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MNEMOSYNE POLITICA ED ECONOMIA NELLA STORIA

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MNEMOSYNE

POLITICA ED ECONOMIA NELLA STORIA

Direttore

Francesca SUniversità di Bologna

Comitato scientifico

Franco AUniversità Bocconi di Milano

Gian Mario CUniversità di Pisa

Maria MUniversità di Bologna

Marco MUniversità di Napoli “Federico II”

Juan P–MUniversità autonoma di Madrid

Giuseppe PUniversità degli studi di Catania

MNEMOSYNE

POLITICA ED ECONOMIA NELLA STORIA

Gli studi di politica e di economia oggi tendono sempre più a divari-carsi, facendo ricorso a modelli astratti in cui il rigore formale va ascapito dell’ampiezza dell’orizzonte. Questa collana, posta sotto l’egi-da della dea greca Mnemosyne (Memoria), figlia di Urano (il Cielo)e di Gea (la Terra) e madre delle Nove Muse, intende recuperare ladimensione sociale che politica ed economia hanno assunto nellastoria, le loro complesse interazioni, i reciproci condizionamenti, larelatività storica delle finalità perseguite.

Damiano Palano

Politica nell’età postmoderna

Teoria e critica nella trasformazione sociale

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I edizione: gennaio

Indice

9 Introduzione 23 Capitolo I Sogni, incubi e visioni. Immagini della politica nella

crisi della società del lavoro

1.1. Il «mondo nuovo» di Henry Ford, 28 – 1.2. Il lavoro «concre-to» e le contraddizioni nel capitalismo maturo, – 1.3. La strada del paradiso? Crisi della ragione economica ed eclissi del senso, 58

– 1.4. L’enigma del lavoro sociale nel postfordismo italiano, 75 –Conclusione,

105 Capitolo II Stato e Lavoro. Note sulla trasformazione del «politico»

nel Postfordismo

2.1. La crisi dello Stato moderno (flashback), 107 – 2.2. Lo Stato, il capitale e il marxismo, 113 – 2.3. Postfordismo e Stato: il ritorno del determinismo, 122 – 2.4. Crisi dello Stato e crisi del capitali-smo, 131 – 2.5. La crisi permanente e il workfare state, 141 – Con-clusione, 150

155 Capitolo III Esistono davvero i movimenti antisistema? Rileggere gli

«anni della rivolta»

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3.1. Un teorema e tre implicazioni, 155 – 3.2 Una rivoluzione «mondiale», 170 – 3.3. I movimenti e il «sistema» del capitalismo storico, 179 – 3.4. I nuovi movimenti anti-sistema, 189 – 3.5. Ver-so un nuovo schema analitico: una proposta, 202

Indice

209 Nota ai testi 211 Indice dei nomi

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Introduzione Nel gennaio del 1921, proprio mentre si chiudeva definiti-

vamente la breve parentesi del «biennio rosso», Gramsci conse-gnò alle pagine dell’«Ordine nuovo» un formidabile ritratto del-la piccola borghesia italiana. Quell’editoriale riusciva a preve-dere lucidamente gli eventi dei mesi successivi e la svolta che avrebbe condotto alla «marcia su Roma» e all’avvento di Mus-solini al governo. Ma, soprattutto, fissava in poche righe i tratti di quel gruppo sociale che, a partire dalle «radiose giornate di maggio» e dall’ingresso in guerra dell’Italia, aveva riempito le piazze e occupato le prime pagine dei giornali. Smarrita defini-tivamente «ogni speranza di riacquistare una funzione produtti-va», la piccola borghesia, scriveva Gramsci, «cerca in ogni mo-do di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scim-mieggia la classe operaia, scende in piazza». E, come il popolo delle scimmie della novella di Kipling, «crede di essere superio-re a tutti gli altri popoli della jungla, di possedere tutta l’intelligenza, tutta l’intuizione storica, tutto lo spirito rivolu-zionario, tutta la sapienza di governo»1. Al contrario della com-patta classe operaia, lo spettro del «popolo delle scimmie» resti-tuiva però la sagoma di un popolo animato solo da egoismi e rancori, incapace di dar corpo e sostanza a un’identità collettiva,

1 Cfr. A. GRAMSCI, Il popolo delle scimmie (1921), in ID., Scritti politici, a cura di

P. Spriano, Editori Riuniti, Roma, 1978, II, pp. 176-179, specie p. 177.

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Introduzione

e, soprattutto, di sostenere un reale processo di trasformazione. «La piccola borghesia», osservava, «dopo aver rovinato il Par-lamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre più larga scala, la violenza privata all’“autorità” della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoti-camente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre più larghi strati della popolazione». Ma, a dispetto dei proclami rivoluzionari dei suoi leader, quel gruppo sociale non aveva mai realmente inciso sugli equilibri politici del paese e si era così rivelato del tutto «incapace di svolgere qualsiasi compito storico». Per questo, concludeva Gramsci, «il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri»2.

