 2000, 142; ID., How nice was Nice to European taxation?, in EC Tax Rev., 2001, 2; ID., A window of opportunity for the making of Europe: Member States cannot have their national cake and eat the European one, in EC Tax Rev., 2003, 2; F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 146. (147) F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 152, che indica, quale indice di questa tendenza, il progetto interistituzionale “Legiferare meglio” del 16 dicembre 2003 (in GUCE C 321 del 31 dicembre 2003, 1). Cfr., in questo senso, il para. 26: “Durante il periodo che precede la presentazione delle proposte legislative, la Commissione svolge, dopo averne informato il Parlamento europeo e il Consiglio, consultazioni quanto più complete possibili rendendone pubblici i risultati. In alcuni casi, ove lo ritenga opportuno, la Commissione può presentare un documento di consultazione prelegislativa, sul quale il Parlamento europeo e il Consiglio possono decidere di esprimere un parere”.

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aumento del consenso intorno alla proposta, da ciò non deriva un automatico aumento della democraticità del processo decisionale. Quest’aspetto dipende essenzialmente dal grado di legittimazione democratica dei soggetti che partecipano a questa fase iniziale, che dipende, a sua volta, dalla loro rappresentatività. La ricerca del confronto (e del consenso) fuori dalle sedi istituzionali produce il venir meno delle garanzie strutturali della democrazia: i meccanismi elettorali che, in vario modo, assicurano una rappresentanza proporzionale degli “interessi” di una data comunità ed il divieto di vincoli di mandato fra rappresentati e rappresentanti. La consultazione extraistituzionale può quindi indubbiamente costituire un elemento di democraticità ma solo a condizione che rispetti alcune delle garanzie di rappresentatività proprie dell’organo parlamentare(148). Anche in questo caso, la partecipazione delle formazioni sociali al procedimento normativo non può però essere considerata un elemento sostitutivo della democrazia rappresentativa.

L’iniziativa affidata alla Commissione europea è un’esigenza procedimentale che trova fondamento negli interessi (comunitari) di cui tale organo è portatore e, come tale, normalmente non derogabile. Il Trattato prevede nondimeno alcune specifiche eccezioni che possono assumere rilevanza anche in materia tributaria(149).

(148) In questo senso, anche, S. NINATTI, Quale democrazia per l’Unione Europea? La democraticità del processo decisionale comunitario al vaglio della Corte di Giustizia, in Dir. Soc., 2003, 521 (574 ss.) la quale rileva: “che la verifica dei criteri per soddisfare la rappresentatività delle imprese sia ancora materia poco chiara in ambito positivo quanto sul piano giurisprudenziale” (enfasi aggiunta). Più critico, P. RIDOLA, Il principio democratico fra stati nazionali e Unione europea, in Nomos, 2000, 75 (84): “allargamento dei compiti e vischiosità dei processi decisionali possono comportare il costo di non riuscire a spostare i congegni di partecipazione dal terreno degli “interessi generalizzabili” su quello della formazione delle “politiche””; E. GIANFRANCESCO, Il principio dello stato di diritto e l’ordinamento europeo, 235 (286-287), in S. MANGIAMELI (a cura di), L’ordinamento europeo. I principi dell’Unione, Milano, 2006: “sotto il profilo del rispetto del principio democratico, non sembra affatto giunto il momento in cui la logica “spontaneista” della partecipazione, affidata alla libera iniziativa degli interessati – e, quindi, realisticamente, molto spesso dei più organizzati – sarà in grado di costituire un valido surrogato degli istituti della democrazia rappresentativa tradizionale, così come evolutasi nel corso del tempo ed avente il suo baricentro nell’attività dell’organo parlamentare, rappresentativo dell’intera comunità politicamente organizzata e dotato di forza ulteriormente integrativa nei confronti delle componenti di questa”. Per la giurisprudenza cfr. Tribunale di primo grado, sentenza 17 giugno 1998, causa T-135/96, Union Européenne de l’artisanat et des petites et moyennes entreprises (UEAPME) v. Consiglio dell’Unione europea, in Racc., II-2335, para. 88 della motivazione. (149) Cfr., ad esempio, l’art. 88, para. 2, del Trattato Ce, che attribuisce al Consiglio, su richiesta di uno Stato membro, il potere di decidere all’unanimità sulla compatibilità di un aiuto di Stato con il mercato interno.

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In questa prima fase dell’iniziativa, il ruolo del Consiglio e del Parlamento europeo si riduce alla mera facoltà di sollecitare la Commissione alla presentazione di “adeguate proposte sulle questioni per le quali reputa necessaria l’elaborazione di un atto della Comunità ai fini dell’attuazione del presente trattato” (artt. 208 e 192 del Trattato Ce; art. 39 del Regolamento del Parlamento europeo(150)).

L’intervento del Parlamento europeo (e del Comitato economico e sociale) nel procedimento normativo è propriamente ridotto alla fase di consultazione. Ai sensi dell’art. 93 del Trattato Ce, infatti, la delibera del Consiglio deve essere preceduta dai pareri del Parlamento europeo e del Comitato economico e sociale(151).

Sebbene l’art. 93 equipari formalmente, senza distinzione alcuna, il parere del Parlamento e quello del Comitato economico e sociale, essi svolgono una funzione profondamente diversa. L’intervento consultivo del Parlamento permette la partecipazione dei rappresentanti dei cittadini europei al procedimento di formazione degli atti comunitari in materia tributaria; in tale intervento, la giurisprudenza comunitaria individua, in primo luogo, una manifestazione diretta del principio di democrazia comunitario(152). La partecipazione del Parlamento europeo al processo decisionale comunitario costituisce altresì “un elemento essenziale dell’equilibrio istituzionale”(153) dell’ordinamento comunitario, anche

(150) Ai sensi dell’art. 39 del Regolamento, il Parlamento europeo decide con risoluzione a maggioranza dei propri componenti (para. 1). La risoluzione deve indicare la base giuridica di tale proposta, che deve rispettare i diritti umani ed il principio di sussidiarietà (para. 3), nonché indicare le conseguenze finanziarie (para. 4). (151) È sufficiente ricordare, in questa sede, che l’obbligo di consultazione del Parlamento europeo non figurava nella versione originaria dell’art. 99 (ora 93) e che la versione attuale è il risultato della modifica apportata dall’art. 17 dell’Atto Unico Europeo. (152) Cfr., in questo senso, Corte di giustizia, sentenza 29 ottobre 1980, causa 138/79, SA Roquette Frères v. Consiglio delle Ce, in Racc., 3333, para. 36-37 della motivazione; sentenza 28 ottobre 1980, causa 139/79, Maizena GmBH v. Consiglio delle Ce, in Racc., 3393, para. 37-38 della motivazione. In materia tributaria, cfr., sentenza 5 luglio 1995, causa C-21/94, Parlamento europeo v. Consiglio dell’Ue, in Racc., I-1827, para. 17 della motivazione; sentenza 11 novembre 1997, causa C-408/95, Eurotunnel e a. v. SeaFrance, in Racc., I-6315, para. 45 della motivazione: “va ricordato che la regolare consultazione del Parlamento nei casi previsti dal Trattato costituisce una formalità sostanziale, la cui inosservanza implica la nullità dell’atto considerato. La partecipazione effettiva del Parlamento al processo legislativo della Comunità, in conformità alle procedure previste dal Trattato, rappresenta infatti un elemento essenziale dell’equilibrio istituzionale voluto dal Trattato stesso. Questo potere riflette un fondamentale principio della democrazia, secondo cui i popoli partecipano all’esercizio del potere per il tramite di un’assemblea rappresentativa”. (153) Corte di giustizia, sentenza 2 marzo 1994, causa C-316/91, Parlamento europeo v. Consiglio delle Ce, in Racc., I-625, para. 12 della motivazione.

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questo ricondotto dalla giurisprudenza comunitaria al principio di democrazia.

Proprio perché espressione di un principio fondamentale, l’intervento del Parlamento europeo nel procedimento di formazione degli atti normativi (in materia tributaria) dev’essere effettivo, ovverosia deve permettere al Parlamento di esprimere effettivamente la propria posizione. Tale condizione si realizza nella sostanziale coincidenza fra l’atto adottato dal Consiglio ed il progetto normativo che costituisce oggetto del parere del Parlamento(154).

Si è formata un’ampia giurisprudenza sulle condizioni che generano l’obbligo di una nuova consultazione parlamentare. In termini estremamente sintetici, un nuovo intervento del Parlamento è necessario in tutte le ipotesi in cui il testo approvato presenta differenze sostanziali rispetto a quello su cui tali organi hanno espresso il proprio parere, salvo che tali differenze non siano da imputare ad emendamenti della proposta originaria richiesti dal Parlamento europeo(155). Nel caso in cui queste condizioni non siano soddisfatte, il Parlamento europeo è legittimato a ricorrere per annullamento ex art. 230 del Trattato Ce avverso l’atto normativo deliberato dal Consiglio.

