ExpoSe.NSE Magazine #03

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Quarto numero (#03) del magazine interamente dedicato alla fotografia mediante smartphone, ma non solo. Questo numero vede Marjani Aresti come art director e due ospiti: Simone Muresu e Gabriele Sanna. Oltre ai soliti Antonio Pintus e Nicola Massa.

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Il Pecha Kucha Night Cagliari #05,

noi,

voi che ci fotografate (fantastici!),

le risate,

poi la musica.

A combattere la nebbia di quella notte.

GRAZIE

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Voi direte: “aperiodici va bene, ma così è troppo!”, e forse avete pure ragione. So-no stati mesi intensi, tra capriole, cambia-menti in corsa e idee frenate ma mai but-tate via. Infine ecco il nuovo numero. Al-l’ultimo Pecha Kucha Night Cagliari vi ab-biamo suggerito, in maniera sibillina, im-portanti novità; dovute e volute evoluzio-ni: punto primo, questo numero è scuro, l’inverno ha ceduto il passo ad una soli-ta, noiosa, primavera satura di colori, poi l’estate e la sua mutata e ripetitiva tavo-lozza; noi abbiamo deciso di togliere i co-lori, via! All’essenziale: il bianco, il nero ed i grigi. Punto secondo, il numero non solo vede immutata la formula dell’avere con noi due ospiti e le loro fotografie ma andiamo oltre e lo completiamo con la fantasia e la grafica di un bravissimo illu-stratore sardo: Marjani Aresti (al secolo Gianluca Marras): gocce, nuvole, occhi,

bizzarre creature che sembran vive ma in verità essenzialmente morte. Ci piace.

Volevamo con noi tratto, fantasia, temati-che e bellezza, le abbiamo trovate tutte queste caratteristiche. Siamo fortunati.

Ed ora i nostri ospiti, graditissimi. Sono con noi Simone Muresu, con i suoi scat-ti interamente realizzati con l’app Hipsta-matic (se #rinasco... rinasco in una foto Hipstamatic) e la grande street-photo-graphy di Gabriele Sanna, incorniciata in scatti che appaiono scollegati da qual-siasi posizione geografica.

E infine - non possono mancare - gli sproloqui e le fotografie dei sottoscritti.

Vi lasciamo al grigiore, che di colori è pieno il mondo, spesso slavati, altre vol-te forti e prepotentemente kitsch.

Antonio e Nicola

IL BIANCO. IL NERO. IN GOCCE.

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Redivivi. Abbiamo attraversato i bianchi, i neri e le sfumature di grigio di alcuni mesi volati pesanti, pachidermici. Infine, ecco il nuovo numero.

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Mentre ascolto Mozart - Spotify me lo suggeriva come “Music to help you concentrate…”, quindi ho messo nella pennina tutta la discografia - cer-co di mettere ordine nelle mie idee.

I giorni intensi non son svaniti. Parto, devo staccare. Non sono rilassato per niente.

Se solo fumassi mi fumerei un pacchetto di sigaret-te fino ad Abbasanta.

2 IL VIAGGIOFoto e testi di Nicola Massa

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Ad Abbasanta comprerei un altro pacchetto di sigarette e lo fumerei tutto fino ad Olbia ma non ho mai avuto la curiosità di sapere cosa c’è dietro il tiro di una sigaretta.Mi perdo nei pensieri e mi ritrovo in una superstrada vuota. Mi fa compagnia solo qualche albero che spunta dal costone alla mia sinistra. Potessero parlare, quegli alberi, mi fermerei entrerei in qualche piccolo bosco e chiederei loro qual-che consiglio.Ma no, non sul lavoro che sto andando a svolgere.

Qualche consiglio su come sciogliere questi nodi che ho in testa.

Dentro la testa. Scorre lenta questa strada sotto i colpi di un’Opel Corsa svogliata. Scorre così lenta da decidere di far tappa a Sedilo, il paese dell’Ardia. Mi dirigo proprio verso il santuario di Santu Antine non tanto per vedere quel luogo, teatro di corse folli a cavallo in nome della tradizione, ma per uno scorcio che ho nella mente da anni. Da una sor-ta di finestra naturale si vede il panorama di un lago Omodeo spettacolare che, sul suo specchio d’acqua, riflette tutta la storia di questa terra. Terra grande, terra antica, che non si piace abbastanza. Come me in questo momento. Come me in questo tormento.

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Foto e testi di Gabriele Sanna

“Forse non è a scuola che impariamo per la vi-ta, ma lungo la strada di scuola.”

