Economia e Politica Sociale
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Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 1
La povertà nei paesi avanzati
1. Introduzione
Sul finire degli anni cinquanta, in molti paesi industrializzati, è convinzione ferma che la povertà
sia ormai un problema marginale in via di risoluzione. In fondo l’applicazione di strategie di politica
economica di matrice keynesiana, volte al perseguimento di situazioni di piena occupazione, insieme a
diffuse politiche di welfare in campo previdenziale, sanitario, abitativo, assistenziale, ecc., non potevano
che portare a risoluzione gli stati di povertà presenti nell’immediato secondo dopoguerra. Il far crescere
la “torta” (l’insieme di beni e servizi a disposizione di una collettività) sembrava una condizione
necessaria e sufficiente perché tutti, indistintamente, ne avessero una quota adeguata ai propri bisogni.
Questo stato di grande ottimismo e fiducia nello sviluppo ha delle prime crepe intorno ai primi
anni sessanta quando i lavori di Townsend1 per la Gran Bretagna e di Harrington2 per gli Stati Uniti,
riaprono l’antica questione. Memorabile rimane l’Economic Opportunity Act del gennaio 1964 con cui
l’allora Presidente americano Johnson dichiara “guerra” alla povertà per eliminare “il paradosso della
povertà….., offrendo a tutti la possibilità di lavorare e la possibilità di vivere secondo decenza e
dignità”?3.
Per quanto riguarda i paesi europei, ad eccezione della Gran Bretagna, occorre attendere quasi un
decennio perché anche l’Europa inizi ad interrogarsi, in modo ufficiale, sull’esistenza e dimensione del
fenomeno, mettendo anch’essa in dubbio le antiche certezze che le avevano fatto ritenere la povertà
una questione marginale e in via di superamento. Accade così che, intorno alla metà degli anni ‘70, il
Consiglio dei Ministri della Comunità Economica decida di intraprendere e finanziare sette studi di
gruppo transnazionali nell’obiettivo di contribuire “alla comprensione della natura, delle cause,
dell’estensione e della dinamica della povertà nella Comunità”4. Al termine di una prima fase dei lavori,
nei cinque paesi considerati - Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi - si rileva come, in
media, un 15% degli individui viva in uno stato di povertà, circa trenta milioni di europei.
Nel 1984, sulla scia di quanto accade in altri paesi europei, l’allora Presidente del Consiglio dei
Ministri del nostro paese ( B. Craxi ), istituisce la prima Commissione governativa di studio sulla povertà
« per effettuare le indagini e le rilevazioni occorrenti per la migliore comprensione del fenomeno
povertà in Italia, avendo riguardo alle differenze nelle fonti di reddito, nella disponibilità di beni
essenziali, nella capacità d’acquisto, nella fruizione dei servizi nonché agli effetti su tali circostanze delle
politiche fiscali e sociali e alle ragioni che determinano l’ingresso e la permanenza nella fase di povertà
relativa » (dal decreto di nomina della Commissione). Al termine dei suoi lavori la Commissione,
1 Townsend P. 1979, Poverty in the United Kingdom, Penguin Books, England
2 Harrington M. 1963., L’altra America, Il Saggiatore, Milano 3 Si stimano, nell’America degli anni sessanta, dai 40 ai 50 milioni di individui poveri; cfr i rapporti annuali dell’ U.S. Department of Commerce, Bureau of the Census, Money Income and Poverty Status of Families and Persons in the U.S., Current Population Reports 4 Cfr., ad esempio, Fracassi A., Marques M.F., Walter J. 1985 , La pauvreté, une approche plurielle, ESF, Paris.
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presieduta da E. Gorrieri, stima in oltre due milioni le famiglie in stato di povertà, pari ad oltre sei milioni
di individui, pari ad un undici per cento della popolazione5.
Dalla fine degli anni ottanta ad oggi la sensibilità politica ed istituzionale alle tematiche del
disagio economico e sociale è enormemente aumentata e, come conseguenza, le ricerche e le analisi
sulla povertà hanno avuto uno sviluppo straordinario. Sul finire degli anni novanta, ad esempio, si
rendono disponibili i primi dati dell’European Community Household Panel (ECHP)6, per cui, rispetto
al passato, la conoscenza del fenomeno diviene più puntuale, le metodologie di rilevazione si
armonizzano, i rapporti sulla povertà sono sempre più spesso inseriti in documenti ufficiali e, più in
generale, le politiche contro l’esclusione sociale vengono a rappresentare sempre più un aspetto
importante della politica sociale, con propri strumenti ed obiettivi. La lotta alla povertà diviene, così,
responsabilità sociale della Comunità Europea e le statistiche armonizzate cercano di mobilitare la
politica per avere risorse da destinare alle politiche.
Con l’ormai ben nota “Strategia di Lisbona” del marzo 2000 in cui si fissavano gli obiettivi
strategici al fine di sostenere l’occupazione, le riforme economiche e la coesione sociale nel contesto di
un’economia basata sulla conoscenza, la lotta alla povertà e all’esclusione sociale diviene, per la prima
volta, obiettivo comune della Comunità e dei singoli stati membri7 . Si apre, quindi, una nuova fase di
“coordinamento” (metodo di coordinamento aperto – Open Method of Coordination - OMC)8 in cui si fissano
obiettivi comuni; si stabiliscono comuni indicatori per misurare e confrontare i progressi di ogni paese; ci
si impegna a scambiare le “buone pratiche” 9 . Nel dicembre 2001 il Consiglio Europeo di Laeken fa
propria una lista, stilata da un gruppo di esperti, di 18 indicatori sociali 10, noti come indicatori di Laeken, per
monitorare i progressi compiuti da ciascun Paese. Ma, per monitorare i 18 indicatori sociali , occorrono
nuove basi informative armonizzate; così, nel 2003, l’Eurostat istituisce un nuovo progetto annuale “
5 Presidenza del Consiglio dei Ministri 1987, La povertà in Italia, Rapporto conclusivo della Commissione di studio istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Istituto Poligrafico, Roma. Attualmente la Commissione ( Commissione di Indagine sull’Esclusione Sociale – CIES ) è presieduta da Giancarlo Rovati ( 2002-2008). 6L’European Community Household Panel (ECHP) è un’indagine campionaria (60.000 famiglie) condotta, con cadenza annuale, dal 1994 al 2000, nei 14 Paesi dell’Unione europea. La specificità di tale indagine risiede, oltre nel fatto di seguire standard comuni in termini di raccolta e predisposizione dei dati, nell’essere un’indagine panel ( ogni anno vengono intervistate le stesse famiglie) 7 L’obiettivo diviene lo “sdradicamento della povertà” entro il 2010. In realtà la dizione appare alquanto ambigua poichè si
può parlare, per le considerazioni che si andranno a svolgere, di sdradicamento della povertà estrema, come previsto, ad esempio, dalla Millennium Declaration delle Nazioni Unite del 2000 ma non della povertà relativa a cui, usualmente, si fa riferimento nei paesi avanzati e, in particolare, in quelli della Comunità europea perché la povertà relativa, per definizione, non può essere sradicata. 8 Il metodo del “coordinamento aperto” comporta la stesura di linee-guida condivise a livello europeo, la definizione di
scadenze temporali per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, la comparazione delle best practices,la traduzione delle linee guida in politiche pubbliche nazionali o locali, valutazioni, monitoraggio, ecc. 9 Nel marzo 2005, la Strategia di Lisbona è stata rivista ( Lisbona 2) rifocalizzando l’attenzione soprattutto su occupazione e crescita economica ma ha lasciato in piedi il coordinamento nelle politiche sociali . 10
Gli indicatori comunitari fanno riferimento, ad esempio, alla quota di popolazione a rischio di povertà ( linea della povertà pari al 60% del reddito mediano); alla quota di popolazione persistentemente a rischio di povertà ( poveri per almeno tre anni consecutivi); al tasso di disoccupazione di lunga durata; alle famiglie senza lavoro; agli adulti con basso livello d’istruzione; al valore dell’indice del Gini e così via.
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Eu-Silc “( European Statistics on Income and Living Conditions )11 con l’obiettivo di produrre nuove
statistiche sui redditi, sulla povertà e sull’esclusione sociale. Il progetto Eu-Silc viene lanciato nel 2003
in sei paesi membri ( Belgio, Danimarca, Grecia, Irlanda, Luxemburgo ed Austria) ed esteso a tutti gli
altri nel 2005 ma solo nel 2007 si potrà considerare chiusa la transizione tra l’European Community
Household Panel (ECHP) e la Eu-Silc, per cui, come si vedrà in seguito, sino a tale data le diverse
statistiche prodotte sono difficilmente confrontabili tra loro ma rappresentano un significativo
impegno, in termini di conoscenza, da parte della Comunità e dei singoli stati membri.
Nell’analisi di questo complesso e delicato spaccato, che coinvolge milioni di individui e
famiglie, entrano diverse questioni che rivestono una particolare importanza : quando un
individuo/famiglia può essere considerato povero? Quale metodologia di rilevazione adottare? Quali
fonti statistiche? Quali politiche? Perché la povertà persiste nei pur ricchi paesi europei? Perché lo
Stato Sociale, il welfare state, non ha eliminato la povertà?
2. Misurazione e qualificazione degli stati di povertà.
Nell’ambito della letteratura sulla povertà ci si è spesso occupati del modo in cui potesse essere
possibile identificare i poveri, in una data collettività, per quantificare e qualificare il fenomeno12. Secondo
alcuni sono poveri coloro che non possono soddisfare i bisogni ritenuti essenziali quali l’abitazione,
l’alimentazione, l’abbigliamento, ecc, ( povertà assoluta ); secondo altri sono poveri non solo coloro che
non hanno la capacità di acquistare un pacchetto minimo di beni e servizi ma anche coloro che non hanno
accesso ad una serie di beni e servizi di seconda istanza come, ad esempio, l’avere un’abitazione adeguata
rispetto alla dimensione del nucleo familiare in termini di spazi e di servizi, un normale set di beni
durevoli, poter fruire di un normale periodo di vacanza, accedere ad un relativo alto livello d’istruzione,
a strutture di servizi gestite dai privati e non solo pubblici, e così via ( povertà relativa ). Secondo altri
studiosi, poveri sono coloro che si sentono tali, coloro che intervistati, attraverso delle indagini a
campione, si dichiarano tali rapportandosi alle collettività di riferimento ( povertà soggettiva ); in aree in cui
la povertà è molto diffusa è probabile che pochi si sentano poveri mentre in aree di diffuso benessere
molti potrebbero considerarsi poveri confrontandosi con gruppi a più alto livello di reddito.
La questione tra un approccio minimale ed uno relativistico, è relativamente antica nel senso che era già
stata posta molto chiaramente da A. Smith, più di duecento anni orsono: “Per cose necessarie, io
intendo non solo quelle indispensabili per mantenersi in vita, ma anche tutto ciò di cui, secondo gli usi
del paese, è considerato indegno che la gente rispettabile, anche dell’ordine più basso, sia priva. Per
esempio, una camicia di tela, a rigor di termini, non è una necessità vitale. Io ritengo che i Greci e i Romani
11
L’indagine Eu-Silc va a sostituire l’European Community Household Panel (ECHP), indagine campionaria che, dal 1994 e sino al 2000, ha fornito dati sulla distribuzione del reddito e sulla povertà nei 14 Paesi dell’Unione europea. 12 Cfr. ad esempio, Weisbrod B.A. (a cura di) 1965, The Economics of Poverty, Englewood Cliffs, Prentice-Hall; Townsend P. 1954., Measuring Poverty in British Journal or Sociology,; Atkinson A.B. 1970., Poverty in Britain and the Reform of Social Security, Cambridge University Press, Cambridge.
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vivessero in modo molto confortevole anche se non avevano biancheria. Ma attualmente, nella maggior
parte dell’Europa, un lavorante giornaliero che si rispetti si vergognerebbe di apparire in pubblico senza
camicia di tela, dato che la sua mancanza verrebbe ritenuta il segno di un grado di povertà tanto
ignominioso, da presumere che nessuno ci possa cadere se non per una pessima condotta. In modo
analogo, in Inghilterra, l’uso ha fatto diventare le calzature di cuoio una necessità della vita; la più povera persona
rispettabile dell’uno o dell’altro sesso si vergognerebbe di apparire in pubblico senza... In Francia, le
calzature di cuoio non sono una necessità né per gli uomini né per le donne, dato che l’ordine più basso della
popolazione appare in pubblico, senza alcun discretito, talvolta con li zoccoli e talvolta scalzo...” 13
Sulla stessa linea e molti anni più tardi, si ritrova Harrington, per il quale, il povero americano “non è
povero a Hong Kong o nel secolo XVI; lo è qui e adesso, negli Stati Uniti. Egli è privo di ciò che il
resto della nazione possiede: è diseredato agli effetti di ciò che la nostra società, se volesse, potrebbe
dargli. Vive ai margini. Vede i films e legge le riviste dell’ America opulenta, e questi gli dicono che è
uno straniero in patria” 14. O, anche, Okun che sostiene : “l’incapacità a possedere una propria casa o
un’automobile o ad andare in vacanza rappresenta la più grande privazione per le persone che vedono
molti dei loro concittadini gioirne” 15. O, infine, come sostiene il Social Science Research Council :
“people are “poor” because they are deprived of the opportunities, comforts, and self-respect regarded
as normal in the community to which they belong. It is, therefore, the continually moving average
standards of that community that are the starting points for an assessment of its poverty, and the poor
are those w ho fall sufficiently far below these average standards” 16.
Se gli approcci alla povertà possono, quindi, essere almeno tre ( assoluto, relativo e soggettivo )17, problemi
comuni sono l’identificazione di una linea della povertà, per separare, contare, identificare i poveri dai
non poveri, e la necessità di modulare la linea stessa in funzione di alcuni parametri quali la dimensione
della famiglia ( scala di equivalenza ), l’età dei diversi componenti, il risiedere in centri urbani o rurali, in
piccole o grandi città, in aree più o meno sviluppate del paese (nord – centro - sud), e così via, perché le
risorse ritenute necessarie varieranno al variare dei caratteri socio-demografici dei gruppi, della loro
collocazione territoriale, della struttura dei prezzi, e così via.
13 Smith A . 1973., Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, ISEDI, Milano, p.682. 14
Harrington M., op. cit., p.275. 15
Okun A.M., op. cit., p.69. 16
In Atkinson A.B., The Economic of Inequality, Oxford University Press, Lon- don 1976, p.189. 17
Più recentemente si sta sviluppando un ulteriore approccio, dovuto ad A. Sen, definito “approccio delle capacità” secondo il quale la povertà deve essere valutata in termini di capacità e funzionamenti . I funzionamenti rappresentano le diverse condizioni di vita che l’individuo riesce o meno a realizzare (dalla libertà dalla sottonutrizione e dalle malattie evitabili al raggiungimento del rispetto di sè e dell’appagamento creativo, ad esempio); la capacità rappresenta, invece, l’abilità dell’individuo a realizzare i diversi funzionamenti (la capacità di soddisfare la richiesta di nutrizione e di vestiario, la possibilità di partecipare alla vita sociale della comunità, il sottrarsi a malattie curabili, il seguire percorsi istruttivi, ecc). In base a tale approccio può essere considerato povero colui a cui mancano le capacità fondamentali, ma, come sostiene lo stesso Sen, una difficoltà particolarmente seria è nella rappresentazione dei gruppi di capacità fondamentali mediante un indice. Cfr., A. Sen 1986, Scelta, benessere, equità. Ed. Il Mulino, Bologna
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2.1 L’approccio dell’assoluto
I primi tentativi di studiosi di scienze sociali di definire e valutare l’estensione della povertà
hanno, in generale, un carattere puramente descrittivo. I poveri sono “visibilmente” poveri
nell’abbigliamento, nell’abitazione, nell’alimentazione, nel loro rapporto di lavoro. E’ solo sul finire del
XIX secolo che si ricercano delle metodologie oggettive per definire uno stato di povertà e, quindi, per
stimare la sua estensione.
Tra le prime analisi che si muovono in questa direzione, il lavoro di Rowntree del 188918 assume
un particolare rilievo perché rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per coloro che scelgono
di fissare una linea della povertà riferendosi a bisogni più o meno essenziali. C’era in Rowntree il
desiderio di superare la soggettività di stime fondate su definizioni del tipo “è povero qualsiasi
individuo che, per una qualsiasi ragione, è incapace ad assicurare a sé e alla propria famiglia, uno
standard decente di vita” (definizione che diverrà poi dominante nel corso degli anni settanta nella
maggior parte dei paesi europei e che farà riferimento ad un concetto di povertà relativa ), con una
definizione in base alla quale è povero colui che dispone di un reddito inferiore a “X” euro o dollari, ad
esempio, partendo dal costo di un paniere di beni e servizi.
C’è, in altri termini, il tentativo di superare 1’indeterminatezza del modo d’intendere la povertà
(mancanza di uno standard decente di vita) con una metodologia capace di dare un valore, un
‘espressione monetaria’, ad un astratto livello di reddito da considerare come minimo. E la metodologia
si fonda, sostanzialmente, sulla possibilità di stimare un reddito minimo partendo dall’analisi dei bisogni
ritenuti essenziali. E poiché al tempo di Rowntree la spesa delle famiglie operaie era costituita, nella sua
gran parte, dalla spesa per beni alimentari ( dal 60 al 70 per cento della spesa complessiva) 19, Rowntree,
utilizzando i fabbisogni ritenuti allora minimi in termini di calorie e proteine, trasforma questi
fabbisogni in quantità dei diversi prodotti alimentari per l’allora famiglia-tipo operaia ( marito, moglie e
tre figli ). Traduce, quindi, le quantità in valore, attraverso i prezzi, stimando così la spesa minima in
campo alimentare ma adeguata da un punto di vista nutritivo. Aggiunge, quindi, una personale stima
per le altre componenti della spesa, rappresentando queste, in un relativamente semplice modello di
consumo, una quota marginale.
Questa metodologia è stata per lunghi anni un punto di riferimento obbligato per la definizione
di redditi minimi. E’ sulla base dei lavori di Rowntree, ad esempio, che nel 1942 Beveridge, il padre
18
Rowntree B.S., Poverty: A study of Town Life, Macmillan, London 1901. 19Il dato non è molto diverso da quello che verrà rilevato dalla prima indagine sulla povertà in Italia condotta dalla “ Commissione d’inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla” nel 1952 e pari al 62%. . Per avere un’idea della diversità nella struttura della spesa di oggi rispetto ai tempi di Rowntree e all’Italia dell’immediato dopoguerra, ricordiamo come, con riferimento, ad esempio, al nostro Paese ed all’anno 2004, la spesa alimentare incida, in media, per un 19% per cento sulla spesa complessiva; un 20,4% per le famiglie operaie, un 21% per i pensionati, un 26% per le famiglie della Campania, un 16% per quelle dell’Emilia e Romagna, ecc. Cfr. Istat, I consumi delle famiglie nell’anno 2004, Statistiche in Breve, agosto 2005.
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teorico dello stato sociale, fissa un minimo di risorse da garantire agli anziani, agli invalidi, ai
disoccupati, alle vedove, e, in generale, a tutti coloro che per motivi diversi potevano ritrovarsi in uno
stato di bisogno20.
Rispetto a questa metodologia, gli USA, dove esiste una grande tradizione di studi e ricerche
sulla povertà, ne utilizzano un ‘altra che, pur essendo simile, cerca di ridurre al minimo gli elementi di
arbitrio presenti in un ‘individuazione, che può essere più o meno puntuale ma pur sempre arbitraria,
delle diverse componenti di un bilancio familiare. In particolare il Dipartimento dell’Agricoltura
elabora, con degli esperti della nutrizione, dei bilanci alimentari minimi, in termini di costi, ma adeguati
in termini di apporto calorico e proteico, per una serie di possibili situazioni: famiglie con figli minori,
con figli adulti, con anziani, con collocazione urbana, rurale, ecc. E poiché la spesa alimentare
rappresenta una determinata quota della spesa totale è possibile, una volta stimata la spesa alimentare,
risalire ad un reddito minimo senza passare attraverso l’individuazione puntuale dell’insieme delle altre
componenti di un bilancio familiare21.
Se, ad esempio, si conosce, attraverso le indagini che sistematicamente gli istituti centrali di
statistica conducono nei confronti delle spese per consumi delle famiglie, che in media la spesa
alimentare di una famiglia di due persone a reddito basso rappresenta il 30% della spesa totale, è
possibile, partendo da una spesa alimentare stimata come adeguata, risalire ad un livello di reddito
minimo. Così se la spesa alimentare minima ed adeguata per una famiglia di due componenti fosse pari
a 300 euro mensili, il reddito minimo, per una famiglia di due componenti, potrebbe essere pari a
1.000 euro mensili ( 300 : 30 = X : 100 ), valore del tutto plausibile ed esattamente uguale, ad esempio,
alla linea della povertà (relativa) stimata dall’Istat per l’anno 2008 per una famiglie di due componenti e
pari a 999 euro mensili22.
Nel corso degli anni, intorno a tale metodologia, si è svolto un intenso dibattito ancora in corso;
ci si interroga soprattutto sulla presunta “neutralità” e “scientificità” della metodologia utilizzata per
individuare la linea della povertà e, quindi, per misurare la dimensione e la natura del fenomeno.
La scientificità e la neutralità di una linea della povertà, si sostiene, che parte dalla definizione di
un minimo alimentare adeguato sul piano nutritivo, per risalire poi alla spesa complessiva attraverso i
rapporti che, in media, si rilevano tra spesa alimentare e spesa totale, è solo apparente. Questo perché se
gli esperti interpellati si affidassero solo ai principi nutritivi, una dieta ottimale e a basso costo potrebbe,
ad esempio, essere rappresentata anche da “un pugno di fave” o dalla combinazione di “semi di soia,
20
Beveridge W ., Social Insurance and allied service, H.M.S.O, London 1974. 21
Con riferimento all’anno 2010, ad esempio, una famiglia di tre componenti è ritenuta povera se ha un reddito inferiore o pari a 17.374 dollari ( 17.552 dollari se è presente un bambino di età inferiore a 18 anni; a 17.568 se sono presenti due bambini di età inferiore a 18 anni) Cfr., U.S. Census Bureau, Income, poverty, and Health Insurance Coverage in the U.S, 2011. 22 Istat 2009, La povertà in Italia nel 2008, Statistiche in breve, 30 luglio 2009
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lardo, succo d’arancia e fegato di manzo”23, tutti cibi commestibili, poco costosi e altamente nutrienti.
