Scritti sparsi di economia politica

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Raccolta di articoli di economia politica Avviso: Su molti dei seguenti argomenti ho cambiato idea. Anche radicalmente. William Vittore Longhi Sommario l'innominabile ............................................................................................................................................... 2 la banca centrale è compatibile con un ordinamento di libero mercato?....................................................... 4 baburu o degli eccessi speculativi ................................................................................................................. 5 l'unica strada per visco? nuove tasse... ......................................................................................................... 7 riflettiamo sull'economia con hayek ............................................................................................................. 8 Bernanke ed il futuro della moneta............................................................................................................. 10 tassi bce e ciclo economico ......................................................................................................................... 12 finanziaria, un miserevole pacchetto privo di modernizzazione ................................................................... 14 patto di stabilità: un continente in affanno ................................................................................................. 15 la competitività... ........................................................................................................................................ 16 inerzia dei governi e credibilità della moneta unica..................................................................................... 17 fitoussi: nostalgico di un potere interventista ............................................................................................. 19 il cuore degli italiani dentro un telefonino .................................................................................................. 20 tasse: giri a sinistra e................................................................................................................................... 21 tasse: la politica vive tra nì e liti .................................................................................................................. 22 il dollaro perde quota ................................................................................................................................. 23 la scuola austriaca di economia comincia a parlare anche in italiano........................................................... 24

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alcuni articoli comparsi su web o piccoli quotidiani a scarsissima diffusione.

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Raccolta di articoli di economia

politica

Avviso:

Su molti dei seguenti argomenti ho cambiato idea. Anche radicalmente.

William Vittore Longhi

Sommario

l'innominabile ...............................................................................................................................................2

la banca centrale è compatibile con un ordinamento di libero mercato?.......................................................4

baburu o degli eccessi speculativi .................................................................................................................5

l'unica strada per visco? nuove tasse... .........................................................................................................7

riflettiamo sull'economia con hayek .............................................................................................................8

Bernanke ed il futuro della moneta ............................................................................................................. 10

tassi bce e ciclo economico ......................................................................................................................... 12

finanziaria, un miserevole pacchetto privo di modernizzazione ................................................................... 14

patto di stabilità: un continente in affanno ................................................................................................. 15

la competitività... ........................................................................................................................................ 16

inerzia dei governi e credibilità della moneta unica ..................................................................................... 17

fitoussi: nostalgico di un potere interventista ............................................................................................. 19

il cuore degli italiani dentro un telefonino .................................................................................................. 20

tasse: giri a sinistra e... ................................................................................................................................ 21

tasse: la politica vive tra nì e liti .................................................................................................................. 22

il dollaro perde quota ................................................................................................................................. 23

la scuola austriaca di economia comincia a parlare anche in italiano ........................................................... 24