Diversamente, la partecipazione del Comitato economico e sociale è connessa ad esigenze di natura tecnica, legate ad una più adeguata redazione del testo normativo, che trovano riscontro nella composizione stessa dell’organo consultivo(156). Decisamente meno rigida è quindi la (154) Ancora Corte di giustizia, causa C-408/95, Eurotunnel, para. 46 della motivazione: “secondo una giurisprudenza consolidata, l’obbligo di consultare il Parlamento durante il procedimento legislativo, nei casi previsti dal Trattato, comporta l’obbligo di una nuova consultazione ogni volta che l’atto infine adottato, considerato complessivamente, sia diverso quanto alla sua sostanza da quello sul quale il Parlamento sia stato già consultato, eccetto i casi in cui gli emendamenti corrispondano essenzialmente al desiderio espresso dal Parlamento stesso”. Questa interpretazione, nonché la formulazione letterale dell’art. 93 (e 94), dovrebbero consentire di concludere che spetta al Consiglio l’obbligo di trasmissione del testo della proposta normativa al Parlamento europeo. (155) Cfr, fra i numerosi casi, Corte di giustizia, sentenza 15 luglio 1970, causa 41/69, ACF Chemiefarma NV v. Commissione delle Ce, in Racc., 661, para. 178 della motivazione; sentenza 16 luglio 1992, causa C-65/90, Parlamento europeo v. Consiglio delle Ce, in Racc., I-4593, para. 16 della motivazione. Per la materia tributaria, sentenza 25 settembre 2003, causa C-58/01, Océ Van der Grinten NV v. Commissioners of Inland Revenue, in Racc., I-9809, para. 100 della motivazione. (156) Ai sensi dell’art. 257 del Trattato Ce, il Comitato economico e sociale è qualificato quale organo consultivo ed è costituito “da rappresentanti delle varie componenti di carattere economico e sociale della società civile organizzata, in particolare dei produttori, agricoltori, vettori, lavoratori, commercianti e artigiani, nonché delle libere professioni, dei consumatori e dell'interesse generale”. I suoi componenti sono nominati dal Consiglio, a maggioranza qualificata, su proposta degli Stati membri (art. 259, para. 2). Conferma di

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giurisprudenza comunitaria sull’obbligo di previo parere. Il solo caso in cui la Corte di giustizia si è espressa per la nullità di un atto emanato in assenza del parere di un comitato consultivo, risale al 1954 ed all’interpretazione del Trattato Ceca(157).

Il procedimento si conclude con la deliberazione del Consiglio, per la cui validità è necessaria l’unanimità dei componenti.

Il procedimento di adozione di misure di armonizzazione in materia di imposte indirette previsto dall’art. 93 del Trattato Ce è riprodotto, senza variazioni di rilievo, negli altri ambiti materiali tributari.

L’eccezione di maggior rilievo è rappresentata dall’art. 26 del Trattato Ce, relativo ai dazi doganali, la cui relativa tariffa comune è deliberata a maggioranza qualificata su proposta della Commissione. Una previsione simile è prevista per i procedimenti che riguardano la fissazione di “esoneri e rimborsi all’esportazione negli altri Stati membri” e per “introdurre tasse di compensazione applicabili alle importazioni provenienti dagli Stati membri” (Art. 92 del Trattato Ce), sebbene tale base giuridica non sia mai stata utilizzata(158). La peculiarità di questo procedimento è la maggioranza richiesta per la deliberazione e l’assenza di qualsivoglia intervento del Parlamento europeo.

quanto affermato si trova nella sentenza 9 luglio 1987, cause riunite 281, 283, 284, 285 e 287/85, Repubblica Federale di Germania, Repubblica francese, Regno dei Paesi Bassi, Regno di Danimarca d Regno Unito di Gran Bretagna e d’Irlanda del Nord v. Commissione delle Comunità europee, in Racc., 3203, para. 38 della motivazione, ove la Corte di giustizia afferma che “è opportuno rilevare che il Comitato economico e sociale, composto di rappresentanti degli ambienti socio-economici, ha il compito di consigliare il Consiglio e la Commissione sulle soluzioni da adottarsi nei confronti di problemi concreti in materia economica e sociale e di fornire pareri basati sulle sue competenze e conoscenze specifiche”; in chiave comparativa, Tribunale di primo grado, sentenza 7 luglio 1999, causa T-89/96, British Steel plc v. Commissione delle Ce, in Racc., II-2089, para. 165 della motivazione: “il Parlamento europeo costituisce un’istituzione comunitaria la cui effettiva partecipazione al processo legislativo della Comunità rappresenta un elemento essenziale dell’equilibrio istituzionale voluto dal Trattato (…). Al contrario, nella controversia in esame, si tratta della partecipazione di un organo tecnico al processo decisionale delle istituzioni. Ne consegue che il parere di cui all’art. 95 del Trattato CECA non si ricollega alle stesse esigenze di forma della consultazione del Parlamento europeo di cui all’art. 308 CE”. (157) Corte di giustizia, sentenza 21 dicembre 1954, causa 2/54, Repubblica francese v. Alta Autorità Ceca, in Racc., 77, para. 7 della motivazione. Una indiretta conferma di tale decisione si trova nella causa C-58/01, Océ Van der Grinten, para. 100 della motivazione. (158) Si possono segnalare anche gli artt. 89 e 299, secondo para., del Trattato Ce che riguardano, rispettivamente, gli aiuti di Stato e misure specifiche da adottare per i territori d’oltremare, ambiti materiali generali che possono avere un’incidenza anche in materia tributaria. Cfr., al riguardo, la Decisione del Consiglio 2002/546/CE del 20 giugno 2002 relativa al regime d’imposta AIEM applicabile nelle Isole Canarie (in GUCE L 179 del 9 luglio 2002, 22).

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Quanto alla politica ambientale, l’art. 175, para. 2, del Trattato Ce, prevede, in deroga al procedimento di codecisione cui rinvia il para. 1, che le misure aventi “principalmente natura fiscale” debbano essere deliberate dal Consiglio all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni. La sola differenza, rispetto alla procedura prevista dall’art. 93, consiste nell’intervento del Comitato delle regioni nella fase consultiva.

Una indagine separata merita l’imposizione diretta(159). È oltremodo noto che l’imposizione diretta non forma oggetto di alcuna specifica disposizione dei trattati comunitari (se si eccettuano le fattispecie previste dall’art. 58, para. 1, lett. a) e b), introdotte dal Trattato di Maastricht e l’art. 293, para. 1, seconda alinea, del Trattato Ce). Tale, vistosa, assenza è giustificata da ragioni storiche ed economiche che non possono essere approfondite in questa sede(160). La base giuridica per l’adozione di misure di “ravvicinamento” delle disposizioni relative all’imposizione diretta è stata individuata in una disposizione a contenuto generale, l’art. 94 del Trattato Ce, e, in via residuale, nell’art. 308 del Trattato Ce che attribuisce al Consiglio i poteri necessari per perseguire obiettivi ed azioni non previsti dal Trattato Ce (c.d. “poteri impliciti”).

Il ricorso all’art. 94 si presenta una soluzione obbligata, considerata l’espressa esclusione per la materia tributaria, operata dal para. 2 dell’art. 95, del procedimento deliberativo di “codecisione” ai sensi dell’art. 251 del Trattato Ce. Il procedimento previsto dall’art. 94 del Trattato Ce è speculare a quello dell’art. 93. La funzione normativa è riservata esclusivamente al Consiglio che delibera all’unanimità su proposta della Commissione, sentito il parere del Parlamento e del Comitato economico e sociale.

L’art. 96 del Trattato Ce attribuisce al Consiglio il potere di adottare direttive per eliminare le distorsioni provocate dalle disposizioni

(159) Una ulteriore ipotesi, assolutamente marginale quanto all’ambito di applicazione, è prevista per il procedimento di formazione delle norme o condizioni relative al regime fiscale dei membri o ex membri del Parlamento europeo. Ai sensi dell’art. 190, para. 5, del Trattato Ce, tale regime è stabilito su deliberazione del Parlamento europeo, previo parere della Commissione, e con l’approvazione del Consiglio all’unanimità. Sembrerebbe quindi trattarsi di un procedimento di codecisione, constando di una duplice deliberazione costitutiva: quella del Parlamento europeo a maggioranza dei propri membri e quella del Consiglio all’unanimità. I maggiori poteri di cui è dotato il Parlamento in questo procedimento devono ascriversi alla generale convenzione secondo cui spetta a ciascun organo la disciplina relativa alla condizione dei propri membri e, più in generale, le regole inerenti al funzionamento dell’istituzione o dell’organo. (160) Si rinvia, sul punto, a A.J. MARTÍN JIMÉNEZ, Towards Corporate Tax Harmonization in the European Community. An Institutional and Procedural Analysis, London, 1999, 105 ss.

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legislative, regolamentari o amministrative degli Stati membri che producano l’effetto di falsare le condizioni di concorrenza del mercato interno. Il procedimento, piuttosto articolato, prende avvio dalla Commissione che, in una prima fase deve avviare consultazioni con gli Stati membri. Nel caso in cui al termine di questa prima fase le distorsioni non siano state eliminate, il Consiglio può, su proposta della Commissione, deliberare a maggioranza qualificata le direttive necessarie a correggere la situazione. Pur non aumentando il grado di democraticità del processo normativo, questa disposizione consentirebbe di eliminare i veti contrapposti delle deliberazioni all’unanimità in materia tributaria.

Si deve escludere che questa disposizione possa costituire la base giuridica dell’armonizzazione (o ravvicinamento) dell’imposizione tributaria(161). Una lettura sistematica del Capo 3 del Titolo IV del Trattato Ce (rubricato “ravvicinamento delle legislazioni”) e delle altre disposizioni sulla produzione giuridica in materia tributaria dovrebbe escludere questa ipotesi, riservata in primo luogo ai meccanismi previsti dagli artt. 93 e 94 del Trattato Ce, che prevedono la deliberazione all’unanimità.