Ma ben poche persone sarebbero disposte a sopravvivere a queste condizioni; l’alimentazione non è più
ormai un fatto fisiologico come il vivere non è il sopravvivere. Questo significa, ad esempio, che per
dare un senso al minimo alimentare adeguato occorre inserire, nei diversi programmi di stima della
spesa minima, una serie di vincoli, in termini di quantità minime e massime, ai singoli beni per rendere
le diete ipotizzate accettabili.
Ma, a loro volta, i vincoli non possono che far riferimento ai consumi medi rilevati in un dato
momento e in un determinato paese; ed allora se così è, i singoli esperti hanno ampi margini di
manovra, privando la metodologia stessa dei suoi presunti pregi in termini di neutralità e scientificità.
Come si vedrà in seguito, la stessa Istat ha dovuto confrontarsi con tali problematiche nel
momento in cui ha deciso di quantificare la povertà partendo da una linea basata su di un determinato
paniere minimo di beni e servizi.
2.2 L’approccio della relatività
Le ambiguità e gli arbitri presenti comunque nell’approccio dell’assoluto, spingono una serie di
economisti verso un’esplicitazione dell’arbitrio stesso riproponendo l’approccio della relatività ed una
indeterminatezza nella linea della povertà. Seguendo l’approccio della relatività, povero non è colui che
non ha la capacità di acquistare un pacchetto minimo di beni e servizi ma colui che ha meno di quanto
in media ha una determinata collettività, in un determinato momento. Ma, se il criterio della relatività
sembra essere lo strumento più idoneo a rappresentare il fenomeno, soprattutto nei paesi avanzati, è
anche vero che riporta il concetto stesso all’indeterminatezza e ad una persistenza del fenomeno al di là
delle politiche predisposte generando, così, un diffuso senso di sfiducia nei confronti delle politiche
redistributive. Vediamo perché. Intanto, quando un gruppo di individui e/o famiglie può essere
considerato relativamente povero? Le metodologie usualmente utilizzate sono diverse; un approccio
molto diffuso consiste nel fissare una linea della povertà pari, ad es., ad una certa percentuale del reddito
medio (o mediano)24 di un determinato paese. Nell’ambito di tale approccio, molto utilizzata è
l”international poverty line” elaborata da Beckerrnan nel 197925. Questa linea implica che una coppia di due
individui con un reddito, o anche con un livello di spesa, inferiore al livello di reddito medio pro-capite
presente in un dato momento e in un dato paese, viene considerata come povera. Fanno sempre parte
di questo approccio le ipotesi di utilizzare come linea della povertà il salario medio o minimo, la pensione
minima, o quote percentuali delle rispettive grandezze. In tutti questi casi, naturalmente, la linea della
povertà si muove nel tempo, seguendo i movimenti delle grandezze di riferimento, a differenza delle
23
Cfr., Thurrow L.C. 1981, Alle origini dell'ineguaglianza, Vita e Pensiero, Milano, p.56. 24 La scelta tra i due indicatori appartiene ai singoli ricercatori o istituzioni; a fovare del reddito mediano gioca l’osservazione di essere meno sensibile alle rilevazioni estreme (quelle più basse e quelle più alte) e meno soggetto a fluttuazioni campionarie. 25
Cfr., Beckerman W 1979, Poverty and the Impact of Income Maintenance Programmes, ILO.
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linee di povertà assoluta che si adeguano, annualmente, solo in base alla variazione dei prezzi dei beni e
dei servizi facenti parte del paniere di riferimento ( la revisione del paniere è, usualmente, decennale).
In generale, linee della povertà relativamente basse ( come potrebbe essere la pensione minima
rispetto al reddito pro – capite ) portano ad individuare come poveri prevalentemente gli anziani, soli
e/o in coppia, e le famiglie monoparentali (è presente solo il padre o la madre), poiché i loro redditi
sono, mediamente, inferiori al reddito medio, provenendo da trasferimenti più che da una collocazione
sul mercato del lavoro. L’innalzamento della linea taglia invece la popolazione in punti più alti
individuando così come povere le famiglie di pensionati ma anche quelle monoreddito con capofamiglia
a basso salario, a lavoro saltuario o marginale, in cassa integrazione; le famiglie numerose con più
membri del nucleo al di fuori del mercato del lavoro, ecc.
Un altro approccio è quello che considera come povere le famiglie che si collocano nei primi
raggruppamenti della distribuzione personale del reddito. Si possono, ad esempio, definire come
famiglie relativamente povere quelle che, nell’ambito di una distribuzione decilica, si collocano, per il
loro livello relativamente basso di reddito, nei primi decili della distribuzione. Il limite maggiore di
questa forma metodologica è che in questo caso non si stima l’estensione del fenomeno povertà poiché
si fissa a “priori” la quota di famiglie e di individui da considerare come poveri (primo dieci per cento,
primo venti per cento, ecc. ), nel completo arbitrio del ricercatore e/o dell’istituzione che procede alla
stima. Naturalmente può avere una sua validità se la quota scelta fosse mantenuta stabile nel tempo e si
ricercassero i mutamenti nella composizione sociale dei gruppi, a fronte di politiche socio- economiche
predisposte ad hoc.
2.3 L’approccio della soggettività
Diverso dagli altri, e relativamente più recente, è l’approccio della soggettività, l’approccio, cioè,
che considera come poveri gli individui e le famiglie “‘che si dichiarano tali rapportandosi alla
collettività di riferimento”. Tale metodologia è stata portata avanti, in modo indipendente, da alcuni
studiosi olandesi dell’Università di Leyden (Kapteyn, van Praag ed altri)26 e da alcuni studiosi belgi del
Centro di Politica Sociale dell’Università di Antwerp (Deleeck)27. L’idea di base è la medesima mentre
diverso è l’approccio per individuare una linea della povertà soggettiva; essendo l’approccio diverso,
diverse risultano le stime e le qualificazioni del fenomeno. Il grande vantaggio di questa metodologia è
che il livello di povertà non viene definito da esperti (in una via più o meno arbitraria) ma direttamente
dai diversi gruppi sociali . Gli approcci si differenziano per la tipologia di quesiti che vengono posti a
campioni rappresentativi di famiglie e al modo in cui si elaborano le informazioni in funzione di alcuni
parametri quali la dimensione familiare, il grado di urbanizzazione dell’area in cui vive il nucleo
26
Goedhart T., Halberstadt V., Kapteyn A, and van Praag B,M.S. 1977, The poverty fine: Concept and Measurement, The JournaI of Human Resources, voI. 12. 27
Deleek H., De Lauthouwer L., van den Bosch K 1988., Social Indicators of Social Security, Centre for Social Policy, Antwerp.
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familiare, il tipo di occupazione svolta dal capo-famiglia, il numero di percettori di reddito per nucleo,
l’età, il titolo di studio, e così via. Il sondaggio, che usualmente si affianca alle tradizionali indagini sui
redditi e sulle spese delle famiglie, pu6 essere costituito da una o più domande, a seconda della
metodologia prescelta.
Un’ipotesi può essere quella di derivare direttamente dalle risposte delle famiglie, il livello di
reddito da considerare come minimo, con domande del tipo: “qual’è l’ammontare del reddito che Lei
ritiene minimo per soddisfare i bisogni di una famiglia come la sua?” (S.P.L., Social Subsistence
Minimum, Deleeck). Spesso si aggiungono delle domande di controllo del tipo, valuta la sua personale
situazione economica: “povera”, “alquanto povera”, “al di sotto della media” , “sulla media”, “sopra la
media”, “ricca” . Alternativamente si possono predisporre dei livelli di reddito con accanto delle
qualificazioni del tipo: “molto scarso”, “scarso”, “appena sufficiente”, “sufficiente”, “buono”, “molto
buono”. Diviene quindi possibile costruire delle linee della povertà soggettive per sottogruppi di popo-
lazione e linee nazionali (L.P.L., Leyden Poverty Line, van Praag). Il metodo consente anche di
costruire delle scale di equivalenza di natura soggettiva (vedi paragrafo che segue). Una volta individuate
le linee, si stima la quota della popolazione in povertà confrontando i redditi percepiti dalle diverse
famiglie con le rispettive linee di povertà. Una prima applicazione, su vasta scala, di tale metodologia si
è avuta in Europa nel 1979 con riferimento ad un’indagine condotta dal Centro di Ricerche in
Economia Pubblica dell’Università di Leyden su commissione della Comunità Europea in nove paesi
(Belgio, Danimarca, Francia, Germania ovest, Gran Bretagna, Irlanda, Italia e Paesi Bassi), presso
campioni di 3.000 famiglie circa28.
Al termine della ricerca sono emerse linee della povertà diverse da paese a paese e da
sottogruppo a sottogruppo di popolazione. Altrettanto interessante è il risultato dell’omogeneità dei
sottogruppi tra paesi. Accade così che all’aumentare della dimensione del centro urbano in cui si vive
aumenta il livello di reddito ritenuto come minimo nella generalità dei paesi considerati, ad eccezione
della Germania. Le linee espresse dagli occupati sono, generalmente, più alte di quelle espresse dalle
famiglie con capo-famiglia pensionato. Nell’ambito degli occupati linee più basse vengono indicate dagli
agricoltori, molto probabilmente per i redditi in natura di cui godono. Le linee sono, ancora,
strettamente funzionali al livello d’istruzione del capo-famiglia nel senso che, all’aumentare delle
annualità di studio, aumenta il livello della linea raggiungendo il suo massimo per i capi-famiglia laureati.
Non si rilevano differenze significative tra capi-famiglia maschi o femmina.
Più in generale il livello minimo più alto viene espresso da un capo-famiglia impiegato o
lavoratore autonomo, laureato, con età compresa fra i 40 e i 60 anni che vive in una città media o
grande. La linea più bassa viene, invece, osservata per chi vive nei piccoli centri, con capo-famiglia
28
Cfr., van Praag B.M.S., Hagenaars A.J.M., van WeerenJ. 1980 , Poverty in Europe, Center for Research in Public Economics, Leyden.
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pensionato e con basso livello d’istruzione. In termini di quantificazione dell’area della povertà tale
metodo, pur con differenziazioni notevoli, comporta una maggiore quota di popolazione in stato di
povertà rispetto ai più tradizionali metodi visti in precedenza. Il risultato non desta stupore poiché è
strettamente collegato al livello della linea della povertà e la linee espresse soggettivamente sono,
usualmente, più alte di quelle assolute o relative. E questo non solo perché alle famiglie si chiede una
stima di un reddito minimo ma anche perché in tale stima, probabilmente, c’è una sorta di aspirazione
da parte delle famiglie a non cadere in uno stato di povertà e questo genera uno spostamento della linea
verso l’alto.
Che cosa si può dire nei confronti di tali diversi approcci o linee della povertà ? Che nessuno è,
di per sé, migliore dell’altro; che ognuno contiene margini di arbitrio e che, nella misura in cui
presentano differenze tra loro, diversa sarà la quantificazione e la qualificazione dei gruppi deboli. E
questo, naturalmente, può rappresentare un problema nel momento in cui i politici dovranno decidere
le misure da destinare al contenimento del fenomeno povertà.
3. Le scale d’equivalenza
Comune alle diverse metodologie è infine la problematica delle “scale di equivalenza”29, del
modo in cui una volta definito il reddito minimo per una coppia di due individui, questo possa essere
esteso, in ampiezza, per tener conto delle economie di scala che si rilevano nella gestione dei bilanci
familiari al variare del numero ed età dei componenti. Anche in questo caso esistono metodologie
diverse, più o meno sofisticate, a seconda degli elementi presi in considerazione : età dei diversi
soggetti, aree territoriali di appartenenza, grandi fasce di reddito o spesa mensile, ecc.
Una pratica molto comune è quella di determinare delle scale di equivalenza fondandosi sul
concetto che, per ogni bene o servizio, esistono differenti esigenze dei singoli membri della famiglia a
seconda del relativo sesso o età; che per ciascun bene o servizio le economie di scala (o le diseconomie)
operano in modo diversificato e che è possibile stimare, con opportuni metodi econometrici, l’effetto
congiunto di tali fattori analizzando le spese delle famiglie di diversa ampiezza e composizione30. E’ così
possibile determinare un insieme di coefficienti di equivalenza che consentono di trasformare ogni
nucleo familiare di diversa ampiezza e composizione in “unità di consumo”. Il metodo è analitico (e
non sintetico) in quanto definisce tante scale di equivalenza quanti sono i beni e servizi considerati e,
all’interno di ciascuna scala, tanti coefficienti quante sono le tipologie di componenti che è possibile
distinguere date le informazioni statistiche. La scala di equivalenza si ottiene ponderando le scale
29
Il problema non si pone, in modo diretto, nella versione attuale di misurazione della povertà assoluta di fonte Istat
poiché si costruiscono n linee della povertà individuali in funzione dell’età, del sesso, del territorio. 30 Tra gli altri: Prais S.J., The Estimation of Equivalent Adult Scales from Family Budgets 1953 , Economic Journal n. 63,
December; Abel-Smith B. and Bagley C., The Problem of Establishing Equivalent Standards of Living for Families of Different Composition, in Townsend P. 1970 , The Concept of Poverty, Heinemann, London; Muellbauer J. 1977 , Testing the Barten Model of Household Composition Effects and Cost of Children, Economic Journal, September.
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ottenute per i singoli beni e servizi. Naturalmente, perché le scale abbiano buoni gradi di attendibilità,
occorrono dati molto dettagliati sui consumi delle famiglie e significatività statistica a livello di
sottogruppi di popolazione.
Si possono costruire anche delle scale di equivalenza chiedendo direttamente alle famiglie delle stime,
con domande del tipo: “di quanto maggior reddito ( o minor reddito) avrebbe bisogno per man- tenere
una famiglia di un componente in più ( o in meno con riferimento al suo standard di vita?31. Le risposte
ottenute attraverso interviste condotte presso un campione sufficientemente numeroso di famiglie di
diversa ampiezza e composizione, vengono, quindi, inserite in un modello econometrico la cui
risoluzione determina una scala di equivalenza.
Un ultimo modo, infine, si basa sull’accettazione di un’ipotesi, ampiamente verificata
dall’evidenza empirica, e che si riferisce alla ben nota legge di Engel. In base a tale legge si sostiene che
la frazione di spesa totale destinata alle necessità primarie (in particolare all’alimentazione) decresce al
crescere del tenore di vita delle famiglie. Ed allora, se il campione di famiglie è sufficientemente ampio,
diviene possibile determinare una relazione che descriva, in modo statisticamente significativo, per
ciascun gruppo di famiglie di uguale ampiezza, l’andamento della quota delle spese alimentari al variare
del reddito (o della spesa totale), assumendo quest’ultima variabile come indicatore del tenore di vita. Si
può quindi ipotizzare che le famiglie di ampiezza e composizione diversa godono di un tenore di vita
all’incirca simile se la quota di reddito (o di spesa) che esse destinano all’alimentazione è la stessa o,
anche,: due famiglie di differente ampiezza possono essere considerate con reddito equivalente quando
spendono in beni alimentari la medesima quota del loro reddito32. Se, ad esempio, si ritiene che le
famiglie di due componenti, considerate povere per il loro livello di reddito, spendono per
l’alimentazione il 30 per cento della loro spesa complessiva (come ipotizzato in precedenza), allora
saranno definite come povere le famiglie di tre componenti che avranno un livello di reddito a cui
corrisponde una spesa alimentare pari al 30 per cento della spesa complessiva; e così via per le famiglie
di quattro, cinque, sei e più componenti.
Nell’ambito dei lavori della prima Commissione governativa sulla povertà in Italia, ad esempio,
si è ritenuto di poter utilizzare quest’ultimo metodo, data la semplicità della metodologia e la
disponibilità dei dati. Si è anche ritenuto sufficiente elaborare, sempre nell’ambito di tali lavori, un’unica
scala, valevole su tutto il territorio e considerando l’intera popolazione (vedi tabella n.2).
31
Cfr., van Praag B.M.S. et al., op. cit. 32 Nicholson J .L. 1986, Appraisal of Different Methods of Estimating Equivalence Scales and their Results, Review or Income and
Wealth,; Deaton A. and Muellbaurer J. 1980 , Econimics of Consumer Behaviour, Cambridge University Press, Cambridge.
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4. La povertà in Italia
La prima indagine sulla povertà in Italia risale all’immediato dopoguerra quando una “
Commissione d’inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla”33 elabora i
primi dati sull’estensione della povertà . Partendo dai bilanci delle famiglie povere si rileva come “ il
22% degli italiani nel 1952 viveva in cantine, soffitte, magazzini, baracche, grotte ed abitazioni
sovraffolate (due milioni e ottocentomila famiglie); che il 7,5% della popolazione non consumava mai
nè carne, nè zucchero, nè vino, mentre il 9,5% ne consumava in determinate quantità minime; che il 2%
delle famiglie aveva calzature miserrime, il 3,1% in condizioni misere, il 4,3% in condizioni cattive, il
36,5% in condizioni mediocri; che in condizioni di miseria vivevano l’11,8% delle famiglie ( l’1,5%
nell’Italia Settentrionale, il 5,9% nell’Italia Centrale; il 28% nell’Italia Meridionale e il 24,8% nell’Italia
insulare) e l’11,6% in condizioni disagiate (il 4,3% nell’Italia Settentrionale, il 9,7% nell’Italia Centrale; il
21,9% nell’Italia Meridionale e il 20,6% nell’Italia insulare)...... il 7,8% degli abitanti, pari a 3.660.226, era
iscritto negli elenchi dei poveri..... ”34 Da allora passeranno più di trent’anni per poter avere nuove stime
ufficiali sulla povertà nel nostro Paese35
4.1 Dimensione della povertà relativa nell’anno 2011
Prima di andare a vedere quante e quali sono le famiglie povere nel nostro paese, è bene non
dimenticare mai che i poveri presenti nelle elaborazioni ufficiali (del nostro come della maggior parte
dei paesi avanzati) sono i poveri relativi; sono famiglie ed individui che vivono accanto a noi, che
soddisfano i bisogni primari ma possono accedere con difficoltà ad una serie di beni e servizi non
primari (dall’istruzione superiore alle attività di svago, della cultura, della prevenzione, ecc). Mancano,
nelle statistiche ufficiali, i poveri come la gente comune li intende: coloro che vivono di assistenza
pubblica e privata, che non hanno una dimora fissa, un lavoro adeguatamente retribuito; che girano per
le strade chiedendo l’elemosina; per le parrocchie, per avere pasti ed indumenti; per i mercati rionali, nei
momenti di chiusura, quando si gettano via i prodotti che non potranno essere venduti il giorno dopo
ma che possono ancora essere commestibili; per le strutture sociali locali per avere un buono alloggio,
un buono pasto, un sussidio economico una tantum. Queste ed altre figure sociali marginali (ex-
detenuti, alcolisti, tossicodipendenti, immigrati, ecc), non appartengono ai poveri stimati ufficialmente; per
rilevarli e conoscere le condizioni che determinano il loro ingresso e permanenza in uno stato di
povertà occorrerebbero indagini mirate e queste, purtroppo, non sono ancora all’ordine del giorno del
nostro Istituto Nazionale di Statistica.
33
Galli G. ( a cura di) 1953, La miseria in Italia dall’inchiesta parlamentare, Ed A.N.E.A., Milano 34
Galli G. ( a cura di) 1953, op.cit., p.vi e seguenti 35
Cfr., Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1987, op.cit.
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Con riferimento all’anno 2011, l’Istat stima 2.782.000 famiglie in condizione di povertà
relativa 36, pari all’ 11,1% delle famiglie italiane, per un totale di 8.173.000 individui ( 13,6% della intera
popolazione) 37. Come visto in precedenza, la stima della povertà relativa si basa su di una soglia
convenzionale (linea della povertà) che, nel nostro Paese, fa riferimento alla spesa media pro-capite e tale
spesa, pari a 1.011,03 euro nel 2011, rappresenta la linea della povertà per una famiglia di due componenti
(sempre con riferimento all’anno 2011). Per famiglie di ampiezza diversa, il valore della linea si ottiene
applicando la scala di equivalenza elaborata nell’ambito dei lavori della prima Commissione governativa
sulla povertà (scala Carbonaro) che tiene conto delle economia di scala che si realizzano all’aumentare
del numero dei componenti del nucleo familiare.
Tabella n. 1 .
Scala di equivalenza e soglie di povertà nel 2011
Famiglie scala Spesa mensile per consumi (2011)
1 componente 60 606,62
2 componenti 100 1.011,03
3 componenti 133 1.344,67
4 componenti 163 1.647,98
5 componenti 190 1.920,96
6 componenti 216 2.183,83
7 o più componenti 240 2.381,90
Spesa media pro-capite 100 1.011,03
Fonte: Istat 2012
La povertà relativa si addensa nel mezzogiorno, dove le persone povere sono il 26,9 % (27,1% nel
2010) della popolazione ma è presente anche nel centro e nord dove colpisce, rispettivamente, l’7,9 %
( 8,6% nel 2010) e il 5,9 % (5,9 % nel 2010) della popolazione. Nel commentare tali quote occorre
ricordare che si potrebbe essere in presenza di una sovrastima del fenomeno nei confronti del mezzogiorno
e di una sottostima nei confronti del nord avendo applicato una linea della povertà uniforme a livello nazionale
mentre la spesa media per consumi è differenziata a livello territoriale per cui se alle famiglie del nord
del paese si applicasse la spesa media pro capite dell’area il tasso di povertà sarebbe maggiore e minore
per il mezzogiorno se vi si applicasse la relativa spesa media pro-capite (per il centro il problema si
pone in misura minore essendo la spesa media dell’area prossima al valore medio nazionale)
36 La quota di famiglie povere è calcolata applicando la linea della povertà ai dati relativi alle spese per consumi delle famiglie rilevati attraverso un’indagine campionaria che investe un campione di 28.000 famiglie circa estratte casualmente in modo da rappresentare il totale delle famiglie italiane. 37 Istat 2012, La povertà relativa in Italia nel 2011, Statistiche report, 17 luglio, Roma
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In termini di dimensione dei nuclei familiari, povere risultano essere soprattutto le famiglie numerose
(cinque o più componenti) che presentano un tasso di povertà pari al 28,5% ( 29,9% nel 2010) del
totale famiglie di cinque e più componenti; il disagio economico si accentua quando i figli all’interno del
nucleo familiare sono minori, in questo caso, per le famiglie con tre o più figli minori, il tasso sale al
27,2% ( 27,4% nel 2010) . Il fenomeno è particolarmente grave nelle regioni meridionali dove il 43,0%
( (38,6% nel 2010) delle famiglie con tre o più figli minori sarebbe povero. La diffusione della povertà
è, invece, contenuta tra i single (persona sola con meno di 65 anni) (3,6%) e tra le coppie senza figli con
capofamiglia adulto (di età inferiore ai 65 anni) (4,6%). Presentano un tasso di povertà che oscilla
intorno al valore medio le coppie di anziani (11,3%); hanno un tasso superiore al valore medio le coppie
con due figli (14,8%) e le monogenitoriali (13,2%). Con riferimento alla condizione professionale e non del
capofamiglia, il tasso di povertà è significativamente maggiore (27,8%) per chi è in cerca di occupazione,
minore per i dipendenti (9,4%) e per gli autonomi (7,9%). Come prevedibile, dall’indagine emerge il
legame ancora stretto tra povertà e livello d’istruzione per cui il tasso oscilla tra il 5,0% per le famiglie
con capofamiglia che ha un titolo di studio di media superiore ed oltre e il 18,1% per chi non ha alcun titolo
o solo la licenza elementare.
