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IL PIACERE DEL TESTO Saggi e studi per Albano Biondi a cura di ADRIANO PROSPERI con la collaborazione di MASSIMO DONATTINI e GIAN PAOLO BRIZZI ESTRATTO BULZONI EDITORE

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IL PIACERE DEL TESTO

Saggi e studi per Albano Biondi

a cura di

ADRIANO PROSPERI

con la collaborazione di

MASSIMO DONATTINI e GIAN PAOLO BRIZZI

ESTRATTO

BULZONI EDITORE

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Pietro Redondi

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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Pietro Redondi

LA NAVE DI BRUNO E LA PALLOTTOLA DI GALILEO:

UNO STUDIO DI ICONOGRAFIA DELLA FISICA

Ficta voluptatis causa sint proxima veris*.

Hor., Ars poetica, 338.

[…] se è vera la proposizion metafisicale che 'l vero

e 'l bello sono una cosa medesima, come

ancora 'l falso e 'l brutto.

Galileo, Dialogo, Opere, VII, p. 159.

Nelle pagine che seguono cercherò di ricostruire il ritratto che la fisica

diede del movimento della terra fra il XVI e il XVII secolo, durante il lento

passaggio della cultura europea da una visione geocentrica a una visione. La

maggior difficoltà al cuore di questa trasformazione era di comprendere una

«vertigine della terra»1, come Galileo chiamava nel Dialogo sopra i due

massimi sistemi (1632) la rotazione terrestre, una rotazione della quale

nessuno dei sensi rivelava la presenza.

Che fosse la terra a girare invece degli astri, l'osservazione ottica degli

eventi celesti non permetteva di deciderlo. Il moto diurno terrestre era un

dato di realtà invisibile.

* Per procurare diletto, le finzioni siano vicine al vero. 1 Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632), in Galileo Galilei, Le

Opere, Edizione nazionale a cura di Antonio Favaro, VII, Firenze, Barbera, 1890-1909, rist.

1968, p. 237; 214 (d'ora in avanti citate come Opere). Del Dialogo esistono due edizioni in

facsimile: Bruxelles, Culture et Civilisation, 1966 e Firenze, Olschki, 1999. La più recente edizione critica e commentata: Galileo, Dialogo sopra i due massimi sistemi, a cura di Ottavio

Besomi e Mario Helbing, Padova, Antenore, 1998, 2 voll.

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Come gli atomi, di cui nel De Revolutionibus orbium coelestium (1543)

Copernico scriveva che «essendo impercepibili, anche se duplicati e

moltiplicati varie volte non riescono subito a formare un corpo visibile». E

come Dio, di cui la Bibbia diceva essere l'uomo fatto ad immagine e

somiglianza, ma senza mai darne a vedere l'originale.

Era la divina armonia circolare dell'universo a rendere più probabile,

secondo Copernico, che la terra ruotasse: per la sua mutevolezza e

instabilità, mentre alle stelle ed al sole conveniva «la condizione

dell'immobilità, considerata più nobile e più divina di quella di mutamento e

di instabilità»2.

Neppure per la fisica la rotazione diurna era di quelle ipotesi che la

geometria e il linguaggio, per quanto trasparenti, potevano bastare a rendere

intellegibili e a dirimere. Per focalizzare il problema e per darne

un'immagine veritiera, l'assenza della percezione e l'impotenza della

dimostrazione astronomica conferirono una singolare legittimità all'impiego

sistematico di figure verbali per via di similitudini e di esempi. Il che

condusse necessariamente anche all'uso di figure visive sempre più

sofisticate.

Grazie a «questo punto assai difficile da essere capito», come ancora

Galileo definiva l'invisibile moto della rotazione diurna, la fisica apprese

quella complementarietà necessaria fra testo ed immagine che già era in

vigore in altri saperi rinascimentali, come l'anatomia o la storia naturale. E

come già facevano i testi di anatomia e di storia naturale, anche i libri di

fisica cosmologica fecero appello agli artisti per rendere tangibili i loro

argomenti3.

Ciò che proponiamo di analizzare è che cosa comunicavano le figure

verbali e visive convocate dal dibattito della fisica intorno alla questione,

quali valori le governavano e quali meccanismi le producevano e le

2 Copernico, De Rev., I, 8, trad. it. in Nicola Copernico, Opere, a cura di Francesco

Barone, Torino, Utet, 1979, p. 202. Cfr. ivi, p. 195 per la citazione precedente. 3 L'iconografia della fisica dei secoli XVI e XVII è una storia che resta da fare. Cfr.

William B. Ashworth jr., Iconography of a new physics, in Science: the Renaissance of a

History. International Conference Alexandre Koyré, Paris 10-!4 lune 1986, ed. by Pietro

Redondi, «History and Technology», 4 (1987), p. 267-300; Willem Hackmann, Natural Philosophy Textbook Illustrations, in Non-Verbal Communication in Science prior to 1900, ed.

by Renato Mazzolini, Firenze, Olschki, 1993, p. 169-196; Martin Kemp, Temples ofthe Body

and Temples of the Cosmos, in Picturing Knowledge, ed. by Brian S. Baigrie, Toronto, University of Toronto Press, 1996, p. 40-85; Stephen Orge!, Textual Jeans: Reading Early

Modern Illustrations, in The Renaissance Computer, ed. by Neil Rhodes ­ Johnathan Sawday,

London and New York, Routledge, 2000, p. 59-94, in particolare p. 59- 64; Giancarlo Nonnoi, Icone, modelli e simboli della propaganda copernicana, in Saggi galileiani, Cagliari, Amd Ed.,

2000, p. 65-119.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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facevano intrecciare l'una all'altra durante il periodo compreso fra Bruno,

Galileo e autori limitrofi, con all'orizzonte l'età cartesiana e la sua nuova

fisica tutta di figure4.

La freccia di Aristotele

Oggi è abitudine chiamare «esperimenti mentali», o ideali, le

dimostrazioni per analogia di allora sul moto della terra. All'epoca si

chiamavano più propriamente exempla, paradoxa, artificia, trattandosi di

comparazioni al fine di imitare fenomeni della natura di cui non c'era né

manifesta evidenza sensibile né vera e propria dimostrazione matematica5.

Poco importa come le chiamiamo oggi. Ciò che contava era che fossero

comparazioni congruenti e verosimili. Trattandosi infatti di similitudini e di

esempi immaginari - ymagi ­ nations, par semblable scriveva già Nicolas

d'Oresme si imponeva qui più che mai la raccomandazione che in proposito

faceva la Poetica di Aristotele di «dire non le cose avvenute, ma quali

possono avvenire, secondo verosimiglianza o necessità»6.

Se ciò valeva per la poesia, a maggior ragione era vero per la fisica,

ossia la filosofia naturale, che era la conoscenza delle cose come realmente

sono. La creatività, la fantasia di esempi e paradossi doveva sottostare in

filosofia naturale alla plausibilità.

Non a caso, era stato Aristotele ad avere coniato nel De caelo

l'immagine per secoli più convincente riguardo alla possibilità di capire se la

terra si muoveva o no, e così palmare da rendere superfluo raffigurarla

visivamente: la cosiddetta freccia di Aristotele.

Come si leggeva in un testo di fisica ritenuto fra i più moderni ancora al

tempo di Bruno e di Galileo, il commento al De caelo di Giovanni Buridano

4 Cfr. Brian S. Baigrie, Descartes scientific illustrations and 'la grande mécanique de la

nature', in Picturing Knowledge, p. 86-134; Jean-Pierre Cavaillé, Descartes. Lafable du monde, Paris, Vrin / Editions de l'Ehess, 1991.

5 Sull'uso indifferenziato di un'identica nozione di 'esperimenti mentali' tanto per la fisica

del XVII secolo quanto per quella contemporanea, cfr. per esempio Thomas S. Kuhn, The

Essential Tension, Chicago, Chicago University Press, 1977, p. 240-265 (trad. it. La tensione

essenziale, Torino, Einaudi, 1986). 6 Arist, Poet., 51a, 37-38, trad. it. in Aristotele, Poetica, a cura di Diego Lanza, Milano,

Rizzoli, 19973, p. 147. Cfr. Patrizia Pinotti, Aristotele, Platone e la meraviglia,in Il

meraviglioso e il verosimile tra antichità e Medioevo, a cura di Diego Lanza-Oddone Longo, Firenze, Olschki, 1989, p. 29-55; Monica Centanni, Da Aristotele ai confini del mondo:

Alessandro o dell'inveramento della meraviglia, ivi, p. 267-274; Mare Fumaroli, Prologue, in

Natura-Cultura. L'interpretazione del mondo fisico nei testi e nelle immagini. Atti del Convegno Internazionale di studi, Mantova, 5-8 ottobre 1996, a cura di Giuseppe Olmi-Lucia

Tongiorgi Tomasi-Attilio Zanca, Firenze, Olschki, 2000, p. 1-14.

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(1340):

l'ultima apparenza rilevata da Aristotele e più convincente in proposito: la

freccia lanciata dall'arco verso l'alto ricade nello stesso luogo della terra da cui

è stata lanciata, e ciò non accadrebbe se la terra avesse un moto velocissimo;

anzi, prima che la freccia ricada, la parte della terra da cui la freccia è stata

lanciata si sarebbe allontanata di una lega7.

L'obiezione fondamentale di Aristotele all'idea vecchia come il mondo

che fosse la terra a ruotare su se stessa era che in tal caso se ne sarebbe

riscontrato qualche effetto dinamico paradossale, perlomeno sulle cose

staccate dalla superficie terrestre come nuvole, aria, proiettili: «perché i

corpi scagliati a forza verso l'alto ricadono perpendicolarmente nello stesso

punto, e questo anche se la forza che li scaglia li proiettasse all'infinito. Che

dunque la terra non si muova, e non sia posta al di fuori del centro del tutto

risulta evidente»8.

La fisica aristotelica delle proprietà manifeste delle cose, razionalmente

fondata sulla loro diretta esperienza, riconosceva che nel mondo sublunare

nulla si muoveva in su e in giù obliquamente, come si sarebbe verificato

muovendosi la terra velocemente. Sull'esempio della freccia di Aristotele

che ricadeva esattamente sulla verticale del punto da cui era stata lanciata si

modellò tutta la gamma di immaginarie esperienze di genere balistico ideate

alla fine del XVI secolo nella scia del dibattito sulla teoria eliocentrica di

Copernico9.

Ciò che per la fisica Copernico aveva rappresentato di rivoluzionario

era stato introdurvi la nozione di illusione. La freccia di Aristotele dava

l'illusione di salire e ricadere in linea retta, ma era un'apparenza. In realtà

tutti i moti dei corpi erano doppi, composti di circolarità e di occasionali

spostamenti dettati dalla necessità di riportare le cose al posto che loro

spettava qualora ne fossero state tolte a forza, come un freccia scagliata

dall'arco: «ammettiamo inoltre che duplice è il movimento delle cose che

cadono e che salgono in rapporto al mondo, e che deve essere composto di

7 Johannis Buridani, Quaestiones super libris quattuor de caelo et mundo, liber Il, q. 22,

27-32, ed. by Ernest A. Moody, Cambridge (Mass.), The Medieval Academy of America, 1942,

p. 229, trad. it. in Giovanni Buridano, Il Cielo e il mondo, trad. it. a cura di Alessandro Ghisalberti, Milano, Rusconi, 1983, p. 398.

8 Arist., De caelo, II, 296b, 35, trad. it in Aristotele, De caelo, trad. it. a cura di Oddone

Longo, Firenze Sansoni, 1961, p. 185, ora in Aristotele, Opere, III, Roma-Bari, Laterza, 973. 9 Cfr. Edward Grant, In Defense of the Earth 's Centrality and lmmobility, «Transactions

of the American Philosophical Society», 74 (1984) part 4, p. 1-69.

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movimento rettilineo e circolare»10

. Vederli come semplici movimenti retti

in su e in giù dipendeva dal fatto che chi li osservava sulla terra partecipava

del loro muoversi circolarmente. Perché tutto - eccetto le stelle e il Sole - si

muoveva obbedendo per natura ad un principio platonico di circolarità di

fondo dell'universo.

Nel caso della terra, per accertarlo la fisica avrebbe dovuto immaginare

di imbarcarsi su una nave cosmica come quella che Luciano descriveva in

Una storia vera volare «su per aria spinta da un vento che soffiava nelle

vele»11

. Oppure di trapassare come Astolfo le volte interplanetarie a cavallo

dell'ippogrifo, come invocato nella Cena de le Ceneri (1584) da Bruno:

«Chi salirà per me, madonna, in cielo, / a riportarne il mio perduto

ingegno»12

.

Nondimeno, si davano anche sulla terra sistemi di trasporto comparabili

a una terra in moto circolare e suscettibili di fare da scenario ad esperienze

dinamiche con cui illuminare teoricamente il problema: le navi, i velieri

d'altura che da decenni si cimentavano a ripetere la circumnavigazione del

globo e ritornavano in Europa cariche di conoscenze terrestri e celesti

impossibili ad immaginare per la Geografia e l'astronomia di Tolomeo13

.

Protagonista della letteratura di esplorazione, la nave fu anche, nella cultura

scientifica rinascimentale, il principale veicolo di mediazione fra esperienza

oculare e contemplazione intellettuale nella discussione fisica del moto della

terra.

Di tutte le dimostrazioni per similitudine fra la terra e una nave fino ad

allora immaginate, l'esempio migliore, dal punto di vista della

verosimiglianza, era quello introdotto da Oresme nel suo Livre du ciel et du

monde (1377). Era il suo classico «exemple artificiel» di un passeggero che

facendo scorrere in su e in giù la mano lungo l'albero di una nave in corsa

10 De Rev., l, VIII, trad. it. cit., p. 200. 11 Luciano, Racconti fantastici, trad. it. a cura di Maurizia Matteuzzi, Milano, Garzanti,

1995, p. 261. Cfr. Anna Beltrametti, Mimica parodica e parodia della mimesi, in Il

meraviglioso, p. 211-226. 12 Ariosto, XXXV, I, 1-2, cfr. Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, a cura di Lanfranco

Caretti, Torino, Einaudi, 1966, p. 1048, in Giordano Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura di Michele Ciliberto, Milano, Mondadori, 2000, p. 28 (d'ora in avanti Dialoghi).

13 Parliamo non solo delle più celebrate opere di Pigafetta, Ramusio, Thevet ma anche di

letteratura nautica meno nota come The Troublesome Voyage of Captain Edward Fenton 1582-1583, ed. by Eva G. Taylor, Cambridge, Cambridge University Press, 1957. Sulle navi

rinascimentali come le progenitrici della nuova scienza cfr. oltre ad Anthony Grafton, New

Worlds, Ancient Texts, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1992, p. 48-54; Antonio Pigafetta e la letteratura di viaggio nel Cinquecento, a cura di Adriana Chemello, Verona,

Cierre edizioni, 1996.

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«avrebbe l'impressione che la sua mano non avesse altro movimento»14

.

L'esempio metteva bene in evidenza la realtà del moto composto:

quello in verticale della mano lungo l'albero partecipava in modo

inavvertibile anche del moto traslatorio della nave. Era chiaro che agli effetti

dei rapporti reciproci di movimento a bordo di una nave era del tutto

irrilevante il fatto che essa si muovesse o no: «concludo dunque che con

nessuna esperienza si può dimostrare che il cielo si muova di moto diurno e

che la terra sia immobile»15

. Ma Oresme aveva intelligentemente

immaginato un moto volontario dell'osservatore. Non era detto che lo stesso

valesse per il caso del moto di ricaduta dei proiettili che illustrava l'esempio

della freccia di Aristotele.

Meno convincente fu l'esperienza immaginata nel 1576 da un adepto e

traduttore di Copernico, il matematico e idrografo elisabettiano Thomas

Digges. Egli sosteneva che su una nave in corsa un peso poteva scendere in

verticale dalla cima dell'albero: «come se su una nave in navigazione un

uomo lasciasse dolcemente scendere un filo a piombo (plummet) dall'alto

lungo l'albero fino al ponte. Muovendosi sempre lungo l'albero esso

sembrerebbe cadere in linea retta, ma per via di ragione il suo moto

risulterebbe misto di retto e di circolare»16

.

Nella sua similitudine fra la terra e una nave in corsa, Digges sceglieva

idealmente per soggetto di esperienza un filo a piombo, o per meglio dire

uno scandaglio di profondità. Probabilmente perché, grazie al notevole peso

di quello strumento rispetto al volume esposto all'aria, egli supponeva di

ovviare agli spostamenti prodotti dal vento. Gli scandagli erano fatti apposta

pesanti per evitare di essere trascinati in qua e in là dalle correnti di fondo.

Del resto, erano volutamente di peso massiccio anche gli astrolabi

14 Oresme, Le Livre, p. 524, trad. it. in Marshall Clagett, La scienza della meccanica nel

medioevo, Milano, Feltrinelli, 19822, p. 648. 15 Ivi, p. 649. 16 Thomas Digges, A perfit Description of the Caelestiall Orbes according to the most

auncient doctrine of the Pythagoreans, lately revived by Copernicus and by geometrical

Demonstrations approuved, in Leonhard Digges, Prognostication Everlastinghe (London,

1576), in Francis R. Johnson and Sanford L. Larkey; Thomas Digges, the Copernican System, and the Idea ofthe lnfinity ofthe Universe in 1576, «Huntington Library Bulletin», 5 (1934), p.

78-95, p. 92 s. (trad. mia). Cfr. Piero Ariotti, From the top to the foot of a mast on a moving

ship, «Annals of Science», 28 (1972), p. 191-203; Robert S. Westmann, Magica [Reform and Astronomica[ Reform. The Yates Thesis Reconsidered, in Robert S. Westman-James E.

McGuire, Hermeticism and the Scientific Revolution, Los Angeles, W. Andrews Clark Library,

1977, p. 1-90, in particolare, p. 37 ss.; Miguel A. Granada, Bruno, Digges, Palingenio: omogeneità ed eterogeneità nella concezione dell'universo infinito,«Rivista di storia della

filosofia», l (1992), p. 47-73.

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nautici e tutto ciò che sulle navi serviva a misurare17

. Ma immaginare di

ridurre le oscillazioni causate dal vento non bastava a rendere l'esperienza

del filo a piombo su una nave in corsa tanto facile come lungo un muro di

casa.

Invece che avvalorare la teoria copernicana dei moti composti di retto e

circolare, l'inverosimile esperimento immaginato da Digges rinforzò

involontariamente la perplessità degli interlocutori del copernicanesimo

fedeli in fisica ad Aristotele. Non a torto, astronomi come il padre Clavius e

Tycho Brahe continuarono a fidarsi invece della similitudine di genere

nautico che Averroè era stato il primo ad allegare alle obiezioni di Aristotele

contro il moto della terra, ossia l'immagine di una freccia tirata in verticale

da un nave in corsa e che ricadeva verso poppa, all'indietro: così come si

sarebbe visto succedere anche sulla terra, se si fosse mossa18

.

Così giudicava anche il padre Christoph Clavius:

chi non vedrà che le cose meno pesanti, foglie degli alberi, paglia, e tutti gli

altri corpi del genere, dovrebbero essere lasciati indietro nell'aria da un moto

terrestre che essi non potrebbero seguire non essendo abbastanza dotati di

peso? Tutto ciò ripugna all'esperienza comune. Alla stessa stregua una pietra o

una freccia lanciata in alto con grande forza non ricadrebbe nel medesimo

luogo, come vediamo succedere su una nave che si muova molto velocemente.

Sono tutte assurdità19.

E così ripeteva Tycho Brahe:

Coloro che pensano che un proiettile (telum) lanciato verso l'alto da dentro una

nave che si muove cadrebbe nello stesso luogo da cui viene lanciato tanto

quanto se fosse ferma, sono in. errore giacché le cose stanno ben diversamente.

Quanto più velocemente avanza la nave tanto più la freccia viene lasciata

indietro. Parimenti dovrebbe più o meno verificarsi in caso di una rotazione

della terra [...]20.

17 Cfr. Eva G. Taylor-Michael W. Richer, The Geometrical Seamer, London, Hollis and

Carter, 1962; Gerard L'E.Turner, Navigazione, in Storia delle scienze. Gli strumenti, a cura di

Gerard L'E.Turner, Milano, A. Mondadori Arte, 1990, p. 234. 18 Cfr. Aristoteles, De caelo, in Opera omnia cum Averrois Cordubensis commentariis,

V, Venetiis, luntas, 1574, p. 164. 19 Christophorus Clavius, In Sphaeram Joannis de Sacro Bosco, (1570), Romae, P. Gellii,

1606, p. 223, trad. mia, cfr. Opera mathematica V tomis distributa, tomus tertius, Moguntiae, R. Eltz, 1611, p. 105.

20 Tychonis Brahe, Epistolarum astronomicarum libri, Uraniburgi, ex officina authoris,

1596, p. 190, trad. mia, cfr. T. Brahe, Opera Omnia, ed. by John L. Dreyer, VI, Hafniae, Libraria Gyldendaliana, 1919 (reprint Amsterdam, Swets & Zeitlenger, 1972), p. 220. Tycho

Brahe riprendeva l'esempio del lancio di un proiettile da una nave in corsa risalente adAverroé.

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Anche quest'ultimo exemplum da manuale della freccia lanciata a

perpendicolo da una nave in corsa non era un granché. Di fatto una freccia

ricadeva dove piaceva al vento. Bisognava dunque pensare ad una nave

mossa a forza di remi, in assenza di vento. Più ancora, si imponeva di

sottoscrivere la teoria che l'aria non interferiva sul movimento di una

freccia, se non spingendola da dietro, il che era una classica dottrina

aristotelica ma sempre meno ciecamente accettata, come vedremo.

Di tutt'altra originalità e spessore teorico fu la dimostrazione per

analogia fra il moto della terra e quello di un battello fluviale pubblicata da

Giordano Bruno nella Cena de le Ceneri, l'«opera prima» della sua «Nolana

filosofia naturale» e stampata proprio a Londra dove già Thomas Digges

aveva presentato l'esperimento del filo a piombo sopra ricordato.

Bruno non scherzava affatto quando prima lo leggevamo invocare

l'Ariosto, perché anche senza un ippogrifo ciò che con il suo geniale

esperimento nautico egli voleva dimostrare era il moto assoluto della terra

rispetto al cosmo. E mentre tutti i suoi predecessori, da Averroè a Clavius e

da Digges a Tycho Brahe, si erano fino ad allora accontentati di illustrare

verbalmente le loro analogie più o meno tangibili fra la terra e una nave,

Bruno ne stampava nella Cena una sorprendente figura dal vero.

La nave di Bruno

La cosa più sorprendente è che non si trattava di un grafico o di

un'illustrazione in funzione esplicativa del testo del suo esperimento ideale.

Era un'immagine a sé, come potrebbe esserlo in un nostro libro una tavola

fuori testo in funzione di abbellimento grafico e di presentazione editoriale

di prestigio. Un paratesto, si potrebbe dire, ma di un naturalismo

drammatico che lo rendeva del tutto irrituale rispetto all'iconografia dei libri

rinascimentali di scienze fisico-astronomiche, pur così spiccatamente

realistica. Il che ne faceva un simbolo forte (fig. 1).

Vi era raffigurato con resa dal vero di tutti i particolari un galeone che

navigava fra le creste delle onde di una burrasca di mare. Come richiesto per

Un luogo comune vuole che Tycho parlasse della caduta di un corpo dall'albero della nave che

si muove: cfr. anche Galileo, Dialogo, II, p. 396, risalente forse a un fraintendimento di quanto scrisse Koyré: «un boulet Hìché du haut du mat d'un navire [...] Cette argumentation,

renouvellée par Tycho [...]», Alexandre Koyré, Gassendi et la science de son temps, in Etudes

d'histoire de la pensée scientifique, Paris, Gallimard, 19732, p. 328, corsivo mio, ma cfr. Koyré, Etudes galiléennes, Paris, Hermann, 19662, p. 183 (trad. it., Studi galileiani, Torino,

Einaudi, 1976).

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sfuggire ad una tempesta, le vele erano disegnate in posizione poggiata,

gonfiate da un provvidenziale vento che si vedeva uscire dalla copertura di

nuvole, simboleggiato da un putto, e soffiare in direzione opposta all'alta

costa rocciosa sullo sfondo e ormai vicina. Il felice esito della scena era

indicato dalla presenza sinistra, ma di buon augurio, del prodigio del fuoco

di sant'Elmo, qui naturalisticamente raffigurato sotto forma di lucenti

pennacchi di fuoco sulle punte del pennone di maestra.

