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Psicologia - Logopedia - Autismi - Disabilità - Anziani - Minori

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Argomenti trattati

• Attività in RSA

• I fattori di stress

• Gestire le reazioni legate allo stress

• Riflessioni

• Comunicare con i familiari

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I l manuale, nato da esperienze concrete realizzate all’interno di una struttura residenziale, è un testo pratico e completo finaliz-zato a migliorare il benessere degli anziani, autonomi o semi-

autosufficienti, attraverso il potenziamento delle capacità cognitive e il mantenimento delle abilità intellettuali residue.

Il libro è articolato in due parti: a una breve sezione introduttiva, che riporta le informazioni fondamentali per svolgere le attività ludico-riabilitative con le persone anziane, segue un’ampia seconda parte, prettamente pratica. Quest’ultima presenta un iter operativo completo, che va dalle modalità di programmazione dell’animazione, agli esercizi da ef-fettuare, alle griglie di valutazione dei risultati.

Le attività proposte si suddividono in sei sezioni:• Le attività con le immagini visive• I laboratori linguistici• Gli esercizi percettivo-spaziali• I laboratori creativi• Le attività sociali• Le attività dinamiche.

Per ogni esercizio o gioco, progettati o adattati per sollecitare le risorse, cognitive e non, dell’individuo, sono indicati in modo det-tagliato gli obiettivi preposti, le modalità di svolgimento, i materiali necessari, i livelli di funzionalità richiesti. Sono inoltre presenti numerose schede finalizzate al lavoro individuale.Attività di animazione con gli anziani è uno strumento valido e innovativo che si rivolge a tutti gli operatori che si occupano di animazione professionale, ma anche agli assistenti domiciliari e ai familiari stessi che intendono promuovere il benessere psicologico e cognitivo della persona cara in modo semplice, efficace e divertente.

SCHEDA 1 PAROLEVERE O FALSE?

I LABORATO

RI LINGUISTICI

Metti una X sopra la lettera V se la parola è VERA oppure una X sulla F se la parola è FALSA.V F V F V FPACCO VUCCO SERIO

V F V F V FALLINA PURTA ZIZZOV F V F V FANSA OFTIO CUNTO

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94 ◆ © 2013, L. Pedrinelli Carrara, Attività di animazione con gli anziani, Trento, Erickson

un iter operativo completo, che va dalle modalità di PURTAPURTAPURTAPURTAPURTA ZIZZOZIZZOZIZZOV F V F VANSAANSAANSAANSAANSA OFTIOOFTIOOFTIOOFTIOOFTIOOFTIO CUNTOCUNTOCUNTO

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94 ◆ © 2013, L. Pedrinelli Carrara, Attività di animazione con gli anziani, Trento, Erickson

LE ATTIVITÀ CON LE IMMAGINI VISIVELe cose e i loro nomi

MATERIALE PER L’OPERATORE O IL FAMILIARE

CARD per il gioco

© 2013, L. Pedrinelli Carrara, Attività di animazione con gli anziani, Trento, Erickson ◆ 53

Laura Pedrinelli Carrara

ATTIVITÀ DI ANIMAZIONECON GLI ANZIANI

Stimolare le abilità cognitive e socio-relazionali nella terza età

€ 22,00

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CAPITOLO 1 – L’ANZIANO ISTITUZIONALIZZATO

Con il termine istituzionalizzare si intende, in questo contesto, la necessità di ricoverare l’anziano in strutture residenziali assistenziali e/o di cura a lungo termine.

Le principali cause dell’inserimento in tali strutture possono essere:– problemi funzionali: difficoltà oggettive di tipo fisico e/o mentale nel prendersi cura di sé (problemi o man-

canze nella cura dell’igiene personale, nella preparazione dei pasti, nell’assunzione di farmaci, ecc.), difficol-tà nel gestire la casa e il quotidiano;

– problemi di tipo economico: difficoltà a rimanere nel proprio alloggio e a gestire il quotidiano per motivi economici;

– problemi di salute: presenza di patologie non facilmente gestibili a livello assistenziale e di cura in casa;– problemi di tipo psicologico: difficoltà psichiche ed emotive che comportano insicurezza nella gestione di

sé e della casa (ad esempio: paura di cadere, di lasciare acceso il fornello, paura di trovarsi in situazioni di emergenza senza aiuto), senso di solitudine, contrasti familiari.

Gli istituti per anziani sono strutture che aiutano le famiglie a far mantenere una buona qualità di vita ai loro cari, i quali, per motivi di età, di salute o economici, non possono più essere lasciati soli o accuditi da personale non competente. È bene tener presente che per certe patologie è indispensabile un controllo me-dico e/o infermieristico costante e che non tutte le mura domestiche possono garantire una buona qualità di vita all’anziano e soddisfare appieno le necessità riabilitative, economiche e di cura. Tali difficoltà risultano ancora maggiori quando nel soggetto è presente una demenza o altre gravi patologie.

Per contro, l’istituzionalizzazione può comportare l’assenza di stimoli mentali appropriati e individua-lizzati e la mancanza della continuità di riferimenti affettivi importanti. Inoltre, l’anziano vive in un ambiente standardizzato: gli orari e la tipologia dei pasti sono già impostati, i compleanni sono sovente festeggiati in un’unica data mensile, gli spazi propri sono limitati e spesso condivisi con persone estranee alla propria vita. Soprattutto per gli anziani semi-autosufficienti, le interazioni e le iniziative personali rimangono molto più limitate aumentando così il tempo vuoto. Tutto questo può creare in alcuni utenti confusione temporale e abitudine alla pigrizia e alla passività mentale, particolarmente in quelli semi o non autosufficienti.

Proprio perché le comunità per anziani comportano le risorse ma anche i limiti dell’istituzionalizzazio-ne, esse non possono essere focalizzate come sostitute della casa, se la intendiamo come presenza di riferi-menti sociali e affettivi e di una vita individualizzata. Per compensare il più possibile i limiti appena espressi, queste strutture spesso includono attività specifiche come la pet therapy, l’animazione professionale, il teatro, la musicoterapia, l’arteterapia e la clownterapia che apportano momenti ludici, creativi e terapeutici miglio-rando il benessere dell’anziano e la sua qualità di vita.

PRIMA PARTE ASPETTI BASE DELL’ANIMAZIONE

CON GLI ANZIANI

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12 ◆ Attività di animazione con gli anziani

Il vissuto psicologico dell’anziano istituzionalizzato

L’età raggomitolata irrompe, emozioni, colori, sapori divengono ricordi,

divengono passato, ma la vita è sempre fertile

e negli occhi di chi della vita ha già bevuto traspare l’essenza, come tristezza

che dolorose perdite racconta e come gioia intrisa di vita

e che alla vita torna.

Inserirsi in una struttura per anziani comporta reazioni psicologiche diverse in base a numerosi fattori: personali e oggettivi. Generalmente, il primo impatto con la nuova dimora non lascia la persona indifferente, ma è assai probabile che l’anziano risenta di un cambiamento così importante, soprattutto quando il trasloco avviene dalla propria casa o comunque da un luogo al quale si era positivamente adattato.

Il vissuto psicologico durante l’istituzionalizzazione, cioè quando la persona arriva in Comunità, può essere suddiviso in tre fasi.1. Il ricovero: in questa fase, le ripercussioni psicologiche sono strettamente collegate alla causa e al modo

attraverso il quale l’anziano è entrato nella struttura. Di fatto, la motivazione primaria è solitamente la perdita, parziale o totale, di autonomia del soggetto (per motivi diversi) unita al bisogno di cure e/o assi-stenza. Le cause che conducono all’istituzionalizzazione, la motivazione o meno da parte dell’anziano e la modalità attraverso la quale si effettua il ricovero (graduale, repentino, per iniziativa dell’anziano, ecc.) pos-sono avere un effetto importante sull’accettazione. Si può osservare l’entusiasmo dell’anziano solo, che ha scelto di vivere nella Comunità non sentendosi più sicuro nella propria casa, e lo smarrimento dell’utente con demenza che chiede continuamente di chiamare il familiare per tornare nella propria dimora.

2. La sindrome del primo mese: si riferisce a un problematico adattamento dell’anziano nella nuova residenza, ovviamente la durata è soggettiva e il tempo di un mese è indicativo. Può succedere che egli abbia deter-minate reazioni come: la confusione mentale, l’agitazione, l’apatia, il rifiuto, la regressione e l’ostilità per la perdita del proprio ambiente di vita, per vedere limitata la propria libertà individuale, per la variazione in quantità e qualità delle relazioni familiari e significative e la percezione dell’avvicinamento di fine vita. I vissuti emotivi negativi legati all’adattamento nella struttura, quindi, possono influenzare le prestazio-ni cognitive dell’anziano producendo uno stato di confusione e rallentamento mentale; stessa cosa può accadere per le reazioni comportamentali. Generalmente, una volta superato questo periodo, l’anziano recupera il suo standard cognitivo e comportamentale. Anche quando l’utente non vive una vera e propria sindrome del primo mese, questo periodo iniziale rappresenta comunque un momento di cambiamento: nuovo alloggio, nuove persone, nuove abitudini a cui egli si deve adattare.

3. L’accomodamento: dopo la crisi del primo mese, si può osservare nell’anziano un recupero delle condizioni di salute antecedenti il ricovero oppure un progressivo deterioramento.

Tra i fattori che nell’insieme possono innescare il deterioramento ci sono: – l’inadeguatezza dell’assistenza e il contesto ambientale (limiti strutturali e assistenziali, tipologia

dell’utenza); – i conflitti familiari e le loro ripercussioni sul vissuto in struttura dell’anziano; – le caratteristiche di personalità dell’anziano: la mancanza di reattività, la poca propensione all’adatta-

mento, la visione pessimistica e il carattere introverso; – il vissuto psicologico circa le compromissioni a livello fisico e/o mentale; – la tipologia e la severità delle patologie presenti. Al contrario, una personalità ottimista, reattiva, socievole e facilmente adattabile, con una buona tolleran-

za dei propri limiti psicofisici e di quelli dati dai deficit organici, in un contesto comunitario ben organizza-to e con buone relazioni familiari, avrà con maggiore probabilità un accomodamento positivo.

PRIMA PARTE

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L’anziano istituzionalizzato ◆ 13

Da quanto sopra espresso, si comprende che entrare ad abitare in una struttura residenziale per anziani comporta grandi mutamenti: cambia il contesto di vita, variano i punti di riferimento, si modifica la conce-zione di autonomia, per citarne solo alcuni.

L’anziano, negli anni, ha modificato certi aspetti del suo carattere e ha diminuito il livello di performan-ce, la consapevolezza di ciò lo rende generalmente più insicuro nell’affrontare nuove situazioni e nuovi com-piti e quindi più ostico ai cambiamenti. Di fatto, nella sua casa, la persona è abituata ai propri ritmi di vita, a essere attorniata da visi conosciuti e ai riferimenti quotidiani con cui si confronta, in molti casi, da sempre. Questo fa sì che gli anziani preferiscano, solitamente, non cambiare casa e non mutare le abitudini; in questo modo, essi possono continuare a confrontarsi con comportamenti e usanze che conoscono molto bene e per i quali non hanno bisogno, o ne hanno molto meno, di essere aiutati.

Stanze, mobili, strade fanno parte della loro storia di vita, dei ricordi più importanti, e restarne privi è un po’ come smarrire se stessi. Non secondario il fatto di perdere i contesti familiari e di vedere limitata la propria libertà individuale trovandosi, in molti casi, a condividere una stanza con una o più persone sconosciute. La convivenza è un’esperienza altamente complessa, ma lo è ancor di più in un’età dove si sono ben consolidate abitudini e ritualità.

Per questi motivi, di solito, l’utente che entra in una casa di riposo vive un periodo, generalmente il primo mese, di grande difficoltà e spesso di rifiuto della nuova collocazione. In alcuni casi può manifestarsi il sentimento di essere stati abbandonati dai propri cari, di essere rifiutati, oppure di non avere più nulla da dare e di essere divenuti solo un peso.

Anche nelle situazioni di maggiore difficoltà fisica e/o mentale, o di propria scelta nell’entrare in Comu-nità, il cambiamento di ambiente, di alimentazione, di orari, di persone, ha un’importante influenza, minore o maggiore a seconda degli individui.

Inoltre, nei casi in cui l’anziano non possa più camminare da solo, si può innescare la difficoltà psico-logica ad accettare un’ulteriore fase di decadimento vissuta, spesso, come oggettivo disfacimento poiché compromette in modo importante la propria autonomia fisica. In alcune situazioni, si nota un crollo delle fa-coltà cognitive e di reazione dell’utente; in altri casi, dopo una prima difficoltà di accettazione avviene l’adat-tamento e l’anziano recupera, totalmente o in parte, la volontà d’interazione sociale e le abilità cognitive. In effetti, essere costretti a stare in una carrozzina significa vivere un grande mutamento della propria qualità di vita, data dalla notevole diminuzione dell’autonomia e quindi della libertà di movimento; ora l’utente per spostarsi avrà molte più difficoltà, spesso dovrà farsi aiutare e, soprattutto, si troverà a doversi confrontare con l’esigenza di rivolgersi molto più di frequente a qualcuno quando necessita di qualcosa.

In molti casi, questa nuova situazione innesca dei meccanismi regressivi che portano la persona a do-mandare aiuto agli altri anche quando può fare da sola, per motivi che sono, generalmente, riconducibili a un bisogno di attenzione e di affetto.

Altri motivi di disadattamento sono dovuti, per alcuni studiosi, a cause biologiche, come le alterazioni metaboliche citate da Passeri e l’insufficienza vascolare cerebrale ricordata da Ferruglio (Aveni Casucci, 1992).

Ci sono anche anziani, soprattutto donne, che riescono a trovare un modo per continuare a sentirsi utili, realizzando qualcosa di attivo e produttivo all’interno della Casa; questa modalità, spesso, li aiuta a adattarsi meglio e a mantenersi abili più a lungo.

Non di rado, è l’anziano a voler entrare in Comunità, perché comprende che da solo non può più con-tinuare a prendersi cura di sé, per motivi di salute o di difficoltà oggettive per le quali ha bisogno di vivere in un posto dove altre persone si possano prendere cura di lui. In questi casi, l’integrazione nella Comunità può risultare più semplice e immediata, l’autonomia fisica gli permette di poter coltivare le proprie relazioni sociali anche al di fuori della struttura e di continuare a sentirsi dinamico e produttivo. Anche in questo caso, la vita della persona cambia perché si deve rapportare alle abitudini imposte dalla Comunità (orari, scelta dei pasti, regole) e al nuovo contesto ambientale, ma solitamente c’è un miglior approccio e un vis-suto più sereno.

Date queste premesse, si può comprendere quanto la persona anziana istituzionalizzata abbia bisogno di ritrovare stimoli diversi, di essere sollecitata agli scambi sociali, di trovare un momento per sé da condivi-dere con gli altri, di vivere momenti allegri assieme agli altri utenti e ai familiari.

PRIMA PARTE

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14 ◆ Attività di animazione con gli anziani

CAPITOLO 2 – L’ANIMAZIONE PROFESSIONALE CON GLI ANZIANI

L’animazione professionale con gli anziani è un’attività che si avvale di metodologie specifiche e di inter-venti volti a mantenere e a sollecitare le abilità psicologiche, cognitive e sociali. Essa promuove il benessere della persona nel pieno rispetto dell’unicità dei soggetti coinvolti e facilitando un clima ludico ed emotiva-mente positivo.

Svolgere l’animazione professionale con gli anziani non significa soltanto effettuare diversi tipi di eserci-zi, in base all’esigenza degli utenti. A livello esperienziale, è importante che l’animatore sappia relazionarsi con persone anziane nelle loro diversità caratteriali e di compromissione della salute: dall’utente più disponibile a quello più scontroso, da quello più abile a quello con decadimento mentale.

Riguardo alla sfera interpersonale, non è sempre facile lavorare con un gruppo di anziani, spesso ci si confronta con i loro e i propri limiti, come ad esempio i problemi di incontinenza, che, anche se gestiti, posso-no produrre odori sgradevoli, oppure l’attuazione di determinate condotte più disinibite o aggressive, dovute spesso a problemi di demenza.

Dal punto di vista comportamentale, è bene comprendere il temperamento di ogni persona: ci sono anziani tranquilli e sereni, ma ci sono anche anziani irruenti, che possono essere ugualmente delle risorse importanti se trattati adeguatamente.

Inoltre, durante l’animazione, alcune persone possono richiedere una continua attenzione, stimolando la gelosia degli altri e interrompendo di continuo l’attività: è importante saper gestire il gruppo per evitare di creare contrasti e stimolare aggressività.

Lavorare in questo campo, come in molte altre situazioni comunitarie, è un’esperienza che ci fa incon-trare l’altro con tutte le sue emozioni più difficili, come la rabbia, il senso di solitudine e di abbandono, la ma-linconia e la depressione. È anche un’esperienza che però, allo stesso tempo, ci fa confrontare con la bellezza della spontaneità, dell’allegria coinvolgente, dell’ironia e dell’affettività.

La sinergia fra aspetti positivi e critici è molto presente quando si lavora con gli anziani. Da un lato ci si arricchisce con gli scambi affettivi, gli apporti esperienziali e i valori esistenziali che ne traiamo, dall’altro lato ci si confronta con gli aspetti avversi di tipo fisiologico (demenze, patologie varie) e psicologico (disagi inter-relazionali, stati depressivi o altre problematiche psichiche). Per questo motivo, il lavoro di animazione con gli anziani è molto costruttivo e appagante, ma anche altrettanto complesso.

Inoltre, interagire con l’anziano significa anche contattare parti profonde di noi stessi, che riguardano le reazioni emotive, la profondità degli sguardi, la perdita di un nostro caro, la creatività, il modo di prendere gli eventi, le rughe profonde dell’anima e la leggerezza del cuore. Quelle stesse parti che ritroviamo nella persona di cui ci stiamo prendendo cura, ma che allo stesso tempo sono un po’ anche dentro di noi. Lo sono perché ci sono familiari (quella tal persona ci ricorda un nostro caro) oppure perché ci appartengono da poco o da sempre.

La programmazione dell’animazione

Punto di partenza importante nel lavoro di animazione è la progettazione dei momenti ludico-riabili-tativi. È bene eseguire una programmazione periodica delle varie attività in modo da creare un protocollo di interventi coordinato ed eterogeneo. Allo stesso tempo, è basilare un approccio progettuale molto flessibile, poiché alcune attività possono essere svolte insieme in un unico incontro, altre possono essere personalizzate o variate in base ai bisogni e alle risorse presenti in quel momento negli utenti.

Generalmente, si consiglia agli operatori e ai familiari di creare un percorso delineato e di valutare anche i materiali occorrenti, aggiungendo la possibilità di alcuni «giochi-cuscino» se l’attività scelta non risulta essere, per quel giorno, indicata.

È fondamentale saper variare gli esercizi in base alle esigenze dell’utenza in quel momento; per questo motivo, è bene comprendere il clima del gruppo quando si inizia l’animazione, poiché può essere necessario compiere delle variazioni. Ad esempio, può succedere che gli anziani, nei giorni in cui vengono lavate le car-

PRIMA PARTE

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L’animazione professionale con gli anziani ◆ 15

rozzine, siano apatici o maggiormente agitati. Questa situazione riguarda anche gli utenti con meno problemi di deambulazione e la causa è dovuta soprattutto ai cambiamenti che comporta tale avvenimento.

Soprattutto nelle piccole Case di riposo (50-70 utenti), in poco tempo si crea una sorta di clima globale, poiché il disagio di alcuni si trasmette, quasi fosse un virus, anche ad altri. In questo caso, può essere utile effettuare un’attività meno impegnativa dal punto di vista cognitivo e divertente come la colorazione dei Mandala, che attiva diversamente gli anziani e cambia il clima negativo che si era imposto.

Inoltre, per alcuni tipi di animazione è basilare preparare in precedenza il materiale e/o realizzare le at-tività in più incontri, valutando il fatto che la durata di ogni gioco varia in base al numero di anziani e al loro livello di abilità in generale.

Nella tabella 1 è presentato un esempio di programmazione mensile. In questo caso l’animazione avvie-ne per due volte alla settimana e ogni incontro dura due ore. Per renderla più esplicativa è stata aggiunta in corsivo la tipologia specifica di gioco che si prevede per quella determinata attività. Ad esempio, martedì 3 è previsto un laboratorio creativo e si produrranno dei ciondoli per collane. La specificazione è fondamentale per l’operatore o il familiare, altrimenti può non ricordarsi ciò che aveva programmato. Nel caso invece di programmazione da appendere per divulgare il lavoro di animazione nella struttura, la specificazione può non essere presente. Il motivo è dato proprio dal fatto che l’operatore può decidere di effettuare variazioni in itinere e un prospetto troppo specifico potrebbe poi non risultare sempre così attinente a quanto realizzato.