A livello regionale38, l’incidenza della povertà varia da un 4,2% per la Lombardia, ad un 5,9%
per il Piemonte, ad un 7,1% per il Lazio, ad un 22,4% per la Campania, ad un 27,3% per la Sicilia
(valore più elevato).
38 La rilevazione regionale della povertà ha avuto inizio nel 2002; in ogni caso il riferimento è ad una linea di povertà nazionale.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 15
Box n. 2 Indici di povertà
Un indice sintetico di misurazione della povertà, largamente utilizzato, è l’indice di diffusione ( headcount
ratio) o indice di incidenza e misura la povertà come quota della popolazione la cui spesa per consumi (
o il cui reddito) è inferiore/uguale alla linea della povertà : H0 = q / N.
Un altro indice, importante soprattutto per la valutazione delle politiche di lotta alla povertà, è l’indice di
intensità ( income gap ratio) che misura la distanza in termini di spesa ( o di reddito) che separa ciascun
soggetto povero dalla soglia di povertà. Un indice di intensità pari a 0,20, ad esempio, ci dice che i
poveri hanno, mediamente, un livello di spesa del 20% inferiore alla soglia di povertà.
Si è detto che questo indice è importante per la valutazione delle politiche di contrasto alla povertà
poiché in presenza di risorse pubbliche limitate si potrebbero predisporre delle politiche a favore dei
ceti meno abbienti capaci di aumentare la loro spesa per consumi senza essere però in grado di far loro
superare la soglia di povertà. In questo caso l’indice di diffusione rimarrebbe sullo stesso livello ( nessun
soggetto povero riesce a superare la soglia) ma l’indice di intensità si ridurrebbe : i poveri, pur
rimanendo tali, sarebbero un po’ meno poveri rispetto alla situazione precedente.
Box n. 3
Povertà sui consumi e povertà sui redditi
Si è visto come la Comunità europea quantifichi la quota di individui a rischio di povertà utilizzando
come riferimento il reddito mediano equivalente mentre l’Istat faccia riferimento alla spesa media per
consumi. Quale dei due indicatori può essere ritenuto più adeguato? Personalmente riteniamo che
l’utilizzo del reddito sia uno strumento più adeguato perché comprensivo non solo delle spese per
consumi ma anche di un’eventuale quota di risparmio precauzionale. L’Istat utilizza la spesa per
consumi perché ritiene che le rilevazioni sulle spese per consumi delle famiglie siano, mediamente, più
attendibili rispetto a quelle sui redditi ove le mancate risposte o i fenomeni di reticenza sono maggiori;
e, quindi, le relative stime possono risultare più consone. Deve essere, però, chiaro che utilizzando il
reddito la linea della povertà è più alta rispetto a quella riferibile alle spese per consumi per cui la quota
stimata di famiglie in povertà risulta maggiore rispetto a quella rilevabile attraverso la spesa per
consumi. In questo senso un Paese e per un medesimo anno può avere indicatori di povertà diversi
come accade, ad esempio, se si adotta la stima della povertà in Italia di fonte Eurostat (individuo con un
reddito inferiore al 60% del reddito mediano equivalente) o Istat (spesa media pro-capite per una coppia
di due individui). Nell’analisi relativa ai gruppi che compongono l’aggregato povertà le due metodologie
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 16
possono, anche, evidenziare tassi diversi; emerge, ad esempio, come utilizzando le spese per consumi
gli anziani abbiano un tasso di povertà che oscilla intorno al tasso medio mentre questo andamento non
si rileva, necessariamente, quando il riferimento è ai redditi., in questo senso si parla di sovrastima della
quota di persone anziane nella fascia povera. Questo perché il modello di consumo delle famiglie
anziane (singoli e in coppia) è profondamente diverso dagli altri e la differenziazione nelle spese non
evidenzia, necessariamente, condizioni di relativo maggiore disagio. Gli anziani spendono, ad esempio,
mediamente meno in trasporti, per l’istruzione, per l’abbigliamento, per i mobili ed attrezzature per la
casa, per cui “ molti anziani sono contati come poveri se si adotta la definizione di soglia di povertà con
riferimento alle spese ma non se si adotta quella con riferimento al reddito” 39
Box n.4 Da una vita dignitosa a stati di povertà relativa
Da un’intervista ad un cassa integrato di Torino – La Repubblica 20 dicembre 2008
Giuseppe è un operaio in cassa integrazione da undici mesi della Bertone, una delle carrozzerie che
hanno segnato la storia dello stile italiano; ha una moglie disoccupata ed una bimba. In condizioni
normali di lavoro riceve una retribuzione netta mensile di 1.200 euro e 135 euro come assegni familiari
per la moglie e la figlia; con tale retribuzione complessiva vive una vita di dignitosi sacrifici ; nel
passaggio dal lavoro alla cassa integrazione si perdono 450 euro mensili, un terzo della busta paga ed in
un attimo si può precipitare da una vita dignitosa alla disperazione perché con 885 euro mensili non si
vive e perché, nonostante siano passati undici mesi, l’Inps non ha ancora definito la sua pratica per cui
Giuseppe riceve, dal Comune di Torino, un’anticipazione di quanto dovuto nella misura di 600 euro.
Ma come può vivere, una famiglia di tre componenti, con 600 euro al mese? Si vive in una casa con
pochi mobili perché tutto ciò che non è essenziale viene rinviato a tempi migliori così come si rinviano
le opere di manutenzione ordinaria quale, ad esempio, la ripulitura delle pareti ingrigite dal fumo dei
termosifoni; si vive facendo i conti della spesa giorno per giorno e i conti non tornano mai; per l’affitto
vanno via 425 euro al mese che con le spese diventano 475 in media al mese; per luce e gas vanno via
altri 55-60 euro al mese; ne restano circa 70 che dovrebbero servire per mangiare e vestire tre persone,
senza tener conto di tutti gli altri bisogni essenziali come la salute, la scuola, il trasporto, ecc. I conti
tornano, nella pura sussistenza, con l’intervento della madre di Giuseppe una vedova che riceve una
pensione di reversibilità di 1.000 euro al mese ed ha in casa, ancora, un figlio; insieme si va al
supermercato, in realtà si va in giro per supermercati per cogliere le offerte del mese: la pasta si
acquista da una parte e la bottiglia di pomodoro dall’altra; l’acquisto della carne è un lusso e la si
39 Cfr. Eurostat (1994), Objective monetary poverty, Report to the statistical office of the European Community, Doc.n.62/94, January
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mangia solo quando si va a pranzo dalla madre. Trovare lavoretti in nero non è semplice perché la
crisi quando si avvita investe tutti, anche i clandestini. Qualche sussidio straordinario lo si riesce ad
avere dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione; ai regali di Natale per la bimba penserà la sorella di
Giuseppe ma per quanto tempo si può sopravvivere a queste condizioni? Solo in Fiat, ad oggi, i cassa
integrati sono 50.000 e, poi, ci sono tutti gli altri cassa integrati e lavoratori in mobilità e, poi, i precari
a cui non viene rinnovato il contratto e non hanno alcuna copertura in caso di disoccupazione.
19 luglio 2011 JENNER MELETTI, La Repubblica "Noi, improvvisamente poveri con 1000 euro al mese"
Precari, con figli a carico, costretti a tornare nella casa dei genitori. È la situazione di tanti italiani che
sono passati dalla serenità alla miseria. Costretti a sopravvivere con meno di 1000 euro al mese
MONZUNO (Bologna) - Gianna P. ha trentasette anni, un bel bambino e un grande sorriso. "La
povertà? Io l'avevo assaggiata da piccola, quando mio papà è morto in un incidente. Solo assaggiata,
però. Se chiedevo un paio di scarpe, queste arrivavano, magari dopo quattro mesi. Sono andata a
scuola, mi sono diplomata, ho avuto la macchina come tutte le mie amiche. Adesso sì, sono povera. E ho
capito che ad essere povera la cosa che manca di più è la libertà. Se avessi ancora il mio lavoro e il mio
stipendio, anche se mi sono separata dal marito, potrei affittare un appartamento per me e per mio
figlio che ha sette anni. E invece sono tornata a vivere da mia madre, non potevo fare altro. Sei sempre una
bimba, per i tuoi genitori, e così ti trattano. Io l'ho provata, l'indipendenza economica, l'avevo
conquistata". "Da più di un anno l'ho persa e assieme a lei se n'è andata la libertà di vivere in un posto
tutto mio. Le vacanze al mare, le gite nel week-end? Ormai sono un ricordo ma questo non mi pesa.
Mi manca la chiave della mia porta, della mia cucina... ". La parola "povertà" ha un sapore amaro, soprattutto
in questa terra emiliana che sembrava tutta ricca. Ricorda i libretti dell'Eca (Ente comunale di
assistenza), chiamati semplicemente "i libretti dei poveri", tenuti nascosti nei comò ed esibiti solo per
avere le medicine gratis o un sussidio per mandare i figli in colonia.
Gianna P., perdendo il lavoro, si trova dentro l'11% delle famiglie italiane che hanno una capacità di
spesa inferiore a 992,46 euro al mese. "Adesso mi sveglio al mattino e mi dico: Gianna, fatti coraggio.
Fai finta di essere ancora una ragazzina, alla ricerca del primo lavoro. Se sei stata capace di andare
avanti, devi essere capace di tornare indietro e di ricominciare. Ho cominciato a lavorare nel 1995,
avevo 21 anni. Primo stipendio, 800 mila lire. Prima receptionist, poi impiegata di buon livello. Due
anni dopo mi sono sposata e le cose andavano davvero bene. Prima che l'azienda andasse in crisi, io e
mio marito portavamo a casa 3100 euro al mese, 1500 io, 1600 lui. E c'erano la tredicesima e la
quattordicesima, e anche i buoni pasto da 6,45 euro, che quando li hai quasi non ci badi ma quando
spariscono ti accorgi quanto siano utili. Ci sentivamo non ricchi ma tranquilli. Un appartamento in affitto, a
600 euro al mese. Quattrocento euro per l'asilo nido del piccolo. Ecco, in questi giorni di caldo ci
preparavamo per andare al mare, dieci o quindici giorni in un appartamento o in un hotel. E d'inverno
ci prendevamo un'altra pausa, quattro o cinque giorni in Trentino, senza sciare ma con lunghe
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 18
passeggiate sulla neve. Al ristorante o in pizzeria? Quasi mai. Preferivamo risparmiare per le nostre
piccole vacanze o per portare il bimbo a Gardaland". Arriva la separazione dal marito ma le cose non
cambiano troppo. "Con il mio stipendio e l'assegno dell'ex coniuge per il bimbo - 350 euro al mese - ce
l'avrei fatta a vivere in autonomia. Ma all'inizio del 2010 arriva la crisi dell'azienda, con gli stipendi che
tardano prima un mese poi due poi sei mesi e ti trovi all'acqua. L'affitto non lo puoi più pagare, torni
dalla mamma e meno male che ha un appartamento suo. In azienda arriva il nuovo proprietario,
tornano gli stipendi ma solo per qualche mese. Adesso non so di quale statistica Istat io faccia parte. So
soltanto che da marzo ad oggi, e forse fino a novembre, non prendo un euro. In teoria c'è la cassa
integrazione speciale, perché anche i nuovi padroni hanno dichiarato fallimento, ma gli assegni da 700-
800 euro ancora non si vedono. L'unico reddito è l'assegno del mio ex. Io però sono una che non
accetta di farsi mantenere. A mia madre non pago l'affitto ma partecipo a tutte le spese, dal vitto alle
bollette, dalla benzina all'assicurazione della macchina. Se ne vanno in media 450 euro al mese, che
prendo in gran parte dai miei risparmi".
Non è purtroppo una mosca bianca, Gianna P. "Seguo i lavoratori delle aziende metalmeccaniche nei
Comuni di Casalecchio e Sasso Marconi - dice Cristina Pattarozzi della Fiom Cgil - e purtroppo l'80%
vivono ormai di ammortizzatori sociali. Chiusure, fallimenti, cassa integrazione, mobilità... A volte noi
sindacalisti dobbiamo fare un altro mestiere, quello dell'assistente sociale. Ci sono famiglie dove tutti
sono in cassa integrazione e se gli assegni sono, come sempre, in ritardo, non hanno i soldi per
comprare da mangiare o per pagare bollette e mutui. E allora vai in Comune, spieghi la situazione,
intervieni per bloccare uno sfratto. Per molti uomini, anche giovani, la crisi dell'azienda è vissuta male.
Si sentono persi, vanno in depressione. Stanno male perché non hanno i soldi per andare al solito
supermercato e vanno al discount quasi di nascosto perché si vergognano". I bar sono pieni, si paga un caffè e si
sta lì mezza giornata. "Io sono senza stipendio da quattro mesi e allora, all'inizio di giugno, ho preso i
miei due figli e sono andato a pranzo dai miei genitori. Non ho dovuto spiegare nulla. Hanno
apparecchiato e solo alla fine mia madre ha detto: va bene alle 13 anche domani?". "Ho controllato i
punti della Coop e ho scoperto che ho speso meno di un terzo, rispetto all'anno scorso. Vado al discount
per spendere meno. Al mattino presto, oppure mi sposto nei Paesi vicini, dove non mi conoscono".
Gianna P. deve andare via, per prendere il bambino al centro estivo. "Si paga anche lì, è un sacrificio ma
non voglio che il mio piccolo abbia meno degli altri. E' stato anche al mare, con suo papà che per
fortuna ha ancora lo stipendio. Se il bimbo sta bene, sto bene anch'io. Quest'anno per me niente
vacanze, ma non importa. Io sono una cui non piace "stare in schiena" a nessuno. Vuol dire che non
mi piace farmi mantenere, né dalla mamma né dallo Stato. E così proprio l'altro giorno sono andata
all'Inps per interrompere la cassa integrazione. Ho trovato da lavorare in un'azienda, da una settimana.
Sono in prova, spero che mi assuma davvero. Certo, cercare lavoro oggi è come subire una rapina a
mano armata. Prendevi 1500 euro? Te ne do 1025, prendere o lasciare. Se tengo conto dell'assegno di 700-800
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 19
euro al mese che dovrà pur arrivare e delle spese per andare in macchina nella nuova azienda, faccio pari e patta.
Prenderei gli stessi soldi restando a casa, ad aspettare cassa integrazione o mobilità. Ma ho un figlio e
devo dargli un futuro. E poi sono fatta così. Se devo ricominciare, ricomincio davvero. Non sono più
una ragazzina ma non voglio uscire dal mondo del lavoro. Se sei fuori, anche con un assegno dell'Inps,
è un macello. A non lavorare si sta male, perché ti senti vuota e inutile. Niente ferie, niente piscina, niente
vestitino nuovo e va bene così. Ma io, quella voglia che avevo dentro quando ho cominciato a lavorare,
la sento ancora. E' una voglia di stipendio, di casa, di libertà. Chiedo troppo?".
La Repubblica 10 ottobre 2011 La cabina per fototessere come casa storia di Giovanni, operaio senza lavoro di
GIUSEPPE CAPORALE
Ha dovuto lasciare la sua abitazione per motivi economici. E per un anno e mezzo, a 65 anni, ha
dormito nella cabina, a Teramo. Davanti a un bar, che ogni tanto gli offriva la colazione. Poi, un
problema di salute. E l'intervento del parroco. Ora è in una casa di riposo.
Vive, da un anno e mezzo, dentro una cabina per fototessere. Ci dorme. Per Giovanni Di Donato,
sessantacinque anni, imbianchino in cerca di lavoro, quella ormai è la sua camera da letto. Si rannicchia
lì tutte le sere, ma solo dopo le due di notte. "Non ci va prima perché si vergogna..." racconta chi
ormai nella zona ha imparato a conoscerlo. E così quando il bar di fronte alla cabina - e dal nome
beffardo "Grande Italia" - chiude, quando spariscono tavolini, clienti e camerieri, lui saluta tutti e fa
finta di andare nella casa che non ha più. Fa finta di tornare nella dimora che ha dovuto lasciare per
motivi economici: la stanza in una pensione divenuta troppo onerosa, a causa di un lavoro che a volte c'è, e a volte
no.
Così l'anziano imbianchino, da un anno e mezzo, tutte le notti, curandosi di non farsi notare da
nessuno, s'infila nella cabina sotto i portici di piazza Martiri. E proprio quel bar di fronte alla sua
assurda "camera da letto", per Giovanni Di Donato è diventato con il tempo tutto il resto: il bagno
dove lavarsi alle sei del mattino, quando i dipendenti del caffè alzano puntuali la saracinesca. Il posto
dove fare colazione, pagare regolarmente e fingere di svegliarsi presto per andare a lavorare.
Il posto dove anche pranzare e cenare. Ma Giovanni Di Donato nonostante la sua drammatica
condizione, non chiede l'elemosina, mai. Anzi, si offende se qualcuno prova ad aiutarlo. A chi gli domanda
se ha bisogno di aiuto, lui risponde sempre "Io non ho bisogno di niente" e aggiunge "io
lavoro...". "Faccio l'imbianchino, ho la partita Iva" racconta a camerieri e passanti che spesso si
permettono di offrirgli un caffè o un cornetto. Nonostante l'età e i visibilissimi acciacchi, è in cerca di
lavoro. Mesi fa ha tappezzato le vie del centro con dei bigliettini: ha messo sopra la pubblicità della sua
attività e il numero di telefono, proponendosi per piccoli lavori. Un lavoro poi è anche arrivato, "ha
imbiancato la casa di un signore della zona..." ma non è stato sufficiente per pagare un affitto stabile.
La vicenda dell'anziano operaio è un dramma silenzioso consumato sotto gli occhi di tutti, tra
l'imbarazzo di tutti. "I camerieri da subito, già un anno e mezzo fa, mi hanno raccontato che Giovanni
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 20
dormiva nella cabina - racconta la titolare del bar Grande Italia, Rosa Famiglietti - lui negava, ma i
ragazzi lo riconoscevano dalle scarpe, si vedeva da sotto la tendina... Abbiamo vissuto mesi di
profondo imbarazzo, non sapevamo cosa dirgli. Si comportava come un cliente normale. Pagava
sempre, anche se poi con il passare dei mesi il pranzo abbiamo iniziato a offrirglielo, ma senza
dirglielo, altrimenti si offendeva. Facevamo in modo che fosse casuale...". "Ha sempre rifiutato il
nostro aiuto - racconta la donna - perché tutti nella zona ormai eravamo consapevoli della sua
situazione".
Poi però alcuni giorni fa la situazione è precipitata. Giovanni Di Donato una mattina grondava sangue
dai piedi. Se ne sono accorti i camerieri. "Giovanni dormendo sempre praticamente seduto, non
sdraiandosi da un anno e mezzo, ha avuto pochi giorni fa un blocco circolatorio. Ha rischiato di
morire". La titolare del bar, molto preoccupata, davanti a quel sangue contattato il parroco del Duomo,
don Aldino. Il prete ha affrontato l'anziano imbianchino: "ora basta Giovanni, devi farti aiutare". Il
parroco prima l'ha portato al pronto soccorso, poi gli ha trovato un posto in un ricovero per anziani,
in un paese della provincia di Teramo. Ora Giovanni Di Donato, dopo un anno e mezzo di muta e
drammatica sofferenza, ha trovato finalmente un letto dove riposare. E non è più costretto a dormire
seduto dentro la cabina per fototessere.
4.2 L’affidabilità delle stime proposte
Come si è visto in precedenza, la stima delle famiglie in povertà non deriva da un’indagine ad hoc
ma si appoggia all’indagine campionaria relativa alla rilevazione delle spese per consumi delle famiglie,
condotta annualmente dall’Istat a partire dal 1968. L’uso di tale fonte per la stima delle famiglie in
povertà, e della loro evoluzione temporale, può essere considerato come una scelta necessaria ma
sicuramente non ottimale per una serie di motivazioni che in questa sede vengono solo accennate40.
In primo luogo, occorre dire che l’indagine nasce essenzialmente con l’obiettivo di fornire dati
diretti a migliorare le stime dei consumi delle famiglie presenti nella contabilità nazionale e per la
costruzione del paniere da utilizzare per gli indici dei prezzi al consumo. In questo senso l’indagine non
rileva, in modo adeguato, le famiglie effettivamente povere e le famiglie veramente ricche; alcune famiglie
povere mancano per oggettive difficoltà : gli immigrati clandestini, i senza fissa dimora, i malati di mente,
gli ex-carcerati, gli anziani presenti nelle case di riposo, e così via; come dire che, in ogni caso, un
segmento di famiglie/individui in povertà non è presente nelle stime ufficiali. Altre famiglie povere
mancano per la complessità dell’indagine stessa (che, probabilmente, non potrebbe neanche essere
diversa, rispetto all’obiettivo originario); compilare correttamente i questionari somministrati è quasi un
rompicapo e presuppone, comunque, un livello d’istruzione medio - alto, elemento notoriamente
40
Per un’analisi approfondita cfr., C. D’Apice 1999, Riflessioni critiche sui rapporti ufficiali sulla povertà in Italia, in AaVv ( a cura di N Acocella, G M Rey e M Tiberi ), Saggi di Politica Economica in onore di F Caffè, F. Angeli, Milano
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assente nelle famiglie povere che, in questa seconda ipotesi, potrebbero essere rappresentate dalle
famiglie di pensionati al minimo, da una parte dei disoccupati, dei lavoratori in mobilità, dei lavoratori a
basso salario, ecc. Le famiglie ricche che hanno, invece, tutti gli strumenti per partecipare correttamente
all’indagine, si sottraggono all’indagine stessa (elevato tasso di caduta delle interviste).
Questi elementi, insieme ad altri, quali il tasso e la collocazione territoriale dei Comuni che si
rifiutano di partecipare all’indagine, il tasso dei modelli non pervenuti e quello dei modelli annullati
particolarmente rilevante nell’area del Mezzogiorno , con indubbi effetti sulla qualità delle stime relative a
tale area con riferimento alle spese (e, a maggior ragione, per le stime relative alle famiglie povere), ci
sembrano elementi più che sufficienti per dare alle stime del tasso di povertà un carattere estremamente
indicativo e sicuramente non idoneo per l’impostazione di una seria politica sociale che ha bisogno di
informazioni molto più puntuali in termini di gruppi ed aree territoriali rispetto a quelle, comunque,
rilevabili allo stato attuale.