L'interpretazione di questa figura è stata sempre un rebus. La letteratura

bruniana aveva accantonato questo documento iconografico come un

elemento spurio di insignificante valore ornamentale21

. Averlo riportato in

primo piano nel dibattito della storiografia è stato merito della discutibile e

discussa interpretazione iconologica che ne diede Frances Yates nel suo

libro Astrea, pubblicato nel 1975 e riproposto ancora dieci anni fa al

pubblico italiano con una introduzione di Albano Biondi22

. Comunque lo si

voglia intendere, ciò che indiscutibilmente comunicava un'immagine così

era un segnale di fantasia e di incoraggiamento alla creatività grafica,

all'audacia di cimentarsi con una nuova espressività nella fisica del moto

della terra.

L'immagine si stagliava su una pagina lasciata bianca alla fine del

Terzo dialogo della Cena. Era la parte in cui la narrazione dialogica

assumeva l'andamento teatrale di una disputatio universitaria. Al

personaggio del dottor Nundinio toccava la parte del contraddittore della

teoria copernicana. Al personaggio di Teofilo, portavoce del filosofo

Nolano, quella di sostenere con eretica originalità le difese della teoria del

moto della terra, pro domo sua.

Bruno difendeva «il suo Copernico ed altri paradossi di sua [del

Nolano] nova filosofia», dopo aver messo bene in chiaro che «Lui non

vedea per gli occhi di Copernico, né di Tolomeo, ma per i propri»23

. Lo

attestavano qui le sue inedite confutazioni dei paradossi fisici contro il moto

21 Cfr. Luigi Firpo, Per l'edizione critica dei Dialoghi italiani di Giordano Bruno,

«Giornale storico della letteratura italiana», 135 (1958), p. 586-606, in particolare p. 593-595.

Sull'iconismo delle figure verbali e visive di Bruno, cfr. Adelia Noferi, Il gioco delle tracce,

Firenze, La Nuova Italia, 1979, in particolare p. 72-86 e 170 ss.; Michele Ciliberto, Introduzione, in Bruno, Le ombre delle idee, trad. e note di Nicoletta Tirinnanzi, Milano,

Rizzoli, 20002, p. 5-34. 22 Cfr. Frances Yates, Astrea. The Imperial Theme in the Sixteenth Century, London­

Boston, Routledge and Kegan Paul, 1975, trad. it., Astrea. L'idea di impero nel Cinquecento,

Torino, Einaudi, 1990, p. 198-200 e la critica di Westrnann, Magica! Reform, p. 38-40. 23 Dialoghi, p. 23. Sulla diversità fra la teoria copernicana e quella Nolana del moto

terrestre cfr. David Knox, Ficino, Copernicus and Bruno on the Motion of the Earth,«Bruniana

& Campanelliana», 5 (1999), 2, p. 333-366.

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della terra. Confutazioni e controprove che da sole permettevano di

riscattare l'originalità della sua Nolana filosofia calunniata ad Oxford come

scopiazzatura24

.

Prima obiezione: se la terra ruotava verso oriente, perché allora non si

sentivano furiose correnti d'aria di direzione costante verso occidente? Per­

ché l'aria, al pari delle acque dei fiumi e dei mari si muoveva con la terra,

trasportata nel chiuso di «concavità e parti oscure» del globo25

.

La nuova filosofia Nolana spiegava che le regioni abitate erano in

realtà le viscere del pianeta terra-animale. Animale nel senso aristotelico di

ciò che si muove da sé. E come i fluidi vitali racchiusi nel polmone e nel

fegato formavano un tutt'uno con il corpo animale, così aria e acque dentro

la terra ne erano sua parte integrante a tutti gli effetti.

Ricorda scene da Visioni dell'aldilà di Bosch o dell'isola sotterranea

visitata da Pantagruel nel Cinquième livre (1564)26

, questa visionaria teoria

Nolana della terra a grotta. La Cena la presentava invece come la moderna

versione scientifica del mito platonico del Fedone, secondo il quale le anime

ascendono dalle caverne. Anche Galileo parlò poi di trascinamento

meccanico dell'aria da parte delle catene montuose, ma Bruno parlava

propriamente di viscere del globo terrestre come se questo fosse

internamente costituito di sconfinati anfratti e immense caverne.

Immaginava che tutt'intorno a quella terra cavernosa si estendesse una

corona di montagne: invisibili, perché di altezza tale «che la loro grandezza

è insensibile alla nostra vista». Anche le cavità terrestri abitate dagli uomini

si estendevano in orizzontale per una vastità tale da consentire la vista

dell'intero circolo dell'orizzonte. Ciò di cui la Cena forniva una

dimostrazione di ottica geometrica un po' zoppicante, ma aiutandosi con un

chiaro grafico del globo terracqueo come una caverna (fig. 2).

Seconda obiezione: se la terra si muoveva, perché i corpi cadevano

dritti invece che in direzione trasversale? Perché rettilineo e obliquo erano

relativi al muoversi della terra e «dentro la terra, è necessario che col moto

di quella si venga a mutare ogni relazione di rettitudine e di obliquità»27

.

24 Cfr. Frances Yates, Giordano Bruno s conjlict with Oxford, «Joumal of the Warburg

and Courtauld Institutes», 2 (1938-39), p. 277-42; Robert Mc Nulty, Bruno at Oxford, «Renaissance News», 13 (1960), p. 300-305; Frances Yates, Giordano Bruno and the Hermetic

Tradition, London, Routledge and Kegan Paul, 1964, p. 207-210 (trad. it. Giordano Bruno e la

tradizione ermetica, Bari, Laterza, 19923); Michele Ciliberto, La ruota del tempo, Roma, Editori Riuniti, 20003, p. 94-101.

25 Dialoghi, p. 83. 26 Cfr. François Rabelais, Cinquième livre, in Oeuvres complètes, Paris, Gallimard,1994,

p. 787 ss. 27 Dialoghi, p. 86.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

13

Come c'era una «differenza» fra il muoversi dei corpi a bordo di una nave

oppure rispetto alla costa. Quelli che rispetto alla costa erano moti

trasversali, perché trasportati dalla nave, a bordo risultavano invece moti

solo rettilinei: «il che se non fusse vero, seguitarebbe che quando la nave

corre per il mare, giammai alcuno potrebbe trarre per dritto qualche cosa»28

.

Ma Bruno non si limitava a ripetere l’exemplum di Oresme. La sua

ambizione era di fare di quella similitudine scolastica un raffronto dinamico

più eloquente. Immaginando di lasciar cadere una pietra da fuori della terra,

infatti, la si sarebbe vista cadere in trasversale e non in linea retta come sulla

terra. L'esperimento di Bruno ne offriva la prova per analogia.

Una pietra caduta «dal loco extra la terra»

«Con la terra dunque si muoveno tutte le cose che si trovano in terra.

Se dunque dal loco extra la terra qualche cosa fusse gittata in terra, per il

moto di quella perderebbe la rettitudine. Come si vede dalla nave AB

[...]»29

. L'esperimento era esposto nella Cena per bocca di Teofilo,

portavoce dell'autore, con Smitho - anch'egli fautore della Nolana filosofia -

che interveniva a metà di quella lezione di meccanica a sottolineare gli

aspetti teorici più salienti.

Si doveva immaginare lo spazio extraterrestre da cui lasciar cadere in

direzione della terra una pietra come se fosse la sponda di un fiume. E la

terra ruotante di moto uniforme come una nave che passava dirimpetto

lungo il fiume. Dunque con velocità uniforme come la terra. Ecco qui la

maestria di immaginare similitudini dotate di verosimiglianza.

Detta dunque AB la nave e C la riva da cui si lanciava un sasso

mirando alla base dell'albero dell'imbarcazione, quanto più essa correva

(«per quanto comporta la velocità del corso») tanto più il sasso mancava il

bersaglio. Tirandolo invece a bordo, per esempio dalla cima dell'albero,

chiamato punto E, il sasso centrava senza difficoltà la base dell'albero,

chiamata D, o qualsiasi altra parte «del ventre e corpo di detta nave». Anche

lanciando un sasso in alto lungo l'albero, ossia da D ad E, «per la medesma

linea ritornarà a basso, muovasi quantosivoglia la nave, pur che non faccia

inchini»30

.

28 Ivi, p. 86-87. 29 Ivi, p. 87. 30 Ibidem. Dell'esperimento bruniano della nave in chiave di fisica vitalista come da lui

inteso mi pare abbia parlato solo Hélène Védrine, La conception de la nature chez Giordano

Bruno, Paris, Vrin, 1967, p. 212-214. Tradizionalmente è stato letto in prospettiva ricorrente

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Pietro Redondi

14

Lo stesso per la caduta. Bruno immaginava due osservatori nell'atto di

lasciar cadere simultaneamente sulla nave che passava due identici sassi e da

pari altezza: l'uno dalla cima dell'albero della nave e l'altro da un punto della

sponda alto come l'albero. Le due pietre cadevano con la «medesma gravità,

medesma aria tramezzante, e patiscano la medesma spinta». Nondimeno,

quella a bordo scendeva dritta alla base dell'albero, mentre l'altra veniva

«tralasciata indietro». Ciò che Bruno spiegava scolasticamente in termini di

moto composto: il sasso lasciato cadere a bordo era spinto («sustentato»)

dalla «virtù impressa» del moto orizzontale della nave che all'altro sasso

mancava: «la una pietra porta seco la virtù del motore, il quale si muove con

la nave; l'altra di quello che non ha detta participazione»31

.

Corpi identici si muovevano in modo diverso dentro o fuori una nave in

movimento. Tutto dipendeva dai rispettivi impulsi originari: «l'efficacia

della virtù primieramente impressa, dalla quale depende la differenza tutta».

Era questa «differenza» il principio dinamico della nuova filosofia Nolana.

Come si è detto, l'esposizione dell'esperimento veniva interrotta a metà da

Smitho. Il quale annunciava qui che «dalla considerazione di questa

differenza s'apre la porta a molti ed importantissimi secreti di natura e

profonda filosofia»32

.

Si trattava di un'ampia gamma di fenomeni aventi in comune l'istinto

naturale di autoconservazione. In primo luogo Bruno citava il beneficio che

si prova nel medicarsi da soli. Secondariamente il piacere di mangiare con le

proprie mani invece di farsi imboccare:

atteso che è cosa molto frequente e poco considerata quanto sii differenza da

quel che uno medica se stesso, e quel che vien medicato da un altro; assai ne è

manifesto che prendemo maggior piacere e satisfazzione se per propria mano

venemo a cibarci, che se per l'altrui braccia33.

Un altro caso era l'istintivo andare del lattante al seno materno: «i

fanciullini che poppano, vedete come s'appigliano con la mano alla poppa?»

E da ultimo, come contro-esempio, Bruno menzionava il misterioso

sgomento che si sente, come per qualcosa di innaturale e di male, nello

scoprirei derubati da qualcuno di casa: «Ed io giamai per latrocinio son stato

come un esperimento precursore della meccanica classica: «Sviluppare l'idea di sistema fisico:

questo fu il compito dell'opera di Bruno [...] siamo quasi a Newton.», Koyré, Studi galileiani, p. 172, 182.

31 Dialoghi, p. 89. 32 Ivi, p. 87. 33 Ibidem.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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sì fattamente atterrito, quanto per quel d'un domestico servitore; perché non

so che cosa di ombra e di portento apporta seco più un familiare che uno

straniero. [...]»34

.

Non stupisce che nessun commentatore si sia mai soffermato su queste

riflessioni connesse all'esperimento bruniano della nave. A leggerle oggi si è

colpiti da una sorta di pudore. Il pudore di mescolare questioni per noi così

lontane dalla rotazione terrestre e dalla meccanica dei solidi come lo sono

oggi per noi i sentimenti e le emozioni. Ma per Bruno, come per tutti i

filosofi naturali, o meglio i physiologi, rinascimentali anche i movimenti

dell'animo facevano parte della fisica.

In particolare, la naturale propensione a medicarsi da sé rinviava alla

similitudine del medico della Fisica di Aristotele: il moto semplice proprio

di ogni sostanza prevaleva su quelli accidentali come è norma per un medico

curare gli altri e solo eccezionalmente può accadergli di curare anche se

stesso35

. Bruno scriveva invece che era ben più naturale curarsi da soli ed

essere ciascuno medico di se stesso, come per la pietra dell'esperimento era

naturale conservarsi spontaneamente nel proprio movimento di partenza.

Un "fai da te" a scala della materia universale, senza più bisogno né di

moti né di luoghi assoluti né di direzioni predestinate. La «differenza» con

cui una pietra si muoveva su una nave o sulla terra era la stessa che spingeva

un lattante ad attaccarsi al seno materno.

Questo secondo caso rinviava precisamente a Lucrezio e alla sua

nozione di conservazione governante la varietà infinita degli esseri:

Esamina gli individui di ogni specie: malgrado la parentela troverai fra loro

differenze di forma. Altrimenti il piccolo non potrebbe riconoscere la madre, né

la madre il piccolo. [...] Come vuole la natura, ciascuno senza eccezione

accorre alla propria mammella che gli dona il latte36.

Lucrezio aveva illustrato il principio vitale di conservazione della

specificità mediante la similitudine dello strazio della madre di un vitello

immolato agli dei e che vagava disperata per i campi alla sua ricerca. Quella

similitudine Bruno la riformulava qui con l'angoscia di essere derubati da

chi condivideva il nostro tetto e mangiava del nostro pane.

Il cavernoso pianeta della terra, un ferito, un lattante, un sasso: tutto era

34 Ivi, p. 87-88. 35 Cfr. Arist., Phys., II, 192b, 25. 36 Lucr., De rerum nat., libro II, 348-350; 370-71, trad. it. in Tito Lucrezio Caro, La

natura, a cura di Olimpio Cescatti, Milano, Garzanti, 1975, p. 97. Lo stesso tema lucreziano della «magnae naturae varietas», già nel De Umbris (1582), cfr. Bruno, Le ombre, p.126, fu

sviluppato nelle opere successive, come negli Eroici Furori (1585), cfr. Dialoghi,p. 1134.

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Pietro Redondi

16

mosso al fine di conservarsi nel proprio stato. Da questo «principio

interiore» discendeva l'ordine delle cose a scala universale. Ossia da

un'«anima propria», specifica per ciascun ente37

.

Cosa infatti obbligava una pietra a custodirsi gelosamente nel moto di

una nave? Quale senso aveva rispettare la «differenza» in un universo

divenuto uno spazio completamente indifferenziato quale quello bruniano?

Bruno rispondeva: la vita. La vita, principio interiore di ogni movimento

della natura nell'infinita varietà delle sue forme.

Di tale dinamismo spontaneo della natura, l'esperimento nautico di

raffronto ideato da Bruno illustrava il caso particolare di un corpo in caduta

libera da fuori della terra e che «perderebbe la sua rettitudine». Non

partecipando in partenza del moto della terra esso non sarebbe caduto in

linea retta come i corpi dentro la terra, ma in trasversale. Il che, però, si

iscriveva nell'idea che una rotazione della terra doveva produrre qualche

effetto dinamico paradossale. In altre parole, l'esperimento di Bruno portava

involontariamente acqua proprio all'obiezione fondamentale di Aristotele

contro il moto della terra.

Di un simile effetto indesiderato Bruno non si era forse reso conto. Ma

è più probabile di sì, dato che di quel suo brillante esperimento ideale sulla

differenza del moto di un corpo egli non fece in seguito mai più parola nelle

sue opere maggiori di cosmologia e fisica, come il De l'infinito e il De

immenso.

In compenso, a pronunciarsi a fondo sul caso della caduta di una pietra

e del lancio di proiettili a bordo di una nave in corsa fu Galileo, nella Lettera

a Ingoli (1624) e più ancora nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632).

Non è forse proprio questo esperimento della nave ad aver fatto parlare in

storia della scienza fin dai tempi di Pierre Duhem di un Bruno «precursore»

di Galileo?38

E non era forse tale esperimento a far dire ad Alexandre Koyré

che Galileo fu «molto influenzato da Bruno, molto più di quanto sembri» e

che se Galileo non citava mai Bruno era soltanto per prudenza?39

Non è

37 Sul tema, già presente nel De umbris, dell'ordine della natura retto dall'istinto di

autoconservazione Bruno ritornò poi analiticamente: «Un principio interno di moto, che coincide con la propria natura o la propria specie, con l'anima propria che hanno tutti gli esseri

[…]»,De immenso (1590), cap. IV, trad. it. in Giordano Bruno, Opere latine, a cura di Carlo

Monti, Torino, Utet, 1980, p. 693. Cfr. Albano Biondi, Introduzione, in Bruno, De magia, de vinculis in genere, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell'immagine, 19925, p. XIV-XV.

38 Cfr. Pierre Duhem, Etudes sur Léonard de Vinci. Troisième série (1913), repr. Paris,

Editions des archives contemporaines, 1984, p. 257 ss. 39 Alexandre Koyré, Studi galileiani, p. 173.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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forse questo ciò che viene sempre ripetuto?40

Che Galileo fosse al corrente di quell’esperimento è dire poco. Ma le

cose andarono ben diversamente. Se mi si concede il paradosso, nel luogo

comune di considerare Bruno come un precursore di Galileo qualcosa di

fondato effettivamente c'era. Non per il contributo positivo dato alla fisica di

Galileo da quell'esperimento, ma per tutti i guai che esso le procurò.

La pallottola di Galileo

Fra l'esperimento di Bruno prima descritto e quello galileiano correva

un rapporto di idiosincrasia. Quello di cui parliamo non era una delle tante

esperienze immaginate da Galileo, ma forse il suo più famoso esperimento

virtuale. Non dico la leggendaria lampada del Duomo di Pisa, ma

l'esperienza che faceva pronunciare al Dialogo la memorabile dichiarazione

che pur senza averne fatto l'esperienza, si poteva sapere in via anche solo

teorica che «la pietra casca sempre nel medesimo luogo della nave, stia ella

ferma o muovasi con qualsivoglia velocità»41

.

In condizioni ideali, ossia «per bonaccia di mare e rimossi gli accidenti

esterni», una pietra cadeva sempre e comunque dall'alto dell'albero alla sua

base, sia che la nave fosse in corsa oppure immobile. Esattamente come

sulla terra una pietra cadeva dalla cima di una torre alla sua base.

Galileo estremizzava la forza del suo convincimento teorico esibendo

un caso limite: sarebbe caduto in verticale sul ponte di una nave in corsa,

tanto quanto sulla terraferma, perfino un proiettile tirato all'insù con la forza

di un colpo di balestra. Vale a dire da decine di braccia più in alto della cima

di un albero di nave: «e l'istesso vedrete voi accadere facendo l'esperienza in

nave di una palla tirata in su a perpendicolo con una balestra, la quale ritorna

nello stesso luogo, muovasi la nave o stia ferma»42

.

Non ci si deve immaginare un proiettile delle dimensioni di una noce,

perché ricadendo da quell'altezza avrebbe bucato lo scafo ridicolizzando la

teoria che il Dialogo voleva avvalorare. Galileo parlava precisamente di

40 Cfr. da Westmann, Magical Reform, p. 73; a Galileo, Dialogo, Il, p. 400; a Saverio

Ricci, Giordano Bruno nell'Europa del Cinquecento, Roma, Salerno, 2000, p. 261. 41 Opere, Vll, p. 170. Nella Lettera all'lngoli Galileo asseriva invece: «io ho fatto

l'esperienza avanti la quale il natural discorso mi aveva fermamente persuaso che l'effetto doveva succedere», Opere, VI, p. 545. La sola testimonianza indiretta di esperienze galileiane

del genere è la lettera di Francesco Stelluti pubblicata in Lino Conti, Francesco Stelluti, il

copernicanesimo dei Lincei e la teoria galileiana delle maree, in Galileo e Copernico, a cura di Carlo Vinti, Perugia, Porziuncola, 1990, p. 141-236, in particolare p. 230-231.

42 Opere, VII, p. 200.

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Pietro Redondi

18

«una palla di balestra», la munizione più leggera che ci fosse.

«Una balestra da pallotta, / ch'a l'arco torto e pur fa sì gran botta»43

. La

balestra a palla era quella portatile, un'arma a corda da caccia con proiettili

sferici di terracotta o di piombo dalle dimensioni di un nocciolo di ciliegia:

«oggi ci serviamo della balestra per ammazzare gli uccelli. Si carica con

mano e si tira palle di terra secca»44

. Era un minuscolo pallino da caccia

quello che Galileo sosteneva ricadere dal cielo ai piedi di chi lo tirava su una

nave in corsa. Un lievissimo pallino con cui il Dialogo voleva mandare a

picco tutte quelle che Simplicio chiamava le «palpabili esperienze»

aristoteliche della staticità terrestre.

Parlare di pallini da caccia non era una figura retorica di Galileo, ma un

caso di studio entrato da tempo nel dibattito della meccanica in un modo

serio ed anche in un modo satirico. Quello serio era l'anomalia che una

«goccia o lagrima di piombo di una piccolissima pallina da balestra o da

schioppo» rappresentava per la teoria aristotelica del ruolo dinamico

dell'aria. In teoria, quanta più era l'aria mossa da un corpo, tanto più esso era

spinto dal richiudersi dell'aria dietro di esso onde evitare vuoti. Ma con un

pallino di calibro così ridotto, ad un minimo di aria mossa corrispondeva al

contrario un massimo di velocità di penetrazione45

.

E la maniera satirica di parlare di pallini di balestra era stata quella del

filosofo aristotelico fiorentino Ludovico Delle Colombe, nel suo saggio

Contro il moto della terra (ca. 1610): «se la terra si movesse, chi non vede

che a tirar con la balestra, come molti fanno, per farsi tornar la palla ai piedi,

ella non vi tornerebbe mai»46

.

Delle Colombe aveva trattato i copernicani da ciurmatori per aver

spacciata per buona «quell'esperienza, che dicono alcuni aver fatto, cioè che

lasciata cadere dalla gaggia d'una nave, mentre scorre, una palla d'artiglieria,

ad ogni modo caschi a piè dell'albero, se ben la nave cammina»47

. Era

«impossibile farne prova certa», visto che l'altezza dell'albero amplificava il

moto ondoso impedendo di «pigliare il vero perpendicolo». Sia un veliero in

43 Cfr. Giambattista Lalli, La Franceide [1629], in La Moscheide e la Franceide, a cura

di Giuseppe Rua, Torino, Utet, 1927, p. 422. Cfr. Tommaso Garzoni, Delli arcari e ballestrieri,

in La piazza universale di tutte le professioni del mondo (1599), a cura di Paolo Cherchi-Beatrice Collina, II, Torino, Einaudi, p. 1378.

44 Vocabolario degli Accademici della Crusca, Venetia, G. Alberti, 1612, p. 587. 45 Cfr. Porzio Piccolomini, Parte terza della Filosofia naturale di suo zio Alessandro Piccolomini, Venezia, F. Franceschi Senese, 1585, p. 57r. 46 Ludovico Delle Colombe, Contro il moto della terra, in Opere, III, p. 258. Su Delle

Colombe nella disputa contro Galileo sul galleggiamento, cfr. Francesco Paolo De Ceglia, De natantibus, Bari, Laterza, 1999, p. 165 ss.

47 Opere, III, p. 259.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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corsa sia immaginando di realizzare l'esperienza su una galea spinta a forza

di remi, la navigazione non poteva che procedere a scosse.

Ai copernicani che volevano prendere per il naso la gente («per beffa ai

troppo creduli») Delle Colombe lanciava la sfida di usare una palla da

balestra: «io farei cadere la palla di tanto in alto a bordo di una nave in corsa

che, per misurar la distanza da quella all'albero della nave non basteriano

quei nasi che portava al collo quel capitano inglese per collare».

Con questa immagine caricaturale degna del più classico repertorio di

racconti sulla ferocia dei pirati inglesi, Delle Colombe intendeva dipingere

la millanteria di esperimenti copernicani dati per fatti, come quello di

Thomas Digges. Ma la derisione gettata a Firenze sui copernicani colpiva

indirettamente anche Galileo, che nel Sidereus Nuncius (1610) si era

presentato come il campione del copernicanesimo: «Ed io vi dico che il

primo moto naturale, congenito e coevo de i gravi è la circolazione delle 24

ore»48

reagiva Galileo nelle note marginali a questo scritto, incominciando a

forgiare qui tutto il suo repertorio di exempla e paradoxa come quello della

pallottola di balestra:

«Sinché l'esempio della nave è stato creduto favorevole ad Aristotele, è

stato reputato per ottimo: ora che si è scoperto che è contro di lui, è

diventato subito uno sproposito»49

.

Scene di mare in un interno

L'esperimento di Galileo era che il moto della nave non influiva in

nessunissimo modo su come le cose si muovono a bordo di essa: «questo

nulla operar del moto comune ed esser come se non fusse per tutti i

partecipanti»50

Niente di più e niente di meno dell'esperimento di Oresme

prima ricordato. Ed anche Galileo ne deduceva un risultato negativo:

nessuna esperienza meccanica poteva stabilire se la terra ruotava o no: «il

signor Simplicio resti persuaso che dal vedere la pietra cadere nel medesimo

luogo sempre, non si possa conietturare circa il moto o la stabilità della

nave»51

.

