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LEZIONE 28A. HARVEY, STORIA DEL NEOLIBERISMO. II. IL CONSENSO AL NEOLIBERISMO SOMMARIO. Costruire il consenso. Il caso degli Stati Uniti. Il caso britannico. Caso statunitense e caso britannico: un bilancio. 28A.1. Costruire il consenso IL PROBLEMA DELLA CREAZIONE DEL CONSENSO E LA COSTRUZIONE DI UN SENSO COMUNE Si è visto come una politica economica finalizzata alla redistribuzione del potere e della ricchezza verso le classi alte è stata in qualche caso imposta con la violenza (in Cile, in Argentina, in Iraq) o col ricatto (nel caso dei paesi in crisi cui è stato imposto l’aggiustamento strutturale). Tuttavia nella maggior parte dei casi e soprattutto nei più ricchi e avanzati paesi del mondo essa è stata realizzata per via democratica, attraverso il consenso della maggior parte degli elettori. Come è potuto avvenire tutto questo? Chi ha creato – insomma – il consenso attorno al neoliberismo e in che modo? Se in Cile e in Argentina le politiche neoliberiste vengono lanciate sulla scia di un colpo di stato militare in paesi di antica tradizione democratica come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti è necessario creare un consenso tale da garantire una vittoria elettorale ampia, che garantisca la possibilità di applicare le nuove politiche senza troppi contrasti. Per creare un consenso di tale portata è necessario quindi costruire un “senso comune”, una visione condivisa da un gran numero di persone, non ragionato e consapevole bensì

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LEZIONE 28A. HARVEY, STORIA DEL NEOLIBERISMO. II.  

IL CONSENSO AL NEOLIBERISMO 

SOMMARIO. Costruire il consenso. Il caso degli Stati Uniti. Il caso britannico. Caso statunitense e caso britannico: un bilancio. 

28A.1. Costruire il consenso 

IL PROBLEMA DELLA CREAZIONE DEL CONSENSO E LA COSTRUZIONE DI UN SENSO COMUNE 

 

Si è visto come una politica economica finalizzata alla redistribuzione del potere e della ricchezza  verso  le  classi  alte  è  stata  in  qualche  caso  imposta  con  la  violenza  (in Cile,  in Argentina,  in  Iraq)  o  col  ricatto  (nel  caso  dei  paesi  in  crisi  cui  è  stato  imposto l’aggiustamento  strutturale).  Tuttavia  nella maggior  parte  dei  casi  e  soprattutto  nei  più ricchi e avanzati paesi del mondo essa è stata realizzata per via democratica, attraverso  il consenso della maggior parte degli elettori. 

Come è potuto avvenire tutto questo? Chi ha creato – insomma – il consenso attorno al neoliberismo e in che modo? 

Se in Cile e in Argentina  le politiche neoliberiste vengono lanciate sulla scia di un colpo di stato militare  in paesi di antica tradizione democratica come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti è necessario creare un consenso tale da garantire una vittoria elettorale ampia, che garantisca la possibilità di applicare le nuove politiche senza troppi contrasti. 

Per creare un consenso di tale portata è necessario quindi costruire un “senso comune”, una visione condivisa da un gran numero di persone, non  ragionato e consapevole bensì 

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fondato su un’intensa opera di convincimento, capace  insomma di creare delle visioni del mondo molto  semplici, molto  solide,  scarsamente attaccabili dal  ragionamento  capaci di suscitare un consenso immediato e duraturo. Per i cittadini degli Stati Uniti, ad esempio, la parola “libertà” suscita subito una  reazione positiva, a prescindere dai contenuti specifici del messaggio. 

Come  si  è  già  accenato  il  consenso  neoliberista  si  costituisce  utilizzando  diversi strumenti. Le parole d’ordine della Mont Pélerin Society vengono veicolate nel corso di una lunga marcia  inziata nel 1947 attraverso  i  ricchi  think  tank  (gruppi di  ricerca privati), dei segmenti  importanti  dei mezzi  di  comunicazione  di massa,  le  cattedre  universitarie,  le chiese,  le  associazioni  professionali.  Da  qui  esse  sono  penetrate  e  hanno  conquistato  i partiti  politici  e  infine  sono  divenuti  slogan  popolari  e  persino  ideologie  di  stato.  La diffusione  del  consenso  al  neoliberismo  è  peraltro  resa  più  difficile  dal  fatto  che  non  è possibile dichiarare apertamente che uno dei fini principali delle nuove politiche – se non il principale – è la ricostruzione del il potere economico di una ristretta élite. 

SCISSIONE DEL LIBERTARISMO DALLA GIUSTIZIA SOCIALE NEI MOVIMENTI DEI SESSANTA 

Un  elemento  essenziale  per  la  costruzione  del  consenso  al  neoliberismo  è  proprio l’insistenza  sull’esperienza  quotidiana,  cioè  sul modo  in  cui  le  persone  percepiscono  se stessi e  la propria vita di  tutti  i giorni. Ed è  indispensabile a questo proposito aggiungere che in gran parte dei paesi sviluppati, compresi diversi di quelli del blocco socialista, gli anni ’60 e ’70 sono stati anni di grandi trasformazioni in questo campo. 

 

Gli anni ’60, in particolare, sono stati attraversati in tutto il mondo da grandi movimenti che  rivendicavano  contemporaneamente maggiori  libertà  personali  e maggiore  giustizia sociale. Ciò che era apparso presto evidente è che queste due rivendicazioni potevano non essere  del  tutto  compatibili,  e  in  alcuni  casi  potevano  confliggere  tra  loro  in  quanto, 

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osserva Harvey, il perseguimento della giustizia sociale presuppone solidarietà sociali e una propensione  a mettere  in  secondo piano  le esigenze,  i bisogni e  i desideri  strettamente individuali nell’ambito di un  impegno più generale, per esempio  in favore dell’uguaglianza sociale o dell’ambiente. 