Se si riconoscono i limiti di ogni singola indagine, rispetto all’obiettivo (stima del tasso di
povertà), questi si ampliano nei confronti intertemporali perché l’indagine, nel tempo, subisce modifiche nel
modo in cui i dati campionari vengono riportati all’universo, nel trattamento dei dati stessi, nei modelli di rilevazione, nel
piano di campionamento, e, poi, perché la quota di famiglie in stato di povertà, oscillando intorno al 10 -
11% delle famiglie, implica che i relativi dati fanno riferimento ad un campione significativo a livello di
spese per consumi (28.000 famiglie circa) ma che si ridimensiona drasticamente nel segmento povertà (2.800
famiglie). Questo significa, anche, che qualsiasi spaccato proposto dall’Istat 41, a livello di territorio e
tipologie familiari, non ha alcuna validità scientifica sia con riferimento ad un singolo anno o ad una singola
regione né tanto meno in una dinamica temporale.
Per questi motivi, non prenderemo in considerazione l’evoluzione del tasso di povertà relativa,
ma procederemo ad una serie di esemplificazioni evidenziando gli andamenti più critici riferiti ad alcuni
spaccati di povertà (quelli che usualmente presentano un tasso maggiore rispetto al valore medio) da cui
emerge chiaramente come gli andamenti erratici non possono che derivare da un campione di famiglie
troppo esiguo per dare significatività ai caratteri che l’Istat ha deciso di evidenziare.
Il periodo considerato è quello che va dal 1997 al 2011 poiché nel 1997 l’indagine sui consumi
delle famiglie (da cui, come si è detto, si traggono le stime delle famiglie povere) viene profondamente
ristrutturata sia nelle tecniche di indagine sia nelle metodologie per il trattamento dei dati, per cui le
evidenze non sono più confrontabili con quelle degli anni precedenti sia per le spese per consumi delle
famiglie che per le stime delle famiglie povere.
41
L’Istat considera l’incidenza della povertà relativa per ampiezza della famiglia (un componente, due componenti, ecc); per tipologia familiare (persona sola con meno di 65 anni, persona sola con più di 65 anni, coppia con un figlio, ecc); per numero di figli minori ( famiglie con un figlio minore, con due figli minori, ecc); per numero di anziani presenti nel nucleo, il tutto per ripartizione geografica.
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Proviamo a seguire, ad esempio, dal 1997 al 2011, il tasso di povertà di alcuni gruppi che
presentano un tasso di povertà superiore al valore medio per comprendere se e come la loro situazione
sia mutata in questi anni ed iniziamo dalle persone che vivono da sole ed hanno 65 anni o più.
A livello Italia il relativo tasso passa dal 16,3 al 10,1% evidenziando un netto miglioramento e il
miglioramento sembra confermato a livello delle macro ripartizioni geografiche : al nord si passa
dall’11,6 all’5,4% ; al centro la situazione è un po’ più problematica perché le evidenze pubblicate partono
solo dall’anno 2000 con un tasso del 9,4% 42 ma in ogni caso segnano una caduta raggiungendo un tasso
del 5,0% al 2011; nel mezzogiorno il miglioramento è ugualmente rilevante passando il relativo tasso dal
28,8 al 21,1 (vedi tabella n. 2). Ma se l’analisi abbandona gli estremi del periodo considerato e si
sofferma su ogni singolo anno per collegare gli andamenti del tasso di povertà alle politiche (riforme
del sistema fiscale, aumento delle pensioni minime, dell’assegno sociale per gli anziani poveri,
dell’assegno per le famiglie con almeno tre figli minori, degli assegni familiari, sperimentazione del
reddito minimo d’inserimento, ecc), ad esempio, ed all’andamento dell’economia iniziano ad emergere i
dubbi sulla robustezza delle stime.
Per quanto riguarda il nord i dati relativi alle persone che vivono da sole ed hanno 65 anni o più
evidenziano una significativa caduta, pari a più di tre punti percentuali in un solo anno (il tasso passa
dall’11,6% del 1997 all’8,5% nel 1998 ); ma nel 2006 rispetto al 2005 il tasso torna a guadagnare, ancora
una volta in un solo anno, poco meno di tre punti percentuali passando dal 5,8 (2005) all’8,2% (2006), per
poi ridiscendere al 7,5% con riferimento all’anno 2007 e al 4,6% nel 2008 ( ancora meno tre punti in un
solo anno), per risalire al 4,9 nel 2009 e al 5,4% nel 2011. Quale possa essere effettivamente il tasso di
questo primo segmento e la sua dinamica temporale non è dato saperlo.
L’andamento del tasso riferito, sempre alle persone che vivono da sole ed hanno 65 anni o più e che
risiedono al centro, è ancor più difficile da comprendere; intanto, come si è detto, la serie inizia nel 2000
e dal 2000 al 2006 il tasso si riduce passando dal 9,4 al 7,8% ma anche in questo caso si è in presenza di
notevoli salti come quelli rilevati, ad esempio, tra gli anni 2002 - 2003 e 2004; nel 2002 il tasso sarebbe
pari al 6,7% ma solo un anno dopo esso scenderebbe al 4,2% (meno 2,5 punti percentuali) per
guadagnarne quasi sei punti percentuali l’anno successivo (2004) (10%), per scendere poi sino al 5,3%
per l’anno 2008 e risalire al 5,8 nel 2011.
Considerazioni analoghe si possono fare nei confronti del mezzogiorno anche qui, ad esempio, si
perdono tre punti percentuali in un solo anno (nel 1998 rispetto al 1997) ma se ne guadagnano quattro l’anno
successivo (da 25,7 a 29,9 tra il 1998 e il 1999) per perderne sei l’anno seguente ( da 29,9 a 23,2) e così via
sino ad arrivare al 21,8% del 2007, al 24,3% nel 2008 e al 18,6% nel 2010 e 21,1 nel 2011.
Proviamo a seguire ora un secondo gruppo di famiglie ad alto rischio di povertà : le famiglie
numerose e, nello specifico, le famiglie di cinque e più componenti nella solita sequenza (valore medio
nazionale e valori per macroaree); in questo caso la loro posizione sembra essere in ascesa essendo il 42 Per gli anni 1997-1998 il dato non è significativo per la scarsa numerosità del campione e, quindi, non viene pubblicato.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 23
relativo tasso, a livello Italia, pari al 22,3 nel 1997 e pari al 28,5% nel 2011. Seguiamo ora il tasso a livello
di territorio; al nord la condizione delle famiglie numerose sembra sensibilmente peggiorata essendo il
relativo tasso passato dal 5,9 al 12,9% (più sette punti percentuali) ma è sufficiente modificare l’anno di
riferimento, ad esempio, e partire dal 2002 per sostenere che si è sempre in presenza di un
peggioramento ma molto più contenuto passando il relativo tasso dall’11,6 all’12,9% del 2011; si
potrebbe anche circoscrivere l’analisi tra l’anno 2000 e l’anno 2006 e sostenere che la posizione delle
famiglie numerose è nettamente migliorata passando il relativo tasso dall’11,3 all’8,1% o aggiungere al
periodo l’anno 2011 per sostenere, invece, che la posizione è peggiorata.
Anche per le famiglie numerose del centro la situazione sembra essere peggiorata essendo, il relativo
tasso, passato dal 15,5% al 19,5 % ma se avessimo fermato l’analisi al 2007 avremmo sostenuto di
essere in presenza di un miglioramento essendo il tasso di povertà passato dal 15,5% del 1997 al 12,0% nel
2007; se l’analisi si sofferma su singoli anni le evidenze appaiono ancora più contrastanti : tra l’anno
2001 e 2000, ad esempio, il tasso perde più di quattro punti per guadagnarne tre solo l’anno successivo (tra il
2002 e il 2001) e perdere ben cinque punti l’anno successivo (2003 su 2002) in cui il tasso passa dal 15,0%
al 10,1%; tra il 2010 e il 2009 il tasso guadagna, invece, ben dieci punti percentuali passando dal 16,1% al
26,1% che si perdono, in buona parte, nel 2011.
Gli andamenti non sono significativamente diversi nel mezzogiorno ove il relativo tasso oscilla tra
un 30% (valore più basso) del 2003 ad un 39% nel 2005 : in soli due anni il tasso guadagnerebbe ben
nove punti percentuali; nel 2010 si colloca al 42,1% e al 45,2 nel 2011.
Se si seguono le famiglie con tre o più figli minori l’analisi è ancora più complessa perché il
campione di riferimento si restringe sensibilmente per cui per diversi anni del periodo considerato
l’Istat non inserisce il dato sostenendo che il dato stesso “non è significativo a causa della scarsa
numerosità”; questo accade per la macroarea del nord e per gli anni 1999-2000-2003-2004-2005 ma il
tasso sembra, in realtà, essere altrettanto non significativo per gli altri anni: tra il 2007 e il 2006, ad
esempio, il tasso raddoppia passando dall’8,2% al 16,4%, per attestarsi al 12,4% nel 2011.
Al centro la situazione è ancora più evidente poiché la nota Istat ci dice che i tassi relativi al
periodo considerato non sono mai significativi (simbolo *); i tassi sono invece tutti presenti nell’area del
mezzogiorno ove, evidentemente, il campione è un po’ più numeroso. Ma al di là della presenza del dato
tutti i tassi sembrano poco significativi poiché non solo riescono ad oscillare, in dieci anni, da un valore
minimo pari a 31,9 (2003) ad un valore massimo di 50,6 % (2011) ma anche a perdere e guadagnare
punti velocemente da un anno all’altro. Tra il 2007 e il 2006, ad esempio, si perdono più di dodici punti
percentuali (da 48,9 si scende a 36,7) ma tra il 2004 e il 2003 si erano guadagnati nove punti percentuali.;
al 2011 il tasso si attesta al 50,6%. L’analisi potrebbe continuare per tutti gli spaccati presentati dall’Istat
che considera ben 21 varianti 43 riferite, a loro volta, alle macro ripartizioni geografiche così come
potrebbe continuare con riferimento all’incidenza della povertà a livello di regioni. Senza andare indietro nel 43 Vedi nota n.41.
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tempo e soffermandoci solo agli anni 2006 e 2007, vorremmo poter capire come la regione Calabria
possa aver perso, in un solo anno, quasi cinque punti percentuali (il relativo tasso passa dal 27,8% del
2006 al 22,9% del 2007) mentre la Sardegna ne guadagna ben sei (il relativo tasso passa dal 16,9% al
22,9%) o come il Molise possa perdere cinque punti percentuali e l’Emilia e Romagna guadagnarne più di due
e la Liguria più di tre.
Tabella n. 2 Tassi di povertà relativa
Persona sola con 65 anni e più Famiglie di 5 o più componenti
Anni Italia Nord Centro Mezzogiorno Anni Italia Nord Centro Mezzogiorno
1997 16,3 11,6 * 28,8 1997 22,3 5,9 15,5 32,8
1998 14,1 8,5 * 25,7 1998 22,7 8,3 13,1 34,0
1999 15,4 8,4 * 29,9 1999 22,9 7,3 14,1 32,7
2000 13,2 8,7 9,4 23,2 2000 24,3 11,3 16,2 33,4
2001 13,5 7,3 7,0 26,8 2001 24,5 9,5 11,9 36,4
2002 13,3 7,7 6,7 26,4 2002 23,4 11,6 15,0 32,4
2003 12,9 7,5 4,2 26,6 2003 21,1 10,5 10,1 30,1
2004 13,7 6,8 10 28,2 2004 23,9 9,1 10,2 36,1
2005 11,7 5,8 7,9 23,5 2005 26,2 10,7 15,5 39,2
2006 12,6 8,2 6,9 22,9 2006 24,3 8,1 15,4 37,5
2007 12,0 7,5 7,8 21,8 2007 22,4 12,2 12,0 32,9
2008 10,7 4,6 5,3 24,3 2008 25,9 12,8 18,1 38,1
2009 10,2 4,9 4,7 21,4 2009 24,9 11,2 16,1 37,1
2010 8,9 4,7 4,8 18,6 2010 29,9 14,9 26,1 42,1
2011 10,1 5,4 5,8 21,1 2011 28,5 12,9 19,5 45,2
* dato non disponibile per la scarsa numerosità del campione
Famiglie con tre o più figli minori nel Mezzogiorno
Anni Tasso povertà
1997 36,2
1998 38,0
1999 37,2
2000 33,7
2001 37,0
2002 32,9
2003 31,9
2004 41,0
2005 42,7
2006 48,9
2007 36,7
2008 38,8
2009 36,7
2010 47,3
2011 50,6
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C’è un altro aspetto importante da sottolineare, nella dinamica del tasso di povertà relativa, che risiede
nella variabilità della linea della povertà in presenza di fluttuazioni di breve periodo della spesa media pro-
capite. Quando l’economia è in una fase di espansione, ad esempio, aumenta la spesa media per
consumi e, come conseguenza, si innalza la linea della povertà (e, viceversa, quando l’economia ristagna
e le spese per consumi crescono meno). Se l’incremento della spesa per consumi si diffonde tra i diversi
segmenti della popolazione in una misura più o meno uniforme (come è d’attendersi nel breve periodo
e dati i caratteri dell’indagine posta alla base della stima del tasso di povertà), il tasso di povertà relativo
rimane fondamentalmente stabile sia in presenza di crescita dell’economia che in presenza di
stagnazione. Oscillazioni di rilievo si potrebbero avere solo in presenza di significativi movimenti nella
distribuzione delle famiglie per classi di spesa. Se la spesa media delle classi a più basso livello di reddito
dovesse crescere molto più di quella delle classi a reddito elevato, il tasso di povertà si ridurrebbe e
viceversa. Ma, poiché, nelle distribuzioni usuali mancano di fatto “le code” della distribuzione stessa e
dominanti sono, nell’ambito del campione di famiglie, le figure dei lavoratori dipendenti e dei
pensionati, è probabile che le variazioni di spesa si muovano tutte nella medesima direzione ed in un
campo di oscillazione relativamente contenuto. Da qui una probabile evidenza di una sostanziale stabilità
dell’indice di misurazione della povertà relativa, come sembrano, d’altra parte, mostrare i dati Istat.
Analizzando i dati anno su anno, emerge anche un altro aspetto critico su cui riflettere; quando
l’economia è in una fase di crescita, è molto probabile che cresca anche la spesa per consumi; quando
questo avviene la linea della povertà si innalza e, come conseguenza, determina una stima di tasso di
povertà superiore a quello rilevato, ad esempio, nell’anno precedente. E’ ragionevole ipotizzare una
crescita della povertà in anni di crescita dell’economia ed una sua diminuzione in anni di stagnazione ?
Probabilmente no; la trappola è nella metodologia stessa che innalza la linea della povertà quando
l’economia cresce e la fa diminuire quando l’economia ristagna. Nell’anno 2004, ad esempio, la spesa
media pro-capite per consumi aumenta del 5,2% in termini monetari contro una variazione del 3,2% in
base alle stime di contabilità nazionale; essendo la variazione sensibilmente diversa è probabile che
l’indagine campionaria sulle spese per consumi abbia sofferto di un qualche inconveniente facendo
aumentare la spesa media pro-capite in modo incoerente con le altre grandezze macroeconomiche. Ma
l’aumento della spesa media pro-capite determina l’innalzamento della linea della povertà per una
famiglia di due componenti da 874,74 euro (2003) a 919,98 euro (2004) (più 5,2%) e l’innalzamento
spinge verso l’alto il tasso di povertà di quasi un punto percentuale : dal 10,8% all’11,7% delle famiglie.
L’aumento è un aumento reale o riflette le criticità della metodologia e della fonte da cui sono tratte le
stime?
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4.3 Povertà assoluta
Nel 1995 la Commissione di indagine sulla povertà e sull’ emarginazione, presieduta dall’on. Carniti,
decide di affiancare agli indicatori di povertà relativi fino ad allora prodotti dall’Istat, ulteriori indicatori
basati su una misura di povertà assoluta. Per procedere in questa direzione era necessario, come visto in
precedenza, predisporre un paniere di beni e servizi da porre a base del valore monetario della linea della
povertà. E poiché “ la costruzione di un paniere presenta notevoli difficoltà legate alla scelta e alla
definizione dei beni e dei servizi da inserire, tenuto conto del contesto economico e sociale di
riferimento,... la Commissione invitò l’Istat a costituire un apposito gruppo di lavoro composto da esperti
accademici e da membri della stessa Commissione Povertà, al fine di definire una metodologia
adeguata..... per circa un anno furono presentate e discusse varie ipotesi, verificate empiricamente
attraverso i dati della indagine sui consumi delle famiglie...e nel luglio del 1997 fu presentato lo studio di
fattibilità per la costruzione del paniere relativo all’anno 1995. Esattamente un anno dopo, nel luglio del
1998, la Commissione di indagine sulla povertà fece propria la metodologia proposta: per la prima volta,
il rapporto sulla povertà in Italia presentò la stima della povertà assoluta unitamente a quella della
povertà relativa. A partire dal 1999, su incarico degli organi di governo, l’Istat ha avviato la
pubblicazione annuale delle stime sulla povertà relativa e assoluta sulla base delle metodologie approvate
in sede di Commissione Povertà” 44.
Per gli anni che vanno dal 1997 e sino al 2002 45, l’Istat stima, quindi, anche la quota di famiglie
in povertà facendo riferimento ad un valore soglia definito in termini d’incapacità di acquistare un
paniere di beni e servizi essenziali. La struttura merceologica del paniere, definita nel 1997, rimane ferma per
l’intero arco di tempo, mentre il suo valore monetario viene rivalutato, di anno in anno, per tener conto
della variazione del livello dei prezzi al consumo. Il paniere era strutturato in quattro grandi componenti:
una alimentare, una per l’abitazione, una relativa alle quote di ammortamento per i principali beni durevoli
(frigorifero, lavatrice e televisore a colori) ed una residuale, determinata in modo forfettario (una certa
quota della spesa alimentare) per tenere conto di altre spese (trasporto, vestiario e calzature, cura della
persona, cultura e attività ricreative). Il paniere escludeva la spesa sanitaria e quella per l’istruzione,
nell’ipotesi che le famiglie povere accedessero gratuitamente alla fornitura di tali servizi forniti dalle
strutture pubbliche. Il paniere era, inoltre, diverso per ciascun componente della famiglia per tener
conto della diversificazione dei bisogni al variare del sesso (maschio – femmina ) e dell’età.
Le stime, interrotte nell’anno 2003 per una revisione della metodologia, tornano ad essere pubblicate nel
marzo 2009 con diverse innovazioni che rendono le due serie di dati non confrontabili tra loro. Nel
44
Istat (2004), La povertà assoluta : metodologia di stima e prospettive future , Roma 45 Dal 2003 la stima della povertà assoluta non viene più perseguita per la necessità di rivedere l’intera metodologia , cfr., Istat 2004, op.cit.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 27
paragrafo successivo si presenta una sintesi della nuova metodologia ripresa direttamente dalla pubblicazione
Istat.
4.4. Le nuove stime di povertà assoluta
La rivisitazione della metodologia si concentra sui seguenti aspetti 46:
• individuazione delle aree di fabbisogno individuali/familiari e dei beni e servizi che le compongono;
• individuazione delle fonti per la valutazione dei costi dei beni e servizi inclusi nel paniere;
• definizione della soglia e sua rivalutazione nel tempo.
Il principio cardine che sottende alla costruzione del nuovo paniere, differenziandolo dal vecchio, è che i
bisogni primari siano omogenei su tutto il territorio nazionale (a meno di differenze dovute a fattori esterni,
come ad esempio le condizioni climatiche nel fabbisogno di riscaldamento), mentre i loro costi possano
variare nelle diverse aree del Paese. Pertanto, il valore monetario del paniere e, quindi, la soglia di povertà
assoluta varia sul territorio per ripartizione geografica e ampiezza del comune di residenza.
Nel nuovo paniere i fabbisogni individuali e familiari sono definiti utilizzando una classificazione per
età più dettagliata rispetto a quella utilizzata in precedenza e le soglie di povertà assoluta, che prima
venivano definite solo rispetto all’ampiezza familiare, ora sono calcolate per ogni singola famiglia, in relazione
al numero e all’età dei componenti.
Infine, il valore monetario del paniere, definito per l’anno 2005, non viene più rivalutato con un unico indice
generale, ma differenziando la dinamica dei prezzi rispetto al territorio e ai beni e servizi.
4.4.1 La definizione dei fabbisogni essenziali
Per definire in modo adeguato i diversi fabbisogni è stato necessario distinguere quali di questi possano
essere soddisfatti a livello individuale e quali a livello familiare. Di volta in volta, si è scelto di fare riferimento
all’individuo o alla famiglia come unità di bisogno; tuttavia, laddove i bisogni sono stati definiti a livello
individuale, si è comunque pervenuti a una loro definizione a livello familiare, aggregando rispetto alle
caratteristiche dei singoli componenti e tenendo conto delle eventuali economie di scala che possono essere
realizzate al variare della composizione familiare.
Sono state definite tre macrocomponenti : alimentare, abitazione, residuale. Nello specifico della componente
alimentare, si è mantenuto l’approccio utilizzato nel vecchio paniere, facendo riferimento a diete
giornaliere variabili per età e sesso costruite in base ai livelli di assunzione raccomandati dai nutrizionalisti.
Il fabbisogno abitativo, in termini di superficie minima ma adeguata, è stato definito in base ad un
decreto ministeriale del 5 luglio 1975 ed attualmente utilizzato dalle ASL come parametro per
concedere l’abitabilità; così, ad esempio, per una famiglia di un componente viene stimata come adeguata
un’abitazione che ha una superficie che oscilla tra i 28 e i 37 mq mentre per una famiglia di tre
46
Fonte: Istat, La misura della povertà assoluta, Metodi e Norme n.39, 2009
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 28
componente la superficie oscilla tra i 42 e i 50 mq. La componente abitativa comprende anche la spesa
per il riscaldamento, l’energia, il gas, e la quota di ammortamento dei beni durevoli ( tv a colori,
lavatrice, frigorifero e cucina).