L’ambito materiale di applicazione dell’art. 96, tuttavia, è diverso rispetto a quello degli artt. 93 e 94, poiché è ristretto alle sole distorsioni provocate dalle legislazioni statali. In questo senso, la disposizione si dovrebbe caratterizzare quale norma d’eccezione rispetto agli artt. 93 e 94. Come autorevolmente affermato, essa dovrebbe costituire “a safety valve” per legittimare l’intervento della Comunità nei casi più evidenti di distorsione del mercato senza essere paralizzata dal meccanismo dell’unanimità(162). Così interpretato, come norma speciale rispetto al generale procedimento normativo in materia fiscale, l’art. 96 (ma le stesse considerazioni si possono estendere anche all’art. 97) potrebbe trovare applicazione anche in materia tributaria. (161) In questo senso, seppure limitatamente all’imposta sul reddito delle società, si esprime anche A.J. MARTÍN JIMÉNEZ, Towards Corporate Tax Harmonization in the European Community. An Institutional and Procedural Analysis, cit., 154-155. (162) B.J.M. TERRA, P.J. WATTEL, European Tax Law, The Hague, 2005, 21. In questo senso, si vedano anche le conclusioni dell’AG Geelhoed del 23 febbraio 2006, causa C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation (Pirelli, Essilor e Sony), Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation (BMW) v. Commissioners of Inland Revenue, para. 47. Di diverso avviso, J. LANG, I presupposti costituzionali dell’armonizzazione del diritto tributario in Europa, 443 (445-446), in A. AMATUCCI, (diretto da), Trattato di diritto tributario. Annuario, Padova, 2001; P. PISTONE, The Impact of Community Law on Tax Treaties. Issues and Solutions, London, 2002, 59: “as direct taxes are a traditionally delicate field for Community law, issues related to them may not be directly deducted from general rules. Therefore, had Community law really wanted to apply Article 96 EC Treaty to them, an explicit sign thereof should have been included in a new wording of this provision after the Treaty of Amsterdam”.

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Quanto all’art. 308 del Trattato Ce, esso conferisce al Consiglio la competenza per il raggiungimento di uno degli scopi della Comunità in assenza di una espressa previsione in merito nei trattati europei. Questa disposizione potrebbe trovare applicazione per la materia dell’imposizione diretta. Il procedimento previsto dall’art. 308 è perfettamente identico a quello dell’art. 93 del Trattato Ce.

Questa disposizione ha costituito la base giuridica del Regolamento comunitario del Consiglio n. 2137/85 del 25 luglio 1985 che ha istituito il Gruppo europeo di interesse economico (Geie), contenente anche disposizioni in materia fiscale (art. 40). Medesimo fondamento ha il Regolamento comunitario del Consiglio n. 2157/2001 dell’8 ottobre 2001 relativo alla statuto della società europea.

6. PROCESSO DECISIONALE IN MATERIA FINANZIARIA E PRINCIPIO DEMOCRATICO. LA LEGITTIMAZIONE DEMOCRATICA INDIRETTA E GLI ELEMENTI DI DEMOCRAZIA DELL’ORDINAMENTO COMUNITARIO.

L’analisi condotta nel paragrafo precedente ha mostrato che il

Parlamento europeo svolge un ruolo piuttosto differenziato nei vari processi decisionali in materia finanziaria. Si può ritenere che le funzioni del Parlamento europeo si avvicinino a quelle dei parlamenti nazionali solo in materia di formazione del bilancio, ovverosia di determinazione delle spese dell’Unione. Diversamente, il principio del consenso, ovverosia il principio democratico rappresentativo, non sembra essere accolto dall’ordinamento comunitario nei processi decisionali relativi alle risorse proprie ed all’armonizzazione in materia fiscale.

La definitività di questa conclusione, tuttavia, presuppone un approfondimento intorno alla rilevanza del principio democratico nell’ordinamento comunitario. Il consenso all’imposizione tributaria, infatti, si è storicamente realizzato nell’esperienza dello stato nazionale, costruito sul modello dell’unità statale sovrana caratterizzata, dal punto di vista della struttura sociale, da una relativa omogeneità. Il sistema comunitario, diversamente, non è riconducibile all’archetipo della statualità. Per altro verso, e in questo si riassume il dilemma dell’estensibilità del principio democratico all’Unione europea, l’utilizzo di schemi derivanti dal modello statale è una necessità(163). Il principio (163) Questo aspetto è magistralmente evidenziato da P. RIDOLA, Il principio democratico fra stati nazionali e Unione europea, cit., 77. Cfr., anche, J. ZEMÁNEK, Improving the Union’s Democratic Legitimacy: The European Parliament and National Parliaments, 113 (114), in I. PERNICE, J.M. BENEYTO PÉREZ (Eds.), The Government of Europe. Institutional Design for the European Union, Baden-Baden, 2003: “as the European identity always

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democratico, quindi, si realizza nell’ordinamento comunitario in forme originali, non interamente comparabili con quelle proprie degli stati membri, benché quest’ultimi restino il paradigma moderno della democrazia.

Diversamente dagli stati membri, la legittimazione democratica dell’Unione europea si fonda su un doppio livello, proprio (o autonomo) e statale (o eteronomo)(164).

Quanto alla legittimazione democratica propria, si è già anticipato che la giurisprudenza comunitaria ha individuato un primo elemento di democrazia dell’ordinamento comunitario nella partecipazione popolare alla formazione delle decisioni e degli atti comunitari. Più precisamente, la consultazione parlamentare è stata ritenuta “strumento che consente al Parlamento l’effettiva partecipazione al processo legislativo della Comunità”, manifestazione del “fondamentale principio della democrazia, secondo cui i popoli partecipano all’esercizio del potere per il tramite di

remains different from the national one in terms of its substance and scope, different will be also the claims of democratic legitimacy of the public power at each of both levels, including the means of their settlement”. (164) Questa conclusione è condivisa dalla dottrina maggioritaria. Cfr. P. KIRCHHOF, Die Gewaltenbalance zwischen staatlichen und europäischen Organen, in JZ, 1998, 965 (972); A. VON BOGDANDY, Supranationaler Föderalismus als Wirklichkeit und Idee einer neuen Herrschaftsfrom, Baden-Baden, 1999, 56 ss.; ID., Das Leitbild der dualistischen Legitimation für die europäische Verfassungsenwivklung. Gängige Mißverständnisse des Maastricht-Urteil und deren Gründe (BVerfGE 89, 155 ff.), in KritV, 2000, 284 (286 ss.); E. STEIN, International Integration and Democracy: No Love a First Sight, Am. Jour. Int. Law, 2001, 489 (524; 532-533); J. LANG, I presupposti costituzionali dell’armonizzazione del diritto tributario in Europa, cit., 444; P. RIDOLA, Il principio democratico fra stati nazionali e Unione europea, cit., 82; G. AMATO, Costituzione europea e parlamenti, in Nomos, 2002, 9, 13; S. NINATTI, Quale democrazia per l’Unione Europea? La democraticità del processo decisionale comunitario al vaglio della Corte di Giustizia, cit., 531; J. ZEMÁNEK, Improving the Union’s Democratic Legitimacy: The European Parliament and National Parliaments, cit., 114; F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 170; A. TORRES DEL MORAL, C. VIDAL PRADO, Democracia Representativa, 1384 (1392 ss.), in E. ÁLVAREZ CONDE, V. GARRIDO MAYOL (Directores), Comentarios a la Constitución europea, Libro II, Valencia, 2004; P. COSTANZO, L. MEZZETTI, A. RUGGERI, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, cit., 78; 81. In questo senso, inoltre, chiaramente dispone il BVerfG, sentenza 12 ottobre 1993, 155, [173]: “Im Staatenverbund der Europäischen Union erfolgt mithin demokratische Legitimation notwendig durch die Rückkoppelung des Handelns europäischer Organe an die Parlamente der Mitgliedstaaten; hinzutritt - im Maße des Zusammenwachsens der europäischen Nationen zunehmend - innerhalb des institutionellen Gefüges der Europäischen Union die Vermittlung demokratischer Legitimation durch das von den Bürgern der Mitgliedstaaten gewählte Europäische Parlament”. Non sembra superfluo notare che una simile affermazione è strettamente inerente alla teoria del c.d. “multilevel constitutionalism” descritta nel capitolo primo.

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un’assemblea rappresentativa”(165). Come è stato osservato, nell’enfasi di questa affermazione – riferita al semplice potere consultivo del Parlamento europeo – si rinviene l’identificazione della democrazia con le assemblee rappresentative(166).

Nella citata decisione Roquette Fréres, la Corte ha evidenziato, in maniera superficiale, un secondo elemento della democrazia comunitaria, l’equilibrio istituzionale previsto dai trattati(167). Nella costruzione della Corte, il sistema istituzionale comunitario prevede una serie di “pesi e contrappesi” (“checks and balance”) che consentono, conformemente alla teoria democratica, di delimitare i poteri di ciascuna istituzione ed evitare che trasmodino in arbitrio. Questa forma di bilanciamento istituzionale non coincide esattamente con la teoria della separazione dei poteri ma è