(Heinrich Böll)

Ogni giorno per strada a contatto con gli altri costruisci la tua realtà, il tuo mondo, la tua veri-tà.

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CAMMINANDO SI IMPARA

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Per strada cammini, osservi, rifletti, attendi, parli, incontri altre persone.

Ricordi i loro volti? Immagini i loro pensieri? Percepisci il loro stato d'animo o i loro sentimenti?

Quanti di loro sono protagonisti dei tuoi racconti, protagonisti di quei pensieri che ti tengono compagnia nel tuo percorso verso casa o verso il lavoro?

Quali incontri potrebbero diventare gli interpreti principali del tuo film o del videoclip del pezzo che passa in quel momento sul tuo lettore mp3?

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Guarda, dietro l'angolo c'è un nuovo Mr. Wolf, chissà quali problemi risolverà oggi; il signore orientale in fondo al bus nasconde qualcosa, sotto la camicia sicuramente sono celati gi-ganteschi tatuaggi che testimoniano la sua af-filiazione alla Yakuza; signora felliniana pas-seggia ingioiellata, truccata e impellicciata, perché quello sguardo spaesato? Forse cerca Marcello.

Se Gondry avesse mai preso il bus che ti por-ta al lavoro mad world di Gary Jules avrebbe avuto un video completamente diverso; ecco finalmente hai scoperto dove si era rintanato Elvis...altro che morto!

Qualcuno forse ti osserva, qualcuno forse si pone le stesse domande su di te, forse anche tu sei il protagonista di centinaia di film o di racconti.

Ah, se solo potessi immaginare in quanti uni-versi paralleli, in quanti mondi e in quante real-tà hai vissuto e vivi quotidianamente!

Non solo i volti degli sconosciuti, i loro occhi e le loro parole daranno risposta alle tue doman-de. Non solo il tuo volto, i tuoi occhi e le tue parole daranno risposta alle loro domande.

Il tuo corpo, il tuo modo di camminare, la tua postura, il modo in cui ti siedi, la posizione in cui aspetti o il tuo abbigliamento racconteran-

no di te più di quanto tu voglia far sapere, più di quanto tu sappia di te stesso.

Il modo di camminare spesso indica il caratte-re di una persona, un uomo senza fermezza morale ha un’andatura svogliata, molle. Un uo-mo poco intelligente cammina in maniera ner-vosa, senza rendersi conto di ciò che lo cir-conda, un uomo che ha intelligenza, umori-smo, forza di carattere, cammina con passo elastico e disinvolto.

Stando in piedi con le mani sui fianchi, inve-ce, comunicherai prontezza nel reagire o ag-gressività. Se stai seduto a gambe accavalla-te, con i piedi che scalciano leggermente, for-se ti stai annoiando.

Se incroci le braccia dimostrerai vulnerabilità, è il nostro inconscio che esprime un sentimen-to di insicurezza, è un gesto di protezione e di amor proprio.

Facendosi due calcoli risulta semplice imma-ginare che potremo decidere o, almeno, in-fluenzare la scelta del ruolo che gli altri ci vor-ranno assegnare nei loro quasi onirici raccon-ti, oppure...vivere nella paranoia di essere sempre osservati o giudicati.

LA REALTA’

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Gabriele Sanna, psicoterapeuta e formatore. Per lavoro e per passione amo osservare le persone, studiare le dinamiche relazionali, gli scambi comunicativi, le espressioni di potere sociale. Da circa due anni ho capito che la fotografia può essere un modo per prendere appunti, appunti che raccontano storie, storie semplici, storie complesse, storie surreali, tutto ciò che incontro per strada, tutti coloro che incrocio sono espressione dell'infinita complessità dell'essere umano, il vero mistero, forse l’unico mistero, che ci circonda. La strada, gli sconosciuti sono il mio principale laboratorio e i miei attori, il mio smartphone e la mia lumix i miei fondamentali strumenti. Senza presunzione e poca, pochissima, tecnica amo scattare e condividere.

Instagram: @joy_black

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Foto e testi di Antonio Pintus

Abbandono è quel termine che si sposa bene con tutto: è il re della festa ai funerali - non appena si chiude un loculo - abbandonandoci al vuoto ed al silenzio, interrotto solamente dal rumore di cemen-to e mattoni a sfrigolare; è parola regina dopo lo scoppio di una coppia o dopo il consumarsi di

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ABBANDONO

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una bufera tra effimere amicizie con strascico di gossip.

Graziosamente si insinua nei sentimenti e dona un meritato tocco di classe ai sensi di colpa.