Il fabbisogno energetico è stato definito in base a uno studio condotto dall’Autorità per l’energia elettrica,
distintamente per numero dei componenti e combinazione di applicazione elettriche possedute dalla famiglia. Per
quanto riguarda il riscaldamento, l’ipotesi inizialmente formulata, che voleva tenere conto della zona climatica,
dei gradi giorno, della dimensione dell’abitazione e della normativa in merito, avrebbe richiesto informazioni specifiche e
non sempre disponibili, riguardo ad esempio ai prezzi praticati dalle diverse aziende distributrici o alle
condizioni abitative, in particolare il grado di isolamento delle abitazioni. L’impossibilità di reperire le
informazioni necessarie ha portato ad abbandonare tale ipotesi e a utilizzare i dati dell’indagine sui
consumi delle famiglie distinguendo il fabbisogno in base alla dimensione dell’abitazione, alla tipologia familiare,
all’età dei componenti e alla zona di residenza.
Tutti gli altri fabbisogni, necessari a proteggere le famiglie da forme di esclusione sociale, costituiscono,
come nel vecchio paniere, la componente residuale. Le famiglie devono essere in grado di acquisire il
minimo necessario per arredare e manutenere l’abitazione ( mobili, riparazioni, consumo d’acqua, spese di
condominio, detersivi, ecc), vestirsi, comunicare (spese di telefono), informarsi (giornali), muoversi sul territorio
(abbonamenti autobus, metro, treno), istruirsi (quaderni e zaini) e mantenersi in buona salute. Per la
componente residuale sono stati quindi individuati i singoli beni e servizi atti a soddisfare i suddetti
bisogni essenziali, senza tuttavia definirne le specifiche quantità. Quest’ultimo passaggio sarebbe risultato,
infatti, piuttosto arbitrario in quanto non era possibile fare riferimento a specifiche normative (come, ad
esempio, quella utilizzata per la dimensione congrua dell’abitazione), provvedimenti (come quello
utilizzato per il consumo energetico) o standard scientifici di riferimento (come quelli utilizzati per la
definizione delle diete giornaliere) che permettessero di definire di quante paia di scarpe o di quanti
spostamenti sul territorio si ha bisogno per evitare una condizione di povertà assoluta.
Nel vecchio paniere le spese per istruzione e sanità erano state escluse in quanto si supponeva totalmente a
carico dello Stato; nel nuovo paniere, invece, sono state considerate inserendo, nella componente residuale, i
beni e servizi che, dall’analisi della spesa per consumi, risultano effettivamente a carico della famiglia. Per quanto
concerne la scuola fino alla secondaria superiore, il fabbisogno che la famiglia deve soddisfare con le
proprie risorse si è quindi limitato a quaderni, cancelleria e altro materiale di supporto (come zaini e astucci). Per la
sanità, invece, tenendo anche conto dell’offerta da parte del Servizio sanitario nazionale, sono risultati
effettivamente a carico della famiglia: dentista, ginecologo, medicinali, attrezzature sanitarie e terapeutiche, assistenza a
disabili e anziani.
4.4.2 La valutazione monetaria dei fabbisogni essenziali
Una volta individuati i fabbisogni essenziali se ne è definito il valore monetario utilizzando
principalmente le informazioni sui prezzi al consumo e, laddove non disponibili, quelle relative alla spesa
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 29
per consumi. Nell’assegnare il valore monetario alle componenti del paniere, sulla base del costo di
ciascun bene o servizio, si è tenuto conto di tre aspetti fondamentali:
i) il prezzo dei beni e dei servizi può variare sul mercato a seconda delle loro specifiche
caratteristiche e della varietà dell’offerta;
ii) non tutte le famiglie hanno la stessa opportunità di acquistare allo stesso prezzo, sia per la
differente articolazione dell’offerta sul territorio, sia per la diversa capacità di spostamento
che le caratterizza;
iii) le famiglie con forti vincoli di bilancio acquistano al prezzo più basso a cui sono in grado di
accedere.
Di conseguenza la valutazione del costo delle diverse componenti del paniere è stata ottenuta attraverso
l’individuazione del prezzo “minimo accessibile” per tutte le famiglie – tenendo conto delle caratteristiche
dell’offerta nelle diverse realtà territoriali – e non del prezzo minimo assoluto.
Entrando nel dettaglio delle singole componenti, il valore monetario di quella alimentare è stato
ottenuto creando dapprima una corrispondenza tra gli alimenti inseriti nel paniere e quelli considerati
nella rilevazione dei prezzi al consumo. Il prezzo minimo accessibile, attribuito a ciascun bene, è stato
poi ottenuto, distintamente per le tre ripartizioni geografiche (Nord, Centro, Mezzogiorno), anche
tenendo conto del tipo di distribuzione commerciale (hard discount, distribuzione moderna e tradizionale). Ciò
ha permesso di definire il valore del paniere alimentare per ogni individuo in una determinata classe di età e
ripartizione.
In base alle stime dell’anno 2005 un adulto (18-59 anni), ad esempio, potrebbe ottenere una dieta
minima ma adeguata spendendo 177 euro mensili al nord, 157 al centro e 150 nel mezzogiorno; un
anziano ( più di 75) spenderebbe, invece, 145 euro al nord, 129 al centro e 123 nel mezzogiorno.
Una famiglia di tre componenti adulti potrebbe ottenere una dieta minima ma adeguata spendendo 408
euro mensili al nord, 362 al centro e 346 nel mezzogiorno mentre una di quattro componenti, costituita
sempre da persone adulte, spenderebbe 508 euro mensili al nord, 450 al centro e 431 nel mezzogiorno.
I costi di affitto sono stati stimati attraverso i dati dell’indagine sui consumi delle famiglie, in quanto agli archivi
del servizio prezzi non fornivano, per questa voce, informazioni sufficientemente dettagliate. Per ciascuna classe di
ampiezza abitativa definita in termini di fabbisogno la stima è stata ottenuta, sempre in un’ottica di
prezzo minimo accessibile, per ripartizione geografica e ampiezza del comune di residenza.
Un’abitazione di 30 metri quadri avrebbe un costo, sempre con riferimento al 2005, di 310 euro al nord,
250 al centro e 125 nel mezzogiorno; un’abitazione di 60 metri quadri ( per un nucleo di quattro
componenti) avrebbe un costo di 398 euro al nord, 380 al centro e 250 nel mezzogiorno.
Il valore monetario dei beni durevoli essenziali corrisponde alla quota di ammortamento dei singoli beni,
ottenuta, per ripartizione geografica, come rapporto tra il loro prezzo minimo accessibile, rilevato dalla
rilevazione dei prezzi al consumo, e la loro durata media, sulla base delle stime fornite dalla Mobiliare
assicurazioni e previdenza.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 30
La determinazione della spesa per energia elettrica, relativa ad ogni singola dimensione familiare, è stata
calcolata applicando al fabbisogno energetico le tariffe in vigore nel 2005 47.
Anche per il riscaldamento il valore monetario è stato ottenuto attraverso la spesa per combustibili rilevata
con l’indagine sui consumi delle famiglie. Distintamente per ciascuna ripartizione geografica di residenza e
relativamente alle classi di ampiezza abitativa, la stima ha tenuto conto del numero e dell’età dei componenti.
La spesa residuale dipende fortemente dalle caratteristiche individuali dei componenti della famiglia,
sia nel livello che nella composizione, ed è meno sensibile all’effetto delle economie di scala di quanto
lo siano le spese per l’abitazione, il riscaldamento, le utenze domestiche o l’acquisto di beni durevoli. Di
conseguenza, si è ipotizzato, come nel vecchio paniere, che la componente residuale risenta della
composizione familiare in maniera simile a quella alimentare. Sulla base dell’associazione osservata, a
livello familiare, tra spesa alimentare e spesa residuale, così come rilevate con l’indagine sui consumi
delle famiglie, sono stati stimati dei coefficienti moltiplicativi che, applicati al valore monetario della
componente alimentare, forniscono quello della componente residuale.
Sempre con riferimento al 2005, un single potrebbe spendere, per quell’insieme di beni e servizi inclusi
nella quota residuale, 138 euro mensili al nord, 123 al centro e 118 nel mezzogiorno; una famiglia di tre
componenti adulti potrebbe spendere 317 euro mensili al nord, 283 al centro e 271 nel mezzogiorno
mentre una di quattro componenti, costituita sempre da persone adulte, spenderebbe 398 euro mensili al
nord, 356 al centro e 341 nel mezzogiorno.
4.4.3 La soglia di povertà assoluta e la sua rivalutazione nel tempo
La soglia di povertà assoluta corrisponde al valore monetario del paniere complessivo ottenuto per
somma diretta dei valori monetari delle diverse componenti. Per costruzione, quindi, la soglia di
povertà assoluta varia per tipologia familiare (dimensione ed età dei componenti della famiglia), per
ripartizione geografica e per dimensione del comune di residenza.
Le famiglie con spesa per consumi inferiore o pari al valore della soglia sono classificate come
assolutamente povere. Le soglie di povertà assoluta per gli anni successivi al 2005 sono state stimate
utilizzando appropriati indici dei prezzi. In particolare, data la disaggregazione utilizzata in fase di stima e
diversamente da quanto veniva fatto con il vecchio metodo, la rivalutazione dell’intero paniere è stata
effettuata applicando al valore monetario delle singole voci di spesa la variazione di specifici indici dei prezzi al
consumo. Poiché la dinamica dei prezzi al consumo può essere diversa sul territorio, la rivalutazione di
tutte le voci è stata effettuata distintamente per ripartizione geografica.
Due osservazioni sono importanti in merito all’analisi temporale della povertà assoluta. In primo luogo,
l’identificazione delle aree di bisogno primario, gli specifici beni e servizi da includere in tali aree e i
metodi per la determinazione del valore monetario del nuovo paniere presentano innovazioni di grande
47
Sempre con riferimento al 2005, un single potrebbe spendere di energia annualmente 120 euro, una famiglia di tre
componenti 224 euro ed una di quattro 252 euro; cfr. Istat, op.cit.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 31
rilievo rispetto al metodo usato in precedenza. Ciò interrompe in maniera netta la continuità della serie storica degli
indicatori di povertà assoluta e impedisce che si possano trarre valutazioni sulla dinamica del fenomeno dal
confronto congiunto tra le due serie. In secondo luogo, le ipotesi sottostanti la costruzione di un
paniere di povertà, anche se assoluta, rimangono legate al contesto socioeconomico di riferimento. Esse
riflettono le modalità di erogazione di servizi, come ad esempio quelli sanitari o di istruzione, o la
diffusione di nuovi beni di consumo, come il telefono cellulare. In altre parole, sebbene le aree di
fabbisogno (nutrirsi, abitare, vestirsi, comunicare, muoversi sul territorio, istruirsi, mantenersi in buona
salute) possano essere considerate pressoché invarianti nel tempo, la natura, la qualità e la quantità dei
beni con cui questi possono essere soddisfatti varia sul territorio e nel tempo. In termini pratici,
peraltro, queste considerazioni suggeriscono l’opportunità di procedere alla rivalutazione del paniere nel
tempo verificando però, periodicamente, la validità delle ipotesi sottostanti il calcolo delle soglie di
povertà assoluta.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 32
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Tabella n. 3 Soglie di povertà assoluta per alcune tipologie familiari, anno 2011
(valori approssimati)
Tipologia
familiare
nord centro mezzogiorno
Area
metropolitana
(oltre 250.000
abitanti)
Grandi
comuni
(oltre
50.000
abitanti)
Piccoli
comuni
(meno di
50.000
abitanti)
Area
metropolitana
Grandi
comuni
Piccoli
comuni
Area
metropolitana
Grandi
comuni
Piccoli
comuni
un
componente
18-59 età
784
747
703
758
718
673
581
561
526
due
componenti
18-59
1.082
1.036
985
1.032
984
930
825
802
761
tre
componenti
18-59
1.348
1.295
1.237
1.277
1.222
1.160
1.044
1.018
973
quattro
componenti
18-59
1.623
1.558
1.487
1.534
1.466
1.391
1.259
1.228
1.175
cinque
componenti
18-59
1.872
1.797
1.717
1.764
1.686
1.601
1.456
1.421
1.363
Fonte : Istat, op.cit.
4.4.4 La stima della povertà assoluta nel 2011
L’incidenza della povertà assoluta, a livello nazionale, risulta pari al 5,2% per cento delle famiglie (4,6 nel
2010); in altre parole, il 5,2 per cento delle famiglie residenti in Italia (un milione e 297 famiglie)
presenta un valore di spesa per consumi mensile pari o inferiore al valore delle diverse soglie di povertà
assoluta. Le incidenze si differenziano rispetto alle caratteristiche familiari e alla zona di residenza. In
particolare la povertà assoluta è più diffusa tra le famiglie del Mezzogiorno (8,0 per cento) ( 3,7% per
nord e 4,1% per il centro) e cresce all’aumentare dell’ampiezza familiare, raggiungendo l’12,3 per cento tra le
famiglie di cinque componenti o più. L’analisi per ampiezza può essere approfondita guardando alle
tipologie familiari. Gli anziani soli hanno un tasso superiore (6,8%) al valore medio e quasi doppio di quello
osservato per i single più giovani (3,5 per cento). L’elevata incidenza osservata tra le famiglie più ampie è
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 35
determinata dalla presenza, tra queste, delle coppie con tre o più figli (l’incidenza è pari al 10,4 per cento) e
delle famiglie di altra tipologia, con membri aggregati, dove convivono più di due generazioni (10,4 per
cento).
Tabella n.4
Indicatori di povertà assoluta Anni 2010-2011, migliaia di unità e valori percentuali
Nord Centro Mezzogiorno Italia
2010 2011 2010 2011 2010 2011 2010 2011
Migliaia di unità
famiglie povere 435 454 187 203
534
640
1.156
1.297
famiglie residenti 12.027 12.163 4.932 4.988 7.939 8.014 24.898 25.165
persone povere 982 1.096 539 491
1.608
1.828
3.129
3.415
persone residenti 27.380 27.578 11.823 11.885 20.802 20.824 60.005 60.287
Incidenza della povertà (%)
Famiglie 3,6 3,7 3,8 4,1 6,7 8,0 4,6 5,2
Persone 3,6 4,0 4,6 4,1 7,7 8,8 5,2 5,7
Intensità della povertà (%)
Famiglie 17,2 16,4 17,3 18,4 18,6 18,8 17,8 17,8
Tabella n.5 Incidenza di povertà assoluta per alcune tipologie familiari
2010 2011
Ampiezza della famiglia
1 componente 4,3 5,1
2 componenti 3,6 4,1
3 componenti 4,1 4,7
4 componenti 5,7 5,2
5 o più componenti 10,7 12,3
Tipologia familiare
persona sola con meno di 65 anni 2,8 3,5
persona sola con 65 anni e più 5,7 6,8
coppia con p.r. (a) con meno di 65 anni 1,9 2,6
coppia con p.r. (a) con 65 anni e più 3,8 4,3
Famiglie con figli minori
con 1 figlio minore 3,9 5,7
con 2 figli minori 5,8 5,8
con 3 o più figli minori 11,9 10,9
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 36
4.5 Povertà soggettiva
Con riferimento all’anno 2002, l’Istat stima anche il tasso di povertà soggettiva basata
sull’autopercezione degli intervistati riguardo la loro situazione economica in termini di maggiori o minori
difficoltà nell’acquisto di determinati beni e servizi (beni alimentari, cure mediche, pagamento delle
bollette, ecc). Da quest’indagine48 emerge che la povertà soggettiva è percepita in maniera più
contenuta rispetto alla povertà relativa : il tasso di povertà soggettiva coinvolgerebbe l’ 8,7% delle famiglie
a fronte dell’ 11% riferito sempre all’anno 2002, con una variabilità significativa a livello territoriale nel
senso che al Nord il tasso di povertà soggettiva (7,7%) è maggiore di quello che fa riferimento alla
povertà relativa ( 5,0%) mentre al Centro e soprattutto nel Mezzogiorno il tasso è nettamente inferiore (
12,1 contro il 22,4 nel Mezzogiorno ). La percezione della povertà soggettiva è, anche, correlata
positivamente alla dimensione comunale, raggiungendo il suo valore più elevato nelle metropoli dove il
mantenere uno standard di vita adeguato può essere più costoso per la diversità dei prezzi dei beni e
servizi e per i possibili confronti che si possono stabilire tra gruppi sociali più diversificati.
4.6 Poverissimi
Come si è detto in precedenza, i gruppi sociali più poveri sfuggono alle rilevazioni Istat per una
molteplicità di difficoltà oggettive per cui non si hanno indicazioni quantitative e qualitative su di loro a
valenza nazionale. Solo nell’ottobre 2012 l’Istat rende noti i risultati della prima rilevazione ufficiale sulla
condizione delle persone senza fissa dimora, realizzata a seguito di una convenzione tra l’Istat, il Ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali, la Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora
(fio.PSD) e la Caritas italiana.
La rilevazione ha riguardato le persone che, nei mesi di novembre-dicembre 2011, hanno utilizzato
almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l’indagine.
Sulla base di tale rilevazione le persone in condizione di estremo disagio vengono stimate in 47.648.
Tale stima esclude, tra l’altro, quanti, tra le persone senza dimora, nel mese di rilevazione non hanno
mai mangiato presso una mensa e non hanno mai dormito in una struttura di accoglienza, nonché i
minori, le popolazioni Rom e tutte le persone che, pur non avendo una dimora, sono ospiti, in forma
più o meno temporanea, presso alloggi privati (ad esempio, quelli che ricevono ospitalità da amici,
parenti, ecc.). Chi sono? Quasi il 90% dei senza fissa dimora censiti sono uomini, il 57,9% ha meno di
45 anni e i due terzi hanno la licenza media inferiore. Solo il 28,3% lavora e quasi il 60% è straniero. Tra
gli stranieri, le cittadinanze più diffuse sono la rumena (11,5%), la marocchina (9,1%) e la tunisina
(5,7%). In media gli stranieri sono più giovani degli italiani: il 46,5% ha meno di 35 anni. Il fatto di
essere più giovani si associa per gli stranieri anche con titoli di studio più elevati: il 43,1% ha un diploma
di scuola media superiore (il 9,3% ha una laurea) contro il 23,1% degli italiani. In media le persone
48 Istat 2003, La povertà e l’esclusione sociale nelle regioni italiane, Anno 2002, Roma
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 37
senza dimora dichiarano di trovarsi in questa condizione da 2,5 anni. Quasi i due terzi prima di
diventare senza dimora vivevano nella propria casa, mentre solo il 7,5% non ha mai avuto una casa.
Tra coloro che si sono rivolti a un servizio il 58,5% vive nel Nord, mentre poco più di un quinto
(22,8%) vive al Centro e solo il 18,8% vive nel Mezzogiorno. Le percentuali più elevate osservate al
Nord dipendono dalla maggiore concentrazione dei senza dimora nei grandi centri: il 44% delle persone senza
dimora utilizza servizi con sede a Roma (27,5%) o Milano (il 16,4%).
Il 61,9% delle persone senza dimora è finito in strada dopo aver perso un lavoro stabile, mentre il 59,5%
dopo essersi separato dal coniuge o dai figli.
La crisi, la social card comunale, la povertà estrema
Natale 2008 : bonus da 100 euro per i più poveri a Roma,
Il Comune di Roma ha stanziato un milione di euro per distribuire 10.000 buoni del valore di 100 euro da distribuire agli anziani con 65 anni e più e con un reddito inferiore ai 5.800 euro lordi annui … per l’acquisto di generi alimentari La metà di tali buoni ( 5.000) saranno distribuiti dagli uffici postali , l’altra metà direttamente alle famiglie in stato di disagio economico attraverso la Caritas e la Comunità di S Egidio Il bonus sarà costituito da 4 mini bonus del valore di 25 euro e dovrà essere speso in alcuni supermercati della capitale convenzionati.
27 dicembre 2008 : Roma, rogo in una baracca, madre e figlio morti abbracciati :
Il padre, romeno, era da alcuni anni in Italia e lavorava come manovale; per un paio d’anni era riuscito ad abitare in un appartamento insieme ad alcuni connazionali, poi gli affitti sono aumentati mentre la paga era sempre la stessa e così ha dovuto lasciare l’appartamento ed andare ad abitare in una delle tante baracche che circondano la città; al momento della tragedia era al lavoro e la moglie con il bambino erano venuti solo per qualche giorno, per trascorrere insieme il Natale. Faceva molto freddo quel giorno in quella baracca così la moglie ha acceso un fuoco per riscaldarsi e in un momento è stato l’inferno con fiamme altissime che hanno distrutto la baracca e carbonizzato la madre e il piccolo di tre anni. Il padre voleva solo lavorare e dare un futuro alla moglie e al figlio. Poche ore più tardi si sfiora nuovamente la tragedia in un’altra baracca per un’altra romena con i suoi tre figli; la baracca va in fiamme ma i romeni si salvano.
La social card nazionale e il bonus famiglie povere
A partire da dicembre 2008 viene distribuita la social card, la carta pre pagata ideata dal Ministro dell’Economia G. Tremonti per dare sostegno ai più poveri nell’acquisto di generi di prima necessità: dal primo dicembre saranno consegnate delle tesserine magnetiche e gli interessati, circa un milione, potranno fare le prime spese, a prezzi scontati, con le nuove tesserine. L’operazione è stata approvata dal Parlamento con la manovra finanziaria del luglio 2008 ed ha come fonte di finanziamento l’aumento di tassazione prevista per le Banche e le società petrolifere e con donazioni da parte di grandi enti pubblici come l’Eni e l’Enel. La platea degli aventi diritto sarà individuata dall’INPS, occorrerà avere più di 65 anni o essere un nucleo con figli di età inferiore ai tre anni, un reddito inferiore ai 6.000 euro annui ( 8.000 per gli anziani di età pari o superiore ai 70 anni) ed appartenere alla categoria degli incapienti avere cioè un reddito talmente basso che non può essere raggiunto da sconti o deduzioni fiscali. Inoltre occorrerà avere una sola autovettura ed un Isee inferiore ai 6.000 euro, dal modello Isee non devono emergere seconde case o un patrimonio mobiliare superiore ai 15.000 euro. In presenza dei requisiti richiesti l’Inps (prevalentemente per gli anziani pensionati) invierà a domicilio la carta che non avrà impresso il nome del
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beneficiario (per il rispetto della privacy) ma un codice. Ogni carta sarà caricata per 480 euro all’anno per beneficiario (costo dell’operazione 480 milioni se i beneficiari raggiungeranno il milione); per l’anno 2010 tutto dipenderà dalle risorse che affluiranno sull’apposito “Fondo per il finanziamento della carta”. Benefici aggiuntivi : sconti sulle tariffe del gas e della luce e sconti del 20% sugli acquisti effettuati con la carta in strutture convenzionate con il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Un marchingegno complicato, nella misura in cui riguarda prevalentemente persone anziane e povere (pensionati sociali), e costoso, in termini di costi amministrativi per il gestore e per il beneficiario, che poteva essere sostituito con strumenti più semplici come, ad esempio, un bonus una tantum da inserire nella pensione di dicembre come era già avvenuto in passato (una sorta di 14esima mensilità) oppure con un aumento duraturo della pensione una volta preso atto delle difficoltà che possono incontrare gli anziani o le famiglie con figli minori a vivere con meno di 600 euro al mese. Accanto alla social card il decreto legge 185 del 29 novembre 2008 ha anche stabilito di erogare un bonus famiglia
alle famiglie povere che verrà versato in un’unica somma all’inizio del 2009 ed avrà un importo variabile dai 200 ai
1.000 euro a seconda della composizione del nucleo familiare e del reddito complessivo Irpef (si stima un costo pari a
circa due miliardi di euro).
