Esposito vs Galli Della Loggia - Il Neoliberismo
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*■ 45
MARTEDÌ 7 GENNAIO 2014
la Repubblica
CULTURA
Il neoliberismo è in ritirata o la suaegemonia resta intatta? È quantoè stato chiesto in una recente in-tervista a John Bellamy Foster, di-rettore della Monthly Review ed
autore, con Robert McChesney, di End-less Crisis, edito dalle edizioni della rivi-sta. Non si può dire che le sue rispostesiano risolutive. Sostenere che l’attualeregime neoliberale è il prodotto delgrande capitale, del grande governo edella grande finanza su scala globale èpiù che ragionevole, ma non sufficien-te. Restano aperte molte domande. Ilpeso che ha assunto l’economia finan-ziaria è il frutto di un ritiro delle politi-che governative o delle loro scelte? E itentativi di regolamentazione dei mer-cati che già nel 2009 hanno fatto parla-re di “ritorno dello Stato” come vannointesi? Come riflusso del neoliberismoo come sua ristrutturazione sotto altrevesti?
Per orientarsi in questa selva di que-stioni bisogna intanto intendersi sul si-gnificato del termine. In proposito ri-sulta assai utile l’ampia ricerca elabora-ta da Pierre Dardot e Christian Laval inun volume adesso tradotto da DeriveApprodi col titolo La nuova ragione delmondo. Critica della razionalità neoli-berista, a cura di Paolo Napoli. La lorotesi di fondo è che la crisi in corso, lungidal comportare un indebolimento del-le politiche neoliberiste, ha portato alloro brutale rafforzamento attraversoforme di austerità incapaci di invertirela logica speculativa dei mercati finan-ziari. La falsa apparenza di una inver-sione di tendenza è nata da una inter-pretazione inadeguata del liberismocome semplice ritiro dello Stato davan-ti alla naturalità del mercato. In questomodo si è confusa l’ideologia della faseeroica del liberismo economico con ilmodo in cui esso si è concretamenterealizzato.
Non solo quello che chiamiamo neo-liberismo — sia nella sua versione au-striaca alla Hayek sia in quella anglo-sassone alla Friedman — non ha maiimmaginato di fare a meno dello Stato,ma ha prodotto esso stesso una praticadi governo. Come ha spiegato per pri-mo Foucault nei suoi corsi ad essa de-dicati, quella neoliberale è una raziona-lità eminentemente governamentale,volta alla direzione delle condotte degliuomini attraverso precise norme com-portamentali. Anche secondo GretaKrippner (Capitalizing on crisis. Politi-cal origins of the rise of finance, HarvardUniversity Press 2012) non sono i mer-cati ad aver conquistato dall’interno gliStati, ma gli Stati ad aver introdotto ilmodello concorrenziale dell’impresain tutte le dinamiche sociali. Da un latoil soggetto individuale è portato a vede-
re in se stesso un capitale umano; dal-l’altro gli Stati competono tra loro nel-l’attrarre gli investimenti delle multi-nazionali abbassando i livelli dei salarie della previdenza sociale.
Ciò — l’estendersi della competiti-vità a principio generale di governo —spiega non soltanto la corsa, apparen-temente suicida, alle politiche dell’au-sterità, ma anche loro accettazione ras-segnata da parte dei Paesi che più nehanno pagato le conseguenze, come laGrecia e il Portogallo. È l’esito del con-senso creato dal governo neoliberista.Esso, tutt’altro che ridursi alla conte-stazione delle regole esistenti, è produ-zione attiva di norme di vita sul pianogiuridico, etico e, prima ancora, antro-pologico. Nel giro di pochi decenni l’in-tera società ne è stata plasmata in unaforma talmente generalizzata da nonessere avvertita in quanto tale. Oggi tut-
ti i rapporti, con gli altri e perfino con sestessi, sono orientati al principio mer-cantile del guadagno. Così, piuttostoche semplice modello economico, ilneoliberalismo si configura come l’in-sieme degli atti e dei discorsi che gover-nano gli uomini secondo il principiodella loro concorrenza. Naturalmentese tale modello appare insuperabilequando l’economia tira, dimostra tuttala sua debolezza quando le cose comin-ciano a non funzionare. C’è un limiteoltre il quale la forbice tra coloro che di-ventano sempre più ricchi e coloro chediventano sempre più poveri si divari-ca al punto di rompere la macchina delconsenso sociale. In questo caso quellache ancora definiamo crisi monetariaassume i caratteri di una vera e propriacrisi sistemica che coinvolge l’interoorizzonte dei rapporti umani.