Nelle parole di Gramsci, affiorava palesemente il vecchio pregiudizio lavorista che condanna i ceti improduttivi e i gruppi sociali estranei allo sviluppo industriale e alle sue logiche; un pregiudizio dall’inesauribile forza retorica e destinato a ripro-porsi – in tempi e luoghi molto lontani – secondo una gamma pressoché infinita di varianti. Ma dall’analisi gramsciana trape-lava anche, in modo piuttosto evidente, una convinzione ben precisa, secondo la quale fra la «classe operaia» forgiata nelle officine e il «popolo delle scimmie» esisteva non soltanto un in-colmabile solco politico, ma anche una differenza radicale, che rimandava alla stessa struttura genetica di questi due inconcilia-bili gruppi sociali. Era, per molti versi, la medesima convinzio-ne che emergeva dalle celebri note su Americanismo e fordismo dei Quaderni del carcere e, soprattutto, dall’immagine della «composizione demografica razionale»: una composizione de-mografica all’interno della quale non sarebbero più esistite «classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo pro-duttivo, cioè classi assolutamente parassitarie»3. Se, agli occhi di Gramsci, Napoli offriva la paradigmatica raffigurazione di una città in cui i ceti produttivi occupavano una posizione del

2 Ivi, p. 179. 3 A. GRAMSCI , Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Editori

Riuniti, Roma, 1977, p. 437.

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Introduzione

tutto marginale, Torino assumeva invece i contorni di simbolo del nascente Fordismo, capace di anticipare quella radicale tra-sformazione produttiva destinata a investire la vecchia Europa e a smantellare per sempre tutte le sue antiche «sedimentazioni passive». In altre parole, Torino pareva annunciare una rivolu-zione produttiva che avrebbe ricostruito l’ordine sociale attorno alla fabbrica, ai suoi ritmi e alle sue esigenze, condannando alla scomparsa i ceti improduttivi e ponendo il capitale e la classe operaia finalmente l’uno contro l’altra, senza alcuna mediazio-ne.

Ambiguamente presente nelle pagine di Gramsci, il mito fordista – alla base dell’immagine di una classe operaia struttu-ralmente differente dal magmatico «popolo delle scimmie» – doveva sfumarsi notevolmente nel clima dell’immediato secon-do dopoguerra. Ma, verso la fine degli anni Cinquanta, proprio quel mito doveva indirizzare lo sguardo degli intellettuali radi-cali italiani – e soprattutto di quel filone teorico che è ormai uso definire «operaismo italiano» – ancora una volta verso Torino e verso i cancelli delle sue fabbriche4. Ed era d’altronde quasi inevitabile che molti teorici e militanti radicali, appartenenti so-prattutto alle nuove generazioni, si volgessero verso l’immenso stabilimento di Mirafiori, nel tentativo di scoprire finalmente la leva di un possibile mutamento sociale e il cardine di una po-tenziale forza rivoluzionaria. Inaugurata nel ’39 e concepita «per concentrare una massa operaia che nessuna fabbrica italia-na aveva mai accolto»5, Mirafiori durante il boom giunse infatti a ospitare più di cinquantamila dipendenti, raddoppiando le proprie dimensioni originarie. La centralità che Mirafiori (e con essa Torino) si conquistò presso una parte (forse minoritaria, ma

4 La letteratura sulla storia dell’«operaismo italiano» è ormai cospicua, non solo in

Italia; tra i lavori più recenti, possono essere ricordati soprattutto G. BORIO – F. POZZI –

G. ROGGERO, Futuro Anteriore. Dai «Quaderni Rossi» ai movimenti globali: ricchezze

e limiti dell’operaismo italiano, Derive Approdi, Roma, 2002, EAD., Gli operaisti, De-rive Approdi, Roma, 2005, G. TROTTA – F. MILANA (a cura di), L’operaismo degli anni

Sessanta. Dai «Quaderni rossi» a «Classe operaia», Derive Approdi, Roma, 2008, e S. WRIGHT, Storming Heaven. Class composition and struggle in Italian Autonomist

Marxism, Pluto Press, London – Sterling, 2002. 5 G. BERTA, Mirafiori, Il Mulino, Bologna, 1998, pp. 7-8.