TABELLA 1Esempio di programmazione mensile delle attività di animazione

GIORNO ORARIO ATTIVITÀ

Martedì 3 15.00-17.00 Laboratorio creativoCreare ciondoli per collane

Venerdì 6 15.00-17.00Attività percettivo-spazialie attività dinamicheEsercizi logico spaziali e palloncini

Martedì 10 15.00-17.00 Attività socialiTombola

Venerdì 13 15.00-17.00 Laboratorio creativo Pitturare i ciondoli

Martedì 17 15.00-17.00 Attività con le immagini visiveColorare il proprio nome

Venerdì 20 15.00-17.00 Laboratorio linguisticoParole gemelle, L’appartenenza, Appello numerato

Martedì 24 15.00-17.00 Attività socialiL’ultimo vince

Venerdì 27 15.00-17.00Attività dinamiche e Laboratorio creativoCanestro!, Bowling, Movimento softInfilare i ciondoli per formare le collane

Martedì 31 15.00-17.00 Attività con le immagini visiveColora il tuo Mandala

La tabella 1 rappresenta un esempio di impostazione mensile delle attività. Per facilitare la stesura della programmazione è stata creata una griglia standard da poter fotocopiare su foglio bianco o colorato e da utilizzare direttamente.

PRIMA PARTE

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Programma delle attività di animazione del mese di ....................................................................

GIORNO ORARIO ATTIVITÀ

PRIMA PARTE

16 ◆ © 2013, L. Pedrinelli Carrara, Attività di animazione con gli anziani, Trento, Erickson

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L’animazione professionale con gli anziani ◆ 17

L’operatore che lavora con il singolo utente, come nel caso dell’assistente domiciliare, compilando la tabella avrà automaticamente anche un prospetto delle attività effettuate per poter mostrare ad altri (ad esempio ai familiari) il lavoro svolto con l’anziano.

Si consiglia all’animatore che lavora in una Comunità per anziani di esporre la programmazione, in modo che i familiari e gli utenti possano interessarsi e partecipare.

Le persone abili con il computer possono creare esse stesse una propria griglia, in questo modo avranno la possibilità di inserire disegni colorati o altre figure a proprio piacimento per attirare maggiormente l’atten-zione dei possibili partecipanti.

Concludendo, l’animazione professionale in una Comunità per anziani è un percorso di crescita per gli utenti, ma anche un insegnamento per gli animatori.

Come disse Henri-Frédéric Amiel: Saper invecchiare è il capolavoro della saggezza e una delle cose più difficili nell’arte difficilissima della vita.

La riabilitazione cognitiva dell’anziano istituzionalizzato

Per molti anni si è creduto alla teoria «usa e getta», cioè che le capacità perse non potevano più essere riabilitate. Oggi, invece, si crede nella possibilità dei neuroni di rigenerarsi e nella compensazione di alcune zone adiacenti a quelle lese (Berlucchi e Butchel, 2009). Tutto ciò evidenzia l’importanza del lavoro riabilita-tivo con l’anziano.

Nel cervello adulto la modificabilità delle connessioni tra cellule nervose in risposta all’esperienza si riduce drasticamente. Tuttavia, la plasticità è una proprietà del sistema nervoso che ci accompagna durante tutta la vita. (Dizionario di medicina Treccani, 2010)

In effetti, lavorando in modo mirato per mantenere e riabilitare, per quanto è possibile, le abilità co-gnitive degli anziani, è probabile notare evidenti miglioramenti di performance. Per comprendere meglio le potenzialità di tale apporto viene indicato di seguito il monitoraggio di un anno di animazione professionale (figura 1).

I seguenti dati sono stati raccolti e organizzati da psicologi utilizzando un questionario validato e valu-tante diverse classi di abilità mentali. I risultati vengono mostrati solo a scopo illustrativo, in quanto non sono stati elaborati all’interno di una ricerca scientifica e non possono essere generalizzati.

Nell’istogramma che segue sono evidenziati i risultati ottenuti con l’animazione, raccolti all’inizio e alla fine del periodo annuale di attività attraverso la somministrazione del test MoCA (Montreal Cognitive Asses-sment, versione luglio 2006, Nasreddine. Traduzione di Pirani, Tulipani e Neri).

Fig. 1 Differenza di punteggio fra test di ingresso e test finale individuale.

PRIMA PARTE

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18 ◆ Attività di animazione con gli anziani

Le colonne in grigio scuro rappresentano i punteggi individuali ottenuti dagli utenti del campione di riferimento nel primo test, prima di cominciare l’attività di animazione a inizio marzo 2011, mentre le colon-ne in grigio chiaro mostrano i punteggi ottenuti nell’ultimo test, cioè al termine annuale dell’attività (fine novembre 2011). I test sono stati somministrati in quattro step, ma per brevità vengono inseriti solo i dati iniziali e finali.

Il test utilizzato è stato il MoCA, questionario standardizzato comprendente sia risposte dirette che at-tività di performance. Per mantenere la privacy degli ospiti, ogni utente è stato contraddistinto da una lettera casuale dell’alfabeto.

Essendo difficile la continuità di frequenza nell’arco di un anno in persone compromesse fisicamente e mentalmente e di età così elevata (≥ 80), sono stati presi in considerazione solo gli anziani con continuità di presenza e non le persone che non hanno effettuato parte delle presenze a causa di malattie, ricoveri o altre motivazioni incorse. Tutto questo ha ridotto il numero del campione a otto utenti, che però, data l’omoge-neità dei risultati e la rappresentatività dei partecipanti, ci fa considerare il risultato interessante.

Come si può osservare, tutti i soggetti hanno incrementato il punteggio dopo l’attività riabilitativa, anche se nessun utente ha avuto un punteggio globale pari o superiore a 26 (il massimo punteggio ottenibile con questo test è 30, un soggetto che ottiene un punteggio uguale o superiore a 26 è considerato con capa-cità cognitive nella norma).

Solo un anziano, L, ha migliorato le proprie performance di un unico punto: di fatto, le ha mantenute stabili e quindi non le ha peggiorate. Valori importanti soprattutto se si considera che la fascia di età dei par-tecipanti era eterogenea fra gli 80 e i 100 anni.

Nella figura 2 i punteggi sono suddivisi, invece, per aree riabilitative. Ogni risultato è la somma dei pun-teggi ottenuti per quell’area da tutti gli utenti, la riga in basso rappresenta i risultati di partenza, quelli avuti al primo test, la riga in mezzo i risultati raggiunti al test finale e la riga più alta il punteggio massimo possibile per quell’area specifica, per quel numero di utenti.

Le aree in questione sono quelle del MoCA e si distinguono in: area visuospaziale/esecutiva; area del-la denominazione; area dell’attenzione; area del linguaggio; area dell’astrazione; area della memoria e area dell’orientamento.

Fig. 2 Differenza per aree osservate fra test d’ingresso, test finale e punteggio massimo possi-bile.

Dall’osservazione del grafico si nota che gli anziani hanno tutti migliorato le loro performance; solo in un caso, l’area visuospaziale, il margine di miglioramento è molto esiguo, resta da considerare che comunque non sono peggiorate.

È basilare comprendere che, se opportunamente stimolato, ogni soggetto può migliorare le sue presta-zioni, relativamente alle proprie capacità e possibilità, poiché attraverso l’animazione professionale si vanno ad apportare quegli input cognitivi ed emotivi che spesso la persona anziana non ritrova, o ritrova molto meno, nell’istituto o in casa propria.

PRIMA PARTE

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L’animazione professionale con gli anziani ◆ 19

Il problema del declino cognitivo, cause fisiologiche e patologiche a parte, a livello psicologico è dato principalmente dall’assenza di stimoli giusti e continui e dalla diminuzione dei riferimenti affettivi importanti, perciò anche l’anziano che vive in casa, se è solo e non conduce una vita che mantenga attiva la sua mente, può facilmente diminuire le sue prestazioni cognitive.

Nel caso dell’istituto, se da un lato si assiste a un impigrimento mentale e comportamentale dell’utente, non è per niente raro notare anziani in carrozzina che, per abitudine, si fanno condurre dagli operatori anche quando potrebbero fare da sé.

Spesso, da parte degli operatori e/o dei volontari, si attivano spontaneamente delle condotte di in-fantilizzazione degli anziani, che portano a farli regredire psicologicamente. Questo avviene, solitamente, perché si pensa che il modo migliore di approcciarsi alle persone di una certa età sia quello del genitore con il bambino. In realtà, ciò è deleterio per l’anziano poiché, oltre ad assuefarsi a una relazione impari con l’altro, si abitua anche a essere vicariato e quindi a non doversi esprimere più di tanto sia a livello di movimento che a livello mentale.

Può capitare perciò, durante la conduzione delle attività di animazione, di dover sottolineare a operatori, volontari e parenti, l’importanza di non sostituirsi all’anziano per aiutarlo. In effetti, il più delle volte non viene dato neanche il tempo all’utente di provare da solo, per il timore che non riesca e ne rimanga addolorato o deluso. Riferire a queste persone che non devono sostituirsi, ma devono aiutare l’utente a fare da sé, è la prima cosa fondamentale quando si effettua l’animazione. Per fare un esempio, colorare è un’attività molto semplice, ma l’anziano può trovare delle difficoltà, spesso più psicologiche che oggettive, come nel caso di due signore, una affetta da Morbo di Parkinson e l’altra con lieve demenza senile. La prima signora all’inizio neanche voleva rimanere ai gruppi, tanto meno a quelli di disegno, sostenuta da alcuni volontari che temevano di metterla troppo a disagio; ma, con i giusti stimoli, la signora ha colorato da sola, pur con i suoi limiti, e i suoi disegni sono stati esposti insieme agli altri producendole una grande soddisfazione personale, dato che non avrebbe mai pensato di riuscirci. L’altra signora non voleva neanche iniziare a colorare perché diceva di non essere brava, di non saper fare: mettendole dei puntini colorati sulle parti da disegnare (un po’ alla volta) ha pian piano colo-rato tutto il disegno. Far comprendere ai familiari, ai volontari e agli operatori come aiutare la persona a eser-citarsi da sola dandole opportuni input è importante per attuare un buon lavoro ed evitare fraintendimenti.

Anche nei giochi di produzione di parole, che sono vari, occorre prima sollecitare l’anziano a ragionarci da solo e, nel caso in cui non riesca, aiutarlo con qualche frase stimolo senza sostituirsi a lui.

È importante sostenere l’anziano nel mantenere e sollecitare le proprie abilità intellettuali aiutandolo a mantenere la propria dignità di persona ricca di anni di vita ma anche di risorse, pur nella malattia. L’obiettivo principale è perciò quello di spronare la persona anziana a lavorare con le proprie capacità, di non trattarlo da bambino, perché altrimenti rischiamo di infantilizzarlo, e di conservare sempre, nello svolgere l’animazione, la caratteristica principale di svago e divertimento attraverso esercizi pratici e la creazione di un clima emotivo positivo.

L’importanza dei gruppi e del lavoro relazionale con l’anziano

Le interazioni sociali in una struttura residenziale per anziani sono di tipo molto diverso. Gli utenti au-tosufficienti riescono a sviluppare più frequentemente degli anziani non autonomi amicizie molto produttive per il loro benessere, perché possono muoversi e uscire a loro piacimento rimanendo legati solo agli orari stabiliti per i pasti e per il rientro. Ciò fa sì che le persone residenti in Comunità possano mantenere attive anche le amicizie e gli interessi al di fuori della Casa oppure gestirsi la quotidianità all’interno della struttura, ma sentendosi sempre efficienti e produttive.

Nelle situazioni di semi-autosufficienza solitamente il discorso è più complesso. La difficoltà a spostarsi, l’impossibilità di seguire ritmi propri, la vicinanza con persone caratterialmente diverse o con maggiori pro-blematicità può appiattire gli interessi relazionali dell’anziano e creare un ambiente dove solo poche persone si ricordano il nome del vicino di posto.

Alcuni utenti interagiscono, in modo attivo e produttivo, solo con gli operatori e/o i familiari. In altri casi si creano, come è normale che sia, rapporti elettivi con una o due persone. Non è raro osservare due

PRIMA PARTE

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20 ◆ Attività di animazione con gli anziani

anziani, solitamente due donne, che si tengono la mano anche senza parlarsi, giovandosi di quello scambio amichevole di tenerezza e affetto.

Ciò fa comprendere il bisogno di sollecitare le relazioni fra gli utenti, creando così una maggiore cono-scenza reciproca e un riscontro emotivo e affettivo importante.

Durante l’esperienza con i Gruppi di condivisione dei ricordi, si è potuto constatare come si siano ap-profonditi determinati rapporti interpersonali e come siano migliorate le relazioni fra gli utenti. Inizialmente le persone anziane mostravano una maggior difficoltà a esprimersi e, soprattutto, ad avere una percezione dell’altro e dei suoi spazi comunicativi. Ognuno parlava quasi esclusivamente per se stesso facendo fatica ad ascoltare gli altri. In seguito gli anziani iniziarono a scambiarsi le esperienze, aggiungendo ricordi simili nei racconti degli altri, fino ad arrivare a parlare fra loro e a fare all’altro delle domande ben precise e attinenti.

Se in determinati contesti, formati da utenti più abili, certe dinamiche relazionali possono essere scon-tate, in strutture che ospitano anziani con particolari difficoltà arrivare a creare delle reti relazionali è vera-mente importante e non affatto semplice.

Focalizzare i bisogni psicologici e socio-relazionali degli anziani è un aspetto fondamentale del lavoro di animazione, che va considerato in ogni attività effettuata poiché ne è la base di partenza.

PRIMA PARTE

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€ 15,00

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Nonostante la letteratura sulla demenza sia ormai piuttosto consistente, è raro imbattersi in ricerche che si concentri-no sulla condizione emotiva di chi ne soffre. L’intento di questo volume è esattamente quello di colmare tale lacuna, illustrando una serie di metodi dettagliati e di facile utilizzo per ridurre e prevenire i comportamenti legati allo stress in chi è affetto da demenza.L’autore, in virtù di un’esperienza pluriennale nel campo dell’assistenza agli anziani e della psicogeriatria, fornisce suggerimenti pratici per affrontare alcuni dei problemi sperimentati quotidianamente da queste persone e da chi le assiste, come: alimentarsi in modo corretto, avere un sonno regolare, occuparsi della pulizia personale, gestire comportamenti aggressivi. Proponendo, inoltre, tecniche per la stimolazione della memoria, consigli per migliorare la comunicazione e terapie efficaci per ridurre i livelli di stress migliorando sensibil-mente la qualità della vita delle persone con demenza, il libro costituisce un manuale prezioso per chiunque lavori nell’ambito assistenziale e per le famiglie e i carer delle persone affette da demenza.

Contenuti

• I fattori che causano lo stress• Le tecniche per prevenire e ridurre lo stress• Come gestire le reazioni correlate allo stress: problemi

alimentari, disturbi del sonno, aggressività, igiene personale

• Assistere gli anziani •EVITARE STRESS

INUTILIalla persona con demenza

Chris Bonner

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Introduzione

Questo volume riunisce indicazioni provenienti dalla letteratura, dai numerosi caregiver con cui ho lavorato e dall’esperienza personale nell’assi-stere persone affette da demenza e nello stare bene in loro compagnia. Esso si concentra sulla possibilità di diminuire la soglia dello stress in persone affette dal morbo di Alzheimer (Hall, 1994). Le proposte presentate nel libro trattano specificamente di Alzheimer, la forma di demenza più comune ma, benché siano particolarmente appropriate per questa sindrome, nulla ne impedisce l’applicazione anche ad altre forme di demenza.

Il fatto che io, l’autore di un libro sull’assistenza a persone affette da demenza, sia un farmacista clinico, potrebbe sembrare un po’ inusuale, ma la motivazione a scriverlo mi è giunta dalla personale preoccupazione che nutro a proposito degli effetti devastanti di alcuni farmaci tradizionalmente utilizzati per modificare i comportamenti di persone affette da demenza. Non voglio affermare che le terapie farmacologiche siano controindicate nel trattamento di questa patologia, ma è necessario prenderle in considera-zione con la dovuta cautela e, ove possibile, pensare alla loro integrazione o sostituzione con altre pratiche di cura, altrettanto appropriate, che possono avere il beneficio aggiuntivo di ridurre significativamente la dipendenza da farmaci psicotropi (Shelkey e Lantz, 1998). Se questo libro risulterà utile, nonostante la mia formazione farmacologica, significa che i molti caregiver con cui ho lavorato negli anni sono stati dei buoni insegnanti.

In molti casi, le modalità assistenziali proposte in questo manuale sono state sottoposte a sperimentazione nell’ambito della ricerca. Altre

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12 Evitare stress inutili alla persona con demenza

non sono che suggerimenti. Alcune delle informazioni potrebbero sem-brare addirittura contraddittorie. Dai dati che sono stati confermati dalla ricerca ci si può aspettare che siano validi in un numero significativo di contesti, mentre i suggerimenti indicano che una certa pratica è ritenuta potenzialmente efficace ma che la validità della sua applicazione non è stata ancora dimostrata.

Nel campo dell’assistenza a persone affette da demenza molto deve ancora essere esplorato. I fondi destinati alla ricerca tendono a essere indi-rizzati all’individuazione di una cura o allo sviluppo di farmaci che possano rallentare il processo degenerativo della malattia o dei suoi effetti. È più facile reperire ricerche sulle caratteristiche comportamentali delle persone affette da demenza e sugli effetti dei vari interventi che non sulla loro condizione emotiva. Benché siano stati molti gli autori che hanno indagato in modo eccellente il mondo di una persona affetta da demenza, è necessario guardare a ogni individuo e situazione soggettivamente, piuttosto che basare le relazioni di assistenza su teorie o nozioni universali. Non ci sono test, né protocolli, come spesso invece accade in medicina, che possano indicare con certezza cosa debba essere fatto. Di conseguenza, gli sforzi per migliorare il percorso clinico delle persone affette da demenza richiedono conoscenza, empatia, verifiche attente e sperimentazioni pazienti di una gamma di interventi per eliminare qualunque causa di stress e ottenere gli esiti migliori. Sia che l’approccio sia verificato dalla sperimentazione sia che si tratti solamente del resoconto di un caso, oppure ancora di un’intuizione, ciò che conta è quel che risulta efficace per quella persona in particolare. Lo scopo di questo volume è quello di raccogliere il maggior numero di idee possibile da una grande varietà di fonti. È necessario, ovviamente, evitare pratiche che possano essere rischiose e abbandonare metodi che non funzionano per costruire, invece, su ciò di cui è comprovata l’efficacia, condividendo le conquiste e i progressi con tutti coloro che sono coinvolti nell’assistenza di persone affette da demenza.

Il libro è pensato in primo luogo per gli operatori delle strutture resi-denziali che accolgono persone anziane, ma i suggerimenti proposti possono essere applicati anche a casa da membri della famiglia e da caregiver di diverso tipo: badanti, medici, volontari, infermieri, assistenti sociali, amministratori di sostegno, amici. Normalmente, si utilizza il termine «ospiti» per indicare coloro che ricevono assistenza nel contesto di una struttura residenziale per

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Introduzione 13

persone anziane. L’accezione qui utilizzata, tuttavia, è estesa e include anche le persone che vengono assistite a casa.

Spero che i lettori possano trarre giovamento da una conoscenza più approfondita delle persone affette da demenza e del loro mondo, nell’ottica di fornire un’assistenza centrata sulla persona, una persona unica e con una varietà di emozioni e sensazioni che vanno apprezzate e valorizzate. Allo stesso modo, auspico che chi si prende cura degli anziani possa, nel suo lavoro quotidiano, sperimentare nuove idee sull’assistenza e condividerle con altri, anche attraverso risorse come questo manuale.

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Capitolo primo

Fattori di stress

Lo sviluppo della demenza causa un impoverimento cognitivo (una perdita di processi mentali legati alla comprensione, al giudizio, alla memoria e al ragionamento) e un deterioramento della volontà che causa modifiche nel comportamento e nelle azioni; tutto ciò viene spesso percepito dagli altri come un cambiamento della personalità. I comportamenti legati allo stress, spesso menzionati come disturbi psicocomportamentali nella demenza (BPSD – Behavioural and Psycological Symptoms of Dementia), si presentano di solito man mano che la malattia progredisce e, oltre ad essere un peso per chi ne soffre, possono risultare stressanti anche per i cargiver (Hart et al., 2003). Questi comportamenti possono derivare dal fatto che la persona diventa sempre meno capace di tollerare lo stress (Hall, 1994): si riduce la «zona di comfort» (Caron e Goetz, 1998) e questo causa reazioni allo stress come l’agitazione o l’aggressività. Le reazioni da stress aumentano quando si perdono un familiare o un amico, quando ci si trova in un nuovo ambiente che si fa fatica a capire, quando vengono meno le responsabilità decisionali, le abilità fisiche, il senso di appartenenza e di autonomia personale.

Di solito la memoria a breve termine viene persa per prima, mentre si conserva quella a lungo termine. Di conseguenza, per le persone affette da demenza i luoghi, i volti e le attività abituali possono risultare sconosciuti e stressanti. Ci si può sentire come se attorno a noi ci fossero solo degli estranei.

Alla base delle reazioni legate allo stress, in persone affette da demenza, potrebbero esserci condizioni patologiche preesistenti, personalità o tipi di

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16 Evitare stress inutili alla persona con demenza

carattere, oppure anormalità neurochimiche o strutturali nel cervello (Dyck, 1997). La depressione è una patologia più comune in persone affette da demenza che non nella generalità della popolazione, e questo può portare a una maggiore vulnerabilità emozionale allo stress (Verhey e Visser, 2000). Tali fattori, in associazione al deperimento cognitivo, riducono il livello di tolleranza agli stimoli ambientali sfavorevoli, come modifiche nelle routine quotidiane, nelle modalità di assistenza o nel contesto di vita (Raskind, 1999).