5. La povertà relativa in Europa
Nella definizione comunitaria un individuo è considerato povero ( o è a rischio di povertà, come si
preferisce sostenere oggi a livello europeo) se ha un reddito equivalente inferiore al 60% di quello mediano
nazionale equivalente 49.
L’indicatore di povertà comunitario è, quindi, diverso da quello adottato nel nostro paese, perché:
1. Si basa sui redditi invece che sulla spesa per consumi;
2. utilizza una diversa scala di equivalenza, la così detta. scala OCSE modificata, che a differenza della
scala di equivalenza Carbonaro differenzia i pesi a seconda dell’età dei componenti il nucleo familiare
(1 al primo adulto, 0,5 agli altri, 0,3 ai minori di 14 anni);
3. pone la soglia al 60% della mediana dei redditi familiari equivalenti ( poiché le distribuzioni dei redditi
sono usualmente asimmetriche a sinistra, il valore mediano è inferiore al valore medio e, quindi, indicare il 60%
del valore mediano corrisponde, grossomodo, al 50% del valore medio), invece che al 60% della spesa
per consumi medi pro-capite (per una famiglia di una persona) come avviene secondo la metodologia
nazionale
4. calcola l’incidenza della povertà sugli individui, a differenza di quanto accade in Italia ove il
riferimento è, prevalentemente, ai nuclei familiari.
Queste differenze metodologiche si riflettono, ovviamente, nella quantificazione del fenomeno dando,
ad esempio e con riferimento al nostro paese, quote di individui in povertà che oscillano tra il 19 e il 20%
contro l’ 11 – 13% stimato con riferimento alle spese per consumi.
In base alle più recenti stime ( che risalgono al 2010) 50 il 16,4% della popolazione vive a rischio
di povertà; presentano ( anche se occorre sottolineare la difficoltà nelle stime e nella confrontabilità dei
dati) quote inferiori al valore medio i Paesi Nordici e Continentali; valori superiori l’Italia (18,2% della 49
La distribuzione familiare dei redditi viene tradotta ( con coefficienti di correzione legati alla scala di equivalenza) in distribuzione familiare equivalente e, quindi, in distribuzione dei redditi equivalenti individuali. Partendo da tale distribuzione si calcola il reddito mediano individuale equivalente; il 60% di tale valore viene, quindi, a rappresentare la soglia di povertà per l’individuo. 50 CIES, Commissione d’Indagine sull’esclusione sociale, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, Anno2011, Roma 2012.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 39
popolazione), Grecia (20,1 per cento), Spagna (20,7 per cento), Portogallo (17,9 per cento) e Polonia
(17,6 per cento) ( vedi tavola 3.1 di fonte Commissione d’Indagine sull’esclusione sociale).
Accanto alle persone a rischio di povertà, l’Eurostat stima anche il numero di persone in grave
deprivazione materiale e il numero di persone che vivono all’interno di nuclei familiari fortemente
caratterizzati dalla sottoccupazione. Le persone in grave deprivazione materiale sono persone che non possono
permettersi beni considerati essenziali per condurre una vita dignitosa in Europa e sono coloro che
dichiarano almeno quattro deprivazioni su nove tra: 1) non riuscire a sostenere spese impreviste, 2) avere
arretrati nei pagamenti (mutuo, affitto, bollette, debiti diversi dal mutuo); non potersi permettere 3) una
settimana di ferie lontano da casa in un anno 4) un pasto adeguato (proteico) almeno ogni due giorni, 5)
di riscaldare adeguatamente l’abitazione; non potersi permettere l’acquisto di 6) una lavatrice, 7) un
televisione a colori, 8) un telefono o 9) un’automobile.
Le persone che vivono all’interno di nuclei familiari fortemente caratterizzati dalla sottoccupazione sono
coloro che vivono in famiglie in cui nessuno lavora - o in cui i membri della famiglia lavorano molto
poco - ma che non necessariamente percepiscono un reddito molto basso.
Dalla sintesi dei tre indicatori deriva un quarto indicatore dato dalla quota di persone a rischio di povertà o
esclusione, che cioè sperimentano almeno una delle situazioni individuate dai tre indicatori precedenti.
Considerando questo quarto indicatore l’Eurostat stima, sempre con riferimento all’anno 2010, in 23,4% la
quota di individui collocati in famiglie a rischio di povertà o esclusione sociale come media UE a 27
paesi (115 milioni di europei) . Anche in questo caso l’Italia presenta un valore (24,5% della
popolazione, pari a 14,7 milioni di individui) più elevato della media europea; livelli superiori a quello
italiano caratterizzano Grecia (27,7 per cento), Polonia (27,8 per cento) e Portogallo (25,3 per cento), ad
esempio. Valori inferiori al valore medio si riscontrano nei Paesi Nordici e Continentali 51 ( Svezia
15,0%, Danimarca 18,3%, Francia 19,3, Germania 19,7, ecc)( ( vedi tavola 3.1).
Il rischio di povertà tende ad essere significativamente più elevato per i disoccupati (in mancanza
di un sostegno adeguato le persone che rimangono a lungo disoccupate tendono a perdere le loro
competenze ed ad avere minori probabilità di rientrare nel mercato del lavoro), per gli immigrati (essere
occupati in posti di lavoro insicuri, a bassa qualità e scarsamente retribuiti può portare ad una povertà
persistente), per le famiglie monoparentali (soprattutto con capofamiglia donna), per gli anziani che vivono
da soli (soprattutto donne), per le famiglie numerose con figli minori.52
51
Cfr. CIES, Commissione d’Indagine sull’esclusione sociale, op.cit. pag.96. 52
In alcuni paesi, come Danimarca e Paesi Bassi, la quota di giovani tra i 16 e i 24 anni in condizioni di povertà è particolarmente elevata e ciò dipende dal fatto che, in questi paesi, molti giovani lasciano la loro famiglia di origine prima di aver raggiunto una posizione stabile nel mercato del lavoro.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 40
6. Le politiche possibili
Le politiche di contrasto alla povertà relativa ed assoluta dovrebbero essere portate avanti lungo
due direttrici : una macro ed una micro. A livello macro occorre, come sostiene, tra l’altro e come
vedremo la Comunità Europea, un grande sforzo di coordinamento tra le politiche per l’occupazione (
incremento del tasso di occupazione delle donne, dei giovani e degli anziani, per rafforzare il reddito
familiare), per la formazione ( per evitare il formarsi di disoccupati di lungo periodo e/o per ampliare i
caratteri dell’occupabilità ) e per la riduzione del carico fiscale che grava sui lavoratori a bassa qualifica (
politica fiscale selettiva per garantire una retribuzione netta adeguata ai lavoratori con bassi salari ) e sulle
famiglie numerose; per le persone impossibilitate a svolgere un’attività lavorativa, una politica nazionale
di reddito minimo, presente in tutti i paesi europei tranne che in Italia e in Grecia.
A livello micro occorrono interventi coordinati a livello locale affinché ci sia un’adeguata offerta di
servizi sociali per gli anziani (dall’assistenza domiciliare53, alla predisposizione di centri diurni di
assistenza, di day hospital, di centri residenziali, di case di riposo, ecc) e per i bambini ( asili nido54,
centri diurni, centri estivi, ecc ), quali strumenti di integrazione del reddito (individuale e familiare) e pre-
condizioni, per le donne con figli, di accesso al mercato del lavoro con effetti positivi sul reddito
familiare. In altri termini, il reddito e il benessere generale dei diversi segmenti di popolazione che
costituiscono l’aggregato povertà possono essere significativamente migliorati offrendo loro un’ efficace
ed efficiente struttura di servizi sociali dall’istruzione, alla sanità, all’edilizia pubblica.
Nulla di più e di diverso da quanto prospettato nel lontano 1942 da Beveridge (vedi terzo
modulo).
Naturalmente il mercato potrebbe non essere in grado di assicurare un occupazione per tutti
coloro disposti a lavorare ed allora dovrebbe essere lo Stato, e per lui l’ente locale, a fungere da datore
di lavoro di ultima istanza se ci si vuole muovere verso una politica sociale attiva e non assistenziale in cui
l’intervento dello Stato, nell’erogare un sussidio limitato dalla disponibilità delle risorse pubbliche (è
sufficiente riflettere sulla social card di questi anni), non farebbe che istituzionalizzare la povertà, al di là
degli ulteriori effetti negativi che possono essere vissuti dagli individui e dalle famiglie che verrebbero di
fatto escluse dalla vita politica e sociale del paese. Come si sosteneva, ad esempio, nel primo rapporto
sulla povertà in Italia, nel lontano 1985 e con riferimento alle opportunità di lavoro che si possono
ideare a livello locale, : “non si tratta di scavare buche e poi di riempirle, ma di procedere a una
modernizzazione infrastrutturale del paese mobilitando, a costi sostenibili per il bilancio pubblico,
53
Secondo dati Istat (Rapporto sulla Situazione del Paese, 2011)gli anziani assistiti a domicilio, seppure aumentati in valore assoluto, sono rimasti una quota costante, pari solo all’1,6 per cento della popolazione totale di ultra sessantaquattrenni. 54
Sempre secondo dati Istat (Rapporto sulla Situazione del Paese, 2011, pag.203), e nonostante gli sforzi compiuti dai vari livelli istituzionali per incrementare i servizi per la prima infanzia, la quota di domanda soddisfatta è ancora molto limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: la percentuale di iscritti agli asili nido pubblici sui bambini residenti fra zero e due anni è passata dal 9,0 per cento nel 2004 all’ 11,3 nel 2009 contro il 33% fissato come obiettivo dalla Comunità Europea.
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Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 42
quelle risorse che altrimenti rimarrebbero inoperose. Assetto del territorio e ricerca di una sua maggiore
produttività, protezione dell’ambiente, strutture urbane e metropolitane, trasporti, turismo, edilizia
abitativa, riorganizzazione dei servizi forniti dallo Stato e dagli enti locali, sono i molteplici campi in cui
l’esercito dei disoccupati può trovare utilizzi temporanei. . . »55 .
Da allora ad oggi la situazione non è molto diversa e la stampa quotidiana ne offre drammatiche
esemplificazioni giorno dopo giorno che vanno dai barboni che continuano a morire per freddo ai
primi freddi di stagione, alle difficoltà di trovare alloggi accessibili ai lavoratori a reddito medio - basso,
ai giovani che vorrebbero poter uscire dalla casa di famiglia; di trovare disponibilità di case di riposo per
anziani non autosufficienti o, anche, parzialmente autosufficienti, di nidi pubblici, di strutture di
socializzazione per giovani, alle lunghe liste di attesa per gli interventi nel campo della salute, per
l’assistenza domiciliare, e così via. Si tratterebbe, in altri termini, di avviare una sorta di Piano Marshall
in campo sociale così come è stato attuato negli Usa sul finire degli anni cinquanta e come rivendicano,
da alcuni anni, i sindaci delle metropoli americane e di alcune grandi città del nostro paese per impedire
il degrado urbano e il consolidarsi delle profonde fratture sociali e civili all’interno della comunità.
Certo, in tempi di manovre fiscali restrittive, muoversi in questa direzione potrebbe apparire un’utopia
ma potrebbe anche non essere un’utopia se gli interventi fossero considerati come investimenti per la
crescita, per la crescita di un Paese non solo più efficiente ma anche più solidale.
In conclusione, le politiche nazionali, comunque definite e sempre più coordinate a livello
europeo, andrebbero ulteriormente integrate, coordinate e gestite a livello locale e ciò consentirebbe,
anche, una conoscenza del fenomeno povertà meno approssimativo e più puntuale rispetto a quello che
si coglie nelle elaborazioni che fanno riferimento ad indagini che hanno obiettivi diversi come quello
della rilevazione delle spese per consumi delle famiglie e/o che in ogni caso non sarebbero in grado di
cogliere gli aspetti e le situazioni di più grave disagio (i poverissimi).
7. La strategia europea di lotta alla povertà
Nelle sue linee essenziali la strategia europea comune di lotta alla povertà non è diversa da quella appena
ipotizzata e prevede sette priorità::
1. aumentare la partecipazione degli individui al mercato del lavoro, considerando l’occupazione
come fattore chiave per l’inclusione sociale, per avere un adeguato standard di vita e per maturare i
benefici previdenziali per una serena vecchiaia;
2. modernizzare il sistema di protezione sociale : assicurare a tutti l’accesso alle prestazioni sociali
senza disincentivare il lavoro;
55
Presidenza del Consiglio dei Ministri 1987, op.cit.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 43
3. eliminare gli svantaggi nell’istruzione e nella formazione: prevenire gli abbandoni scolastici,
facilitare la transizione dalla scuola al mercato del lavoro, sostenere i gruppi più deboli (gli
immigrati, ad esempio), promuovere la formazione continua, e così via;
4. combattere la povertà dei bambini : i bambini inseriti in nuclei familiari poveri hanno,
naturalmente, una più alta probabilità di permanere in una condizione di povertà per bassi livelli
di formazione e, quindi, per una più alta probabilità a rimanere disoccupati o accedere a lavori
di bassi salari;
5. assicurare abitazioni consone : in diversi Paesi membri il fenomeno dei “senza fissa dimora” è
ancora molto diffuso; più in generale, occorre che l’edilizia pubblica torni ad occuparsi dei
gruppi più vulnerabili;
6. migliorare l’accesso ai servizi : accesso alla salute, alle cure di lungo termine (anziani), ai servizi
sociali, ai trasporti, ecc;
7. vincere la discriminazione e aumentare l’integrazione delle persone disabili, delle minoranze
etniche (rom) e degli immigrati.
Questa strategia comune è, quindi, inserita nei NAP/inclusivi 56 di ciascun Stato Membro e,
naturalmente, nelle sue specificità varia da Stato a Stato per tener conto delle condizioni iniziali e del
sistema di welfare presente. La Danimarca, ad esempio, concentra la sua politica di lotta alla povertà
sulla componente “immigrati”; il Portogallo sull’eliminazione della povertà infantile e nel potenziare
l’edilizia popolare per consentire la disponibilità di un alloggio a coloro che vivono in baracche (80.000
individui) nelle aree urbane e suburbane; il Regno Unito sull’eliminazione della povertà infantile e sul
risanamento dei quartieri problematici , e così via. Per quanto riguarda l’Italia, ci si è impegnati, ad
incentivare la partecipazione al mercato del lavoro delle persone gravemente disabili, dei disoccupati di
lungo periodo, dei lavoratori con età superiore ai 50 anni e delle donne residenti in aree dove il tasso di
disoccupazione è particolarmente elevato (mezzogiorno).
Nell’incontro del 7 marzo 2011, i capi di Stato o di governo dell’UE si sono impegnati a
sottrarre almeno 20 milioni ( su 80) di persone al rischio di povertà ed esclusione sociale entro il 2020.
(Strategia Europa 2020).
Con quali strumenti? Con un “ rapido ritorno alla crescita e politiche ben concepite in tema di
occupazione e istruzione57. Le politiche occupazionali dovranno garantire una “retribuzione dignitosa” a chi ha
un impiego, per contrastare la povertà tra coloro che comunque hanno già un lavoro ed aiutare i
giovani e le donne ad accedere al mercato del lavoro. Poiché le persone poco qualificate hanno un tasso
di povertà superiore al valore medio, le politiche in campo dell’istruzione dovranno essere in grado di
interrompere la trasmissione intergenerazionale della povertà ( tra gli 80 milioni di persone a rischio di 56 La strategia di Lisbona del 2000 prevedeva che ciascun Paese Membro redigesse un NAP (National Action Plans) ( Piano Nazionale d’azione) triennale per l’inclusione sociale per contrastare la povertà . 57
Cfr. Comitato per la protezione sociale, 2011, op.cit.
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povertà ben 25 milioni sono bambini) e garantire l’accesso all’apprendimento permanente. E’ anche
essenziale assicurare servizi socio-sanitari di elevata qualità per prevenire l’esclusione sociale.
Un’attenzione particolare andrebbe rivolta a coloro che vivono situazioni di esclusione abitativa ( i senza
fissa dimora, gli immigrati, i rom, ecc).
8. Reddito Minimo e Reddito Minimo di Inserimento
8.1 Premessa
Il reddito minimo d’inserimento (RMI)58, quale strumento di contrasto della povertà e
fortemente auspicato dalla Comunità Europea fin dal 1984, è una forma di sostegno alle famiglie che
versano in gravi condizioni economiche e viene erogato, a differenza di un reddito minimo tout court, a
fronte di un impegno da parte di chi lo riceve a seguire corsi di qualificazione, di inserimento
professionale e sociale, scolastico, in lavori di utilità sociale, e così via. È una misura di assistenza attiva
(orientata cioè a impegnare e valorizzare le risorse individuali e familiari degli interessati su obiettivi e
attività con loro concordate) che prevede un’integrazione al reddito per le persone che, per qualunque
ragione, si trovano al di sotto della soglia di povertà ed è accompagnata da un progetto di reinserimento sociale.
Il Reddito Minimo d’Inserimento è stato introdotto nel nostro Paese in forma sperimentale nella
Finanziaria del 1998; lo scopo della sperimentazione era verificare le condizioni di fattibilità finanziaria
ed organizzativa del nuovo istituto; la Legge Finanziaria 2001 ha ulteriormente allargato, per il biennio
2001-2002, il numero dei Comuni in cui era possibile sperimentare il RMI. Il “Patto per l’Italia” stipulato
tra il nuovo governo (Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi) e i sindacati (con l’eccezione della CGIL)
nel luglio 2002, blocca la sperimentazione affermando, al paragrafo 27, che “la sperimentazione
biennale 1998-2000 ha consentito di verificare l’impraticabilità di individuare, attraverso la legge dello
Stato, soggetti aventi diritto ad entrare in questa rete di sicurezza sociale”. Appare, perciò, preferibile
realizzare una nuova forma di reddito minimo ed una nuova forma di finanziamento dell’istituto
responsabilizzando le regioni; in tal senso lo Stato potrebbe cofinanziare, con una quota delle risorse del
Fondo per le Politiche Sociali, programmi regionali finalizzati a garantire un reddito essenziale ai cittadini
non assistiti da altre misure di integrazione del reddito. Come conseguenza si pone fine alla
sperimentazione (legge finanziaria 2004); si modifica l’istituto stesso trasformandolo in Reddito
Minimo di ultima istanza inteso quale “strumento di accompagnamento economico ai programmi di
inserimento sociale destinato ai nuclei familiari a rischio di esclusione sociale e i cui componenti non
siano beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti privi di lavoro”.
58
Il reddito minimo o il reddito minimo d’inserimento o il reddito minimo garantito sono strumenti di politica assistenziale (sono soggetti alla prova dei mezzi ed intervengono ex-post) ed hanno una finalità diversa dal reddito di cittadinanza o basic income che dovrebbe essere (esiste solo in Alaska) una misura universale ed incondizionata (diretta, cioè, a tutti) che opera ex-ante per migliorare la distribuzione del reddito e dare maggiore fluidità al mercato del lavoro.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 45
La sua istituzione viene lasciata alle Regioni (con la modifica al titolo V della Costituzione,
legge costituzionale n.3 del 2001, la totale competenza sulle attività sociali viene trasferita alle Regioni
)59 mentre lo Stato si limita a co-finanziarla.
Dell’istituto del RMI del 1998 si riprendono alcuni aspetti d’interesse poiché, nel frattempo,
diverse Regioni hanno sperimentato l’introduzione di tale istituto (dalla Campania60, al Lazio61,
all’Abruzzo, ecc) anche se si assiste a mutamenti radicali nei passaggi governativi; giunte di centro
sinistra possono introdurre il reddito minimo così come giunte di centro destra possono farlo decadere
(vedi l’esperienza della regione Lazio o anche della Campania) con un enorme spreco di risorse
materiali ed immateriali.
8.2 Il Reddito Minimo d’Inserimento (RMI) del 1998
La legge Finanziaria del 1998 ed il successivo decreto legislativo 237 del 18 giugno 1998 avviano
la sperimentazione del RMI in 39 Comuni diffusi su tutto il territorio nazionale (cinque nel Nord, dieci
nel Centro e ben ventiquattro nel Mezzogiorno)(vedi tabella); i comuni sono stati individuati dall’Istat
attraverso complesse elaborazioni predisposte ad hoc in cui si è cercato di sintetizzare le situazioni di
povertà attraverso un insieme di 21 indicatori, ritenuti i più idonei ad individuare i comuni che
presumibilmente presentavano elevati fenomeni di marginalità. Alcuni indicatori tendevano a
rappresentare il disagio di tipo lavorativo (come, ad es., il tasso di disoccupazione giovanile o quello
generale dell’area; il tasso di attività; il tasso di occupazione per specifici gruppi di età; la quota di
occupati in agricoltura; ecc.), altri, difficoltà di tipo abitativo (tasso di affollamento, percentuale di
abitazioni con servizi igenici non adeguati), altri, problematiche di tipo demografico - sociale (percentuale
di anziani soli, numero di figli affidati (a causa di separazione o divorzi), rapportati alla popolazione,
altri, il disagio economico (quota di pensionati sociali sulla popolazione anziana, importo medio delle
pensioni di vecchiaia, di invalidità, ecc), altri ancora emergenze di tipo criminale (tasso di delittuosità,
delinquenza minorile) e così via.
Il RMI era destinato ai cittadini italiani, ai cittadini comunitari residenti da almeno 12 mesi in
uno dei comuni ammessi alla sperimentazione e ai cittadini extra comunitari residenti legalmente da
almeno tre anni in uno dei comuni ammessi alla sperimentazione. 59 Allo stato attuale non è semplice individuare in modo univoco l’attribuzione della sfera di competenze tra Stato e Regioni in tema di reddito minimo poichè la materia denominata “servizi sociali” o “assistenza sociale”, non menzionata nell’art. 117 della nostra Costituzione, deve considerarsi ormai attribuita per intero alla competenza regionale, ma accanto a questo va considerata la prima parte della Costituzione, in riferimento all’art. 38, che è rimasto immutato dopo la modifica del Titolo V, secondo il quale gli strumenti previdenziali e assistenziali devono essere erogati tramite “organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”; questo evidenzia un possibile sdoppiamento di competenze ma rimane una questione quanto meno confusa. 60La Regione Campania ha introdotto, con la Legge Regionale n. 2 del 19 febbraio 2004, il reddito di cittadinanza per il triennio 2004-2006 per promuovere e garantire la qualità della vita ed il rispetto dei diritti di cittadinanza. La sperimentazione ha avuto termine nel 2010 61 Cfr L.R. 20 marzo 2009, n.4 “Istituzione del reddito minimo garantito. Sostegno al reddito per disoccupati, inoccupati, precari”; sperimentazione che si conclude nel 2011.