Come contrastare questo stato di co-
se? Non sono pochi gli storici che ci ri-cordano come le grandi crisi abbianosempre stimolato grandi idee. Comedopo il crack del 1929 è stato inventatoil New Deal e il Welfare, così dal buconero che si è aperto cinque anni orsonovanno nascendo nuove concezioni. Seeconomisti come Krugman, Stiglitz, Fi-toussi, Boeri ritengono sbagliato pen-sare di ripianare i deficit pubblici a col-pi di tagli della spesa sociale, altri arri-vano a rovesciare radicalmente la pro-spettiva dell’austerity. Per esempio Ja-mes W. Galbraith arriva ad assegnareun ruolo produttivo al debito pubblico,se finanziato da banche centrali dispo-ste a comprare senza limiti i titoli di Sta-to emessi dai rispettivi governi. Ciò chetale concezione — derivata dalla mo-dern monetary theory — manda in mil-le pezzi è la pretesa di un’impostazioneeconomica, sposata da molti governieuropei, che si presenta con la dogma-ticità di una nuova religione.
Nel suo libro sul nuovo banditismobancario (Banchieri, Mondadori 2013),Federico Rampini richiama quanto so-stenuto dal filosofo Michael Sandel nelsaggio Quello che i soldi non possonocomprare, tradotto da Feltrinelli. Oggila discussione sui danni sociali dell’altafinanza è circoscritta entro limiti trop-po angusti. Quando si associa l’idea dimercato non solo a quella di benessere,ma anche a quella di libertà, non ci si ac-corge di rimanere subalterni al sistemadi pensiero che ha prodotto la crisi. Cri-ticare l’austerità perché crea più pro-blemi di quanti ne risolva è giusto, manon basta. Se non si aggiunge che essatende a corrodere gli spazi pubblici e lebasi delle istituzioni democratiche. Ilpunto che resta opaco è la differenzache passa tra la “governamentalità”neoliberale e la politica nel significatopiù intenso dell’espressione. Fare poli-tica non vuol dire solo amministrarenella maniera più rimunerativa ciò cheesiste, ma anche volgere lo sguardo allepossibilità contenute nel nostro futuro.
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Il crack non ha affattoindebolito il dominiodella finanza. Però c’èchi vuole capovolgerequesto schema
MORIREMO NEOLIBERISTI (NONOSTANTE LA CRISI)
Non è solo un pensieroegemone: le societàsono ormai plasmatedalla logica del capitale puroMa il dogma vacilla
ROBERTO ESPOSITO
Ilibri
LA CRITICALa nuovaragionedel mondodi Pierre Dardote Christian Laval(Derive Approdi,pagg. 512,euro 27)
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STATOMERCATOvs
art
da pag. 26
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ECONOMIA 14
QUANDO LA PREVALENZADELL'ECONOMIA È UNA SCELTAPOLITICASul Corriere della sera del 20 gennaio Ernesto Galli della Loggia,
interloquendo con un mio precedente articolo su queste pagine del 7
gennaio, apre una discussione di sicuro interesse, centrata sul ruolo del
neoliberalismo nell'attuale crisi, ma allargata ad un orizzonte storico assai
più ampio e profondo. Lo fa con la consueta verve polemica, mescolando
con sapienza notazioni acute e presupposti ideologici. La sua tesi di fondo è
che una certa sinistra "radicale" e "antagonista" assegni all'economia un
ruolo eccessivo, attribuendo al capitalismo effetti perversi che derivano dal
processo di secolarizzazione moderna. Ricerca del guadagno con ogni
mezzo e dominio incontrollato sulla natura sarebbero conseguenze non di
una data politica economica, ma dell'"alambicco faustiano" della modernità
in cui si fondono primato dell'individuo e razionalità tecnico-scientifica. Costi
e benefici della civilizzazione moderna sono dunque talmente intrecciati che
non è possibile evitare gli uni senza rinunciare agli altri. Anziché fare propria
questa amara saggezza - che il nostro male deriva dalla secolarizzazione e
dunque è per molti versi inevitabile - la sinistra radicale se la prende con
avversari di comodo. Posso apprezzare la coerenza interna di questa
prospettiva. Che però va misurata alla prova dei fatti. Mi verrebbe di invitare
Galli della Loggia a fare più storia e meno filosofia. E non perché sia
sbagliato inquadrare questioni contemporanee entro blocchi temporali di
lungo periodo. Fino a quando, però, i paradigmi generali non cancellino le
distinzioni e le discontinuità.
