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LEZIONE 28A. HARVEY, STORIA DEL NEOLIBERISMO. II.
IL CONSENSO AL NEOLIBERISMO
SOMMARIO. Costruire il consenso. Il caso degli Stati Uniti. Il caso britannico. Caso statunitense e caso britannico: un bilancio.
28A.1. Costruire il consenso
IL PROBLEMA DELLA CREAZIONE DEL CONSENSO E LA COSTRUZIONE DI UN SENSO COMUNE
Si è visto come una politica economica finalizzata alla redistribuzione del potere e della ricchezza verso le classi alte è stata in qualche caso imposta con la violenza (in Cile, in Argentina, in Iraq) o col ricatto (nel caso dei paesi in crisi cui è stato imposto l’aggiustamento strutturale). Tuttavia nella maggior parte dei casi e soprattutto nei più ricchi e avanzati paesi del mondo essa è stata realizzata per via democratica, attraverso il consenso della maggior parte degli elettori.
Come è potuto avvenire tutto questo? Chi ha creato – insomma – il consenso attorno al neoliberismo e in che modo?
Se in Cile e in Argentina le politiche neoliberiste vengono lanciate sulla scia di un colpo di stato militare in paesi di antica tradizione democratica come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti è necessario creare un consenso tale da garantire una vittoria elettorale ampia, che garantisca la possibilità di applicare le nuove politiche senza troppi contrasti.
Per creare un consenso di tale portata è necessario quindi costruire un “senso comune”, una visione condivisa da un gran numero di persone, non ragionato e consapevole bensì
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fondato su un’intensa opera di convincimento, capace insomma di creare delle visioni del mondo molto semplici, molto solide, scarsamente attaccabili dal ragionamento capaci di suscitare un consenso immediato e duraturo. Per i cittadini degli Stati Uniti, ad esempio, la parola “libertà” suscita subito una reazione positiva, a prescindere dai contenuti specifici del messaggio.
Come si è già accenato il consenso neoliberista si costituisce utilizzando diversi strumenti. Le parole d’ordine della Mont Pélerin Society vengono veicolate nel corso di una lunga marcia inziata nel 1947 attraverso i ricchi think tank (gruppi di ricerca privati), dei segmenti importanti dei mezzi di comunicazione di massa, le cattedre universitarie, le chiese, le associazioni professionali. Da qui esse sono penetrate e hanno conquistato i partiti politici e infine sono divenuti slogan popolari e persino ideologie di stato. La diffusione del consenso al neoliberismo è peraltro resa più difficile dal fatto che non è possibile dichiarare apertamente che uno dei fini principali delle nuove politiche – se non il principale – è la ricostruzione del il potere economico di una ristretta élite.
SCISSIONE DEL LIBERTARISMO DALLA GIUSTIZIA SOCIALE NEI MOVIMENTI DEI SESSANTA
Un elemento essenziale per la costruzione del consenso al neoliberismo è proprio l’insistenza sull’esperienza quotidiana, cioè sul modo in cui le persone percepiscono se stessi e la propria vita di tutti i giorni. Ed è indispensabile a questo proposito aggiungere che in gran parte dei paesi sviluppati, compresi diversi di quelli del blocco socialista, gli anni ’60 e ’70 sono stati anni di grandi trasformazioni in questo campo.
Gli anni ’60, in particolare, sono stati attraversati in tutto il mondo da grandi movimenti che rivendicavano contemporaneamente maggiori libertà personali e maggiore giustizia sociale. Ciò che era apparso presto evidente è che queste due rivendicazioni potevano non essere del tutto compatibili, e in alcuni casi potevano confliggere tra loro in quanto,
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osserva Harvey, il perseguimento della giustizia sociale presuppone solidarietà sociali e una propensione a mettere in secondo piano le esigenze, i bisogni e i desideri strettamente individuali nell’ambito di un impegno più generale, per esempio in favore dell’uguaglianza sociale o dell’ambiente.
Con la sua forte enfasi sulla libertà individuale il neoliberismo si rivela appunto in grado di sollecitare e di esaltare la forte spinta di liberazione degli anni Sessanta e di utilizzarla ai propri fini dopo averla separata dalla spinta verso la giustizia sociale. Il desiderio di libertà e di liberazione che così fortemente ha contraddistinto i movimenti degli anni ’60 e ha spinto un imponente numero di persone e soprattutto di giovani a lottare contro l’autoritarismo dello Stato e l’oppressione dell’impresa capitalista ha avuto insomma come risultato paradossale il passaggio in secondo piano della necessità di disciplina, di solidarietà e di sacrificio che la lotta contro l’ingiustizia sociale necessariamente impone. Del grande ciclo di impegno sociale e di lotte del dopoguerra è rimasta dagli anni ’80 in poi soprattutto l’enfasi sulla libertà individuale, terreno di coltura ideale per la visione del mondo neoliberista.
Due paesi in particolare sono stati prima culla e successivamente focolai planetari della diffusione del neoliberismo: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Vale quindi la pena di ricostruire con maggior dettaglio la vicenda dell’affermazione delle politiche neoliberiste in questi due paesi.
28A.2. Il caso degli Stati Uniti
LA BATTAGLIA DELLE IDEE COME BATTAGLIA COLLETTIVA DEGLI IMPRENDITORI USA
A partire dai primi anni ’70 gli imprenditori americani – con alla testa la Camera di Commercio – iniziano un’operazione di compattamento interno, di pressione sul parlamento e di convincimento dell’opinione pubblica.