Fattori di stress comuni, che possono arrivare a sopraffare una persona con un livello di sopportazione ridotto, includono:– affaticamento mentale e fisico; – cambiamenti nella routine quotidiana, nei cargiver o nel contesto;– stimoli fuorvianti o livelli di stimolazione inappropriati;– aspettative troppo elevate da parte di se stessi o di altri, al di là della

propria capacità funzionale;– fattori di stress fisico, come dolore o irritazione della pelle o delle mucose,

infezioni, disidratazione;– reazioni emotive alla percezione di perdite funzionali delle abilità e

dell’indipendenza nelle attività quotidiane;– perdita dell’abilità di comunicare i propri bisogni e di comprendere la

comunicazione verbale (Hall, 1994; Hall e Buckwater, 1991).

Perdita cognitiva

+

Perdita di familiari/amici, del proprio ambiente, della possibilità

di prendere decisioni, di abilità fisiche, di legami interpersonali

e di autonomia

+

Diminuzione progressiva del livello di sopportazione dello stress

Reazioni legate allo stress

Le persone affette da demenza possono essere spaventate o ansiose quando esposte a fattori di stress; la loro capacità nell’affrontare le situazio-

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Fattori di stress 17

ni può ridursi facilmente, portando a una sensazione di fallimento (Hall, Kirschling e Todd, 1986).

Le perdite associate alla demenza possono essere aggravate ulte-riormente da una sorta di «disabilità eccedenti», ossia dal presentarsi di sintomi reversibili di una incapacità funzionale, che risulta più grave di quanto sarebbe ascrivibile ai problemi fisiologici. Le disabilità eccedenti possono essere la conseguenza di condizioni patologiche non ricono-sciute o non trattate in maniera adeguata, dei farmaci, o di vari fattori emozionali, psicologici e ambientali. Anche un deficit sensoriale dovuto all’uso di occhiali inadatti o la presenza di tappi di cerume nelle orecchie può portare a una diminuzione dell’abilità cognitiva, ad allucinazioni, instabilità emozionale, isolamento e agitazione (Morley e Miller, 1993). Gli effetti collaterali dei farmaci possono produrre alcune disabilità, e gli interventi di assistenza finalizzati a supportare la persona nel portare a termine i compiti, anche quelli che potrebbe ancora svolgere in auto-nomia (benché lentamente), possono causare una dipendenza eccessiva nell’esecuzione di attività della vita quotidiana. Condizioni ambientali, inoltre, che rendono complicato, ad esempio, l’accesso al bagno, possono provocare incontinenza, così come i muscoli che non vengono utilizzati tenderanno ad atrofizzarsi.

Provate a immaginare quale reazione avreste nella seguente situazione:

Stai guidando per andare a trovare con la famiglia i suoceri. Ci sono altre cose che preferiresti fare. In realtà, l’unico momento disponibile per andare negli Stati Uniti a trovare i parenti è finito col coincidere con la finale del campionato di calcio, che non hai mai mancato di vederti negli ultimi dieci anni. Gli effetti del jet-lag cominciano a farsi sentire, insieme al mal di testa, e l’idea di dover guidare un’automobile americana ti infastidisce; si è ormai fatto buio ed è faticoso vedere i segnali stradali. Come se non bastasse, i bambini hanno ingaggiato una vera e propria guerra sul sedile posteriore. E, nonostante que-sto, sei riuscito a mantenere la calma... per il momento. Poi, la tua adorabile figlia adolescente stabilisce, con i suoi fratelli, una tregua abbastanza duratura da dire: «Di sicuro ti sei dimenticato di portare il regalo per la nonna!». È una provocazione, così ora, allo stress e alla frustrazione, si aggiunge anche la sensazione di venir considerato un buono a niente.

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18 Evitare stress inutili alla persona con demenza

Di certo ci sentiremmo meglio in una situazione del genere:

La giornata è stata buona, e stiamo festeggiando i nostri successi regalandoci un profumo speciale. Mentre aspettiamo al bancone del negozio assaporando il momento, un passante ci spinge per attraver-sare la corsia affollata. Probabilmente siamo in grado di affrontare senza difficoltà una situazione come questa.

Ora guardiamo allo stesso evento, ma da una prospettiva differente:

È stata davvero una pessima giornata: al lavoro è andato tutto storto, hai smarrito il cane e danneggiato l’auto… Sei costretto a comprare un regalo che ti puoi a malapena permettere per una zia che non ami particolarmente ma che sei obbligato comunque a festeggiare come si deve.

Come ci sentiremmo, in questo contesto, se venissimo spinti da una persona impaziente? La soglia di sopportazione dello stress si abbasserebbe, o la tolleranza sarebbe inferiore?

Conseguenze dello stress

Naturalmente gli effetti dello stress si manifesteranno in un generale peggioramento delle condizioni di salute, agitazione e riduzione delle ca-pacità di attendere ai compiti quotidiani; esso inoltre renderà l’assistenza più difficile.

Billing (1996) segnala che lo stress può portare anche a:– comportamenti fisicamente aggressivi come tentativi di colpire, graffiare,

sputare o mordere;– comportamenti verbalmente aggressivi come insulti o imprecazioni;– comportamenti fisicamente non aggressivi come spogliarsi in luoghi non

appropriati, vagabondare o essere invadenti;– comportamenti verbalmente non aggressivi come gridare, porre inces-

santemente domande o ripetere in continuazione parole o osservazioni.

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Fattori di stress 19

Una persona affetta da demenza può vivere di continuo con frustra-zioni, senso di perdita e una soglia ridotta di tolleranza, sentendosi costan-temente vulnerabile a provocazioni o tensioni che altri giudicherebbero ininfluenti o inesistenti. Questa può essere, per le persone affette da demen-za, la normale percezione del mondo. Esse hanno bisogno di un’assistenza che vada alla ricerca di quello che desiderano e cerchi di realizzarlo, che curi i mal di testa, riduca la confusione, semplifichi la vita, eviti l’affaticamento, rispetti il malato senza metterlo in difficoltà e senza porgli richieste inutili.

In persone affette da demenza, inoltre, possono manifestarsi anche problemi legati all’alimentazione e al sonno che, anche se non necessariamente connessi allo stress, possono rivelarsi difficili da gestire.

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Capitolo terzo

Gestire le reazioni legate allo stress

Reazioni ostili verbali e fisiche

Le persone affette da demenza, quando superano la soglia di tolleranza allo stress, possono reagire colpendo, scalciando, graffiando, insultando, imprecando, mordendo o sputando.

Disinnescare crisi di natura verbale o fisica

– Lasciare che i membri più efficaci del personale prendano il controllo della situazione (Wick e Reid, 1997).

– Presentarsi in modo appropriato, po-sizionandosi allo stesso livello della persona, rimanendo calmi, parlando in modo sommesso, utilizzando il contatto visivo, chiedendo il permesso e spiegando quello che è necessario che accada.

– Isolare la persona e deviare l’attenzione dall’evento.– Distrarre o reindirizzare la persona, utilizzando a proprio vantaggio la

mancanza di memoria a breve termine.

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48 Evitare stress inutili alla persona con demenza

– Analizzare le paure; non negare o minimizzare preoccupazioni della persona, ma invece convalidarle.

– Quando opportuno, utilizzare il contatto fisico (ad esempio tenendo la mano della persona).

– Dare una possibilità di scelta e offrire rassicurazioni.– Ridurre gli stimoli ambientali.– Mettere qualcosa nelle mani della persona per evitare che le utilizzi

per opporre resistenza alle cure che è eventualmente indispensabile praticarle.

– Tenere gli oggetti pericolosi fuori portata.

Valutare le reazioni verbali o fisiche

Gli strumenti di valutazione sono utili per ottenere una comprensione più completa e più accurata di un comportamento e possono guidare verso strategie assistenziali più mirate, fungendo da punto di riferimento per la misurazione dei progressi (Cohen-Mansfield, 1999). L’approccio ABC (Antecedents, Behaviour, Consequences) indica le domande più appropriate da porre quando ci si confronta con i comportamenti ostili:

Antecedenti: chiedere e ricercare i fattori di stress che possono aver provocato il comportamento.

Comportamento: documentare tutti gli aspetti del comportamento. Cosa sta succedendo, dove, quando, quanto frequentemente?

Conseguenze: notare le conseguenze del comportamento per la persona interessata e per gli altri.

Verificare se ciò che ci aspettiamo dalla persona è realistico e conside-rare se il suo comportamento stia danneggiando qualcuno o si ripercuota sul suo benessere. Evitare di interpretare male l’incidente o di reagire in maniera eccessiva. Un riflesso di prensione palmare, ad esempio, è comune negli stati avanzati della demenza e per questo motivo la persona può non essere in grado di lasciare la presa volontariamente. Questo però rischia di essere recepito come un tentativo di opporre resistenza o di fare del male al caregiver. La resistenza al posizionamento corretto di un arto quando la persona viene vestita può essere una reazione involontaria al movimento passivo (chiamata anche Gegenhalten). Notare se la persona indirizza la

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Gestire le reazioni legate allo stress 49

propria rabbia verso uno dei caregiver o se sta semplicemente cercando di eliminare uno stimolo disturbante.

Organizzare apposite riunioni sui singoli casi spesso è un modo efficace per ottimizzare l’assistenza: alcuni operatori possono avere indivi-duato modalità di assistenza specifiche che dovrebbero essere condivise con tutti; un operatore riporterà una preoccupazione particolare in relazione al comportamento di un ospite, mentre un altro potrebbe riferire che il suo modo di approcciarsi a quella persona non produce le medesime reazioni. Le riunioni daranno la possibilità di mettere in comune strategie efficaci, incoraggiare e aiutare gli operatori che hanno delle difficoltà, promuovere una comprensione condivisa della persona e un approccio coerente nel modo di interagire e di assistere quel determinato ospite. C’è anche qualche esempio in cui all’équipe e/o alla formazione degli operatori partecipano anche gli anziani direttamente interessati, singolarmente o in gruppo (Swift, Williams e Potter, 2002).

Prevenire le reazioni ostili verbali o fisiche

Identificare le cause e il significato dello stressComprendere le cause di un dato comportamento è il primo passo.

Certi comportamenti possono avere un significato particolare per la persona anziana affetta da demenza, differente da quello attribuito dall’osservatore. Allo stesso modo, gli atti disfunzionali possono rappresentare l’unico stru-mento di comunicazione disponibile per la persona, in momento di forte stress o di paura. La resistenza passiva all’assistenza può essere interpretata, in modo scorretto, come aggressività. È stato dimostrato che solo il 2% degli episodi violenti accade senza un antecedente (Katz, 2000). In più del 70% dei casi, il contatto con il personale ha rappresentato la causa scatenante della reazione aggressiva (Ryden, Bossenmaier e McLauchlan, 1991). Pertanto le tecniche di assistenza adeguate costituiscono un elemento importante nel limitare la resistenza verbale o fisica all’assistenza. Gli operatori che si dimostrano più disponibili e più sensibili ai problemi legati alla demenza riscontrano, nei pazienti che assistono, un numero minore di sintomi di iperattività, rispetto a operatori meno sensibili ai bisogni della persona (de Vugt et al., 2004).

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50 Evitare stress inutili alla persona con demenza

IN PIÙ DEL 70% DEI CASI IL CONTATTO CON IL PERSONALE È STATO LA

CAUSA SCATENANTE DI UNA REAZIONE AGGRESSIVA

È importante porre domande e fare riferimento agli operatori più esperti, ad esempio durante le riunioni di équipe, per identificare i fattori di stress che potrebbero peggiorare i comportamenti agitati. Oltre che parlare con il diretto interessato, si può chiedere a chi viene a fargli visita, ai parenti, a tutti coloro che si prendono cura di lui, comprese eventuali badanti o collaboratrici familiari. Le cause scatenanti dell’agitazione possono coinvolgere una qualunque delle attività di routine dell’assistenza giornaliera e ci daranno delle indicazioni sulle tecniche di assistenza che hanno mag-gior efficacia. È fondamentale, ai fini della valutazione, riferire qualunque sintomo clinico si manifesti.

Reindirizzare i fattori di stressFattori di stress che possono innescare reazioni di aggressività verbale

o fisica sono, ad esempio:– la percezione che il proprio spazio personale sia stato invaso;– il dolore o la previsione del dolore;– la depressione; è stato dimostrato che la depressione ha un’incidenza più

alta fra le persone affette da demenza che hanno manifestato aggressività verbale o fisica rispetto a chi non presenta simili comportamenti (Menon et al., 2001); più precisamente, il gridare è associato alla depressione (Cohen-Mansfield, Werner e Marx, 1990);

– condizioni sanitarie come la costipazione, le vaginiti o le infezioni del tratto urinario;

GUANTIDI

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Gestire le reazioni legate allo stress 51

– bisogno di evacuare o episodi di incontinenza (la persona potrebbe essere stata punita per essersi bagnata da piccola);

– frustrazione causata dall’incapacità di comunicare;– frustrazione causata dall’incapacità di ricordare;– confronto con la realtà, con conseguente incapacità di accettare la situa-

zione presente;– incapacità di portare a termine un compito;– aver subìto un rimprovero;– interpretazione errata di una situazione a causa, ad esempio, dell’indebo-

limento della vista e dell’udito, o dell’essere stati svegliati all’improvviso;– incapacità di riconoscere un operatore o un caregiver familiare;– interazioni stressanti o non piacevoli con altri ospiti;– mancata identificazione dovuta a delirio, allucinazioni o illusioni ottiche

(ombre malinterpretate) (Hwang et al., 1999);– musica, televisione, programmi radiofonici o compiti particolari da svolgere;– cambiamenti nella sequenza delle attività giornaliere, nell’ambiente o nei

caregiver (Banazak, 1996);– solitudine, perdita di relazioni interpersonali, noia, sofferenza o paura;– caldo, freddo, rumori, bisogno di andare al bagno o fame;– effetto tossico dei farmaci o delirio;– ricordi di eventi dell’infanzia o di conflitti interiori irrisolti; a volte questo

tipo di informazioni non vengono fornite. Indagare potrebbe non essere opportuno; può essere più facile che la persona o i parenti ne parlino con il medico che è vincolato al segreto professionale;

– bisogni non soddisfatti in relazione alla storia culturale, sociale, spirituale, familiare, ambientale e professionale dell’ospite e al suo precedente stile di vita;

– restrizioni; le linee guida da seguire per l’utilizzo delle restrizioni fisiche sono ben documentate. Si è dimostrato che è possibile ridurre le restrizioni o usare strategie alternative senza un aumento degli incidenti.

Le reazioni a questi fattori di stress possono essere:– sensazioni di vergogna o di inadeguatezza in caso di, ad esempio, falli-

mento nel portare a termine un compito;– azioni che normalmente potrebbero essere controllate diventano disini-

bite; in alternativa, anche processi cerebrali danneggiati possono causare comportamenti aggressivi (Holden e Chapman, 1994);

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52 Evitare stress inutili alla persona con demenza

– semplicemente, voler essere lasciati soli; per una persona con demenza, l’avere attorno persone che si occupano di lei può essere contro la sua volontà, benché necessario;

– i comportamenti agitati possono costituire una reazione al dolore, in persone incapaci di esprimere ciò che provano. Per valutare il dolore in adulti con deficit cognitivi è sufficiente porre semplici domande che prevedano di rispondere con sì o un no, cercando indizi non verbali come vocalizzazioni, urla, trasalimenti, corrugamento della fronte (specialmente come reazioni al movimento), irrequietezza, oscillazioni, sfregamenti o continui controlli della parte interessata, resistenza quan-do è necessario muoversi per venire vestiti, lavati e così via… (Feldt, Warne e Ryden, 1998). È importante verificare eventuali fratture non riportate.

Un’applicazione attenta dei principi generali di assistenza con le per-sone affette da demenza e la rimozione dei fattori di stress descritti sopra possono ridurre gli episodi di aggressività. In molti casi basterà soltanto che gli operatori (o i caregiver familiari) rassicurino la persona; queste rassicu-razioni andranno incluse nell’assistenza giornaliera per prevenire ricadute successive. Si dovrà, ad esempio:– rimuovere tutti gli stimoli che infastidiscono;– trattare il dolore;– occuparsi dei bisogni non soddisfatti;– verificare e gestire in modo rassicurante i problemi legati a eventi trau-

matici del passato;– assicurarsi che eventuali problemi sanitari siano segnalati al medico;– verificare quali sono l’approccio e le tecniche di comunicazione più op-

portuni;– essere preparati a rinviare a un momento successivo ciò che può causare

fastidio.

Linee generali per la gestione dei comportamenti agitati

È importante cercare di riconoscere e documentare i segnali d’allarme nelle persone inclini a reazioni aggressive, sia verbali che fisiche. È suffi-ciente, generalmente, notare i cambiamenti nell’attività fisica (movimenti

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Nel lavoro sociale con gli anziani la rigorosa attenzione agli aspetti tecnici si deve accompagnare alla considerazione della persona umana in quanto tale, con le sue fatiche e fragilità, ma anche con i suoi interessi e i suoi legami, in nome di un’idea di assistenza per cui vecchiaia e demenza non implicano necessariamente uno «smantellamento» della persona. Gli operatori sociali e professionali che lavorano nei servizi per anziani, così come tutte le persone coinvolte a vario livello nella cura agli anziani, si trovano davanti a compiti complessi. Come garantire una «buona assistenza» che sia davvero rispettosa del paziente in quanto persona e che gli permetta di continuare a vivere in uno stato di relativo benessere? Come declinare questa esigenza nella pratica professionale? Come coordinare e valorizzare l’ap-porto di tutti i caregiver, professionali e informali (familiari e badanti)?I saggi raccolti nel volume offrono le risposte di alcuni tra i maggiori esperti internazionali e nazionali — Kitwood e Marshall sono pionieri nel campo dell’assistenza agli anziani e alle persone affette da demenza —: riflessioni teoriche e strategie pratiche per costruire relazioni d’aiuto che pon-gano al centro la persona, basate cioè sul riconoscimento dell’altro come portatore di interessi, capacità, desideri, e non come malato o non autosufficiente. 

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Nicoletta Pavesi (a cura di)

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Lavoro socialecon gli anziani

Con uno scritto di

Tom Kitwood

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3Il lavoro sociale «dietro le quinte»

con i grandi anzianiMary Marshall (University of Liverpool)

Aiutare chi aiuta

Chi lavora professionalmente con le persone molto anziane, così come chi si presta giorno dopo giorno a dare loro la necessaria assistenza, può accumulare una considerevole tensione. Le ragioni di ciò sono ovvie. Mentre la maggior parte degli anziani sono degli adulti normali con i quali si possono intrattenere delle normalissime relazioni, i grandi anziani con i quali gli operatori sociali hanno a che fare sono quelli che, con molta probabilità, hanno degli specifici gravi problemi. Sono più facilmente persone dipendenti, a causa di malattie fisiche o mentali, o persone con particolari problemi di risorse, di personalità, di comportamento. Di solito questi problemi, oltre a essere «estesi», sono anche caratterizzati da una notevole complessità. Spesso gli anziani con i quali entriamo in contatto hanno delle indisposizioni fisiche, con qualche probabilità anche alcuni disturbi psichici e possono pure essere privi di parenti. Questa gravità e complessità dei pro-blemi produce già in sé abbastanza difficoltà, ma la maggiore causa di tensione sta nella nostra limitata capacità di poterli aiutare. La sola soluzione valida può sembrare quella di ricoverarli in qualche centro residenziale ma questo può non essere auspicabile.

Titolo originale: Behind-the-scenes work with the old old. In Social work with old people, Basingstoke, Macmillan, 1983. © British Association of Social Workers.

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70 LAVORO SOCIALE CON GLI ANZIANI

La signora Eva, la stessa anziana già conosciuta nel capitolo prece-dente, ad esempio, si presentò all’assistente sociale con una quantità di problemi veramente scoraggiante. Era una donna anziana gravemente malata d’artrite, di ottantasette anni, che viveva in una casa troppo grande per le sue necessità. In conseguenza della sua artrite non era in grado di uscire a fare la spesa, di frequentare la chiesa o di incontrarsi con i suoi amici. Le sue difficoltà erano in aumento e c’erano già dei sintomi di denutrizione malgrado la fornitura dei pasti a domicilio. Ella non aveva né denaro né energia da spendere nella sua casa che di conseguenza era fredda e triste. Il prolungato isolamento sembrava averla resa quasi paranoica, sebbene avesse sempre disdegnato i suoi vicini in quanto appartenenti a un ceto inferiore al suo. Così era sempre più sola, con sempre minor salute e con un rischio di ipotermia. Ella non aveva più parenti. Una donna orgogliosa e determinata, che non avrebbe mai pre-so in considerazione l’assistenza domiciliare, men che meno una casa di riposo. Comprensibilmente l’assistente sociale era sgomentata: da dove cominciare? In un certo senso, era chiaro che qualunque tipo di aiuto avrebbe interrotto la spirale discendente, così l’assistente sociale iniziò dall’alloggio, che era l’unico problema che la signora Eva chiedeva di risolvere.