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l'innominabile

pubblicato su www.ilpungolo.it 23/01/2008

Recessione. Paura, eh? Pare di vedere Fabio De Luigi, tutto di nero vestito, nella sua nota parodia del giallista Lucarelli. Gli operatori hanno paura. I risparmiatori hanno paura. I governi hanno paura e pure le banche centrali. Eppure la recessione, ormai, la scontano un po' tutti i mercati. Dicono che ha deluso il piano fiscale di Bush, che per la verità vale circa 145 miliardi di dollari, l'1,0% del pil Usa, mica poco. Se aggiungiamo la Fed pronta a tagliare i tassi in modo sempre più energico, ci si dovrebbe chiedere cosa si vuole di più. La verità è che questa recessione appare sempre di più una porta aperta verso l'ignoto. O forse, peggio, verso qualcosa di terribilmente noto. Ad esempio, la stagflazione, cioè la recessione a braccetto fatale con l'inflazione galoppante. La stagflazione è l'innominabile mostruosità di cui si sussurra periodicamente, fra risatine nervose e mutismi pensosi, dall'ormai lontana crisi del 2000 dei titoli "high tech" in Usa. Da quando oro, petrolio e materie prime hanno iniziato a correre al rialzo, senza più freni. Come la Grande Crisi del '29, la stagflazione degli anni '70 sembrava doversi archiviare come fenomeno irripetibile in futuro. Abbiamo imparato la lezione, si dice spesso, e certe cose vanno derubricate come puri eventi storici da dibattiti accademici. E però... e però c'è qualcosa nell'aria che si respira quotidianamente sui mercati finanziari di tutto il mondo, una specie di tremore sulle labbra degli analisti e degli operatori. L'attesa per qualcosa che potrebbe essere quasi giunta a maturazione. Si cerca di esorcizzare certi timori guardando fiduciosi alla solida fermezza di Trichet sulla stabilità dei prezzi, ascoltando immoti e riverenti le dichiarazioni lucide di Bernanke, aspettando speranzosi l'esecuzione del piano di rilancio appena reso pubblico da Bush junior; magari anche la rivalutazione dello Yuan e l'aumento dell'offerta di petrolio dell'Opec. Ma la realtà parla un linguaggio scarno e privo di ambiguità: le borse di tutto il mondo vanno in picchiata, anticipando una congiuntura che già ora è critica e che per il futuro si annuncia plumbea. E i prezzi continuano a salire, un po' ovunque. Le statistiche elaborate per monitorare l'inflazione sembrano costruite apposta per depositare un velo grigio sulle dinamiche reali dei prezzi. Ma ogni cittadino ha una percezione chiara e inequivocabile del suo potere d'acquisto: almeno dal 2000 ad oggi, in Eurolandia come in Usa o in Gran Bretagna, tutto ciò che può finire nella borsa della spesa ha visto crescere il proprio prezzo di mercato. Pane e pasta, frutta e verdura, servizi e abbigliamento, tariffe pubbliche, immobili, terreni, giocattoli, biscotti, luce, gas. La lista non ha fine. Solo lì dove innovazione tecnologica, produttività crescente e concorrenza hanno agito con continuità, è stato possibile vedere lo spettacolo ormai rarissimo dei prezzi discendenti: Pc, televisori, alcuni elettrodomestici, cellulari e ammennicoli tecnologici di svariata natura. Peccato che si tratti di beni di consumo durevole, e spesso con una domanda ormai satura. Ma quando è iniziato tutto questo? Quando è successo che ci siamo distratti e i prezzi hanno iniziato a volare? Qualcuno ancora si attarda colpevolmente ad accusare il "changeover" dell'euro, come se l'inflazione fosse una questione isolata dell'Unione monetaria. Tutti a guardare il dito puntato alla luna. Ma la luna è altrove, è oltreatlantico, per la precisione in Usa. E' almeno dalla gestione Clinton-Greenspan, passando per quella di Bush junior-Greenspan, fino all'accoppiata odierna Bush junior-Bernanke, che la politica economica targata Usa è orientata ad offuscare il mercato nazionale ed internazionale con montagne di dollari e titoli di debito. Cumuli di carta che finalmente cominciano a sgonfiarsi come sufflé, ma che hanno ormai radicato, gradualmente e perniciosamente in tutti i paesi industrializzati, condizioni di crescita irreale e situazioni finanziarie fragilissime. L'epilogo dei mutui subprime (a bassa solvibilità) è da considerarsi solo l'ultimo di una serie di eccessi, frutto di una mentalità ultraspeculativa che ha accompagnato la finanziarizzazione dell'economia degli ultimi 15 anni. Nel frattempo le famiglie e le imprese, sia in Usa che in Gran Bretagna e in Eurolandia, hanno accentuato la loro propensione all'indebitamento e all'investimento in strumenti finanziari sempre più complessi, quasi sempre incoerenti con le rispettive esigenze di bilancio familiare e di piano industriale. Si è giunti così alla giostra finanziaria odierna che ha sostituito l'economia reale della produttività e della parsimonia: credito al consumo senza