Chi ha lanciato questa campagna ha posto subito anche il problema dell’utilizzo a questo fine delle strutture dello Stato. Per quanto ostili a un’estensione dei compiti dello Stato, essi pensano che le imprese debbano “coltivare assiduamente” i rapporti con i vari organi dello Stato e usarli quando necessario in modo “aggressivo e determinato” al fine di riformulare il senso comune in favore del neoliberismo.
In che modo?
L’ESPERIMENTO NEWYORKESE
Un pionieristico e fondamentale esempio del modo di utilizzare il potere dello Stato per allargare l’influenza del neoliberismo è – alla metà degli anni ’70, poco dopo l’esperimento cileno – il caso della crisi fiscale della città di New York.
Già dagli anni ’60 la metropoli americana era in fase di deindustrializzazione e le zone centrali erano fortemente impoverite per cui in molte parti della città covava una profonda
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frustrazione e dei sintomi di rivolta sociale. L’amministrazione democratica aveva quindi stabilito di rispondere alla crisi creando posti di lavoro e ampliando l’assistenza sociale grazie all’ampia disponibilità di fondi federali. Sotto l’amministrazione del presidente repubblicano Richard Nixon una parte consistente di questi fondi era stata tagliata cosicchè si era creato un grave squilibrio tra le disponibilità finanziarie dell’amministrazione cittadina e le sue spese.
Per un po’ le istituzioni finanziarie avevano accettato di colmare il divario tra entrate e uscite, ma da un certo momento in poi le banche – con in testa la potente Citibank – decidono di mandare coscientemente la città alla bancarotta per poi assumere direttamente il controllo del bilancio cittadino. Una volta fatto questo esse decidono che gli introiti dell’amministrazione cittadina devono essere destinati anzitutto a ripagare i creditori e solo in seguito, con quanto rimane, si penserà al resto.
Questa mossa implica immediatamente:
. la messa sotto controllo dei sindacati municipali
. il congelamento dei salari
. drastici tagli alla consistenza del pubblico impiego
. drastici tagli ai servizi sociali
. il passaggio di molti servizi fino ad allora gratuiti a pagamento
. l’obbligo per i sindacati di investire i propri fondi pensione in obbligazioni della città
Questo insieme di provvedimenti appaiono subito a molti come una sorta di un colpo di stato contro il governo democraticamente eletto della città di New York da parte delle istituzioni finanziarie e in effetti ha la stessa efficacia e gli stessi effetti del golpe vero e proprio precedentemente compiuto in Cile: nel bel mezzo di una crisi fiscale anche in questo caso la ricchezza viene ridistribuita dal basso verso l’alto. La crisi di New York è in effetti sintomatica di una «emergente strategia di disinflazione accompagnata a una ridistribuzione regressiva di redditi, ricchezza e potere», anzi «una battaglia iniziale, forse decisiva, di una nuova guerra», che ha lo scopo di «dimostrare agli altri che ciò che stava accadendo a New York può accadere ‐ come in molti casi in effetti accadrà ‐ anche a loro».
L’obiettivo del colpo di mano si rivela in effetti quello di avviare in una metropoli importante e prestigiosa a livello mondiale come New York un radicale esperimento di ritorno a politiche e soprattutto a rapporti economici e sociali pre‐rooseveltiani, pre‐ keynesiani. Il segretario al tesoro del presidente Ford dichiara ad esempio che le condizioni per salvare la città dovrebbero essere “così punitive, l’esperienza complessiva così penosa che nessuna città, nessuna parte politica sarebbe mai stata tentata di percorrere la stessa strada”, cioè di continuare a fare politiche di tipo keynesiano.
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New York diviene così l’epicentro della neoliberalizzazione della cultura e una delle città simbolo del neoliberismo medesimo. “Nel frattempo – osserva Harvey – i banchieri d’investimento ricostruiscono l’economia della città intorno alle attività finanziarie, a quelle ausiliarie come i servizi legali e i media e al consumismo differenziato”.
Come il Cile, insomma, ma molto più e soprattutto molto meglio del Cile, la New York della metà degli anni ’70 divenrta un grande laboratorio di sperimentazione delle politiche neoliberali.
LA NEOLIBERALIZZAZIONE DEL PARTITO REPUBBLICANO E LA CREAZIONE DI UNA SOLIDA BASE
ELETTORALE: L’ALLEANZA CON LA DESTRA CRISTIANA FONDAMENTALISTA
Le attività della Camera di Commercio degli anni ’70 costituiscono una novità per il capitalismo statunitense: da imprese che tradizionalmente fanno pressione a titolo individuale riguardo a singole questioni si passa a una potente organizzazione corporativa che si pone degli obiettivi politici generali. E’ evidente tuttavia che questo non basta per raggiungere un obiettivo ampio e ambizioso come il sovvertimento di politiche economiche che da quarant’anni sono state confermate da tutti i presidenti, democratici quanto repubblicani. Serve uno strumento politico ancor più potente ed efficiente. Lo strumento individuato è proprio il Partito repubblicano, che viene convinto ad adottare la dottrina
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neoliberista e i cui candidati vengono ampiamente finanziati grazie alla modifica dei regolamenti elettorali.