Tutto l'opposto dell'esperimento di Bruno. Bruno confrontava il diverso

moto di caduta sulla nave e dalla terra. Mentre quello di Galileo si atteneva

all'identità della caduta in entrambi i casi. L'uno ne ricavava un principio di

48 Ivi, p. 258. 49 Ivi, p. 259. 50 Ivi, VII, p. 197. 51 Ivi, p. 179.

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differenza dinamica, l’altro di indifferenza. L’uno provava in positivo una

deviazione di caduta. L'altro in negativo l'impossibilità di provare alcunché.

L'uno dimostrava un'infinita molteplicità di movimenti spontanei per ogni

essere. L'altro tutelava copernicanamente il moto circolare del tutto.

Il Dialogo cercava di porvi rimedio, ma deplorava l'ingenuità dei

sostenitori del moto della terra che per voler competere con gli argomenti

empirici degli avversari di Copernico finivano soltanto per fare il loro gioco:

Ma qui mi par opportuna occasione di avvertir certa larghezza che vien fatta,

forse con soverchia liberalità, dai seguaci del Copernico alla parte avversa: dico

di concedergli come sicure e certe alcune esperienze che gli avversarii

veramente non hanno mai fatte, come verbigrazia, quella de' i cadenti

dall'albero della nave mentre è in moto, ed altre molte52.

Da buon copernicano, Galileo smentiva ogni possibilità di equiparare

fisicamente la terra a una nave perché c'era per lui «una gran disparità» fra il

moto di una nave, libera di andar dove voleva, e quello naturale della

circolarità planetaria di cui partecipava la terra. Fra i due c'era una

differenza non da poco, antologica: la rotazione era il «moto proprio e

naturale al globo terrestre, ed in conseguenza a tutte le sue parti, e come

impresso dalla natura è in loro indelebile»53

. Nella prima parte del Dialogo,

infatti, Galileo aveva dimostrato che il moto assoluto dell'universo era fin

dalla creazione divina la circolarità uniforme, l'«antichissimo e perpetuo

moto»54

.

Ciò che il Dialogo faceva dell'effetto della nave era svilupparne

versioni ben più immaginative e imitative dell'invisibile conservarsi del

moto circolare, affinché «[...] chiunque si imprimerà nella fantasia questa

generai conversione»55

. Secondo il motto platonico di questa Seconda

Giornata del libro consacrata al problema del moto diurno: Scire est

quoddam reminisci (Il nostro conoscere è in certo modo ricordare)56

.

Quel motto Galileo lo metteva in atto mediante ciò che oggi si

chiamerebbe in cinematografia la tecnica deijlashback. L'autore faceva

ricordare al personaggio di Sagredo un viaggio per mare che realmente era

stato compiuto vent'anni prima dall'amico veneziano di Galileo

Giovanfrancesco Sagredo: «Ora mi sovviene di certo mio fantasticamento

che mi passò un giorno per l'immaginativa mentre navigava nel viaggio di

52 Ivi, p. 206. 53 Ivi, p. 167 ss. 54 Ivi, p. 203. 55 Ivi, p. 209. 56 Ivi,p.217.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

21

Aleppo dove andava consolo della nostra nazione [...]»57

.

La reminiscenza storica rendeva veridica quasi fosse una diretta

testimonianza de visu la scena di viaggio in un interno di cabina narrata dal

personaggio: «in confermazione di che mi ricordo essermi cento volte

trovato, essendo nella mia camera, o domandar se la nave camminava o

stava ferma, e tal volta, essendo sopra la fantasia, ho creduto che ella

andasse per un verso, mentre il moto era al contrario»58

.

Su quella nave in rotta da Venezia ad Alessandretta Galileo

immaginava che ci fosse anche un pittore e che nel corso della navigazione

componesse su un foglio un disegno a penna con precisi tratti di mano:

«moti piccolini, innanzi e indietro, a destra e a sinistra [...] un'intera storia di

molte figure perfettamente dintornate e tratteggiate per mille versi, con

paesi, fabbriche, animali ed altre cose»59

.

Alla fine del viaggio l'artista contemplava la precisione del proprio

lavoro, quale l'avrebbe fatto se la nave fosse rimasta attraccata al bacino di

San Marco. E invece, senza che egli se ne rendesse conto, mentre disegnava

la punta della sua penna aveva descritto rispetto al Mediterraneo un'unica,

monotona linea arabescata.

Come «ultimo sigillo» navale sulla tomba dei paradossi del moto

diurno, il Dialogo dipingeva una complessa esperienza sottocoperta di

«alcun gran navilio». Era una stiva animata da movimenti in tutte le

direzioni: «mosche, farfalle ed simili animaletti volanti»; un gran vaso

d'acqua con «dentrovi de' pescetti» che giravano in tondo accostandosi al

mangime; secchielli sospesi al soffitto da cui l'acqua stillava «goccia a

goccia»; un filo di fumo d'incenso; lanci di oggetti fra persone; una serie di

saltelli a piedi giunti in qua e in là.

Che la nave fosse ferma oppure navigasse, «[...] con qual si voglia

velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là)

voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti»60

. Il

tutto con una resa dei particolari perfino didascalica e così accurata da fame

risultare all'immaginazione del lettore un indimenticabile effetto di vero, di

più vero del vero.

«Anfrattuosa nave», «fabbrica anfrattuosa» Galileo chiamava il suo

«gran navilio». Anfrattuoso era un aggettivo coniato qui per la prima volta

da Galileo, ma di reminiscenza bruniana. Riecheggiava la spiegazione che

dava la Cena del ruotare con la terra dell'aria e di tutto il resto dentro le

57 Ivi, p. 197. 58 Ivi, p. 214. 59 Ivi, p. 198. 60 Ivi, p. 212 ss.

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viscere della terra. Come dentro la stiva tutto restava uguale, perché anche

se il vascello correva tutto partecipava del suo movimento, dall'aria ai pesci

e alle farfalle in volo.

A far probabilmente immaginare a Galileo di far partecipare come

cavie del suo esperimento proprio delle farfalle era stato ancora una volta lo

scritto Contro il moto della terra di Ludovico Delle Colombe. Ironicamente,

egli aveva infatti portato a prova dell'immobilità della terra il volare

indisturbato di una farfalla in tutte le direzioni: «[...] ma eziandio una

farfalla, un moscerino ha facultà di violentar l'aria col suo moto, e per

qualunque parte di essa vagano a lor voglia»61

.

Perché Delle Colombe aveva a sua volta parlato di farfalle, invece che

di libellule o di zanzare o di bolle di sapone? Forse perché era un luogo

comune - in poesia, nei quadri di nature morte e nelle figure d'impresa -

l'immagine della farfalla che volava senza meta ed attratta dalla fiamma

della candela finiva per bruciarsi le ali. Simboleggiava la stupida bramosia

di novità destinata fatalmente a perire, a finire in cenere: «Onde farfalla a

morte, allume onde pur gode»62

.

Non bastava trattare i copernicani da corsari inglesi da carnevale, ma

anche da vanitosi farfalloni che si bruciavano le ali. Non dimentichiamo che

sullo sfondo di questi ameni discorsi planava l'ombra di una tragedia. Lo

scritto di Delle Colombe Contro il moto della terra aveva esordito con

un'immagine di morte:

L'ambizioso animo umano, sospinto oltre ogni convenevole termine dal

desiderio di immortalità, venutagli a stomaco la navigazione dell'oceano della

veritade, s'ingolfa nel mar della bugia, sprezza le colonne d'Ercole, schernendo

Aristotele e beffeggiando Platone, grida Plus ultra, in sin tanto che va a dare in

non conosciute Sirti e rompere in non antiveduti scogli [...] col ritrovar, anzi

sognar nuova filosofia e modo nuovo di filosofare63.

Le colonne d'Ercole accompagnate dal motto Plus oultre erano la

celebre impresa di Carlo V, simboleggiante bene tutte le sue ambizioni

conquistatrici nei nuovi mondi oltremare64

. Intrecciando la figura nautica

d'impresa di Carlo V con la scena di un naufragio, Delle Colombe evocava il

61 Ivi, III,p. 268. 62 Girolamo Molino, Rime, Venezia, 1573, in Mario Praz, Studies in seventeenth century

imagery, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 19642, p. 93-94. 63 Opere,III, p. 253. 64 Contrariamente all'idea che il motto dell'impresa di Carlo V fosse Ne plus ultra,cfr.

Grafton, New Worlds, p. 198, sull'impresa di Carlo V adottata poi da Francesco Bacone

nell'Instauratio Magna (1620) cfr. Frances Yates, Astrea, ed. it. cit., p. 30 e nota l.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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destino di coloro che si lasciavano alle spalle Aristotele e Platone per

inseguire sogni di nuova filosofia e che perivano di naufragio, vittime della

loro ambizione.

Di questi sventurati era Bruno. La persona di Bruno. Non però il suo

esperimento. Perché ricorderemo che sulla sua figura stampata nella Cena

c'erano disegnati i fuochi di sant'Elmo a preservarlo dal naufragio e a

vegliare su di esso come angeli dalle ali distese.

Le figure viventi di padre Scheiner

Quattordici anni dopo l'esecuzione di Bruno a Roma, il suo

esperimento risorse in Baviera in seno alla scienza dei gesuiti e fornendoci

una nuova illustrazione del moto della terra, visto però questa volta in luce

aristotelica65

.

L'immagine fu pubblicata nell'autunno del 1614 dall'astronomo padre

Christoph Scheiner in tesi a stampa di filosofia naturale discusse

all'Università di Ingolstadt sotto la sua supervisione. Più conosciuto con lo

pseudonimo di Apelle, nuovo astro sorgente della scienza astronomica

gesuitica, Scheiner era già internazionalmente noto per la sua disputa con

Galileo intorno alla priorità della scoperta delle macchie solari e la loro

interpretazione66

.

Come ogni tesi che si rispetti, anche queste erano strutturate in forma di

controversia ed erano infatti intitolate Disquisitiones mathematicae de con­

troversiis et novitatibus astronomicis67

. «Libretto di conclusioni naturali», le

65 Di questa illustrazione è circolata nella storia della fisica la riproduzione parziale,

limitatamente ai soli grafici geometrici, datane in Alexandre Koyré, A Documentary History of the Problem of Fall from Kepler to Newton, «Transactions of the American Philosophical

Society», new series, 45 (1955), p. 329-395, trad. fr. Chute des corps et mouvements de la terre

de Kepler à Newton, Paris, Vrin, 1973, p. 16; cfr. Ashworth, lconography, p. 271. 66 Cfr. Corrado Dolio, "Tanquam nodi in tabula - Tanquam pisces in aqua". Le

innovazioni della cosmologia nella Rosa ursina di Christoph Scheiner, in Christoph Clavius e

l'attività scientifica dei gesuiti nell'età di Galileo, a cura di Ugo Baldini, Roma, Bulzoni, 1995,

p. 135-158. Peter Dear, Discipline and experience, Chicago, University of Chicago Press; 1995,

p. 100-197; Rivka Felday, Galileo and the Church: Politica[ Inquisition or Criticai Dialogue?, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p. 240 ss.

67 Disquisitiones mathematicae de controversiis et novitatibus astronomicis. Quas sub

paesidio Christophori Scheineri [... ] publice disputandas, posuit propugnavit Mense Septembri [...] Johannes Georgius Locher, Ingolstadii, Ederiana, 1614. Cfr. Alexandre Koyré, Chute des

corps, 14-21; William Shea, Georg Locher's Disquisitiones mathematicae and Galileo's

Dialogue on the two world systems, in Actes du XIIIe Congrès lntemational d'histoire des sciences, section VIe, Moscou, Naouka, 1974, p. 211-219; Jacques Gapaillard, Le mouvement

de la terre, «Cahiers d'histoire et de philosophie des sciences», 25 (1988), p. 1-179, ora in Et

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Pietro Redondi

24

chiamava spregiativamente Galileo, che per replicarvi almeno in parte

dovette spendere non meno di una ventina di pagine del Dialogo.

Quel libretto tedesco in realtà aveva fatto data nella storia della

cosmologia. In primo luogo perché pubblicava per la prima volta a stampa i

periodi delle fasi di Venere e relativa illustrazione, dando il via libera al

moderno sistema astronomico geo-eliocentrico di Tycho Brahe, tanto

conforme ai dati di fatto quanto fedele alla fisica di Aristotele68

. E in

secondo luogo perché le sue dimostrazioni tecniche contro il moto terrestre

furono considerate tagliare la testa al toro: «avevano completamente

atterrato ed eliminato quell'invenzione copernicana (Copernicanum illud

commentum)»69

Come per le macchie solari, ancora una volta il padre Scheiner aveva

bruciato sul tempo Galileo, primo scopritore delle fasi di Venere fin da tre

anni prima. Merito di un sistema universitario a flusso continuo di

pubblicazioni di tesi70

. Il nome del professore stampato sul frontespizio

garantiva comunque che la responsabilità di quanto pubblicato era sua.

Mentre la gloria era collegiale, di tutta la comunità matematica e religiosa

dell'astronomia gesuitica erede di Clavius.

Queste tesi, per esempio, erano dedicate al conte palatino e duca di

Baviera Massimiliano I di Wittelsbach, anch'egli allievo di Ingolstadt71

. E

sulla dedica c'era l'emblema di tutta una scuola. Da un lato Astrea, la

vergine delle stelle con spada e bilancia e dall'altro la teologia, con la croce

pourtant elle tournel, Paris, Seuil, 1993; Id., Galilée et l'expérience de Locher, «Sciences et

techniques en perspective», l (1990-1991), p. 1-10. 68 Cfr. Roger Ariew, The Phases of Venus before 1610, «Studies in History and

Philosophy of Science», 18 (1987), p. 81-92, in particolare p. 86-87; Ugo Baldini, Legem

impone subactis, Roma, Bulzoni, 1992, p. 216-230; Michel Lerner, L'entrée de Tycho Brahe chez les jésuites ou le chant du cygne de Clavius, in Les jésuites à la Renaissance, dirigé par

Luce Giard, Paris, Puf, 1995, p. 145-185. 69 Juan De Pineda, In Ecclesiasten Commentariorum liber unus, Hispali, G. Rarnos

Vejarano, 1619, p. 131, trad. mia. 70 Cfr. dell'anno dopo, dedicate a Massirniliano d'Austria, le tesi di gnomonica Exeges

fundamentorum gnomonicorum quas in Alma lngolstadiensi Academia Praeside Christoforo

Scheinero publice disputationi exponebat [...] Johannes Georgius SchOnperger, Ingolstadii,

Ederiana, 1615. 71 Cfr. Disquisitiones mathematicae, p. 2 ss. La dedica e la prima parte del libro si

incentravano sulla superiorità dimostrativa e applicativa della mathesis ai sensi di Proclo e di

Possevino. Sulla scienza gesuitica, cfr. ora Michael J. Gorman, Molinist theology and natural knowledge in the Society of Jesus 1580-1610, in Sciences et religions de Copernic à Galilée

(1540-1610), Actes du Colloque international de l'École française de Rome, Rome, 12-14

décembre 1996, Rome, Beole française de Rome, 1996, p. 235-254; Antonella Romano, Éducation catholique, éducations protestantes: quels projets pour !es mathématiques?, ivi, p.

255-277; Andrea Battistini, Galileo e i gesuiti, Milano, Vita e pensiero, 2000.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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in spalla e in mano il calice sormontato dall'ostia, come raffigurata

nell'affresco di Giorgio Vasari La Battaglia di Lepanto (1571), nella Sala

Regia in Vaticano.

Al centro, invece, col motto Laudabitur Nomen Domini, l'emblema del­

l'ostia eucaristica a forma di sole raggiante. Che qui non era da vedersi sol­

tanto come lo stemma della Compagnia di Gesù. Nel suo commento alla

Sfera di Sacrobosco, Clavius disegnava infatti quell'ostia raggiante al centro

del grafico dei quattro elementi e relative qualità della fisica aristotelica.

Una fisica su cui a fare da sigillo era impressa, al centro, l'eucarestia. Il che

valeva ad indicare visivamente che era sul sacramento tridentino che si

imperniava l'ortodossia aristotelica della scienza gesuitica nel campo della

fisica72

(fig. 3).

Benché priva di tale sacralità, era interessante anche l'illustrazione che

del problema del moto terrestre stampavano le Disquisitiones mathematicae

di Scheiner. Dal punto di vista iconografico, era originale la sua sintesi

dimostrativa fra moderni argomenti di fisica-matematica e prove sensibili

antiche quanto la freccia di Aristotele. L'effetto d'insieme era quello di un

pastiche, grazie ad un montaggio che sovrapponeva una serie di figure

naturalistiche ai grafici geometrici di traiettorie di caduta. La sapienza era

tutta in quell'effetto di contrasto fra le une e le altre73

(fig. 4).

Al centro, si vedeva il globo terrestre iscritto nell'orbita lunare. Nel

quadrante superiore di quel grafico del sistema terra-luna erano disegnate

con maniacale cura dei particolari tre specie di volatili, a dimostrazione che

solo grazie a riferimenti fissi del terreno gli uccelli potevano orientarsi e

cacciare. Il testo spiegava trattarsi di un'allodola in volo sul suo nido (P); di

un corvo in picchiata su una lumaca (E) e di quella che sembra una cicogna

(ma il testo diceva trattarsi di gabbiano) nell'atto di mirare sotto il pelo

dell'acqua a qualcosa di irriconoscibile, ma che il testo spiegava essere un

pescetto (pisciculo) (N)74

.

Messe in cima all'illustrazione, quelle figure di uccelli in volo

catturavano l'attenzione più di tutte le altre. Questa illustrazione sembra

pertanto ispirarsi e riprodurre visivamente la pagina del poema la Sepmaine

di Du Bartas sulle dimostrazioni fisiche contro Copernico («quel Tedesco»):

Così tanti augelletti, i quali il volo

72 Cfr. Christoph Clavius, In Sphaeram Joannis de Sacro Bosco Commentarius, Romae,

V. Haelianum, 1570, p. 52; cfr. Christophori Clavii Operum mathematicorum tomus tertius, p.

17. 73 Cfr. Disquisitiones mathematicae, p. 28-31, trad. it. in Galileo, Dialogo, II, p. 537 s. 74 Ivi, p. 32.

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prendono da gli Hesperii à i liti Eoi,

Zefiri così, ch'à la stagion finita

Per visitar il vago Euro s'en volan,

Così le palle da l'horrenda bocca

D'aggiustato cannon verso l'Aurora

Uscenti, quasi fulmine celeste,

Arretrarsi parrien poiché il cammino,

Che veloce faria sempre la Terra,

De le palle, de' venti, & degli augelli

L'impeto avanzerebbe, il soffio e l'ala75.

Nel quadrante inferiore della figura erano illustrate anche qui varie

specie di movimenti naturalmente verticali: precipitazioni atmosferiche da

una nuvola; volute di fumo da un camino; un minuscolo sasso (X) caduto

parallelamente a un filo a piombo (T). Accanto a questi, i moti violenti del

tiro verso lo zenit di una bombarda; della ricaduta perpendicolare di un

fuoco d'artificio (S), e l'immancabile icona aristotelica della freccia scoccata

da un arco.

A queste evidenze fisiche erano intercalate le linee di traiettoria di un

esperimento ideale di caduta dimostrante che la rotazione della terra era

impossibile. Ammettendo infatti che essa ruotasse trasportando con sé tutti i

corpi, si immaginava di lasciar cadere identiche sferette dall'orbe lunare

verso il centro terrestre, ossia da pari distanza, ma da punti diversi. L'una in

corrispondenza dell'equatore terrestre; un'altra rispetto ad una latitudine

intermedia ed una terza sul polo dell'asse terrestre di rotazione, qui

raffigurato in orizzontale. Il centro della prima sferetta avrebbe descritto una

spirale di Archimede nel piano della circonferenza equatoriale, quello della

seconda una linea elicoidale conica, mancando di raggiungere il centro della

terra, mentre la terza cadeva in verticale lungo l'asse dei poli della terra,

inanellan do con il proprio centro di rotazione una spirale cilindrica76

.

Corpi identici, dello stesso peso e forma cadevano da distanze uguali

75 La Divina Settimana, cioè i Sette Giorni dell Creazione del Mondo, di Guglielmo di

Salusto signore di Bartas tradotta [... ]dal signor Ferrante Guisone, Venezia, Ciotti, 15932, p.

61. Cfr. Guillaume Du Bartas, La Sepmaine, éd. par Yves Bellenger, Paris, Nizet, 1981, livre IVe, v. 139-154. Sulla fisica di Du Bartas, cfr. Kar1 Reichemberger, Themen und Quellen der

Sepmaine, Munchen, Hueber, 1962, p. 154; Femand Hallyn, La structure poétique du monde:

Copernic, Kepler, Paris, Seuil, 1987, p. 118; 134; Giacomo Jori, Le forme della creazione, Firenze, Olschki, 1995, p. 11-29; 47-76; 31-32; Massimiliano Rossi, Poemi e gallerie

enciclopediche, in Natura-cultura, p. 91-121, in particolare p. 106.

76 Cfr. Koyré, Chute des corps, p. 16-17; Jacques Gapaillard, Galilée et l'expérience de

Locher.

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con modi e tempi molto differenti. Rispetto al naturale, semplice muoversi

in verticale dei vari corpi in figura, quell'esperimento di raffronto metteva in

evidenza l'impossibilità di ammettere comportamenti dinamici così difformi.

Questo che abbiamo appena descritto era la copia in negativo

dell'esperimento di Bruno della caduta extraterrestre e che Scheiner aveva

tradotto geometricamente e tirato dalla parte di Aristotele. L'albero della

nave di Bruno corrispondeva qui all'asse terrestre lungo il quale la sferetta

cadeva dritta in assenza di trascinamento rotatorio. La pietra che

nell'esperimento di Bruno cadeva dalla sponda del fiume senza raggiungere

il bersaglio corrispondeva qui alla sferetta che deviava dalla verticale per

effetto del moto terrestre mancando di raggiungere il centro della terra.

Nelle pagine successive era arruolata alla causa di Aristotele anche

l'idea e l'illustrazione della terra a grotta che Bruno aveva date nella sua

Cena, per spiegare che insieme alla terra ruotavano anche «gli fiumi, gli

sassi, gli mari, tutto l'aria vaporoso e turbulento»77

.

Le Disquisitiones mathematicae stampavano sull'esempio della Cena la

figura di una terra a forma di grotta, circondata da una volta rocciosa (fig.

5). In una terra cava così, dove andava a cadere una pietra libera di

muoversi? Se scendeva verso il centro di gravità, addio la naturale tendenza

dei corpi ad aggregarsi in forma sferica prescritta dalla fisica di Copernico.

Se viceversa cadeva verso la rocciosa volta sferica, addio l'idea copernicana

della tendenza ad unirsi intorno al proprio centro di rotazione78

.

Fin qui le obiezioni anti-copernicane del padre Scheiner avevano

sfruttato, rovesciandole come un guanto, quelle che erano state le due

dimostrazioni di fisica Nolana a favore del moto diurno. Invece di

ringraziare l'autore della Cena, Scheiner lo castigava per le sue idee

astronomiche. Ridicolizzava la sua pretesa di difendere il moto di

rivoluzione annuale della terra da ignorante di matematica, digiuno perfino

dei dati in possesso di Copernico.

Con una singolare inversione di ruoli, era Scheiner che si incaricava

della difesa dell'onore di un matematico come Copernico e stampava nelle

Disquisitiones una riproduzione rigorosamente fedele del grafico del sistema

eliocentrico quale pubblicato settant'anni prima nel De Revolutionibus79

.

Bella roba questo ottavo e ferrigno pianeta...

77 Dialoghi, p. 83. 78 Disquisitiones mathematicae, p. 32. 79 Ivi, p. 24.

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Bella roba questo ottavo e ferrigno pianeta (Valeat iste octavus èt ferrugineus

pianeta) che un tale principale difensore (praecipuus defensor) di Copernico fa

girare a guisa di una ruota mediante un solo composto intorno al Sole,

generando in qualche modo la sua orbita annua a partire dalla rivoluzione del

moto diurno80.

Le parole «questo ottavo e ferrigno pianeta» identificavano senza

scampo chi era stato l'autore di quegli strafalcioni. Chi aveva disegnato un

sistema copernicano con otto orbite invece di sette? e la terra come un

pianeta tutto scuro, invece che con un emisfero illuminato dal sole e l'altro

buio? Giordano Bruno. E chi se non lui aveva appoggiato un pianeta in

figura di rotella sulla terza di quelle orbite copernicane a contare dal centro,

ossia sul cerchio orbitale spettante alla terra nel sistema copernicano?