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limiti anche per beni e servizi dai costi irrisori; mutui accesi senza garanzie opportune e subito cartolarizzati per la loro negoziazione; finanziamenti concessi per speculare anziché investire, e poi salvataggi periodici, a spese del contribuente, di quei giganti protagonisti della finanza internazionale che hanno illuso i cittadini del mondo occidentale di potersi arricchire senza vincoli di bilancio. Gli Usa hanno insegnato al mondo intero come si fa: denaro facile e spesa pubblica. Basta prendere le antiche prescrizioni di Keynes, nate per un mondo in ristagno, ed applicarle con un orientamento sociale neocon. Rileggiamo Keynes nella sua Teoria Generale:"Lo stato dovrà esercitare un'azione direttiva sulla propensione a consumare, in parte mediante il suo schema di imposizione fiscale, in parte fissando il saggio d'interesse e in parte, forse, in altri modi" (pagg. 335-6 dell'edizione italiana del 1963, Utet). Gli"altri modi" sembrano coincidere con la socializzazione degli investimenti, prescrizione rintracciabile a pag. 336. Bene. La ricetta keynesiana per il raggiungimento della piena occupazione, così come appena descritta, è stata attuata dall'amministrazione Bush junior e dalla Fed di Greenspan (oggi Bernanke) in modo quasi perfetto, seppur rovesciandone l'ispirazione sociale. Tutto in Keynes era rivolto alle fasce più deboli, ai ceti medio-bassi. Tutto con Bush-Greenspan è stato indirizzato alle fasce più ricche e alla speculazione finanziaria pura. La politica fiscale ha visto sgravi soprattutto per le aliquote più elevate e per i guadagni di capitale, anziché per i redditi da lavoro e d'impresa. Il saggio d'interesse è stato mantenuto artificialmente basso, facilitando le operazioni ultraspeculative anziché gli investimenti ragionevoli e redditizi nell'impresa industriale e commerciale. E la terza ricetta keynesiana, la socializzazione degli investimenti, è avvenuta in due modi: con il protezionismo dei settori più esposti alla concorrenza globale (come, ad esempio, acciaio e agricoltura) e soprattutto con la guerra in Iraq, che ha consentito all'amministrazione americana di ingraziarsi tutte le lobby che da dazi, contingentamenti e commesse di stato traggono i loro profitti. Se al posto dell'Iraq mettiamo il Vietnam e ricordiamo come l'espansione monetaria statunitense degli anni '60 - resasi necessaria per il mantenimento delle enormi spese belliche - abbia poi trasferito al mondo intero i suoi effetti inflattivi e recessivi, sembra di assistere oggi allo stesso pauroso spettacolo. Si va verso una nuova stagione di stagflazione? Dobbiamo prepararci ad un tragico revival economico degli anni '70? Per fortuna, non è un'ipotesi così probabile, ma le condizioni di fondo sembrano esserci tutte. Questa specie di keynesismo neoconservatore sta conducendo da almeno tre lustri le nostre economie a balzare da una bolla speculativa all'altra. Prima o poi, le speculazioni fanno sentire il loro peso, si capisce che i prezzi sono distorti ed emerge la crisi di liquidità. Per evitare un doloroso riequilibrio, le autorità monetarie e fiscali statunitensi (e non solo statunitensi) si sono abituate a dare periodicamente un colpetto di acceleratore, spingendo sul gas dei dollari a volontà. Ora però, la stagflazione potrebbe essere già in circolo nelle vene delle nostre economie, anche quando le statistiche ci raccontano la favoletta che l'inflazione è solo poco sopra il target fissato dalla Bce e che l'economia Usa ha soltanto rallentato la sua corsa. Un serio riequilibrio internazionale necessiterebbe di un'economia Usa in moderato rallentamento per diversi trimestri; di un rapido apprezzamento dello yen e una rivalutazione consistente dello yuan, affinché la crescita possa spostarsi in questi due paesi sulla domanda interna. Sarebbe necessaria una politica monetaria e fiscale che, in Usa come in Eurolandia, in Giappone, Cina e India, guardi alle difficoltà reali di chi ha un lavoro dipendente e di chi fa impresa rischiando in proprio, premiando produttività, creatività e innovazione. E magari sarebbe anche opportuno liberarsi definitivamente di questi keynesiani alla rovescia, neoconservatori paternalisti con le lobby finanziarie, che si spacciano per liberisti e si divertono a fare gli illusionisti con il futuro delle persone.

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la banca centrale è compatibile con un

ordinamento di libero mercato?