Mentre tutto questo si verifica i dirigenti del Partito democratico ‐ tradizionali sostenitori delle politiche di intervento pubblico in economia – rimangono perplessi, divisi tra una base tradizionalmente keynesiana e il timore di perdere l’appoggio delle imprese che si stanno rapidamente convertendo al neoliberismo.
In ogni caso, una volta che la Camera di commercio ha convinto i vertici repubblicani, si tratta di creare una salda base elettorale che introietti e faccia propri i principi e gli slogan neoliberisti. Un passo importante in questa direzione è l’alleanza con la destra cristiana, che dal 1978 inizia anch’essa a organizzarsi politicamente. La destra cristiana ha una forte base nei lavoratori bianchi convinti di essere vittime di un’ingiustizia morale dovuta al fatto
che essi vivono sempre più in condizioni di insicurezza economica cronica e si sentono esclusi da molti dei benefici pubblici distribuiti alle minoranze (neri, latinos) e da molti programmi statali. Questi lavoratori impoveriti sono stati convinti a mobilitarsi sulla base di un misto di religiosità molto rigida, di nazionalismo, di omofobia, di razzismo e di antifemminismo. Essi sono stati insomma convinti che il loro problema è costituito dal capitalismo e dalla neoliberalizzazione della cultura, bensì dai keynesiani che hanno abusato del potere statale per avvantaggiare gruppi specifici (i neri, le donne, gli ambientalisti ecc.). Ciò che la destra cristiana è riuscita a fare è stato di mobilitare le loro paure e il loro disagio per farli pensare e votare molto spesso contro i loro stessi interessi, per di più con notevole successo.
A questo punto il Partito repubblicano è in grado di mobilitare ingenti risorse finanziarie e chiamare la sua base popolare a votare contro i propri interessi materiali per motivi culturali e religiosi, mentre il Partito democratico non può permettersi di pensare alle necessità materiali della sua base popolare tradizionale ‐ per esempio a un sistema nazionale di assistenza sanitaria pubblica, mai realizzato negli Stati Uniti – per paura di andare contro gli interessi delle imprese e della finanza.
Data questa notevole differenza di capacità di manovra, la superiorità del Partito repubblicano può divenire ancora più salda
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IL NEOLIBERISMO AL GOVERNO E ALL’OPERA
Una volta raggiunto il potere con Reagan, dal 1981 i neoliberisti iniziano a eliminare progressivamente le regolamentazioni in campo industriale, ambientale, del lavoro, della sanità e del consumo, talvolta in modo diretto – abrogando leggi e regolamenti – ma più spesso mediante tagli di bilancio che impediscono di fatto l’applicazione dei regolamenti oppure incaricando della loro applicazione personaggi che avevano il compito reale di boicottarli.
Oltre alle deregolamentazioni molte delle altre delle misure adottate da Reagan si ritroveranno sistematicamente in seguito, in altri periodi e in altri paesi come ad esempio la detassazione delle società e dei redditi e dei patrimoni più alti, la cessione di beni pubblici a prezzi molto più bassi del valore reale o persino a titolo gratuito, l’attacco al potere dei sindacati e ai diritti sindacali per ottenere manodopera più docile e salari più bassi oppure, in casi estremi, per ottenere piena libertà di chiudere e delocalizzare gli impianti nei paesi poveri.
UNA TEORIA ECONOMICA IN SOCCORSO E A GIUSTIFICAZIONE DEI PROVVEDIMENTI NEOLIBERISTI
Tutti – o quasi tutti – questi sono provvedimenti che rompono con una tradizione consolidata di politiche pubbliche e finiscono con l’infliggere sofferenze sociali profonde, per cui è ancor più necessario giustificarli in modo plausibile e fare in modo che tali giustificazioni vengano condivise dal maggior numero di cittadini, possibilmente come teorie “naturali”, cioè non discutibili e prive di alternative razionali e concretamente applicabili. A questa operazione di giustificazione e legittimazione si applicano soprattutto gli economisti.
I concetti economici del neoliberismo sono in realtà una miscela di varie teorie che condividono comunque l’idea di base che l’intervento del governo rappresenta il problema e non la soluzione e che solo una politica monetaria stabile e dei forti tagli fiscali per le fasce più alte possono produrre un’economia sana e dinamica.
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Queste idee vengono pienamente accolte da molti importanti giornali e catene televisive, vengono propagandate mediante molti libri pubblicati e promossi attivamente grazie al denaro dei think tank ma soprattutto vengono adottate e rilanciate in molte importanti scuole di gestione aziendale come ad esempio quelle delle importanti università di Stanford e Harvard. E’ in questo modo che agli inizi degli anni ’90 gran parte dei dipartimenti di economia delle maggiori università americane finsce con l’adottare la visione neoliberista dell’economia: in vent’anni, insomma l’egemonia della teoria economica keynesiana è stata quasi totalmente scalzata dall’egemonia di una teoria opposta.
UN BILANCIO
A proposito del caso statunitense Harvey conclude e riepiloga in questo modo:
Durante gli anni ‘70 l’ala politica del settore privato della nazione mise in atto una delle più imponenti campagne per la conquista del potere che si siano registrate nella storia recente. All’inizio degli anni ’80 essa aveva raggiunto un livello di influenza e di potere che si avvicinava a quello del boom degli anni ‘20. E nel 2000 aveva già usato quel potere per riportare la sua quota della ricchezza e del reddito nazionale a livelli che non si vedevano dagli anni ‘20.