L'abbandono ti aspetta alla stazione, quando nessuno - d'estate - suda per te nell'attesa e la-scia gli angoli al girare del vento, alle foglie sec-che e ai pomeriggi di fuoco del Sud, del Sud del-l’Esistenza.

L'abbandono ti parla di terre nere bruciate colti-vate a caso e, in città, gioisce quieto e testardo ai cambi di stagione ma senza cambiarsi d'unifor-me. Stoico, non si assenta mai dal suo compito di funzionario - celebra l’ufficialità - l'abbandono. Mai una giornata di ferie, né di malattia. Salute di ferro, nervi d'acciaio, sorriso d'ordinanza; come da protocollo.

L'abbandono dei pensieri, cosa alquanto grave o pericolosa; l'abbandono del fisico, del corpo; l'abbandono al destino, che il destino - poi, dicia-mocelo pure - non esiste, ma non raccontatelo in giro, in tanti potrebbero dubitare.

Spesso ho la sensazione che questa Terra si nu-tra di abbandono, compagno della pigrizia. Più facile nascondere e attendere e criticare che fare e sbagliare. L'abbandono si nutre di invidia e di-samistade. L'abbandono è fontana facile d'ac-qua zuccherata, quindi nociva.

Poi, improvviso, un SMS: "Gentile signore, La in-formiamo che da oggi e per tutta la settimana, sulle collezioni primavera/estate di Abbandono sarà applicato uno sconto sino al 50%. La aspettiamo". 

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CARTHAGO

DELENDA

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IL VUOTO - DENTRO - COME LA FINE DI UN’ ESTATE. IL VUOTO, PUZZA D’ERBA SECCA BRUCIATA IN ROGHI A SCHIARIRE SERE CALDE ANCORA; QUELLE SERE CHE - INVECE - VORREBBERO SOLAMENTE E S S E R E L A S C I A T E I N P A C E , A D ADDORMENTARSI CON NINNA-NANNA FATTA DI LATRATI DI CANI LONTANI, OVINI AL PASCOLO E CAMPANACCI LIEVI, BREZZA LEGGERA E VERMENTINO A SPARECCHIARE I PIANI. IL VUOTO PORTA SILENZIO, CONDUCE CAVALLI PAZZI, NERI.

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Non si svende non si svendeneanche se non funzionaneanche se non funzionaniente saldi di speranzeniente saldi di esistenze

(CCCP - Fedeli alla linea)

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Ho deciso che non era ora.Ho sempre sbagliato momento, per dir la verità. Ho deciso che era tardi, invece - forse - era precipitosamente presto, chis-sà...Ho deciso che i miei ospiti eran sin troppi.Quindi ho preso la parola in mano, salutandoli; mi son scusato, ho respira-to, ho avuto freddo, li ho accompagnati alla porta, son rimasto solo, con una sera ancora da affrontare.Infine il silenzio. Ne ho pianto.Piacevole spavento.

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Sono fotografie che vanno guardate dal punto di vista di chi scatta, queste che sono proposte in questo capitolo.

La solitudine è regalata da colui che guarda. Da colui che scatta.

La decisione di andare in giro e scattare da soli, guardando panorami, strutture incomprensibili, gruppi di barche ormeggiate che si fanno compa-gnia.

5 NELLA SOLITUDINE MI PERDOFoto e testi di Nicola Massa

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DESIDERARE DI ESSERE IN DUE A FARE QUESTA FOTO.

A FARE QUESTO GIRO.MA IL SECONDO CHI È?

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RITROVARSI SOLI AD AFFRONTARE IL MARE.

NELLA SPERANZA DI ESSERE PIÙ FELICI UNA VOLTA ARRIVATI

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Foto e testi di Antonio Pintus

Cosa vi è di peggio di un corpo decadente o di una superstizione ottusa o della convinzione della propria ragione senza mai contrapporre dubbio? E’ la totale mancanza di idee.

Quelle che ti fanno dimagrire la notte, quelle che ti fanno sussultare al mattino.

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SENZA IDEE

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La mia stirpe è ignota, persa nei fumi del tempo e immersa nella spuma del Mare. Di quel Mare che un tempo era alto abbastanza da coprire, eppur tanto trasparente da svelare.La mia stirpe è testimoniata da fotografie di pie-tra e di bronzo e di massi a costruire e di vento a risuonare attraverso le rocce. La mia stirpe è in realtà meticcia e parla lingue antiche, mediterranee, senz'altro più confuse ora che allora.

La mia stirpe non esiste.Non esiste più.

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Non è che questa Terra sia triste, è

che semplici sono i suoi attimi di

felicità.