Questo era stato un progetto a lunga scadenza e l’assistente sociale nel frattempo aveva dovuto far fronte a un lento deterioramento della situazione sotto molti altri aspetti: una grande fonte di ansia. Nel caso della signora Eva, come in molti altri, una delle maggiori fonti di tensione per l’assistente sociale è la continua «pressione» da parte dei colleghi, sia all’interno degli enti di lavoro sociale che all’esterno. Il medico di famiglia della signora era sempre al telefo-no domandando che venisse fatto qualcosa. I vicini, sia che avessero un po’ di senso di colpa sia che fossero irritati, chiedevano che venisse fatto qualcosa. La dirigente del suo servizio sociale era preoccupata dal fatto che un giorno si sarebbe trovata la signora morta sul pavimento e riteneva che l’assistente sociale avrebbe dovuto convincerla ad accettare l’assistenza domiciliare. Dare dei consigli pratici su come far fronte a questo tipo di pressioni sarà lo scopo di questo capitolo; prima però vorrei ancora dire alcune parole riguardo alla morte.

Un’ulteriore causa di stress per chi lavora con gli anziani è, in effetti, l’ine-vitabilità della morte. Molti anziani moriranno mentre noi lavoriamo con loro.

Molti di loro sono realmente moribondi e la maggior parte di loro morirà entro pochi anni. Sostenere la necessità di un approccio «ottimistico» nel lavoro sociale con i grandi anziani può essere, quindi, veramente difficile, benché varie ricerche abbiano messo in luce che la maggior parte degli anziani sono effettiva-mente ottimisti riguardo al loro futuro, per quanto limitato questo possa essere.

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IL LAVORO SOCIALE «DIETRO LE QUINTE» CON I GRANDI ANZIANI 71

Un’osservazione tanto frequente quanto sbrigativa è che un operatore socia-le può lavorare con gli anziani unicamente se è un santo oppure se è indifferente e insensibile. Questo evidentemente è del tutto falso, benché esistano senz’altro tutti e due i tipi sopra descritti. La tesi da noi sostenuta è che, per lavorare con gli anziani, bastano certamente delle persone e degli assistenti sociali del tutto normali e che di solito queste persone si trovano bene nel loro lavoro; può es-serci tuttavia realmente bisogno che l’assistente sociale sappia pensare anche a se stessa per non finire completamente esaurita o diventare completamente insensibile. Gli assistenti sociali non sono ancora sufficientemente in grado di prendere atto che loro stessi possano aver bisogno di sostegno e di incoraggia-mento (sono tuttavia avanti anni-luce rispetto a certi medici e certi infermieri, i quali se ne stanno ben aggrappati al mito dell’obiettività professionale).

Utilizzare le abilità professionali «di aiuto» per sorreggersi l’un l’altro, tra colleghi operatori sociali, dovrebbe essere una pratica molto più diffusa di quanto lo sia attualmente: la maggior parte degli assistenti sociali tende a lamentarsi che essi sono senz’altro in grado di occuparsi dei loro utenti ma che i loro colleghi li fanno impazzire. Le possibili risposte a queste difficoltà sono ben note, ma non è facile trovare il tempo e le energie per metterle in pratica. Analizziamole brevemente.

La supervisione. Questo importante processo, che ha una notevole incidenza nell’organizzazione e nella gestione del lavoro degli operatori e dei servizi, è uno dei più validi contributi che il lavoro sociale può fornire a tutte le professioni assistenziali in generale. Benché abbia origine dalla psicoterapia e richieda la conoscenza di se stessi prima di poter aiutare gli altri, la supervisione è stata utilmente adottata in diversi enti di lavoro sociale. Può essere definita come uno «strumento» flessibile che un operatore sociale esperto può utilizzare per assicurare, a un suo collega, sostegno, tempo per riflettere, corresponsa-bilità nella gestione del lavoro, tutoring, ecc., in misura proporzionata al suo bisogno. Io credo che nessun operatore sociale possa fornire delle prestazioni qualitativamente elevate senza questo supporto; in effetti, alcuni operatori sociali, quando degli incontri formali di supervisione non sono disponibili, utilizzano coniugi, amici e colleghi in una maniera in qualche modo simile a questa. La supervisione consiste nel prendersi il tempo occorrente e nel legittimare il fatto di discutere su quello che si sta facendo. Dato il tipo di decisioni che devono essere prese e il potenziale grado di influenza sugli operatori sociali, è partico-larmente importante che il tempo a disposizione sia adeguato.

Forse dovrei specificare meglio cosa io intendo con il termine «supervi-sione»; rimango in effetti senza parole quando i dirigenti di qualche servizio mi dicono che la supervisione scatta «quando uno la chiede» e che essi sono

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72 LAVORO SOCIALE CON GLI ANZIANI

«sempre disponibili a concederla». La supervisione è, innanzitutto, un regolare periodo di tempo di almeno un’ora, con frequenza minima di una volta ogni quindici giorni, in cui si pone l’attenzione «sul lavoro» di un operatore sociale. È soprattutto l’impegno, ossia la disponibilità a sentirsi vincolati a questa pro-cedura, che diventa significativo quando si intende programmare delle sessioni di supervisione e si vuole che siano rilevanti. In linea di principio, il tempo di supervisione dovrebbe essere impiegato tanto per seguire dei lavori routinari quanto per seguire lavori complessi e stressanti, cosicché tutto l’arco complessivo del lavoro quotidiano venga a essere ricompreso e abbia la possibilità di «qua-lificarsi». C’è qualcosa che, quando si traduce ciò che si sta facendo in parole all’interno di un gruppo di supervisione, dà un certo grado di organizzazione alle esperienze, permette ai sentimenti di «emergere» e rende la programmazione una possibilità finalmente realistica.

Perché improvvisamente questa intonazione da verità evangelica, vi potreste chiedere? La risposta è che, come insegnante di lavoro sociale, sono in grado di dire, giorno per giorno, quali studenti hanno potuto beneficiare di un’appropriata supervisione. Li si riconosce dal modo in cui essi affrontano un problema: con intenzionalità e con interesse.

Cosa si può fare se un assistente sociale non riesce a ottenere la propria supervisione da un dirigente esperto? Innanzitutto io non penso che la supervi-sione debba essere necessariamente sostenuta da un «superiore». Chiaramente, questo permetterebbe di mettere assieme una doppia funzione, poiché il supe-riore deve comunque sapere cosa stanno facendo gli operatori sociali della sua équipe. Ma alcune équipe sono solite «turnare» la supervisione, affermando che ciò rende ciascun membro del gruppo maggiormente in grado di catalizzare le proprie conoscenze. In questo caso, ogni assistente sociale dell’équipe diventa a turno supervisore ed è così in grado di condividere la sua particolare maniera di vedere le cose, o le sue particolari abilità, con gli altri.

Per poter fare ciò, comunque, occorre prima di tutto che ci sia un’équipe all’interno del servizio e se non c’è, come si fa? Si guarda altrove. Ci sono molti operatori negli altri servizi, nelle università e negli istituti superiori, persone che hanno del tempo a disposizione oltre l’orario di lavoro (perché, ad esempio, non hanno figli a cui badare) che potrebbero fornire questo aiuto. Fare supervisione è un processo che stimola e fa crescere il supervisore e può procurare enormi soddisfazioni. Alcuni operatori sociali hanno dato e ricevuto supervisione abbat-tendo, per così dire, gli steccati interprofessionali. Hilary Graham e Mannie Sher (1976) hanno descritto come, in qualità di psicoterapeute/assistenti sociali inserite nei servizi di medicina di base, abbiano lavorato a stretto contatto con i medici e come fossero in grado di offrire una gran quantità di sostegno e possibilità di

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IL LAVORO SOCIALE «DIETRO LE QUINTE» CON I GRANDI ANZIANI 73

mettere a fuoco parecchie «dinamiche» nelle loro relazioni con i pazienti. In modo analogo, alcuni assistenti sociali di istituzioni residenziali e il personale di centri di rieducazione per minori sono regolarmente supervisionati da psichiatri. Tendo a sospettare che tali supervisioni «miste» siano realmente possibili solo in casi in cui il lavoro sociale sia di tipo «quasi» terapeutico e gli obiettivi tera-peutici siano condivisi e compartecipati da varie professionalità; dopotutto, la psicoterapia fa proseliti tra operatori di diversa estrazione professionale, i quali quindi possono senz’altro aiutarsi e «insegnarsi» l’un l’altro.

Gruppi di supporto fra colleghi. Un altro modo di far fronte allo stress e mantenere un certo grado di ottimismo sul lavoro è di costituire dei gruppi fra colleghi. Questi gruppi di supporto possono essere informali, come le discus-sioni sui casi nel dopopranzo, o formali, come i gruppi centrati sul compito o degli incontri regolari di discussione e verifica. La cosa importante è che queste riunioni costituiscano una sorta di «tempo legittimo» per condividere le esperienze, per portare a galla i sentimenti, per riflettere sulla pratica. Avendo lavorato come assistente sociale di base «isolata» (ed essendo io un operatore che riesce a trarre molto profitto da esperienze di gruppo) posso dire di aver-ne ben sperimentato l’efficacia, e di aver trovato che sono veramente validi. I gruppi professionali hanno spesso una vita limitata, circoscritta allo spazio di tempo occorrente ai membri per condividere qualche problema specifico. Ho l’impressione che gli operatori sociali più diverranno esperti nel group work con gli utenti, più saranno capaci di organizzare in modo efficiente anche dei gruppi per sostenere se stessi. Attualmente moltissimi di questi gruppi si «fer-mano» sulle agende, di fronte a problemi e bisogni individuali, che non vengono mai risolti. Dove si può far nascere un gruppo di supporto tra professionisti? Normalmente si risponde che l’assistente sociale se lo mette in piedi da solo, con tutte le difficoltà menzionate nel capitolo precedente. I gruppi professionali si possono formare internamente o esternamente al servizio, e ci sono dei pro e dei contro per ognuna delle due scelte. I gruppi con membri provenienti da servizi diversi impiegheranno più tempo, per la conoscenza reciproca e per le inevitabili spiegazioni riguardo ai differenti contesti di lavoro; tutto ciò può richiedere parecchie sedute. Probabilmente è opportuno, in questi casi, dedicare almeno un incontro per esercizi intensivi del tipo «impara a conoscerti» (Brandes e Phillips, 1977). È senz’altro essenziale chiarire correttamente gli scopi del gruppo fin dall’inizio: essi possono essere diversi, ma devono essere comunque compatibili. Ho avuto personalmente una spiacevole esperienza con uno di questi gruppi, proprio in quanto un membro abbastanza autorevole desiderava che le riunioni fossero finalizzate a esperienze di crescita personale, mentre altri membri volevano semplicemente discutere del loro lavoro.

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74 LAVORO SOCIALE CON GLI ANZIANI

I gruppi che si costituiscono all’interno dei servizi possono entrare in azione molto più rapidamente dal momento che le persone partecipanti si conoscono tra loro e condividono la conoscenza del servizio. Tuttavia questi gruppi pos-sono avere dei limiti sia perché al loro interno si sviluppa una discussione più ristretta, sia perché i membri possono essere troppo restii a far conoscere le proprie «debolezze» ai loro colleghi. Tutte queste difficoltà devono essere risolte fin dall’inizio, fissando delle regole in merito alla «confidenzialità» di ciò che verrà detto e accordandosi chiaramente sugli obiettivi.

Una delle molte difficoltà dei gruppi di sostegno, dovunque siano istituiti, è la quantità di tempo che richiedono. Questo problema è in parte superato quando si lavora in équipe, poiché una buona équipe deve senz’altro essere consapevole dell’importanza della compartecipazione delle esperienze ed è probabile quindi che abbia già previsto di fissare del tempo in cui i membri possono stare assie-me. Inoltre dovrebbe prevedere, nelle normali attività dell’équipe, sia il tenere discussioni sui casi che effettuare una supervisione di gruppo. Molto più difficile, invece, è procurarsi il tempo per partecipare a un gruppo di supporto al di fuori dal servizio. Talvolta questo tempo può essere autorizzato dall’ente come un momento di aggiornamento, ma più frequentemente questi gruppi si riuniscono nella pausa del mezzogiorno o dopo il lavoro.

Il lavoro in équipe. Ho fatto più sopra riferimento all’équipe (team), un concetto che necessita un esame più approfondito poiché esso risulta usato e abusato nel lavoro sociale. Il termine équipe è utilizzato per descrivere sia un gruppo di persone che lavorano assieme, sia un insieme di persone che si riuni-scono periodicamente e parlano fra loro. È usato spesso per dare l’impressione che al suo interno si trattino questioni importanti e che ci sia un’elevata qualità d’interazione. «Équipe», come «assistenza», è uno di quei termini del lavoro sociale che tendono facilmente a «degenerare». Questi termini cominciano col descrivere delle cose «buone e utili», ma possono appunto degenerare quando le si usa in modo poco accurato, diventando via via prive di senso.

Un uso più profondo della parola «équipe» dovrebbe «descrivere» un modo molto specifico di lavorare di un gruppo di persone. «Team», propriamente, significa mettere insieme in modo costruttivo conoscenze e abilità per fornire un servizio molto più efficace all’utente (Payne, 1982).

Un’altra regola di esperienza: io ritengo che siamo in presenza di un vero gruppo quando le persone possono esprimere dei sentimenti negativi sia sul loro lavoro sia sugli altri e il team può tollerarli e affrontarli in maniera costruttiva. In verità, è molto difficile che un gruppo di persone che lavorano insieme possa funzionare in questo modo.

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IL LAVORO SOCIALE «DIETRO LE QUINTE» CON I GRANDI ANZIANI 75

I team multiprofessionali sono stati studiati in maniera più completa di quelli «monoprofessionali», ad esempio nelle ricerche sul funzionamento delle équipe nei servizi sanitari di base di Gilmore, Bruce e Hunt (1974). Ambedue i tipi di team sono rari. E sono rari non tanto perché necessitano un certo grado di sforzo e di impegno da tutti i partecipanti, ma perché uno dei prerequisiti è la stabilità del personale. Non si possono avere delle équipe nel vero senso della parola se vi è un elevato turnover del personale. L’esperienza ci dice che i nuovi arrivati costringono sempre le équipe a riaggiustarsi, e che c’è un vuoto molto evidente da colmare quando qualcuno se ne va.

Le équipe inoltre hanno bisogno di tempo per svilupparsi, sebbene questo tempo possa essere accorciato se i membri sono disposti a lavorare intensamente. Alcuni dei migliori team che ho conosciuto accelerarono questo processo an-dandosene via insieme (lontano dal «lavoro») per un giorno o per una settimana. Questa soluzione può sembrare impossibile da combinare perché deve essere comunque organizzata una copertura per le emergenze, e il personale può dover sacrificare una parte del suo prezioso tempo di lavoro. Eppure coloro che hanno sperimentato questo «andarsene via» dall’ufficio assieme ai colleghi potranno dirvi che ne è sempre valsa la pena. Vi dà l’opportunità di valutare le dinamiche interne al gruppo e di far emergere alcuni aspetti ai quali non si riesce mai a prestare attenzione nei noiosi incontri del personale. Per fare il miglior uso di un’eventuale giornata in cui si sta via dall’ufficio è importante aver stilato in anticipo un ordine del giorno e averne preso debita nota. Queste sessioni devono essere dotate di scopo. Secondo la mia opinione, tutti i gruppi che lavorano insieme dovrebbero dedicare almeno un giorno all’anno per guardare indietro, valutare il lavoro svolto e pianificare quello dell’anno successivo.

La maggior parte degli operatori sociali, comunque, lavora in maniera individuale; si trova spesso insieme per degli incontri ma non lavora come un vero e proprio «gruppo». Talvolta dei sottogruppi di due o tre operatori sociali formano un miniteam per aiutarsi l’un l’altro ma hanno un debole impatto sul lavoro dell’insieme degli operatori del servizio. Se un gruppo di operatori sociali ritiene di essere un team potenziale, è importante, per farlo arrivare a funzionare, che ci sia qualcuno in grado di muoversi con senso tattico. È poco opportuno «spingere» perché si formi un’équipe dal momento che il risultato dipenderà dal grado in cui le altre persone saranno dello stesso parere. È più utile che l’operatore sociale interessato si cerchi un alleato e inizi poi a «lavorare» gli altri, cominciando se possibile dalla persona che si ritiene abbia maggiore influenza sul gruppo. Non bisogna farsi ingannare pensando che questo operatore sia neces-sariamente il più «chiassoso». Spesso è la persona più tranquilla e indipendente che è maggiormente rispettata.

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76 LAVORO SOCIALE CON GLI ANZIANI

Talvolta non è proprio possibile formare una équipe nel vero senso della parola. Gruppi di persone che lavorano insieme possono essere felici di lavorare più da vicino, ma senza impegnarsi a condividere la stessa politica e la stessa filosofia. Così, discussioni sui casi o incontri di studio fra colleghi possono essere molto utili e coesivi senza per questo diventare dei veri e propri incontri di équipe.

Altri tipi di gruppi. Può comunque essere necessario guardare oltre il gruppo dei colleghi. Io fin qui ho parlato di gruppi per assistenti sociali, ma più spesso esistono dei gruppi di persone che si trovano assieme per parlare di specifici argomenti di reciproco interesse, dei quali non necessariamente fanno parte il sostegno o la discussione sul lavoro pratico.

Questi gruppi diventano spesso dei gruppi di sostegno per assistenti sociali ma anche per altre persone che hanno bisogno di un’opportunità di parlare (a proposito delle tensioni derivanti dal lavorare con persone molto anziane) con altre persone che vivono la medesima esperienza. Gran parte del lavoro con le persone molto anziane viene svolto da singoli assistenti sociali che lavorano da soli in unità specialistiche o da operatori specialisti che lavorano in servizi generici. Si potrebbero fare dei tentativi per riunire assieme queste persone (l’esistenza di un bisogno di questo tipo è dimostrata dall’entusiasmo con cui esse partecipano a conferenze e seminari). In queste occasioni — in gruppi ristretti — emergono sempre delle esperienze personali penose e delle difficoltà professionali. Se c’è il bisogno per qualche operatore di un seminario di studio e mancano le risorse e i contatti per organizzarlo, vale sempre la pena di contattare gli enti che svolgono attività di formazione permanente, i quali non desiderano altro che di sentirsi porre simili richieste. Questo può sembrare scontato ma mi ha sempre colpito il fatto che raramente si domandi che venga organizzato qualche corso ma, non appena ne viene organizzato uno, la gente vi si precipiti. Vi è sempre uno spreco di risorse educative quando le autorità non sanno di che cosa le persone hanno bisogno.

I bisogni delle persone che assistono. Finora abbiamo parlato del modo in cui gli operatori sociali professionali riescono a sostenere il loro morale quan-do si imbattono in qualche difficoltà e vogliono superarla. Ma come possiamo noi assistenti sociali aiutare altre persone che assistono, come i nostri colleghi assistenti domiciliari, oppure i vicini, gli amici e i parenti, tutti coloro cioè che sono spesso a strettissimo contatto con l’anziano e soffrono in misura ancora maggiore, quotidianamente, delle fortissime tensioni?

All’inizio di questo capitolo ho detto che la tensione degli operatori sociali professionali è causata dalla natura, dall’estensione e dalla complessità di alcuni dei problemi che si affrontano nell’ambito dell’assistenza all’anziano. Anche la morte, come dicevamo, è continuamente presente e può «demoralizzare» chi svolge

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IL LAVORO SOCIALE «DIETRO LE QUINTE» CON I GRANDI ANZIANI 77

il lavoro sociale. Questi sono problemi comunque vissuti da tutte le professioni di assistenza e risultano ancora più acuti per le persone comuni che forniscono assistenza continua. Desidero qui descrivere alcune di queste eccezionali tensioni imposte dal contatto prolungato con le persone molto anziane.

Forse sarebbe d’aiuto iniziare con lo spiegare meglio cosa intendo con la dizione «eccezionali tensioni». Assistere una persona molto anziana colpita da malattia fisica o mentale è un lavoro veramente stressante (e non credo sia reto-rico ripeterlo un’altra volta). Gli assistenti sociali hanno già elaborato, come si è detto più sopra, un sistema di sostegno per loro stessi che, quando è fatto bene, è inestimabile. Altri professionisti, come il personale delle istituzioni residenziali, i medici e le infermiere, non hanno rivolto invece sufficiente attenzione, a mio parere, al «prezzo» personale imposto loro da uno stress prolungato. Ci sono segni di cambiamento, comunque, e sono stati fatti parecchi tentativi per ovviare a tutto ciò (più spesso peraltro a favore di operatori che lavorano con i minori o con le famiglie che di quelli che lavorano con gli anziani).

Lo stress subito dai parenti, vicini e amici è ad ogni modo ancora più gran-de e si è fatto troppo poco per aiutarli nei loro sforzi. Prima di tutto dobbiamo conoscere qual è il bisogno specifico delle persone che assistono. Questo è un problema che viene posto raramente, forse perché si è consapevoli che è troppo poco quello che si può offrire. Le persone che assistono devono destreggiarsi fra le difficoltà perché non sanno a chi chiedere e che cosa chiedere.