28A.3. Il caso britannico
GRAN BRETAGNA E STATI UNITI A CONFRONTO
Dal canto suo il caso britannico è importante sia perché è contemporaneo a quello statunitense sia perché anche la Gran Bretagna ha avuto un ruolo importante nella diffusione mondiale del neoliberismo. Ma esso è anche interessante perché differisce in molti aspetti da quello americano.
Nel caso britannico anzitutto il welfare e l’intervento pubblico in economia erano tradizionalmente molto più estesi e robusti che negli Stati Uniti: come si è visto, infatti, grazie al Piano Beveridge e ai governi laburisti che si erano succeduti dopo la guerra molte imprese erano state nazionalizzate, si era creato uno stato sociale molto ramificato ed efficace e i sindacati godevano di un grande potere.
I GERMI DELL’INDEBOLIMENTO DEL KEYNESISMO E IL FLAGELLO DELLA STAGFLAZIONE
E anche in Gran Bretagna nel corso dell’età dell’oro qui le correnti ostili alle politiche keynesiane erano state tutto sommato marginali.
D’altro canto la cultura giovanile pop degli anni Sessanta aveva sviluppato un rigetto tale verso le forme di potere costituito – aristocratico e borghese, ma anche sindacale – e verso la politica organizzata che aveva finito col dare anche senza volerlo un grande aiuto a coloro che volevano diminuire l’influenza dei partiti e dei sindacati sulla vita pubblica, anche in nome di ideali tutt’altro che aperti e libertari.
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L’esponente politico che porta al successo il neoliberismo ‐ e che è anzi considerato unanimemente uno dei suoi massimi promotori a livello mondiale – è Margaret Thatcher, leader del Partito conservatore che vince le elezioni nel 1979 con un programma estremamente radicale e aggressivo e riuscirà in gran parte ‐ ma non del tutto ‐ a realizzarlo nel corso dei dieci anni seguenti.
IL FLAGELLO DELLA STAGFLAZIONE
Vista quindi la solidità – anche in termini di consensi e di tradizione – dell’impostazione keynesiana britannica “il fenomeno Thatcher non sarebbe nato, e certo non avrebbe avuto successo, senza la grave crisi degli anni settanta”. A metà anni ’70 infatti l’inedita combinazione di stagnazione e inflazione rende infatti sempre più difficile il compito di sostenere adeguatamente le imprese pubbliche e di mantenere alti i salari dei loro dipendenti. Ciò scatena però forti proteste sindacali che fanno cadere nel 1974 il governo conservatore e che nel 1978 provoca un’imponente ondata di scioperi del settore pubblico con una coda di grandi disagi collettivi.
In questa drammatica situazione il tradizionale appoggio popolare ai lavoratori e ai sindacati si riduce sensibilmente e Thatcher, con un programma di attacco frontale al sindacato del settore pubblico, riesce facilmente a vincere le elezioni nel 1979.
LA MANNAIA ANTISINDACALE E ANTILABURISTA DELLA TATCHER
Al pari di Reagan negli Stati Uniti, la Thatcher avvia un programma di indebolimento del potere sindacale. Parallelamente, la scelta di favorire un innalzamento dei tassi d’interesse ha come conseguenza un’ondata di disoccupazione che indebolisce ulteriormente tutti i sindacati: quando c’è molta disoccupazione, infatti, i sindacati sono in genere deboli e quando arriva la disoccupazione chi perde per prima il posto di lavoro sono proprio i lavoratori più sindacalizzati. Con una serie di manovre congiunte la Thatcher smantella inoltre grandi pezzi di industria pubblica e con essa i suoi sindacati, favorendo l’ingresso nel Regno Unito di molte imprese straniere.
Nel giro di tre anni il Regno Unito si trasforma così in un paese di salari relativamente bassi e con una forza lavoro molto arrendevole rispetto al resto d’Europa. Quando la Thatcher lascia la sua carica ha sradicato l’inflazione, piegato i sindacati,
domato i lavoratori e costruito progressivamente il consenso della classe media alle sue politiche. Oltre a questo Thatcher ha privatizzato tutte le imprese pubbliche, per lo più svendendole, e si è impegnata in un attacco altrettanto duro contro lo stato sociale.
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IL LIMITE: UN WELFARE NON SEMPLICE DA CORRODERE
In quest’ultimo campo tuttavia le cose non le andranno bene come in altri campi. Il programma thatcheriano di smantellamento dell’intervento pubblico nel campo dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, dei servizi sociali, della burocrazia statale e del sistema giudiziario finisce infatti con l’infrangersi davanti diverse tenaci resistenze, sia tra gli avversari ma anche tra gli alleati in quanto – come ricorda Harvey – gli inglesi si riveleranno alla fine ostili alla liberalizzazione generalizzata e alla perdita totale dei diritti sociali. La Tatcher cade infatti alla fine del 1990, dopo dodici anni di dominio incontrastato, travolta per sempre dalle proteste suscitate dal tentativo di introdurre una tassazione che colpisce in modo indifferenziato ricchi e poveri. Anche buona parte dell’elettorato che l’ha sostenuta negli anni precedenti non se la sente di seguirla su questa strada che porta in modo evidente a un arricchimento dei ceti più ricchi e a un impoverimento di quelli più poveri.