Con la sua forte enfasi sulla libertà individuale il neoliberismo si rivela appunto in grado di sollecitare e di esaltare la forte spinta di liberazione degli anni Sessanta e di utilizzarla ai propri fini dopo averla separata dalla spinta verso la giustizia sociale. Il desiderio di libertà e di liberazione che così fortemente ha contraddistinto i movimenti degli anni ’60 e ha spinto un  imponente numero di persone e soprattutto di giovani a  lottare contro  l’autoritarismo dello  Stato  e  l’oppressione  dell’impresa  capitalista  ha  avuto  insomma  come  risultato paradossale  il passaggio  in  secondo piano della necessità di disciplina, di  solidarietà e di sacrificio che  la  lotta contro  l’ingiustizia sociale necessariamente  impone. Del grande ciclo di  impegno  sociale  e di  lotte del dopoguerra  è  rimasta dagli  anni  ’80  in poi  soprattutto l’enfasi  sulla  libertà  individuale,  terreno  di  coltura  ideale  per  la  visione  del  mondo neoliberista. 

Due paesi in particolare sono stati prima culla e successivamente focolai planetari della diffusione  del  neoliberismo:  gli  Stati  Uniti  e  la  Gran  Bretagna.  Vale  quindi  la  pena  di ricostruire con maggior dettaglio la vicenda dell’affermazione delle politiche neoliberiste in questi due paesi.  

28A.2. Il caso degli Stati Uniti 

LA BATTAGLIA DELLE IDEE COME BATTAGLIA COLLETTIVA DEGLI IMPRENDITORI USA 

A  partire  dai  primi  anni  ’70  gli  imprenditori  americani  –  con  alla  testa  la  Camera  di Commercio  –  iniziano  un’operazione  di  compattamento  interno,  di  pressione  sul parlamento e di convincimento dell’opinione pubblica. 

Chi ha lanciato questa campagna ha posto subito anche il problema dell’utilizzo a questo fine delle  strutture dello Stato. Per quanto ostili a un’estensione dei compiti dello Stato, essi pensano che  le imprese debbano “coltivare assiduamente” i rapporti con i vari organi dello  Stato  e  usarli  quando  necessario  in  modo  “aggressivo  e  determinato”  al  fine  di riformulare il senso comune in favore del neoliberismo. 

In che modo? 

L’ESPERIMENTO NEWYORKESE 

Un pionieristico e fondamentale esempio del modo di utilizzare il potere dello Stato per allargare l’influenza del neoliberismo è – alla metà degli anni ’70, poco dopo l’esperimento cileno – il caso della crisi fiscale della città di New York. 

Già dagli anni  ’60  la metropoli americana era  in  fase di deindustrializzazione e  le zone centrali erano fortemente impoverite per cui in molte parti della città covava una profonda 

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frustrazione  e dei  sintomi di  rivolta  sociale.  L’amministrazione democratica  aveva quindi stabilito  di  rispondere  alla  crisi  creando  posti  di  lavoro  e  ampliando  l’assistenza  sociale grazie  all’ampia  disponibilità  di  fondi  federali.  Sotto  l’amministrazione  del  presidente repubblicano Richard Nixon una parte consistente di questi fondi era stata tagliata cosicchè si  era  creato  un  grave  squilibrio  tra  le  disponibilità  finanziarie  dell’amministrazione cittadina e le sue spese. 

Per un po’  le  istituzioni finanziarie avevano accettato di colmare  il divario tra entrate e uscite, ma  da  un  certo momento  in  poi  le  banche  –  con  in  testa  la  potente  Citibank  – decidono  di  mandare  coscientemente  la  città  alla  bancarotta  per  poi  assumere direttamente il controllo del bilancio cittadino. Una volta fatto questo esse decidono che gli introiti  dell’amministrazione  cittadina  devono  essere  destinati  anzitutto  a  ripagare  i creditori e solo in seguito, con quanto rimane, si penserà al resto.  

Questa mossa implica immediatamente: 

. la messa sotto controllo dei sindacati municipali  

. il congelamento dei salari 

. drastici tagli alla consistenza del pubblico impiego  

. drastici tagli ai servizi sociali 

. il passaggio di molti servizi fino ad allora gratuiti a pagamento 

. l’obbligo per i sindacati di investire i propri fondi pensione in obbligazioni della città 

Questo insieme di provvedimenti appaiono subito a molti come una sorta di un colpo di stato  contro  il  governo  democraticamente  eletto  della  città  di New  York  da  parte  delle istituzioni  finanziarie e  in effetti ha  la  stessa efficacia e gli  stessi effetti del golpe vero e proprio  precedentemente  compiuto  in  Cile:  nel  bel mezzo  di  una  crisi  fiscale  anche  in questo caso  la ricchezza viene ridistribuita dal basso verso  l’alto. La crisi di New York è  in effetti  sintomatica  di  una  «emergente  strategia  di  disinflazione  accompagnata  a  una ridistribuzione regressiva di redditi, ricchezza e potere», anzi «una battaglia  iniziale,  forse decisiva, di una nuova guerra», che ha lo  scopo di «dimostrare agli altri che ciò che stava accadendo a New York può accadere ‐ come in molti casi in effetti accadrà ‐ anche a loro». 

L’obiettivo  del  colpo  di  mano  si  rivela  in  effetti  quello  di  avviare  in  una metropoli importante  e  prestigiosa  a  livello mondiale  come New  York  un  radicale  esperimento  di ritorno  a  politiche  e  soprattutto  a  rapporti  economici  e  sociali  pre‐rooseveltiani,  pre‐ keynesiani. Il segretario al tesoro del presidente Ford dichiara ad esempio che le condizioni per salvare la città dovrebbero essere “così punitive, l’esperienza complessiva così penosa che nessuna città, nessuna parte politica sarebbe mai stata tentata di percorrere la stessa strada”, cioè di continuare a fare politiche di tipo keynesiano. 

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New York diviene così l’epicentro della neoliberalizzazione della cultura e una delle città simbolo  del  neoliberismo  medesimo.  “Nel  frattempo  –  osserva  Harvey  –  i  banchieri d’investimento ricostruiscono l’economia della città intorno alle attività finanziarie, a quelle ausiliarie come i servizi legali e i media e al consumismo differenziato”. 

 

Come  il Cile,  insomma, ma molto più e soprattutto molto meglio del Cile,  la New York della metà degli anni ’70 divenrta un grande laboratorio di sperimentazione delle politiche neoliberali.  