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comunque consistente) degli intellettuali radicali italiani era inoltre legata al ruolo che la Fiat svolgeva nello sviluppo eco-nomico italiano. Era infatti il simbolo stesso del Fordismo, della società del benessere, dell’industrializzazione e del boom. Tori-no – la città il cui assetto era legato a doppio filo con le sorti della Fiat e il cui destino coincideva sostanzialmente con quello dell’azienda – sembrava così anticipare, ancora una volta, la di-rezione dello sviluppo industriale. Tutta la società sarebbe stata assoggettata alla fabbrica, o, quantomeno, l’intero spettro della vita sociale – come già era accaduto a Torino – sarebbe stato ri-voluzionato e riorganizzato, razionalmente, sulla base delle esi-genze produttive.

Per almeno un ventennio, fra il principio degli anni Sessanta e la fine dei Settanta, quell’intuizione teorica consegnò effetti-vamente alla teoria radicale italiana non soltanto il mito dell’«operaio massa», ma soprattutto la realtà di un imponente e all’apparenza inesauribile ciclo di mobilitazione collettiva. Un ciclo di mobilitazione che svelava ogni volta, dietro i cancelli di Mirafiori, nuove energie e nuove forme di conflitto, al tempo stesso riflesso del mutamento sociale e motore di ulteriori tra-sformazioni. Dietro la centralità teorica e politica dell’«operaio massa» affiorava – in modo più o meno evidente – la vecchia fascinazione verso la potenza del grande complesso industriale, cui lo stesso Gramsci non era riuscito a sottrarsi. Una fascina-zione che spesso doveva condurre a rappresentare il futuro – in modo fin troppo lineare – come il risultato dell’estensione della fabbrica e delle sue logiche alla società intera. E che, per molti versi, induceva a consegnare proprio ai grandi stabilimenti di Mirafiori il compito di forgiare quel soggetto collettivo capace di contrapporsi al capitale e, al tempo stesso, di cacciare dalla storia la sagoma sussurrante del «popolo delle scimmie».

Proprio nella città che aveva elevato il lavoro e la fabbrica a principi cardinali di un’intera organizzazione sociale, e che aveva materializzato in modo più convincente il «sogno fordi-sta» e le sue contraddizioni, il «popolo delle scimmie» doveva però tornare a occupare il proscenio della storia, consumando la propria vendetta. La «marcia dei quarantamila», che

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nell’ottobre del 1980 vide sfilare per il centro di Torino impie-gati e quadri della Fiat, non fu soltanto l’episodio culminante di una dura vertenza contrattuale. Rappresentò, per molti versi, la conclusione della lunga stagione di mobilitazione collettiva che aveva visto come protagonista cruciale – se non certo unico – proprio l’«operaio massa» delle grandi fabbriche del Nord.

Con la sconfitta del 1980, in effetti, si dileguava per sempre l’illusione secondo cui Torino era destinata a essere, per qual-che singolare caso della storia, il «cuore del mondo», la prefigu-razione di un inevitabile futuro industriale, il cardine del model-lo italiano di sviluppo e il solo luogo in cui fosse possibile mu-tarne il segno. Da quel momento invece – come scrisse Marco Revelli alla fine degli anni Ottanta, proprio riflettendo sul desti-no di quella che era la stata l’unica «città-fabbrica» d’Italia – «l’idea di un “cuore del mondo” […] torna a ritirarsi da Torino, in attesa di materializzarsi nuovamente chissà dove». Al tempo stesso, lo spettro della «folla solitaria» – della frammentazione dei percorsi individuali, della distruzione di ogni identità collet-tiva, dell’atomizzazione e della fuga nella dimensione del priva-to – si impadroniva di una metropoli immobile e privata ormai di qualsiasi slancio di rivolta. «La città divisa, spezzata in terri-tori separati, con il centro borghese, ossequioso e quieto, e le barriere operaie chiuse in se stesse e minacciose», osservava Revelli, «non c’è più», e «nella “folla solitaria” che l’attraversa ora in ogni direzione, senza più distanze né passioni, i volti stessi si fanno incerti e uguali, i linguaggi si omologano, i luo-ghi diventano indifferenti»6. Come il grande vestibolo dell’Hotel Bonaventure di Los Angeles descritto da Fredric Ja-meson – uno spazio segnato dall’assoluta simmetria e dall’assenza di punti di riferimento, e per questo un simbolo del «grande network comunicazionale, globale, multinazionale e decentrato, in cui ci troviamo impigliati come soggetti indivi-duali»7 – anche l’unica città-fabbrica d’Italia si trovava trasfor-