Bruno, nel grafico del Quarto dialogo della Cena raffigurante i due sistemi

astronomici di Tolomeo e di Copernico attaccati insieme come due sistemi

siamesi (fig. 6).

Figura difettosa sì, ma graficamente geniale. Bruno mostrava il sistema

geocentrico tolemaico corrispondere e coincidere con quello eliocentrico

copernicano. Una comune sfera delle stelle li circondava entrambi. Le orbite

planetarie dell'uno coincidevano con quelle dell'altro (di qui la svista di

lasciarne una di troppo in quello di Copernico). In mezzo, la terra di

Tolomeo e il sole di Copernico si contendevano il centro producendo

l'effetto suggestivo e grandioso di un'eclisse reciproca. L'immagine

evidenziava un identico bisogno di organizzazione centrata, chiusa,

gerarchica. Erano due sistemi diversi ma prigionieri di una comune

ossessione di ordine e finitezza del cosmo.

Il grave era che Bruno aveva usato di questa polemica figura

astronomica a fini di satira, per divertirsi («il Nolano se mise a ridere») a

seppellire sotto una risata rabelaisiana la matematica universitaria,

impersonata in queste pagine della Cena dal personaggio del dotto

oxoniense: il dottor Torquato81

. Bruno lo faceva infatti entrare in scena così:

[...] dopo essersi rizzato, ritirate le braccia da la mensa, scrollatosi un poco il

dorso, sbruffato co' la bocca alquanto, acconciatasi la berretta di velluto in

testa, intorcigliatosi il mustaccio, posto in arnese il profumato volto, inarcate le

80 Ivi, p. 34. 81 Sulle ipotesi di interpretazione del cosiddetto «errore copernicano di Bruno» della

Cena, cfr. Hilary Gatti, Giordano Bruno and Renaissance Science, Ithaca-London, Comell University Press, 1999, p. 61-71 (trad. it., G. Bruno e la scienza del Rinascimento, Milano, R.

Cortina, 2001).

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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ciglia, spalancate le narici, messosi in punto con un riguardo di rovescio,

poggiatasi al sinistro fianco la sinistra mano per donar principio alla sua scrima,

appuntò le tre prime dita della destra insieme e cominciò a trar di mandritti in

questo modo parlando: Tune ille philosophorum protoplastes?82

La Cena faceva con i matematici umanisti londinesi ciò che un secolo

dopo il Malato immaginario fece con i medici parigini. Ma con in più la

burla degna di una grande pièce filosofica: convincere il dottor Torquato che

Copernico si sarebbe fatto ammazzare piuttosto di pensare che la terra

ruotasse su un cerchio di rivoluzione intorno al sole: «più tosto s'arrebbe

fatto tagliar il collo, che dirlo o scriverlo. Perché anche il più grande asino

del mondo saprà che da quella parte sempre si vedrebbe il diametro del sole

equale»83

.

Bruno aveva infatti le sue ragioni per credere che fosse più conforme

alle osservazioni far ruotare la terra in coppia con la luna su un medesimo

epiciclo comune84

. Ciò che qui sosteneva era che così era scritto anche nel

De Revolutionibus. Al che il dottor Torquato esplodeva rivelandosi per un

esperto conoscitore inglese di Copernico: «Tace, tace tu vis me docere

Copernicum?»85

.

A Londra tutti allora avevano sotto gli occhi il grafico astronomico

copernicano nella riproduzione datane da Thomas Digges nella sua

traduzione inglese parziale del De Revolutionibus e intitolata A Perfit

Description of the Caelestiall Orbes.

Effettivamente, dell'illustrazione originale di Copernico Digges aveva

dato una versione 'perfezionata'. Vi aveva introdotto di suo la tradizionale

figura aristotelica della terra composta dei quattro elementi sublunari e

l'aveva infarcita di didascalie di stampo religioso calvinista. L'orbita

circolare di rivoluzione della terra la spiegava come: «il grande orbe

trasportante questo globo di mortalità». E la sfera stellare copernicana era

stata trasformata qui nel paradiso dei giusti: «il palazzo della felicità [...] la

vera corte degli angeli celesti, libera dalla pena e ripiena di perfetta gioia

82 Dialoghi, p. 96-97. 83 Ivi, p 106. 84 Cfr. Bruno, De immenso, III, 10, in Giordano Bruno, Opera latine conscripta, ed.

Franciscus Fiorentino et alii, I, l, Firenze, Le Monnier, 1889, p. 395. Sulla teoria di ispirazione

pitagorica di Bruno di un comune epiciclo terra-luna cfr. Dario Tessicini, Giordano Bruno e la riforma dell'astronomia, Tesi di dottorato, Università di Bari, cap. Il.

85 Copernico si era limitato a ventilare la possibilità di rendere conto delle variazioni del

diametro apparente del sole coll'attribuire alla terra un epiciclo, ossia un'orbita circolare il cui centro descriveva una circonferenza intorno al sole, cfr. De rev., III, 15, cfr. trad. it. cit., p. 422-

425.

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30

infinita, la sede degli eletti» (fig. 7).

Come se il cattolico Copernico potesse mai concepire il paradiso

direttamente dopo il nostro mondo - il mondo del sole e dei pianeti - senza

più purgatorio86

! Non escluderei affatto che lo scherzo ai danni del dottor

Torquato fosse un modo di mettere alla berlina la contraffazione della

illustrazione e le relative chiose edificanti con cui la Perfit Description di

Thomas Digges aveva messo in circolazione in Inghilterra la teoria del De

Revolutionibus87

.

Quanto al dottor Torquato della commedia della Cena, il Nolano lo

faceva cadere vittima della sua stessa pedanteria, segnalando al lettore di

non prendere la cosa per una lezione di astronomia: «lo poco curo il

Copernico e poco m'importa che voi od altri l'intendano»88

.

Dapprima si insinuava nel pedante il sospetto che il punto indicante la

terra nel grafico originale di Copernico fosse il buco lasciato dalla punta del

compasso con cui Copernico aveva disegnato un'orbita comune alla terra e

alla luna (fig. 8). E poi gli si presentava il dubbio filologico che la frase del

De Revolutionibus «la Terra con l'orbe lunare come epiciclo» significasse

che terra e luna erano insieme su uno stesso orbe.

Di fronte a tali scrupoli eruditi, al dotto non restava che uscire di scena

bestemmiando in inglese offesissimo: «Lessero e ritrovarno che dicea la

terra e la luna essere contenute come da medesimo epiciclo, ecc. E cossì

rimasero mastigando in lor lingua, sin tanto che Nundinio e Torquato,

avendo salutato tutti gli altri, eccetto ch'il Nolano, se n'andorno»89

.

Va da sé che tutto ciò restò confinato al genere satirico della Cena.

Quando più tardi Bruno espose la propria teoria astronomica di un epiciclo

comune terra-luna, nel De immenso, si guardò bene dal parlare di buchi del

compasso o di attribuirla per via erudita a Copernico90

.

86 Digges, A Peifit Description, p. 88, trad. it. in Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso

all'universo infinito, Milano, Feltrinelli, p. 36-37. Sul rapporto fra Bruno e Digges cfr. Miguel A Granada, Thomas Digges, Giordano Bruno e il copernicanesimo in Inghilterra, in Giordano

Bruno 1583-1585. The English experience, Atti del convegno, Londra, 3-4 giugno 1994, a cura

di Michele Ciliberto-Nickolas Mann, Firenze, Olschk:i, 1997, p. 125-155; Dario Tessicini,

Attoniti... quia sic Stagyrita docebat. Bruno in polemica con Digges, «Bruniana &

Campanelliana», 5 (1999) 2, p. 521-526. 87 Una diversa proposta di identificazione del personaggio di Torquato come un eventuale

aderente del circolo di William Gilbert è stata fatta in Gatti, Giordano Bruno, p. 93 s. 88 Dialoghi, p. 106. 89 Ivi, p. 106-107. 90 Si è tradizionalmente letto qui un disprezzo di Bruno per i matematici: cfr. Westmann,

Magica[ Reform, p. 34 ss. Ma erano i «pappagalli di Aristotele, Platone e Averroè» quelli che Bruno disprezzava: «lui [...] non è per litigare contra gli matematici, per togliere lor misure e

teorie, alle quali sottoscrive e crede; ma il suo scopo versa circa la natura e verificazione del

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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Ma torniamo a lngolstadt, dove quel grafico copernicano aveva

indignato il padre Scheiner. Non leggendo l'italiano (e quello di Bruno, poi)

non poteva apprezzare il lato letterario della cosa e si era impuntato

sull'errore astronomico di «quell'ottavo pianeta ferrigno». Vedendo il

disegno dal suo punto di vista, il professore gesuita si sentiva pienamente

autorizzato a puntare il dito sull'errore per lui più clamoroso. Giustizia

avrebbe voluto che si riconoscesse almeno a Bruno il merito di raffigurare

per la prima volta in un grafico astronomico la terra come un vero e proprio

corpo planetario, invece che in forma di punto geometrico, come in

Copernico, o sotto forma dei quattro elementi sublunari aristotelici, come

fatto da Digges.

Ma Scheiner protestava che non quadrava con i conti «far girare

intorno al sole la terra come una ruota» e impartiva a Bruno una arcipedante

lezione di calcolo astronomico in «miglia germaniche». Stando ai dati dello

stesso Copernico, moltiplicando per trecentosessantacinque volte la

circonferenza terrestre non si arrivava a coprire l'ampiezza dell'orbe magno

della rivoluzione annua percorsa dalla terra intorno al sole. Perciò Bruno si

era inventato di sana pianta che l'eclittica fosse ben più piccola del vero

oppure che «l'orbe della terra [fosse] maggiore del giusto, contro la stessa

opinione di Copernico, e l'insegnamento della verità (veritatis

doctrinam)»91

.

Proporzioni

Affronto supremo, all'inizio di febbraio del 1615 Scheiner omaggiò

Galileo delle Disquisitiones mathematicae con una lettera personale in cui lo

esortava a rispondere: «qualunque cosa in contrario manifesterà la Vostra

Magnanimità, non ci offenderemo, ma leggeremo con piacere ciò che sarà

presentato contro, sempre sperando qualche maggior illuminazione che ci

possa avvicinare di più alla verità»92

. E liberamente, come fra colleghi

matematici, e non de fide, precisava: «mi permetto di non credere che in tali

materie si debba togliere d'autorità il diritto di ciascuno di avere il proprio

convincimento e non ritengo che ci si debba risparmiare nell'investigare la

soggetto di questi moti», Dialoghi, p. 98. Bruno rifiutava simulazioni matematiche di

cosmologia, ma scriveva che «quanto alle osservazioni stima dover molto a questi et altri

solleciti matematici [...]», ivi, p. 23. 91 Disquisitiones mathematicae, p. 34 ss. 92 C. Scheiner a Galileo, 6.2.1615, Opere, XIII, p. 137, trad. mia.

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Pietro Redondi

32

verità mediante argomenti di ragione»93

.

Peccato solo per quel ritardo di spedizione. Proprio adesso che a

Galileo non era facile rispondergli. Giacché quello stesso mese di febbraio

1615, giorno più giorno meno, si era aperto su di lui un dossièr a Roma per

iniziativa di domenicani fiorentini che l'avevano denunciato al Sant'Uffizio

per opinioni copernicane contrarie alle Sacre Scritture. Quando si dice la

coincidenza! Ma erano i domenicani, da sempre propensi a fare del moto

della terra cosa loro94

. E domenicani e gesuiti, si sa, erano come cani e gatti.

E quando gli uni dicevano bianco gli altri facevano nero. E pertanto non era

forse una pura coincidenza.

L'anno dopo - 1616 - Copernico era all'Indice e il padre Scheiner

dovette pazientare un pezzo per conoscere le risposte dell'illustre fiorentino.

Diciotto anni. Passarono due papi prima che la Chiesa di Urbano VIII

autorizzasse Galileo a riaprire pubblicamente il dibattito in cosmologia.

Anni preziosi, durante i quali Galileo imparò a guardarsi anche dai gesuiti.

La vicenda del Saggiatore (1623) insegnava95

. Finché ai primi di maggio del

1632, fu recapitata al Collegio romano una copia d'anteprima del Dialogo.

Al problema di Bruno-Scheiner delle traiettorie difformi dei corpi in

caduta libera verso la terra, Galileo rispondeva trincerandosi dietro il fatto di

non aver mai detto il contrario: da fuori della terra un corpo non era«[...] in

obbligo nello scendere di mantenersi perpendicolarmente sopra quel punto

della Terra che gli era sottoposto quando la scesa cominciò; né il Copernico

né alcuno de' suoi aderenti lo dirà»96

.

Il Dialogo iniziava dimostrando che la circolarità era l'ordine che la

creazione aveva imposto alla materia universale e terminava mostrando che

il ruotare della terra lo rivelava la semplice osservazione di regolari

fenomeni naturali come le maree e i venti alisei. La Seconda Giornata del

libro, di conseguenza, contrattaccava alla pretesa di Bruno e di Scheiner di

dire che la naturale rotazione diurna produceva deviazioni e differenze di

93 Ibidem. La presunzione di Scheiner di avere in mano le prove scientifiche

dell'immobilità terrestre corrisponde bene al ritratto di lui come matematico «oltremodo

pretendente ed in tutto privo di que' termini che son dovuti tra chi professa virtù e nobiltà [...]

tanto colmo di pretensione [...]», Giovanfrancesco Sagredo a Galileo, 4.4.1614, Opere, XII, p.

45. Sulla sua sincerità nel ritenere scientifico e non dottrinale il problema del moto terrestre cfr. Michael Gorman, A Matter of Faith? Christopher Scheiner Jesuit Censorship and the Trial of

Galileo, «Perspectives on science», 4 (1996), p. 283-320. 94 Cfr. Salvatore I. Camporeale O.P., Giovanmaria dei Tolosani: 1530-1546. Umanesimo,

riforma e teologia controversista, «Memorie Domenicane», n.s., 17 (1986), p. 145-252. 95 Ho raccontato dell'accusa del padre Orazio Grassi, Ratio ponderum (1626) che

l'atomismo sostenuto da Galileo nel Saggiatore violava il dogma dell'eucarestia nel libro Galileo eretico, Torino, Einaudi, 1986 2.

96 Opere, VII, p. 260.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

33

movimento. In una parola, disordine. Il carattere naturale del moto circolare

del tutto imponeva che tutto avvenisse sulla terra come se essa fosse

immobile.

Ad hominem, Galileo argomentava che se l'orbita della luna girava con

la stessa velocità della terra, ci si doveva semmai attendere una deviazione

in avanti della caduta sulla terra: un corpo «dovrebbe anticipare la vertigine

della terra» perché dalla luna alla terra scendeva per cerchi via via minori97

.

Ad veritatem, ogni moto di caduta era copernicanamente composto «del

comune circolare e del suo proprio retto»98

. Al grafico delle traiettorie di

Scheiner il libro di Galileo contrapponeva polemicamente un suo grafico

della discesa dei corpi lungo cerchi via via minori illustrante la sua contro­

dimostrazione ad hoc della caduta circolare (fig. 9).

La sua soluzione del problema della caduta libera era che rotazione e

accelerazione rettilinea si componevano dando luogo a traiettorie vere di

caduta secondo linee sempre e comunque semicircolari, terminanti al centro

della terra e con velocità uniforme pari alla sua99

.

Era una ritorsione tattica, questa teoria puramente matematica della

caduta semicircolare. Escludendo l'accelerazione della caduta, era

fisicamente falsa. Del che Galileo era il primo ad essere consapevole. Tant'è

vero che la pubblicava per una «mia bizzaria»100

. Il che non gli evitò di

doversene poi giustificare con i suoi scandalizzati amici matematici francesi,

spiegando che si trattava di una finzione, di un rimedio di alleggerimento:

«fu detto per scherzo, come assai manifestamente apparisce mentre vien

chiamato un capriccio et una bizzarria, cioè iocularis quaedam audacia [...]

dirò poetica finzione»101

.

Il danno però era fatto. Perché per contrattaccare all'esperimento di

Bruno-Scheiner, Galileo aveva regalato agli avversari del moto della terra

un rigoroso argomento di prova: ossia che se la terra ruotava i corpi

cadevano con velocità uniforme. Cosa di cui i matematici gesuiti, come

vedremo, non mancarono di approfittare. E questo autogol copernicano di

Galileo fu il guaio più grave che gli procurò l'esperienza di Bruno-Scheiner.

97 Ivi, p. 259. 98 Ivi, p. 191. 99 La figura dimostrava che gli archi della circonferenza CIA decritti dai raggi AF, AG

erano uguali a quelli che gli stessi raggi descrivevano sulla circonferenza CD. Cfr. ivi, p. 190-

191. 100 Opere, VII, p. 192. 101 Galileo a P. Carcavy, 5.6.1637, Opere, XVII, p. 81. Cfr. Carcavy a Galileo, 22.3.1637

e 3.3.1637, ivi, p. 33; 38-39. Cfr. Koyré, Chute des corps, p. 46-54; Galluzzi, Galileo contro Copernico; Umberto Barcaro, Un'analisi della bizzarria di Galileo, «Nuncius», 8 (1993), p. 27-

40.

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Pietro Redondi

34

A Galileo rimaneva pur sempre la consolazione di avere colto

matematicamente in fallo il padre Scheiner quando aveva voluto cimentarsi

nel calcolare il tempo che impiegava una palla di cannone a cadere sulla

terra dall'orbita della luna. Un esperimento ideale di fisica miracolosa.

Perché Scheiner scriveva di immaginare che a portare lassù quel pesante

fardello fosse un angelo ad ali spiegate. Solo che il matematico gesuita era

inciampato nello sproposito di prendere come velocità di caduta di

quell'angelico proiettile il moto quotidiano della rotazione lunare intorno

alla terra, ossia una velocità uniforme invece che accelerata. Col risultato di

stimare un tempo sproporzionatamente lungo: non meno di sei giorni di

discesa.

«Ignudissimo anco delle prime e più semplici cognizioni di geometria -

lo sbeffeggiava Galileo - E non vedete un'esorbitanza sì grande? [...]»102

.

Bastava sapere che il raggio era la sesta parte della circonferenza per

accorgersi che lo stesso doveva valere per il tempo della discesa lungo il

raggio dell'orbita lunare, vale a dire un sesto delle ventiquattro ore che la

luna impiegava a girare intorno alla terra103

. Con quattro ore ce n'era

d'avanzo: per l'esattezza tre ore, ventidue minuti e quattro secondi.

Ironicamente, al lunare problema malamente studiato da Scheiner

Galileo contrapponeva una sua immagine illustrante che «queste proporzioni

matematiche» di geometria elementare, come il rapporto fra raggio e

circonferenza, valevano anche in natura. Chiamava a darne testimonianza le

botti da vino. Per sua esperienza diretta, o forse ricordandosi della

Stereometria doliorum vinariorum di Kepler (1615), Galileo spiegava che

anche i bottai usavano il rapporto uno a sei per fare i fondi delle botti

«ancorché tali fondi sien cose assai materiali e concrete»104

.

In tema di proporzioni matematiche vere sulla carta tanto quanto in

natura, Galileo approfittava della polemica sulla caduta libera dei corpi sulla

terra per annunciare la sua scoperta della legge dell'accelerazione in

proporzione al tempo «a i tempi nostri ignota a tutti i filosofi»105

. E ne

stampava l'illustrazione in forma di grafico del classico triangolo di Oresme

della velocità uniformemente difforme. Anche della sua legge

dell'isocronismo dei pendoli dava pubblicazione in queste pagine,

stampandone l'illustrazione sotto forma di grafico del moto vincolato di

caduta lungo un arco di circonferenza.

Il guaio era stato che per confutare il calcolo di Scheiner della caduta

102 Opere, VII, 247. 103 Ivi, p. 259. 104 Ibidem. 105 Ivi, p. 248.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

35

dalla luna, Galileo aveva corso il rischio di pubblicare a sua volta dei dati

sbagliati. Se ne accorse per un pelo a libro già stampato: «nel rileggerlo mi

sono incontrato in un errore di stampa tralasciato [...] dove li numeri 72 e

100 devono correggersi 12 e 36»106

. Dovette far fare delle «stampine da

attaccarsi a luogo congruo» da recapitarsi d'urgenza a Roma presso i

destinatari delle copie d'anteprima: «in particolare a i Padri Gesuiti acciò che

il P. Scheiner, che in questo luogo vien censurato, non si attaccasse a questa

benché minima correzione»107

.

E un altro inconveniente fu che per impugnare i calcoli delle

Disquisitiones Mathematicae sulla caduta dalla luna, aveva usato come

parametro «cento braccia ogni cinque secondi». E anche per questo dato gli

toccò poi di spiegare di aver fatto di necessità virtù: «[...] perché per

manifestare la estrema gofferia di quello [Scheiner] che scriveva e

assegnava il tempo della caduta della palla d'artiglieria dall'orbe lunare,

poco importa che i cinque minuti [secondi] delle 100 braccia siano o non

siano giusti»108

.

Perché la replica del Dialogo alle Disquisitiones di Scheiner fosse

completa non restava che rispondere alle sue pelose castigationes a quel

«praecipuus defensor» di Copernico che Scheiner aveva deriso come un

ignorante, ridicolizzando tutta la categoria dei copernicani. Il padre Scheiner

gli contestava l'errore di supporre la circonferenza terrestre più grande del

vero oppure l'orbita di rivoluzione della terra intorno al sole troppo piccola?

Bene.

Per bocca di Salviati, Galileo rispondeva che era stato Scheiner a

prendere un abbaglio. Casomai, il professore gesuita doveva scrivere il

contrario, ossia «che quel tale autore veniva a fare il globo terrestre troppo

piccolo o l'orbe magno troppo grande»109

.

In tal modo Simplicio era tenuto a citare parola per parola il rimprovero

del gesuita: «Non si rende conto di fare o il cerchio annuo molto minore del

giusto oppure molto più grande del giusto l'orbe terrestre (orbem terreum)».

Scheiner aveva scritto «orbe terrestre». Orbe significava sia

circonferenza sia orbita. Scheiner si era attaccato alla circonferenza della

terra, senza accorgersi che Bruno vincolava la rotazione diurna della terra ad

un epiciclo terra-luna il cui diametro era eccessivamente grande. Ruotando

trecentosessantacinque volte, quell'«orbe terrestre» imponeva un cerchio di

rivoluzione annua intorno al sole molto più grande del vero. Galileo vibrava

106 Galileo a B. Castelli, 17.5.1632, Opere, XIV, p. 351. 107 Ibidem. 108 Galileo a G.B. Baliani, 1.8.1639, ivi, XVIII, p. 75-79, in particolare p. 77. 109 Opere, VII, p. 271.

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36

l'affondo:

se il primo autore abbia errato, io non lo posso dire, poiché l'autore del libretto

non lo nomina; ma ben è manifesto e inescusabile l’error del libretto, abbia o

non abbia errato quel primo seguace del Copernico, poiché quel del libretto

trapassa senza accorgersi un error sì materiale, e non lo nota e non lo emenda.

Ma questo siagli perdonato, come errore più tosto d'inavertenza che d’altro»110.

Scheiner andava a cercare il pelo nell'uovo senza accorgersi della più

madornale incongruenza dello schema astronomico sul quale pontificava.

Guardava il capello nell'occhio di Bruno senza vedere la trave nel suo111

.

Mi sto dilungando su questo scambio di battute a distanza, finora

ritenuto «enigmatico» dai commentatori, perché mi sembra riguardare

qualcosa di più di un puro battibecco astronomico112

. Un nucleo di verità

etica senza il quale non c'è scoperta o dimostrazione, giusta o sbagliata, che

possa fare grande un libro di scienza. Galileo non difendeva il grafico

astronomico di Bruno, che sapeva essere ben più errato di quanto il padre

Scheiner avesse creduto di provare. Eppure faceva scudo a Bruno: «abbia o

non abbia errato quel primo seguace del Copernico».

È dunque fattualmente falso il luogo comune che Galileo leggeva di

nascosto Bruno e che «se non ne parlava mai, non è dovuto al fatto che non

lo conosceva, ma alla prudenza»113

. Scriveva in proposito Alexandre Koyré

che «dal silenzio delle fonti non si può concludere l'assenza

dell'influenza»114

. Ma di quale influenza?