LA  NEOLIBERALIZZAZIONE  DEL  PARTITO  REPUBBLICANO  E  LA  CREAZIONE  DI  UNA  SOLIDA  BASE 

ELETTORALE: L’ALLEANZA CON LA DESTRA CRISTIANA FONDAMENTALISTA 

Le  attività  della  Camera  di  Commercio  degli  anni  ’70  costituiscono  una  novità  per  il capitalismo  statunitense:  da  imprese  che  tradizionalmente  fanno  pressione  a  titolo individuale riguardo a singole questioni si passa a una potente organizzazione corporativa che si pone degli obiettivi politici generali. E’ evidente  tuttavia che questo non basta per raggiungere un obiettivo ampio e ambizioso come il sovvertimento di politiche economiche che  da  quarant’anni  sono  state  confermate  da  tutti  i  presidenti,  democratici  quanto repubblicani. Serve uno strumento politico ancor più potente ed efficiente. Lo strumento individuato  è proprio  il  Partito  repubblicano,  che  viene  convinto  ad  adottare  la dottrina 

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neoliberista  e  i  cui  candidati  vengono  ampiamente  finanziati  grazie  alla  modifica  dei regolamenti elettorali. 

Mentre  tutto  questo  si  verifica  i  dirigenti  del  Partito  democratico  ‐  tradizionali sostenitori delle politiche di  intervento pubblico  in economia – rimangono perplessi, divisi tra una base  tradizionalmente keynesiana e  il  timore di perdere  l’appoggio delle  imprese che si stanno rapidamente convertendo al neoliberismo. 

In ogni caso, una volta che la Camera di commercio ha convinto i vertici repubblicani, si tratta di creare una salda base elettorale che introietti e faccia propri i principi e gli slogan neoliberisti. Un passo  importante  in questa direzione è  l’alleanza  con  la destra  cristiana, che dal 1978  inizia anch’essa a organizzarsi politicamente. La destra cristiana ha una forte base nei lavoratori bianchi convinti di essere vittime di un’ingiustizia morale dovuta al fatto 

che  essi  vivono  sempre  più  in  condizioni  di insicurezza  economica  cronica  e  si  sentono esclusi da molti dei benefici pubblici distribuiti alle  minoranze  (neri,  latinos)  e  da  molti programmi  statali. Questi  lavoratori  impoveriti sono stati convinti a mobilitarsi sulla base di un misto  di  religiosità  molto  rigida,  di nazionalismo,  di  omofobia,  di  razzismo  e  di antifemminismo.  Essi  sono  stati  insomma convinti  che  il  loro  problema  è  costituito  dal capitalismo  e  dalla  neoliberalizzazione  della cultura,  bensì  dai  keynesiani  che  hanno abusato  del  potere  statale  per  avvantaggiare gruppi  specifici  (i  neri,  le  donne,  gli ambientalisti ecc.). Ciò che la destra cristiana è riuscita a fare è stato di mobilitare le loro paure e il loro disagio per farli pensare e votare molto spesso contro  i  loro  stessi  interessi, per di più con notevole successo. 

A questo punto il Partito repubblicano è in grado di mobilitare ingenti risorse finanziarie e  chiamare  la  sua  base  popolare  a  votare  contro  i  propri  interessi materiali  per motivi culturali  e  religiosi, mentre  il  Partito  democratico  non  può  permettersi  di  pensare  alle necessità  materiali  della  sua  base  popolare  tradizionale  ‐  per  esempio  a  un  sistema nazionale  di  assistenza  sanitaria  pubblica, mai  realizzato  negli  Stati Uniti  –  per  paura  di andare contro gli interessi delle imprese e della finanza.  

Data  questa  notevole  differenza  di  capacità  di  manovra,  la  superiorità  del  Partito repubblicano può divenire ancora più salda 

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IL NEOLIBERISMO AL GOVERNO E ALL’OPERA 

Una  volta  raggiunto  il  potere  con Reagan,  dal  1981  i  neoliberisti  iniziano  a  eliminare progressivamente  le  regolamentazioni  in campo  industriale, ambientale, del  lavoro, della sanità e del consumo, talvolta  in modo diretto – abrogando  leggi e regolamenti – ma più spesso mediante  tagli di bilancio che  impediscono di  fatto  l’applicazione dei  regolamenti oppure  incaricando  della  loro  applicazione  personaggi  che  avevano  il  compito  reale  di boicottarli. 

Oltre  alle  deregolamentazioni  molte  delle  altre  delle  misure  adottate  da  Reagan  si ritroveranno sistematicamente in seguito, in altri periodi e in altri paesi come ad esempio la detassazione delle società e dei redditi e dei patrimoni più alti, la cessione di beni pubblici a prezzi molto più bassi del  valore  reale o persino a  titolo gratuito,  l’attacco al potere dei sindacati e ai diritti sindacali per ottenere manodopera più docile e salari più bassi oppure, in casi estremi, per ottenere piena libertà di chiudere e delocalizzare gli impianti nei paesi poveri. 

UNA TEORIA ECONOMICA IN SOCCORSO E A GIUSTIFICAZIONE DEI PROVVEDIMENTI NEOLIBERISTI 

 

Tutti  –  o  quasi  tutti  –  questi  sono  provvedimenti  che  rompono  con  una  tradizione consolidata di politiche pubbliche e  finiscono con  l’infliggere  sofferenze  sociali profonde, per  cui  è  ancor  più  necessario  giustificarli  in modo  plausibile  e  fare  in modo  che  tali giustificazioni  vengano  condivise  dal  maggior  numero  di  cittadini,  possibilmente  come teorie  “naturali”,  cioè  non  discutibili  e  prive  di  alternative  razionali  e  concretamente applicabili. A questa operazione di giustificazione e  legittimazione si applicano soprattutto gli economisti. 

I  concetti  economici  del  neoliberismo  sono  in  realtà  una miscela  di  varie  teorie  che condividono comunque l’idea di base che l’intervento del governo rappresenta il problema e non  la  soluzione e che  solo una politica monetaria  stabile e dei  forti  tagli  fiscali per  le fasce più alte possono produrre un’economia sana e dinamica. 

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Queste  idee  vengono  pienamente  accolte  da  molti  importanti  giornali  e  catene televisive, vengono propagandate mediante molti  libri pubblicati e promossi attivamente grazie  al  denaro  dei  think  tank ma  soprattutto  vengono  adottate  e  rilanciate  in molte importanti scuole di gestione aziendale come ad esempio quelle delle importanti università di  Stanford  e  Harvard.  E’  in  questo  modo  che  agli  inizi  degli  anni  ’90  gran  parte  dei dipartimenti  di  economia  delle  maggiori  università  americane  finsce  con  l’adottare  la visione  neoliberista  dell’economia:  in  vent’anni,  insomma  l’egemonia  della  teoria economica  keynesiana  è  stata  quasi  totalmente  scalzata  dall’egemonia  di  una  teoria opposta. 