Ovvero: è in effetti triste questa

Terra, perché troppo brevi risultano

i suoi momenti di felicità.

La scelta di stile appare doverosa,

con precisazioni di sorta.

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Black - feat. Norah JonesDanger Mouse, Daniele LuppiRome

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Foto di Simone Muresu, testi di Antonio Pintus

Non piangere tesoro, abbiamo solo esaurito il tem-po e la sabbia, mica l’ossigeno.

Stai tranquilla, proverò a scomparire completamen-te, sai quanto sono bravo in questo: mi maschero di fragilità e dolcezza - un fracasso di sensibilità -

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OUT OF TIME

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ed il gioco presto sarà fatto. Ne usciremo puliti, liberi dalle smancerie.

Come? Dici che non funzionerà così rapidamen-te?

Hai sempre avuto così poca fiducia in me...

Eppure dovresti sapere e conoscere bene la for-za di cui mi nutro e che mi ha spinto sino a cono-scere l’oggi: limitazioni, frustrazioni, invidia, gelo-sia ottusa; desideravo non tanto volare ma alme-no saltare; però - lo sai - non era conforme alla tua educazione cattolica. Tu, che chiudevi ogni singola discussione dai percorsi perigliosi, con una citazione del tuo Dio, attore assente, inven-zione geniale, catena e filo spinato a tracciare confini invalicabili. Per te. Mai per me.

“Ti candidi a prendere il posto di Dio? Scendi stu-pido” - così mi dicevi ogni volta, tesoro. Che poi - dovresti capirlo prima o poi - Dio non esiste, se non dentro le tue più profonde paure che non sa-prai mai spiegare ed io non mi candido proprio a nulla, se non al brindare alla mia, improvvisa, so-pravvenuta libertà.

Inizia da oggi, da stasera, cara.

Che poi, sai... l’oggi è pur sempre l’ieri invocato dal domani.

Abbracciamoci.

Stammi bene.

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TENSIOATTIVO

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Simone Muresu, è un appassionato di mobile-photography. In particolare sperimenta con Hipstamatic e mille invenzioni e s tratagemmi che rendono i suoi scatti elaborati al p u n t o g i u s t o d a e s c l u d e r e completamente la post-produzione, aderendo al vero spirito instamatico.E’ possibile seguire Simone al suo account Instagram: @simokubrick

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Foto e testi di Antonio Pintus

Scrivo la notte per difendermi dal giorno.

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JAZZ, SUL MORIRE NELL’ALTOPIANO

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CETERUMCENSEO CARTHAGINEM ESSE DELENDAM

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Hai presente quel brano, caro Luca? Quel brano di Gavino Murgia, Intrighinu mi pare si chiami, dici di no?

Sai… ci pensavo proprio ora, a me mette i brividi; perché mi parla davvero di Sergio Atzeni e affolla la mia mente con suggestioni vivide di sere d’esta-te all’aperto in campagna.

Hai presente quel profumo misto di campi bru-ciacchiati e mietiture terminate? Sanno di salato e di Mediterraneo lontano,  di terra secca che pa-re morta, legata stretta stretta alla polvere; hai presente quel leggero odore tutt'attorno di giallo che imbroglia?

È un segreto Luca, non raccontarlo a nessuno, si dice che quel giallo, a quest'ora, imbrogli la vista, confonda il cervello e che faccia apparire figure. Figure che danzano avvolte da scialli, basse eppur agili, ma questa è tutt’altra storia. 

Mi immagino, dicevo, quattro amici cinque, sei, noi - se in numero dispari che importa, poi - nella tregua del calore del giorno appena ucciso, poca la luce, a respirare e sorseggiare un Torbato, vino bianco profumoso, mentre guardo finalmente cie-lo e Via Lattea dall’altopiano, come non facevo da tempo immemore - accidenti al lavoro, maledetto sia! - e poi, all'improvviso, mi pare di sentire un crepitio ed il battito lieve di passi antichi dei no-stri antenati, uomini e donne e bimbi, forse scalzi ma vestiti di mistero, a prender la via della sera insieme a noi. A noi tutti.

Che poi, le vedi quelle pietre scure all’ombra delle spighe? Si, proprio quelle, ma che te lo chiedo a fare!? E’ casa tua questa!

Luca, ne sento le voci potenti. Rispettose e, chis-sà, quelle stesse voci di genti attorno a quelle tra-vi di pietra maestose sollevate, quelle magari non sono così diverse dalle nostre, ora. Voci. E storie; di genti passate leggere - scontato, eh? - genti a passeggio con la morte a trentacinque anni, che per loro era vita portata a compimento, sicuro.