Pubblicato su www.ilpungolo.it 05/10/2008

Ma i cicli economici sono inevitabili? Le crisi ricorrenti che investono i mercati mobiliari e immobiliari, diffondendo incertezza e timori d'impoverimento tra ampi strati della popolazione lavoratrice, sono connaturate al capitalismo? In questi giorni di mutui sub-prime sulla bocca di tutti i commentatori, vale la pena di approfondire meglio la questione del regime monetario in un'economia di libero mercato. La domanda fondamentale è: la banca centrale è compatibile con un ordinamento di libero mercato? È veramente un'istituzione in grado di stabilizzare il valore della moneta e assicurare crescita durevole all'economia? O non è forse uno degli ultimi baluardi del centralismo e dell'interventismo di stato? La banca centrale è, insomma, il presidio dei deboli e della democrazia contro l'egemonia plutocratica e finanziaria, o la causa stessa delle esagerazioni ultra-speculative che ciclicamente espongono famiglie e imprese a pericoli di depauperamento e fallimento? Vediamo innanzitutto cosa fanno le banche centrali: sono istituzioni pubbliche, in buona parte indipendenti dal potere politico, ma non per questo indifferenti ad esso, che in regime di monopolio emettono moneta non convertibile in un collaterale reale (oro, ad esempio). Tale privilegio consente a questi istituti di influenzare il costo del danaro, manovrando due "leve" monetarie che agiscono sul mercato interbancario a breve termine, il primo anello di congiunzione tra la banca centrale e il sistema economico reale. La prima leva è quella delle operazioni a mercato aperto, la seconda riguarda le operazioni marginali. Con le operazioni a mercato aperto, le banche centrali forniscono liquidità temporanea alle banche commerciali (normalmente, con pronti contro termine) e da qui all'intero sistema economico. Le operazioni marginali sono, invece, operazioni con cui si limitano le oscillazioni dei tassi di mercato, mantenendoli in linea con i tassi di riferimento stabiliti dall'istituto centrale. Entrambe le leve monetarie consentono alla banca di condizionare il mercato interbancario a breve, influenzando a cascata la curva per scadenze dei tassi d'interesse. Il tasso d'interesse, però, è un prezzo come gli altri, ed esprime l'incontro fra domanda e offerta di fondi mutuabili, cioè tra domanda e offerta di risparmio. Diversamente dagli altri prezzi di mercato, i tassi d'interesse subiscono l'influenza sistematica delle banche centrali, il cui obiettivo, più o meno esplicito, è quello di mantenere la stabilità dei prezzi nel medio termine. La teoria che più influenza l'attività delle banche centrali potremmo definirla una sorta di monetarismo debole, annacquato. A questo punto possiamo chiederci: ma senza il tasso fissato dalle banche centrali, che cosa avremmo? Avremmo il tasso naturale d'interesse, cioè il tasso che si affermerebbe se l'offerta di moneta fosse libera, cioè non controllata direttamente o indirettamente dallo stato o da qualunque autorità centrale, e libera fosse la contrattazione tra le parti interessate (risparmiatori, consumatori, investitori). Ora, è evidente che un sistema di libero mercato propugna la libera negoziazione di tutti i prezzi. Alcuni prezzi presentano particolari criticità, e basti pensare al prezzo del lavoro, che riguarda le fatiche fisiche ed intellettuali delle persone, e che come tale è certamente quello su cui esistono più remore morali nel lasciare piena libertà di determinazione al mercato. Ma il tasso d'interesse? Perché lasciare che sia un istituto statale ad influenzare costantemente il costo del danaro? Cosa c'è di liberale in questa politica monetaria? Per paradosso, statalisti di destra e sinistra accusano spesso le banche centrali di essere serve del pensiero unico iper-liberista e turbo-capitalista, ma il liberismo non c'entra un accidente con la fissazione burocratica, tecnocratica e centralista dei tassi d'interesse. Non si comprende affatto perché il sistema delle banche centrali debba considerarsi parte integrante di un ordinamento liberale, dato che invece esprime esattamente l'opposto, è cioè una gestione dirigista del mercato del credito. Per lo stesso motivo si comprende ancor di meno perché debba considerarsi proprio dell'economia libera l'alternarsi di situazioni di crescita e di crisi, con tanto di scandali, insicurezza sociale, fallimenti economici e turbolenze finanziarie. La sensazione è anzi che l'attività delle banche centrali sia stata spesso incapace di assicurare qualsivoglia stabilità, sia del potere d'acquisto sia di un regolare svolgimento degli affari commerciali e industriali. La controrivoluzione monetarista, in tutte le