UN BILANCIO 

A proposito del caso statunitense Harvey conclude e riepiloga in questo modo: 

Durante gli anni  ‘70  l’ala politica del settore privato della nazione   mise  in atto una delle più  imponenti campagne per  la conquista del potere che  si siano  registrate  nella  storia  recente.  All’inizio  degli  anni  ’80  essa  aveva raggiunto un  livello di  influenza e di potere  che  si  avvicinava a quello del boom degli anni ‘20. E nel 2000 aveva già usato quel potere per riportare la sua  quota  della  ricchezza  e  del  reddito  nazionale  a  livelli  che  non  si vedevano dagli anni ‘20. 

28A.3. Il caso britannico 

GRAN BRETAGNA E STATI UNITI A CONFRONTO 

Dal  canto  suo  il  caso  britannico  è  importante  sia  perché  è  contemporaneo  a  quello statunitense  sia  perché  anche  la  Gran  Bretagna  ha  avuto  un  ruolo  importante  nella diffusione mondiale del neoliberismo. Ma esso è anche  interessante perché differisce  in molti aspetti da quello americano. 

Nel  caso  britannico  anzitutto  il  welfare  e  l’intervento  pubblico  in  economia  erano tradizionalmente molto più estesi e  robusti  che negli  Stati Uniti:  come  si è  visto,  infatti, grazie al Piano Beveridge e ai governi laburisti che si erano succeduti dopo la guerra molte imprese  erano  state  nazionalizzate,  si  era  creato  uno  stato  sociale molto  ramificato  ed efficace e i sindacati godevano di un grande potere. 

I GERMI DELL’INDEBOLIMENTO DEL KEYNESISMO E IL FLAGELLO DELLA STAGFLAZIONE 

E anche  in Gran Bretagna nel corso dell’età dell’oro qui  le correnti ostili alle politiche keynesiane erano state tutto sommato marginali. 

D’altro canto la cultura giovanile pop degli anni Sessanta aveva sviluppato un rigetto tale verso le forme di potere costituito – aristocratico e borghese, ma anche sindacale – e verso la  politica  organizzata  che  aveva  finito  col  dare  anche  senza  volerlo  un  grande  aiuto  a coloro  che  volevano  diminuire  l’influenza  dei  partiti  e  dei  sindacati  sulla  vita  pubblica, anche in nome di ideali tutt’altro che aperti e libertari. 

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L’esponente  politico  che  porta  al  successo  il  neoliberismo  ‐  e  che  è  anzi  considerato unanimemente uno dei suoi massimi promotori a  livello mondiale – è Margaret Thatcher, leader  del  Partito  conservatore  che  vince  le  elezioni  nel  1979  con  un  programma estremamente  radicale  e  aggressivo  e  riuscirà  in  gran  parte  ‐  ma  non  del  tutto  ‐  a realizzarlo nel corso dei dieci anni seguenti. 

IL FLAGELLO DELLA STAGFLAZIONE 

Vista quindi la solidità – anche in termini di consensi e di tradizione – dell’impostazione keynesiana britannica “il fenomeno Thatcher non sarebbe nato, e certo non avrebbe avuto successo,  senza  la  grave  crisi  degli  anni  settanta”.  A  metà  anni  ’70  infatti  l’inedita combinazione  di  stagnazione  e  inflazione  rende  infatti  sempre  più  difficile  il  compito  di sostenere  adeguatamente  le  imprese  pubbliche  e  di  mantenere  alti  i  salari  dei  loro dipendenti. Ciò scatena però forti proteste sindacali che fanno cadere nel 1974 il governo conservatore e che nel 1978 provoca un’imponente ondata di scioperi del settore pubblico con una coda di grandi disagi collettivi. 

In  questa  drammatica  situazione  il  tradizionale  appoggio  popolare  ai  lavoratori  e  ai sindacati  si  riduce  sensibilmente  e  Thatcher,  con  un  programma  di  attacco  frontale  al sindacato del settore pubblico, riesce facilmente a vincere le elezioni nel 1979. 

LA MANNAIA ANTISINDACALE E ANTILABURISTA DELLA TATCHER 

Al pari di Reagan negli Stati Uniti,  la Thatcher avvia un programma di  indebolimento del potere sindacale. Parallelamente,  la  scelta di  favorire un innalzamento  dei  tassi  d’interesse  ha  come conseguenza  un’ondata  di  disoccupazione  che indebolisce ulteriormente tutti i sindacati: quando c’è molta disoccupazione,  infatti,  i sindacati sono in  genere  deboli  e  quando  arriva  la disoccupazione  chi  perde  per  prima  il  posto  di lavoro sono proprio  i  lavoratori più sindacalizzati. Con una  serie di manovre  congiunte  la  Thatcher smantella inoltre grandi pezzi di industria pubblica e  con  essa  i  suoi  sindacati,  favorendo  l’ingresso nel Regno Unito di molte imprese straniere. 

Nel giro di tre anni  il Regno Unito si trasforma così in un paese di salari relativamente bassi e con una  forza  lavoro  molto  arrendevole  rispetto  al resto d’Europa. Quando  la Thatcher  lascia  la  sua carica ha sradicato l’inflazione, piegato i sindacati, 

domato  i  lavoratori e  costruito progressivamente  il  consenso della  classe media alle  sue politiche. Oltre  a  questo  Thatcher  ha  privatizzato  tutte  le  imprese pubbliche, per  lo più svendendole, e si è impegnata in un attacco altrettanto duro contro lo stato sociale. 