Non è, quello fra Bruno e Galileo, un rapporto che si possa arrestare

alla constatazione della lontananza che li separa sul piano della meccanica, o

della religione. Se l'apporto dato da Bruno a Galileo sul terreno della fisica

fu inesistente, grande fu quello sul piano della stilistica. Il che finisce per

110 Ibidem. 111 La spiegazione data qui di questo passo del Dialogo mi sembra rendere intellegibile la

nota a difesa di Scheiner figurante a margine della copia posseduta da Galileo: «Qui è attribuito

l'errore all'autore del libretto, ma veramente errore non c'è.» Era vero: la dimostrazione di

Scheiner riguardo l'insufficiente estensione della circonferenza terrestre per generare la

rivoluzione annua di per sé non era errata, ma irrilevante perché non era quello in gioco, come

notava Galileo. 112 Cfr. Galileo, Dialogue Concerning the Two Chief Systems of the World, ed. By

Stillman Drake, Berkeley, University of California Press, 19672, p. 482. La recente edizione

del Dialogo, a cura di Besomi-He1bing, II, p. 582-583, riproduce qui l'altrettanto 'enigmatico' commento dell'edizione di Emil Strauss, Dialog iiber die beiden hauptsiichlichsten Weltsysteme

(1891), Stuttgart, Teubner, 1982, p. 540-541. 113 Koyré, Studi galileiani, p. 173, nota l. 114 Cfr. il commento di Koyré in Walley Singer, Le séjour de Giordano Bruno en

Angleterre, «Archeion», 18 (1936), p. 235-236.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

37

instaurare fra Galileo e il suo predecessore, più forte della loro distanza di

formazione e di idee, una profonda complicità fra autori.

Come quando Galileo rappresenta il cosmo aristotelico-tolemaico come

«una cipolla»115

. O come quando apre la Terza Giornata del Dialogo con

l'allegoria filosofica di Simplicio che entra in scena in ritardo perché la

bassa marea ha lasciato la sua barca in secco regalandogli la possibilità di

osservare da vero virtuoso «Un particolare assai meraviglioso» quale il

continuo vai e vieni del riflusso «per diversi rivoletti»116

. Rifacimento,

questo, dell'allegoria morale bruniana dello scassato battello londinese con

ai remi due caronti e che va ad incagliarsi nel fango del Tamigi in bassa

marea abbandonando nell'oscurità i suoi passeggeri117

. O come quando

Galileo riprende la tecnica di presentare la sua teoria della costituzione del

mondo come la chiave di spiegazione vera di un mito platonico118

. O come

l'invito al lettore del Dialogo di ponderare le ragioni con un bilancino da

orafo, il «saggiatore», metafora anch'essa bruniana ripresa alla grande da

Galileo119

. O quando la Seconda Giornata del Dialogo ricalca il naturalismo

drammaturgico della Cena di far portare in scena da un lacchè i libri da

discutere120

; e di materializzare visivamente la confezione della figura a

stampa del sistema copernicano descrivendone realisticamente il disegno su

un foglio da parte dell'interlocutore, con la penna che traccia una dopo l'altra

le linee a partire dal centro...121

La narrazione dal vero dell'esperimento del «gran navilio», era forse

anch'essa il corrispettivo letterario della realistica figura di nave con cui

Bruno aveva illustrato il suo?

115 Opere, VII, p. 78. Cfr. Bruno, De l'infinito, Dialogo quarto, in Dialoghi, p. 403:

«Comprenderemo che non son disposti gli orbi e sfere nell'universo come [...] per essempio

degli squogli in ciascuna cipolla». 116 Opere, VII, p. 300. 117 Dialoghi, p. 44-45. 118 Opere, VII, p. 44-45. 119 Cfr. Dialoghi, p. 15: «[...] quando misurano gli uomini con quella verga con la quale si

misurano gli animi, e con con lance di metalli bilanciano gli animi»; Opere, VII, p. 157:

«sentiamo il rimanente delle ragioni [...] coppellandole e ponderandole con la bilancia del saggiatore».

120 Opere, VII, p. 247-248; Dialoghi, p. 106. 121 Opere, VII, p. 350-351; Dialoghi, p. 104. Per altri aspetti letterari dell'influenza di

Bruno su Galileo cfr. Hilary Gatti, Giordano Bruno's Ash Wednesday Supper and Galileo's

Dialogue ofthe Two Major World Systems, «Bruniana & Campanelliana», 3 (1997), p. 283-300;

Giovanni Aquilecchia, I Massimi sistemi di Galileo e la Cena di Bruno, «Nuncius», lO (1995) 2, p. 485-496; Id., Possible Brunian Echoes in Galileo, «Nouvelles de la République des

lettres», 14 (1995) l, p. 11-17.

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38

«Che belle figure, che uccelli, che palle»

«Quali vere dimostrazioni furono sì belle?»122

. Così almeno

ingenuamente credeva Simplicio delle prove fisiche aristoteliche

dell'immobilità terrestre. A torto, perché la verità della fisica, agli occhi di

Galileo, era inseparabile da un’idea del bello, e molto esigente.

Molto la gloria scientifica di Galileo doveva alla bellezza delle

immagini della luna vista al cannocchiale e da lui disegnate per il Sidereus

Nuncius (1610). Molto dell'intelligibilità delle sue dimostrazioni dei

Discorsi intorno a due nuove scienze (1638) sulla resistenza dei materiali

era merito delle loro illustrazioni dal vero: rovine coperte di vegetazione;

travi; secchi di sabbia; colonne; funi; ossa di giganti con versi dell'Ariosto a

guisa di didascalia; discensori dinamici; blocchi di marmo circondati da

arbusti...

Galileo, che aveva imparato la matematica all'Accademia del disegno

di Firenze, era lui stesso un critico severo di artisti come il Parmigianino o

Baccio Bandinelli123

. Nessuno più di lui apprezzava la prerogativa delle

immagini di essere le armi con cui non solo far circolare e affermare le idee,

ma dimostrarle. Non stupisce dunque l'attenzione privilegiata che il Dialogo

riservata al minuto verismo iconografico delle Disquisitiones mathematicae

in forma di dirompente parodia sullo stesso registro. La sua satira consisteva

nel trasformare ciò che Scheiner aveva disegnato nel suo lato più grottesco,

nello stile di un naturalismo vernacolare ed osceno da commedia

rinascimentale di Ruzzante o di Bruno, o meglio di Folengo:

Sagr. Mostrate, di grazia. Oh che belle figure, che uccelli, che palle, e che altre

belle cose son queste? Simp. Queste son palle che vengono dalla Luna. Sagr. E

questa che è? Simp. È una chiocciola, che qua a Venezia chiaman buovoli, che

ancora essa vien dal concavo della Luna. Sagr. Si, si: quest'è che la Luna ha

così grand'efficacia sopra questi pesci ostreacei, che noi chiamiamo pesci

armai124.

E ancora: «Questi discorsi m'hanno racconciato alquanto lo stomaco, il

122 Opere, VII, p. 159. 123 Cfr. ivi, IX, p. 69. Cfr. Erwin Panofsky, Galileo as a critic of the arts, The Hague,

Martinus Nijhoff, 1954 (trad. it. Galileo critico delle arti, a cura di Maria Cecilia Mazzi,

Venezia, Cluva Editrice, 1985); Alexandre Koyré, Attitude esthétique et pensée scientifique, in Etudes d'histoire de la pensée scientifique, p. 275-288.

124 Opere, VII, p. 258.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

39

quale quei pesci e quelle lumache in parte mi avevano conturbato»125

.

Galileo non digeriva l'illustrazione di Scheiner. Per ridicolizzarla la

ridescriveva in senso figurato come se le sferette dell'esperimento di

Scheiner fossero «palle», che nella lingua toscana di Galileo significavano

in senso proprio sfere da giuochi, ma in quello figurato baie, stupidaggini, e

relativo doppio senso osceno126

.

L'illustrazione raffigurava (malamente, come a mezz'aria) una lumaca

nella linea di mira di un corvo in volo. E Galileo la leggeva dunque come se

anch'essa cadesse sulla terra, ed anch'essa dalla luna al pari delle palle

dell'esperimento, e identificava correttamente quella lumaca come un

buovolo, in dialetto veneto.

Se quella era una lumaca caduta dalla luna, non poteva che essere un

mollusco oppure un gambero anche il segnetto con cui la figura di Scheiner

voleva indicare un pescetto sotto il pelo dell'acqua. Rigorosamente, perché

ai sensi della storia naturale di Aristotele lumache e conchiglie

appartenevano alla medesima famiglia. Quella comprendente tutti gli

animali terrestri e marini dotati di guscio, vuoi univalve vuoi bivalve: i

testacei127

. Come la lumaca cadente dalla luna della illustrazione di

Scheiner, così quello indicato come «Un pescetto» doveva essere

scientificamente considerato un organismo marino parimenti lunare. Cioè un

mollusco o un crostaceo.

Era arcinoto che «l'ostreghe e granchi e tutti i simili pesci secondo che

la luna è più o meno piena, così più pieni o scemi sono»128

. Da Plinio fino

all'ultimo pescatore di Chioggia era accertato che i gamberi più buoni erano

quelli pescati «con la luna piena, resi più grassi dal suo caldo fulgore

notturno». Anche Eliano confermava l'influenza della tiepida luce della luna

sullo sviluppo delle conchiglie. Ma specialmente delle ostriche: «certamente

dipendono dal cielo e hanno maggiori relazioni con il cielo che con il mare»

scriveva Plinio di quei celestiali frutti di mare benché «tanto nocivi allo

stomaco»129

.

Grande buongustaio, Galileo nella Lettera sulla luce secondaria della

luna (1640) si pronunciò precisamente su questa questione se fosse il calore

luminoso del plenilunio o non piuttosto la sua freddezza a far sì che «le

125 Ivi, p. 275. 126 Cfr. Vocabolario degli Accademici della Crusca, p. 587. 127 Cfr. Arist., Hist. an., IV, 2 e 3. Sulle lumache, 3, 527b, 9-10; 20. Sulle ostreae, ivi, l, 6,

490 b l0; e Arist., P.A., IV, 7, 683b, 14-17; Plin., Nat. Hist., IX, 52. 128 Cristoforo Landino, Historia naturale di C. Plinio Secondo di latino in volgare,

Venezia, Balatino, 1534, p. 16. 129 Ael., De an., 9, 6; Plin., Hist. nat., 2, 109; sulle ostriche 9, 107; e sui gamberi, 9, 96;

11, 88.

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40

conchiglie testate possano più pienamente nutrirsi ed ingrassarsi»130

. Qui

non si trattava dell'interpretazione del fenomeno, bensì del problema

dell'iconografia scientifica.

Le figure, per Galileo, non potevano essere mediocri, vili. Ne abbiamo

appena visto un esempio: laddove Scheiner tracciava una figura mal

disegnata o un segno irriconoscibile, ecco che il Dialogo spalancava agli

occhi del lettore un tesoro naturale di forme, quelle conchiglie che Plinio

chiamava le opere d'arte della magna naturae varietas131

: «piatte concave,

allungate, a forma di mezzaluna, sferiche semisferiche, lisce, rugose,

dentellate, striate, a strisce, [...] espanse in obliquo, in linea retta,

condensate, sinuose, legate in un piccolo nodo, aperte come un applauso,

ricurve a forma di tromba [...]»132

.

Galileo faceva dire al personaggio del veneziano Sagredo: «Questi

pesci ostreacei che noi chiamamo pesci armai». Non era vero. Il termine

dialettale veneziano pessi armà non significava affatto «pesci ostreacei»

bensì chiaramente i crostacei: granchi, gransèole, gamberi, aragoste133

.

L'errore di termi nologia ittica dialettale era chiaramente stato introdotto ad

arte. Due sonole possibili spiegazioni: o Galileo voleva far capire al lettore

che il padre Scheiner aveva preso un granchio, espressione idiomatica per

dire che era caduto in un abbaglio. Oppure questo gioco di terminologia

ittica dialettale era costruito per far venire qui in mente al lettore, senza

scriverla, la vera parola da dire qui, ossia ostrega134

. La quale in veneto

significava «pesci ostreacei», ma era più comunemente usata come la forma

eufemistica dell'interiezione blasfema ostia. Come in inglese Gosh. È chiaro

che anche questa figura retorica era congruente, all'indirizzo di un libro

come le Disquisitiones di Scheiner sul quale campeggiava l'emblema

eucaristico della scienza gesuitica.

Era la mediocrità dell'illustrazione di Scheiner che Galileo non poteva

digerire. Nel minimalismo approssimativo di quelle figure rinsecchite

Galileo probabilmente vedeva rispecchiarsi tutto quel campionario di

oggettistica polverosa da naturalia e mirabilia di «uno studietto di qualche

ometto curioso» per cui aveva altrove scritto di provare un voltastomaco:

«un granchio pietrificato, un camaleonte secco, una mosca o un ragno in

130 Opere, VII, p. 533. 131 Plin. Nat. Hist., 9, 102. 132 Plinio, Storia naturale, II, trad. it. a cura di Alberto Borghini, Torino, Einaudi, 1983,

p. 355. 133 Cfr. Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneto, Venezia, Cecchin, 1856, p. 43. 134 Cfr. Vocabolario degli Accademici della Crusca, p. 582; Dino Durante-G. F. Turato,

Dizionario etimologico veneto-italiano, Padova, Erredici, 1975, p. 338.

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gelatina in un pezzo d'ambra, alcuni di quei fantoccini di terra[...] e simili

altre cosette».

Un camaleonte secco, privo della meraviglia del suo cangiantismo era

un'immagine spenta della natura tanto quanto quel guscio di lumaca

disegnato a mezzaria da Scheiner. Non erano immagini della natura, ma

contraffazioni sedimentate e morte.

Non era da antiquari e da istorici pedanteschi, l'iconografia della fisica.

Era cosa da artisti: come quella galleria di immagini nobili, splendide,

uniche alla quale Galileo comparava le metafore del suo venerato maestro di

figure, l'Ariosto: «una galleria di pittori illustri con un numero grande di

vasi, di cristalli, d'agate, di lapislazuli, e d'altre gioie, e finalmente ripiena di

cose rare, preziose, meravigliose di tutta eccellenza»135

.

Anatomia

Per trattare del moto di rotazione della terra, la Giornata seconda del

Dialogo separava intanto visivamente i grafici geometrici dalle figure

realistiche. Come già abbiamo visto, privilegiava nel testo i grafici

geometrici delle nuove dimostrazioni galileiane di fisica della caduta. C'era

una sola illustrazione dal vero. Era la doppia figura di una bocca da fuoco di

grosso calibro di realistica fonditura ed anch'essa alzata in verticale, come la

bombarda raffigurata nelle Disquisitiones. Solo che qui il cannone era

disegnato in trasparenza, rivelando l'anima della canna lungo cui si muoveva

il proiettile, disegnato quest'ultimo in prossimità della culatta del cannone di

sinistra e, nell'altro, all'estremità della canna (fig. 10).

Era questa un'illustrazione di realismo veramente cinematografico

perché muovendo l'occhio dall'una all'altra di quelle due identiche bocche da

fuoco il lettore aveva l'illusione di vedere dal vivo il moto vero del proiettile

essere davvero un movimento in diagonale, risultante dalla composizione

del moto radiale lungo la canna e di quello ortogonale della rotazione

terrestre di cui la canna invisibilmente partecipava136

.

Ecco un'immagine nel senso galileiano della parola. Anche per la fisica

doveva valere come modello di iconografia da emulare la rigorosa bellezza

135 Opere, IX, p. 69. 136 La contrapposizione fra le illustrazioni di Scheiner e di Galileo del tiro in verticale di

un cannone si tramandò fino alla figura emblematica stampata in Pierre Varignon, Nouvelles

conjectures sur la pesanteur, Paris, J. Baudot, 1692 e raffigurante lo sparo a novanta gradi di un proiettile di mortaio in mezzo ai due personaggi del padre Mersenne e di Descartes intenti a

scrutare verso il cielo, con il motto Retombera-t-il?

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Pietro Redondi

42

artistica delle tavole dei grandi trattati di anatomia. A proposito di

dimostrazioni di fisica, Galileo faceva dire al suo portavoce Salviati: «non

basta Signor Sagredo, che la conclusione sia nobile e grande, ma il punto sta

nel trattarla nobilmente. E chi non sa che nel resecar le membra di un

animale si possono scoprir meraviglie infinite della provida e sapientissima

natura?»137

.

Illustrazioni raffiguranti tiri di artiglieria, pezzi da campagna e relativi

serventi erano il pane quotidiano della letteratura rinascimentale dei trattati

di balistica e di meccanica, dalla Nova scientia di Gerolamo Tartaglia

(1537) ai Rudimenta Mathematica da Sebastian Mlinster (1551). Non era

però mai stata prima prodotta, a mia conoscenza almeno, una figura

rivelante come questa l'invisibile muoversi di una palla di cannone nel buio

della canna.

A detta del suo biografo Niccolò Gherardini, Galileo conosceva a

memoria tutto l'Orlando furioso e «in ogni discorso recitava qualcheduna

delle ottave e vestivasi in un certo modo di quei concetti per esprimere, in

diversi ma spessi propositi, i proprii»138

. È possibile che anche questa

immagine anatomo-balistica gli fosse stata ispirata dalla similitudine fatta

dall'Ariosto fra una canna da fuoco e un vaso sanguigno:

un ferro bugio, lungo da dua braccia,

dentro a cui polve et una palla caccia.

Col fuoco dietro ove la canna è chiusa,

tocca un spiraglio che si vede a pena

a guisa che toccare il medico usa

dove è bisogno d'allacciare la vena

onde vien con tal suono la palla esclusa139.

Subito dopo questa illustrazione, il Dialogo passava alla figura verbale

di una scena venatoria. La terra vi era rappresentata per similitudine come

un cacciatore: uno di «questi imberciatori che con l'archibuso ammazzano

gli uccelli per aria». L'immagine, anch'essa così realisticamente in sintonia

con il mondo delle arti pratiche, come già prima lo era quella del bottaio-

geometra, dimostrava che le leggi matematiche contemplate nella natura dai

copernicani, lungi dall'essere astratte invenzioni, erano iscritte

silenziosamente nella realtà dell'esperienza. Anche un cacciatore, in questo

caso, aveva prescienza, senza saperlo, del principio copernicano della

137 Opere, VII, p. 246. 138 Ivi, XIX, p. 645; cfr. Niccolò Gherardini, Vita di Galileo, in Vincenzo Viviani, Vita di

Galileo, a cura di Luciana Bosetto, Bergamo, Moretti e Vitali, 1992, p. 182. 139 Ariosto, Orlando furioso, IX, XXVIII, 7-8; XIX, 1-5.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

43

composizione dei moti retti e circolari.

Sempre in omaggio al metodo della conoscenza per reminiscenza,

Galileo faceva ricordare a Salviati una sua intervista con un cacciatore di

mestiere, per sapere se «questi imberciatori d'uccelli volanti» miravano

davanti alla direzione di volo dell'uccello tenendo fermo l'archibugio:

«domandando ad uno di loro se la lor pratica fusse tale, mi rispose di no, ma

che l'artifizio era assai più facile e sicuro, e che operano allo stesso modo

per appunto che quando tirano all'uccello fermo»140

. Come nel caso

dell'esperienza dal «gran navilio», anche per colpire gli uccelli era

indifferente che fossero fermi o in movimento. In questo secondo caso,

infatti, il cacciatore ne seguiva il volo ruotando lentamente l'archibugio e

tenendoli costantemente sotto mira come se fossero fermi. A Salviati di

riconoscere la verità fisica copernicana di quella tecnica dell'arte della

caccia, ovvero che col ruotare la canna del suo archibugio il cacciatore

comunicava al moto rettilineo della palla quello circolare della sua spalla:

«se lo scopo sta fermo, anche la canna converrà che si tenga ferma; e se il

berzaglio si muove, la canna si terrà a segno co 'l moto [...]»141

.

L'apologo dell'intervista fra Salviati e il cacciatore ricalcava l'esempio

dei costruttori di botti. Rispetto ad un'assimilazione primitiva del reale, il

fisico-geometra doveva rendere manifeste le vere ragioni matematiche

sottostanti i fenomeni esperiti. Questa funzione conoscitiva Galileo la

chiamava qui «il volo dell'ingegno»142

.

Strapparsi alla realtà dei sensi. Vedere ciò che non si vede.

Interiorizzare la realtà della natura. Era perciò che alla fisica servivano le

figure: «l'errore di Aristotele, di Tolomeo, di Ticone, vostro, e di tutti gli

altri, ha radice in quella fissa e inveterata impressione che la terra stia ferma,

della quale non vi potete o sapete spogliare»143

.

Ci si doveva staccare dall'esperienza volgare per ritrovare con «il volo

dell'ingegno» un rapporto più armonico con il naturale ruotare invisibile

della terra. Così per comprendere come mai era naturale per gli uccelli

140 Opere, VII, p. 194. Cfr. Jacques Gapaillard, Galilée et le principe du chasseur,«Revue

d'histoire des sciences», 45 (1992), p. 281-306. Gapaillard rimprovera al Dialogo di aver

trascurato possibili prove positive della rotazione terrestre come le piccole deviazioni delle traiettorie balistiche meridiane: «Galileo si è purtroppo limitato a constatare l'esiguità e

l'impossibilità di mettere in evidenza sperimentalmente la rotazione della terra», p. 301. È così,

ma intenzionalmente perché da copernicano ortodosso Galileo non doveva dimostrare l'ordine naturale della circolarità cosmologica, ma difenderla da esperienze tendenti a dimostrare che

produceva difformità e disordine sulla terra. 141 Opere, VII, p. 204. 142 Ivi, p. 205. 143Ivi, p. 196.

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Pietro Redondi

44

volare e orientarsi pur muovendosi inavvertitamente con loro il terreno

sottostante.

Zoologia

L'imbarazzo di immaginare che in natura, e per natura, tutto girava

dipendeva dalla difficoltà di imprimersi «nella fantasia questa generai

comunicanza della diurna conversione fra tutte le cose terrestri, alle quali

tutte ella naturalmente convenga»144

. Lungi dal sottovalutare l'immagine del

volare indifferente degli uccelli illustrato da Scheiner, il Dialogo la faceva

sua come esempio paradigmatico di questa difficoltà intellettuale: «ma

questi uccelli, che ad arbitrio loro volano innazi e 'n dietro e rigirano in mille

modi, e, quel che importa di più, stanno le ore sospesi per aria, questi, dico,

mi scompligliano la fantasia»145

. E Salviati ammetteva che «veramente il

dubitar vostro non è senza ragione», visto che lo stesso Copernico non si era

pronunciato sul perché i movimenti in aria degli uccelli non risentivano del

moto terrestre.

Copernico ne «tacque», supponeva Salviati, o perché non ne aveva una

spiegazione soddisfacente o perché rivolto a «contemplazioni più elevate».

Per illustrare polemicamente la superiorità speculativa copernicana rispetto

all'empirismo aristotelico, Galileo la comparava ad un leone incurante del

latrare dei cani: Copernico era «per altezza d'ingegno fondato su maggiori e

più alte contemplazioni nel modo che i leoni poco si muovono per

l'importuno abbaiar de i piccoli cani»146

.

La similitudine era naturalistica, risaliva alla descrizione di Plinio del

fiero comportamento con cui i leoni fronteggiavano in campo aperto le mute

dei cacciatori147

. Oltre ad essere attestata come figura di emblemi ed imprese

in Alciati, accompagnata dal motto Ira148

, riecheggiava l'attributo del leone

con cui tutta l'iconografia cristiana simboleggiava la solitaria potenza

intellettuale di San Gerolamo.

Ad un'altra più originale figura di genere zoologico Galileo faceva

ricorso per immaginare qui un esperimento ideale circa il ruolo dell'aria

144 Ivi, p. 209. 145 Ivi, p. 193. 146 Ivi, p. 194. 147 Cfr. Plin., Hist. nat., 8, 5. 148 Cfr. Alciato, Emblemata (Lyon, 1550), transl. and annotated by Betty l. Knott,

Aldhershot, Scolar Press, 1996, n. 78; Arthur Henkel-Albrecht Schone, Emblemata,Stuttgart,

Metzlersche, 1967, col. 372.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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nella caduta a bordo di una nave in corsa. Meglio che trattare dell'azione del

vento su corpi pesanti come «un grandissimo sasso o una grossa palla di

ferro o di piombo», il Dialogo suggeriva di prendere come caso di studio

l'immagine di un'aquila in volo nel vento e che lasciava cadere dai suoi

artigli una pietra:

che si osservasse, se non con l'occhio della fronte, almeno con quel de la

mente, ciò che accadrebbe quando un'aquila portata dall'impeto del vento si

lasciasse cader dagli artigli una pietra; la quale, perché già nel partirsi dalle

branche volava al pari del vento, e dopo partita entra in un mezo mobile con

egual velocità ho grande opinione che non si vedrebbe cader giù a

perpendicolo, ma che, seguendo 'l corso del vento si moverebbe di un moto

trasversale149.