6 M. REVELLI, Lavorare in Fiat, Milano, Garzanti, 1989, p. 27. 7 F. JAMESON, Il Postmoderno o la logica culturale del tardocapitalismo, Garzanti,

Milano,1989, p. 83 (ed. or. Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, in «New Left Review», 1984).

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mata in una società senza centro, smarrendo per sempre il car-dine attorno al quale, per un quasi un secolo, era ruotata un’intera organizzazione sociale. «La società» – scrivevano Ga-briele Polo e Claudio Sabattini, osservando Torino vent’anni dopo la svolta dell’ottobre 1980 – «appare svuotata, incapace di risollevarsi, priva di energie», e si mostra come «una città kaf-kiana, che non vuole riconoscere se stessa, che dimentica in fretta il passato e tira avanti sospesa nel vuoto; una città che di-venta ogni giorno più cattiva, che non sopporta il diverso da quel nulla che è diventata, che presto sostituirà il fastidio per l’operaio con l’ostilità per l’immigrato, rimescolando i suoi corpi, trasformando in carnefici le vittime di un tempo»; in altri termini, «il rovescio – uguale e contrario – della città laborato-rio degli esordi del secolo, in cui non si sperimenta più la socia-lità delle aggregazioni radicali e conflittuali, ma l’atomismo delle individualità in guerra tra loro per la sopravvivenza»8.

Dopo l’ottobre del 1980 e la sconfitta operaia di Mirafiori, il «popolo delle scimmie» avrebbe infatti conquistato stabilmente le prime pagine dei giornali, diventando il soggetto centrale del-la nuova stagione politica e accompagnando, più o meno gra-dualmente, l’avvento della «Seconda Repubblica». A scivolare definivamente dietro il sipario della ristrutturazione produttiva era però anche l’idea che proprio dentro il cuore della più gran-de fabbrica italiana, dietro i cancelli di Mirafiori, potesse pren-dere forma quel soggetto capace di strappare le catene della frammentazione e di diventare forza collettiva: «Non più classe, né “popolo”, né culture “altre”, protette nelle loro separatezze, simbolo di un universo di senso ancora incontaminato», ma, nelle parole di Revelli, «solo questo infinito, onnipresente, sus-surrante “popolo delle scimmie”»9. Un «popolo delle scimmie» naturalmente ben diverso dai gruppi sociali ritratti da Gramsci, ma destinato a produrre effetti altrettanto dirompenti, anche sul-la storia intellettuale dell’Italia repubblicana.

8 G. POLO – C. SABATTINI, Restaurazione italiana, Fiat, la sconfitta operaia

dell’autunno 1980: alle origini della controrivoluzione liberista, Manifestolibri, Roma, 2000, pp. 112-113.

9 M. REVELLI, Lavorare in Fiat, cit., p. 16.

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In effetti, la cesura del 1980 avrebbe inferto un colpo per molti versi letale alla fiducia che intere generazioni di intellet-tuali radicali avevano riposto nella classe operaia di fabbrica e, ancor più, nelle sue icone immaginarie. In modo più specifico, l’apparire della «massa grigia» di individui senza volto andava a chiudere l’ultimo capitolo di quel romanzo di formazione che, per una generazione di intellettuali italiani, era cominciato alla metà degli anni Sessanta, aveva raggiunto il culmine nel ‘68-’69 ed era proseguito – con alterne esplosioni di entusiasmo e sco-ramento – nell’esperienza dei gruppi e della loro più o meno ra-pida dissoluzione. Dinanzi all’ascesa del nuovo «popolo delle scimmie», uscivano così sconfitti, insieme agli operai della Fiat, anche quegli intellettuali militanti che, per più di un decennio, avevano tentato di coniugare la ricerca teorica con un forte – e spesso diretto – impegno al fianco dei movimenti e della sinistra radicale, e che si erano volti – con occhi nuovi e metodologie talvolta estremamente originali – alla ricerca sociale, alla teoria politica e all’indagine storiografica.