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IL LIMITE: UN WELFARE NON SEMPLICE DA CORRODERE 

 

In  quest’ultimo  campo  tuttavia  le  cose  non  le  andranno  bene  come  in  altri  campi.  Il programma  thatcheriano  di  smantellamento  dell’intervento  pubblico  nel  campo dell’istruzione,  dell’assistenza  sanitaria,  dei  servizi  sociali,  della  burocrazia  statale  e  del sistema giudiziario  finisce  infatti con  l’infrangersi davanti diverse tenaci resistenze, sia tra gli  avversari  ma  anche  tra  gli  alleati  in  quanto  –  come  ricorda  Harvey  –  gli  inglesi  si riveleranno alla  fine ostili alla  liberalizzazione generalizzata e alla perdita  totale dei diritti sociali. La Tatcher cade infatti alla fine del 1990, dopo dodici anni di dominio incontrastato, travolta per sempre dalle proteste suscitate dal tentativo di introdurre una tassazione che colpisce in modo indifferenziato ricchi e poveri. Anche buona parte dell’elettorato che l’ha sostenuta negli anni precedenti non se  la sente di seguirla su questa strada che porta  in modo evidente a un arricchimento dei ceti più  ricchi e a un  impoverimento di quelli più poveri. 

IN OGNI CASO, CAMBIAMENTI ECONOMICO‐ISTITUZIONALI DALLE CONSEGUENZE PROFONDE 

Questo fallimento e  la conseguente fine della sua carriera politica non vuol dire che  la Thatcher non  sia  riuscita  a  cambiare  il  volto  culturale  e politico della  società britannica. Essa ha anzitutto governato per quasi dodici anni propugnando apertamente una versione estrema del neoliberismo (“non esiste la società ma solo individui” e “non c’è alternativa” sono stati – come si è visto – i suoi slogan preferiti, ben più radicali e consapevoli di quelli americani) riuscendo a indebolire e a rendere marginale da un lato tutto il mondo solidale della  classe  lavoratrice  inglese  trasformandone  gran parte  in  classe media  consumatrice individualizzata e passiva; da un altro  lato ha favorito  l’ascesa di un nuovo ceto di potere legato  alla  finanza  internazionale  che  non  sempre  coincideva  con  il  vecchio  potere aristocratico. 

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28A.4. Caso statunitense e caso britannico: un bilancio 

Harvey conclude  il confronto tra  il caso britannico e  il caso statunitense con un rapido bilancio che anticipa le vicende successive: 

Ronald  Reagan  e  Margaret  Thatcher  colsero  le  opportunità  che  si  erano presentate negli anni precedenti (dal Cile a New York) e si posero alla testa di una classe decisa a ripristinare  il proprio potere.  Il  loro punto di forza è consistito nel creare un’eredità e una tradizione  in grado di condizionare  i politici successivi, imponendo loro una serie di costrizioni cui non potevano sottrarsi  facilmente.  Quelli  che  sono  venuti  dopo,  come  Clinton  e  Blair, hanno  potuto  fare  poco  altro,  se  non  continuare  l’opera  di neoliberalizzazione, che a loro piacesse o no. 

LEZIONE 28B. HARVEY, STORIA DEL NEOLIBERISMO. III.  

LO STATO NEOLIBERISTA 

SOMMARIO. Introduzione. Lo stato liberista in teoria. Tensioni e contraddizioni. Lo stato liberista nella pratica. La risposta neoconservatrice. 

28B.1. Introduzione 

Una questione della massima  importanza è quella del rapporto tra  il neoliberismo e  lo Stato o – per essere più precisi – del  rapporto da un  lato della  teoria neoliberista con  lo Stato e da un altro  lato delle politiche adottate  concretamente dai politici e dai governi neoliberisti  riguardo al  significato, al  funzionamento e all’utilizzo dello Stato. Perché non sempre la teoria e la pratica hanno coinciso e coincidono. 

Come si è visto, infatti, secondo la dottrina neoliberista lo Stato deve ridurre al minimo il suo intervento e in economia più che in ogni altro campo. Ciononostante – e anche questo lo si è visto – il rapporto tra neoliberismo e Stato non è soltanto un rapporto di estraneità o addirittura di ostilità, ma è anche un rapporto di collaborazione, a volte molto stretta.  

Ciò  determina  di  fatto  una  contraddizione  tra  la  teoria  neoliberista  e  la  sua  pratica concreta. 

Ma la pratica dimostra soprattutto che ci sono casi nazionali molto diversi tra loro, il che indica come  il neoliberismo non sia un fenomeno univoco e compatto ma che esso sia un fenomeno in parte instabile e contraddittorio. 

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28B.2. Lo stato liberista in teoria 

LO STATO NEOLIBERISTA: I SUOI COMPITI 

La prima cosa da osservare è che esiste una precisa teoria neoliberista di cosa dovrebbe essere e fare lo Stato. Secondo tale teoria lo Stato dovrebbe anzitutto favorire: 

. il diritto individuale alla proprietà privata 

. il primato della legalità 

. l’istituzione di mercati in grado di funzionare liberamente 

. il libero scambio. 

La  struttura  legale privilegiata dalla  teoria neoliberista per  la  regolazione dei  rapporti economici e sociali è quella degli obblighi contrattuali  liberamente negoziati nel mercato tra individui giuridici.  

Il più importante compito dello Stato è quello di proteggere a tutti i costi e se necessario con la violenza 

. tali contratti 

. i diritti individuali, alla libertà d’azione, di espressione e di scelta 

.  la  libertà  delle  imprese  commerciali  e  delle  grandi  aziende  di  operare all’interno  della  struttura  istituzionale  dei  mercati  liberi  e  del  libero scambio 

Così facendo ‐ secondo la teoria ‐ lo Stato incoraggia le imprese  

. a investire 

. a fare innovazione tecnologica 

. ad aumentare in tal modo la produttività 

cosa che a sua volta dovrebbe garantire 

. la crescita della ricchezza 

.  e  di  conseguenza  un  livello  di  vita  più  alto  per  tutti,  e  non  soltanto  per  gli imprenditori 

Si  noti  come  attraverso  questo  tipo  di  ragionamento  il  neoliberismo  non  appare  più soltanto come una teoria economia o come una opzione di politica economica tra le tante, ma  si  trasforma  in una  ricetta di arricchimento generalizzato non discutibile, una grande promessa per tutta l’umanità, di fatto priva di alternative credibili. 

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LO STATO NEOLIBERISTA E LA PRIVATIZZAZIONE 

Un altro  compito  fondamentale dello Stato neoliberista è quello della privatizzazione: secondo  i  neoliberisti,  la  privatizzazione  e  la  deregolamentazione,  combinate  con  la competizione  accrescono  l’efficienza  e  la  produttività, migliorano  la  qualità  e  riducono  i costi, sia direttamente presso  il consumatore perché prodotti e servizi costano meno, sia indirettamente per via della riduzione del peso fiscale. 