IN OGNI CASO, CAMBIAMENTI ECONOMICO‐ISTITUZIONALI DALLE CONSEGUENZE PROFONDE
Questo fallimento e la conseguente fine della sua carriera politica non vuol dire che la Thatcher non sia riuscita a cambiare il volto culturale e politico della società britannica. Essa ha anzitutto governato per quasi dodici anni propugnando apertamente una versione estrema del neoliberismo (“non esiste la società ma solo individui” e “non c’è alternativa” sono stati – come si è visto – i suoi slogan preferiti, ben più radicali e consapevoli di quelli americani) riuscendo a indebolire e a rendere marginale da un lato tutto il mondo solidale della classe lavoratrice inglese trasformandone gran parte in classe media consumatrice individualizzata e passiva; da un altro lato ha favorito l’ascesa di un nuovo ceto di potere legato alla finanza internazionale che non sempre coincideva con il vecchio potere aristocratico.
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28A.4. Caso statunitense e caso britannico: un bilancio
Harvey conclude il confronto tra il caso britannico e il caso statunitense con un rapido bilancio che anticipa le vicende successive:
Ronald Reagan e Margaret Thatcher colsero le opportunità che si erano presentate negli anni precedenti (dal Cile a New York) e si posero alla testa di una classe decisa a ripristinare il proprio potere. Il loro punto di forza è consistito nel creare un’eredità e una tradizione in grado di condizionare i politici successivi, imponendo loro una serie di costrizioni cui non potevano sottrarsi facilmente. Quelli che sono venuti dopo, come Clinton e Blair, hanno potuto fare poco altro, se non continuare l’opera di neoliberalizzazione, che a loro piacesse o no.
LEZIONE 28B. HARVEY, STORIA DEL NEOLIBERISMO. III.
LO STATO NEOLIBERISTA
SOMMARIO. Introduzione. Lo stato liberista in teoria. Tensioni e contraddizioni. Lo stato liberista nella pratica. La risposta neoconservatrice.
28B.1. Introduzione
Una questione della massima importanza è quella del rapporto tra il neoliberismo e lo Stato o – per essere più precisi – del rapporto da un lato della teoria neoliberista con lo Stato e da un altro lato delle politiche adottate concretamente dai politici e dai governi neoliberisti riguardo al significato, al funzionamento e all’utilizzo dello Stato. Perché non sempre la teoria e la pratica hanno coinciso e coincidono.
Come si è visto, infatti, secondo la dottrina neoliberista lo Stato deve ridurre al minimo il suo intervento e in economia più che in ogni altro campo. Ciononostante – e anche questo lo si è visto – il rapporto tra neoliberismo e Stato non è soltanto un rapporto di estraneità o addirittura di ostilità, ma è anche un rapporto di collaborazione, a volte molto stretta.
Ciò determina di fatto una contraddizione tra la teoria neoliberista e la sua pratica concreta.
Ma la pratica dimostra soprattutto che ci sono casi nazionali molto diversi tra loro, il che indica come il neoliberismo non sia un fenomeno univoco e compatto ma che esso sia un fenomeno in parte instabile e contraddittorio.
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28B.2. Lo stato liberista in teoria
LO STATO NEOLIBERISTA: I SUOI COMPITI
La prima cosa da osservare è che esiste una precisa teoria neoliberista di cosa dovrebbe essere e fare lo Stato. Secondo tale teoria lo Stato dovrebbe anzitutto favorire:
. il diritto individuale alla proprietà privata
. il primato della legalità
. l’istituzione di mercati in grado di funzionare liberamente
. il libero scambio.
La struttura legale privilegiata dalla teoria neoliberista per la regolazione dei rapporti economici e sociali è quella degli obblighi contrattuali liberamente negoziati nel mercato tra individui giuridici.
Il più importante compito dello Stato è quello di proteggere a tutti i costi e se necessario con la violenza
. tali contratti
. i diritti individuali, alla libertà d’azione, di espressione e di scelta
. la libertà delle imprese commerciali e delle grandi aziende di operare all’interno della struttura istituzionale dei mercati liberi e del libero scambio
Così facendo ‐ secondo la teoria ‐ lo Stato incoraggia le imprese
. a investire
. a fare innovazione tecnologica
. ad aumentare in tal modo la produttività
cosa che a sua volta dovrebbe garantire
. la crescita della ricchezza
. e di conseguenza un livello di vita più alto per tutti, e non soltanto per gli imprenditori
Si noti come attraverso questo tipo di ragionamento il neoliberismo non appare più soltanto come una teoria economia o come una opzione di politica economica tra le tante, ma si trasforma in una ricetta di arricchimento generalizzato non discutibile, una grande promessa per tutta l’umanità, di fatto priva di alternative credibili.
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LO STATO NEOLIBERISTA E LA PRIVATIZZAZIONE
Un altro compito fondamentale dello Stato neoliberista è quello della privatizzazione: secondo i neoliberisti, la privatizzazione e la deregolamentazione, combinate con la competizione accrescono l’efficienza e la produttività, migliorano la qualità e riducono i costi, sia direttamente presso il consumatore perché prodotti e servizi costano meno, sia indirettamente per via della riduzione del peso fiscale.
LO STATO NEOLIBERISTA E I SUOI RISVOLTI CULTURALI SULLA VITA DEI SINGOLI INDIVIDUI
Ma un altro fondamentale effetto dello Stato neoliberista si dispiega nella sfera mentale, culturale.