(165) Corte di giustizia, causa 138/79, Roquette Fréres, para. 33 della motivazione. Una traccia embrionale di questo pensiero si trova nella causa 26/62, Van Gend & Loos, quando, al para. II.B., la Corte osserva: “ il Trattato (…) fa richiamo ai popoli e, più concretamente ancora, alla instaurazione di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli stati membri sia dei loro cittadini. (…). In considerazione di tutte queste circostanze si deve concludere che la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli stati membri ma anche i loro cittadini”. (166) S. NINATTI, Quale democrazia per l’Unione Europea? La democraticità del processo decisionale comunitario al vaglio della Corte di Giustizia, cit., 534. Una riaffermazione di questa equivalenza è recentemente venuta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nella sentenza Matthews, la Corte, partendo dalla premessa della natura sui generis della Comunità europea “which does not follow in every respect the pattern common in many States”, afferma che “the European Parliament represents the principal form of democratic, political accountability in the Community system” e che “whatever its limitations, the European Parliament, which derives democratic legitimation from the direct elections by universal suffrage, must be seen as that part of the European Community structure which best reflects concerns as to “effective political democracy””. Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 18 febbraio 1999, Matthews v. The United Kingdom, in Reports 1999-I, para. 48-54. (167) Il punto è stato ripreso e successivamente sviluppato dalla giurisprudenza comunitaria. Ex multis, cfr., Corte di giustizia, sentenza 22 maggio 1990, causa 70/88, Parlamento europeo v. Consiglio delle Ce, in Racc., 2041, para. 21 ss. della motivazione; sentenza 10 giugno 1997, causa C-392/95, Parlamento europeo v. Consiglio dell’Ue, in Racc., I-3213, para. 14 ss. della motivazione. In dottrina, G.F. MANCINI, D.T. KEELING, Democracy and the European Court of Justice, cit., 181; P.P. CRAIG, Democracy and Rulemaking within the EC: an empirical and normative assessment, Jean Monnet Working Papers, n. 2, 1997; E. STEIN, International Integration and Democracy: No Love a First Sight, cit., 521; A. VEDASCHI, Istituzioni europee e tecnica legislativa, cit., 48-49; S. NINATTI, Quale democrazia per l’Unione Europea? La democraticità del processo decisionale comunitario al vaglio della Corte di Giustizia, cit., 539 ss.; C. DI LELLO, Il principio democratico nell’ordinamento europeo, 195 (218-219; 224 ss.), in S. MANGIAMELI (a cura di), L’ordinamento europeo. I principi dell’Unione, Milano, 2006

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riconducibile, più correttamente, ad un sistema di cooperazione fra istituzioni per il raggiungimento degli obiettivi previsti dai trattati europei(168).

Gli elementi evidenziati – quello della democrazia e dell’equilibrio istituzionale – sono strettamente interconnessi e, come è stato ampiamente rilevato, essi si riferiscono a due diverse idee di democrazia. Da lato, quella lockiana del consenso, dall’altro quella dell’utilità e dell’efficienza dell’azione dei pubblici poteri elaborata da D. Hume(169). In termini piuttosto approssimativi, si può rilevare che la prima forma di democrazia si realizza attraverso la partecipazione – diretta o per rappresentanza – dei soggetti appartenenti ad una determinata collettività alla formazione delle decisioni la riguardano. La seconda, diversamente, considera i risultati dell’azione prodotta dai pubblici poteri, indipendentemente dai meccanismi e dagli strumenti che presiedono tale azione. Per essere considerata democratica, i risultati di tale azione devono consentire la massimizzazione dell’utilità e dell’efficienza collettiva.

Conformemente a questo svolgimento, il processo decisionale comunitario in materia tributaria (e di risorse proprie) è, in via primaria, informato all’idea “repubblicana” (secondo la definizione di Craig) di democrazia. Alla partecipazione dei rappresentanti dei cittadini europei alla formazione delle decisioni tributarie, l’ordinamento comunitario

(168) Condividono queste affermazioni P. DANN, Looking through the federal lens: The Semi-parliamentary Democracy of the EU, Jean Monnet Working Papers, n. 5, 2002, 8; S. NINATTI, Quale democrazia per l’Unione Europea? La democraticità del processo decisionale comunitario al vaglio della Corte di Giustizia, cit., 540, a cui si fa rinvio per un approfondimento della questione (556 ss.). In senso critico sul ruolo democratico dell’equilibro istituzionale, cfr., E. GIANFRANCESCO, Il principio dello stato di diritto e l’ordinamento europeo, cit., 285-286. (169) Nelle diverse elaborazioni dottrinali, i termini mutano lasciando invariato il contenuto. P.P. CRAIG, Democracy and Rulemaking within the EC: an empirical and normative assessment, cit., ritiene che “the rationale for the centrality accorded to this idea [of institutional balance within the Community] strikes a direct chord with the historical application of republicanism: the necessity to create a stable form of political ordering for a society within which there are different interests or constituencies”. Diversamente F.W. SCHARPF, Governare l’Europa. Legittimità democratica ed efficacia delle politiche nell’Unione europea, Bologna, 1997, 13 ss., definisce il pensiero democratico “orientato all’input” quello che pone l’accento sul “governo da parte del popolo”, mentre la prospettiva democratica “orientata all’output” quella che considera che le scelte politiche sono legittime se e nella misura in cui promuovono il bene comune della collettività in questione. Da ultimo, S. NINATTI, Quale democrazia per l’Unione Europea? La democraticità del processo decisionale comunitario al vaglio della Corte di Giustizia, cit., 535, contrappone la teoria classica della democrazia a quella liberal-democratica (o c.d. Madisonian democracy, secondo la definizione di R.A. Dahl).

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prepone il risultato e l’efficacia dell’azione(170). In questo senso, il principio democratico dell’Unione europea deve misurarsi, anzitutto, in termini di efficacia dell’azione prodotta e, solo mediatamente, in ragione del grado di partecipazione dei cittadini europei alla formazione delle decisioni.

Come si è già detto, tuttavia, i trattati europei (e la dottrina) riconoscono un secondo livello di legittimazione democratica dell’Unione, quello dei parlamenti nazionali.

Il richiamo al ruolo dei parlamenti nazionali in funzione di legittimazione democratica dell’ordinamento comunitario costituisce una reazione al cd. deficit democratico dell’Unione e al progressivo allargamento delle competenze comunitarie. Questo aspetto è stato sottolineato con forza dal BVerfG nel famoso Maastricht-Urteil, allorché si rilevava che “ein Übergewicht von Aufgaben und Befugnissen in der Verantwortung des europäischen Staatenverbundes würde die Demokratie auf staatlicher Ebene nachhaltig schwächen, so daß die mitgliedstaatlichen Parlamente die Legitimation der von der Union wahrgenommenen Hoheitsgewalt nicht mehr ausreichend vermitteln könnten”. Nella prospettiva del giudice costituzionale tedesco, quindi, un ulteriore ampliamento delle competenze, privando il Bundestag di compiti e funzioni “von substantiellem Gewicht”, avrebbe prodotto una violazione del fondamentale principio democratico sancito dal GG.

Come è stato ampiamente osservato, la decisione del Tribunale costituzionale tedesco ha quale fondamento un presupposto peculiare, per certi versi distorcente, che la democrazia nell’ordinamento comunitario debba esprimersi necessariamente nelle forme già sperimentate a livello statale. Visione distorta, quindi, perché utilizza concetti propri di un’esperienza politica per interpretarne una sensibilmente diversa. Il giudice tedesco, infatti, rileva che, allo stato attuale, mancano le condizioni ed i presupposti per poter individuare un popolo europeo, presupponendo che, come per gli stati, il popolo sia un elemento fondamentale dell’esperienza comunitaria(171). Non si potrebbe quindi parlare di (170) P.P. CRAIG, Democracy and Rulemaking within the EC: an empirical and normative assessment, cit., che osserva: “institutional balance was perceived as a necessary pre-condition for the realisation of the second principal tenant of republican thought, that decision-making should serve the public good rather than narrow sectional self-interest”; U.K. PREUSS, The Constitution of a European Democracy and the Role of the Nation State, in Ratio Juris, 1999, 417 (422): “reasons of efficiency and utility belong to the most significant founding rationales of the Community”. (171) BVerfG, sentenza 12 ottobre 1993, [225]: “Demokratie, soll sie nicht lediglich formales Zurechnungsprinzip bleiben, ist vom Vorhandensein bestimmter vorrechtlicher Voraussetzungen abhängig, wie einer ständigen freien Auseinandersetzung zwischen sich begegnenden sozialen Kräften, Interessen und Ideen, in der sich auch politische Ziele

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democrazia con riferimento all’ordinamento comunitario poiché sarebbe assente, ab origine, l’elemento costitutivo fondamentale di tale principio, il demos. Il Parlamento europeo sarebbe, in questa visione, un insieme di popoli (demoi) la cui legittimazione originaria deriverebbe dalle istituzioni (e dagli ordinamenti) statali(172). L’assenza di un demos precluderebbe la possibilità di individuare una democrazia a livello europeo fondata sul principio maggioritario.