LO STATO NEOLIBERISTA E I SUOI RISVOLTI CULTURALI SULLA VITA DEI SINGOLI INDIVIDUI 

Ma  un  altro  fondamentale  effetto  dello  Stato  neoliberista  si  dispiega  nella  sfera mentale, culturale. 

Una volta garantita  la  libertà personale e  individuale nel mercato, ciascun  individuo è ritenuto  infatti  il solo e unico responsabile delle proprie azioni e del proprio benessere, e può  essere  chiamato  a  risponderne.  Il  successo  o  l’insuccesso  individuale  vengono  così sempre più  interpretati  in termini di doti  imprenditoriali o di fallimenti personali invece di essere  attribuite  –  in  parte  o  del  tutto  –  alle  caratteristiche  del  sistema  economico  e sociale. Questa caratteristica della visione del mondo neoliberista – che ha avuto enorme successo,  radicandosi  profondamente  nella mentalità  delle  opinioni  pubbliche  dei  paesi industrializzati – ha un duplice effetto: allontanare l’attenzione dal cattivo funzionamento o dalle distorsioni strutturali del sistema sociale ed economico e infondere nelle persone una mentalità  competitiva,  anti‐solidale  e  un  profondo  senso  di  colpa  rispetto  ai  propri fallimenti, anche quando non sono addebitabili a responsabilità personali. 

STATO NEOLIBERISTA CONTRO DEMOCRAZIA? 

Un aspetto della massima  importanza è  la distanza  che  viene a  crearsi all’interno del pensiero neoliberista tra libertà e democrazia. 

L’enfasi neoliberista sulla libertà non vuol dire infatti – come ci si potrebbe attendere – un’accettazione  piena  e  convinta  della  democrazia.  Il  governo  basato  sulla  regola  della maggioranza è visto  infatti come una minaccia potenziale ai diritti  individuali e alle  libertà costituzionali per cui  i neoliberisti tendono a favorire  l’egemonia degli esperti e delle élite rispetto  a  quella  delle  assemblee  elettive,  dei  partiti  e  dei  sindacati,  tutte  espressioni tradizionali  della  volontà  popolare.  Nel  pensiero  e  nella  pratica  del  neoliberismo  esiste quindi una netta preferenza per l’esercizio del governo tramite decreti esecutivi e decisioni giudiziarie, piuttosto che tramite il processo decisionale democratico e parlamentare. 

28B.3. Tensioni e contraddizioni 

La  teoria  neoliberista  nasconde  però  anche  delle  vere  e  proprie  contraddizioni  che rendono estremamente difficoltoso – se non impossibile – realizzare uno Stato neoliberista del tutto coerente con la dottrina del movimento. 

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Harvey ne elenca quattro, ma qui ci si sofferma solo sull’ultima di esse1, che si ricollega a quanto appena detto sul contrasto tra neoliberismo e democrazia. 

L’individualismo  possessivo  può  infatti  entrare  in  contraddizione  col  diffuso  desiderio delle persone di organizzarsi e di scegliere  liberamente. Ciò crea spesso delle situazioni a loro volta contraddittorie. 

Harvey scrive  infatti che  i neoliberisti devono  imporre  limitazioni sostanziali al governo democratico  e  affidarsi  –  soprattutto  per  certe  decisioni  cruciali  –  a  istituzioni  non democratiche  e  non  tenute  a  rendere  conto  dei  propri  atti  (come  ad  esempio  il  Fondo monetario  internazionale)  col  risultato paradossale  di  massicci  interventi  dello  Stato  e un  governo  affidato  alle  élite  e  agli esperti  in un mondo  in  cui  in  teoria  lo  Stato non dovrebbe intervenire oppure dovrebbe ridurre al minimo indispensabile i propri interventi. Di fronte a movimenti sociali che chiedono interventi pubblici, quindi, lo Stato neoliberista è costretto a  intervenire, a volte  in modo  repressivo, negando così proprio quella  libertà che dovrebbe difendere. 

28B.4. Lo stato liberista nella pratica 

Tutte queste contraddizioni interne alla teoria rendono dunque difficile da un lato dare una  definizione  precisa  e  univoca  dello  Stato  neoliberista  e  da  un  altro  lato  realizzarlo concretamente e in modo coerente. 

A  rendere  ancora  più  difficile  questa  impresa  sta  il  fatto  che  esiste  anche  un  gran numero di altre divergenze tra la teoria e le sue applicazioni e che l’evoluzione del processo di neoliberalizzazione ha costretto  i neoliberisti stessi a  introdurre notevoli aggiustamenti da un luogo all’altro e da un periodo all’altro. 

Nonostante  una  definizione  precisa  e  univoca  dello  stato  neoliberista  sia  dunque impossibile si possono però individuare alcuni elementi ricorrenti, cioè alcune situazioni in cui  la pratica  tradisce sistematicamente  la  teoria e  in particolare quella parte della teoria che cerca di accreditare  le politiche neoliberiste come uniche vere garanti del massimo di benessere collettivo. 

Ciò  accade  tipcamente quando  lo  Stato neoliberista  tende a  schierarsi a  favore di un clima propizio all’attività economica e così facendo danneggia i diritti collettivi e la qualità della vita dei  lavoratori oppure  la capacità dell’ambiente di rigenerarsi. Ciò accade anche quando  essendo  costretti  a  scegliere  tra  l’integrità del  sistema  finanziario  e  la  solvibilità delle  istituzioni  finanziarie al benessere della popolazione o alla qualità dell’ambiente essi privilegiano  decisamente  l’interesse  del  sistema  e  delle  istituzioni  finanziarie.  O  ancora quando la neoliberalizzazione deve operare in ambienti in cui il keynesismo è molto solido e non totalmente attaccabile e quindi i suoi disegni possono realizzarsi soltanto in parte.  

                                                       1 Per una miglior comprensione dell’argomentazione di Harvey si rimanda ancora una volta alla lettura del 

testo integrale di Breve storia del neoliberismo. 

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Ma  il settore  in cui  la pratica contraddice più sistematicamente  la teoria neoliberista è però  quello  del  capitale  e  delle  istituzioni  finanziarie.  Questo  è  un  punto  di  estrema importanza e soprattutto profondamente attuale. 