La modernità non è un flusso continuo che scorre dal Quattrocento ai giorni
nostri. Essa ha significato molte cose, spesso in contrasto tra loro. Al suo
interno si sono incrociate, e anche scontrate, politica, economia, tecnica in
vicende alterne. L'uscita dall'orizzonte teologico non ha portato solo
egoismie conflitti, ma anche responsabilità e vita civile. All'interno del
Moderno ci sono fenomeni diversi come l'umanesimo italiano, lo Stato
assoluto, il repubblicanesimo olandese, la rivoluzione francese, il liberalismo
ed il socialismo. C'è la richiesta di libertà, ma anche l'esigenza di
uguaglianza. Non mi sembra che sindacalismo, New Deal e Welfare siano
antimoderni. Schiacciare tale complessità sul primato dell'individuo e il
trionfo della tecnica, mi pare quantomeno riduttivo. Si può dire che i nostri
problemi nascono dalla modernità, ma anche che derivino dal suo mancato
compimento.
Come spesso accade, le cose non si oppongono mai come il bianco al nero,
ma si combinano in una proporzione che poi fa la differenza. Questo vale
anche per quanto è accaduto nell'ultimo settantennio. Che politica ed
economia siano sempre intrecciate è fuori dubbio. Ciò non significa, però,
che i loro rapporti di forza restino immutati. In questo senso il liberalismo
ottocentesco non è lo stesso del neoliberismo.
Due sono state le fratture decisive che hanno segnato la storia di questi
decenni. La prima va individuata alla fine degli anni Settanta, quando in
nome della liberazione da vincoli oppressivi si è smantellato lo Stato sociale
o > la Repubblica.it > 2014 > 01 > 22 > {0}
prima nei Paesi anglosassoni e poi nel resto di Europa. È stato allora che
l'economia è sembrata prevalere fino a spingere la politica ai margini del
quadro.
L'altro passaggio decisivo è stato segnato dal dispiegamento della
globalizzazione, che ha indebolito le prerogative politiche degli Stati
nazionali senza rafforzare - almeno nel caso nostro - quelle del continente
che li contiene. Anch'esso ha contribuito al dominio incontrastato della
logica mercantile, piegata alla finanza e allargata allo spazio globale,
rispetto alle regole che nel primo trentennio del dopoguerra hanno protetto
le fasce più deboli. Certo, neanche allorai regimi occidentali erano "il regno
dell'autenticitàe della solidarietà". Ma mi pare ci sia una differenza tra una
società che si prefigge l'obiettivo della piena occupazione e un'altra che
rende il mercato del lavoro una corrida in cui chi vince prende tutto e chi
perde si può anche suicidare. Nella storia uno stesso fenomeno assume un
senso diverso a seconda del contesto spaziale e temporale in cui si verifica.
Se degli uomini vengono frustati a morte finché annegano in mare non è la
stessa cosa se ciò accade a fine Settecento sulle coste della Virginia o nel
2013 non lontano dalla Sicilia.
Ciò ha a che vedere con la centralità dell'individuo e lo sviluppo impetuoso
della scienza? Forse ha più a che fare con il modo con cui entrambi
vengono intesi e praticati. Personalmente, pur considerando decisiva la
rivendicazione dei diritti individuali, ho sempre insistito sul polo della
comunità.
Quanto poi alla relazione tra tecnica e vita mi esprimerei con prudenza.
Premesso che l'uomo è l'animale tecnologico per eccellenza, sono lontano
dall'idea ingenua che gli enormi problemi che abbiamo di fonte possano
essere risolti dalla tecnica. I cui effetti politici dipendono comunque da
coloro che ne gestiscono gli accessi e il controllo. Essere di sinistra, non so
se "radicale", significa pensare che ciò che ci aspetta non è mai del tutto
determinato da quanto ci precede.
ROBERTO ESPOSITO