Un belato, un pianto, una cantilena accesa a chis-sà quale dio o betilo, rimuginata filastrocca, come gatto che mangia interiora. Il vino, il suo profu-mo, questa musica, ora vedo scritte parole sparpa-gliate da questo vento, che pare soffiato appena, attraverso una cannuccia, tanto è lieve. Quelle pa-role di Atzeni, le senti Luca? Forti, pesanti, eppur misteriose, mai totalmente svelate: se non cono-sci la Terra non le puoi penetrare. 

Vorrei queste ore non passassero, senti il rumore del silenzio... tutti loro non ridono più, quanti sia-mo rimasti? Magari sono già andati via. Fa buio. Anche la sera si arrende ma con gioia e tranquilli-tà estrema,  come il vino fresco in quel calice lar-go, amico mio.

Queste cose ci vedo dentro quel brano, che ieri se-ra quasi non riuscivo a lavorare, ed oggi? Pure. Si grazie, versamene ancora un goccio di quel Torba-to, solo un poco, per davvero. 

Ma Luca, lo vedi anche tu tutto quel giallo alla fi-ne del sentiero? Laggiù, un passo prima della via oscura. Si dice che imbrogli la vista, quel giallo...

Ho sentito la voce di nonno, che mi salutava, di-cendo che si recava alla rupe. Sorrideva.

Mi pare di veder danzare.

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Vorrei una piccola speranza.Vorrei aggrapparmi all'idea di poter avere ancora un'occasione.Vorrei capire cosa c'è dietro ogni calcio che ricevi e dietro tutti quelli che dai.Vorrei usare qualche parola nuova per descrivere come sto.

10 VORREIFoto e testi di Nicola Massa

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IL MITO DELL'ETERNO RITORNO AFFERMA, PER NEGAZIONE, CHE LA VITA CHE SCOMPARE UNA VOLTA PER

SEMPRE...

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...CHE NON RITORNA, È SIMILE A UN'OMBRA, È PRIVA DI PESO, È MORTA GIÀ IN PRECEDENZA...

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E CHE, SIA STATA ESSA TERRIBILE, BELLA O SPLENDIDA,

QUEL TERRORE...

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Vorrei non aver detto tante di quelle puttanate che ho detto per cercare di entrare dentro un giro, una simpatia, un progetto che non mi era necessario.Vorrei non aver dato ascolto a quelle cazzo di paure che ti prendono all’improvviso solo per-ché sei così poco insicuro da non riuscire a controllarle.Vorrei essere riuscito a comunicare qualcosa. Ma chi se l’incula quel qualcosa che volevi co-municare?Vorrei aver avuto il coraggio di lasciar perdere quelle ansie trasmesse solo per far sentire tut-to uno strano affetto impossibile da far sentire con un fottuto “Ti voglio bene”.Vorrei non aver perso tempo e vorrei non aver perso il treno, poco prima di partire per l’univer-sità.Vorrei aver scelto meglio il treno. Pausa.Vorrei non aver appena visto una persona guardare la partita inutile nella hall di un albergo di lusso. Da sola. Voglio staccare.

Voglio prendere un caffè, perdere quella mostra, sporcarmi con il kebab, mollare tutto quan-to, lasciare andare anche quelle ultime riserve e quel cinismo del cazzo che ha accompagna-to gli ultimi decenni. Voglio guardare quella foto sorridente. Perché una foto può trasmettere anche un messaggio incoraggiante.Voglio girarmi e guardare un letto piccolo. Un letto piccolo che fino a ieri era vuoto, mi giro e adesso è pieno.Vorrei dire che vada in culo tutto a tutti quanti, che non me ne frega niente, che mi frega solo di questo felice abbandono che riesco a godermi solo adesso, quando tutto il resto è svanito in un istante, su delle scale, con una piccola mano che con un pennello ha colorato stanze grigie. E dire che queste foto sono grigie, son state pensate grigie.

Sono grigie solo perché chi le sa guardare bene ci vede dentro tutto il rosso che vuole.

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...QUELLO SPLENDORE, QUELLA BELLEZZA NON SIGNIFICANO

NULLA.

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RACCONTO ROSSO IN QUATTRO MOSSEFoto e testi di Antonio Pintus

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“Giacu” lo chiamarono da subito gli amichetti, verso gli otto anni. D’altronde, quando hai la sfortuna di chiamarti Giovanni Giacomo, cos’altro puoi pretendere? Che ti chiamino “Gigi” e basta?