Iniziamo dai parenti.

Giovanni era uno scapolo di cinquant’anni che aveva assistito la madre ottantenne in una casa dignitosa della periferia dotata di tutti i comfort. Lavorava all’ufficio personale del Comune ed era un uomo simpatico e rispettato, con molti amici. Dopo la morte della madre, iniziò a svolgere un lavoro di volontariato a favore delle persone anziane e tutti rimasero sorpresi quando, durante una delle sedute di formazione per questa at-tività, scoppiò a piangere. Disse che piangeva per il terribile paio d’anni trascorsi prima della morte della madre, quando egli si sentiva disorientato e impotente. Ella girava di notte per la casa, gridando e incespicando in ogni cosa. Cominciò poi a frequentare un centro diurno dove rimaneva tutto il giorno (fino a quando non fu costretta a letto), ma questo significò per Giovanni dover alzarsi presto per prepararla. La sua vita sociale divenne via via più limitata ed era obbligato a rimanere in casa nei fine settimana e la sera per assistere sua madre. Egli diceva sempre che era stata una donna meravigliosa e quando era calma e tranquilla era capace di amarla. Ma quando lo disturbava di notte si sentiva impotente e pieno di rabbia. Questa sua fragilità era alimentata dalla mancanza di riposo. Doveva alzarsi due o anche tre volte per notte per vedere che la madre fosse al sicuro nel suo letto. Verso la fine Giovanni disse che era quasi impazzito

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78 LAVORO SOCIALE CON GLI ANZIANI

per l’esaurimento e la disperazione. E per mesi dopo la morte della madre, non riusciva ancora a dormire bene per tutta la notte.

Quello di Giovanni è forse un caso limite, ma la storia è abbastanza fre-quente. Illustra parecchie cose. Primo, Giovanni non aveva compreso il suo bisogno d’aiuto. Egli sentiva di dovere del rispetto a sua madre e di avere la responsabilità di assisterla. Giovanni andava frequentemente dal medico di base il quale poteva far ben poco tranne fornirgli qualche lieve tranquillante e curare la madre per i suoi problemi fisici. Alla fine il medico di base procurò un’infer-miera che lo aiutasse almeno a rifare il letto e a pulire sua madre. Il medico fece anche in modo che il servizio sociale provvedesse l’assistenza diurna. Attrezzature come il seggiolone e i servizi di lavanderia per l’incontinenza furono procurati dall’infermiera. Giovanni era estremamente grato per tutto questo aiuto dato a sua madre, ma non era abituato a chiedere qualcosa per se stesso e così i suoi bisogni non vennero individuati.

Quali erano i suoi bisogni? Necessitava di qualche opportunità per sostenere la propria vita sociale e i contatti sociali, per sostenere la propria personalità. Aveva bisogno di un po’ di vacanza per rimettersi in salute. Aveva bisogno di qualcuno con cui parlare del risentimento che provava verso sua madre: non aveva mai perso la testa, ma quando era in collera si comportava bruscamente con lei e poi si sentiva in colpa. A quel tempo egli non si sentiva capace di am-mettere questi sentimenti negativi; e, certamente, non con gli amici e i vicini. Ancora, aveva bisogno di non sentirsi solo nella sua lotta per assicurare una fine dignitosa alla propria madre.

L’esperienza di Giovanni è differente solo per l’intensità da quella di una vicina di casa di un’anziana signora che veniva chiamata da questa al telefono due volte al giorno, invariabilmente; una vicina che non poteva andare in vacanza e neppure stare via un’intera giornata senza fare dei complicati aggiustamenti.

Sono andata di recente a trovare un’anziana donna costretta in casa che aveva appena trascorso due settimane in una casa di riposo e quando io la vidi era ancora risentita. Disse che era stata la sua vicina a farla ricoverare. La vicina veniva chiamata parecchie volte al giorno per fare la spesa, per aiutarla ad alzarsi e ad andare a letto e per altre faccende, e questa vicina aveva dovuto andare a stare dalla figlia che aveva appena avuto un’altra bambina. La vecchia signora era indignata: odiava la casa di riposo e si sentiva vittima dei capricci della vicina.

Non è facile essere sereni e razionali quando si dipende totalmente o in parte dall’altro. Ambedue le parti possono avere bisogno d’aiuto nei loro sforzi di mantenere delle relazioni positive e fruttuose.

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L’esperienza di Giovanni non è nemmeno differente da quella dell’assistente domiciliare, quando questa va regolarmente in casa per fare le pulizie. Talvolta invece queste visite possono costituire un’esperienza gratificante. Talvolta le assistenti domiciliari devono affrontare l’arroganza e l’ipercriticismo, o dei lavori veramente ributtanti, o delle gravi preoccupazioni per la vulnerabilità dei loro utenti. Le assistenti sanitarie, inoltre, possono incontrare regolarmente delle persone che provocano in loro l’ansia più intensa. Anch’esse possono incontrare il biasimo delle persone che vanno a trovare. Anche i medici di base possono provare degli stati d’ansia e delle relazioni ambivalenti nel rapporto con i loro pazienti. Il sentimento che tutte le persone che assistono possono provare con maggiore intensità è la collera: per la sporcizia, per l’ingratitudine, per le richieste irrazionali, così come per un’ennesima responsabilità a loro addossata.

Non è per nulla sorprendente che una delle maniere con cui le persone che assistono cercano di eliminare il loro stress sia quella di chiedere il ricovero della persona anziana. In questo modo si scarica il peso dell’assistenza e della tensione sull’ospedale o sull’istituto residenziale: questo peso non si elimina, ma si scarica, appunto, su qualcun altro. Il personale delle case di riposo deve far fronte ai problemi dell’assistenza non di una sola persona ma di dozzine. Il grado di stress in queste circostanze può essere del tutto intollerabile. A volte risulta persino impossibile garantire la soddisfazione dei bisogni minimi degli ospiti.

Evans et al. (1981) hanno effettuato alcune ricerche sul tempo impiegato nel portare al gabinetto un gruppo di anziani incapaci di farlo da sé: sembra che o l’operatore passa tutto il giorno a non fare altro oppure si lascia la gente sem-pre bagnata. Le domande di assistenza di un gran numero di anziani ammalati sono immense; queste possono portare allo stesso tipo di frustrazione e di esau-rimento provati da Giovanni, particolarmente perché il personale spesso deve anche rinunciare ai propri periodi di ferie in momenti di carenza di personale. Il prezzo personale da pagare nell’assistenza di questi anziani non autosufficienti è, pertanto, enorme. L’alto livello di assenteismo per malattia in alcune istituzioni residenziali non è del tutto sorprendente.

L’aiuto a chi assiste. Cosa possono fare dunque gli assistenti sociali per prestare aiuto a queste persone? È fin troppo semplice lavarsene le mani, spe-cialmente in un periodo in cui si assiste a drastici tagli delle spese per i servizi pubblici e in cui quindi si finisce per dare per scontato di non riuscire a far fronte a tutti i bisogni della gente. Prima di tutto occorre dire che il sistema informa-tivo descritto nel capitolo precedente è sempre valido. Così ogni informazione significativa deve essere annotata in modo accurato e aggiornata. Gli assistenti sociali potrebbero iniziare con il trasmettere, alle persone che li affiancano nel lavoro di assistenza, le cose che loro stessi hanno imparato.

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Ciò di cui Giovanni, la stanca assistente sanitaria, l’assistente domiciliare esasperata e la vicina imbarazzata hanno bisogno è anche di un’opportunità di tradurre in parole i loro complessi e sconfortanti sentimenti. Non è facile ammet-tere di provare sentimenti come collera, repulsione, a volte anche violenta, nei confronti di anziani deboli e completamente dipendenti. Ma è di enorme sollievo il poterlo fare. È il fatto che i sentimenti siano così intensamente ambivalenti che li rende così penosi e inaccettabili da chi si impegna quotidianamente nell’assistenza. Odiare qualcuno che normalmente piace o che si ama è molto traumatico. Di solito, dopo aver espresso apertamente questa collera, si perviene alla compren-sione che questo impegno comporta anche delle gratificazioni e che forse si può essere più razionali e domandare aiuto quando ci si accorge di non farcela più.

Come può l’assistente sociale fornire a chi aiuta queste essenziali opportunità di essere ascoltati? Potrebbe fornirle direttamente l’assistente sociale stesso, ma questo richiederebbe di avere sempre il tempo disponibile quando la gente ne ha bisogno. Parenti e vicini possono senz’altro essere contenti di parlare con loro se gli assistenti sociali dimostrano interesse e simpatia e possono essere sicuri di non venire sottoposti a giudizio.

Ma gli assistenti sociali non sono ovviamente in grado di fronteggiare l’ampia domanda potenziale di sostegno emergente da una comunità e debbono essere quindi aiutati da altre persone. I sacerdoti, ad esempio, sono capaci di ascoltare, e alcuni di loro sono già esperti nel counseling. Essi sono particolarmente abi-tuati ad affrontare situazioni fortemente emotive. Ma forse necessitano di essere avvertiti di questo nuovo tipo di bisogno.

Gli enti che si occupano di lavoro sociale con le famiglie o di counseling devono fare più attenzione alle tre o quattro generazioni presenti nelle famiglie che essi incontrano. Troppo spesso l’attenzione è focalizzata sull’adolescente quando invece è la nonna a essere la causa della tensione. È del tutto normale essere arrabbiati con un ragazzino di quindici anni ma non lo è esserlo con una novantenne. Gli assistenti sociali di solito preferiscono avere a che fare con il primo, dal momento che in genere hanno più esperienza con i giovani. Anche i dirigenti dei servizi di solito premono per occuparsi dei bambini con problemi piuttosto che dei nonni.

Io non so quale potrebbe essere il ruolo dell’assistente sociale con i colleghi professionisti (tipo medici, infermieri e assistenti domiciliari) che sono in tensione, dal momento che gli assistenti sociali non hanno certo il mandato per fare del counseling o sostenere i loro colleghi stressati. Io so per esperienza che aiuta molto sapere che nel lavoro di questi operatori non sono previsti dei sistemi di supporto come per gli assistenti sociali. Talvolta tener conto di questo fatto permette a un assistente sociale, ad esempio, di sopportare un medico che ha

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perso la testa e urla tutto il suo risentimento; questa, in effetti, è una reazione da impotenza che anche l’assistente sociale può provare. Ciò aiuta a comprendere e a simpatizzare; ma che cosa possono fare gli assistenti sociali per aiutare con-cretamente questi operatori? Ancora una volta la risposta può essere quella di guardare attentamente alle sottoutilizzate capacità delle persone che si occupano di formazione o alle associazioni professionali. Comunque, alle volte, può essere necessario un impegno di tutta l’équipe per convincerli che qualche cosa deve essere fatto. Ancora una volta l’alternativa possibile può essere quella di formare un gruppo di supporto di qualche tipo.

Gruppi di autoaiuto. Che aiuto potrebbe ottenere Giovanni da un gruppo di persone che si trovano in una situazione simile alla sua? Può avere infor-mazioni, può evadere per un paio d’ore da sua madre, può ottenere qualche riconoscimento dell’importante compito che si è assunto, può esprimere i suoi sentimenti e condividerli con altre persone che li provano ugualmente. Credo che i gruppi di autoaiuto per persone che assistono siano una delle risorse ancora più sottoutilizzate nel lavoro sociale. Per avviare questi gruppi occorre di solito spendere del tempo e molta fatica, ma ne vale la pena. Giovanni potrebbe ag-gregarsi a un gruppo di autoaiuto presso lo stesso centro diurno (se già un tale gruppo esiste), poiché altrimenti il problema sarebbe quello di trovare qualcuno che lo sostituisca con sua madre. Talora, se è solo per un paio d’ore, parenti o amici possono essere pregati di dare un’occhiata all’anziana parente. Iniziative di granny-sitting1 non sembrano essere ben viste, poiché la gente è spesso restìa a lasciare i propri parenti con estranei. Se la famiglia è collegata a qualche iniziativa di volontariato o alla chiesa, talvolta possono essere utilizzate queste ultime risorse. È necessario uno sforzo straordinario per rendere possibile tutto ciò, ma ne vale veramente la pena. Recentemente una signora sui cinquant’anni mi diceva che il gruppo di autoaiuto del quale faceva parte era l’unica cosa che le permetteva di mantenere l’equilibrio mentre prestava assistenza a sua madre. Questi gruppi meritano di essere maggiormente sviluppati e di essere correttamente valutati. In letteratura esiste una gran quantità di descrizioni su come questi gruppi abbiano avuto buoni risultati, ma come debbano essere organizzati per avere successo è ancora tutto da determinare.

I gruppi di supporto per colleghi e altri professionisti sono difficili da or-ganizzare. A Liverpool aiutai ad avviare un gruppo di persone che lavorava con gli anziani, che si riuniva con cadenza mensile e che vide un’ampia adesione di professionisti e di qualche volontario. I corsi di aggiornamento, pure, possono

1 L’analogo del servizio di baby-sitting con gli anziani. [ndt]

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fornire un’opportunità di mutua partecipazione e di sostegno. Ho avuto occasione di insegnare in corsi non istituzionali apparentemente organizzati per insegnare qualcosa di specifico, ma ho scoperto che gli studenti erano più desiderosi di condividere le loro ansie provocate dal lavoro. Corsi di questo tipo dovrebbero essere sempre più numerosi. Corsi di un giorno, incontri di studio e regolari corsi serali incontrano tutti il favore di persone di varia estrazione professionale e pertanto soddisfanno un bisogno evidente. Talvolta è meglio che i corsi siano organizzati per persone che svolgono un lavoro simile (ad esempio coordina-tori di alloggi protetti), mentre altre volte è meglio una partecipazione mista. I vantaggi della prima modalità stanno nella comune comprensione dei servizi e dei problemi connessi. Lo svantaggio sta nel rischio di aumentare la chiusura da piccola «parrocchia».

I gruppi misti possono favorire il riconoscimento che molti problemi sono comuni e che la loro soluzione richiede un modo di vedere il problema più «fresco», più nuovo e secondo varie angolature. I responsabili della formazione nei servizi sociali fanno ancora troppo poco per fornire opportunità di «met-tere in comune» le preoccupazioni e di far circolare idee nuove; quando viene fatto qualche cosa, questo è ancora quasi sempre rivolto ai propri operatori del territorio e quasi mai al personale delle istituzioni residenziali o dell’assistenza domiciliare.

La possibilità di poter disporre di qualche training specifico può essere un gran-dissimo aiuto per tutti coloro che assistono; è facile, in effetti, sobbarcarsi una gran quantità di sforzi aggiuntivi dovuti semplicemente alla mancanza di conoscenze. Dal punto di vista fisico, questo può voler dire, ad esempio, non saper alzare l’anziano in modo tale da fare meno fatica. Dal punto di vista psicologico, può voler dire non capire che qualche terapia farmacologica può anche avere degli effetti particolari sul comportamento dell’anziano. L’addestramento o l’informazione su aspetti specifici, inoltre, può comportare la modificazione di atteggiamenti più generali.

Un buon esempio di ciò è offerto da Veronica Coulshed (1980), che come assistente sociale ospedaliera ha organizzato delle sessioni di for-mazione per infermieri su tecniche specifiche di «orientamento al reale» (reality orientation). Il risultato è stato l’aumento del livello di interesse e di efficacia sul lavoro da parte delle infermiere e, più in generale, una maggiore fiducia in se stesse.

Noi assistenti sociali possiamo contare su costanti opportunità di forma-zione per mantenerci aggiornati ed efficienti, ma alcuni altri gruppi di operatori sembra che non ne abbiano altrettante: può essere utile quindi condividere le nostre conoscenze con loro (questi gruppi possono essere gli assistenti domi-

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ciliari, il personale dei centri diurni e i volontari). Nei reparti geriatrici il poco che c’è sembra funzionare, per così dire, ancora meno e questo vale anche per le scarse possibilità di aggiornamento; quest’ultimo è un ambito in cui gli assistenti sociali possono fornire un valido contributo se sono consapevoli di avere anche qualche responsabilità formativa nel loro ruolo. Non c’è bisogno di alcunché di trascendentale: una regolare discussione sui casi può essere sufficiente e molto utile.

I servizi di «respite». Infine, desidero soffermarmi sull’aiuto pratico. Gran parte di ciò che è stato detto nel capitolo precedente riguardo a questo aspetto del lavoro sociale può essere applicato qui; è forse opportuno tuttavia puntua-lizzare maggiormente il concetto di respite («pausa, sollievo»). La maggior parte delle persone trae motivazioni per insistere nella sua azione se vede qualche prospettiva davanti a sé; questa prospettiva normalmente — per chi svolge lavori di assistenza — è una qualche interruzione di questo loro impegno. Le ferie sono una necessità e un «ristoro» che viene apprezzato dagli operatori sociali professionali: tuttavia molte persone comuni che assistono non possono godere di vacanze perché non possono permettersele (e spesso i costi sono maggiori se l’anziano assistito deve essere collocato da qualche parte).

Spesso il ricovero in ospedale risulta essere l’unica possibilità di respite disponibile e alcuni reparti geriatrici e psicogeriatrici hanno un certo numero di letti a disposizione esclusivamente per consentire un breve «sollievo» a chi assiste. Molte case di riposo offrono anch’esse questo servizio, ma spesso in maniera piuttosto casuale. Le sistemazioni avvengono all’ultimo minuto e non c’è la pos-sibilità per il parente di visitare la casa e assicurarsi che l’assistenza sia adeguata. Una vacanza può andare del tutto sprecata se è passata nella preoccupazione per la madre anziana e per come se la potrà cavare. Gli operatori sociali sono spesso i responsabili dell’organizzazione di questi brevi ricoveri e non sempre vi dedicano l’attenzione necessaria. È da questa attenzione che può derivare l’eventuale successo del servizio di respite: la persona anziana deve entrare, ben accettata, in una residenza che le sia familiare. Se il breve ricovero in un ospedale o in un’istituzione residenziale si è rivelata un’esperienza sgradevole, questo può richiedere successivamente un lungo periodo di riadattamento e una grande paura di ritornarci.

Il collocamento in qualche famiglia può essere una valida alternativa per alcune persone.

Era questo il caso della signora Doriana, ad esempio, che aveva ottan-tasette anni e che viveva con sua figlia, Emma, sposata con quattro figli. Era afflitta da artrite e necessitava una grande quantità di assistenza personale.

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Normalmente Doriana andava per due settimane in un convalescenziario che conosceva e che le piaceva. Questo ente però aveva dovuto chiudere per mancanza di garanzie contro gli incendi. Per un paio d’anni poté fruire di un altro convalescenziario pubblico ma anche questo, successivamente, dovette chiudere per i tagli finanziari operati dall’ente pubblico. Emma era disperata. Il medico di base non era molto propenso a favorire un ricovero ospedaliero e, in realtà, questo sarebbe stato molto difficile da ottenere. Finalmente alla signora Doriana venne indicato che un ente di volontariato organizzava una forma di collocamento presso famiglie per brevi periodi. Attualmente ella viene ospitata due volte l’anno dalla stessa famiglia. L’am-biente familiare è ben accettato da Doriana, le persone della famiglia sono capaci di far fronte a tutti i suoi bisogni di assistenza. L’organizzazione del soggiorno viene fatta per tempo e viene dato modo ad ambedue le famiglie di programmare la permanenza.

Quando io parlai alla signora Doriana ella era contenta della sistemazione. Però quando le chiesi se avrebbe preferito che venisse qualcuno a casa sua a stare da lei per badarle (invece di essere lei a essere collocata in una famiglia), ella disse che ne sarebbe stata ben felice. Nessuno di noi pensava che questo fosse realizzabile, ma era chiaro che lei avrebbe preferito rimanere nel proprio ambiente familiare. Io ho visto attuato questo tipo di sistemazione solo fra parenti e amici. È un «esperimento», questo, che dovrebbe essere tentato, benché ognuno possa vedere le ovvie difficoltà connesse al lasciare un estraneo in casa mentre si è in vacanza. Cionondimeno un’altra regola di esperienza direbbe che nessun anziano in condizioni precarie dovrebbe essere trasferito a meno che questo non sia proprio necessario. Ci sono molti risultati di ricerche che evidenziano gli effetti negativi che può avere un «trasloco» per un anziano.

In conclusione, le persone che assistono rappresentano la più importante risorsa a disposizione per far fronte ai bisogni degli anziani con problemi. Tre ci sembrano essere le maniere più valide per aiutarli: dar loro la possibilità di parlare e di condividere le loro preoccupazioni; dar loro delle buone informazioni circa gli aiuti pratici di cui potrebbero fruire; dar loro la possibilità di godere di qualche momento di pausa, sia questo di due ore o di due settimane.

Combattere il pregiudizio contro gli anziani

Il pregiudizio contro gli anziani (ageism) è un atteggiamento diffuso nella società. Del persistere di questo atteggiamento gli operatori sociali sono sia colpevoli che vittime. Ne sono colpevoli perché hanno anche loro delle respon-sabilità per i servizi, spesso di basso livello, forniti agli anziani; ne sono vittime

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perché gli operatori sociali che lavorano nell’ambito dell’assistenza agli anziani sono considerati operatori quasi di serie B e hanno minori possibilità di carriera rispetto ad altri. Il primo compito dovrebbe essere quello di elevare il livello di consapevolezza di tutti gli operatori sociali anche sull’esistenza di questo atteggia-mento «dispregiativo». Questo è molto difficile poiché l’ageism è molto radicato nella società. Comunque, senza questa presa di coscienza gli operatori sociali non saranno mai in grado di cambiare i loro atteggiamenti. Senza un diffuso cambiamento degli atteggiamenti, la posizione sociale degli anziani non potrà essere migliorata.