La mitografia e l'emblematistica traboccavano di figure verbali e visive

di aquile: da quelle che stringevano fra gli artigli la favolosa pietra aetite del

loro nido a quelle che volavano con un peso legato alla zampa; da quelle che

con istintiva nozione dell'accelerazione lanciavano dagli artigli una tartaruga

per romperne il guscio a quelle immaginate nell'atto di colpire dei serpenti

scagliando loro addosso delle pietre150

. Sul tema, anche Bruno aveva

sviluppato negli Eroici furori l'emblema risalente ad Alciati di «Un'aquila

che con due ali s'appiglia al cielo; ma [...] vien ritardata dal pondo d'una

pietra che tien legata a un piede»151

.

L'aquila di Galileo, lo si vede chiaramente, non aveva nulla da spartire

con tutti questi simboli mitologici e morali. Non era un simbolo, ma una

figura scientifica per un esperimento ideale sulla resistenza dell'aria, e di

straordinario realismo visionario.

A ben guardare, non era però neppure questo del tutto originale. In

questo contesto di discussione sul problema della rotazione terrestre,

possiamo far risalire l'idea galileiana della caduta di una pietra dagli artigli

di un'aquila in volo da un precedente caso di studio ideale, ovvero

dall'esperimento miracoloso immaginato dal padre Scheiner di far

trasportare in volo da un angelo una palla di cannone sull'orbe della luna per

misurare il tempo che impiegava a cadere sulla terra. Con una differenza

rilevante: l'esperienza miracolosa immaginata da Scheiner era del tutto

149 Opere, VII, p. 169. 150 Cfr. Plin., Nat. hist., IO, 9-10; e sulla pietra aetite 30, 130; Valeria Massimo, Facta et

dieta memorabilia, 9, 12; Henke-Schone, Emblemata, col. 878. 151 Dialoghi, p. 896. Sul ricorso a questa figura anche nelle poesie di Campanella cfr.

Mario Praz, Studies in seventeenth-century imagery, p. 209.

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Pietro Redondi

46

innaturale, o quantomeno surreale, mentre quella immaginata da Galileo era

naturalistica.

Era invece definitivamente galileiana per originalità la similitudine

scientifica della terra posta a conclusione della Seconda Giornata del

Dialogo come per suggellare nella memoria e nella fantasia dei suoi lettori

la misteriosa presenza naturale del moto della terra. Anche in quest'ultimo

caso si trattava di una similitudine zoologica. Galileo l'aveva coniata per

rispondere all'obiezione polemicamente sollevata da alcuni moderni

aristotelici che un corpo corruttibile come la terra non avrebbe potuto girare

instancabilmente a grande velocità senza doversi fermare a riposarsi di tanto

in tanto come facevano gli animali da soma attaccati alle macine e benché

questi girassero ben più lentamente della terra.

A questa immagine di grande grigiore Galileo replicava che a paragone

della velocità che avrebbe dovuto avere l'immensa sfera stellare secondo

l'ipotesi della stazionarietà terrestre, la terra non si muoveva affatto

velocemente. La velocità relativa della terra era anzi molto lenta. In

proporzione, essa girava molto più adagio di una macina.

La similitudine fra la terra e un quadrupede attaccato ad una macina era

dunque priva di ogni verosimiglianza scientifica. All'opposto, Galileo

paragonava qui la terra a una creatura solare quale il camaleonte africano:

«perché né anco qualsivoglia animale, dico né anco un camaleonte, si

straccherebbe col muoversi non più di cinque o sei braccia in 24 ore»152

.

Per produrre meraviglia e conoscenza, questa galileiana della terra

come un camaleonte era invece una figura rigorosamente appropriata e

verosimile. Non così se Galileo si fosse accontentato di paragonare il lento

moto della terra ad una tartaruga o a una lumaca. Mentre in questo contesto

polemico era pregnante comparare la terra ad un'immagine non solo rara di

un animale molto lento nei movimenti, ma che diceva qualcosa in più.

Aristotele aveva infatti lungamente analizzato, oltre la lentezza di

movimento, anche il cangiantismo che faceva assumere al camaleonte un

colore più o meno chiaro rispetto alla luminosità del cielo.

L'animale di cui parlava Galileo era assurto a simbolo privilegiato di

Mutevolezza153

. Ora, la mutevolezza della terra era per Copernico una delle

più forti ragioni per credere più probabile che fosse essa a ruotare piuttosto

che la sfera stellata. Plinio aveva inoltre attribuito al camaleonte africano la

caratteristica di non necessitare di alimentarsi come gli altri animali: «non

mangia e non beve e non assume nessun altro alimento tranne l'aria»154

.

152 Ivi, p. 297. 153 Arist. Hist. an., 2,11; P. A., 4, 11; 12, 696b, 3s. 154 Plin., Nat. hist., 8, 122; 28, 112.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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Il camaleonte era dunque un meraviglioso paradosso naturale: un

fantastico animale che stava in aria, che non aveva bisogno di nutrirsi, pigro,

mutante di colore. Perché stupirsi che anche la terra potesse ruotare

lentamente ogni ventiquattro ore? A detta del suo biografo Viviani, oltre

all'Ariosto Galileo conosceva a memoria «gran parte di Vergilio,

d'Ovidio»155

. «Se in questi fenomeni c'è qualcosa di strano, che stupisce -

scrivevano le Metamorfosi - stupiamoci pure di quell'animale che si nutre di

vento e d'aria e che, qualunque colore tocca, subito prende quel colore»156

.

Su questa ricercata figura verbale si chiudeva la Seconda Giornata del

Dialogo. Si è detto che sul piano delle figure visive Galileo aveva

privilegiato qui l'uso di grafici, nel testo. Ciò non deve però far credere che

Galileo fosse così platonico da sottovalutare l'importanza dell'iconografia

realistica a dimostrazione che la rotazione della terra non comportava alcuna

differenza meccanica rispetto alla sua immobilità.

Di figure dal vero di questa teoria galileiana dell'indifferenza del moto

terrestre ce n'era una batteria intera. Solo che Galileo non le stampava nel

testo bensì le schierava tutte in primo piano. Intendiamo dire davanti al

libro, là dov'era massima la loro visibilità e dove le immagini erano le

assolute protagoniste. Ossia sull'antiporta incisa del Dialogo, commissionata

al grande incisore, scenografo, costumista e caricaturista fiorentino Stefano

Della Bella. Un esponente di eccezionale talento nel panorama della cultura

teatrale promossa dalla corte di Ferdinando II157

.

L'antiporta di Stefano Della Bella

Allora poco più che ventenne e membro dell'Accademia degli Apatisti

155 Opere, XIX, p. 627; cfr. Viviani, Vita di Galileo, p. 111. 156 Ov., Met. XV, 409-12, trad. it. in Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, trad. it. Di

Piero Bemardini Marzolla, Torino, Einaudi, 19942, p. 624. 157 De1 1627 la prima stampa datata di Della Bella, Banchetto dei piacevoli, dedicata a

Giovan Carlo de' Medici, fratello del granduca e raffigurante una festa della Compagnia di

cacciatori a Palazzo Pitti. Cfr. Alexandre De Vesme, Le peintre-graveur italien, Milano,

Hoepli, 1906, p. 66-332; Phyllis Dearbom Massar, Stefano Della Bella. Catalogue raisonné Alexandre De Vesme, New York, Metropolitan Museum, 1971, n. 43. Cfr. Fabia Borroni,

Satira, umorismo, caricatura, grottesco, macabro, Firenze, Sansoni, 1953; F. Viatte,

Allegorical and burlesque subjects by S. Della Bella, «Master Drawings», 15 (1977), p.345-365; Il luogo teatrale a Firenze, Firenze, 31.5/31.10.1975, a cura di Mario Fabbri­Elvira

Garbero Zorzi-Anna Maria Petrioli Tofani, Milano, Electa, 1975, p. 141 ss.; Sara Mamone, Le

spectacle à Florence sous le regard de Stefano Della Bella, in Stefano Della. Bella 1610-1884, Caen, Musée des beaux-arts, 4 juillet-5 octobre 1998, Caen, Réunion des Musées nationaux,

1998, p. 18-22.

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Pietro Redondi

48

del principe Giovan Carlo de' Medici, dopo un'iniziale attività nel campo del

dipinto Della Bella aveva deciso di consacrarsi interamente al disegno e

all'acquaforte come le tecniche più appropriate al suo ideale di

«rappresentare in piccola carta numero infinito di piccolissime figure158

»

Era nei dettagli che stava anche il fascino dell'antiporta del Dialogo, nella

sua ambiguità e finezza di sfumature.

Delle reazioni suscitate da questa incisione abbiamo solo la diretta

testimonianza che fu sospettato di contenuti satirici perfino il marchio dello

stampatore in calce alla figura: tre pesci in cerchio, con le iniziali del

tipografo Giovambattista Landini, con il motto Grandior ut proles (Mi

accresco come la mia progenie).

Non mancò chi ebbe l'interesse a spargere tendenziosamente la voce

che «un'impresa stimata così misteriosa159

» alludesse al nepotismo dei

Barberini al potere. Che erano notoriamente molto legati a Galileo. Come

nelle grazie di Urbano VIII era Della Bella, autore della testatina della più

recente edizione del libro Poemata del pontefice160

. La stessa paradossalità

del sospetto fa capire l'attenzione con cui era stata osservata quell'antiporta

del libro di Galileo. Va aggiunto che a differenza del testo e della prefazione

del libro, l'incisione d'antiporta uscì senza accordi preventivi con Roma e

senza controlli da parte degli organi di censura, da quanto ci è dato di

sapere.

Maschere

Per introdurre il Dialogo presso il «discreto lettore» e le autorità,

l'antiporta di Della Bella aveva scelto di giocare sul registro dell'umorismo e

della satira. Ma più di tutto dello stupore. (fig. 11)

L'immagine era sovrastata da un panneggio ornato dallo stemma dei

Medici sorretto da due putti161

. Un'identica incorniciatura di gusto teatrale

158 Filippo Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua (Firenze,

1681-1728), IV, lP ed., Firenze, V. Battelli, 1846, p. 606. 159 Cfr. Filippo Magalotti a Galileo, 7.8.1632, Opere, XIV, p. 369 e F. Magalotti a

Galileo, 4.9.1632, ivi, p. 379. 160 Cfr. Maffeo Barberini, Poemata, Roma, Andrea Borgiotti, s.d., ma datato 1631 in base

alla licenza dello stampatore da Anna Forlani Tempesti, Mostra di incisioni di Stefano Della Bella, Firenze, Olschki, 1973, p. 24.

161 Sull'intreccio di mitologia dinastica e simbologia astronomica medicee cfr. Jean

Chalette, Astra medicea (1611) in I Medici e l'Europa 1539-1609. La corte, il mare e i mercanti, Firenze, Electa, 1980, p. 230-231; Mario Biagioli, Galileo the Emblem Maker, «Isis»,

81 (1990), p. 230-258; Id., Galileo Courtier, Chicago, Chicago University Press, 1993, p. 139-

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

49

ricorre in altri frontespizi sia scientifici sia teatrali incisi in quegli anni a

Firenze da Della Bella162

. Il che induce a ritenere che con quel panneggio

l'artista intendesse presentare l'antiporta del Dialogo come l'aprirsi del

sipario su un palcoscenico di corte. Come il teatro degli Uffizi o quello di

Palazzo Pitti sulle cui scene si avvicendavano commedie e intermezzi dei

virtuosi dell'Accademia degli Incostanti o di quella dei Gelosi: La pazzia;

L'armonia delle sfere; Il Solimano, per citarne solo alcuni163

.

Qui, all'aprirsi del sipario appariva sullo sfondo un'immagine della

modernità: la spiaggia affacciantesi sull'imboccatura del nuovo Porto

mediceo di Livorno: «sito per le navigazioni di gran lunga più comodo

d'ogni altro in Europa[...] di industrie, di traffichi [...] un emporio del

mondo»164

. Sulla destra, si riconosceva infatti il «Mastio di Matilde», la

caratteristica torre cilindrica della Fortezza Vecchia. Come in diverse altre

sue incisioni delle serie Vedute di porto (1634 e 1654), Della Bella l'aveva

anche qui disegnata da levante, dirimpetto alla confluenza fra il porto

moderno e la Darsena Vecchia.

Il luogo era stato teatro delle prove eseguite nel 1617 da Galileo del

prototipo di cannocchiale frontale per la misura delle longitudini, il

cosiddetto «celatone»: «Sopra una navetta dentro del molo, dove il moto

dell'acqua era poco». Sempre qui, insieme all'ammiraglio Iacopo Inghirami,

Galileo aveva organizzato corsi di formazione all'uso del cannocchiale per i

piloti delle galere, presso la Fortezza Vecchia165

.

Agli occhi della corte medicea quella antica torre medievale era

simbolo delle fortune del Granducato di Toscana come potenza marittima166

.

149.

162 Cfr. per esempio il frontespizio scientifico di gusto teatrale di Giovanni Nardi Lactis

physica (1634); quello di genere astronomico del melodramma Le Nozze degli dei (1637); quello a tema cavalleresco de Il Cosmo o vero l'Italia trionfante (1650). Cfr. Stefano Della

Bella illustratore di libri, a cura di Fabia Borroni Salvadori, Firenze, Biblioteca Nazionale

Centrale, 1976; Forlani Tempesti, Mostra di incisioni, in particolare p. 25; Incisioni italiane del Seicento nella raccolta d'arte Pagliara dell'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli, a cura di

Anna Caputi e Maria Teresa Penta, Milano, Mazzotta, 1982, p. 194-195, in particolare, nn. 146,

153; Mina Gregori-Francesca Romei-Gabriele Capecchi, Stefano Della Bella un dipinto

riemerso dal buio dei secoli, Firenze, A. Falciani, 1997. 163 Sul rapporto fra Jacques Callot, i due Parigi e Della Bella cfr. Giovanna Gaeta Bertelà-

Annamaria Petrioli Tofani, Feste e apparati medicei da Cosimo I a Cosimo II, Firenze, Olschki,

1969; Domenico Landolfi, Su un teatrino mediceo e sull'Accademia degli Incostanti, «Teatro e

Storia», 10 (1991), p. 57-88. 164 Girolamo Magagnati a Galileo, 8.6.1612, Opere, XI, p. 321. 165 Cfr. Galileo a Curzio Picchena, 22.3.1617, Opere, XII, p. 311-312; Benedetto Castelli

a Galileo, 7.2.1618, ivi, p. 372. 166 La torre della Fortezza Vecchia di Livorno figura sul frontespizio delle Vedute di

porto (1634) cfr. Stefano Della Bella I6IO-I664, p. 40 (v. De Vesme, Le peintre-graveur, n.

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50

Nel secolo precedente, dalla Darsena Vecchia in cui essa si specchiava

erano partiti alla volta della Spagna Amerigo Vespucci e Giovanni da

Verrazzano: quei moderni «Argonauti di Firenze» alle cui esplorazioni

geografiche Kepler aveva paragonato quelle astronomiche del cannocchiale

di Galileo167

.

Da dietro quel monumento Della Bella faceva sporgere le attrezzature

della fila di navi attraccate al molo e al centro aveva disegnato una nave di

grande stazza ferma alla fonda davanti all'imboccatura del porto con intorno

le barche degli scaricatori. Livorno era seconda solo a Marsiglia come

emporio internazionale sulle rotte fra l'Europa e il Levante. Ebrei, greci,

levantini, olandesi, inglesi, portoghesi: a tutti quei mercanti la «costituzione

livornina» garantiva libertà di residenza e di culto. Da soli, i turchi erano

quasi un migliaio168

.

Il che faceva della spiaggia del Porto mediceo l'ambiente ideale per

mettere in scena sull'antiporta del Dialogo l'incontro fra tre barbuti

personaggi: un greco, un mussulmano e un prete polacco169

. I nomi incisi

sull'orlo delle loro vesti li identificano per i personaggi di Aristotele, di

Tolomeo (usualmente ritratto come astronomo mussulmano e qui in ampie

vesti alla turca) e di Copernico. Il «maestro di color che sanno» e i due

massimi astronomi, l'uno dell'antichità e l'altro della modernità.

Il centro della scena era occupato dal movimento delle loro mani.

Aristotele indicava con il dito Copernico che a sua volta spalancava la mano

destra in segno spontaneo di soddisfazione, di evidenza delle proprie

ragioni.

Ai loro gesti si accompagnavano gli sguardi: Aristotele fissava negli

810). Nei tondi della serie Paesaggi e porti (1654-55) Della Bella raffigurò poi la torre della

Fortezza Vecchia di Livorno vista da nord e con la terrazza coperta da tettoia: cfr. ivi, p. 108, n. 43-4; 111, n. 44-3 (De Vesme, Le peintre graveur italien, n. 847). Cfr. anche Forlani Tempesti,

Mostra di incisioni, p. 22-23; Maria Catelli Isola et alii, I grandi disegni italiani del Gabinetto

nazionale delle stampe di Roma, Milano, Ras-Silvana Editoriale, 1980, n. 58. Sulla torre della Fortezza Vecchia cfr. Elio Migliorini, Le regioni d'Italia,

VITI, Torino, Utet, 1964, p. 423. 167 Johannes Kepler, Dissertatio cum Nuncio sidereo, Pragae, D. Sedesani, 1610, in

Kepler, Gesammelte Werke, t. 4, Munich, Beck, 1941, p. 315-325. Si noti che la Dissertatio era

stata pubblicata ben due volte a Firenze nel 1610-11. Cfr. Kepler, Dissertatio e Narratio, a cura di Elio Pasoli e Giorgio Tabarroni, Torino, Bottega di Erasmo, 1972, p. 59; Kepler, Discussion

avec le Messager céleste, trad. et notes par Isabelle Pantin, Paris, Belles lettres, p. 25. 168 Cfr. Giuseppe Guarnieri, Origine e sviluppo del porto di Livorno durante il governo di

Ferdinando I de' Medici, Livorno, G. Meucci, 1911. Cfr. Livorno e Pisa: due città nella

politica dei Medici, Pisa, Nistri Lischi, 1980. 169 Anche in un'incisione della prima serie di Della Bella Vedute di porto (1634) sono

raffigurati sulla spiaggia del Porto mediceo tre mercanti turchi e un gentiluomo italiano, cfr.

Forlani Tempesti, Mostra di incisioni, p. 23.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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occhi Copernico, mentre Tolomeo guardava con sorpresa Aristotele e si

ritraeva in secondo plano stringendo al cuore il classico modello

dimostrativo del sistema astronomico geocentrico, ossia una sfera armillare.

Erano loro due, i personaggi di Aristotele e di Copernico i protagonisti della

scena. Del resto, Aristotele non era mai stato in vita sua un tolemaico.

Ecco, questa era la novità dell'antiporta del Dialogo: rappresentare le

figure, metterle in scena in uno spazio reale, contrapporre i caratteri. Come a

teatro. Tolomeo e Copernico erano qui personaggi veri e non più figure

distaccate ed auliche come sui frontespizi di stile ancora tradizionalmente

architettonico della nuova letteratura astronomica. Come sulla celebre anti­

porta manierista delle Tabulae Rudolphinae (1627) di Kepler, oppure la

grande antiporta classicista dell'altro grande astronomo protestante

copernicano, Philip Van Lansberg, le Tabulae motuum caelestium (1632)

apparse lo stesso anno in cui il tipografo fiorentino Landini pubblicava il

Dialogo di Galileo.

Lo stesso dicasi dei tre immobili ed assorti personaggi - tuttora non

identificati - raffigurati da Giorgione ne I tre filosofi170

(fig. 12). Tela di

Giorgione alla quale Lucia Tongiorgi Tomasi ha suggerito di far risalire la

composizione dell'antiporta del Dialogo: «l'immagine, di impostazione

classicista, recuperando il modulo iconografico dei Tre filosofi

giorgioneschi, presenta in questo caso Aristotele, Tolomeo e Copernico che

sorregge un modellino del sistema copernicano [...]»171

.

Anche I tre filosofi ritraevano due antichi e barbuti sapienti della

scienza degli astri. Uno dei quali inturbantato come il mussulmano Tolomeo

di Della Bella e l'altro invece con il capo coperto da un cappuccio ed in

mano un foglio con calcoli e figure astronomiche di orbite e di fasi lunari. A

sinistra giovane studioso con in mano strumenti di geometria con cui

risolvere un problema. Ma con gli occhi per aria. Giorgione lo aveva infatti

170 Cfr. Peter Meller, I tre filosofi di Giorgione, in Giorgione e l'Umanesimo veneziano, a

cura di Rodolfo Pallucchini, I, Firenze, Olschki, 1981, p. 227-249. Sull'iconografia scientifica

di Giorgione cfr. Carlo Maccagni, Scienza e cultura scientifica nell'ambiente veneto tra

Quattrocento e Cinquecento, ivi, p. 37-50.

171 Cfr. Lucia Tongiorgi Tomasi, I frontespizi delle opere di Kircher, in Enciclopedismo

in Roma barocca, a cura di Maristella Casciato-Maria Grazia Iannello­Maria Vitale, Padova,

Marsilio, 1986, p. 165-175, in particolare p. 166. L'accostamento fra I tre filosofi e l'incisione di

Della Bella risale a Bruno Nardi, Niccolò Copernico, in Saggi sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento, Padova, Antenore, 1971, p. 99-120, che proponeva di riconoscere nel più

giovane dei Tre filosofi i lineamenti di Copernico studente a Padova. Sulle precedenti e nuove

ipotesi di identificazione dei Tre filosofi cfr. Salvatore Settis, La Tempesta interpretata, Torino, Einaudi, 1978, p. 19-45; Jacopo Scarpa, Giorgione e Abelardo. I Tre filosofi di Vienna, «Arte

documento», 8 (1994), p. 59-66; Mauro Lucco, Giorgione, Milano, Electa, 1995, p. 104-105.

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Pietro Redondi

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raffigurato nell'atto di contemplare il cadere delle foglie dagli alberi, i cui

movimenti verso il basso lo distoglievano dalla matematica pura.

L'incisione del Dialogo era sì un rifacimento dei Tre filosofi, ma

parodistico. Il profondo pathos contemplativo e orfico del dipinto di

Giorgione, Della Bella lo sdrammatizzava dandone una parafrasi comica,

non diversamente da ciò che fece trent'anni dopo anche David Teniers il

Giovane ridisegnando il giovane dei Tre filosofi con una scodella, e i due

ieratici sapienti come una coppia di contadini, con una vanga e un sacchetto

di patate l'uno, e l'altro in brache da lavoro e con in mano un bastone172

.

Per parte sua, al posto del promettente filosofo naturale della tela di

Giorgione, Della Bella aveva disegnato un irriverente ritratto molto senile

del «maestro di color che sanno», e anche qui con un bastone. Senza

l'indicazione del nome inciso sull'orlo della veste sarebbe stato impossibile

identificare in una maschera così il filosofo stagirita. Il ritratto ufficiale di

Aristotele era infatti quello scolpito nei tratti volitivi della testa virile che a

lui avevano assegnato sia Giusto di Gand nello Studiolo di Urbino sia

Raffaello nelle Stanze. Nel primo caso Aristotele era dipinto con in capo un

prezioso turbante di stile averroista. Nel secondo il suo volto aquilino era

incorniciato da una invidiabile folta chioma ricciuta.

Mentre l'antiporta del Dialogo lo satireggiava presentandolo come un

barbogio senza capelli, con le stesse fattezze ritratte da Della Bella nei suoi

studi di Testa di vecchio173

. Inoltre qui al Filosofo era stato messo in mano

un bastone. Anche quest'ultimo elemento trasgrediva vistosamente

l'iconografia ufficiale del Filosofo. L'attributo iconografico di Aristotele era

infatti un libro, simboleggiante la sua opera. In particolare, era un'edizione

in-folio della sua Etica il volume che impugnava l'Aristotele di Raffaello

nella Scuola d'Atene174

.

Sulla destra dell'affresco della Scuola d'Atene, Raffaello aveva però

dipinto anche un anziano filosofo greco che procedeva con il capo coperto

dal manto e protendendo davanti a sé il bastone, rivelando così la sua

condizione di non vedente (fig. 13). Il personaggio di cui parliamo non è fra

quelli della Scuola d'Atene che sono stati finora ufficialmente identificati

dalla critica. Si può però proporre di riconoscere in lui Democrito, la bestia

172 Cfr. Theatrum pictorium Davidis Teniers antwerpiensis, Antwerp, 1658 e Pietro

Zampetti, Catalogo delle opere, in L'opera completa di Giorgione, Milano, Rizzoli, 19782, p. 90-91.

173 Cfr. di Della Bella la Testa di vecchio volto a sinistra, Recueil de diverses pièces

servant à l'art de portraire, in Incisioni italiane del Seicento, p. 192, n. 125; cfr. De Vesme, Le peintre-graveur, p. 159.

174 Sull'iconografia di Aristotele cfr. anche Meller, I tre filosofi, p. 242.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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nera della fisica di Aristotele.