Dice Harvey: 

Normalmente gli stati neoliberisti favoriscono la crescita dell’influenza delle istituzioni  finanziarie  attraverso  la  deregolamentazione,  ma  oltre  a  ciò spesso arrivano a garantire a qualsiasi costo  l’integrità e  la solvibilità delle istituzioni finanziarie. Questo impegno deriva in parte fatto che si ci affida al monetarismo  come  elemento  fondamentale  della  politica  statale,  e l’integrità e validità del denaro è cruciale per una simile politica. Ma questo paradossalmente  significa  che  lo  stato  neoliberista  non  può  tollerare nessuna grave  inadempienza finanziaria anche quando sono state  le stesse istituzioni  finanziarie  a  prendere  decisioni  sbagliate.  Lo  stato  deve  farsi avanti e sostituire il denaro «cattivo» con il proprio denaro, che si suppone «buono», e questo spiega la pressione sulle banche centrali perché tengano viva  la fiducia nella validità del denaro dello stato. Il potere statale viene di conseguenza  usato  con  grande  frequenza  per  togliere  dai  guai  aziende  o evitare  fallimenti  commerciali.  Il  Fondo monetario  internazionale  di  fatto copre, per quanto gli è possibile, i rischi e le incertezze nei mercati finanziari internazionali ma questa prassi è difficile da  giustificare  secondo  la  teoria neoliberista, visto che  in  linea di principio gli  investitori dovrebbero essere responsabili  dei  loro  errori.  Questa  prassi  ‐  dare  la  priorità  alle  esigenze delle  banche  e  delle  istituzioni  finanziarie  penalizzando  i  livelli  di  vita  del paese  debitore  ‐  era  già  stata messa  alla  prova  durante  la  crisi  debitoria della città di New York. Nel contesto  internazionale ciò significava ricavare surplus dalle popolazioni povere del Terzo Mondo per  ripagare  i banchieri internazionali. 

Ma questo,  si può  aggiungere  a distanza di dieci  anni dalla pubblicazione del  libro di Harvey, è esattamente  ciò  che è  stato  fatto nel  caso del debito  greco  con  conseguenze catastrofiche non  solo per  i  livelli di vita della popolazione greca ma anche per  lo stesso sistema finanziario internazionale. 

Gli stati più ricchi, insomma difendono gli interessi delle proprie banche quando queste risucchiano  i  surplus provenienti da altre aree e  ciò  consolida ancor più  la  tendenza alla concentrazione di potere nelle mani dei detentori della ricchezza finanziaria. 

Tutto ciò dimostra bene – secondo Harvey – come  l’utilizzo delle strategie neoliberiste attraverso i poteri dello Stato e delle grandi istituzioni pubbliche internazionali serva molto più a concentrare potere che non a far funzionare correttamente  l’economia. Se  infatti  in questi  casi  i  principi  teorici  del  neoliberismo  venissero  rigorosamente  rispettati  sarebbe punito con gravi perdite chi presta danaro in modo incauto e non chi lo prende a prestito, mentre solitamente avviene il contrario: è lo Stato cioè che fa sì che chi presta il denaro sia sempre al sicuro, qualsiasi cosa faccia, anche la più sconsiderata e perfino criminale. 

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Esistono  naturalmente  dei  limiti  alla  possibilità  di  far  pagare  i  debitori,  per  cui  una strategia che è necessario a volte adottare è quella della parziale cancellazione del debito nella  speranza  di  recuperare  qualcosa  in  cambio  delle  politiche  di  “aggiustamento strutturale”, che abbiamo già visto. 

Delle politiche di aggiustamento strutturale hanno fatto parte e continuano a far parte in modo sistematico delle ristrutturazioni del mercato del lavoro finalizzate a: 

. ridurre le retribuzioni dei lavoratori 

. accrescere l’insicurezza riguardo alla stabilità del posto di lavoro 

. eliminare numerosi benefici tradizionalmente associati al posto di lavoro 

. eliminare gran parte delle garanzie tradizionalmente associate al lavoro. 

Questa  flessibilizzazione  e  precarizzazione  estrema  del  lavoro  e  il  progressivo abbattimento del welfare hanno come effetto congiunto di esporre strati sempre più vasti della popolazione all’impoverimento. 

LA MODIFICAZIONE DELLA GOVERNANCE 

Per poter  imporre efficacemente  cambiamenti economici,  sociali e  culturali di questa portata  è  stato  inoltre  necessario  modificare  la  natura  della  decisione  politica, sostanzialmente  in  senso  meno  democratico,  magari  attraverso  il  meccanismo  delle partnership pubblico‐privato: non sono solo più le istituzioni pubbliche, democraticamente elette, a decidere bensì dei circoli formati in parte da eletti, in parte da tecnici e in parte da imprenditori. 

In conseguenza di questa  trasformazione  lo Stato produce  leggi e strutture normative che avvantaggiano le aziende, e in alcuni casi interessi specifici di settore come quelli legati all’energia, alla produzione farmaceutica e alle imprese agricole. In molti casi di partnership tra pubblico e privato, e in particolare a livello municipale, lo Stato si assume buona parte dei  rischi  mentre  il  privato  ricava  gran  parte  dei  profitti.  Se  necessario,  poi,  lo  Stato neoliberista ricorre a leggi coercitive e a tattiche poliziesche ‐ norme contro i picchettaggi, per  esempio, o provvedimenti  che  limitano  la  libertà di  sciopero o di manifestare – per disperdere o reprimere le forme collettive di opposizione alle grandi aziende. 

Anche  in questo  caso  ci  troviamo di  fronte a una  contraddizione evidente  tra pratica dello  stato  neoliberista  e  teoria  neoliberista  in  quanto  non  viene  rispettata,  anzi  viene ridotta, la pretesa eguaglianza di partenza tra i vari soggetti economici. 

Tutto questo rende evidente come – a differenza di quanto proclamato dalla sua teoria –    il neoliberismo non  rende  irrilevante  lo Stato, ma piuttosto  lo  ridisegna. Si può  inoltre concludere che  il  liberismo appare come una forma politica  instabile e transitoria a causa della  contraddizione  sempre  più  evidente  tra  scopi  dichiarati  –  il  benessere  di  tutti  –  e risultati effettivi ‐ restaurazione del potere delle classi alte. 