klären und wandeln (…) und aus der heraus eine öffentliche Meinung den politischen Willen verformt”; e ancora: “Derartige tatsächliche Bedingungen können sich, soweit sie noch nicht bestehen, im Verlauf der Zeit im institutionellen Rahmen der Europäischen Union entwickeln”. Si deve immediatamente precisare, come è stato fatto, che questi rilievi “is but a German version of deep strand in both the political self-understanding and the theory of the European Nation-State” (J.H.H. WEILER, U. HALTERN, F. MAYER, European Democracy and Its Critique. Five Uneasy Pieces, Jean Monnet Working Papers, n. 1, 1995, 6), ovverosia risentono in maniera decisiva del dogma statale che non vi può essere alcuna organizzazione politica senza nazione (“a parliament is, on this view, an institution of democracy not only because it provides a mechanism for representation and majority voting, but because it represents the Volk, the nation, the demos from which derive the authority and legitimacy of its decisions” (7)). Per una critica di tale nozione: “can we not define membership of a polity in civic, non-ethno-cultural terms? Can we not separate ethnos from demos? (…). The legal “passport” of membership in the polity is citizenship: Citizenship is what defines you as a member of the polity with full political and civil rights and duties. (…). Inconceivable is a demos understood in non-organic civic terms, a coming together on the basis not of shared ethnos and/or organic culture, but a coming together on the basis of shared values, a shared understanding of rights and societal duties and shared rational, intellectual culture which transcend ethno-national differences”(9 ss.). Nello stesso senso, U.K. PREUSS, The Constitution of a European Democracy and the Role of the Nation State, cit., 423 ss. Secondo l’autore l’idea che la democrazia non sia possibile senza demos si basa su due elementi non riproducibili, né rilevanti, a livello comunitario: “democratic rule requires the formation of a unitary and homogeneous collective will of the ruled who, as collective subject, must be seen as the author of the authoritative acts of the Community. (…). [This] first assumption draws on a democratic tradition which has been developed on the basis of the French model of the état-nation. It is based on the principle of equal national citizenship and lays emphasis on the equality of the citizens. (…). (…) there is and alternative concept which relies upon liberty as supreme value”. Il secondo assunto è che “the legal orders which are issued by the Community have the character of general laws which affect every single Union citizen in much the same manner and which therefore require the same mode of participation in the process of democratic authorization. (…). This postulate is not confirmed by the facts. Article 189 ECT enumerates the legal instruments of the organs of the Community for the accomplishment of its goals”. (172) Ancora BVerfG, sentenza 12 ottobre 1993, [227]: “Vermitteln die Staatsvölker - wie gegenwärtig - über die nationalen Parlamente demokratische Legitimation, sind mithin der Ausdehnung der Aufgaben und Befugnisse der Europäischen Gemeinschaften vom demokratischen Prinzip her Grenzen gesetzt. Jedes der Staatsvölker ist Ausgangspunkt für eine auf es selbst bezogene Staatsgewalt”. In dottrina, D. GRIMM, L’Europa ha bisogno di una Costituzione?, in Nomos, 2000, 7 (8-9).

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Sarebbe un assurdo logico, date queste premesse, anche parlare di consenso dei cittadini europei (all’imposizione tributaria), considerata l’impossibilità di individuare un gruppo omogeneo di soggetti che possa definirsi “popolo europeo” e di comparare il ruolo del Parlamento europeo a quello dei parlamenti nazionali(173). Mancando di una potestà tributaria ed essendo dotata di risorse proprie solo in senso nominale, i veri contribuenti dell’Unione europea sarebbero gli stati membri, i soli quindi legittimati ad esprimere, attraverso il Consiglio Ue, il consenso all’imposizione (o, più esattamente, al trasferimento di risorse)(174).

Il ruolo dei parlamenti statali è stato progressivamente riconosciuto anche dai trattati.

Il Protocollo n. 9 allegato al Trattato sull’Unione europea (introdotto dal Trattato di Amsterdam) prescrive un coinvolgimento dei parlamenti nazionali nel processo decisionale comunitario. A questi ultimi devono essere comunicati tutti i “documenti di consultazione” e le “proposte legislative” della Commissione, lasciando un adeguato periodo di tempo per potere esprimere osservazioni e/o chiedere ulteriori informazioni(175).

(173) Quest’ultima osservazione è formulata da S. NINATTI, Quale democrazia per l’Unione Europea? La democraticità del processo decisionale comunitario al vaglio della Corte di Giustizia, cit., 537 che, richiamando M. ZULEEG, Demokratie in der europäischen Gemeinschaft, in JZ, 1993, 1071, osserva che “il cuore della democrazia in Europa” non consiste nel diritto ad essere rappresentati, quanto a partecipare ai processi tramite cui vengono scelti i governanti europei. (174) Nelle sue conclusioni del 2 giugno 1986, causa 34/86, Consiglio delle Ce v. Parlamento europeo, in Racc., 2156, l’avvocato generale Mancini afferma: “le risorse comunitarie (…) saranno anche “proprie” e da questa loro natura qualche politologo potrà dedurre che il bilancio è già orientato in senso federale; ma, salvo i prelievi CECA, a raccoglierle e a metterle a disposizione della Comunità restano pur sempre gli stati. Di fatto, insomma, i veri contribuenti sono loro; è a loro quindi che spetta, mediante l’istituzione di cui sono rappresentati, la maggior quota del potere decisionale sulla misura delle uscite” (para. 2). Cfr., in dottrina, A. FANTOZZI, Autorità e consenso nell’armonizzazione comunitaria degli ordinamenti tributari, cit., 7 ss. (175) La parte I del Protocollo così recita: “1. Tutti i documenti di consultazione redatti dalla Commissione (libri verdi, libri bianchi e comunicazioni) sono tempestivamente trasmessi ai parlamenti nazionali degli Stati membri. 2. Le proposte legislative della Commissione, quali definite dal Consiglio a norma dell’articolo 207, paragrafo 3 del trattato che istituisce la Comunità europea, sono messe a disposizione dei governi degli Stati membri in tempo utile per permettere loro di accertarsi che i parlamenti nazionali possano debitamente riceverle. 3. Un periodo di sei settimane intercorre tra la data in cui la Commissione mette a disposizione del Parlamento europeo e del Consiglio, in tutte le lingue, una proposta legislativa o una proposta relativa ad una misura da adottare a norma del titolo VI del trattato sull’Unione europea e la data in cui questa è iscritta all’ordine del giorno del Consiglio ai fini di una decisione, per l’adozione di un atto o per l’adozione di una posizione comune a norma dell’articolo 251 o 252 del trattato che istituisce la Comunità

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Un ruolo propositivo e consultivo è riservato alla conferenza delle commissioni per gli affari europei (COSAC), che riunisce membri delle commissioni per gli affari europei dei parlamenti degli stati membri – 6 per ciascuno stato – e del Parlamento europeo.

Ben prima della “positivizzazione” del ruolo dei parlamenti europei, la dottrina aveva già rilevato che il principio democratico doveva essere considerato quale elemento identificativo della comune identità europea, piuttosto che elemento fondativo dell’ordinamento comunitario(176).

Così ricostruito il ruolo dei parlamenti statali nell’ordinamento comunitario, la questione diviene valutarne la capacità di soddisfare il principio del consenso all’imposizione tributaria. Questa questione non può essere trattata in maniera unitaria perché diversa è la funzione del parlamento nazionale nel processo decisionale relativo alle risorse proprie dell’Unione rispetto all’armonizzazione tributaria.

Nel primo caso, come si è già ampiamente osservato, i parlamenti statali intervengono direttamente nel procedimento decisionale sulle risorse proprie attraverso l’autorizzazione alla ratifica (e l’ordine di esecuzione) della delibera del Consiglio Ue. La decisione sulle risorse proprie è sottratta alla generale competenza degli atti comunitari e rimessa alle regole sul diritto dei trattati proprie del diritto internazionale. In questo senso, il ruolo dei parlamenti nazionali, nella misura in cui intervengono nel procedimento di ratifica (cfr., art. 80 Cost.), è costitutivo della decisione in materia di risorse proprie, ovverosia, il procedimento decisionale non può dirsi completo fino alla (autorizzazione alla) ratifica dei parlamenti nazionali. In questo, si è già detto, la decisione che determina le risorse proprie dell’Unione rientra nel normale regime del diritto internazionale. Si deve dunque concludere che la decisione sulle risorse proprie dell’Unione consente un’attiva partecipazione dei europea, fatte salve le eccezioni dettate da motivi di urgenza, le cui motivazioni sono riportate nell’atto o nella posizione comune”. (176) Così, quasi testualmente, S. NINATTI, Quale democrazia per l’Unione Europea? La democraticità del processo decisionale comunitario al vaglio della Corte di Giustizia, cit., 536. Cfr., anche, G.F. MANCINI, D.T. KEELING, Democracy and the European Court of Justice, Mod. Law Rev., 1994, 175 (179); E. CANNIZZARO, Democrazia e sovranità nei rapporti fra Stati membri e Unione europea, in Dir. Un. Eur., 2000, 241 (247-248); C. DI LELLO, Il principio democratico nell’ordinamento europeo, cit., 220-221; 231. Considerano il principio democratico un principio generale (o costituzionale) dell’Unione europea, G. RESS, Democratic Decision-Making in the European Union and the Role of the European Parliament, 153 (158), in D. CURTIN, T. HEUKELS (Eds.), Institutional Dynamics of European Integration. Essays in Honour of H.G. Schermers, II, Dordrecht-Boston-London, 1994; F.M. CARRASCO GONZÁLEZ, El prinicipio de autoimposición en la producción normativa de la Unión europea, cit., 25; A. VON BOGDANDY, Constitutional Principles for Europe, cit., 20; P. COSTANZO, L. MEZZETTI, A. RUGGERI, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, Torino, 2006, 75.

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parlamenti nazionali e, quindi, consente di ritenere soddisfatto il principio del consenso.

Una conclusione analoga non si può estendere al procedimento di armonizzazione tributaria. Questo rientra, a pieno titolo, fra i processi decisionali esclusivamente comunitari e si conclude con un atto propriamente comunitario.

Tuttavia, per dimostrare compiutamente l’irrilevanza del ruolo dei parlamenti nazionali in materia tributaria è necessario analizzare dettagliatamente le singole funzioni da questi svolte.

I parlamenti nazionali intervengono, in primo luogo, nel processo di formazione dei trattati europei (o delle modifiche ai trattati europei) ai sensi dell’art. 48 del Trattato Ue. Anche in questo caso, il procedimento (e gli atti conseguenti) rientrano, salvo poche differenze, nell’ambito del diritto internazionale dei trattati. Difficilmente discutibile appare la tesi che fa derivare la legittimazione democratica originaria dell’Unione europea dalla ratifica, da parte degli stati membri, dei trattati costitutivi e delle loro successive modifiche(177). Attraverso tali atti (fondativi) gli stati membri “trasferiscono” una parte delle proprie competenze all’Unione europea. Tale processo, naturalmente, riguarda anche la materia tributaria e, in particolare, le imposte indirette la cui disciplina è stata progressivamente trasferita a livello comunitario.