Nelle Tuscolane Cicerone scriveva che in tarda età la cecità che aveva

colpito Democrito gli aveva fatto scoprire che «la vista interiore dell'anima

era impedita dalla vista corporea»175

. Plutarco smentiva la storia che «si

fosse volontariamente privato della luce degli occhi fissando uno specchio

posto contro un fuoco acceso [...] affinché gli occhi non gli rubassero

l'intelletto»176

. Ma Tertulliano la confermava, spiegandola con la licenziosità

del filosofo di Abdera il quale, a suo dire, anche da vecchio «non poteva

guardare le donne senza concupiscenza»177

.

Se, come pare, era di Democrito la figura del vecchio filosofo cieco

delle Stanze, anche quella maschera di uno Stagirita malandato e con il

bastone equivaleva ad impartire alla fisica aristotelica delle qualità sensibili

una lezione di anti-empirismo.

La derisione di cui si parava in copertina il Dialogo non deve stupirei.

Ad essere un appassionato di teatro non era solo l'incisore, ma lo era

altrettanto l'autore del libro. Anche nove anni prima, Galileo aveva

presentato il suo precedente libro - il Saggiatore - in chiave di licenza da

commedia in maschera per autorizzarsi a sbeffeggiare l'aristotelismo della

scienza insegnata al Collegio romano. Di una delle commedie di cui Galileo

era autore ci è pervenuta la partitura, con le maschere dei mercanti

Pantalone e Tofano, la solita storia di matrimonio impedito con relativi

travestimenti in abiti femminili e colpi di scena sotto le lenzuola. Una

classica commedia degli equivoci di genere licenzioso alla Ruzante178

.

Ancor più trasgressiva di quella di Aristotele era la maschera del

personaggio di Copernico. Anch'essa era del tutto difforme dall'iconografia

che del matematico polacco era stata allora messa in vigore. Sui frontespizi

dei testi copernicani protestanti da noi prima citati, la figura di Copernico

era raffigurata con fattezze del viso conformi ai suoi ritratti e autoritratti ed

in vesti di astronomo adatte ai rigidi climi dell'Europa orientale: tabarro di

lana e berretta di velluto da accademico calcata sulla testa.

Il frontespizio delle Tabulae Rudolphinae di Kepler raffigurava

Copernico seduto con aperto sulle ginocchia il suo De Revolutionibus (fig.

14). Il frontespizio delle Tabulae di Van Lansberg lo dipingeva in piedi, con

in mano un modello in verticale del sistema planetario copernicano: un

planetarium (fig. 15). Ossia una piastra metallica circolare con incise le

175 Cic. Tusc. disp., V, 39, 114, cfr. I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di

Gabriele Giannantoni, Bari, Laterza, 19996, p. 674. 176 Plutarc., De curios., 12, p. 521 D, cfr. ivi, p. 675. 177 Tertull. Apol. 46, ibidem. 178 Cfr. Opere, IX, p. 195-209.

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orbite concentriche dei sei pianeti intorno al sole, conformemente alla figura

del sistema eliocentrico stampata nel De Revolutionibus179

.

All'opposto, Della Bella si era studiato di mettere in risalto con

veridicità storica la dignità ecclesiastica di Copernico in quanto canonico del

capitolo di Fromborg. Come attributo vestimentario, invece della berretta da

dottore, il tricorno da prete cattolico. E sotto quel cappello invece del ritratto

di Copernico, la faccia di Galileo, con un paio di ridicoli baffi a manubrio e

barba da palcoscenico. C'è da chiedersi se non fu proprio vedendo sul

Dialogo questo straordinario ritratto di Galileo camuffato da ecclesiastico

che a Descartes venne in mente il motto Larvatus prodeo (Avanzo

mascherato).

È stato Erwin Panofski, nel 1956, a dimostrare che sotto i panni

clericali di Copernico Della Bella aveva raffigurato i lineamenti di Galileo.

La sua identificazione si fondava sui loro precedenti ritratti, nonché sulle

successive ristampe di questa antiporta, nelle quali al personaggio di

Copernico venivano restituiti i suoi lineamenti legittimi180

. Ma

l'identificazione corrisponde anche all'oggetto che Della Bella aveva messo

in mano alla maschera di Copernico.

Ironicamente, ciò che il canonico Copernico, alias Galileo, teneva in

mano sembrava un ostensorio cattolico, lo strumento verticale per il culto

del dogma tridentino e il cui tipo a raggera solare era quello più in uso, fin

dal XVI secolo181

. Va ricordato che il precedente libro di Galileo gli aveva

valso di essere accusato di violare il dogma tridentino dell'eucarestia.

Anche quello disegnato da Della Bella era uno strumento in verticale

dotato di manico e sormontato da un cerchio al cui centro si vedeva un sole

179 Sui planetari verticali copernicani cfr. Owen Gingerich, The 1582 Theorica Orbium of

Hieronmus Vulparius, «Joumal for the History of Astronomy», 8 (1977), p. 38-43; John R.

Millburn, Planetari, in Storia delle scienze. Gli Strumenti, p. 104-10(5; Id., Nomenclature of

Astronomical Models, «Bulletin of the Scientific Instrument Society», 34 (1992), p. 7-9; Liba Taub, Planetarium, in lnstruments of Science, ed. by Robert Bud­ Deborah J. Wamer, New

York-London, Garland Pubi., 1998, p. 465-467. 180 Cfr. Panofski, More on Galileo and the Arts, «lsis», 47 (1956), p. $4-85.

Un'identificazione intuitiva del volto di Galileo è stata poi fatta da Isabelle Pantin, Une Ecole

d'Athène des Astronomes? La représentation de l'astronome antique dans les frontispices de la Renaissance, in Images de l'Antiquité: le texte et son illustration. Colloque de l'Université de

Paris XII, 11-12 avrill991, éd. par Emmanuel Baumgartner-Laurence Harf-Lqncner, Paris,

Presses de l'Beole Normale Supérieure, 1993, p. 87-95. La proposta di riconoscere Galileo anche nei volti di Tolomeo e di Aristotele è stata fatta in Galileo, Dialogo, II, p. i 109.

181 Cfr. Mark S. Weil, The D'evotion ofthe Forty Hours and Roman Baroque Illusions,

«Joumal of the Warbtirg and Courtauld Institutes», 37 (1974), p. 218-249; Mistero e imma gine, Bologna, 20 settembre-23 novembre 1997, a cura di Salvatore Baviera e Jadranka Bentini,

Milano, Electa, 1997, p. 50 e 260.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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raggiante. Non era però un ostensorio perché sulla sommità del cerchio si

vedeva una sfera come di un pianeta, con l'emisfero interno illuminato e

l'altro scuro. Era dunque un apparato dimostrativo scientifico, e mai prima

attestato nell'iconografia astronomica.

L'inedito apparato è stato visto come un modello copernicano della

rivoluzione terrestre. Si è parlato di un precorrimento del futuro tellurium,

cioè di quei planetari meccanici che per semplicità di funzionamento si

limitavano a mostrare solo l'orbita di rivoluzione annua della terra

unitamente alla luna182

. Quello qui disegnato non dimostrava però nulla

dell'orbitare della terra intorno al sole.

Per farlo, il pianeta avrebbe dovuto avere l'asse inclinato e mostrare

così il variare delle stagioni nei punti equinoziali e solstiziali,

conformemente alla figura della rivoluzione annua terrestre stampata da

Copernico nel De Revolutionibus, ripresa sul frontespizio delle Tabulae

motuum caelestium di Van Lansberg nonché illustrata così anche nello

stesso Dialogo di Galileo. E per essere un precursore del tellurium, avrebbe

dovuto mostrare anche l'orbita della luna. Le due successive ristampe di

questa antiporta, oltre a restaurare il ritratto originale di Copernico,

ridisegnarono anche l'apparato aggiungendovi debitamente l'orbita della

luna e facendolo così diventare davvero un modello astronomico183

.

Sembra essere galileiano quel modellino. E non di astronomia, ma di

fisica del moto della terra. Il suo disegno riproduceva l'illustrazione

bidimensionale dell'orbita della terra pubblicata nel Dialogo «per più facile

intelligenza» della teoria galileiana delle maree come causate dal doppio

moto di rotazione diurna e di rivoluzione annua184

. Del resto l'abito non fa il

monaco: a tenere in mano quel modellino era pur sempre Galileo.

Gusci

In primo piano davanti al personaggio di Galileo-Copernico, della Bella

aveva disegnato un corpo leggermente piantato nella sabbia. Un solido dalla

182 Cfr. Ernst Zinner, Entstehung und Ausbreitung der Copernicanischen Lehre,

Erlangen, M. Mencke, 1943, p. 467. Sui planetari verticali copernicani dal XVII al XVIII

secolo, cfr. John R. Millburn, Planetari, in Storia delle scienze. Gli strumenti, p. 104-106;

Gloria Clifton, La produzione degli strumenti scientifici in Inghilterra, ivi, p. 340; 343. 183 Cfr. Copernico, De Revolutionibus, l, 11, vedasi la trad. it. cit, p. 216; Opere, VII, p.

417-418. 184 Il grafico illustrante la teoria meccanica delle maree e raffigurante la terra in cima

all'orbita intorno al sole risaliva al Discorso sul flusso e reflusso del mare (1616), cfr. Opere,

VII, p. 382 ed era stato stampato nel Dialogo, ivi, p. 452.

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forma tondeggiante, ma spezzata e non facilmente identificabile: un sasso

della spiaggia, un ciottolo da fiume finito lì? una palla di sego da

esperimento? una conchiglia? un peso da scandaglio? un sughero da reti? un

frutto? un gomitolo? Alla sua destra anche un corpicciolo minuscolo, un

bruscolo, un niente (fig. 16).

La penna di Della Bella aveva disegnato quest'ultimo di forma sferica,

sull'ombra che proiettava sulla sabbia l'oggetto vicino. Per identificare questi

due elementi ci aiuteremo con le ristampe di questa antiporta e pressoché

identiche fra loro delle edizioni in latino del Dialogo, a Strasburgo nel 1635

e a Lione del 1641185

.

Qui la «cosa» in primo piano era stata ridisegnata in maniera da far

marcatamente risaltare che si trattava di un sasso, una pietra di breccia.

Quanto al corpicciolo vicino, il frontespizio dell'edizione di Strasburgo non

lo aveva ripreso. Ma il frontespizio dell'edizione di Lione sì, disegnandolo

ancora di forma sferica regolare (fig. 17). Un minuscolo manufatto, dunque,

a forma di pallina: una pallottola. La famosa «palla da balestra» che il

Dialogo sosteneva ricadere a perpendicolo su una nave in corsa ai piedi di

chi la tirava, al pari di una pietra e come sulla terraferma.

Se adesso torniamo all'antiporta originale riconosciamo che la pietra e

la pallottola cadute nello stesso luogo erano disegnate nell'asse verticale del

modellino della teoria galileiana delle maree. In primo piano a sinistra,

dirimpetto alla pietra e alla pallottola, Della Bella aveva disegnato davanti al

personaggio di Tolomeo una freccia da arco, sulla verticale della sfera

armillare del sistema geocentrico che Tolomeo serrava al petto. Dietro la

freccia si vede una faretra gettata sulla sabbia fra i piedi di Aristotele. Quel

vecchio col bastone vi inciampava di sicuro.

Nell'angolo opposto della spiaggia, giacevano sulla sabbia due gusci.

Uno era una valva striata di conchiglia. L'altro era un testaceo, scarsamente

riconoscibile, forse di forma a spirale. Le due ristampe di questa antiporta

avevano risolto il problema riproducendo due gusci di molluschi uguali.

Non resta che provare con i campioni, i disegni e le etichette delle collezioni

di naturalia dell'epoca. Come la raccolta conchigliologica del Museo di

Ferdinando Cospi i cui reperti sono tuttora visibili a Bologna186

. La valva di

185 Cfr. Galilaei Galileaei Lyncei, Dialogus de systemate mundi, Augustae Trebocensis,

Bon. et Abr. Elzevir, 1635; ried. Lugduni, Ionn. Ant. Huguetan, 1641. Si tratta della traduzione

realizzata a Strasburgo da Matthias Bemegger, cfr. Nonnoi, Saggi, p. 187 ss. 186 Cfr. Lorenzo Legati, Breve illustrazione del museo dell'illustrissimo [... ] Ferdinando

Cospi, Bologna, G. B. Ferroni, 1677, p. 23 s; Adalgisa Lugli, Naturalia e mirabilia, Milano,

Mazzotta, 1983, p. 108-111; Giuseppe Olmi, L'inventario del mondo, Bologna, il Mulino, 1992, p. 293-297; Paula Findlen, Possessing Nature, Berkeley, University of California Press, 1994,

p. 26-28; 117-119.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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conchiglia disegnata da Della Bella sembrerebbe proprio raffigurare una

comune ostrea: un pecten, oggi chiamato pettinide in conchigliologia e in

gastronomia coquille St-Jacques o capasanta. Quanto al guscio spiraliforme

meno visibile, dovendosi scartare per ragioni di verosimiglianza un'esotica

conchiglia turbinide, si potrebbe ipotizzare trattarsi, senza giurarlo, di una

cochlea umbilicata marina, vale a dire una comunissima lumaca di mare.

Teatro

Sembra invece più facile mettere a fuoco il significato degli elementi

iconografici finora descritti in relazione al testo del Dialogo che l'antiporta

di Della Bella compendiava e presentava qui al pubblico.

La veduta del porto di Livorno trasportava in un ambiente mediceo

evocativo e famigliare al lettore l'ambientazione di fantasia del libro su una

Laguna di Venezia dall'acqua immobile, in bassa marea: «Siamo qui in

Venezia, dove ora sono l'acque basse ed il mar quieto e tranquillo»187

.

I personaggi e i loro gesti sembrano mettere all'attenzione del lettore il

testo della Seconda Giornata, dedicato alla fisica del moto diurno della terra.

In particolare, la pagina in cui Salviati chiamava direttamente in scena

Aristotele sostenendo paradossalmente che lui redivivo avrebbe dato ascolto

a Galileo e contribuito utilmente nuovi argomenti di discussione: «[...] ed io

vi dico che se Aristotele fosse qui, e' rimarrebbe da noi persuaso, o

sciorrebbe le nostre ragioni e con altre migliori persuaderebbe noi»188

.

Nelle stesse pagine, per bocca di Sagredo, il Dialogo dileggiava i

moderni scienziati neoaristotelici dipingendoli come vecchi rimbambiti,

impotenti a ragionare se non con la testa di Aristotele e a vedere le cose se

non con gli occhi di Aristotele:

E non so con che fondamento voi vogliate riprender la natura, come quella che

per la molta età sia imbarbogita ed abbia dimenticato a produrre ingegni

specolativi, né sappia farne più se non di quelli che, facendosi mancipii

d'Aristotile, abbiano a intender col suo cervello e sentir co' i suoi sensi189.

Il vegliardo nelle vesti di Aristotele era dunque l'allegoria dei moderni

scienziati fedeli in fisica alla dottrina delle qualità sensibili di Aristotele.

In queste pagine Galileo radicalizzava lo scontro fino a dire che quei

187 Opere, VII, p. 448. 188 Ivi, p. 157. 189 Ibidem.

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«poveretti di cervello» neo-aristotelici andassero a casa perché erano ciechi,

incapaci di camminare perfino su un terreno sgombro di ostacoli e di

asperità:

[...] ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è

tale è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di

quelli si ha da servir per iscorta. Né perciò io dico che non si deva ascoltare

Aristotele, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il

darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto [...]190.

Il costume talare di Copernico indossato da Galileo con quella specie di

ostensorio in mano corrispondeva visivamente alla rivendicazione di

religiosità intonata nella dedica del libro al granduca Ferdinando II, in cui

Galileo sviluppava l'ammirazione del De Revolutionibus per la divina

geometria circolare dei cieli. Anche la dedica di Galileo sembrava offrire il

Dialogo, più che al granduca di Firenze, a Dio con parole da Salmo:

[...] volgersi al gran libro della natura, che è 'l proprio oggetto della filosofia, è

il modo per alzar gli occhi: nel qual libro, benché tutto quel che si legge, come

fattura d'Artefice onnipotente, sia per ciò proporzionatissimo, quello

nientedimeno è più spedito e più degno, ove maggiore al nostro vedere,

apparisce l'opera e l'artifizio191.

Ma l'antiporta era una scena di teatro. Nel corso sempre della Seconda

Giornata, Galileo si produceva a più riprese in quello che oggi

chiameremmo una tecnica di traniamento. Ricordava al lettore di essere a

teatro e che lui era solo l'interprete di Copernico. Un conto era recitare la

parte copernicana, altro conto era essere di parte copernicana:

Prima che proceder più oltre, devo dire al signor Sagredo che in questi nostri

discorsi fo da copernichista, e lo imito quasi a sua maschera, ma quello che

internamente abbiano in me operato le ragioni che par ch'io produca in suo

favore, non voglio che voi lo giudichiate dal mio parlare mentre siamo nel

fervor dela rappresentazione della favola, ma dopo che avrò deposto l'abito, che

forse mi troverete diverso da quello che mi vedeste in scena192.

Galileo in costume da Copernico evocava l'impegno drammatico o

letterario con cui nel Dialogo si propugnava la teoria del cattolico Copernico

190 Ivi, p. 138. 191 Ivi, p. 27. 192 Ivi, p. 157-158.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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della quale profittavano gli astronomi protestanti mentre per i cattolici essa

era ancora all'Indice. Quel travestimento da teatro corrispondeva

precisamente, nel testo, alla prefazione «Al discreto lettore» in cui Galileo

sottoscriveva pubblicamente gli accordi da lui pattuiti con il pontefice e le

autorità inquisitoriali, ossia di sostenere: «la parte Copernicana procedendo

in pura ipotesi matematica, cercando per ogni strada artifiziosa di

rappresentarla superiore [...]»193

.

Ma era solo teatro, si ripeteva nel testo: «io, nel cercar ora di soddisfare

alla vostra domanda, non so con quale delli due abiti sia per comparir in

scena»194

. Ed ancora:

io, che sono indifferente tra queste opinioni, e solo a guisa di comico mi

immaschero da Copernico in queste rappresentazioni nostre, non ho mai

veduto, né mi è parso di veder, cader quel sasso altrimenti che a

perpendicolo195.

L'idea che brandiva la Seconda Giornata era quella della caduta

verticale di tutti i corpi tanto sulla terra quanto su una nave in corsa. La

pietra e la pallottola vicine erano il simbolo della vanità di ogni esperienza

meccanica di deviazione delle traiettorie di discesa. Il sovrastante modellino

della teoria delle maree evocava che la vera prova del moto terrestre era

quella interna del naturale flusso e reflusso del mare scoperta dall'autore.

Simmetricamente, il simbolo delle presunte prove fisiche

dell'immobilità terrestre era la freccia davanti al personaggio di Tolomeo,

ossia l'icona della freccia di Aristotele. Non ha un corrispondente preciso nel

testo, invece, l'immagine della faretra di frecce che Della Bella aveva

disegnato ai piedi del personaggio di Aristotele. In questo contesto di

scherno e di polemica, non si può però non ricordare che una faretra buttata

nella sabbia era solitamente l'immagine di una resa sul campo196

.

Quanto ai due gusci disegnati dalla parte opposta della spiaggia,

verosimiglianza vuole che non possano essere letti naturalisticamente come

conchiglie portate dal mare. Mezzo braccio di ampiezza di marea a Livorno,

tre braccia di marea a Venezia non bastavano a lasciare conchiglie allo

scoperto197

.

Se poi, come parrebbe, Della Bella aveva disegnato un guscio di ostrea

193 Ivi, p. 30. 194 Ivi, p. 247. 195 Ivi, p. 310. 196 Cfr. Ps.l0, 3: «paraverunt sagittas suas in pharetra». 197 Cfr. Opere, VII, p. 390.

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Pietro Redondi

60

e uno di lumaca di mare è ben più probabile che anche questa immagine

avesse un referente preciso nel testo e raffigurasse in antiporta i «pesci

ostreacei» e la lumaca di padre Scheiner che Galileo scriveva essergli

rimasti sullo stomaco: «quei pesci e quelle lumache in parte mi avevano

conturbato». Ciò che restava delle dimostrazioni fisico-matematiche

dell'immobilità terrestre pubblicate dall'università dei gesuiti di Ingolstadt

erano quegli avanzi buttati via.

L'eccezione alla regola era la figura di nave immobile alla fonda dise­

gnata sullo sfondo. Nulla diceva quella statica nave all'ormeggio di un libro

che non faceva che descrivere il «muoversi perpetuamente» delle navi in un

frenetico andirivieni destrogiro e levogiro: da Venezia ad Alessandretta e

ritorno, e «dallo stretto di Magaglianes, per il mar Pacifico, per le Molucche,

per il capo di Buona Speranza, e di lì, di nuovo per il mar Pacifico [...]»198

.

Questa non era però una figura di nave specificamente concepita per l'anti­

porta, bensì un'anonima immagine di serie. Della Bella lavorava infatti

allora ai disegni preparatori della sua serie Vedute di porto (1634) e di figure

di velieri fermi alla fonda identici a questo ne sfornava a ripetizione.

Da quel cliché, va detto, più tardi l'artista si riscattò completamente.

Vent'anni dopo, quando il principe e futuro cardinale Leopoldo de' Medici

conferì a Della Bella l'importante compito di incidere una nuova antiporta

galileiana, destinata a presentare l'edizione postuma delle Opere dello

scienziato.

Pubblicata a Bologna nel 1656, era la prima edizione dell'opera

galileiana quasi completa: tutti i suoi libri, più l'inedito trattato Le

meccaniche, meno la Lettera a Cristina e meno il Dialogo. La burlesca

antiporta del Dialogo non aveva infatti portato fortuna a quel libro,

condannato all'Indice nel 1633 e che aveva valso a Galileo l'umiliazione di

abiurare il copernicanesimo199

.

La seconda antiporta galileiana di Stefano Della Bella

198 Ivi, p. 161. 199 Cfr. Opere di Galileo Galilei Linceo in questa edizione insieme raccolte [...] e divari

trattati dell'istesso autore non più stampati accresciute, Bologna, per gli her. del Dozza, 1656.

Il primo volume conteneva il Compasso, i Galleggianti, le Meccaniche. Il secondo il Sidereus

Nuncius, le Macchie solari, il Saggiatore e i Discorsi. Cfr. Antonio Favaro, Amici e corrispondenti di Galileo XXIX. Vincenzo Viviani, rist. a cura di Paolo Galluzzi, Firenze,

Salimbeni, 3, p. 1106-1108; Le Opere dei discepoli di Galileo, a cura di Paolo Galluzzi e

Maurizio Torrini, Carteggio, Firenze, Giunti Barbera, 1975, 2, p. VIII­ XII; Michaèl Segre, In the Wake of Galileo, New Brunswick, Rutgers University Press, 1991, p. 104-106 (trad. it. Nel

segno di Galileo, Bologna, il Mulino, 1993).

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

61

Era altrettanto allegorica della prima, questa figura d'antiporta del

1656, ma di segno più austero e di composizione chiaramente strutturata. Le

immagini allegoriche erano infatti qui nettamente distinte dall'iconografia

scientifica, allineando le une tutte sul lato destro e le altre su quello sinistro

della figura (fig. 18).

Al centro era raffigurato l'autore delle Opere inginocchiato in posa da

penitente. Il ritratto che ne dava Della Bella era quello di un Galileo alla fine

della sua vita. Era lui in carne ed ossa senza più maschere. E questa volta era

lui ad essere un grande anziano come l'Aristotele del Dialogo. E come per

un altro impressionante contrappasso, era questa volta Galileo ad essere

cieco. Come Democrito, l'aveva consolato Gassendi: «[...] come Democrito

che indagò la natura delle cose più profondamente e più abilmente di tutti i

filosofi (che sia vero o inventato ciò che si dice della sua cecità)»200

.

Sulla destra della figura incombeva una architettura romana. Seduto su

una tribuna marmorea un terzetto di allegorie muliebri: in mezzo, guarnita di

ali e stringente in grembo la sfera armillare di Tolomeo, l'Astronomia. Alla

sua sinistra e con in mano un compasso la Geometria. In primo piano, con la

mano su un libro, la Filosofia naturale. Per via del telescopio che teneva, il

catalogo De Vesme dell'opera di Della Bella proponeva di identificare in

questa figura muliebre l'Ottica, e così anche Panofsky e i successivi

commentatori. Ma l'ottica era una disciplina del tutto trascurata nelle Opere

galileiane. Invece, un libro in mano era il classico attributo iconografico -

come sul frontespizio del Saggiatore - dei filosofi e della loro disciplina201

.