Io ho resistito alla tentazione di teorizzare riguardo ai motivi per cui noi temiamo l’invecchiamento. Si rischia troppo facilmente, per questa via, di im-pantanarsi nelle diatribe astratte sugli aspetti negativi del materialismo o sull’os-sessione dello sviluppo economico, e dimenticare il paradosso che è proprio a causa dell’industrializzazione, e di altre spiacevoli caratteristiche della nostra storia e della nostra società, che noi abbiamo una così ampia popolazione anziana. Ed è per lo stesso motivo che anche noi abbiamo buone probabilità di vivere fino ai settanta o ottant’anni. Perciò, pur non sminuendo il valore della ricerca sulle cause dell’ageism, preferisco concentrarmi su che cosa questo fenomeno concretamente è.

L’ageism, come il razzismo e il sessismo, è innanzitutto un pregiudizio nei confronti di una parte della popolazione. E nutrire un simile pregiudizio vuol dire attribuire all’altro ignoranza, mancanza di potere, stereotipi e così via. L’ageism, come gli altri pregiudizi, è spesso interiorizzato dalle stesse «vittime». Ma l’ageism è anche curiosamente diverso dagli altri in quanto, mentre noi possiamo non avere esperienza di altre razze o dell’altro sesso, noi tutti possiamo pervenire (o almeno la maggior parte di noi) all’esperienza della vecchiaia. Emerge un ulteriore curioso paradosso: noi tutti sperimenteremo la vecchiaia, e malgrado ciò fingiamo che tale condizione non ci riguarderà. La finzione è sottile.

Accettiamo uno stereotipo basato su un’immagine di passività della vecchia-ia, ossia di minore domanda di cibo, di sesso, di potere, di status. Lo stereotipo ha un effetto di deprezzamento: «vecchiaccia», «vecchia gallina», «rimbambito» e così via. Lo stereotipo suggerisce un minor grado di competenza, sia fisica che intellettuale. Questo stereotipo non è intaccato minimamente dal fatto che esistano persone che lo contraddicono in misura cospicua. Queste eccezioni si considerano come delle conferme alla regola: lo stereotipo corrente della vec-chiaia in questo modo si rafforza. Tutto ciò non è per nulla differente dal fatto per cui l’esistenza di singole persone di colore socialmente affermate (o delle donne celebri) non attenuano per nulla il pregiudizio nei riguardi dei neri e delle donne. Ancorata com’è allo stereotipo della vecchiaia, la maggior parte della

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Come si può comprendere meglio il mondo delle persone malate di demenza? Come affrontare in modo comprensivo i loro comportamenti difficili in situazioni della vita di tutti i giorni? Come costruire una relazione serena in un momento così complicato e, a tratti, frustrante? Questo vo-lume, rivolto ai familiari che assistono un loro caro anziano e disorientato, ma anche agli operatori del settore, presenta in una versione agile e spiccatamente operativa uno dei più celebri approcci utilizzati in ambito internazionale per costruire relazioni soddisfacenti con i grandi anziani con-fusi. Validation è un metodo per comunicare con persone molto anziane affette da demenza e per sostenerle nelle ultime fasi della loro vita. L’obiettivo è quello di aiutare i caregiver a entrare nella realtà individuale della persona malata: se sono in grado di stabilire una relazione di cura empatica, i caregiver possono connettersi o riconnettersi in un modo nuovo con i loro familiari disorientati e dar loro sollievo e benessere.

Contenuti

• Che cosa succede a un anziano disorientato• Come comunicare con il familiare affetto da demenza• Come agisce Validation nella vita quotidiana delle famiglie• Esempi ed esercizi

• Assistere gli anziani •

Vicki de Klerk-Rubin

IL METODO VALIDATION

Costruire relazioni serene con la persona con demenza

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sa più dove si trova, chi sono le persone che lo circondano, o che giorno è. Le persone in questa fase sono ancora in grado di parlare e di comunicare verbalmente, ma scambiano gran parte della realtà comune con la loro «realtà personale». Quando esprimono se stessi e i loro bisogni, lo fanno spesso in modo molto poetico e creativo. Se le norme e le convenzioni sociali interferiscono con l’espressione dei loro sentimenti, loro non vi si confor-mano. Le convenzioni sociali ci dicono quando mangiare, come mangiare, come vestirci, come salutare gli altri, che cosa dire, quale comportamento è accettabile e quale no. Infrangere le regole sociali spesso disturba gli altri proprio perché queste norme sono particolarmente importanti per la società.

Ad esempio, una donna anziana vuole «andare a trovare i suoi geni-tori» perché si sente sola e perduta, indossa cappello e cappotto e comincia a camminare avanti e indietro per il corridoio: nella sua mente, i corridoi diventano le strade che percorreva da giovane. Oppure, una donna guarda fuori dalla finestra del secondo piano di un centro per la demenza e dice: «Oh, guarda! Che bella veranda. Potremmo sederci lì sul dondolo». Il punto è che sta ricordando la veranda di una casa della sua vita e le sensazioni che provava quando si sedeva al sole; dondolarsi è molto più piacevole che sedere in una struttura sanitaria, triste, con le pareti bianche, con vicini disorientati e farfuglianti.

Di seguito, alcuni esempi di confusione temporale.La signora Banfi (86 anni) è sempre stata un donna molto gentile e

amichevole. Oggi vive con sua figlia; tutti i giorni esce di casa e saluta tutte le persone che incontra, come se fossero suoi vecchi amici di gio-ventù. Spesso si perde, non riesce più a trovare la strada di casa, e non sa nemmeno in che città si trova. Pensa di vivere in Umbria, dove abitava quando era ragazza. Scherza e flirta, come se fosse una ragazzina, con tutti gli uomini che vengono a trovarla e anche con il poliziotto che spesso l’ha riportata a casa. Ripete sempre le stesse storie, racconta di tutti i ragazzi che ha avuto.

La signora Esposito (91 anni) vive con suo marito (93 anni), che si prende cura di lei da quando è diventata «confusa», circa quattro anni fa. A volte non lo riconosce e pensa che sia un ladro. Comincia a urlare e gli ordina di uscire, di andarsene da casa sua e di lasciarla da sola. A volte lo picchia. È sempre stata una donna molto mite e abituata a tenere tutto sotto controllo, ma adesso non sa più controllare nemmeno se stessa. Scaccia via con violenza tutte le persone che le si avvicinano

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e offende anche le assistenti domiciliari che vengono tutti i giorni ad aiutarla a vestirsi.

Il signor Villa (85 anni) vive da solo nella stessa città dei suoi quattro figli, che tutti i giorni si prendono cura di lui, a turno. Quando vede una donna, scherza con lei e fa apprezzamenti sul suo aspetto, sessualmente molto espliciti. A volte tocca il sedere anche a sua figlia, quando non la riconosce come tale. Il signor Villa trova allusioni sessuali in ogni cosa e le esprime in modo piuttosto disinvolto. A volte si masturba in presenza di altre persone. I suoi figli sono in imbarazzo: non vogliono più portarlo fuori casa e non sanno più che cosa fare.

Movimenti ripetitivi

Quella dei movimenti ripetitivi è la terza fase della risoluzione. In questa fase, le persone non comunicano quasi più a parole. Si esprimono soprat-tutto attraverso i movimenti o i suoni. Il loro bisogno di esprimersi è forte proprio come il mio o il tuo, ma hanno perso la motivazione o la capacità di interagire con la «realtà», con le persone e con l’ambiente. Gli anziani nella fase dei movimenti ripetitivi si sono estraniati ancora più profondamente di chi è nella fase della confusione temporale. Questo vuol dire che spesso non prestano attenzione alle persone e all’ambiente che li circondano. Sono intrappolati nel loro mondo, che è diventato un’espressione dei loro bisogni. I movimenti e i suoni ripetitivi sono, infatti, una manifestazione di senti-menti: ad esempio, del bisogno di essere utili (lavorando) o di sentirsi parte attiva della società. I movimenti della bocca possono creare emozioni; l’uso di nuove combinazioni di parole, che ci può sembrare del tutto senza senso, è in realtà un modo personalissimo di dire quello che deve essere espresso.

Questi sono alcuni esempi di persone nella fase dei movimenti ripetitivi.La signora Parisi (96 anni) sta camminando nell’atrio della struttura

in cui vive da circa un anno. Sua figlia non aveva più potuto assisterla a casa, quando si era ritirata da ogni contatto con gli altri, aveva cominciato a soffrire di incontinenza, era del tutto dipendente per lavarsi, mangiare, vestirsi. La signora Parisi si muove pesantemente sulle gambe ancora forti e ogni tanto si ferma per raccogliere un fazzoletto di carta, una penna, una forchetta o qualsiasi altro oggetto che trovi sulla sua strada. Quando le altre persone la salutano non le guarda, e parla soltanto se le si pone direttamente una domanda semplice, come «Vuole una tazza di caffè?». Il suo sguardo è sempre rivolto in basso e la signora sembra trovarsi in

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un «altro mondo». Per capire la sua realtà personale, è importante sapere che la signora Parisi viveva in una città bombardata durante la seconda guerra mondiale e che ha dovuto crescere due figli da sola, perché suo marito era stato ucciso al fronte. I suoi giorni erano all’insegna della paura e della disperata ricerca di cibo e vestiti.

Il signor Longo (88 anni) vive in casa, assistito da sua nuora. Dipende in tutto da lei e dall’assistente domiciliare che viene ogni giorno a lavarlo e vestirlo. Seduto in una grande poltrona in salotto, passa tutto il giorno a tamburellare sul tavolo davanti a lui o a strisciare le mani avanti e indietro sul piano del tavolo. A volte afferra un oggetto e lo fa ruotare a lungo tra le mani. Il signor Longo non parla molto, ma ogni tanto escla-ma «Ottimo», o «Così va bene». Per chi sa che il signor Longo aveva una falegnameria e che per 60 anni ha creato magnifici mobili fatti a mano, il suo comportamento comincia ad avere senso.

La signora Chiari (84 anni) è tenuta legata alla sua sedia a rotelle, perché vuole alzarsi e camminare da sola. Gli infermieri della struttura che la ospita temono che possa cadere e rompersi un femore. La signora trascorre tutto il giorno a piegare i suoi vestiti, i tovaglioli, le tovaglie o qualsiasi altra cosa piatta e sottile che riesce a trovare. Intanto, canta fra sé e sé vecchie canzoncine per bambini e a volte dice qualcosa che non si riesce a capire, ma nello stesso tono di voce di una madre che parla a un figlio piccolo. Alle 12.30, l’ora in cui una volta finivano le lezioni a scuola, si agita e chiama «Aiuto». I suoi figli le fanno visita raramente perché non sanno che cosa fare e hanno l’impressione di non fare niente di utile per lei. Non li riconosce e non parla con loro. Quello che non capiscono è che la signora Chiari era al culmine della felicità quando era una giovane madre, con tre figli piccoli, si prendeva cura di loro, e aveva costruito la sua vita intorno al loro benessere e alla loro felicità.

Stato vegetativo

L’ultima fase della risoluzione è lo stato vegetativo, che consiste in un totale allontanamento dalla realtà. Le persone in questa fase restano sdraiate o sedute immobili, senza parlare, senza connessioni con l’ambiente circostante. Dipendono in tutto e per tutto dall’assistenza degli altri. Non riusciamo a capire quello che succede nella mente di queste persone, perché non sono più in grado di comunicare. Stabilire un contatto con loro è molto difficile, ed è per questo che uno degli obiettivi che si pone il Metodo Validation è la prevenzione: evitare che l’anziano raggiunga lo stato vegetativo. Le reazioni

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sono minime: un battito delle palpebre, un attimo di reale contatto visivo, talvolta il movimento delle dita o di un piede, ma nulla di più. È una con-dizione di pre-morte, ma che può durare anche per anni.

Perché una persona scivola nelle fasi più gravi del disorientamento? Ci sono diverse ragioni.

A volte il declino ha una causa fisica: può essere dovuto a un ictus che ha lasciato danni permanenti al cervello e procurato una paralisi o la perdita della parola, oppure alla diminuzione delle informazioni ricevute attraverso i sensi, legata al peggioramento di vista, udito, tatto, gusto e odorato. Se i sensi non riescono più a trasmettere informazioni, diventa infatti molto difficile orientarsi. Proviamo a pensare a quando ci svegliamo ancora mezzo addormentati in un posto che non conosciamo: prima che i sensi si risveglino e ci diano abbastanza informazioni per orientarci, siamo confusi. La mancanza di stimoli sensoriali porta all’isolamento e spesso fa paura. Ad esempio: un anziano non usa l’apparecchio acustico perché gli dà fastidio; in tal modo, però, non può seguire le conversazioni con la sua famiglia e si sente tagliato fuori. Invece che cercare di comunicare (cosa che richiede molta energia), si limita a seguire i suoi pensieri e non comunica più con le persone che lo circondano.

Anche alcune perdite psicologiche possono essere estremamente sner-vanti. Cambiamenti profondi della propria vita come la morte del coniuge, la perdita di un figlio, il trasloco in un nuovo ambiente sono tra i principali fattori scatenanti del ripiegamento in se stessi. Come madre, non riesco a immaginare un dolore più grande che perdere mia figlia. Ho conosciuto genitori che hanno dovuto affrontare la morte di un figlio dodicenne: è stata un’esperienza che mi ha fatto capire quanta flessibilità e forza psi-cologica ci vogliono per attraversare una crisi di tale portata e per uscirne mantenendo la forza di agire e la capacità di andare avanti. Quando alcune donne perdono il marito su cui avevano fondato la loro intera vita, sentono il terreno cedere sotto i loro piedi. Anche alcuni uomini dipendono in tutto dalla moglie e, quando lei muore, sono incapaci di prendersi cura di sé e si demoralizzano. Per affrontare crisi di questo tipo ci vogliono flessibilità e forza psicologica. Alcune persone sono strettamente legate al posto in cui vivono, all’ambiente in cui hanno trascorso tutta la loro vita adulta e a cui sono legati molti ricordi importanti. Una casa può essere anche simbolo di status o di sicurezza: perdere la propria casa può essere devastante. A scatenare

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50 Il Metodo Validation

il disorientamento è spesso il trasloco, soprattutto se si viene spostati in una residenza assistenziale. Vivere in una struttura residenziale può aggravare il disorientamento, proprio in ragione di tutto quello che una «casa di riposo» non è: non è «casa mia», non è un luogo sicuro, familiare, privato, e spesso il trasferimento non è stata una scelta libera. Per gestire questo tipo di perdite psicologiche sono necessarie molte risorse e molte abilità, e spesso le persone arrivano alla vecchiaia senza essere in grado di affrontarle.

A tutte queste perdite che si accumulano man mano che si invecchia, si aggiungono anche le perdite sociali, quelle cioè che riguardano il nostro ruolo nella società, il posto che abbiamo ricoperto in passato e quello che ricopriamo adesso. L’importanza del ruolo sociale nella definizione di un’i-dentità personale varia molto in base alle condizioni di vita individuali. Per molti uomini e donne, ad esempio, andare in pensione vuol dire perdere di importanza: se non lavorano, si sentono privi di valore. Altre persone non riescono a superare la perdita della rete sociale che si accompagna alla morte dei loro amici, e finiscono con l’isolarsi.

Conclusione

Noi tutti abbiamo sviluppato una strategia per affrontare le difficoltà che incontriamo nella nostra vita. Alcuni meccanismi di risposta funzio-nano meglio di altri, in base alle circostanze. Chi dispone di molti diversi meccanismi per far fronte alle difficoltà riesce a adattarsi meglio man mano che invecchia.

Spesso, in una residenza assistenziale gli anziani sono trattati in modi che aumentano il disorientamento, più che motivarli a restare nel qui e ora o a comunicare con le persone intorno a loro. Vivere in camerate comuni (ci sono ancora anche camere a sei letti) confonde e spersonalizza. L’uso di sedativi per aiutare a dormire o a restare tranquilli contribuisce a un forzato ripiegamento nel proprio mondo interiore. Farmaci psicotropi (antipsi-cotici) sono spesso somministrati a pazienti anziani quando affermano di vedere o sentire qualcosa che il personale non vede e non sente, o quando si comportano in modi che il personale non ritiene accettabili. Questi farmaci reprimono l’identità e creano disorientamento. Per paura che la persona anziana cada e si faccia male, spesso il personale lega l’anziano che

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Che cosa succede a un anziano disorientato 51

vuole continuare a camminare: ad esempio, con lacci imbottiti intorno alla sedia, o con poltrone chiuse da un vassoio. Per una persona che ha bisogno di muoversi, essere legati è una tortura. Per una persona che ha bisogno di esprimersi, prendere sedativi o altri farmaci repressivi è come annegare. C’è da stupirsi se si ritira in se stessa? La realtà è troppo dolorosa e non le dà niente delle cose di cui ha bisogno. Non c’è niente da guadagnare a restare in un ambiente angosciante, ed è questo il motivo per cui spesso gli anziani scivolano sempre più in profondità nel disorientamento e nelle fasi più avanzate della risoluzione.

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60 Il Metodo Validation

Chiedere l’estremo. In questo modo puoi capire dove corrono i confini dell’intera questione. Usa parole come «sempre» e «mai» o chiedi «quanto spesso» o «quanto» (la frequenza e la quantità).

Vicki: Quante volte càpita?Signora C: Tutti i giorni.Vicki: Porta via tutto insieme o una cosa alla volta?

Esplorare l’opposto. Cerca di capire che cosa succederebbe, se fosse vero il contrario:

Vicki: Ci sono momenti in cui non viene nella sua camera e non porta via niente?

Signora C: Adesso che mi ci fai pensare, quando tu sei qui in giro, non porta via niente.

Ricordare il passato. Quando il tuo familiare è nello stato d’animo giu-sto, ricordare il passato è facile e piacevole. Lo si può fare in molti modi: si può guardare insieme un album di fotografie o allestirne uno nuovo, si può aiutare l’anziano a scrivere la sua autobiografia, o chiedere semplicemente qualcosa sulla vita quotidiana del suo passato: «Ti ricordi quando…?». Puoi anche approfondire, ponendo domande come: «Qual è il momento più importante della tua vita?», «Qual è stato il momento più felice?», «Qual è stato il momento più difficile?».

Trovare un meccanismo sperimentato per far fronte ai problemi. Questo può aiutare l’anziano che assisti ad affrontare le difficoltà che incontra. Spesso, nella nostra vita, i problemi tendono a ripetersi e le strategie che ci sono state d’aiuto in passato possono tornare utili anche nel presente. Ad esempio:

Signora C: Non riesco a dormire. I vicini fanno sempre rumore, e mi ten-gono sveglia tutta la notte.

Vicki: È successo anche in passato?Signora C: Quando eravamo nel vecchio condominio, quello economico,

con le pareti sottili come cartone. Potevamo sentire tutto.Vicki: Che cosa avevate fatto, allora?Signora C: Be’… Tuo papà non ha mai fatto caso al rumore, ma io a volte

usavo i tappi per le orecchie. Sai, si possono fare ottimi tappi per le orecchie arrotolando dei pezzettini di carta igienica.

Vicki: Non potrebbe fare alcuni di questi tappi anche adesso? Potrebbero essere utili?

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Come comunicare con i tuoi familiari disorientati 61

Signora C: Me ne ero completamente dimenticata. Portami un pezzo di carta igienica, ché ti faccio vedere come si fa.

Usare il senso preferito. È un’ultima tecnica che può rivelarsi molto utile, anche se risulta un po’ più difficile da spiegare e richiede un’applicazione più attenta e diversificata. Deriva dalla programmazione neurolinguistica, che è un modello pratico per la comunicazione interpersonale e il cambiamento individuale, sviluppato da Richard Bandler e John Grinder in California a metà degli anni Settanta del Novecento. Si parte dalla constatazione che la maggior parte di noi ha un senso preferito (la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto o il tatto), che entra in gioco più spesso degli altri o rappresenta il principale filtro del flusso delle informazioni. Noi «vediamo» quello che vuol dire l’altra persona, o «sentiamo» quello che dice, o siamo fortemente «colpiti» dall’informazione. Quando parli a un’altra persona usando il suo senso preferito, l’informazione o la comunicazione arrivano più direttamente e si crea un legame migliore con lei. Ad esempio, se sai che una persona è «visuale», puoi dire: «Come la vedi?». In questo modo «parli la sua stessa lingua», non devi «essere tradotto», e hai più probabilità di ottenere una risposta. Usare il senso preferito è un modo per costruire fiducia più velo-cemente e rendere più facile la comunicazione.

Il modo più immediato per capire qual è il senso preferito di un’altra persona è ascoltare le parole che sceglie quando parla. Ad esempio, usa spesso parole visuali? Prova ad ascoltare le parole sensoriali che usa. La tabella 2.1 può dare qualche suggerimento al riguardo.