Questa iniziale “ratifica” non è, tuttavia, sufficiente a garantire uno standard minimo di legittimazione dell’azione comunitaria, soprattutto in materia tributaria. In primo luogo, come si è cercato di evidenziare nel capitolo primo, il riparto di competenze per attribuzione sancito dall’art. 5, para. 1, del Trattato Ce, è realizzato attraverso criteri decisamente vacui e flessibili, orientati agli obiettivi da perseguire piuttosto che alle materie da regolare. Ma anche nelle esperienze federali e confederali, ove il riparto è definito per materie, notevoli problemi sorgono nell’accertamento concreto della titolarità delle competenze ed è evidenziata, piuttosto chiaramente, la tendenza ad un accentramento sempre maggiore di competenze al livello di governo più elevato.

I parlamenti statali intervengono sia nel procedimento di elaborazione sia in quello di adeguamento degli atti comunitari (in materia tributaria). Quanto al primo, il loro ruolo è limitato all’esame degli atti trasmessi dalla

(177) Questo ribadisce, in ultima istanza, la sovranità popolare, ovverosia che le comunità sovranazionali europee sono originate dai popoli statali. In questo senso, I. PERNICE, The Role of National Parliaments in the European Union, WHI – Paper, n. 5, 2001, 10: “in modern democracy, no other body than the citizens – acting together through their institutions (national governments and parliaments) – can be the ultimate origin of supranational public authority and source of democratic legitimacy of supranational legislative power like the European Union”.

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Commissione, anche per verificarne il rispetto con il principio di sussidiarietà, ed alla formulazione di osservazioni entro il termine di 6 settimane(178) (Protocollo n. 9 al Trattato Ue). Si tratta di una funzione, quindi, meramente consultiva, non diversa da quella del Parlamento europeo. Del resto, l’attività di negoziazione dei contenuti degli atti normativi comunitari non si adatta, per sua natura, ad una istituzione complessa come il parlamento. La negoziazione in sede di Consiglio impone decisioni in tempi decisamente ristretti e con un elevato grado di tecnicismo. Questi elementi sono gli stessi che, anche in sede statale, fanno preferire gli atti aventi forza e valore di legge dell’esecutivo in luogo della più ampia rappresentatività offerta dal parlamento. È confermata, cioè, la suaccennata tendenza a restringere l’intervento dei parlamenti nazionali solo alle linee fondamentali della politica tributaria e finanziaria lasciando la parte di dettaglio, in ragione della sua analiticità, all’amministrazione statale.

Quanto alla successiva fase dell’adeguamento del diritto comunitario al diritto interno, la funzione dei parlamenti nazionali è ridotta, sostanzialmente, all’“esecuzione”(179) – prendere o lasciare – degli atti deliberati del Consiglio Ue, spesso, come nel caso italiano, attraverso l’impiego dello strumento delle deleghe normative.

La riduzione dell’attività dei parlamenti nazionali ad “esecuzione” degli atti comunitari deriva soprattutto dall’elevato grado di dettaglio che gli atti comunitari raggiungono, in particolare in materie tecniche quali quella tributaria. Da strumento libero quanto ai mezzi da utilizzare per raggiungere i fini previsti, la direttiva si è progressivamente trasformata in una sorta di regolamento comunitario che lascia agli stati membri una piena discrezionalità solo per gli aspetti secondari della materia da disciplinare.

L’insufficienza dell’intervento dei parlamenti nazionali a conferire legittimità democratica al processo decisionale in materia fiscale deriva, in estrema sintesi, dalla peculiare natura dell’Unione europea. Tale processo, come ampiamente evidenziato, è riferibile, con qualche piccolo (178) Il Parlamento italiano in un’indagine condotta dal Cosac ha affermato che per materie complesse il termine di 6 settimane fissato dal Protocollo n. 9 per far pervenire il parere alla Commissione sugli atti normativo “could be too short” (Annex to the 7th biannual report of COSAC: National Parliaments’ replies to questions). (179) J.H.H. WEILER, U. HALTERN, F. MAYER, European Democracy and Its Critique. Five Uneasy Pieces, cit., 4; I. PERNICE, The Role of National Parliaments in the European Union, cit., 6, definisce il ruolo dei parlamenti statali come “just “rubber stamp” European legislation at the national level”; F. MAIANI, The Role of National Parliaments in EU Legislative Procedures – Reform Perspectives, 94 (96), in D. MELISSAS, I. PERNICE (eds.), Perspectives of the Nice Treaty and the Intergovernmental Conference in 2004, Baden-Baden, 2002.

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aggiustamento, al meccanismo di negoziazione degli atti internazionali ma si coniuga con elementi normativi – prevalenza ed effetto diretto – ed elementi istituzionali – Corte comunitaria – estranei al diritto internazionale. La combinazione di tali profili rende insufficiente, ai fini democratici, i normali meccanismi elaborati dagli stati rispetto al diritto internazionale.

La conclusione che maggiormente interessa l’indagine condotta è che né il livello statale(180) né quello comunitario, per diverse ragioni, consentono di ritenere pienamente soddisfatto il principio del consenso all’imposizione inteso nel senso di partecipazione dei cittadini alla formazione delle decisioni in materia tributaria(181). Il modello previsto a livello statale, che presuppone la centralità delle assemblee rappresentative in materia fiscale, non trova riflesso nell’ordinamento europeo che non realizza, almeno non direttamente, una relazione diretta fra il dovere tributario ed il consenso dei rappresentanti(182). L’effetto più evidente è la “oggettivizzazione” della funzione tributaria, sempre più affidata ad organi tecnici in luogo di organi rappresentativi.

Il valore democratico del consenso all’imposizione tributaria, quindi, pur essendo comune a tutte le costituzioni europee (e, soprattutto, proprio della tradizione storica contemporanea europea), appare largamente recessivo nell’ordinamento comunitario.

Resta da accertare se tali processi possano essere accomunati in ragione dei caratteri propri degli atti normativi. Questo elemento è già (180) U.K. PREUSS, The Constitution of a European Democracy and the Role of the Nation State, cit., 418: “democratic consent to the erection of the supranational entity and to its role to pool considerable parts of the Member States’ sovereignties does not provide sufficient legitimacy for the several policies devised and conducted by the Community”; G. AMATO, Costituzione europea e Parlamenti, cit., 15; A. PETERS, European Democracy after the 2003 Convention, cit., 50: “when assessing the democratic character of European law-making, it is important to note that the real influence of domestic parliaments in domestic law-making does not live up to the parliamentary ideal”. (181) In termini generali, cfr. P. RIDOLA, Il principio democratico fra stati nazionali e Unione europea, cit., 86: “un bilancio dell’esperienza comunitaria conduce pertanto, dal punto di vista della legittimazione democratica dell’Unione, ad esiti complessivamente insoddisfacenti, a causa del non completo superamento della marginalità decisionale del parlamento, della marcata impronta funzionalista, che fa prevalere il confronto degli interessi su procedure di democrazia politica, ed infine a causa dei limiti dell’incidenza dei parlamenti nazionali sulle questioni comunitarie”. (182) Giunge a medesime conclusioni anche C. SACCHETTO, Il diritto comunitario e l’ordinamento tributario italiano, cit., 253: “il dato attuale incontrovertibile è quello invece di una carenza istituzionale sotto il profilo del controllo democratico, e da un inadeguato controllo giurisdizionale (non bastando il controllo della Corte di Giustizia ex artt. 234 e 241 CE), da uno scollamento tra dovere di contribuire e decisione politica di contribuire, non bastando il voto informativo del Parlamento europeo da un lato e il canale della approvazione nazionale ex art. 23 degli atti comunitari dall’altro”.

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stato evidenziato nell’analisi dell’art. 23 Cost. e nell’analisi della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo. In questo senso, si è evidenziata, nelle pagine precedenti, una tendenza comune all’Unione europea ed agli stati membri. Al pari del procedimento comunitario, anche la prassi statale tende progressivamente a sottrarre ai parlamenti statali la materia tributaria di dettaglio per riservarla agli apparati amministrativi in ragione dell’elevato tasso tecnico della materia. Solo gli obiettivi generalissimi della politica fiscale – secondo quella che gli scienziati della politica definiscono la design stage(183) – continuano ad essere oggetto di esclusivo monopolio degli organi (parlamentari) rappresentativi. Si realizza, in questo senso, una subordinazione dell’interesse alla partecipazione dei cittadini alla formazione delle decisioni in materia di imposizione tributaria a favore di una migliore redazione tecnica degli atti (nel senso di un favor verso quella che si è definita sopra democrazia “orientata all’output”).

7. PROCESSO DECISIONALE COMUNITARIO, COMUNITÀ DI DIRITTO E PRINCIPIO DI LEGALITÀ.

La dottrina costituzionalista ha osservato che “per quanti sforzi si

facciano per assimilare il principio comunitario di legalità a quello nazionale, non potrà trascurarsi l’irriducibile differenza tra i due ordinamenti, basata sul rilievo che manca ancora nel sistema comunitario la figura della legge, deliberata da un parlamento rappresentativo, espressione della volontà generale”(184). La incommensurabilità fra la natura ed il sistema delle fonti dell’Unione europea e quelli degli stati membri si traduce nell’impossibilità di trasferire acriticamente il principio di legalità all’ordinamento comunitario. Questo non significa, nondimeno, che tale principio non trovi riconoscimento in questo ordinamento. L’Unione europea, infatti, sebbene non sia confrontabile con lo stato, si presenta comunque come “potere pubblico” capace di incidere direttamente (ed in maniera autoritativa) sui soggetti dell’ordinamento. Rispetto ad essa, quindi, si riproducono le medesime esigenze di legalità proprie degli stati, di una base legale dell’azione pubblica e di limiti a tale azione(185).