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A quest’ultimo proposito si deve aggiungere che lo scollamento tra la teoria neoliberista e la sua prassi si nutre anche di altre cinque contraddizioni minori: 

.  la  pretesa  che  Stato  stia  in  disparte  sulle  questioni  economiche  e  al  tempo stesso che intervenga per creare il clima favorevole agli investimenti. 

.  la  proclamazione  di  ideali  di  libertà  individuale  va  di  pari  passo  con provvedimenti che impongono il mercato per via autoritaria 

.  l’individualismo  irresponsabile  degli  attori  risulta  cruciale  per  preservare l’integrità  del  sistema  finanziario ma  al  tempo  stesso  produce  volatilità speculativa, scandali finanziari e instabilità cronica 

. si esalta  la competizione ma si creano nei fatti poteri sempre più oligopolistici se non monopolistici 

. a  livello di costumi, di mentalità, di abitudini presso la gente comune la spinta verso  la  libertà di mercato e  la trasformazione di ogni cosa  in merce può facilmente produrre frustrazione, disagio, incoerenza sociale e rivolta 

28B.5. La risposta neoconservatrice 

 

Tutte le difficoltà e le contraddizioni sinora evidenziate fanno pensare che nonostante il suo apparentemente incontrastato dominio politico e culturale a livello planetario lo Stato neoliberista sia intrinsecamente instabile e destinato ad essere prima o poi superato. Come potrebbero  fare, però,  le classi dirigenti attuali a superarlo senza modificare  i  rapporti di potere così faticosamente conquistati? 

Un  tentativo  di  “superamento  dall’interno”  delle  contraddizioni  del  neoliberismo appariva  –  almeno  al  momento  della  pubblicazione  del  libro,  nel  2005  –  quello neoconservatore.  

Quella neoconservatrice è una risposta che al 2005, al momento della stesura del libro, sembrava molto praticata, ma che in effetti si è dimostrata anch’essa fragile dando vita in 

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diversi paesi e anzitutto negli Stati Uniti a disagio e instabilità politica che hanno generato negli anni successivi o risposte blandamente progressiste ma sostanzialmente non critiche degli assetti neoliberisti – Obama, ad esempio – o più di recente risposte di tipo populista, che  in  apparenza  combattono  alcuni  aspetti  qualificanti  del  neoliberismo  –  il  libero scambio,  ad  esempio  –  ma  conservandone  ed  esasperandone  altri  –  l’ostilità  verso l’intervento pubblico in economia. E’ il caso, recente, di Donald Trump. 

In  cosa  consisteva,  in  ogni  caso,  e  in  cosa  consiste  ancor  oggi  la  risposta neoconservatrice,  di  cui  comunque  un  politico  come  Trump  resta  in  gran  parte  erede? Quella  neoconservatrice  è  anzitutto  una  visione  che  non  coincide  del  tutto  con  quella neoliberista. 

Le varie politiche neoconservatrici concordano su: 

.  la necessità di conservare quanto più potere possibile nelle mani delle grandi aziende e degli investitori finanziari 

.  la  restaurazione  di  un  saldo  potere  nelle  mani  delle  classi  alte,  in  caso concedendo  particolari  spazi  di  tutela  ad  alcuni  gruppi  di  antico radicamento  (i  lavoratori  bianchi  cristiani  eterosessuali  statunitensi,  ad esempio) 

. una sostanziale sfiducia nella democrazia 

.  il  ricorso  al  governo  delle élite  o  addirittura  –  e più di  recente  ‐  a quello di uomini forti, svincolati il più possibile dalle mediazioni della politica 

. la libertà di mercato 

Esse  tuttavia  discordano  ampiamente  dai  neoliberisti  riguardo  all’enfasi  posta  sulla priorità degli interessi individuali e sul disinteresse per qualsiasi forma di morale collettiva. Essi propugnano infatti: 

. l’ordine sociale come argine al caos degli interessi individuali 

. una morale esasperata  come  collante  sociale al  fine di mantenere uno Stato  forte 

Con  i neoconservatori  si  torna  insomma a una  centralità dello Stato  come monopolio della  forza  e  come  grande  dispiegamento  poliziesco,  sia  interno  che  internazionale.  Per costoro il consenso deve essere costruito non tanto attorno a dei dogmi economici – come avviene  invece nel caso del neoliberismo classico – ma a un complesso coerente di valori morali, quelli ‐ per  la precisione ‐ che dagli anni ’70  in poi hanno fatto  leva sui sentimenti dei  ceti  operai  bianchi  scontenti  (nazionalismo  culturale,  virtù  morale,  cristianesimo conservatore, famiglia e diritto alla vita) e sull’opposizione ai nuovi movimenti sociali come il  femminismo,  i  diritti  degli  omosessuali,  la  tutela  dei  diritti  delle  minoranze  e l’ambientalismo. A ciò si è sempre più aggiunto – anche a causa delle devastazioni sociali provocate dalla crisi economica tanto nei paesi del nord quanto in quelli del Sud del mondo 

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–  una  crescente  insofferenza  verso  gli  immigrati  che  sfocia  sovente  in  forme  di  aperto razzismo. 

 

Negli  Stati  Uniti  questo  compattamento  culturale  ha  funzionato,  ha  modificato radicalmente l’identità politica del Partito Repubblicano e ha garantito le vittorie di Reagan prima e di Bush padre e figlio poi. Il nucleo più forte di opposizione alla presidenza Obama è  stato  costituito  dai  cosiddetti  “tea  party”  che  sono  una  forma  molto  estrema  di neoconservatorismo  e  Donald  Trump  ha  vinto  le  elezioni  presidenziali  del  2016 appoggiandosi  alle  frange  più  estreme  di  questo movimento  e  facendo  proprio  il  loro linguaggio e i loro obiettivi, anche oltre la linea politica ufficiale del Partito repubblicano. 

Ma  ciò  è  avvenuto  anche  in  molti  altri  paesi  ed  è  un  fenomeno  che  ha  avuto un’accelerazione  negli  ultimi  anni  a  causa  dell’instabilità  e  del  disagio  provocato  dalla grande crisi economica iniziata nel 2008 e ancora in corso. 

Tutto questo, però,  introduce ulteriori contraddizioni  interne e ulteriori  incoerenze nel già  contraddittorio  impianto  neoliberista  e  ulteriori  tensioni  tra  la  teoria  e  la  pratica  di governo.