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Tabella Comuni e nuclei della sperimentazione
Comuni
Dati al 31/12/2000
Totale nuclei in
carico al 31/12/2000
Cologno Monsese 124 Genova (Volti/Pra) 325 Nichelino 232 Rovigo 137 Alatri 258 Canepina 18 Civita C.na 131 Corchiano 18 Gallese 20 Massa 543 Monterosi 14 Onano 12 Agira 364 Bernalda 211 Caserta 1.476 Catenanuova 160 Centuripe 150 Cutro 1.106 Foggia 2.649 Grassano 130 Isernia 202 Isola di Capo Rizzuto n.d. L'Aquila 607 Leonforte 623 Napoli 3.695 Nardodipace 60 Oristano 527 Orta di Atella 1.768 Reggio Calabria 1.313 S. Giov. in Fiore 1.095 S. Nicolò d'Arcidano 40 Sassari 726
Fonte : IRS, Fondazione Zancan, Cles 2001
Infine, condizione necessaria per poter accedere al RMI, era che il potenziale destinatario fosse privo di
reddito o comunque con un reddito non superiore a determinate soglie di povertà (vedi tabella ). La
sperimentazione era biennale e riguardava gli anni 1999-2000; per la prima volta veniva stabilito anche il
principio della valutazione affidata (tramite gara pubblica) ad istituti indipendenti (hanno vinto la gara
l’Istituto per la Ricerca sociale (IRS) di Milano, il Centro Studi e Formazione sociale Fondazione
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Zancan di Padova e il Centro di ricerche e studi sui problemi del Lavoro, dell’Economia e dello
Sviluppo (CLES) di Roma).
.
Tabella n.2 Soglie di accesso al RMI in euro
Numero
Componenti
Nucleo
Familiare
Scala
d’equivalenza
RMI
RMI
RMI
Anno
1998
Anno
1999
Anno
2000
1 1 258,2 263,4 268,6
2 1,57 405,4 413,5 421,6
3 2,04 526,7 537,3 547,9
4 2,46 635,2 647,9 660,7
5 2,85 735,9 750,7 765,4
Novità introdotte dal RMI
Le novità introdotte da questo nuovo istituto possono essere così sintetizzate 62:
♦ superamento delle vecchie logiche dell’assistenza economica discrezionale e frammentata attraverso il
riconoscimento di un diritto universale a condizioni minime di sussistenza, nel senso che ne potevano
usufruire tutti coloro che si trovavano in condizioni economiche disagiate;
♦ realizzazione di una politica di lotta alla povertà e all’ esclusione sociale non più passiva (erogazione di
un reddito minimo) bensì attiva orientata cioè a impegnare e valorizzare le risorse individuali e familiari
degli interessati, predisponendo specifici programmi di inserimento sociale, in linea, tra l’altro, con la
tendenza presente nell’UE in termini di sviluppo di politiche sociali attive;
♦ introduzione di uno strumento di lotta alla povertà indipendente dalla posizione lavorativa e non del
beneficiario.
Programmi di inserimento (situazione al 31 dicembre 2000)
62
Cfr. IRS, Fondazione Zancan, Cles 2001
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 48
Come si è detto, la peculiarità del nuovo istituto era nella definizione di programmi individuali di
inserimento socio-economico; una prima considerazione riguarda la quota di inseriti sul totale
beneficiari : se ci si concentra sulle macroregioni (Nord, Centro, Sud e isole), la quota di inseriti sul
totale beneficiari si riduce passando dal Nord al Sud. Le diversità possono essere spiegate dai diversi
contesti che caratterizzavano i 39 Comuni oggetto della sperimentazione; in generale i Comuni con una
tradizione di intervento sociale più consolidata ed articolata (soprattutto quelli del Nord) sono risultati
avvantaggiati nell’opera di organizzazione e innovazione che la sperimentazione aveva comportato; al
contrario, per i Comuni con interventi minimi e sporadici, il RMI ha determinato un lavoro enorme in
termini organizzativi, con risultati non sempre apprezzabili. Una seconda considerazione fa riferimento
alle caratteristiche dei programmi d’inserimento che si potevano distinguere in:
1. programmi di integrazione socio-relazionale;
2. programmi di cura e sostegno intra familiare;
3. programmi di tipo formativo;
4. programmi di inserimento lavorativo;
5. programmi di pubblica utilità.
I Programmi di integrazione socio-relazionale sono stati quelli a maggiore diffusione avendo coinvolto 8.783
individui; obiettivi comuni erano l’inserimento sociale, il senso di appartenenza comunitario dei
beneficiari e quello di offrire ad essi e alle loro famiglie la possibilità di poter utilizzare le risorse del
territorio in grado di soddisfare le esigenze socio-relazionali dei nuclei e dei singoli individui. A questo
fine sono state realizzate le seguenti attività: inserimenti in associazioni di volontariato, cooperative
sociali, parrocchie e comunità terapeutiche. All’interno di queste attività, i beneficiari erano chiamati a
svolgere diverse mansioni: manutenzione degli impianti, cura del verde e delle attrezzature, attività di
segreteria e così via.
Programmi di cura e sostegno interfamiliare; questi programmi hanno coinvolto 7.351 persone, con un
duplice scopo:
♦ contenimento e riduzione del danno per le famiglie multiproblematiche attraverso l’incoraggiamento
alla cura del nucleo familiare, alla cura della salute, della vita scolastica dei minori, al rientro nella legalità
tramite il pagamento di morosità esistenti ( 187 interventi hanno riguardato proprio quest’ultima voce);
♦ socializzazione per prevenire lo sviluppo di opportunità negative: cure della vita familiare,
doposcuola, attività sportive per i bambini; recupero dell’obbligo scolastico per adolescenti e adulti,
inserimento in comunità per tossicodipendenti, assistenza legale per separazioni o per la chiusura di
procedimenti pendenti, sviluppo di servizi di prossimità sul modello degli asili condominiali.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 49
Programmi di tipo formativo; all’interno di questo gruppo si trova un insieme estremamente diverso di
progetti che spaziano dalla formazione/riqualificazione professionale alla formazione culturale e di
animazione del tempo libero. Parte delle difficoltà incontrate nella realizzazione di questi progetti, sono
legate all’assenza di agenzie e operatori professionalmente competenti a lavorare con soggetti adulti che
vanno adeguatamente e attivamente accompagnati e sostenuti. Diverso è il caso della formazione
scolastica, soprattutto quella che riguarda i minori; l’incentivazione alla frequenza scolastica era tra gli
obiettivi di integrazione del RMI, anche come misura di prevenzione dall’esclusione sociale delle
generazioni più giovani. Gli sforzi in questo senso sono stati rivolti soprattutto alle grandi città del
Mezzogiorno con l’effetto positivo di ridurre l’evasione scolastica e di sollecitare i genitori non solo ad
investire nell’istruzione dei propri figli, ma anche nella propria. Spesso però queste richieste si sono
dovute scontrare con una mancata accoglienza da parte delle istituzioni scolastiche a ciò preposte. I
risultati ottenuti relativamente al recupero scolastico possono essere così sintetizzati: 2.344 beneficiari
hanno conseguito il diploma scolastico, di cui 59 residenti nel Nord, 28 nel Centro e i rimanenti 2.257
nel Sud e nelle isole. Una verifica successiva porterebbe sicuramente ad un aumento considerevole degli
esiti positivi raggiunti: alla fine di dicembre 2000, più di 900 persone erano ancora coinvolte in attività
di recupero scolastico. Il diploma professionale è stato invece conseguito da 3.588 individui, di cui 101
residenti nel Nord, 43 nel Centro e 3.444 nel Sud e nelle isole.
Programmi di inserimento lavorativo; la quota delle attività di inserimento lavorativo è relativamente bassa (
14,9%). Questo dato è la conferma del fatto che il RMI non è una politica del lavoro e che inoltre le
condizioni del mercato del lavoro locale, la presenza e disponibilità di attori economici quali imprese ed
associazioni imprenditoriali giocano un ruolo fondamentale nel favorire lo sbocco lavorativo. Quasi 900
individui hanno trovato un’occupazione; si tratta del 16% di coloro che hanno seguito programmi di tipo
occupazionale. Il positivo sbocco lavorativo è presente sempre al Nord, per poi diradarsi via via
scendendo al Sud. Non a caso, le testimonianze degli operatori sull’effettivo grado di riuscita del RMI
nel determinare nuova occupazione sono assai diversificate tra comuni del Nord e comuni del Sud. In
modo particolare in Sicilia, in Calabria e in altri Comuni del meridione, gli operatori affermano che non
sempre vi è una correlazione tra RMI e il fatto di trovare un’occupazione; contemporaneamente,
operatori comunali del Nord affermano che non si può negare che l’inserimento dei soggetti
svantaggiati in un percorso di promozione sociale possa avere quantomeno determinato una spirale
positiva in termini di motivazione alla ricerca di una forma di occupazione e una maggiore attenzione
alle opportunità provenienti dal mercato del lavoro. Infine, all’interno dei programmi lavorativi, è il
caso di citare alcuni progetti che si pongono come obiettivo finale la creazione di imprese, di
cooperative o di altre forme di lavoro autonomo. Per esempio, a L’Aquila un progetto rivolto a donne
capo famiglia è indirizzato alla costituzione di una cooperativa per garantire il servizio di assistenza degli
anziani; a Caserta, è previsto l’accesso al prestito d’onore per l’acquisizione di licenze di commercio.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 50
Programmi di pubblica utilità; un ruolo importante è stato svolto dai programmi di pubblica utilità;
l’inserimento dei beneficiari in questo tipo di programmi è avvenuto in particolare nei Comuni situati
nel Sud d’Italia. Le attività svolte sono molteplici e vanno dalla manutenzione del verde al recupero di
quartieri degradati, alla vigilanza presso parchi, giardini, ecc. Non mancano attività a carattere culturale
come, ad esempio, il recupero di beni culturali e la raccolta di dati censuari. Infine, i beneficiari sono
stati impiegati all’interno degli uffici pubblici in attività di centralino, ricevimento dell’utenza e così via.
Modelli di circoli virtuosi sono dati dall’impiego di alcuni beneficiari di RMI per favorire risposte ai
bisogni di altri beneficiari; presso alcune amministrazioni comunali, ad esempio, i beneficiari sono stati
utilizzati dai comuni in attività di “mutuo aiuto” a favore di altri nuclei familiari in carico, in base alle
loro disponibilità, competenze e capacità professionali. Le attività svolte riguardano soprattutto
l’intrattenimento dei bambini, il doposcuola, l’accompagnamento, corsi di recupero della scolarità
perduta, ecc. Ciò ha innescato un doppio processo di riconoscimento e integrazione sociale: i
beneficiari sono stati riconosciuti come soggetti attivi e competenti, prevenendo o sanando fenomeni di
isolamento; si tratta di effetti positivi come recupero di dignità, di autostima, di capacità di rimettersi in
gioco che non emergono direttamente dai dati.
Tassi di uscita dal RMI; altro aspetto d’interesse riguarda la consistenza dei nuclei/individui in uscita
dalla misura del RMI; a fine dicembre 2001, circa il 10% dei nuclei beneficiari di RMI sono usciti dalla
misura, la quota relativamente poco elevata può non sorprendere poiché il RMI seleziona individui e
famiglie caratterizzati da grave deprivazione economica e generalmente con ridotto capitale sociale.
Le uscite possono essere il risultato di tre processi diversi:
1. superamento della condizione di bisogno;
2. abbandono dei programmi di inserimento;
3 altro motivo (cambio di residenza, decesso, .. .).
Fattibilità del RMI. Ciò che ha messo alla prova i comuni è stato il processo di attuazione vera e
propria, con l’evidente necessità di adeguare la struttura organizzativa ai nuovi compiti del RMI in
termini di funzioni, competenze e procedure, ma anche di innovare la cultura organizzativa e dei servizi.
Nonostante queste difficoltà, connesse all’attuazione di una misura completamente nuova all’interno del
sistema di assistenza italiano, tutti i 39 comuni sono riusciti nell’intento, risolvendo i problemi che si
sono presentati, anche se con modi e tempi diversi.
L’attività di valutazione ha individuato le seguenti condizioni generali per la fattibilità e consolidamento
del RMI:
♦ l’affìdabilità e il rigore nell’accesso e nelle verifiche - il contenimento dei margini di discrezionalità
nella definizione dei criteri d’accesso e di calcolo del reddito, così come la serietà delle verifiche e dei
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 51
controlli nell’applicazione della norma sono questioni determinanti per garantire un principio di equità
rispetto all’accesso e al godimento del beneficio;
♦ il livello organizzativo e professionale del RMI - con ciò si chiama in causa la necessità di dotazioni di
organici e di professionalità adeguate per la gestione della misura, nonché l’allestimento dei sistemi
informativi che consentano monitoraggio, valutazione e anche confronto tra le diverse esperienze
locali;
♦ la qualità dei programmi di inserimento e lo sviluppo di reti di supporto- affinché il RMI non si
riduca alla sola erogazione di un sussidio, ma rappresenti una possibilità di attivazione e di inclusione
sociale della persona, occorre particolare attenzione ai percorsi di inserimento. I programmi devono
essere personalizzati e coerenti con i bisogni rilevati e devono inoltre godere di opportuni sostegni
all’interno delle stesse istituzioni pubbliche e nell’ambito della rete di soggetti che operano sul territorio.
Da qui la necessità di incentivare collaborazioni tra enti e servizi diversi, tra sistema pubblico,
organizzazioni non profit, imprese private;
♦�il finanziamento -1’ adeguato finanziamento su scala nazionale, regionale e di ambito, risulta cruciale
ai fini della sostenibilità economico-finanziaria della misura.
L’affidabilità e il rigore nell’accesso e nelle verifiche; la definizione di criteri di ammissibilità al
godimento della prestazione e la gestione degli accertamenti rappresentano attività che hanno richiesto
un consistente impegno da parte dei 39 comuni e che hanno comportato non poche difficoltà e
problemi spesso risolti in maniera diversa a secondo delle diverse capacità organizzative.
La seguente scheda sintetizza i problemi emersi e le proposte dell’Istituto di Valutazione:
Problemi emersi e proposte relative all’attività di controllo.
In generale:
1. Contenimento e omogeneizzazione dei margini di discrezionalità a livello locale;
2. Sottoscrizione di accordi quadro a livello nazionale, regionale, provinciale, per assicurare una
collaborazione tra le diverse istituzioni e gli organismi competenti. In particolare:
1. Responsabilizzazione dei beneficiari nei confronti del rischio di sanzione penale connesso ad una
dichiarazione mendace; necessità di un maggior coinvolgimento del personale comunale nella fase di
“accompagnamento” alla compilazione dei moduli di richiesta del RMI;
2. Collaborazioni, potenziamento del lavoro di rete sul territorio attraverso la formalizzazione di accordi
ad hoc con i soggetti esterni al comune per la segnalazione dei casi dubbi; necessità di garanzia, di alcuni
soggetti coinvolti negli accertamenti, di una maggiore sistematicità e rapidità nelle operazioni; sviluppo
di controlli incrociati a livello delle singole amministrazioni comunali, ad esempio attraverso
l’agevolazione delle compatibilità informatiche tra i diversi sistemi di gestione delle informazioni.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 52
L’attività di accertamento dei requisiti di accesso alla misura e soprattutto delle condizioni reddituali ha
certamente presentato problemi rilevanti in particolare in alcuni comuni, dove per ottenere i benefici, si
sono verificati comportamenti di tipo opportunistico e dichiarazioni mendaci. La questione si è
evidenziata nei comuni della provincia di Enna, dove la Guardia di Finanza, dopo un anno di indagini,
a fine maggio 2001 ha denunciato per truffa allo Stato e falsità nella documentazione personale 859 dei
7.969 beneficiari di RMI. Risulta che i denunciati possedessero immobili e capitali di entità assolutamente
eccessive anche per indulgenti interpretazioni della normativa.
Il problema degli accertamenti nasce dall’ampia discrezionalità lasciata dal decreto legislativo 237/98
(art. 11). Infatti, l’art. 11 del decreto legislativo 237/98 statuisce che: “.. .nel caso di ammissione al
reddito minimo d’inserimento possono essere eseguiti controlli diretti ad accertare la veridicità delle
informazioni fornite, con riferimento sia alla situazione economica che a quella familiare’: E inoltre “il
comune provvede ad ogni adempimento conseguente alla non veridicità dei dati dichiarati’:
Come emerge chiaramente dalla lettura dell’art. 11, non vengono specificati né i modi, né i contenuti
dell’attività di verifica, ma neanche l’eventuale collaborazione con i soggetti esterni; conseguentemente,
gli accertamenti e le verifiche sono stati interpretati in modi diversi dai Comuni. Alcuni Comuni, ad
esempio, pur essendo a conoscenza di redditi da lavoro irregolare non li hanno presi in considerazione
perché convinti che la loro emersione non fosse di loro competenza. Questo approccio discrezionale
non può facilmente coesistere con una misura assistenziale, basata cioè sulla “prova dei mezzi”. Non
mancano però esempi in cui le fasi dell’accertamento e della verifica sono state subito intese dalle
amministrazioni comunali come fondamentali al fine di un’equa applicazione della misura. E’ il caso del
comune di Cologno Monzese che ha richiesto da subito, a chi presentava domanda, una dichiarazione
di consenso per l’effettuazione di accertamenti sulla propria condizione.
Nella maggior parte dei casi, la sperimentazione ha incontrato resistenze nei confronti dell’accettazione
di controlli ed accertamenti e nell’applicazione della norma nel suo complesso; il RMI è stato infatti
percepito, in molti casi, come un diritto incondizionato del beneficiario perdendo quindi quella
caratteristica di contratto, di impegno fra le parti soggetto a verifiche nel tempo.
Altro tema legato ai controlli è quello dell’autocertificazione; anche in questo caso, l’utilizzo di questo
strumento da parte delle amministrazioni comunali è avvenuto in maniera differente. Viste le
problematiche connesse alle attività di monitoraggio, sarebbe opportuno utilizzare l’autocertificazione,
con i vantaggi che essa comporta tra cui il risparmio di tempo, solo per le informazioni anagrafiche e
non per quelle relative alla situazione reddituali e patrimoniale.
Inoltre, in alcuni Comuni, i potenziali beneficiari, hanno richiesto aiuto nella compilazione dei moduli e
spesso il problema del reddito dichiarato pari a zero è stato proprio il risultato di una serie di difficoltà
incontrate nella compilazione dei moduli di domanda per l’accesso al RMI. Va anche ricordato che
durante la fase sperimentale sono stati pochi i comuni che hanno adeguatamente informato i beneficiari
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del rischio di sanzione penale connesso ad una falsa dichiarazione. Una maggiore responsabilizzazione
dei beneficiari nei confronti del rischio di dichiarazioni mendaci potrebbe funzionare da deterrente.
L’atteggiamento permissivo adottato da molte amministrazioni comunali può essere dovuto ad una
mancanza di risorse sufficienti ad effettuare i controlli, ad una disorganizzazione amministrativa e al
fatto che quasi tutto il contributo è stato erogato dall’amministrazione centrale per cui i Comuni non si
sono sentiti responsabili per la finalizzazione delle risorse63. Spesso lo stesso comportamento
permissivo è stato adottato nei confronti del lavoro sommerso; nel comune di Caserta ciò ha portato ad
una vera e propria guerra tra beneficiari di RMI, seppur percettori di un reddito da lavoro nero, e
soggetti esclusi poiché obbligati a dichiarare il proprio reddito in quanto lavoratori dipendenti o
pensionati; tutto ciò ha scatenato nel comune una serie di denunce anonime poi risultate veritiere in
seguito a controlli più approfonditi.
A volte invece, laddove gli operatori comunali percepivano il rischio che il beneficiario fosse impegnato
in attività di lavoro nero, si procedeva ad un inserimento in programmi di pubblica utilità che
presupponevano un orario di lavoro che copriva l’intero arco della giornata. In particolare, questa
tecnica di contrasto all’attività sommersa è stata utilizzata dai comuni del sud, dove i programmi di
pubblica utilità sono molto sviluppati.
Un’altra problematica derivante da una legislazione troppo discrezionale, consiste nell’onere degli
accertamenti. Non mancano i casi in cui i Comuni, pur consapevoli di determinati fenomeni, li hanno
tralasciati poiché convinti che non fossero di loro competenza.
Sostenibilità organizzativa e professionale. Il RMI deve poter contare su condizioni organizzative che
ne rendano possibile l’attivazione e che favoriscano lo sviluppo di percorsi positivi di collaborazione
con la comunità locale e con i possibili partner nei programmi di inserimento. La sperimentazione ha
comportato cambiamenti a livello organizzativo; quando si parla di caratteristiche dell’organizzazione, si
fa riferimento alla struttura (uffici RMI, eventuale ricorso a strutture organizzative esterne,ecc) e al
personale (tipologia e numerosità delle professionalità coinvolte, nuove assunzioni o riallocazioni
interne).
Per quanto riguarda la struttura organizzativa del RMI, i diversi Comuni hanno risposto o aggiungendo
alla struttura esistente un apposito ufficio RMI o lasciando la struttura sostanzialmente imrnutata,
affidandone la gestione ai servizi amministrativi e/o ai servizi sociali preesistenti.
La prima opzione è stata seguita da circa la metà dei Comuni. Va notato che questa non è correlata né
alle dimensioni del Comune, né al numero delle domande presentate. Sembra piuttosto essere legata alla
63
L’erogazione monetaria è gravata per il 90% sul Fondo Nazionale per le politiche sociali; ai Comuni è stata richiesta una compartecipazione finanziaria pari al massimo al 10%.
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collocazione geografica: la scelta di non costituire un apposito ufficio RMI è più frequente nei Comuni
del Sud.
Anche per quanto riguarda il problema della dotazione di personale, le soluzioni adottate sono state
diverse: alcuni Comuni hanno lavorato con il personale già in servizio, spesso riallocandolo; altri hanno
aggiunto alle proprie, risorse e competenze esterne, creando in questo modo un gruppo di lavoro misto;
altri ancora infine, si sono affidati in via prevalente a persone o ad agenzie esterne. In quest’ultimo caso,
spesso grazie a specifici finanziamenti regionali, i Comuni sono stati in grado di acquisire le nozioni
tecniche di cui non disponevano e sono riusciti a costituire un gruppo di lavoro ad hoc con competenze
specifiche.