TABELLA 2.1Alcuni esempi di «parole sensoriali»

Visuale Uditivo Cinestetico Non sensoriale

Vedere, vistaChiaro/scuroNebuloso, nebbiosoChiaro, luminosoCiecoRosso, blu, verde, ecc.ScintillanteFissare (con lo sguardo)

Sonoro, silenziosoSquillanteChiedere, parlare, dire, ascoltareRumoreRussareScoppiare, grattareBattere, percuotereTranquillo

SentireCaldo/freddoDuro/morbidoPressioneToccoSensibileEccitato, tesoLiscio/ruvidoAsciutto/bagnato, umido

Pensare, sembrareChiedersi TrovareVolereBuono/cattivoBello, divertenteSpiacevole

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62 Il Metodo Validation

Dopo aver individuato qual è il senso preferito dell’altra persona, usalo quando vuoi capire la sua situazione.

Signora C: Sai, la mia vicina mi tiene sveglia tutta la notte, con il suo fracasso. Sono giorni che non dormo…

Vicki: Ma questo rumore, come lo senti?Signora C: Be’… prima è come un forte baccano, come se stesse spo-

stando i mobili. Non cammina, ma pesta i piedi, quando va in bagno, e poi là c’è il rumore dell’acqua che scorre e lo sciacquone. Quella donna deve fare pipì tutta la notte.

In sintesi, ecco le tecniche da applicare con persone anziane che co-municano verbalmente:– Usare domande aperte: chi, che cosa, dove, quando, come– Riformulare quello che ha detto la persona; usare parole chiave– Chiedere l’estremo– Ricordare il passato– Trovare un meccanismo familiare per affrontare i problemi– Usare il senso preferito.

Tecniche che funzionano con le persone nella fase di confusione temporale e dei movimenti ripetitivi

Fare domande chiuse. Con una persona che comunica a parole, puoi usare le tecniche che abbiamo descritto finora. Con persone che hanno difficoltà di parola puoi usare un’altra tecnica. Una persona con afasia, ad esempio, o con altri danni ai centri cerebrali che regolano il linguaggio, fa molta fatica a rispondere alle domande aperte; in questi casi è meglio fare domande chiuse, cioè domande a cui si può rispondere con «sì» o «no». Usa parole facili da capire o parole che la persona con cui stai parlando riesce a legare facilmente alla sua esperienza di vita (ad esempio, parole che fanno riferimento al suo ambito lavorativo). È una buona idea anche presentare due possibili risposte tra cui scegliere. Ad esempio:

La signora C sembra triste: ha gli occhi rivolti a terra, il corpo un po’ incurvato in avanti sulla sedia; strofina le mani sul tavolo con un movimento lento, come se lo stesse spazzolando.Vicki: Signora C, mi sembra triste. Vorrebbe essere a casa o al lavoro?

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Come comunicare con i tuoi familiari disorientati 63

In questo caso, ho scelto questi due «bisogni» alternativi perché conosco la storia della signora C e so che per lei è sempre stato importante, lungo tutta la sua vita, stare a casa con i figli e sentirsi attiva.

Se una persona ha limitate capacità di espressione verbale, puoi provare alcune tecniche di comunicazione non verbale.

Rispecchiare. Il rispecchiamento consiste nel riprodurre, come in uno specchio, la postura, l’espressione del volto, il tono di voce e anche il respiro dell’altra persona. Si può rispecchiare un solo elemento fisico o tutti quelli che ritieni opportuni. Il rispecchiamento, in Validation, non vuol dire imitare; imitare è semplicemente copiare per il gusto di copiare. Il rispecchiamento ha invece un obiettivo preciso: sviluppare l’empatia e comunicare in modo non verbale. Spesso, rispecchiare, cioè riprodurre un movimento ripetitivo, può farci capire meglio il significato che sta alla base di quel movimento. Rispecchiarsi vuol dire inoltrarsi davvero nel mondo interiore dell’altra persona.

Cercare un contatto visivo. Un contatto visivo schietto e diretto è l’inizio di ogni relazione profonda o intima. È il contatto visivo che per primo unisce le persone. Mettersi allo stesso livello degli occhi dell’altra persona, avvicinarsi fisicamente, osservare con attenzione il viso e gli occhi dell’altra persona sono tutti inviti a stringere un contatto visivo.

Usare il tocco. Serve per entrare in contatto con una persona che si è ritirata profondamente nel suo mondo. Un tocco delicato sul braccio o sulla spalla è un modo per stringere una connessione. Ricordati, prima di tutto, di assicurarti che la persona capisca che tu sei lì. Dì «Ciao» o un altro saluto e poi avvicinati. Prova a stabilire un contatto visivo con lei e inizia a toccarla lievemente, per costruire un contatto e metterti in relazione. Un altro tipo di contatto fisico è il tocco ancorato: si basa sul concetto di «ancoraggio» (anchoring), che è la connessione che viene stabilita tra uno stato emotivo e una sensazione fisica (in questo caso, la connessione tra un’emozione e un certo tocco). Feil ha scoperto che la maggior parte delle persone anziane reagisce a un certo tipo di tocco sulla guancia ricordando la propria madre, un tocco in cima alla testa fa ricordare il padre, un tocco sulla linea della mandibola rievoca sentimenti legati al marito o alla moglie, un tocco sulle spalle porta con sé emozioni connesse a fratelli, sorelle e amici intimi, in-

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Cosa fa un assistente sociale quando lavora al meglio? Come trova realizzazione, in concreto, una buona pratica profes-sionale di servizio sociale? Questo testo propone un ampio ventaglio di situazioni operative reali, in cui gli operatori direttamente coinvolti analizzano gli interventi che hanno messo in atto, i colloqui con gli utenti, il lavoro organizzativo, le modalità di collaborazione con altri professionisti e servizi. L’analisi mette in evidenza con vivido realismo i dilemmi della pratica e i percorsi riflessivi intrapresi per affrontarli; costituisce inoltre una testimonianza illuminante di come, nella mente degli operatori, possa articolarsi il rapporto fra teoria e intervento quotidiano sul campo. Si tratta di un testo che si presta a diversi livelli di lettura: chi desiderasse farsi un’idea di questo mondo professionale — come opera-tore sanitario, insegnante, volontario, semplice cittadino o anche studente che pensa di intraprendere questa strada nel suo futuro lavorativo — vi può trovare degli spunti che gli consentiranno di mettersi davvero nei panni di un operatore sociale; il libro offre inoltre agli addetti ai lavori, anche ai più esperti, delle indicazioni interessanti e scientificamente rigorose sul «come fare» e su come utilizzare riflessivamente la propria base di conoscenza nell’attività professionale di tutti i giorni, un’attività preziosa e spesso eccellente, da valorizzare di più.

€ 21,00

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Karen Jones, Barry Coopere Harry Ferguson(a cura di)

Edizione italiana a cura di Maria Luisa Raineri

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Lavoro per bene Buone pratiche

nel servizio sociale

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AMELIA E LA SUA CASA 71

Amelia e la sua casaUna buona prassi nell’ambito

della demenza senileKaren Jones

(in collaborazione con Imogen Powell)

L’approccio critico incentrato sulle buone prassi richiede di essere aperti ad apprendere dalla pratica professionale effettiva, contestualizzata nelle situazioni reali che si incontrano sul campo. Ciò mi ha richiesto competenze diverse e mi ha presentato nuove sfi de rispetto alla maggior parte dei lavori accademici che avevo scritto in passato come docente universitaria di social work. Quanto segue è il mio tentativo di comprendere e analizzare le buone pratiche con adulti affetti da demenza, partendo dall’esame di una situazione reale. Propongo qui l’appli-cazione di alcune idee che ho trovato utili e signifi cative come assistente sociale e come studiosa. Mi sembra che queste idee possano costituire una risposta di stampo critico-rifl essivo alla specifi ca situazione descritta di seguito. Allo stesso tempo, il capitolo introduce alcuni temi teorici chiave, che ricorrono anche in altre parti del libro.

Il testo è stato scritto in collaborazione con Imogen Powell, un’assistente sociale esperta. Imogen lavora in un Ente locale e fa parte di una équipe che si occupa di anziani con problemi di salute mentale.

Nel primo capitolo si è cercato di delinearne il signifi cato e di dar conto del dibattito in merito alla nozione di «pratica professionale critica» nel lavoro sociale attuale e nel passato. Punto centrale è che «critico», qui, non signifi ca qualcosa di negativo o distruttivo. Piuttosto, indica un atteggiamento di «apertura mentale, di analisi rifl essiva che tiene in considerazione differenti prospettive, esperienze e ipotesi» (Brechin, 2000, p. 26).

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72 LAVORO PER BENE

La mia personale idea di «pratica professionale critica» è infl uenzata da quegli autori che hanno cercato di collegare analisi critica e idee postmoderne, nell’in-tento di rinnovare e far crescere l’approccio del social work critico-rifl essivo (ad esempio Rojek, Peacock e Collins, 1988; Parton, 1994; Leonard, 1997; Pease e Fook, 1999; Healy, 2000; Powell, 2000). Questi riferimenti teorici non sono utilizzati per analizzare soltanto la situazione descritta qui: rifl ettono un fi lone che ritroveremo anche in altri capitoli nel libro.

Il contributo della teoria critica postmoderna all’analisi del lavoro sociale contemporaneo e allo sviluppo di specifi ci approcci operativi è di ampia portata, nonché soggetto a un continuo dibattito. L’etichetta di postmoderno è talvolta usata in maniera poco rigorosa. In ogni caso, possiamo identifi care una tenden-za abbastanza recente secondo cui è preferibile orientarsi alla comprensione contestuale delle specifi che situazioni in cui intervengono gli operatori sociali, invece di seguire le prescrizioni di singole metodologie e degli approcci basati sulle evidenze scientifi che. Non che le conoscenze e la ricerca sulle competenze professionali non siano importanti, ma il contesto entro il quale vengono esercitate le conoscenze e le competenze è ogni volta unico, perché riguarda situazioni e persone specifi che.

Secondo la prospettiva del social work postmoderno, è importante il coinvolgimento empatico con le storie delle persone, per costruire un per-corso verso un cambiamento condiviso, piuttosto che imporre soluzioni ela-borate dagli esperti. Queste idee sono state utilizzate per sviluppare approcci critico-rifl essivi che mettono in discussione assunzioni date per scontate, in particolar modo quelle legate al linguaggio, al modo di defi nire le situazioni. Questi nuovi modi di ragionare contemperano la complessità, l’incertezza e l’ambiguità delle situazioni concrete, invece di cercare semplifi cazioni illusorie verso soluzioni «certe».

L’approccio cui facciamo riferimento in questo libro cerca di mostrare ciò che il lavoro sociale fa di buono nell’attività professionale di tutti i giorni (Ferguson, 2003). Per molti versi, le vicende analizzate qui di seguito si riferiscono a una situazione comune nel social work, non a un caso eccezionale. Se è «ordinaria amministrazione» per Imogen e gli altri membri della sua équipe, ciò non toglie che sia comunque la storia di una esperienza individuale di demenza e di un intervento di aiuto «unico» nella sua specifi cità.

Non entrerò in tutti i dettagli del caso e non starò a descrivere per intero tutto ciò che ha fatto l’assistente sociale. Il mio obiettivo è piuttosto quello di mettere in evidenza la prassi che si è rivelata migliore in un particolare contesto, per rifl ettere e tracciare i temi critici cruciali da prendere in considerazione per lavorare bene con chi è affetto da demenza.

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AMELIA E LA SUA CASA 73

Un’anziana confusa

Amelia aveva passato gli ottantacinque anni. Abitava da sola in una casa popolare, dove avevano sempre vissuto anche i suoi genitori. Non si era mai sposata e, per quanto ne sapevano amici e familiari, non aveva mai avuto lunghe relazioni sentimentali. Quando Imogen prese in carico il caso, ad Amelia era stato diagnosticato un probabile morbo di Alzheimer. La situazione era stata segnalata dal day hospital che Amelia aveva frequentato per qualche tempo. Amelia appariva sempre più confusa e la sua frequenza al day hospital risultava sempre più irrego-lare. Secondo i segnalanti, era opportuno valutare la collocazione in una struttura residenziale. Il parente più prossimo di Amelia era suo cugino Bob, un sessantenne che viveva in zona. Non era mai stato particolarmente vicino ad Amelia, ma da diversi anni le faceva visita una volta ogni quindici giorni per aiutarla nelle compere. Al momento della segnalazione, Amelia aveva cominciato a fare strane telefonate a Bob, ansiose, spesso a ore inconsuete del giorno e della notte; di conseguenza, Bob si stava trovando ad assumere sempre più il ruolo del caregiver.

Primo contatto e assessment

La segnalazione riportava la diffi coltà di Amelia nel far entrare in casa gli operatori sanitari e sociali, così Imogen andò un paio di volte a incontrarla al day hospital, per cercare di instaurare un rapporto di fi ducia con lei. Dopo che si furono conosciute abbastanza, Imogen si accordò per una visita domiciliare. Durante il colloquio a casa, Imogen si prese tutto il tempo necessario e fece molta attenzione a non forzare Amelia in nessun modo. Rifl ettendo su questo caso, Imogen spiega come creò le condizioni perché Amelia raccontasse la sua storia, invece di partire subito a chiederle le informazioni che servivano a compilare il protocollo di assessment:

Sono arrivata a comprendere Amelia e il contesto sociale in cui collocarla ragionando con lei sulla storia della sua vita. Era entusiasta di parlare del suo passato, dei tempi in cui era nella RAF, di quando poi tornò a vivere con i genitori, di quando prendeva parte alla vita del suo quartiere. Mi fece capire il suo forte attaccamento alla casa in cui abitava e la diffi coltà che provava nei rapporti con le autorità, che percepiva come una minaccia alla sua sicurezza. Poiché la sua memoria recente cominciava a diminuire, Amelia trovava conforto nel pensare agli eventi lontani legati alla sua casa e alla sua vita con e senza i genitori.

Capire l’importanza della casa e di quello che rappresentava si rivelò di centrale importanza nel costruire e mantenere il rapporto con Amelia. Per gli

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74 LAVORO PER BENE

operatori non è sempre facile mantenersi così attenti e sensibili alla persona, nel contesto di servizi che premono per il rispetto delle procedure standard. I pro-tocolli di valutazione dei bisogni degli anziani di solito prevedono che la casa sia presa in considerazione in termini di proprietà, accesso e manutenzione. Certo, sono questioni importanti (Heywood, Oldman e Means, 2002), ma l’attenzione alla funzionalità dell’alloggio rischia di far passare in secondo piano gli aspetti psicologici, il signifi cato che la casa ha per le persone anziane.

Ritroviamo lo stesso vizio di impostazione nelle ricerche sui problemi allog-giativi, prevalentemente focalizzate su aspetti oggettivi come la salubrità (Sterling, 1997; Wilkinson, 1999), la mancanza di fi ssa dimora (Crane, 1999) o la proprietà dell’abitazione (Saunders, 1990). Le ricerche che considerano la dimensione psi-cologica dell’esperienza degli anziani rispetto all’abitazione generalmente tracciano un quadro positivo del suo signifi cato (ad esempio, Harrison e Means, 1990; Langan, Means e Rolf, 1996). Tuttavia, si tratta ancora di un tema poco indagato. Heywood, Oldman e Means (2002) concludono che, basandosi sugli approcci di ricerca tipici degli studi sull’invecchiamento, sarebbe necessario sviluppare una migliore comprensione del signifi cato della casa per gli anziani, analizzando più da vicino le storie individuali e le interpretazioni personali delle esperienze vissute. Questa prospettiva si rifl ette nel modo in cui Imogen ha intuitivamente cercato di comprendere la vita passata di Amelia e i suoi bisogni attuali.

Imogen, come assistente sociale, era coinvolta nel caso per via della valuta-zione multi-professionale prevista dalla normativa assistenziale. Dunque, questo capitolo avrebbe anche potuto focalizzarsi sulle competenze di Imogen nel lavoro con altri professionisti e servizi. La fl essibilità con cui ha svolto il processo di assessment, andando al di là di quanto strettamente stabilito dalle procedure, ha molto in comune con il lavoro in partnership descritto più avanti in questo libro (capitolo tredicesimo). L’aspetto particolare che voglio qui mettere in evidenza, tuttavia, è l’attenzione individualizzata grazie alla quale l’assistente sociale ha fatto in modo che le caratteristiche di personalità di Amelia e il senso del sé siano rimasti al centro dell’assessment.

Imogen ha evitato il gergo professionale e ha dato priorità al coinvolgimento empatico rispetto alle procedure e ai vincoli defi niti dal servizio. In tal modo, ha aiutato Amelia nel riuscire a comunicare ciò che per lei era più importante. Accet-tando l’importanza che Amelia attribuiva alla sua casa e al suo vicinato, Imogen è riuscita a negoziare gradualmente le possibili prestazioni che avrebbero consentito all’utente di restare a casa sua, come tanto desiderava: la frequenza a un centro diurno, assistenza domiciliare e il sostegno di un volontario di un’organizzazio-ne per anziani. Per molti versi, non si tratta certo di un progetto assistenziale inconsueto: far sì che le persone restino a casa propria il più a lungo possibile è

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AMELIA E LA SUA CASA 75

un obiettivo presente in tutte le politiche assistenziali. Ciò che colpisce è il livello di comprensione che Imogen ha sviluppato avvicinandosi a questo caso con l’attenzione a considerare la specifi cità di quella persona e della sua esperienza di vita. Il personale sanitario aveva già tentato di imporre delle soluzioni, ma solo questa volta Amelia mise da parte il suo atteggiamento sospettoso e accettò di farsi aiutare, perché le prestazioni erano state scelte partendo dalla condivisione della sua storia, all’interno di una relazione di fi ducia sviluppata con attenzione.

Il coinvolgimento con la traiettoria biografi ca della persona è spesso citato come un elemento cruciale nell’approccio critico-rifl essivo. Secondo Adams (2002), per esempio, un operatore critico-rifl essivo colloca le storie delle persone conside-randole nel contesto del passato e del presente insieme. Parton e O’Byrne partono da idee postmoderne per sviluppare un approccio che defi niscono «costruttivo». Essi sottolineano l’importanza del linguaggio nello sviluppare comprensione: si tratta di un processo collaborativo, solo apparentemente semplice. «Raccontare la propria storia e sentirla ascoltata con rispetto è un ingrediente assolutamente necessario per cominciare a cambiare le cose» (Parton e O’Byrne, 2000, p. 5).

Gli operatori di fronte alla demenza

C’è stato un profondo mutamento nell’approccio al tema della demenza negli ultimi vent’anni. Di conseguenza, mentre il modello medico domina ancora molte aree di trattamento, la demenza non è più descritta solo in termini di malfunzio-namento cerebrale. Se ne sono comprese le conseguenze sociali e psicologiche, con una maggiore attenzione alle esperienze personali di chi è affetto da demenza e al più ampio contesto sociale in cui tali esperienze si collocano.

Per gli operatori sociali e per tutti coloro che lavorano nel livello di inter-faccia tra l’ambito individuale e quello sociale, l’occuparsi di persone affette da demenza è stimolante a diversi livelli. L’esperienza della demenza è spesso carat-terizzata da incertezza, cambiamento, paura, sia per chi è affetto dalla malattia che per quanti gli sono vicini. Il lavoro sociale con queste persone costringe a confrontarsi con bisogni complessi, in contrasto fra loro; con relazioni in cui si passa dal potere all’impotenza; con alti gradi di rischio. Poiché si tratta di una malattia relativamente comune nell’età avanzata, ed è quindi probabile che possa colpire chiunque di noi, la demenza può anche evocare forti sentimenti di paura negli operatori (Cheston e Bender, 1999). Dunque, il lavoro con questo tipo di problemi chiede molto agli operatori.

L’attenzione all’identità e all’esperienza personale, che è centrale nel lavoro sociale postmoderno, è sempre più riconosciuta come fondamentale per una

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76 LAVORO PER BENE

1 National Health Service and Community Care Act, 1990.

buona assistenza a questi malati. Si è riconosciuto che un approccio puramente medico-sanitario rischia di creare disempowerment e di minare il senso di identità. Di conseguenza si fa sempre più attenzione alla demenza per come viene esperita a livello individuale e sociale (Sabat e Harré, 1992; Cheston e Bender, 1997; Kitwood, 1997; 1999; Proctor, 2001). Come sottolineato da Cheston e Bender (1999, pp. 80-81), queste persone «sono esseri sociali [...]. Tutti noi viviamo e ci prendiamo cura gli uni degli altri in un mondo sociale fatto di relazioni e di comunicazione. È attraverso queste relazioni che stabiliamo chi siamo, la nostra identità o, come dice Tom Kitwood, il senso di noi stessi».

L’autorevole lavoro di Kitwood spiega come la nozione di «senso di sé» sia molto importante per impostare un’assistenza ai dementi che sia rispettosa e orientata all’empowerment. Egli sottolinea che l’esperienza e il riconoscimento del «senso di sé» dipendono dalle reazioni sociali positive che strutturano l’identità individuale:

Avere un’identità signifi ca comprendere chi si è; implica mantenere il senso della continuità con il passato e una sorta di coerenza nella propria vita attuale. Identità signifi ca avere un «vissuto», una storia di se stessi e della propria vita da raccontare. (Kitwood, 1997a, p. 20)

Imogen, nel suo lavoro con Amelia, si è ispirata a questo approccio. Non ha considerato Amelia solo per la diagnosi medica, si è relazionata a lei come persona, si è interessata alla sua storia.