Una volta garantita la libertà personale e individuale nel mercato, ciascun individuo è ritenuto infatti il solo e unico responsabile delle proprie azioni e del proprio benessere, e può essere chiamato a risponderne. Il successo o l’insuccesso individuale vengono così sempre più interpretati in termini di doti imprenditoriali o di fallimenti personali invece di essere attribuite – in parte o del tutto – alle caratteristiche del sistema economico e sociale. Questa caratteristica della visione del mondo neoliberista – che ha avuto enorme successo, radicandosi profondamente nella mentalità delle opinioni pubbliche dei paesi industrializzati – ha un duplice effetto: allontanare l’attenzione dal cattivo funzionamento o dalle distorsioni strutturali del sistema sociale ed economico e infondere nelle persone una mentalità competitiva, anti‐solidale e un profondo senso di colpa rispetto ai propri fallimenti, anche quando non sono addebitabili a responsabilità personali.
STATO NEOLIBERISTA CONTRO DEMOCRAZIA?
Un aspetto della massima importanza è la distanza che viene a crearsi all’interno del pensiero neoliberista tra libertà e democrazia.
L’enfasi neoliberista sulla libertà non vuol dire infatti – come ci si potrebbe attendere – un’accettazione piena e convinta della democrazia. Il governo basato sulla regola della maggioranza è visto infatti come una minaccia potenziale ai diritti individuali e alle libertà costituzionali per cui i neoliberisti tendono a favorire l’egemonia degli esperti e delle élite rispetto a quella delle assemblee elettive, dei partiti e dei sindacati, tutte espressioni tradizionali della volontà popolare. Nel pensiero e nella pratica del neoliberismo esiste quindi una netta preferenza per l’esercizio del governo tramite decreti esecutivi e decisioni giudiziarie, piuttosto che tramite il processo decisionale democratico e parlamentare.
28B.3. Tensioni e contraddizioni
La teoria neoliberista nasconde però anche delle vere e proprie contraddizioni che rendono estremamente difficoltoso – se non impossibile – realizzare uno Stato neoliberista del tutto coerente con la dottrina del movimento.
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Harvey ne elenca quattro, ma qui ci si sofferma solo sull’ultima di esse1, che si ricollega a quanto appena detto sul contrasto tra neoliberismo e democrazia.
L’individualismo possessivo può infatti entrare in contraddizione col diffuso desiderio delle persone di organizzarsi e di scegliere liberamente. Ciò crea spesso delle situazioni a loro volta contraddittorie.
Harvey scrive infatti che i neoliberisti devono imporre limitazioni sostanziali al governo democratico e affidarsi – soprattutto per certe decisioni cruciali – a istituzioni non democratiche e non tenute a rendere conto dei propri atti (come ad esempio il Fondo monetario internazionale) col risultato paradossale di massicci interventi dello Stato e un governo affidato alle élite e agli esperti in un mondo in cui in teoria lo Stato non dovrebbe intervenire oppure dovrebbe ridurre al minimo indispensabile i propri interventi. Di fronte a movimenti sociali che chiedono interventi pubblici, quindi, lo Stato neoliberista è costretto a intervenire, a volte in modo repressivo, negando così proprio quella libertà che dovrebbe difendere.
28B.4. Lo stato liberista nella pratica
Tutte queste contraddizioni interne alla teoria rendono dunque difficile da un lato dare una definizione precisa e univoca dello Stato neoliberista e da un altro lato realizzarlo concretamente e in modo coerente.
A rendere ancora più difficile questa impresa sta il fatto che esiste anche un gran numero di altre divergenze tra la teoria e le sue applicazioni e che l’evoluzione del processo di neoliberalizzazione ha costretto i neoliberisti stessi a introdurre notevoli aggiustamenti da un luogo all’altro e da un periodo all’altro.
Nonostante una definizione precisa e univoca dello stato neoliberista sia dunque impossibile si possono però individuare alcuni elementi ricorrenti, cioè alcune situazioni in cui la pratica tradisce sistematicamente la teoria e in particolare quella parte della teoria che cerca di accreditare le politiche neoliberiste come uniche vere garanti del massimo di benessere collettivo.
Ciò accade tipcamente quando lo Stato neoliberista tende a schierarsi a favore di un clima propizio all’attività economica e così facendo danneggia i diritti collettivi e la qualità della vita dei lavoratori oppure la capacità dell’ambiente di rigenerarsi. Ciò accade anche quando essendo costretti a scegliere tra l’integrità del sistema finanziario e la solvibilità delle istituzioni finanziarie al benessere della popolazione o alla qualità dell’ambiente essi privilegiano decisamente l’interesse del sistema e delle istituzioni finanziarie. O ancora quando la neoliberalizzazione deve operare in ambienti in cui il keynesismo è molto solido e non totalmente attaccabile e quindi i suoi disegni possono realizzarsi soltanto in parte.
1 Per una miglior comprensione dell’argomentazione di Harvey si rimanda ancora una volta alla lettura del
testo integrale di Breve storia del neoliberismo.
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Ma il settore in cui la pratica contraddice più sistematicamente la teoria neoliberista è però quello del capitale e delle istituzioni finanziarie. Questo è un punto di estrema importanza e soprattutto profondamente attuale.