Dopo le giornate dell’ottobre del 1980, quegli intellettuali militanti non sarebbero più tornati ai cancelli di Mirafiori. O quantomeno, non avrebbero cercato dentro quei cancelli i se-gnali in grado decifrare il futuro e di comprendere le dinamiche della trasformazione sociale. Alcuni protagonisti della riflessio-ne radicale degli anni Sessanta e Settanta si sarebbero limitati a prendere atto che la classe operaia di fabbrica aveva concluso il suo eccezionale percorso storico, un percorso cominciato più di un secolo prima, ma ormai destinato a condurre verso l’invisibilità, o verso l’irrilevanza sociale e politica, se non pro-prio verso la scomparsa economica. E, proprio in questo senso, alcuni di quei grandi teorici che negli anni Sessanta avevano scorto nella classe operaia la leva materiale capace di condurre alla dissoluzione della società del capitale, avrebbero rivolto un malinconico commiato a quello che poteva essere ormai consi-derato come l’ultimo, eroico, soggetto della politica moderna. «Il dato d’epoca, il nocciolo del bisogno di nuova sintesi, l’elemento che lega gli eventi e spiega gli esiti», scriveva per esempio Mario Tronti al principio degli anni Novanta, «è “in ul-

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tima istanza” uno solo: si chiama il tramonto della classe ope-raia», l’«episodio conclusivo di quel tramonto dell’Occidente, che ha attraversato appunto il secolo e lo conclude adesso pre-cipitando, non dunque con l’impennata di azioni volute ma con la decadenza di fatti ineluttabili»10. Dall’incedere inarrestabile dell’economia e delle sue logiche non potevano così che scatu-rire «la decadenza del rapporto sociale, il tramonto della politi-ca, la deriva dalle “masse” alla “gente”»11. E, dinanzi all’ineluttabile destino della «spoliticizzazione», della grande classe operaia novecentesca sembra così non rimangano altro che frammenti di memoria, da raccogliere e custodire in vista di un futuro incerto12.

Percorrendo traiettorie differenti, altri eredi della stagione teorica degli anni Sessanta e Settanta continuarono incessante-mente a scrutare la superficie levigata della società postmoderna alla ricerca di incrinature e potenziali linee di frattura, o di se-gnali che potessero annunciare l’avvento – più o meno prossimo – di un nuovo soggetto collettivo, erede della vecchia classe operaia novecentesca, ma al tempo stesso piantato nel nuovo as-setto produttivo. Dopo la lunga parentesi degli anni Ottanta, presero così ad apparire nuove ipotesi – centrate, per esempio, sull’«intellettualità di massa», sull’emergere del «lavoro imma-teriale», sulla peculiarità del «lavoro autonomo di seconda ge-nerazione», o sulla «femminilizzazione del lavoro» – che pun-tavano a trovare nella fenomenologia del postmoderno, nella logica della «metamorfosi del lavoro» e della trasformazione

10 M. TRONTI, Con le spalle al futuro. Per un altro dizionario politico, Editori Riu-

niti, Roma 1992, p. X. 11 M. TRONTI, Memoria e storia degli operai, in P. FAVILLI – M. TRONTI (a cura di),

Classe operaia. Le identità: storia e prospettiva, FrancoAngeli, Milano, 2001, pp. 375 -381, specie p. 378.

12 Era infatti in questo senso che Tronti intendeva la raccolta della memoria operaia: «un’azione che chiamerei di resistenza alla dispersione e alla dilapidazione di un patri-monio di lotte, di organizzazione, di esperienze, che hanno costituito anche l’esistenza concreta di tante donne e uomini, che per noi sono eredità grandemente umana, oltre che punto di riferimento di lavoro intellettuale. Dovremmo costituire una sorta di luogo di raccolta della memoria operaia, che è memoria futura, perché questa è una classe che ha fatto da tramite, ha funzionato storicamente come soggetto di trapasso, dal moderno all’oltre, che non c’è già, ma sta per arrivare» (ivi, p. 375).

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postfordista, le tracce di un sentiero in grado di condurre nuo-vamente a una critica radicale della società e della politica13.