Non dare niente per scontato

Amelia era stata inizialmente segnalata per un’assistenza residenziale, perché non si riteneva possibile un progetto di assistenza domiciliare. In Gran Bretagna, una segnalazione che dà per scontati, fi n dall’inizio, gli esiti dell’assessment è chiaramente in contrasto con lo spirito e le linee guida della legislazione in ma-teria assistenziale.1 Imogen, all’inizio del suo lavoro con Amelia, ha giustamente messo in dubbio le ipotesi iniziali defi nite dal servizio segnalante. Il mondo degli operatori sociali, così come qualunque altro gruppo professionale, ha sviluppato una sua terminologia convenzionale e i modi per usarla. Questo gergo può essere inevitabile, ma c’è il pericolo che il linguaggio usato per scrivere segnalazioni e relazioni di servizio sottenda sottili giudizi, dia per scontato che determinate categorie di persone presentino certi bisogni o certe caratteristiche. Possono

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essere giudizi involontari, ma espressioni come «non collaborante», «non idoneo», «a rischio» rimandano a tutta una gamma di assunti.

È opportuno che, come operatori, cerchiamo di decostruire queste defi ni-zioni e proviamo a proporne altre, che «raccontino» l’esperienza individuale della persona in un modo più produttivo.

Ciò non signifi ca che le valutazioni sui rischi e le diffi coltà delle persone non siano importanti. Tuttavia, il coinvolgimento empatico e rifl essivo di Imogen le ha consentito di esprimere una valutazione migliore rispetto a quella che avrebbe elaborato altrimenti. Dice Imogen:

Spesso i familiari e gli altri, in generale, danno per scontato che il luogo migliore per le persone affette da demenza sia quello dove si suppone ci siano meno rischi e maggior supporto, specialmente se la persona in questione vive da sola. L’idea di «venire accudito» evoca un senso di calore e, per tante persone, è la soluzione migliore, ma Amelia non sopportava l’idea. Era una persona davvero molto indipendente. Ascoltando la sua storia, era facile comprendere che il suo benessere dipendeva dal mantenere la sua autonomia, molto più che dal rimuovere qualunque fattore di rischio dalla sua vita.

L’istanza radicale, nel social work, ha portato gli operatori a essere consapevoli dell’impatto dell’oppressione strutturale sulle vite dei propri utenti. Ciò ha spinto all’ela-borazione di un approccio esplicitamente antioppressivo (Mullaly, 1997). In questo libro, vorremmo evitare idee semplicistiche in merito alla pratica antioppressiva. Ci interessa analizzare quegli interventi che sanno prender atto della complessità delle relazioni di potere e dimostrano l’impatto positivo che la consapevolezza del potere può apportare (il secondo capitolo affronta più ampiamente questo discorso). Il modo in cui Imogen ha lavorato mi sembra antioppressivo nel senso più alto del termine. Non ha dato per scontati i bisogni degli anziani, ha rispettato l’individualità di Amelia e ha promosso il suo diritto a essere ascoltata e a fare delle scelte.

Il pensiero postmoderno ha contribuito al dibattito sulle caratteristiche della pratica antioppressiva sottolineando l’importanza della negoziazione tra opera-tori e utenti per raggiungere una percezione condivisa della specifi ca situazione da affrontare (Howe, 1994; Parton, 1994). Le storie personali che emergono da questo processo sono importanti, sia di per se stesse, sia per la parte che rivestono nel narrare una storia collettiva di disempowerment. L’attenzione di Imogen alla storia personale di Amelia le ha permesso di negoziare con lei le possibili soluzioni assistenziali, rispettando il suo desiderio di restare a casa sua il più a lungo possibile. Imogen ha messo in discussione l’assunto secondo il quale l’assistenza residenziale è l’unica e inevitabile soluzione per persone con demenza che vivono sole. In seguito, ha rifl ettuto su tutto questo in relazione ai temi dell’orientamento antioppressivo:

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Per uno specialista è facile pensare di sapere ciò che è meglio per le persone, ma ognuno è diverso. Amelia era se stessa, una persona unica, nonostante fosse molto confusa. In quest’area di lavoro, identifi care gli elementi di oppressione signifi ca rendersi conto di come le persone sono soggette a ogni genere di pregiudizi disumanizzanti, solo perché appartengono alla categoria dei «malati di demenza». Questo è importante senz’altro. Però, la vicenda di Amelia mi ha ricordato anche un’altra cosa. Il gruppo (la categoria dei malati di demenza) è fatto di tante storie individuali quante sono le persone malate e l’oppressione non si manifesta in astratto, ma dentro le esperienze personali.

Mettere in discussione ciò che viene dato per scontato, in una segnalazione trasmessa a voce o per iscritto, implica decostruire il modo in cui il linguaggio costruisce le idee: affermazioni apparentemente neutre possono nascondere posizioni soggettive. Lo staff del day hospital ha defi nito la casa di Amelia come un «rischio» e un «problema». Attraverso i suoi colloqui con Amelia, Imogen ha fatto sì che emergesse una realtà soggettiva diversa, nella quale la casa era fonte di sicurezza in un mondo sempre più minaccioso e pieno di rischi. Ponendo attenzione all’«identità narrativa» di Amelia (Fook, 2002, p. 78) Imogen è riu-scita a lavorare con lei per cercare soluzioni che riducessero gli effettivi rischi e i problemi che stava affrontando.

Tollerare l’incertezza

L’approccio sensibile e individualizzato seguito da Imogen nel suo lavoro con Amelia mette in discussione quell’orientamento tecnico-manageriale che, secondo molti autori, sta permeando sempre più il lavoro sociale (si vedano tra gli altri Howe, 1992; 1996; Parton e o’Byrne, 2000; Jones, 2001). Chi lavora e deve destreggiarsi tra vincoli di budget e protocolli di valutazione può essere tentato di considerare gli anziani affetti da demenza come problemi da gestire, piuttosto che come persone in specifi ci contesti, con possibilità di cambiamento. La valutazione del rischio, in relazione alle persone affette da demenza, è partico-larmente diffi cile e a volte spaventa. I molti strumenti di valutazione oggi disponibili possono dare agli operatori l’illusione di avere soluzioni certe e defi nite, ma si tratta appunto di un’illusione: le procedure burocratiche non possono sostituire la preparazione necessaria a fare i conti con la complessità insita nella vita delle persone. Robert Adams riassume così questa tesi:

Un operatore critico-rifl essivo riconosce la dimensione intrinsecamente pro-blematica di una situazione e ne coglie l’essenza. Non pretende di semplifi carla. Perciò, cerca di dare un senso ai confl itti che i dilemmi operativi portano con sé, invece di schivarli o di lavorarci attorno. Non è affatto facile: l’operatore

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deve stabilire in che direzione di massima è bene muoversi, invece di cedere alla tentazione di imporre una soluzione semplicistica, spesso inappropriata. (Adams, 2002, p. 93)

Nella visione tecnico-managerialista, l’assessment è considerato un evento «puntiforme» (una fase procedurale che va completata secondo protocollo) e il bisogno dell’utente è visto come qualcosa di fi sso nel tempo, una volta rilevato. La nostra assistente sociale non ha seguito questa prospettiva. Imogen aveva ben presente che i bisogni di Amelia potevano cambiare e ha instaurato una relazione con lei non solo per raccogliere i dati obiettivi necessari a compilare il protocollo di assessment, ma per costruire un processo di comunicazione creativa, i cui esiti sarebbero stati rinegoziati all’interno di un contesto complesso e in muta-mento. In quest’ottica, Imogen è stata capace di formulare un’acuta valutazione professionale, che ha facilitato la riduzione del rischio tollerando l’incertezza e l’inevitabilità del cambiamento futuro. Per l’analisi di un altro intervento creati-vo in un contesto di incertezza e cambiamento, il lettore può far riferimento al capitolo tredicesimo, dove si descrive il lavoro di Des, un’altra assistente sociale che lavora in un’équipe per anziani.

Bisogni degli anziani e bisogni dei caregiver

Gli interessi delle persone affette da demenza e quelli dei familiari che li assi-stono non sempre coincidono. Il progetto che ha dato la possibilità ad Amelia di restare nella sua casa ha portato a dei contrasti tra Imogen e il cugino di Amelia, Bob. In quanto parente più prossimo, Bob si prendeva cura di Amelia, ma per molti versi era restio a farlo e aveva sperato che l’assistente sociale proponesse l’inserimento di Amelia in una struttura residenziale.

Non c’è dubbio che tale soluzione avrebbe migliorato la qualità della vita di Bob. Non era mai stato particolarmente legato a sua cugina ed è comprensibile che preferisse stare vicino ai suoi fi gli e ai suoi nipoti. Cercando di negoziare la migliore soluzione possibile, Imogen si era perciò trovata di fronte a esigenze fra loro contrapposte:

Era impossibile conciliare del tutto le esigenze dell’una e dell’altro ed era molto importante non negare questo dato di fatto. Tuttavia, sono riuscita a ripartire rischi e responsabilità e, per molti versi, ciò ha aiutato Bob più di qualunque altra cosa. Abbiamo introdotto gradualmente, al ritmo di Amelia, un supporto pratico a casa. Credo che Bob fosse convinto che la situazione avrebbe potuto solo peggiorare. Poi cominciò a rendersi conto che, con il giusto sostegno, Amelia poteva ancora decidere qualcosa e, alla fi ne, le cose potevano andare meglio per tutti e due.

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Qui Imogen ha avuto l’abilità di evitare quella sorta di pensiero dicotomico per cui Bob sarebbe stato l’«oppressore», convinto che l’inserimento in una struttura residenziale fosse la soluzione giusta per Amelia e per se stesso. Imogen ha saputo capire Bob nel suo contesto di vita ed è riuscita a gestire l’ansia, la frustrazione e la vergogna che provava rispetto al declino di sua cugina.

Ciononostante, ci sono stati momenti nei quali il precario equilibrio tra le esigenze del caregiver e quelli dell’anziana è venuto meno. Man mano che au-mentava la sua confusione, Amelia era più disordinata, prestava meno attenzione all’igiene personale e questo causava a Bob ansia e stress. In quel periodo, Imogen si trovò a investire maggiori energie per seguire Bob, che non per occuparsi di Amelia. Per cercare di rassicurarlo, organizzò un incontro con l’operatore che seguiva Amelia al Centro diurno, in merito alla questione dell’igiene personale. Si decise che Amelia facesse il bagno al Centro, nonostante a suo tempo lei si fosse opposta all’idea. Ma fu un fallimento. Amelia fece resistenza, reagì con rabbia e angoscia. Inoltre, l’episodio ebbe ripercussioni negative su tutto il piano assistenziale che Imogen aveva con tanta attenzione negoziato con lei. La suc-cessiva rifl essione di Imogen su questa esperienza mostra come le buone prassi non consistano solo in un lavoro ben fatto, ma anche nella capacità di imparare dagli errori:

In qualche modo nel processo si è perso l’equilibrio. Bob era al centro della situazione e Amelia era diventata il problema da risolvere. Avevo perso per strada l’attenzione a costruire un’assistenza centrata sulla persona. La strategia che avevamo escogitato così attentamente era fallita in pieno, perché non avevamo coinvolto Amelia nel programmarla. È stata un’esperienza che ci ha insegnato molto, a tutti noi.

Imogen parlò apertamente con Bob di tutto questo. Fu un colloquio molto utile: Bob comprese che era importante coinvolgere Amelia nelle decisioni sul modo di assisterla; inoltre, tra lui e Imogen si instaurò un dialogo onesto, meno confl ittuale di prima.

Un luogo sicuro

Amelia continuava a rifi utarsi di fare il bagno al centro diurno, ma un po’ alla volta iniziò ad accettare brevi periodi di assistenza residenziale, nei momenti in cui era particolarmente confusa e spaventata. Amelia li considerava dei periodi di «ferie» in cui farsi aiutare e migliorare in salute. Appena iniziava a sentirsi me-glio, Amelia insisteva per tornare a casa. Queste permanenze in struttura erano assai più intrusive del bagno assistito, ma Amelia riusciva ad avere sotto controllo

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quel che accadeva (decideva lei quando andare e quando tornare) e gli attribuiva il signifi cato di una vacanza: quindi, era una buona strada da seguire.

Tuttavia, Amelia un po’ alla volta peggiorava. Aumentava la frequenza con la quale aveva bisogno di ricoveri. Iniziò a perdersi nel suo quartiere e aumentarono le allucinazioni angoscianti. Per Imogen era sempre più diffi cile trovare un equili-brio tra il diritto di Amelia di decidere per sé e i considerevoli rischi che correva. Nel frattempo, aumentavano anche lo stress e l’ansia di Bob nel far fronte alle necessità sempre maggiori di sua cugina: ciò rappresentava un ulteriore livello di complessità. Questa situazione incerta e in mutamento comportava il dover continuamente rivalutare come muoversi.

Diventava sempre più importante tenere ben presente le norme di legge, dato che la necessità un ricovero coatto si faceva via via più probabile. Imogen però la considerava come ultima possibilità. Comunque, il tenere presente sia il concetto di empowerment sia le funzioni di tutela attribuitele per legge consentiva all’assistente sociale di mantenere il focus centrato sulla persona, anche mentre prendeva in considerazione eventuali interventi forzati:

Ero molto riluttante all’idea di intraprendere azioni che avrebbero portato Amelia a dover lasciare la sua casa. Era l’unica cosa che aveva detto di non volere assolutamente. Ma la situazione era cambiata: la sua indipendenza e autonomia, in effetti, erano compromesse dal fatto che era sì a casa, ma sola e spaventata. Forse un trasferimento altrove, seppure forzato, le avrebbe offerto maggiore indipendenza che non il rimanere a casa sola.

Per valutare correttamente il grado di rischio, Imogen prese in considerazione anche i dati di ricerca. Quando Amelia raccontò di essere stata aggredita da due uomini in casa sua, Imogen consultò le ricerche sull’incidenza delle allucinazioni e dei vissuti paranoici nelle persone con demenza (Burns, Jacoby e Levy, 1990; Cheston e Bender, 1999). Le ricerche evidenziavano che le allucinazioni sono tratti comuni della demenza. Imogen si riferì a questi dati per disporre di maggiori informazioni, non per ricavarne indicazioni precise su cosa fare: ciò testimonia la sua competenza e la sua sicurezza professionale. Si riferiva a una base di co-noscenze, ma senza smettere di rifl ettere con la propria testa e continuando a prestare attenzione a quanto Amelia andava comunicando:

Ho considerato la possibilità che fosse stata davvero aggredita — dopo tutto poteva anche darsi. Però, l’ha detto in un periodo in cui aveva iniziato a raccontare della presenza di strani uomini in casa: e quelle erano evidentemente delle allucinazioni. Sempre nello stesso periodo, non voleva entrare in certe stanze, prima una, poi due, poi tre: era come se l’ambiente le si restringesse intorno. In sostanza si era ritirata in una sola piccola camera. Da tutto ciò che diceva, veniva fuori che la sua casa non era più un luogo in cui si sentiva sicura. A quel punto riuscii a parlarle della possibilità di trasferirsi.

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Imogen si era coinvolta empaticamente nel «mondo» di Amelia durante i loro numerosi colloqui precedenti e questo la aiutò a cogliere il cambiamento di percezione rispetto alla casa. Erano passati quasi due anni dalla segnalazione iniziale quando Imogen tornò sulla proposta di un’assistenza residenziale. A que-sto punto, la risposta di Amelia fu diversa. Accettò di andare con Bob a visitare diverse strutture, con l’idea di trasferirsi defi nitivamente.

Durante questa fase di passaggio, il suo comportamento fu ambivalente: non c’erano dubbi che la sua capacità prendere una decisione consapevole fosse molto compromessa, ma tuttavia, mentre aspettava che si liberasse un posto nella struttura che aveva scelto, telefonava di frequente a Bob per chiedergli quando sarebbe andato a prenderla per portarla nella sua «altra casa». Per Imogen questa era un’ulteriore conferma del fatto che il luogo dove Amelia aveva sempre vissuto non aveva più lo stesso signifi cato: ora stava cercando sicurezza altrove.

Fu comunque diffi cile per Amelia lasciare la sua casa. Da un certo punto di vista, non era proprio questo che voleva. Alla fi ne, però, ciò che aveva espresso più chiaramente era il bisogno di stare in un luogo dove potersi sentire sicura. Ora sta bene. A volte la vado a trovare: non capisce chi sono, ma sa che mi conosce. Pensa che io sia una sua compagna della RAF, ma va bene lo stesso — conosco la sua guerra e gliene posso parlare.

Conclusioni

È importante riconoscere che il lavoro sociale con persone affette da demenza non sempre porta a risultati soddisfacenti come nella storia che avete appena letto. La situazione di Amelia avrebbe potuto facilmente evolvere in altro modo. In circostanze leggermente diverse, o con il passare del tempo, Imogen si sarebbe potuta trovare a dover disporre per un ricovero coatto: un intervento per cui tutti avrebbero sofferto, ma che poteva essere considerato il migliore possibile, data la situazione. In altri casi, un passo del genere potrebbe risultare inevitabile anche in uno stadio ancora precedente. Non è mai possibile prevedere esattamente come andrà: non ci possono essere indicazioni dettagliate su cosa fare e gli interventi sono molto meno simili l’uno all’altro di quello che si potrebbe pensare.

Il lavoro di Imogen è risultato particolarmente positivo perché pensato e contestualizzato nella vita di Amelia, basato su ciò che lei provava. Imogen ha preso le sue decisioni riferendosi alle conoscenze teoriche del lavoro sociale, alle norme di legge e alle ricerche, ma l’aspetto centrale di questa buona prassi è dato dal fatto che Imogen ha saputo calarsi empaticamente nella narrazione che Amelia faceva di sé: ciò l’ha portata a rispondere con un atteggiamento umano, di accudimento. Altro elemento importante è stata la capacità di rifl ettere sul

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proprio lavoro: Imogen ha saputo utilizzare ciò che sapeva dalle sue precedenti esperienze professionali, sviluppando contemporaneamente una nuova «conoscen-za concreta». Jan Fook riassume questa importante abilità tipica degli operatori considerandoli come dei professionisti in grado di:

collocarsi nel contesto della situazione e collegare questa comprensione «dall’interno» al proprio agire professionale. Questo continuo processo rifl es-sivo permette agli operatori di sviluppare la propria «teoria» direttamente dalla propria esperienza. Consente loro di lavorare in maniera «situata», cioè legata a quello specifi co contesto situazionale. (Fook, 2002, p. 40)

Per lavorare in questo modo, gli operatori sociali devono sapersi mettere in relazione con tutti coloro che sono coinvolti nella situazione, mantenendo un atteggiamento di apertura mentale nei confronti dei loro diversi punti di vista. Imogen ha tenuto a mente che un buon progetto è «co-costruito con tutti gli attori coinvolti» (Ferguson, 2003). Non ha utilizzato la sua competenza professionale per far prevalere il suo parere, per far diventare la sua «narrazione» quella dominante. Ha collaborato con Bob e Amelia tenendo in considerazione come ciascuno di essi si rappresentava, in maniera distinta e mutevole, la propria esperienza, per capire cosa fosse meglio fare. Sotto questo profi lo, l’agire professionale di Imo-gen è stato esplicitamente di stampo critico-rifl essivo. Non solo non ha dato per scontata l’idea comune della dipendenza degli anziani, ma ha ascoltato la voce di Amelia e l’ha posta al centro delle sue valutazioni professionali.

Lasciarsi coinvolgere dalle storie delle persone è qualcosa di esattamente opposto a certi approcci tecnico-manageriali, che non condividiamo. Il lavoro di Imogen con Amelia ha implicato alcune precise valutazioni professionali e una continua valutazione del rischio. Gli interventi di Imogen non si sono basati sulle procedure standard, che a volte caratterizzano le valutazione delle situazioni ad alto rischio, ma su un coinvolgimento empatico e rifl essivo. D’altra parte, Imogen ha resistito alla tentazione di considerare gli utenti come «altro da sé», cosa che può capitare quando non siamo autenticamente connessi con le diffi coltà che affrontano le persone con cui lavoriamo. Questo aspetto è ancor più importante e diffi cile con le persone affette da demenza, una categorie di persone tra le più marginalizzate e prive di potere nella società. Tom Kitwood (1997) ha scritto che la capacità di usare «la nostra immaginazione in senso poetico» è fondamentale per entrare in contatto con l’esperienza dei malati di demenza.

L’azione professionale «situata» che proponiamo in questo libro, un’azione che sappia rispondere creativamente alle singole storie personali, è una sfi da professionale impegnativa. Si tratta di un lavoro sociale che si relaziona alla complessità e al cambiamento in modo creativo. Richiede al professionista la fi ducia necessaria per accettare l’incertezza e le contraddizioni senza bloccarsi,

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ma procedendo con sensibilità umana, sulla base di una analisi critica, rifl essiva, ancorata alle specifi cità della singola situazione.

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