Sul fianco della tribuna si intravedeva in un tondo la figura di un alato

trombettiere, a memoria del Nunzio celeste che era stato l'orgoglio delle

novità celesti per Galileo e i Medici. Il vero Galileo era però quello,

penitente, che Della Bella raffigurava nell'atto di offrire il proprio

cannocchiale alla Filosofia naturale. Era questa l'immagine-chiave

dell'antiporta delle Opere: Galileo che invitava la filosofia a puntare il

cannocchiale là dove Della Bella aveva disegnato in forma tridimensionale

un teatrale cosmo risplendente di luci.

Da Panofsky in qua, tale immagine è stata letta in chiave di rivincita

copernicana, come se Della Bella vi avesse dissimulato un sistema

200 Gassendi a Galileo, 13.10.1637, in Opere, XVII, p. 197-199, in particolare p. 198,

trad. mia. 201 Cfr. De Vesme, Le peintre-graveur, p. 255, n. 965; Panofsky, More an Galileo,p. 183.

V. Pierre Verdier, L'iconographie des arts libéraux, in Arts libéraux et philosophie au Moyen

Age, Montréal, Institut d'études médievales, 1969, p. 305-356, in particolare p. 328.

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Pietro Redondi

62

eliocentrico sotto le sembianze di uno stemma a sei globi dei Medici202

.

Effettivamente, la disposizione dei pianeti poteva ricordare l'emblema

mediceo. Ma da qui a dire che era un sistema eliocentrico, però, ce ne passa.

Anche in questo caso era stata la descrizione del catalogo De Vesme a

suggerire a Panofsky di vedere «[Galileo che] con una mano mostra il sole

coperto di macchie e circondato da sei pianeti disposti un po' come i sei

globi dello stemma dei Medici, e con l'altra mano offre il telescopio»203

.

In realtà, al centro del cosmo Della Bella aveva disegnato la terra,

riconoscibile dai profili continentali ed oceanici di fantasia204

. Del sole si

vedeva amplificato solo lo spettacolare irraggiamento sprigionantesi

tutt'intorno al bordo della terra che lo schermava. Ciò che Della Bella aveva

disegnato in mezzo a quel sistema planetario era un'eclisse totale di sole

quale si poteva immaginare di vederla dalla luna (fig. 19).

Il che rendeva indecidibile se fosse la terra oppure il sole al centro. Ai

sensi di quella figura, si poteva vedere a piacere quel cosmo come un

sistema geo-eliocentrico oppure eliocentrico: una figura ambivalente. Come

lo sono oggi le figure della psicologia della Gestalt in cui un osservatore

vede la figura di un coniglio ed un altro quella di un'anatra senza che

nessuna delle due sia più vera dell'altra.

A questa doppia percezione si conformavano i restanti sei pianeti

intorno a quella congiunzione fra la terra e il sole. In cima a tutti il sistema

di Giove scoperto da Galileo e da lui dedicato ai Medici. In opposizione ad

esso il pianeta Saturno con due satelliti come visti da Galileo e ormai

riconosciuti come anelli. Ai lati erano raffigurati con la luna i tre altri

pianeti, due con fasi di tipo lunare, ossia Mercurio e Venere, e invece Marte

con le fasi molto esigue al pari di quelle di Giove e Saturno.

Per capire i valori che questa immagine dell'astronomia galileiana

comunicava ai contemporanei, dobbiamo sforzarci di contestualizzarla.

Il principe Leopoldo de' Medici aveva voluto che le Opere galileiane

202 Panofsky vedeva macchie solari e pensava che per camuffare il sistema copernicano

da stemma mediceo a sei globi Della Bella avesse sacrificato un pianeta: «questo

riarrangiamento araldico del sistema solare autorizzava Della Bella a ridurre il numero dei

pianeti a sei e a porre il sole al centro», More on Galileo, p. 185. Le figure delle macchie del sole stampate nell'!storia delle macchie solari (1613), ripubblicata nelle Opere, escludono di

scambiarle per le linee continentali della terra disegnate qui da Della Bella. Quanto

all'omissione di un pianeta, Della Bella ne aveva disegnati sette, inclusa la terra al centro. 203 De Vesme, Le peintre-graveur italien, p. 255, n. 965, cfr. Panofsky, More on Galileo,

p. 183. 204 Una simile immagine della terra con linee continentali di fantasia e una simile figura

di eclisse solare furono riprese anche in Athanasius Kircher, Mundus subterraneus,

Amstelodarni, J. e E. Weyerstraten, 1664: cfr. Enciclopedismo in Roma barocca, fig. 25.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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uscissero a Bologna con antiporta di Della Bella perché Bologna era sede di

una prestigiosa scuola scientifica dei gesuiti. Qui cinque anni prima era

uscito l'Almagestum novum del padre Giovambattista Riccioli, con la sua

messe di osservazioni: le fasce del pianeta Giove; gli anelli di Saturno; le

osservazioni cometarie. E soprattutto la scoperta che i pianeti Mercurio e

Marte avevano anch'essi le fasi, più o meno sensibili in funzione della loro

vicinanza alla terra. Di qui la più accurata versione della teoria planetaria

geo-eliocentrica che Riccioli ne aveva ricavato: con Mercurio, Venere e

Marte intorno al sole, e la luna, Giove e Saturno ruotanti intorno alla terra205

.

Le fasi dei pianeti rendevano obsoleto il sistema di Tycho Brahe, come

le leggi di Keplero delle orbite ellittiche quello di Copernico. A passi da

gigante l'astronomia di osservazione rendeva anacronistiche le indecidibili

discussioni di principio sui massimi sistemi. Un grande mecenate cattolico

della scienza quale il principe Leopoldo, creatore dell'Accademia del

Cimento, lo sapeva bene206

.

A solo quattordici anni dalla scomparsa di Galileo, la sua fisica

copernicana dei moti della terra era caduta nel discredito. Fin dal 1646 il

fisico gesuita padre Niccolò Cabeo aveva confutato la teoria delle maree del

Dialogo207

. Tutti gli esperimenti di fantasia della Seconda Giornata sulla

naturale comunione circolare delle cose, l'Almagestum novum di Riccioli li

aveva polverizzati con un argomento scientificamente provato e che i gali­

leiani non potevano contestare. Ossia che se la terra ruotava e quindi tutti i

corpi scendevano lungo un cerchio con velocità uniforme, come il Dialogo

insegnava contro Scheiner, dovevano cadere con la stessa velocità, e dunque

con la stessa forza di impatto. Ora, gli esperimenti condotti a Bologna da

205 Sulla cultura gesuitica bolognese cfr. Dall'isola alla città. I gesuiti a Bologna, a cura

di Gian Paolo Brizzi-Anna Maria Matteucci, Bologna, Cassa di Risparmio-Nuova Alfa Ed.,

1988; Ivana Gambaro, Astronomia e tecniche di ricerca nelle lettere di G. B. Riccioli ad A.

Kircher, «Quaderni del Centro per la storia della tecnica del CNR», 15 (1989), p. 77-81; Anatomie accademiche, a cura diAnnarita Angelini, III, Bologna, il Mulino, 1993, p. 51-54;

Ugo Baldini, La formazione scientifica di Giovanni Battista Riccioli, in Copernico e la

questione copernicana in Italia: dal XVI al XIX secolo (Ferrara, 1993), a cura di Luigi Pepe,

Firenze Olschki, 1996, p. 123-182; Denise Aricò, Scienza, teatro e spiritualità barocca. Il

gesuita Mario Bettini, Bologna, il Mulino, 1996; Battistini, Galileo e i gesuiti, p. 239-281. 206 Cfr. Paolo Galluzzi, L'Accademia del Cimento: 'gusti' del Principe, filosofia e

ideologia dell'esperimento, «Quaderni storici», 48 (1981), p. 788-844. 207 Niccolò Cabeo, In quatuor libros Meterologicorum Aristotelis Commentaria, Romae,

Corbelletti, 1646, liber Il, p. 60 ss; l, p. 92 ss sulle scoperte di meccanica del Dialogo. Cfr.

Gabriele Baroncini, L'insegnamento della filosofia naturale nei collegi italiani dei gesuiti

(1610-1670): un esempio di nuovo aristotelismo, in La Ratio studiorum. Modelli culturali e pratiche educative dei gesuiti in Italia fra Cinque e Seicento, a cura di Giampaolo Brizzi,

Roma, Bulzoni, 1981, p. 163-215; Dear, Discipline and experience, p. 64-70.

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Pietro Redondi

64

Riccioli avevano accertato mediante la forza di impatto che l'accelerazione

era invece tanto maggiore quanto maggiore era l'altezza di caduta. Il che

dimostrava sperimentalmente che la terra era immobile.208

E questo era solo una delle quarantanove confutazioni e settantasette

prove che l'Almagestum novum produceva contro il moto della terra. Incluse

citazioni patristiche e scritturati che dopo la condanna di Galileo erano di

rigore209

. L'insegnamento di valore generale che ne ricavava l'astronomo

bolognese era che Galileo avrebbe potuto fare altre scoperte come quelle dei

pianeti medicei e la legge dell'accelerazione, se avesse accolto

l’ammonizione del cardinale Bellarmino a considerare come una pura

ipotesi il moto della terra.

Affronto supremo, l'Almagestum novum aveva reso pubblici i

documenti giudiziari: le correzioni da farsi al libro di Copernico, il testo

della sentenza di condanna di Galileo, ed anche quello dell'abiura210

. E dal

giorno in cui i gesuiti avevano pubblicato quell'abiura, per Galileo era

incominciata la sua redenzione cattolica.

L'incisione di Della Bella esprimeva visivamente ciò che Vincenzo

Viviani diceva a parole nel testo previsto per fare da introduzione delle

Opere.

Essendosi già il signor Galileo per altre sue ammirabili speculazioni con

immortale favor sin al cielo innalzato, e con tante novità acquistatosi tra gli

uomini del divino, permesse l'Eterna Providenza ch'ei dimostrasse l'umanità

sua con l'errare, mentre nella discussione dei due sistemi più aderente all'ipotesi

copernicana, già dannata da S. Chiesa come repugnante alla Divina

Scrittura[...] et in breve (essendogli dimostrato il suo errore) retrattò, come vero

cattolico, questa sua opinione; ma in pena gli fu proibito il suo Dialogo211.

Del suo orgoglio metafisica Galileo si era pentito e aveva fatto atto di

208 Cfr. Giovanbattista Riccioli, Almagestum novum astronomiam veterem novamque

complectens [... ]in tres tomos distributam, t. l, pars 2, Bononiae, Haer. V. Benatij, 1651, p.

401. Cfr. Koyré, Chute des corps, p. 79-83; Galluzzi, Copernico contro Galileo, p. 130-148. 209 Cfr. Riccioli, Almagestum novum, p. 479-486. 210 Ivi, p. 494-500, in particolare p. 499. Prima di Riccioli aveva pubblicato la sentenza

del '33 anche Jean Baptiste Morin, Tycho Brahaeus in Philolaum pro telluris quiete (1642). Cfr. Michel Lerner, Pour une édition critique de la Sentence et de l'Abjuration de Galilée, «Revue

de sciences philosophiques et théologiques», 82 (1998), p. 607-630. 211 Vincenzo Viviani, Racconto istorico della Vtta del signor Galileo Galilei, in Opere,

XIX, p. 617. La pubblicazione del Racconto istorico fu rinviata ad una ulteriore edizione

galieiana a Firenze ed uscì nei Fasti consolari dell'Accademia fiorentina di Salvino Salvini nel

1717. Cfr. Segre, In the Wake of Galileo, p. 107-126; Paolo Galluzzi, I sepolcri di Galileo, in Il Pantheon di Santa Croce a Firenze, a cura di Luciano Berti, Firenze, Cassa di Risparmio di

Firenze, 1993, p. 145-182, in particolare p. 150-151.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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contrizione. Perdonarlo in nome dei suoi apporti positivi era il passo che

toccava ai gesuiti di compiere ora.

L'antiporta delle Opere si era ispirata al frontespizio dell'Almagestum

novum, dal quale aveva ripreso l'immagine delle fasi dei pianeti o quella di

Tolomeo a terra - come Galileo in ginocchio - e accompagnato dalla

didascalia Erigor dum corrigor (Mi rialzo correggendomi); o come

l'immagine del telescopio, strumento prediletto dall'iconografia scientifico-

filosofica gesuita per simboleggiare la verità conoscitiva dei sensi212

. (fig.

20).

Ma sull'antiporta di Riccioli era anche disegnato un sole senza macchie.

E così anche Della Bella non rivangava la scoperta galileiana di quelle

macchie che, dopo epiche polemiche con i gesuiti, il Dialogo aveva

riproposto come una prova copernicana, e il sole lo disegnava eclissato213

.

L'immagine del cosmo ambivalente era dunque lo specchio di una

strategia apologetica mirante alla riconciliazione con i principali avversari

dello scienziato fiorentino. I sistemi del mondo erano instabili, modificabili.

Certi erano solo i dati osservativi dei sensi, degli strumenti, delle misure.

Dalla copertina delle Opere galileiane quella doppia figura del cosmo

comunicava un effetto persuasivo di sdrammatizzante disimpegno

antologico. Era tutto merito di Della Bella o di Viviani, la grafica di un

doppio sistema del mondo così?

No, perché a disegnare prima di loro un doppio sistema astronomico

con la terra e il sole congiunti al centro era stato Giordano Bruno, nella

figura della Cena che aveva visto Scheiner e Galileo confrontarsi. Per

madornali che fossero i suoi errori astronomici, nel Dialogo Galileo aveva

fatto schermo alla memoria di Bruno. E adesso Bruno lo ricambiava,

offrendo alla causa della riabilitazione cattolica di Galileo quella figura

astronomica da teatro. Perché no, se poteva servire almeno a far seppellire

da cristiano uno come Galileo, e non come lui.

212 Cfr. Anatomie accademiche, III, p. 49. Sull'antiporta dell'Almagestum novum la

bilancia di Astrea pendeva a favore del sistema di Riccioli. A sinistra, la figura del telescopio in

mano ad un uomo dal corpo cosparso di occhi riprendeva la simbologia gesuitica della

conoscenza sensibile raffigurata da Rubens sulle opere di ottica matematica del padre François de Aguilon, Opticorum libri sex (1613), cfr. August Ziggelar, François de Aguilon S.J. Scientist

and Architect, Roma, Institutum Historicum S. J., 1983. 213 Cfr. David Topper, Galileo, Sunspots, and the Motions of the Earth, «lsis», 90 (1999),

p. 757-767.

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Pietro Redondi

66

La nave di Galileo

Come si è detto, l'iconografia propriamente scientifica era sul lato

sinistro dell'antiporta. Della Bella aveva qui riunito un'antologia di quattro

figure della fisica galileiana. Scaglionate in prospettiva, le si vedevano

uscire all'esterno del palazzo in primo piano per immergersi nella natura fino

a raggiungere il mare aperto disegnato sullo sfondo. E nel passare

dall'interno all'esterno quelle figure da puri grafici geometrici diventavano

via via più realistiche e più mobili.

In primo piano, si vedeva il grafico della legge dell'isocronismo dei

pendoli stampata nel Dialogo. Dietro di esso era riprodotta l'immagine della

colonna spezzata risalente alle dimostrazioni sulla resistenza dei materiali

dei Discorsi. Più lontano, si vedeva il tiro di un proiettile da una batteria

costiera con relativo servente al pezzo, versione in chiave realistica delle

discussioni balistiche della Seconda Giornata del Dialogo.

Da ultimo si vedeva l'immagine di una nave che questa volta filava con

tutte le vele spiegate su un mare liscio come l'olio, come Galileo postulava

che la si doveva immaginare: «una nave che vadia muovendosi per bonaccia

di mare»214

. Il Dialogo condannato non era ripubblicato nelle Opere, ma

sulla loro antiporta apparivano in primo piano le sue figure di fisica. In

particolare, quella immagine di nave che correva era il marchio della fisica

copernicana di Galileo.

Dopo la condanna del Dialogo e la rinuncia di Descartes a divulgare la

meccanica cosmica del suo Le Monde, la fisica del moto della terra si era

appiattita da una parte e dall'altra sull'empirismo di sempre. Era la

concretezza dei sensi che tornava a volersi chiamare filosofia naturale. La

grande stagione dei dibattiti di fisica cosmologica dei Bruno, Scheiner,

Kepler, Galileo era tramontata.

Gli aristotelici avevano fatto la prova dell'immobilità della terra

realizzando a Parigi l'esperimento della nave di Bruno, messo

realisticamente in scena dal matematico Jean Baptiste Morin facendo cadere

una pietra da un ponte della Senna e un'altra dall'albero di un battello che vi

passava sotto, come prescritto nella Cena215

. Gli altri si erano quindi

214 Opere, VII, p. 174. 215 Cfr. Jean Baptiste Morin, Responsio pro Telluris quiete. Ad lacobi Lansbergii

Doctoris medici Apologia pro Telluris quiete, Parisiis, sumptibus auctoris, 1634, p. 55-56. Cfr.

Daniel Massa, Giordano Bruno and the top-sail experiment, «Annals of Science», 30 (1973), p.

209. La realizzazione dell'esperimento di Bruno a Parigi da parte di Morin confutava Philip Van Lansberg, Commentationes in motum terrae diurnum et annuum, Middleburg, 1630, p. 10,

cit. in Galileo, Dialogo, ll, p. 426.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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incaricati di accertare l'esperimento della nave di Galileo, a bordo di galere a

remi, per verificare la verticalità della caduta dalla cima dell'albero di

proiettili di moschetto - come aveva fatto il senatore Baliani nel mare di

Genova - oppure di pietre, come fatto da Gassendi nel Porto vecchio di

Marsiglia216

.

La nave di Galileo che viaggiava a vele spiegate nella bonaccia

ricordava un altro modo di fare fisica del moto della terra. Era la stessa

figura resa verbalmente dal De Revolutionibus di Copernico, quando per

spiegare l'illusione di vedere gli astri ruotare intorno alla terra a causa del

suo muoversi, aveva trascurato la classica dimostrazione matematica della

relatività ottica che offriva la Perspectiva di Witelo217

e preferito seguire la

raccomandazione della Poetica di Aristotele di puntare a una veritiera

astrazione immaginativa:

Perché non ammettiamo piuttosto che in cielo è l'apparenza della sua

quotidiana rivoluzione, e in terra la sua verità? Riconosciamo che le cose

stanno come quando parla l'Enea di Virgilio, dicendo:

Salpiamo dal porto e le terre e le città si allontanano.

Giacché quando una nave viaggia nella bonaccia, i naviganti vedono tutte le

cose che sono fuori di essa muoversi ad immagine del suo movimento e,

inversamente credono se stessi e tutto ciò che hanno con sé in riposo. Così di

certo può accadere per il moto della terra, in modo che si creda che tutto quanto

il mondo giri attorno ad essa218.

Due anni dopo, era la volta di Rabelais, nell'Epistre à Jacques Bouchet

traictant des ymaginations:

Al nostra mente appare vero

Ciò che vero non è ed il senso non crede.

Né più né meno che a quelli che navigano.

Passando da un luogo all'altro in nave

Sembra di vedere a causa della riva,

E delle alte onde, gli alberi della riva

Muoversi, procedere e danzare,

216 Cfr. Bernard Frénicle à Mersenne, 7.6.1634, in Correspondance du P. Marin

Mersenne, Paris, Puf, 4, p. 169-170; Giovambattista Baliani a Galileo, 16.9.1639, Opere, XVIII, p. 103; Pierre Gassendi, De motu impresso a motore translato (1642), in Opuscula

Philosophica, Opera Omnia; III, pars VII, Lugduni, Anisson, 1658 (repr. Stuttgart-Bad

Cannstatt, 1964), p. 478 ss. 217 Cfr. Witellionis Opticae libri decem, ed. Basileae 1572, liber IV, 110, p. 167. 218 De Rev., I, VIlI, trad. it. cit., p. 199 s.

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Ciò che non si può credere e che non si può pensare219

Nel 1578 era intervenuta da parte aristotelica la Sepmaine di Du Bartas:

Tai fan al parer mio questi scrittori,

Che pensan non il Cielo muoversi, e gli Astri,

Girando ogn'hor: ma che la terra faccia

Ogni dì naturale un giro intero:

[...]

Par lor di veder, del porto uscendo

La Nave starsi e discostarsi il lido.

Se ciò fosse e sarièn gli etherei lumi

Ogn'hor distanti con egual misura:

Lo strale, che, scoccato in aere poggia,

Su 'l nostro capo non cadre' diritto,

Ma gli avverria come a gittata in alto

Pietra da proda di solcante nave,

Che sopra a lei non scende: anzi ove corre

Rapido il fiume, cade in mezzo à l'onde [...]220

A differenza del bisogno assoluto che i Morin, Baliani, Gassendi

avevano di toccare con mano le apparenzereali dell'invisibile moto della

terra, nel secolo precedente, ai Copernico, Rabelais e Du Bartas era stato

possibile pensare di ridescrivere idealmente e in astratto le relazioni

empiriche fra uno spettatore terrestre e quello che egli vedeva perché nella

loro cultura era passato Lucrezio:

La ragione dello spirito deve da sola risolvere il problema,

E gli occhi non possono conoscere le leggi della natura:

Non imputare alla vista l'errore dello spirito.

La nave che ci porta avanza pur sembrando immobile;

Quella che resta all'ancora, sembra spostarsi.

Lungo la poppa crediamo di veder fuggire le pianure e le colline,

Che con tutte le vele al vento, il vascello supera nel suo volo221.

219 «Et nos espritz, que vray nous apparoist l Ce que vray n'est et que noz sens ne croyst, /

Ny plus ne moins qu'à ceulx qui sont sur l'eau / Passans d'un lieu à l'autre par bateau, / Il semble

advis à cause du rivage, / Et des grands floz, les arbres du ryvage / Se remuer, cheminer, et

dancer, / Ce qu'on ne croyt e qu'on ne peult penser [...]», Epistre à Bouchet (1524), in Epitres morales et familières, Poitiers, 1545, cfr. François Rabelais, Oeuvres complètes, ed. par

Mireille Huchon avec la collaboration de François Moreau, Paris, Gallimard, 1994, p. 1022-24,

35-41, trad. mia. 220 La Divina Settimana, p. 60-61. 221 «Hoc animi demum ratio discernere debet, / Nec possunt oculi naturam noscere rerum.

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La nave di Bruno e la pallottola di Galileo: uno studio di iconografia della fisica

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Il vascello con tutte le vele al vento di Lucrezio; la nave di Oresme; la

nave virgiliana di Copernico; la nave fluviale di Rabelais e poi di Bruno; il

«gran navilio» di Galileo erano figure slegate e indipendenti fra loro, oppure

erano i tasselli di un mosaico che lascia trapelare fino a noi una storia

sconosciuta di quella che non si potrebbe chiamare altrimenti che una

poetica della fisica?*

/ Proinde animi vitium hoc oculis adfingere noli. / Qua vehimur navi, fertur, cum stare videtur; /

Quae manet in statione, ea praeter creditur ire./ Et fugere ad puppim colles campique videntur

quos agimus praeter navem velisque volamus», Lucr., De rerum nat., 4, 386-390, in Lucrezio, La natura, p. 261.

*Ringrazio Annarita Angelini, Gianfranco Anzini, Gabriele Baroncini, Ernest Coumet,

Giancarlo Nonnoi, Dario Tessicini, Annalisa Scardovi della Biblioteca dell'Archiginnasio di

Bologna e Aldo Coletto della Biblioteca di Brera di Milano.

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2. G. Bruno, La Cena, p. 75.

1. G. Bruno, La Cena de le

ceneri, 1584, p. 79.

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3. Ch. Clavius, In Sphaeram Ioannis de Sacrobosco, 1570, p.45.

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5. Ch. Scheiner, Disquisitiones

mathematicae, 1614, p.34.

4. Ch. Scheiner, Disquisitiones

mathematicae, 1614, p.30.

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6. G. Bruno, La Cena, p. 98.

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8. N. Copernico, De Revolutionibus,

1543, I, 10.

7. Th. Digges, A perfit Description

of the Coelestiall Orbes, 1576.

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75

10. G. Galilei, Dialogo, 1632, p. 169.

9. G. Galilei, Dialogo sopra i due

massimi sistemi, 1632, p. 159.

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11. S. Della Bella, Antiporta del Dialogo, 1632.

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13. Raffaello, La Scuola d’Atene, 1510,

particolare.

12. Giorgione, I tre filosofi.

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15. Ph. Van Lansberg, Tabulae motuum

caelestium, 1632.

14. J. Kepler, Tabulae Rudolphinae, 1627.

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17. G. Galilei, Systema

cosmicum, 1641.

16. S. Della Bella, Antiporta del

Dialogo, particolare.

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18. S. Della Bella, Antiporta delle Opere di Galileo, 1656.

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20. G.B. Riccioli, Almagestum

novum, 1651.

19. S. Della Bella,

Antiporta delle Opere,

1656, particolare.