I saggi raccolti in questo volume sono in larga parte dedicati proprio a un esame delle ipotesi formulate in quella stagione del dibattito. Stesi nella seconda metà degli anni Novanta, questi scritti rappresentano infatti gli episodi di un’indagine centrata sulla teoria radicale, sulla sfida rappresentata dalla «società sen-za centro» e sulla ricerca di un nuovo «bandolo della matas-sa»14. In questo senso, la cifra unificante di questi interventi è il

13 Cfr., per esempio, G. AGAMBEN et al., Sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo paura cinismo nell’età del disincanto, Theoria, Roma-Napoli, 1990, S. BOLOGNA - A. FUMAGALLI (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del post-

fordismo in Italia, Feltrinelli, Milano, 1997, M. HARDT - A. NEGRI, Il lavoro di Dioni-

so. Per la critica dello Stato postmoderno, Manifestolibri, Roma, 1995 (ed. or. Labor of

Dionysus. A critique of the State-form, University of Minnesota Press, Minneapolis - London, 1994), M. ILARDI (a cura di), La città senza luoghi. Individuo, conflitto, con-

sumo nella metropoli, Costa & Nolan, Genova, 1990, M. LAZZARATO, Lavoro immate-

riale. Forme di vita e produzione di soggettività, Ombre Corte, Verona, 1997, e C. MARAZZI, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla

politica, Bollati Boringhieri, Torino, 1998. Una prima sintesi di questa stagione di ri-flessione, che proiettava però l’analisi su un piano più levato, era naturalmente rappre-sentata da M. HARDT – A. NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzo-li, Milano, 2002; ed. or. Empire, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2000. La fortuna del libro di Hardt e Negri ha dato avvio a una nuova stagione di riflessione, di cui, almeno per quanto riguarda l’Italia, possono essere considerati esempi significa-tivi: volumi di A. FUMAGALLI – C. MARAZZI – A. ZANINI, La moneta nell’impero, Om-bre Corte, Verona, 2002, N. MONTAGNA (a cura di), Controimpero. Per un lessico dei

movimenti globali, Manifestolibri, Roma, 2002, S. MEZZADRA, Diritto di fuga. Migra-

zioni, cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte, Verona, 2001, ID. (a cura di), I confi-

ni della libertà, Derive Approdi, Roma, 2004, ID., La condizione postcoloniale. Storia e

politica nel mondo globale, Ombre corte, Verona, 2008, e P. VIRNO, Grammatica della

moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee, Derive Approdi, Roma, 2002, A. ZANINI – U. FADINI (a cura di), Lessico postfordista. Dizionario di idee della

mutazione, Feltrinelli, Milano, 2001, oltre ad A. NEGRI, Guide. Cinque lezioni su impe-

ro e dintorni, Cortina, Milano, 2003, A. NEGRI, L’Europa e l’Impero. Riflessioni su un

processo costituente, Manifestolibri, Roma, 2003, M. HARDT – A. NEGRI, Moltitudine.

Guerra e mutamento nel nuovo ordine mondiale, Rizzoli, Milano, 2004 (ed. or. Multi-

tude. War and democracy in the Age of Empire, Penguin Books, New York, 2004), A. NEGRI, Movimenti nell’impero. Passaggi e paesaggi, Cortina, Milano, 2006, A. NEGRI –

G. COCCO, GlobAL. Biopotere e lotte in America Latina, Manifestolibri, Roma, 2006, A. NEGRI, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Feltrineli, Mila-no, 2008 (ed. or. Fabrique de porcelaine. Pour une nouvelle grammaire du politique, Stock, Paris, 2006), ID., Dalla fabbrica alla metropoli. Saggi politici, Datanews, Roma, 2008.

14 Gli altri episodi di questi riflessione, iniziata nella seconda metà degli anni No-vanta e, probabilmente, ancora lontana da un’effettiva conclusione, sono D. PALANO,

Introduzione 18

tentativo di articolare una «critica della politica» nell’età post-moderna, pur dinanzi all’irreversibile «tramonto» della classe operaia novecentesca: prendendo le mosse dall’esaurimento sto-rico della vecchia «classe operaia», essi tentano dunque di scor-gere i segnali di una potenziale ricomposizione oltre la dimen-sione empirica della fabbrica; ma, al tempo stesso, si proiettano anche oltre la fascinazione fabbrichista e produttivista del No-vecento. In altre parole, questi contributi – e soprattutto il sag-gio Sogni, incubi e visioni – cercano di procedere «oltre il No-vecento», nella direzione di una critica profonda di quel culto industrialista che paradossalmente, come è stato evidenziato ne-gli ultimi anni soprattutto da Marco Revelli, ha nutrito anche l’identità del movimento operaio e il percorso dello stesso mar-xismo radicale15.