I Comuni che hanno scelto di far uso di risorse esterne, sono generalmente di piccole dimensioni; si è
ricorso a nuovo personale per la stesura e la gestione di piani individualizzati; in questi casi i servizi di
aiuto alla persona si sono avvalsi di personale competente e non sono stati affidati indifferentemente a
competenze professionali di natura amministrativa o tecnica prive di capacità inerenti la gestione dei
processi di aiuto.
Riguardo alla sostenibilità organizzativa e professionale, al fine di superare le problematiche emerse,
l’Istituto di Valutazione ha proposto:
♦ potenziamento del personale impegnato nella gestione della misura e riorganizzazione delle
metodologie operative dei servizi interessati;
♦ distinzione dei ruoli e delle competenze tra personale tecnico (“sociale”) e personale amministrativo,
pur nel coordinamento e nell’integrazione delle funzioni;
♦ sviluppo di opportuni iter formativi e di aggiornamento.
La qualità dei programmi di inserimento e sviluppo della rete di supporto. Affinché il RMI non si
riduca alla sola erogazione di un sussidio ma diventi una possibilità di attivazione ed integrazione della
persona, occorre porre particolare attenzione ai programmi di inserimento; appare fondamentale che i
programmi di inserimento siano personalizzati, coerenti con i bisogni rilevati e gli impieghi concordati e
che godano di specifici sostegni all’interno delle stesse istituzioni pubbliche e nell’ambito della rete dei
soggetti che operano sul territorio.
Dal punto di vista dell’analisi della domanda, l’Istituto di Valutazione ha proposto:
♦ individuazione di adeguate e qualificate risorse professionali per l’accompagnamento e il tutoraggio;
♦ contenimento dei tempi che intercorrono tra l’inizio delle erogazioni monetarie e l’avvio dei
programmi di inserimento.
Relativamente allo sviluppo di reti di sostegno ai programmi di inserimento, sono state avanzate le
seguenti proposte:
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 55
♦ potenziamento delle collaborazioni con gli attori del territorio e i collegamenti con le politiche già in
essere (FS E, Equal, L.285/97, politiche della formazione professionale, politiche attive del lavoro, ecc);
♦ necessità di maggior coinvolgimento delle Regioni e delle Province nell’ offerta di formazione di base
e di riqualificazione professionale, come ad esempio, destinazione di posti ad hoc per i beneficiari RMI
nei corsi di formazione, assegnazione di crediti formativi, ecc.;
♦ promozione di momenti di confronto tra i Comuni, in merito ai problemi incontrati
nell’implementazione.
Infine, per quanto riguarda il supporto ai processi e alle metodologie professionali, le proposte sono
state:
♦ attivazione di percorsi di formazione del personale e di accompagnamento della fase di avvio della
misura;
♦ elaborazione di strumenti di valutazione e indicatori per il controllo di gestione e per la valutazione di
efficacia delle attività realizzate.
Oltre alla qualità dei programmi di inserimento, un altro aspetto significativo di questa sperimentazione
è stato il lavoro svolto per inserire le strategie di sostegno delle persone e delle famiglie in una rete di
rapporti e iniziative collocate nel sistema integrato di offerta, garantito dai soggetti pubblici e privati
presenti nel territorio. Le situazioni si sono differenziate a secondo della preesistenza o meno di
soggetti in grado di collaborare attivamente alla sperimentazione; ha influito positivamente la presenza
di rapporti preesistenti e la logica di un coinvolgimento attivo nella vita della comunità locale. In questo
senso hanno svolto un ruolo importante i soggetti del terzo settore e i servizi di enti pubblici come Asl,
associazioni di volontariato, cooperative sociali, ecc...
Il finanziamento. Se il RMI deve rappresentare uno schema di protezione a carattere universale, in
grado di intervenire nelle situazioni di maggior bisogno, è fondamentale che la definizione delle risorse
essenziali per l’attivazione della misura sia stabilita a livello centrale. Infatti, qualora l’erogazione del
sostegno economico venisse sottoposta ai vincoli di bilancio comunali e/o regionali, la portata della misura
ne uscirebbe limitata, diventando un diritto sociale fortemente condizionato al luogo di residenza. In
particolare, i criteri di compartecipazione finanziaria dovranno tener conto, se e quando il RMI andrà a
regime, delle effettive possibilità degli enti locali:
I beneficiari del RMI: caratteristiche.
Al 31 dicembre 2001, beneficiavano di RMI 25.591 nuclei familiari, il 91 % dei quali (pari a 23.362 nuclei
familiari) residente nel Sud d’Italia.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 56
Il tipo di famiglia maggiormente rappresentato, tra quelle beneficiarie di RMI, è costituito dalla coppia con
figli (64.2% del totale). Quote limitate ma non marginali sono rappresentate dalla famiglia monogenitore
(14.6%) e da quella costituita da una sola persona (13.6%):
Per quanto riguarda la tipologia “coppia con figli”, si tratta di famiglie costituite in media da 3,49
componenti. Questo dato però varia notevolmente tra i comuni del nord e del centro da un lato e quelli
del sud dall’altro: nei primi infatti il numero medio di componenti è pari a 2,6; nei secondi è pari a 3,7
per raggiungere valori anche più elevati nelle grandi città come Napoli (4,79), Reggio Calabria e Sassari.
Per la maggior parte dei comuni del centro - nord l’erogazione del RMI non ha riguardato situazioni di
povertà estrema, ma piuttosto un disagio sociale spesso inaspettato; i destinatari della sperimentazione
sono il più delle volte persone senza gravi problemi di esclusione sociale, con un livello di
scolarizzazione pari almeno alla terza media e che spesso, a causa di un evento scatenante specifico
come la perdita del lavoro, la morte o la separazione dal coniuge, si sono ritrovate con un reddito insufficiente
per vivere. Esempi possono essere l’uomo cinquantenne che si trova all’improvviso senza lavoro e che
fatica a trovarne un altro, la casalinga che è sempre stata mantenuta dal marito e che, dopo la
separazione, si trova a dover provvedere a se stessa. La situazione si presenta diversa per i beneficiari
del sud: si tratta di famiglie numerose, costituite da soggetti con basso livello di scolarizzazione, versanti in
situazioni di bisogno anche estremo, in cui ad una povertà culturale ed economica si aggiungono spesso
situazioni abitative precarie. Non mancano poi i casi di soggetti portatori di handicap, a volte
multiproblematici, con gravi difficoltà relazionali.
In conclusione e secondo i valutatori, la sperimentazione ha raggiunto alcuni risultati importanti che vanno
dall’emersione di situazioni di povertà prima non note, al contenimento della discrezionalità, alla razionalizzazione e
integrazione nel sistema di lotta all’esclusione, al contenimento dell’evasione scolastica e integrazione in percorsi formativi,
all’interruzione significativa dei “circoli viziosi” di peggioramento delle condizioni di povertà, ad un esito soddisfacente dal
punto di vista dell’impegno finanziario. Contemporaneamente i valutatori rilevano quelle che sono alcune
criticità, come l’organizzazione a livello territoriale, il sistema e gli strumenti di controllo, le competenze
professionali e l’integrazione con le politiche del lavoro e dello sviluppo locale.
Economia e Politica Sociale a.a. 2012 - 20013 C. D’Apice 2 modulo La povertà nei paesi avanzati 57
8.3 Il reddito minimo in alcuni paesi europei
In tutti i paesi europei, con l’eccezione dell’Italia e della Grecia, sono presenti schemi di reddito
minimo garantito che possono assumere la forma del reddito minimo d’inserimento; la Gran Bretagna
è stata il primo paese ad istituire tale forma di contrasto alla povertà nel lontano 194864; a seguire la
Germania (1962), i Paesi Bassi (1963), il Belgio (1974), l’Irlanda (1977), il Lussemburgo (1986), la
Francia (1988), la Spagna (1989) e, sul finire degli anni novanta, il Portogallo. Le modalità di
organizzazione e gestione dell’istituto sono naturalmente diverse da paese a paese anche se alcuni
caratteri sono comuni; per i paesi considerati si schematizzano, quindi, gli aspetti principali.
Nel Regno Unito si fa riferimento alla normativa dell’ Income support o sostegno al reddito; l’income
support è un sussidio erogato a favore di coloro che non hanno risorse adeguate per poter vivere
dignitosamente e rappresenta un elemento fondamentale nella lotta all’esclusione sociale perché
automaticamente attiva altri sussidi a lui collegati come, ad esempio, quello alla casa.; il sussidio può essere
richiesto da tutti coloro che hanno un’età compresa tra i 18 anni e i 60, oltre i quali scatta il
pensionamento. Esistono alcune eccezioni, infatti sin dai 16 anni di età è possibile richiedere l’income
support qualora il richiedente abbia un bambino o sia malato o disabile. Inoltre è necessario essere
residenti nel Regno Unito, non lavorare o farlo per meno di 16 ore settimanali, o avere un partner che
vive con il richiedente stesso che lavora per meno di 24 ore. Questa misura può, naturalmente, essere
richiesta soltanto se si ha un reddito ed un risparmio al di sotto di una soglia stabilita dalla legge e variabile
nel tempo. Come già detto, per poter beneficiare del sussidio è necessario che il richiedente sia una
persona che non lavora o non lo fa a tempo pieno, infatti chi è idoneo al lavoro e risulta disoccupato ha
diritto al sussidio per la disoccupazione 65. L’erogazione del sussidio viene effettuata direttamente nel
conto corrente bancario o postale del beneficiario e non è tassabile. In assenza di qualsiasi elemento
reddituale, l’importo del sussidio è pari a 750 euro circa mensili (l’importo viene periodicamente
aggiornato in base alla variazione dei prezzi) per individuo over 25 anni; in aggiunta servizi sanitari
gratuiti compresi dentista e voucher per acquisto di occhiali; latte per donne in gravidanza e i pasti a
scuola; per ragionevoli costi dell’affitto esiste misura apposita (indennità di abitazione); sono previsti
anche pagamenti aggiuntivi straordinari ad alcune particolari categorie (come anziani e disabili) in caso
di freddo intenso66.
64
M. L. Mirabile (a cura di) 1991, Il reddito minimo garantito, Ed. Ediesse, Roma 65
Il sussidio per la di disoccupazione spetta a coloro che cercano lavoro è indirizzato a tutti i disoccupati che sono abili al lavoro. Per poterlo ottenere c’è la necessità di rispettare alcune condizioni, tra le quali la più importante è cercare attivamente un lavoro. Possono richiederlo coloro che hanno un età compresa tra i 18 e i 65 anni, siano residenti nel Regno Unito, non siano studenti e non lavorino o lo facciano meno di 16 ore settimanali. 66
Cfr. Commissione d’indagine sull’esclusione sociale, Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale, Roma 2011
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In Germania è previsto, in base alla legge costituzionale, il cosiddetto sussidio per il sostentamento che
è orientato ad assicurare un livello di vita dignitosa a coloro che non dispongono di risorse sufficienti;
possiamo definirlo l’equivalente del reddito minimo d’inserimento francese. Principali beneficiari del
sussidio per il sostentamento sono i capifamiglia, i loro partner conviventi e i bambini minorenni che
vivono nello stesso nucleo familiare e considerati come appartenenti alla stessa comunità di bisogni o
comunità di base. Il sussidio, erogato principalmente sotto forma di prestazione in denaro, ha come
obiettivo di garantire alcune delle necessità fondamentali della persona, “in particolare alimentazione,
alloggio, abbigliamento, igiene personale, suppellettili domestiche, riscaldamento e esigenze personali della vita quotidiana”,
tra queste ultime si annoverano in misura ragionevole “anche le relazioni con l’ambiente circostante e la
partecipazione alla vita culturale” Il sussidio per il sostentamento si determina considerando innanzitutto
l’effettivo bisogno, in seguito si detraggono i redditi e i valori patrimoniali. Si compone di alcune voci
fondamentali: una base comune e delle integrazioni per spese di alloggio per un importo pari ai costi di
locazione effettivamente sostenuti (entro determinati limiti), spese di riscaldamento pari ai costi
effettivamente sostenuti, supplemento, riconosciuto, a determinate condizioni ed ad alcune categorie di
persone, prestazioni una tantum erogate per le prime suppellettili domestiche, i primi indumenti e viaggi
scolastici d’istruzione.
Per questo sussidio non esistono limiti temporali, viene infatti corrisposto finché le circostanze lo
richiedano e fino al miglioramento della situazione del beneficiario, né esiste alcun limiti di età.
Limitatamente alle persone in grado di lavorare e disoccupate si richiede loro di dover obbligatoriamente
essere pronte ad accettare qualsiasi lavoro. In termini di importi il sussidio, non soggetto a tassazione, si
differenzia in base alle diverse situazioni dell’individuo o del nucleo familiare beneficiario; per un
singolo individuo è pari a 360 euro mensili (base comune) più le integrazioni viste in precedenza.
In Francia, con la legge n° 88-1088 del 1°decembre 1988, si istituisce il Reddito Minimo di
Inserimento quale meccanismo di rottura rispetto alla logica tradizionale dell’assistenza introducendo
un meccanismo di gestione della povertà fondato sul riconoscimento del diritto a un reddito di sussistenza
e sulla ricerca di soluzioni di inserimento nella vita economica e sociale del paese; il principio
dell’inserimento ne costituisce l’originalità. Il RMI è indirizzato a tutte quelle persone che per diversi motivi
(età, stato fisico o mentale, situazione economica e d’impiego) si trovano con l’incapacità di lavorare.
Possono beneficiare del RMI tutte le persone residenti in Francia che non hanno risorse superiori ad un
dato importo, che hanno un età superiore a 25 anni (o con uno o più figli a carico) e che si impegnano a
partecipare alle azioni e alle attività, con lui definite, necessarie al suo inserimento sociale o
professionale. Possono altresì partecipare al programma i cittadini stranieri che siano in possesso di un
permesso di soggiorno regolare, con validità professionale di almeno 5 anni e residenza in Francia, con
permesso di soggiorno per motivi familiari di durata non inferiore ai 5 anni. Regole diverse sono in
vigore per i cittadini stranieri al di fuori dello spazio economico europeo, che devono essere in possesso
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di un certificato di rifugiato, un passaporto monegasco, un titolo dell’Andorra, coloro che si
ricongiungono ai familiari.
L’ammontare del RMI è fissato per decreto e rivisto due volte l’anno in funzione dell’evoluzione
dei prezzi; il beneficiario del RMI ha diritto ad un sussidio pari alla differenza tra l’ammontare del RMI
(470 euro circa per un singolo individuo), stabilito in base alla composizione del nucleo e del numero
delle persone a carico, e le risorse di cui dispone.
C’è la possibilità di cumulare integralmente o parzialmente ciò che deriva dal Rmi con il reddito
derivante da un’attività professionale salariata o meno, o un’attività di formazione remunerata fino alla
prima revisione trimestrale che segue l’inizio dell’attività. La durata massima del cumulo totale è di 6
mesi, mentre quello parziale di 12 mesi. Coloro che beneficiano del Rmi possono essere esentati dal
pagamento della tassa sull’abitazione sulla loro prima casa ed inoltre il Rmi non è sottoposto a
tassazione. Nel calcolo del Rmi si considerano le indennità giornaliere per malattia, le indennità di
disoccupazione, le prestazioni familiari, le pensioni percepite; non sono invece considerate nel computo
le indennità avute durante la maternità, gli aiuti alla ripresa del lavoro per le donne, le borse di studio. Il
versamento del Rmi avviene il mese successivo a quello in cui è stata fatta la domanda. Inizialmente è
attribuito per 3 mesi, poi per un periodo di un anno. Tale indennizzo può essere sospeso qualora il
beneficiario non rispetti gli impegni assunti con il contratto d’inserimento.
Per la definizione ed organizzazione dei contratti d’inserimento, la Legge prevede l’istituzione di
un Consiglio Provinciale di Inserimento comprendente:
• rappresentanti della Regione, delle Province e dei Comuni;
• rappresentanti di imprese, di organismi o associazioni che intervengono in ambito economico e
sociale o in materia di formazione professionale;
• e membri delle Commissioni Locali di Inserimento.
Il Consiglio Provinciale di Inserimento elabora e adotta, prima del 31 marzo, il programma
provinciale di inserimento dell’anno in corso; prima del 31 dicembre, il prefetto e il presidente del
Consiglio Generale trasmettono al Consiglio Provinciale di Inserimento le previsioni che ciascuno di
essi ha stabilito per l’inserimento dei beneficiari del Revenu Minimum d’Insertion per quello che riguarda
l’anno seguente; tale programma si appoggia in particolare sui programmi locali di inserimento elaborati
dalle commissioni locali di inserimento. Nello specifico:
1. valuta i bisogni locali da soddisfare, tenuto conto delle caratteristiche dei beneficiari del RMI;
2. censisce le azioni di inserimento già effettuate;
3. valuta i mezzi supplementari da mettere in opera per assicurare l’inserimento dei beneficiari del
RMI;
4. valuta allo stesso modo i bisogni specifici di formazione del personale e dei volontari coinvolti;
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5. definisce le misure necessarie per armonizzare l’insieme delle azioni di inserimento condotte o
progettate dalle Province e per allargare e diversificare le possibilità di inserimento, tenendo conto
dei contributi dei differenti partners.
Entro i tre mesi che seguono la messa in pagamento del RMI e in vista degli elementi utili alla
valutazione delle situazioni sociali, professionali, finanziarie degli interessati e delle loro condizioni
abitative, è stipulato, tra il beneficiario del sussidio e le persone che hanno il compito della
determinazione del detto sussidio, un contratto di inserimento. Tale contratto fissa:
1. la natura del progetto di inserimento che il beneficiario può formulare o che gli può essere
proposta;
2. la natura delle facilitazioni che gli possono essere offerte per gli aiuti a realizzare questo progetto;
3. la natura degli impegni reciproci e il calendario delle pratiche e attività di inserimento che
implicano la realizzazione del progetto e le condizioni di valutazione, con il beneficiario del
sussidio, dei differenti risultati ottenuti (art.42-4). L’inserimento proposto ai beneficiari del RMI e
definito con loro può, in particolare, prendere una o più delle seguenti forme:
a .azioni di orientamento;
b. attività o stages destinati ad acquisire o migliorare le competenze professionali, la conoscenza
e la padronanza dei mezzi di lavoro e le capacità di inserimento e miglioramento professionale,
eventualmente attraverso delle convenzioni con le imprese, gli organismi di formazione professionale o
le associazioni.
Il finanziamento del RMI è a carico dello Stato e delle Regioni.
Nel 2009 il reddito minimo d’inserimento (RMI) è stato rivisitato e sostituito dal reddito di solidarietà
attiva (RSA) con l’obiettivo di unificare una parte dei trasferimenti assistenziali pre–esistenti (come, ad
esempio, l’indennità per le famiglie monoparentali) e rendere il più possibile remunerativo il passaggio,
da uno stato assistenziale, al lavoro, disincentivando le trappole di disoccupazione e di povertà.
Il Reddito minimo in Danimarca è particolarmente generoso perchè arriva a 1.200 euro mensili per
un individuo solo senza reddito (over 25 anni, se under 25 si ricevono 770 euro), più partecipazione in
spese di salute fuori dai servizi sanitari gratuiti (dentista e farmaci), per coprire assicurazioni sanitarie e
per significative spese casa. Assegni familiari e per figli sono in aggiunta. Come per le altre forme di
reddito minimo, l’importo viene rivalutato anno per anno in base alla variazione dei prezzi.
In Austria la soglia minima tiene conto dei bisogni di base relativi a cibo, abiti, igiene,
riscaldamento, educazione e partecipazione sociale. Le soglie sono fissate dai singoli Lander e variano
dai 420 ai 540 euro mensili per un individuo solo senza reddito. Possibili integrazioni vengono vagliate
individualmente, per spese specifiche come quelle relative all’abitazione e al suo mantenimento.
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In Belgio la soglia minima viene stabilita a livello nazionale ed è pari a 644 euro per individuo solo
senza reddito; gli assegni familiari sono forniti in aggiunta; si ha diritto ad un’ indennità per
riscaldamento sotto certe condizioni climatiche.
In Finlandia la soglia minima varia tra 370 e o 390 euro a seconda della zona del paese per
individuo solo senza reddito; possibili importi aggiuntivi a copertura delle spese “ragionevoli” per la
casa, spese mediche, attività di cura per i figli e altri costi considerati essenziali.
In Olanda la soglia minima viene fissata a livello nazionale ed è legata al salario minimo in misura
diversa per coppie, singoli e genitori soli; le singole municipalità possono aggiungere fino al 20% sul
salario minimo per persone che vivono sole e che non possono dividere il costo dell’abitazione con
qualcun altro. L’importo è pari a 590 euro per individuo solo senza reddito, con possibile ulteriore
integrazione di 235 euro da parte delle municipalità per singoli e genitori soli; le addizionali sono
previste per spese straordinarie ( relative ad abitazione, mobili o frigorifero, viaggi scolastici, ecc) e
vengono erogate ai beneficiari del RM ma anche a chi si trova di poco sopra la soglia.
In Svezia la soglia minima viene concordata tra Governo, Parlamento e singole municipalità sulla
base dei bisogni da sostenere a costi ragionevoli. Un individuo solo senza reddito riceve 385 euro con
possibili integrazioni per pagamenti relativi ad utenze ( come casa, elettricità, ecc), a dentista, occhiali,
ecc.
Il Reddito minimo d’inserimento in Spagna, infine, è un intervento di politica sociale che ha avuto
vita agli inizi degli anni ’90 per iniziativa delle Comunità Autonome. La legge che regola l’istituto è una legge
statale, ma l’attuazione dello stesso è nelle mani delle Comunità Autonome che attuano la legge con
programmi diversi da regione a regione. I programmi hanno comunque un denominatore comune, infatti,
l’obiettivo principale è quello di garantire un minimo reddituale, che copra i bisogni primari delle
famiglie o dei singoli individui che si trovano in situazione di necessità, garantendo il loro inserimento
sociale nell’ottica di una politica di lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Generalmente la
prestazione è erogata per una durata massima di 12 mesi, eventualmente prorogabili; è assicurata a tutti
i cittadini che hanno un’età compresa tra i 25 e i 65 anni; unica condizione posta per i beneficiari è che
questi siano in grado di lavorare e partecipino ad un progetto individuale di reinserimento. In termini
monetari il RMI varia a seconda delle Comunità autonome (da 180 a 230 euro mensili), della presenza
di parenti a carico e dalla disponibilità di Bilancio delle Comunità Autonome .
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