(183) Cfr., a titolo esemplificativo, A.C. GOULD, P.J. BAKER, Democracy and Taxation, in Ann. Rev. Pol. Sc., 2002, 87 (88). (184) Così, F. SORRENTINO, Lezioni sul principio di legalità, Torino, 2001, 39. (185) Sul punto, A. ALÌ, Il principio di legalità nell’ordinamento comunitario, Torino, 2005, 2, ma anche 94: “sebbene in questo facciano difetto quei riferimenti costanti che negli ordinamenti nazionali costituiscono, per un verso, il fondamento e, per altro verso, lo

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In primo luogo, il principio di legalità assume rilevanza attraverso la valorizzazione delle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri (art. 6, para. 3, del Trattato Ue) nonché, indirettamente, dall’art. 2 dello stesso Trattato che individua, fra gli obiettivi dell’Unione, la costituzione di uno spazio comune di diritto

Un profilo di maggiore interesse, tuttavia, riveste la nozione di legalità che è stata autonomamente sviluppata dalla giurisprudenza comunitaria attraverso il generalissimo concetto di “comunità di diritto”(186). La prima affermazione di tale concetto risale alla causa Les Verts, ove la Corte di giustizia ha rilevato che “la Comunità economica europea è una comunità di diritto nel senso che né gli stati che ne fanno parte, né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base costituita dal Trattato. In particolare, con gli artt. 173 e 184, da un lato, e con l’art. 177, dall’altro, il Trattato ha istituito un sistema completo di rimedi giuridici e di procedimenti inteso ad affidare alla Corte di giustizia il controllo della legittimità degli atti delle istituzioni”(187). Nell’ordinamento comunitario, quindi, il principio di legalità, che deriva dal concetto di comunità di diritto, può essere sintetizzato, in una prima approssimazione, nella judicial review, ovverosia nella garanzia giurisdizionale dei diritti e delle libertà individuali(188). In questo contesto, il principio di legalità presuppone necessariamente la

svolgimento del principio di legalità (la legge quale atto di un organo rappresentativo a legittimazione democratica, la separazione dei poteri, la gerarchia formale delle norme), ciò nonostante la giurisprudenza della Corte di giustizia ritiene vigente il principio stesso quale regola intorno alla quale ruota l’ordinamento comunitario come “Comunità di diritto””. (186) La diretta connessione fra legalità e stato (o comunità) di diritto è evidenziata chiaramente in dottrina. Si rinvia, per tutti, a L. CARLASSARE, Legalità (principio di), cit., 2. (187) Corte di giustizia, sentenza 23 aprile 1986, causa 294/83, Parti ecologiste “Les Verts” v. Parlamento europeo, in Racc., 1339, para. 23 della motivazione. Nel testo inglese, il riferimento è ad una “Community based on the rule of law”. La qualificazione delle Comunità quali comunità di diritto è stata ripresa nel parere 14 dicembre 1991, 1/91, Progetto di accordo tra la Comunità ed i Paesi dell’Associazione europea di libero scambio, relativo alla creazione dello spazio economico europeo, in Racc., I-6079, para. 21 della motivazione; sentenza 23 marzo 1993, causa C-314/91, B. Weber v. Parlamento europeo, in Racc., I-1093, para. 8 della motivazione; sentenza 25 luglio 2002, causa C-50/00, Unión de Pequeños Agricultores v. Consiglio dell’Ue, in Racc., I-6677, para. 39 ss. della motivazione. (188) La dottrina è concorde su questa conclusione. Cfr., per tutti, A. TIZZANO, La Corte di giustizia delle Comunità europee, Napoli, 1967, 13; J.P. JAQUÉ, Cours général de droit communautaire, in Collected Courses of the Academy of European Law, Dordrecht, 1990, I, 1, 239 (277); G. BEBR, Court of Justice: Judicial Protection and the Rule of law, 303 (306 ss.), in D. CURTIN, T. HEUKELS (Eds.), Institutional Dynamics of European Integration. Essays in Honour of H.G. Schermers, II, Dordrecht-Boston-London, 1994; T.C. HARTLEY, The Foundations of European Community Law, Oxford, 2003, 319; A. ALÌ, Principio di legalità nell’ordinamento comunitario, cit., 32; 58-59; 66-69; 96.

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presenza di una regola giuridica, indipendentemente dalla fonte da cui promana – dall’organo rappresentativo, dall’esecutivo o dalle corti nella forma di precedente –, sufficiente a determinare le conseguenze dell’agire del singolo e nel diritto, concesso al singolo, di far valere tale regola dinanzi ad un organismo imparziale. Esso non attiene dunque ad una particolare fonte del diritto, bensì al contenuto materiale di tale fonte che deve essere tale da circoscrivere la discrezionalità dei pubblici poteri ed consentire al soggetto la prevedibilità delle proprie azioni. Proprio perché diretta ad assicurare la prevedibilità della azioni, la legalità implica la uniformità e generalità della norma giuridica, quali elementi essenziali diretti a soddisfare il principio di eguaglianza giuridica(189).

L’aspetto più rilevante nella definizione della nozione di comunità di diritto e di legalità comunitaria appare, di conseguenza, quello della progressiva specificazione di un bagaglio di diritti individuali dei privati sulla base dei trattati, delle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri e della convenzione europea dei diritti dell’uomo(190).

Il fondamento ultimo della legalità comunitaria è dunque, similmente a quanto descritto nel sistema convenzionale Cedu, la garanzia dei diritti e delle libertà dell’individuo nei suoi rapporti con l’autorità pubblica. In questo senso, la legalità presuppone due condizioni, una materiale ed una istituzionale. La prima si riferisce ai caratteri delle norme che devono essere generali ed astratte, al fine di eliminare qualsiasi privilegio e consentire di poter determinare le conseguenze giuridiche derivanti dalla propria azione. La seconda condizione, diversamente, riguarda l’esistenza di organi giurisdizionali indipendenti. La finalità essenziale della legalità comunitaria è, dunque, la limitazione del potere pubblico(191).

In questa accezione, la legalità comunitaria deriva (ovvero, risente significativamente) dell’influenza della rule of law di matrice anglosassone(192). Essa, nondimeno, non si discosta dall’originale

(189) In questo senso, riferito al procedimento amministrativo, cfr., V. CRISAFULLI, Principio di legalità e giusto procedimento, in Giur. Cost., 1962, 130 (134). (190) In questo senso, cfr. G. TESAURO, Eguaglianza e legalità nel diritto comunitario, in Dir. Un. Eur., 1999, 1 (9); E. GIANFRANCESCO, Il principio dello stato di diritto e l’ordinamento europeo, cit., 275. (191) In termini generali, riferendosi allo stato di diritto, M.S. GIANNINI, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna, 1986, 95-96; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1993, 64. In termini positivi, cfr. art. 5, para. 1, della Costituzione federale della Confederazione Svizzera del 18 aprile 1999: “Il diritto è fondamento e limite dell’attività dello Stato”. (192) Cfr., in questo senso, G.S. COOPER, Conflicts, Challenges and Choices – The Rule of Law and Anti-Avoidance Rules, 13 (16), in G.S. COOPER (Ed.), Tax Avoidance and the Rule of Law, Amsterdam, 1997; M. GAMMIE, Tax Avoidance and the Rule of Law: A Perspective from the United Kingdom, 181 (185-186), in G.S. COOPER, (Ed.), Tax Avoidance and the

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significato che il termine Rechtsstaat assunse nell’ordinamento monarchico tedesco(193). In tale esperienza, l’arbitrio assolutistico era delimitato dal carattere legale della norma giuridica, non necessariamente di fonte legislativa(194). Il comune elemento di convergenza fra le due posizioni, sintetizzato dall’esperienza comunitaria, che consente di configurare uno specifico rapporto tra potere pubblico e soggetti privati, è costituito dall’esigenza di limitare l’arbitrio del potere pubblico(195). La limitazione del potere pubblico attraverso il diritto assume una chiara valenza garantistica, essendo diretta a salvaguardare la libertà dei singoli.