Rileggendo questi saggi a un decennio circa dalla loro stesu-ra, si può concedere – certo con uno sguardo benevolo – che, almeno in parte, essi cogliessero effettivamente il senso delle trasformazioni in atto, o ne intuissero, quantomeno, l’importanza. Benché fossero affrontati con una colpevole di-sinvoltura, alcuni dei nodi considerati allora – primo fra tutto quello rappresentato dall’emergere della dimensione della «bio-politica» – rimangono infatti centrali anche nella discussione contemporanea. Inoltre, la critica di alcuni schematismi relativi alla raffigurazione del rapporto fra economia e politica – e, so-prattutto, fra Stato e capitale – si indirizzava su una pista ancora

Cercare un centro di gravità permanente, in «Intermarx», 1999 [www.intermarx.it], ID., L’urlo di King Kong. Alcune Note su Soggetti, Conflitti e Movimenti nello Spazio Me-

tropolitano, in «Hard Copy», I (2000), n. 1, pp. 34-65, ID., Il bandolo della matassa.

Forza lavoro, composizione di classe, capitale sociale: note sul metodo dell’inchiesta, in «Intermarx», 2001 [www.intermarx.it], ora raccolti in ID., Il bandolo della matassa.

Pensiero critico nella società senza centro, Multimedia Publishing, Milano, 2009, ID., Il crepuscolo dell’operaismo. La teoria politica di Mario Tronti: una rilettura, in «il Cie-lo», n. 6, 2001, ID., Il giorno della Volontà. Appunti sull’itinerario teorico di Marco Re-

velli, in «Il Cielo», n. 8, 2003, entrambi ora accolti in ID., I bagliori del crepuscolo. Cri-

tica e politica al termine del Novecento, Aracne, Roma, 2009, e ID., Dioniso postmo-

derno. Classe e Stato nella teoria radicale diAntonio Negri, Multimedia Publishing, Mi-lano, 20082 (I ed. 2001).

15 Cfr. M. REVELLI, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del la-

voro, Einaudi, Torino, 2001.

Introduzione 19

oggi piuttosto promettente. Insieme ai pochi meriti, questi saggi presentano però anche una serie di difetti piuttosto evidenti (e in qualche caso persino imbarazzanti), che solo in parte possono essere imputati alle incertezze del dibattito teorico degli anni Novanta16. Il principale fra questi è probabilmente l’eccesso po-lemico che trapela da molte delle pagine che seguono, e che tal-volta tende a trasformare il confronto critico con alcune ipotesi nell’affrettata e ingenerosa liquidazione di riflessioni spesso complesse, e meritevoli quantomeno di una ben diversa atten-zione. Un esempio su tutti è probabilmente costituito dall’esame delle ipotesi proposte fra gli anni Settanta e Ottanta da André Gorz, forse uno dei più grandi intellettuali radicali della seconda metà del Novecento, e senza dubbio uno dei più lucidi, originali e stimolanti interpreti della tradizione europea del pensiero cri-tico dell’ultimo mezzo secolo17. Come è evidente anche al più

16 Tra questi difetti, ci sono naturalmente quelli formali. A dispetto dei molti limiti

e delle numerosissime imperfezioni (che avrebbero quantomeno consigliato una sostan-ziale revisione), i testi vengono qui riprodotti solo con alcune modifiche grafiche, ma senza sostanziali variazioni rispetto alla versione originale. Dal punto di vista teorico, nella prima edizione di questo volume emergeva in modo piuttosto chiaro una marcata distanza fra il primo capitolo, allineato alle tesi principali del dibattito postoperaista, e i successivi, dai quali affiora invece una prospettiva parzialmente critica. Per questa di-somogeneità (teorica e stilistica) si è preferito escluderlo dalla presente edizione.