Dice Harvey:
Normalmente gli stati neoliberisti favoriscono la crescita dell’influenza delle istituzioni finanziarie attraverso la deregolamentazione, ma oltre a ciò spesso arrivano a garantire a qualsiasi costo l’integrità e la solvibilità delle istituzioni finanziarie. Questo impegno deriva in parte fatto che si ci affida al monetarismo come elemento fondamentale della politica statale, e l’integrità e validità del denaro è cruciale per una simile politica. Ma questo paradossalmente significa che lo stato neoliberista non può tollerare nessuna grave inadempienza finanziaria anche quando sono state le stesse istituzioni finanziarie a prendere decisioni sbagliate. Lo stato deve farsi avanti e sostituire il denaro «cattivo» con il proprio denaro, che si suppone «buono», e questo spiega la pressione sulle banche centrali perché tengano viva la fiducia nella validità del denaro dello stato. Il potere statale viene di conseguenza usato con grande frequenza per togliere dai guai aziende o evitare fallimenti commerciali. Il Fondo monetario internazionale di fatto copre, per quanto gli è possibile, i rischi e le incertezze nei mercati finanziari internazionali ma questa prassi è difficile da giustificare secondo la teoria neoliberista, visto che in linea di principio gli investitori dovrebbero essere responsabili dei loro errori. Questa prassi ‐ dare la priorità alle esigenze delle banche e delle istituzioni finanziarie penalizzando i livelli di vita del paese debitore ‐ era già stata messa alla prova durante la crisi debitoria della città di New York. Nel contesto internazionale ciò significava ricavare surplus dalle popolazioni povere del Terzo Mondo per ripagare i banchieri internazionali.
Ma questo, si può aggiungere a distanza di dieci anni dalla pubblicazione del libro di Harvey, è esattamente ciò che è stato fatto nel caso del debito greco con conseguenze catastrofiche non solo per i livelli di vita della popolazione greca ma anche per lo stesso sistema finanziario internazionale.
Gli stati più ricchi, insomma difendono gli interessi delle proprie banche quando queste risucchiano i surplus provenienti da altre aree e ciò consolida ancor più la tendenza alla concentrazione di potere nelle mani dei detentori della ricchezza finanziaria.
Tutto ciò dimostra bene – secondo Harvey – come l’utilizzo delle strategie neoliberiste attraverso i poteri dello Stato e delle grandi istituzioni pubbliche internazionali serva molto più a concentrare potere che non a far funzionare correttamente l’economia. Se infatti in questi casi i principi teorici del neoliberismo venissero rigorosamente rispettati sarebbe punito con gravi perdite chi presta danaro in modo incauto e non chi lo prende a prestito, mentre solitamente avviene il contrario: è lo Stato cioè che fa sì che chi presta il denaro sia sempre al sicuro, qualsiasi cosa faccia, anche la più sconsiderata e perfino criminale.
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Esistono naturalmente dei limiti alla possibilità di far pagare i debitori, per cui una strategia che è necessario a volte adottare è quella della parziale cancellazione del debito nella speranza di recuperare qualcosa in cambio delle politiche di “aggiustamento strutturale”, che abbiamo già visto.
Delle politiche di aggiustamento strutturale hanno fatto parte e continuano a far parte in modo sistematico delle ristrutturazioni del mercato del lavoro finalizzate a:
. ridurre le retribuzioni dei lavoratori
. accrescere l’insicurezza riguardo alla stabilità del posto di lavoro
. eliminare numerosi benefici tradizionalmente associati al posto di lavoro
. eliminare gran parte delle garanzie tradizionalmente associate al lavoro.
Questa flessibilizzazione e precarizzazione estrema del lavoro e il progressivo abbattimento del welfare hanno come effetto congiunto di esporre strati sempre più vasti della popolazione all’impoverimento.
LA MODIFICAZIONE DELLA GOVERNANCE
Per poter imporre efficacemente cambiamenti economici, sociali e culturali di questa portata è stato inoltre necessario modificare la natura della decisione politica, sostanzialmente in senso meno democratico, magari attraverso il meccanismo delle partnership pubblico‐privato: non sono solo più le istituzioni pubbliche, democraticamente elette, a decidere bensì dei circoli formati in parte da eletti, in parte da tecnici e in parte da imprenditori.
In conseguenza di questa trasformazione lo Stato produce leggi e strutture normative che avvantaggiano le aziende, e in alcuni casi interessi specifici di settore come quelli legati all’energia, alla produzione farmaceutica e alle imprese agricole. In molti casi di partnership tra pubblico e privato, e in particolare a livello municipale, lo Stato si assume buona parte dei rischi mentre il privato ricava gran parte dei profitti. Se necessario, poi, lo Stato neoliberista ricorre a leggi coercitive e a tattiche poliziesche ‐ norme contro i picchettaggi, per esempio, o provvedimenti che limitano la libertà di sciopero o di manifestare – per disperdere o reprimere le forme collettive di opposizione alle grandi aziende.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una contraddizione evidente tra pratica dello stato neoliberista e teoria neoliberista in quanto non viene rispettata, anzi viene ridotta, la pretesa eguaglianza di partenza tra i vari soggetti economici.
Tutto questo rende evidente come – a differenza di quanto proclamato dalla sua teoria – il neoliberismo non rende irrilevante lo Stato, ma piuttosto lo ridisegna. Si può inoltre concludere che il liberismo appare come una forma politica instabile e transitoria a causa della contraddizione sempre più evidente tra scopi dichiarati – il benessere di tutti – e risultati effettivi ‐ restaurazione del potere delle classi alte.