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sue versioni successive, bisogna riconoscerlo, ha condotto ad una gestione più limitata che in passato dell'offerta di moneta da parte degli istituti di emissione, introducendo una maggiore sensibilità alla crescita degli aggregati monetari e delle loro contropartite. Si è inoltre diffusa la pratica dell'inflation targeting come obiettivo principale per una banca centrale che voglia sostenere condizioni di stabilità per lo sviluppo di un'economia. Il monitoraggio attento degli aggregati monetari e l'inflation targeting possono anche considerarsi dei passi in avanti, poiché hanno introdotto politiche monetarie meno accomodanti nei confronti delle pressioni politiche, tutte volte ad avere tassi bassi, ora e sempre. Ma si tratta di regole di comportamento che mantengono comunque inalterate le condizioni di base, e cioè il monopolio pubblico di emissione monetaria, la non convertibilità della base monetaria, e il privilegio della riserva frazionaria di cui godono le banche commerciali. C'è inoltre un'asimmetria di fondo negli obiettivi di politica monetaria dei regimi attuali: l'inflazione moderata va bene, la deflazione no, mai e in nessun caso. L'altra faccia della lotta ragionata e cauta all'inflazione è, infatti, la guerra di sterminio contro il flagello biblico della deflazione, cioè il processo di riduzione generalizzata dei prezzi. La deflazione è vista unicamente come fenomeno monetario destabilizzante, per vari motivi: ad esempio, perché gli incrementi in termini reali di salari e stipendi possono condurre ad un decremento della domanda di lavoro delle imprese; perché gli aumenti in termini reali dei debiti di famiglie e imprese possono indebolire la loro domanda di beni e servizi, mettendo al contempo in difficoltà gli stessi istituti che li hanno finanziati; perché gli aumenti in termini reali dei tassi d'interesse possono far diminuire la domanda di finanziamento esterno delle aziende; perché lo spostamento delle aspettative verso ulteriori diminuzioni dei prezzi possono ingenerare un rinvio delle spese per poter beneficiare di prezzi più bassi in futuro, con diminuzioni a spirale della domanda. Una selva intricata di perché, che impone una battaglia economica e morale alla deflazione da parte delle banche centrali. Eppure, in una società in pieno sviluppo, una moderata deflazione dovrebbe essere il naturale portato degli incrementi di produttività. Con la deflazione si recupera potere d'acquisto. Ma niente da fare: per le banche centrali la deflazione succhia via liquidità dal mercato e rende i debiti insostenibili. Debiti insostenibili? Ma chi è il responsabile degli elevati livelli di indebitamento a cui giungono famiglie e imprese? Chi se non il grande manovratore del costo del danaro? Chi se non le banche centrali e i loro tassi arbitrari? Gli incrementi in termini reali dei debiti, che possono effettivamente mettere in difficoltà i soggetti più esposti, sarebbero ben più gestibili se non si vivesse in società con famiglie sempre più incentivate all'indebitamento, piuttosto che al risparmio (si parla di have-it-now ownership society) e con imprenditori sempre più dediti ad operazioni finanziarie ultra-speculative, anziché a pianificare nuovi progetti industriali solidi. Tutto questo si paga prima o poi, e si traduce in instabilità e crisi ricorrenti, che colpiscono sempre, sistematicamente, le fasce più deboli e meno protette, prima lusingate e sedotte con i debiti facili, poi abbandonate alla disperazione dell'insolvenza.Una banca centrale che volesse davvero fornire condizioni di stabilità all'economia dovrebbe lasciar perdere l'obiettivo della stabilità dei prezzi che, da un lato, è irraggiungibile se non in maniera illusoria o fraudolenta e, dall'altro lato, impedisce al sistema di vivere anche le sue ordinarie, purché moderate, fasi deflazioniste durante gli incrementi di produttività. Una banca centrale che volesse davvero simulare un sistema libero dovrebbe probabilmente rinunciare a modificare così frequentemente i tassi a breve termine, ridimensionare il suo ruolo di prestatore di ultima istanza, incrementare gradualmente le riserve obbligatorie richieste al sistema bancario per i depositi, ed evitare in qualunque circostanza di monetizzare il debito dello stato. In sostanza, una buona banca centrale è una banca che prepara il suo funerale.