Invece “Giacu” era perfetto. Perfetto per il quartiere minerario in fa-se di obsolescenza nel quale era nato, perfetto per quella sua perife-ria di città; di quello sputo di città da dominazione straniera nella quale viveva. Città che si atteggiava a moderno centro del nuovo Oc-cidente consumista-capitalista, ma solo attorno alla grande piazza principale, dove mostrare era obbligo e sopraffina l’arte recitativa di molti dei suoi abitanti. Più ora che allora, per dir la verità, che gli an-ni settanta non erano solo insegne luminose in fase di espansione.

Giacu spensieratamente condusse la sua infanzia attraverso quelli che ora lui - a trentacinque anni e pochi capelli - chiamava “pensieri che sanno di ruggine”, ovvero il suo vivere da bambino di corsa tra la polvere rossa della laveria della miniera, i campi aridi dai profu-mi minerali, i capannoni dalle pareti sfondate, la ruggine rossa - an-ch’essa - che avvolgeva tutti quegli ingranaggi dismessi di macchina-ri fossili, che a lui bambino sembravano resti di mondi antichi dopo una collisione, oppure - questo lo dico io - macerie di un rinnovato Pianeta delle Scimmie.

La polvere rossa - dicevamo - quella polvere mista di piombo, zinco e ossido di ferro, scarto di lavorazioni perpetuate nei decenni, che riempiva tutto: le campagne aride, gli orti, i balconi, le piazzette in-terne alle case tutte uguali trasformate in stadi urlanti dai bimbi d’estate; la polvere riempiva le grondaie, i canali di scolo che atten-devano l’inverno per assolvere la propria funzione, che arrivava pun-tuale e severo ogni anno, per mutarla in fango scrosciante dalle tona-lità di un mosto di scadente qualità.

Mossa prima: Mexico

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E riempiva i polmoni, quella polvere, soprattutto quando il Maestra-le decideva di svegliarsi e fare colazione di uomini: oltre la costa, in mare aperto, mangiava qualche pescatore; qui, all’interno non trop-po distante, portava via qualche minatore o operaio, usando il crollo di qualche tetto come stratagemma e soffiando forte la paura dentro il respiro di chi, invece, sopravviveva. Il vento-padrone soffiava la polvere rossa che si attaccava anche ai sogni, a quelli notturni e diur-ni di tutti: grandi e bambini.

Giacu nacque da padre e nonni minatori, gente piccola e rugosa - la miniera invecchia - fa venir su mani grosse e tozze e disegnate e por-ta la tosse a richiedere attenzione all’ora dei richiami e dei rimprove-ri. Giacu imparò presto a rispettare quelle voci rauche, tutto somma-to fu un bimbo buono. La madre, straniera in casa propria, gli inse-gnò tanto, quel che poteva; soprattutto, gli insegnò che il mondo non finiva dopo quella rete metallica e che non era limitato a quei campi rossi a circondare quel loro fazzoletto di vita piccolo piccolo, gli insegnò che poteva iniziare a viaggiare tra le pagine di quei libri - pochi, per dir la verità - che circolavano in casa, tra quelli della scuo-la e quelli che lo zio matto portava dai suoi viaggi.

Il mondo di Giacu pareva il Messico, o almeno quel Messico che do-minava l’immaginario collettivo: con quelle aride distese semideser-tiche da siesta e sole a picchiare la testa d’estate, ad assopire ogni vo-glia di rivalsa. Nella sua cittadina, la rivalsa ardeva nel tardo pome-riggio al farsi della sera, finiva poi per addormentarsi prestissimo la notte e scomparire del tutto la mattina seguente. Ogni, mattina, se-guente.

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Giacu aveva uno zio, fratello di sua madre, all’epoca trentenne scate-nato. Tutti dicevano che era matto, ma non nel senso di turbe o ma-lattie mentali, era matto in quanto vivace, post-giovane ragazzo gira-mondo.

Emilio - questo il suo nome - non ne aveva mai voluto sapere di fati-care in miniera o in fabbrica, decise quindi ai primi tocchi degli an-ni settanta che per lui la vita doveva essere un lavoro diverso. Lavo-ro che poi nessuno conosceva del tutto; misteri. Lavoro diverso dal-le facce nere sporche e lontano da quelle mani rovinate, diverso dal-la tosse cavernosa e da tutta quella polvere rossa; insomma lui dice-va che non se ne sarebbe stato lì a diventare vecchio a trent’anni, a scalciare per conquistare una ragazza del vicinato e metter al mon-do figli come missione. Se rossa la vita doveva essere che almeno fos-se tinta da terre straniere.