17 André Gorz è, insieme a quello di Michel Bosquet, uno degli pseudonimi con cui Gerhard Hirst (cristianizzato in Horst), nato a Vienna nel 1923 e in seguito emigrato a Losanna e a Parigi, ha firmato i suoi principali interventi teorici e politici. Scomparso nel 2007 insieme alla moglie Doreen, all’età di ottantaquattro anni, Gorz ha fissato l’ultimo, personale bilancio autobiografico nella Lettera a D. Storia di un amore, Selle-rio, Palermo, 2008 (ed. or. Lettre à D., histoire d’un amour, Galilée, Paris, 2006). Pre-sentando ai lettori italiani le ultime pagine di Gorz, Adriano Sofri ha scritto: «È stato uno studioso autorevole, un allievo e un intimo di Sartre e di Simone, un fondatore e collaboratore di riviste e giornali importanti (“Les Temps Modernes”, “Le Nouvel Ob-servateur”...), un fiancheggiatore e a volte – come per l’ecologia – un precursore di mo-vimenti culturali e sociali di influenza internazionali. I suoi libri sono letti e studiati un po’ in tutto il mondo» (A. SOFRI, Una sola vita, in A. GORZ, Lettera a D., cit., p. 11). Ma Gorz lascia anche una grande eredità intellettuale, consegnata alle pagine dei suoi spesso provocatori e quasi sempre profetici saggi: cfr., per esempio, A. GORZ, Il tradito-

re, Il Saggiatore, Milano (ed. or. Le Traître, Editions du Seuil, Paris, 1958), ID., La mo-

rale della storia, Il Saggiatore, Milano, 1960 (ed. or. La morale de l’histoire, Seuil, Pa-ris, 1959), ID. Strategie ouvrière et néocapitalisme, Seuil, Paris, 1964, ID., Il socialismo

difficile, Laterza, Bari, 1968 (ed. or. Le socialisme difficile, Seuil, Paris, 1967), ID., Cri-

tica al capitalismo di ogni giorno, Jaca Book, Milano, 1973 (ed. or. Critique du capita-

lisme quotidien, Galilée, Paris, 1973), ID., Sette tesi per cambiare la vita, Feltrinelli, Mi-

Introduzione

simpatetico lettore del saggio Sogni, incubi e visioni, il ragio-namento dell’autore della Metamorfosi del lavoro viene sempli-ficato, e forse persino deformato, nel tentativo di ritrovare – persino nelle pagine del critico più rigoroso della società dei consumi e della razionalità capitalistica – l’ombra novecentesca di Prometeo e l’ultimo residuo del culto industrialista del mo-vimento operaio. Forse alcune delle critiche di Sogni, incubi e

visioni coglievano effettivamente dei punti deboli, e nel ragio-namento di Gorz possono davvero essere individuate una serie di aporie. Ma le sue ipotesi teoriche, le sue sollecitazioni intel-lettuali e la sua tenacia non perdono certo per questo motivo qualcosa del loro valore. Non soltanto perché le opere di Gorz sono uno dei frutti migliori di una grande stagione – forse irri-petibile – di dibattito collettivo, e perché i suoi scritti non ces-sano, ancora oggi, di sollecitare nuove domande. Ma, soprattut-to, perché mostrano ai nostri occhi il più prezioso significato di uno sguardo «radicale» verso il presente. Uno sguardo che realmente – contro ogni incrostazione ideologica e contro ogni urgenza di sintesi – sia in grado di volgersi «alle radici delle co-se».

Mantova, marzo 2009

lano, 1977, ID., Ecologie et liberté, Galilée, Paris, 1977, ID., Ecologia e politica, Cap-pelli, Bologna, 1978 (ed. or. Ecologie et politique, Galilée, Paris, 1975), ID., Addio al

proletariato. Oltre il socialismo, Edizioni Lavoro, Roma, 1982 (ed.or. Adieux au prole-

tariat. Au de la de socialisme, Galilée, Paris, 1980), ID., La strada del paradiso.

L’agonia del capitale, Edizioni Lavoro, Roma, 1984 (ed. or. Le chemins du paradis.

L’agonie du capital, Galilée, Paris, 1983), ID., Metamorfosi del lavoro. Critica della ra-

gione economica, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, ID., Capitalismo, socialismo, eco-

logia. Orientamenti, Disorientamenti, Manifestolibri, Roma, 1992, ID., Il lavoro debole,

Edizioni Lavoro, Roma, 1994, ID., Miseria del presente, ricchezza del possibile, Mani-festolibri, Roma, 1998 (ed. or. Misères du présent, richesse du possibile, Galilée, Paris, 1997), ID., L’immateriale. Conoscenza, valore, capitale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003 (ed. or. L’immatériel. Connaisance, valeur, et capital, Galilée, Paris, 2003), e, in-fine, i saggi raccolti in ID., Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009 (Ecologica, Galilée, Pa-ris, 2008), in cui l’introduzione, L’ecologia politica, un’etica della liberazione, pp. 11-25, frutto di un’intervista realizzata nel 2005 da Marc Robert, ripercorre le tappe princi-pali della riflessione di Gorz.

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