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A quest’ultimo proposito si deve aggiungere che lo scollamento tra la teoria neoliberista e la sua prassi si nutre anche di altre cinque contraddizioni minori:
. la pretesa che Stato stia in disparte sulle questioni economiche e al tempo stesso che intervenga per creare il clima favorevole agli investimenti.
. la proclamazione di ideali di libertà individuale va di pari passo con provvedimenti che impongono il mercato per via autoritaria
. l’individualismo irresponsabile degli attori risulta cruciale per preservare l’integrità del sistema finanziario ma al tempo stesso produce volatilità speculativa, scandali finanziari e instabilità cronica
. si esalta la competizione ma si creano nei fatti poteri sempre più oligopolistici se non monopolistici
. a livello di costumi, di mentalità, di abitudini presso la gente comune la spinta verso la libertà di mercato e la trasformazione di ogni cosa in merce può facilmente produrre frustrazione, disagio, incoerenza sociale e rivolta
28B.5. La risposta neoconservatrice
Tutte le difficoltà e le contraddizioni sinora evidenziate fanno pensare che nonostante il suo apparentemente incontrastato dominio politico e culturale a livello planetario lo Stato neoliberista sia intrinsecamente instabile e destinato ad essere prima o poi superato. Come potrebbero fare, però, le classi dirigenti attuali a superarlo senza modificare i rapporti di potere così faticosamente conquistati?
Un tentativo di “superamento dall’interno” delle contraddizioni del neoliberismo appariva – almeno al momento della pubblicazione del libro, nel 2005 – quello neoconservatore.
Quella neoconservatrice è una risposta che al 2005, al momento della stesura del libro, sembrava molto praticata, ma che in effetti si è dimostrata anch’essa fragile dando vita in
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diversi paesi e anzitutto negli Stati Uniti a disagio e instabilità politica che hanno generato negli anni successivi o risposte blandamente progressiste ma sostanzialmente non critiche degli assetti neoliberisti – Obama, ad esempio – o più di recente risposte di tipo populista, che in apparenza combattono alcuni aspetti qualificanti del neoliberismo – il libero scambio, ad esempio – ma conservandone ed esasperandone altri – l’ostilità verso l’intervento pubblico in economia. E’ il caso, recente, di Donald Trump.
In cosa consisteva, in ogni caso, e in cosa consiste ancor oggi la risposta neoconservatrice, di cui comunque un politico come Trump resta in gran parte erede? Quella neoconservatrice è anzitutto una visione che non coincide del tutto con quella neoliberista.
Le varie politiche neoconservatrici concordano su:
. la necessità di conservare quanto più potere possibile nelle mani delle grandi aziende e degli investitori finanziari
. la restaurazione di un saldo potere nelle mani delle classi alte, in caso concedendo particolari spazi di tutela ad alcuni gruppi di antico radicamento (i lavoratori bianchi cristiani eterosessuali statunitensi, ad esempio)
. una sostanziale sfiducia nella democrazia
. il ricorso al governo delle élite o addirittura – e più di recente ‐ a quello di uomini forti, svincolati il più possibile dalle mediazioni della politica
. la libertà di mercato
Esse tuttavia discordano ampiamente dai neoliberisti riguardo all’enfasi posta sulla priorità degli interessi individuali e sul disinteresse per qualsiasi forma di morale collettiva. Essi propugnano infatti:
. l’ordine sociale come argine al caos degli interessi individuali
. una morale esasperata come collante sociale al fine di mantenere uno Stato forte
Con i neoconservatori si torna insomma a una centralità dello Stato come monopolio della forza e come grande dispiegamento poliziesco, sia interno che internazionale. Per costoro il consenso deve essere costruito non tanto attorno a dei dogmi economici – come avviene invece nel caso del neoliberismo classico – ma a un complesso coerente di valori morali, quelli ‐ per la precisione ‐ che dagli anni ’70 in poi hanno fatto leva sui sentimenti dei ceti operai bianchi scontenti (nazionalismo culturale, virtù morale, cristianesimo conservatore, famiglia e diritto alla vita) e sull’opposizione ai nuovi movimenti sociali come il femminismo, i diritti degli omosessuali, la tutela dei diritti delle minoranze e l’ambientalismo. A ciò si è sempre più aggiunto – anche a causa delle devastazioni sociali provocate dalla crisi economica tanto nei paesi del nord quanto in quelli del Sud del mondo
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– una crescente insofferenza verso gli immigrati che sfocia sovente in forme di aperto razzismo.
Negli Stati Uniti questo compattamento culturale ha funzionato, ha modificato radicalmente l’identità politica del Partito Repubblicano e ha garantito le vittorie di Reagan prima e di Bush padre e figlio poi. Il nucleo più forte di opposizione alla presidenza Obama è stato costituito dai cosiddetti “tea party” che sono una forma molto estrema di neoconservatorismo e Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali del 2016 appoggiandosi alle frange più estreme di questo movimento e facendo proprio il loro linguaggio e i loro obiettivi, anche oltre la linea politica ufficiale del Partito repubblicano.
Ma ciò è avvenuto anche in molti altri paesi ed è un fenomeno che ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni a causa dell’instabilità e del disagio provocato dalla grande crisi economica iniziata nel 2008 e ancora in corso.
Tutto questo, però, introduce ulteriori contraddizioni interne e ulteriori incoerenze nel già contraddittorio impianto neoliberista e ulteriori tensioni tra la teoria e la pratica di governo.