Emilio correva libero per il mondo ed adorava il Sudamerica. Acca-deva che all’improvviso tornasse in città, trattenendosi al massimo per due settimane, che si facesse vedere da amici e parenti avvolgen-doli con la sua allegria irriverente per poi scomparire di nuovo co-me la notte al mattino, di solito dopo una notte - appunto - passata a bere birra o vino con gli stessi amici, che diventavano via via sem-pre meno. Poi, per mesi interi, era capace di non far sapere più nul-la di se. Dai suoi viaggi e dalle sue scorribande chissà dove portava regali per tutti, alla sorella e a Giacu portava soprattutto cappelli al-la prima e libri al secondo. Libri scritti in spagnolo e portoghese, con foto magnifiche e suggestive di luoghi lontani, persone ed ani-mali. Giacu adorava gli animali e, in quanto tale, anche quel suo zio matto. Strano ma simpatico, dall’umore caloroso ed irresistibile.

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Mossa seconda: l’immaginazione

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Talvolta gli raccontava di viaggi in moto, in bicicletta, grazie a pas-saggi strappati su camion sgangherati. Gli parlava nelle sere di città, di tango, villaggi e terre sterminate, di ghiaccio, freddo ma anche tanto caldo. Giacu non riusciva a fermare l’immaginazione, che gli si installò in corpo come tenia e lo provocava dentro quasi sino a far-gli tremare le mani e gli occhi.

Poi, accadeva di svegliarsi al mattino e di non trovare più Emilio, nessuna risata a farne da segnaposto: partito, di nuovo. E questo non bastava poi ad uccidere il suo immaginare.

Giacu, da bimbo felice, rotolò - come tutti - lungo il pendio degli an-ni, crescendo. Crescere è comprendere... la vita, anche quando essa è sibillina e parla solo attraverso gesti.

Il primo potente gesto, la vita, lo impugnò violentemente, portando-gli via la madre.

Cancro.

Giacu all’epoca stava ultimando le scuole medie superiori; l’anno del diploma, traguardo importantissimo che doveva segnare una pic-cola, grande vittoria, per il figlio dei minatori figli dei minatori.

Cancro.

La madre morì a sei mesi dalla sua diagnosi. Fine.

Cancro.

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Mossa terza: crescere è comprendere

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Questa malattia morde - spietata - malato e parenti, figli e padri. Non si porta via solo il colpito ma strappa via anche un pezzo di car-ne viva dalle interiora di chi rimane. Emilio, saputo del lutto chissà come quando si trovava in qualche pianura dell’Argentina, arrivò in una sera di pochi giorni successivi al funerale. Questa volta il sorri-so era diverso, era un sorriso arreso, l’unica cosa che non risparmiò fu un lungo, forte abbraccio al nipote. Ed una stretta di mano poten-te ma fugace al padre del ragazzo. I due non avevano mai avuto un grande rapporto - per dirla tutta - non contrastato ma parecchio in-differente, piuttosto; cordiale? Si, si può dire tiepidamente cordiale.

Cancro.

“Vedi Giacu, così è la vita, sembra crudele. Lo è, forse... ma non puoi ostinarti a comprenderla sino in fondo e tutto quello che puoi fare è aggrapparti ad un bel ricordo di tua mamma e farti scivolare di dosso il resto.” - Emilio parlava bene, lo tradivano però quelle ma-ni sudate, ma nessuno se ne accorse.

Crescere è comprendere, ed il percorso sarebbe stato lungo.

Giacu infine si diplomò, millenovecentoeottantanove. Avrebbe dovu-to scegliere cosa fare e scelse. Decise di lavorare. Operaio, nel novan-ta trovò lavoro in una fabbrica; non vicino alla città, che offriva solo tane scure e montagne bucherellate, ma più vicino al mare: polo in-dustriale sulla costa. Se le miniere oramai chiudevano tutt’attorno, quel mostro di acciaio, ferro, tubi e ciminiere, nascondeva bene la decadenza anche di quel mondo portato avanti a forza di scoppi, al-toforni, amianto, sbuffi e fiammelle accese a scimmiottare tramonti nelle notti senza luna. E vite, tante. Grappoli di operai, più sui cin-quanta e sessanta che giovani. Grappoli di vite, scosse energicamen-te da turni di lavoro iterati; una grande catena umana di produzione sconveniente al mercato, utile solo a sfamare le famiglie, far studia-re i figli ed attendere la pensione. Ecco il piano di sviluppo: tirare avanti in una Terra che, per scelta, null’altro aveva. Quando andava