Queste conclusioni possono essere trasferite, senza alcun distinguo, alla materia tributaria, anzi, rispetto ad essa le esigenze di certezza del diritto si manifestano in maniera ancor più intensa. La norma comunitaria, in questo senso, deve consentire la prevedibilità delle conseguenze da parte dell’individuo ovvero deve consentire la certa determinazione del dovere tributario(196). Rule of Law, Amsterdam, 1997. Condividono questa conclusione A. ALÌ, Principio di legalità nell’ordinamento comunitario, cit., 18-19; E. GIANFRANCESCO, Il principio dello stato di diritto e l’ordinamento europeo, cit., 275 che rileva: “una tradizione [quella anglosassone] nella quale (…) il patrimonio delle libertà dei cittadini non è affidato alla garanzia da parte di un catalogo frutto di una manifestazione di volontà di un legislatore costituente ma è il risultato di un’opera di discernimento di casi concreti da parte delle Corti e di una continua relazione dialettica legislatore-Giudice, nel quale il secondo interviene a meglio definire, integrare, circoscrivere le affermazioni del primo, al fine di salvaguardare il patrimonio dei diritti degli individui”. (193) Condivide questa conclusione, N. MACCORMICK, Der Rechtsstaat und die rule of law, in JZ, 1984, 65. (194) Si veda, per tutti, P. LABAND, Das Staatsrecht des deutschen Reiches, Tübingen, 1911, trad. it. Il diritto pubblico dell’impero germanico, Torino, 1914, 780 ss. (195) Così, H. GRIBNAU, General Introduction, 1 (2), in G.T.K. MEUSSEN (Ed.), The Principle of Equality in European Taxation, The Hague – London – Boston, 1999 (“the rule of law requires effective safeguards against arbitrary interferences by the public authorities. These interferences by the tax administration with an individual’s rights and liberties should be subject to an effective control which should be normally secured by the judiciary, for judicial control offers the guarantees of independence, impartiality and a proper procedure”) e E. GIANFRANCESCO, Il principio dello stato di diritto e l’ordinamento europeo, cit., 257 ss. che richiama il primo dei caratteri che A.V. DICEY, Introduction to the Study of the Law of the Constitution, cit., 202, attribuisce alla rule of law: “the absolute supremacy or predominance of regular law as opposed to the influence of arbitrary power”. (196) La giurisprudenza comunitaria è consolidata sul punto. Cfr., Corte di giustizia, sentenza 13 febbraio 1996, causa C-143/93, Gebroeders van Es Douane Agenten BV v. Inspecteur der Invoerrechten en Accijnzen, in Racc., I-431, para. 27 della motivazione: “si pone tuttavia, a questo punto, la questione della certezza del diritto. Si deve ricordare al riguardo che il principio della certezza del diritto costituisce un principio fondamentale del diritto comunitario, il quale esige che la normativa che impone oneri al contribuente sia chiara e precisa, affinché esso possa conoscere con certezza i propri diritti ed obblighi e regolarsi di conseguenza” (in materia doganale); sentenza 29 aprile 2004, causa C-17/01, Finanzamt

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8. CONCLUSIONI. La riserva di legge in materia tributaria, che costituisce la traduzione

in termini giuridici dello storico principio del consenso all’imposizione, risente, come si è cercato ripetutamente di evidenziare, di due diverse istanze, quella garantista e quella democratica. Nella prima sarebbero rappresentate le posizioni giuridiche individuali – la “libertà dei moderni” – nella seconda la possibilità dell’autogoverno, ovverosia di essere governati secondo le leggi che ci si è dati – la “libertà degli antichi”(197).

Il principio democratico, ovverosia la necessità che siano i rappresentanti dei cittadini ad istituire norme tributarie, costituisce la funzione primaria della riserva di legge tributaria negli ordinamenti statali. Esso si è accompagnato, storicamente, all’idea della piena sovranità del parlamento, quale espressione della volontà generale o dei rappresentati. Tale elemento, tuttavia, è recessivo nell’ordinamento comunitario e nel diritto internazionale. Le esigenze (o istanze) democratiche (o generali), espresse attraverso la partecipazione dei rappresentanti dei cittadini alla formazione delle decisioni in materia tributaria, trovano un riconoscimento del tutto marginale nell’ordinamento comunitario(198).

Il fondamento comune al processo di produzione normativa in materia tributaria è quello di garanzia delle posizioni soggettive del contribuente. Questa garanzia è assicurata attraverso i caratteri propri della norma giuridica, generalità ed astrattezza(199), nonché attraverso la judicial review(200). La materia tributaria (al pari degli altri che coinvolgono Sulingen v. W. Sudholz, non ancora pubblicata, para. 34 della motivazione: “inoltre, come la Corte ha più volte dichiarato, la normativa comunitaria dev’essere certa e la sua applicazione prevedibile per coloro che vi sono sottoposti. Tale necessità di certezza del diritto s’impone con rigore particolare quando si tratta di una normativa idonea a comportare oneri finanziari, al fine di consentire agli interessati di conoscere con esattezza l’estensione degli obblighi che essa loro impone” (in materia di iva). (197) Questa suddivisione è stata elaborata da B. CONSTANT, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Torino, 2001, ripresa da I. BERLIN, Due concetti di libertà, Milano, 2000, entrambi citati da S. PAJNO, Considerazioni su principio democratico e principio di legalità, in Dir. Pubbl., 2005, 467 (468). (198) Concorda, L. ANTONINI, Sussidiarietà fiscale. La frontiera della democrazia, cit., 44: “si può quindi parlare di “elementi di democrazia” presenti nel sistema europeo, ma non di democrazia”. (199) La generalità e l’astrattezza possono essere ulteriormente specificate. A titolo meramente descrittivo, cfr., J. RAZ, The rule of law and its virtue, in Law Quart. Rev., 1977, 195 (198 ss.) che individua le seguenti caratteristiche: all laws should be prospective, open and clear; laws should be relatively stable; the making of particular laws (particular legal orders) should be open, stable, clear and general rules. (200) La prevalenza di valori individuali rispetto a quelli generali è valutata negativamente da E. GIANFRANCESCO, Il principio dello stato di diritto e l’ordinamento europeo, cit., 279 ss.: “la dimensione essenzialmente giurisdizionale di salvaguardia del principio dello Stato di

CONSENT ALL’IMPOSIZIONE

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rapporti con i poteri pubblici) è regolata dal principio di normatività o di giuridicità(201) in base al quale l’ordinamento giuridico nel suo complesso deve consentire al singolo la prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni o fatti e la tutela dei propri diritti dinanzi al giudice(202). In questo senso, la legalità tributaria si specifica in una condizione del diritto che attraverso la generalità e l’astrattezza consente di limitare l’arbitrio dei poteri pubblici.

Se quindi, s’intende offrire una ricostruzione unitaria, non necessariamente minima, della “legalità tributaria”, se ne deve accogliere la preminente – sebbene non esclusiva – funzione di realizzazione della certezza del diritto intesa quale garanzia tanto “della sicurezza e della libertà delle persone, quanto della uniformità e della generalità-astrattezza della norma giuridica e quindi, sotto quest’ultimo aspetto, dell’eguaglianza fra gli uomini”(203).

diritto non può considerarsi pienamente appagante. In particolare, va sottolineato come l’attuazione del principio in questione, nel suo riferimento al ruolo dell’organo legislativo nella produzione normativa, costituisca un aspetto imprescindibile ed essenziale di realizzazione del principio stesso. (…). La previa regola di diritto che limita il potere pubblico deve rispondere ad una precisa giustificazione politico-costituzionale e non può che ispirarsi ad un modello di organizzazione costituzionale che ha al suo centro un organo di rappresentanza politica generale: il Parlamento, appunto” (280). (201) La definizione è stata coniata di G. PERICU, Le sovvenzioni come strumento di attività amministrativa, I, Milano, 1971, 37 nota 54. Ma si veda, anche, per la dottrina straniera, G. VEDEL, P. DELVOLVE, Droit administratif, 1, Paris, 1992, 444-445: “la légalité exprime donc la conformité au droit et est synonyme de régularité juridique”. (202) In termini generali, che quello indicato sia il contenuto del principio di legalità, è confermato da F. NEUMANN, The Rule of Law. Political Theory and the Legal System in Modern Society, Berg, 1986, 182: “the fundamental principle is the legality of administration, that is to say, the postulate that the administration of the state is bound by its own laws, and that every interference of the state must be reducible to such laws. (…). From this it follows that the relation between the state and the individuals must be determined in advance by formal rational law. The interference of the state with liberty and property must be predictable and calculable; in Stahl’s words, it must be exactly defined. From this it follows that those interferences must be controllable, and indeed by independent judges”. (203) In questo senso A. BALDASSARRE, Globalizzazione contro democrazia, Roma-Bari, 2002, 380. Sulla funzione della riserva di legge tributaria come garanzia della certezza del diritto si leggano le pagine di E. ALLORIO, La portata dell’art. 23 della costituzione e l’incostituzionalità della legge sui contributi turistici, cit., 86; ID., La certezza del diritto dell’economia, in Dir. Econ., 1956, 1198 (1212 ss.). Cfr., anche, G. M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, cit., 92 ss.; H. GRIBNAU, General Introduction, cit., 1 ss. (“the rule of law aims at protection against arbitrary interferences. Laws, which provide for the conditions of the encroachment upon the liberty of the citizen, are supposed to promote certainty and equality”); P. BORIA, L’interesse fiscale, cit., 132 ss.

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La base comune della “legalità tributaria”, in conclusione, esprime l’esigenza che siano stabiliti precisi parametri giuridici idonei a consentire la determinazione del dovere tributario(204), indipendentemente dal fatto che le regole giuridiche provengano da un organo rappresentativo. In questo senso, se si vuole continuare ad utilizzare il termine democrazia (o principio democratico), lo si può fare avendo cura di sottolineare che la democrazia non è un metodo, bensì un fine per tutelare le posizioni giuridiche soggettive, conformemente all’idea repubblicana di democrazia(205).

(204) Come del resto parte della dottrina ha sempre sottolineato con riferimento all’art. 23 Cost. Cfr. E. TOSATO, Prestazioni patrimoniali imposte e riserva di legge, cit., 2133-2134; L. CARLASSARE, Due motivi d’interesse della sent. 236 del 1994: ‘rilevanza’ e ‘riserva relativa’, in Giur. cost., 1994, 3009 ( 3010). Questa conclusione riecheggia la definizione di rule of law elaborata da F.A. VON HAYEK, The Road to Serfdom, London, 1944, 54: “stripped of all technicalities this means that government in all its actions is bound by rules fixed and announced beforehand – rules which make it possible to foresee with fair certainty how the authority will use its coercive powers in given circumstances, and to plan one’s individual affairs on the basis of this knowledge”. (205) Osserva infatti J. Habermas – citato da G.F. MANCINI, Argomenti per uno stato europeo, in Soc. Dir., 1998, 1 – che “in linea di principio la rule of law può sussistere senza la concomitante esistenza della democrazia”.

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