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bene, i giovani - come Giacu - trovavano un posto da operaio in una delle decine di imprese appaltatrici che gravitavano attorno al mo-stro d’acciaio e di ferro. Imprese che raschiavano il fondo per pochi guadagni con lavori che nessuno voleva fare: sporchi, mal protetti, con standard di sicurezza abbattuti. I sindacati abbaiavano, poi si prendevano un osso in testa, tirato dai piani alti, una carezza e tor-navano a cuccia. L’alternativa eran giovani e giovani famiglie in stra-da, lo sapevano bene. Il silenzio faceva comodo a tutti. L’avvelena-mento delle vite e di quella Terra non contava, faceva parte del gio-co.

Un gioco sporchissimo.

Quindici lunghi anni passarono; Giacu - o Giovanni o Giacomo - divenne uomo. Uomo, operaio, sveglio e sognatore.

Poteva dire di aver capito tante cose della vita - a trentacinque anni e pochi capelli - ma una cosa non riuscì mai a comprenderla. Una cosa che iniziò all’improvviso come sempre, una notte qualunque di cielo limpido e di stelle affilate come spilli: Emilio tornò dal suo giro-vagare, senza sorriso alcuno questa volta.

Non masticò nessuna parola, né dispensò calorosi saluti, di già una barba insistente cresceva sul suo volto, senza cura, quasi una scelta per nascondersi e che svelava giorni e giorni persi, travagliati o chis-sà passati come, in quale stato.

Emilio non parlò più tanto facilmente da allora, i suoi occhi appari-vano come due pozzi di miniera abbandonati, non luccicavano più. Nei mesi che seguirono, lunghi, accavallati, lenti e in metamorfosi veloce verso anni nuovi, Emilio passò i suoi giorni a far compagnia al padre di Giacomo, ormai a metà dei suoi settanta. Poche parole, alcuni lavoretti manuali, dormite, pasti frugali e vita quasi del tutto ritirata. Non un amico - se mai ne fossero rimasti - né un abbozzo di ripresa.

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Mossa quarta: Polvere

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Nessuno, né Giacomo, né tantomeno suo padre, capirono mai cosa potesse essergli accaduto. E nemmeno quando, né dove.

Solamente una sera di due anni dopo, sul tardi, d’estate, in una di quelle sere ventose dominate da un Maestrale-volpe, mentre Giaco-mo, sua moglie, il loro piccolo figlio e suo padre riposavano in quel-la loro veranda riparata, facendo parlare solo i pensieri, Emilio dis-se, improvvisamente, piano ed a voce bassa, unicamente due parole: “poteva essere”.

“Poteva, essere”. Poi nulla più.

Ed un rivolo di lacrime gli scavò delicatamente un solco ramificato su quel suo viso stanco barbuto, colorandosi subito di rosso; del ros-so di quella solita, maledetta, polvere di piombo, zinco e ossido di ferro.

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IntrighinuGavino MurgiaDeep

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CREDITS

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NICOLA MASSA

noto Fotografist, è un fotografo freelance e si occu-pa di social media.

La passione per la fotografia ha fatto si che anche il suo iPhone diventasse uno strumento di speri-mentazione.

Snapseed - Filterstorm - VscoCam: questo il work-flow che, attualmente, permette la pubblicazione - quasi giornaliera - delle sue foto sulla sua galleria di Instagram. Web: www.nicomassa.com

twitter: @_nicomassainstagram: @nicomassafotografist

ANTONIO PINTUS

è un informatico. Co-fondatore di paraimpu.com.

Quando non si occupa di scrivere codice, di web e di Internet, coccola le altre sue due passioni: la scrittura e la fotografia. Quindi nel suo tempo libe-ro ama far credere che scriva il suo eternamente incompiuto romanzo. Altrimenti, come giustificare la sopravvenuta Malinconia di Melpomene?

web: www.pintux.it

twitter, instagram: @apintux

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CREDITS

GIANLUCA MARRAS (MARJANI ARESTI)

è l’art director di questo numero.

Marjani è un illustratore autodidatta proveniente dall'isola senza nubi, chiamata Sardegna. Nono-stante lui sia una volpe, è in qualche modo in gra-do di disegnare (ancora con un sacco di problemi...dice), ma tutto ciò che nasce dalle sue zampe è una moltitudine di fantasmi bizzarri con gli occhi strani. Marjani ama Tarantino e i film di Takeshi Kitano, la musica elettronica, il calcio e la cultura giapponese.

Il suo unico guru è Yoda.

Seguitelo su: mrajani.tumblr.com

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