baburu o degli eccessi speculativi

pubblicato su www.ilpungolo.it 17/10/2007

Baburu. Così la chiamavano i giapponesi, la Bolla. Gli anni ottanta e i grandi investimenti immobiliari con il cui disastro si chiuse la straordinaria fase di crescita del Sol Levante. Proprio così, Baburu. Eppure, sembra il nome di un simpatico peluche, o magari il protagonista di un manga. Ed invece era il termine utilizzato

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dai nipponici per indicare gli eccessi speculativi di cui ancora pagano le conseguenze. In Usa la grande bolla si definisce Boom o Bubble, secondo i gusti, e la storia ci ricorda che la prima grande bolla è finita in un Great Crash, un grande crollo. Nel frattempo la politica monetaria ha imparato dai suoi errori, almeno così si ritiene, sterilizzando la possibilità di nuovi grandi crolli, ma a quale prezzo? Il costo per i cittadini è stato il potenziamento delle prerogative delle banche centrali: utilizzano l'offerta di moneta in circolazione per dosare a puntino crescita (o disoccupazione) e inflazione. Una specie di magia. Volcker, Greenspan, Bernanke e Trichet? Tanti piccoli Harry Potter. Dopo gli anni ottanta in Occidente Baburu, la bolla, l'hanno opportunamente ridenominata, definendola "euforia irrazionale". Il credito facile pompato in modo inesauribile da Greenspan alla metà degli anni novanta, e ritirato troppo tardi dal mercato, quando ormai il danno speculativo era fatto, scaricò la sua energia prima sui titoli tecnologici e, a cascata, sulle borse in generale, portandole dalle stelle alle stalle. Poi, quando la Fed e le altre banche centrali furono costrette a tenere i tassi a livelli storicamente irrisori per evitare la recessione o peggio, il giro di giostra toccò prima alle obbligazioni per poi spostarsi definitivamente al mercato immobiliare. Tutti a comprare casa: in Usa, in Gran Bretagna, in Italia, un po' ovunque. Ancora una volta un ritocco al rialzo dei tassi, perché non si deve esagerare. E di nuovo tutti giù per terra. Baburu. Anziché essere le banche centrali ad impedire gli eccessi, ancora una volta, sono stati gli eccessi ad accendere la luce sul comodino dei governatori delle banche centrali, che paiono sempre svegliarsi improvvisamente da un lungo sonno, di soprassalto, come se qualcuno avesse loro nascosto qualche notizia di rilievo. Insomma, la magica capacità delle banche centrali, Federal Reserve in primis, di gestire l'offerta di moneta in modo tale da ottenere una crescita equilibrata e sostenibile nel medio termine, con inflazione moderata, si sta rivelando, anno dopo anno, sempre più una chimera. Gli istituti di emissione, liberi di emettere moneta non convertibile in regime di monopolio pubblico, paiono solo in grado di far rimbalzare le nostre economie da un estremo ciclico all'altro, facendoci conoscere, generazione dopo generazione, nuove dimensioni dell'attività speculativa e ultra-speculativa, forme sempre più sofisticate dell'ingegneria finanziaria, in un circuito avvelenato di scaricabarile del rischio che, come un fiammifero, alla fine precipita sempre nelle tasche dei più deboli, i risparmiatori. E così i portafogli si asciugano, dopo una brevissima stagione illusoria di ricchezza facile. Fine dei risparmiatori. E senza risparmio l'economia reale, semplicemente, non ha chance di crescita durevole nel tempo. Ad ogni giro si fa finta di non sapere quali sono gli effetti di certe politiche, ma la fine è nota da un secolo a questa parte: crisi debitoria e capitali bruciati, tassi bassi per rimediare, ancora speculazione senza freni e nuova crisi debitoria, con nuovo salvataggio e così via. Che la crisi colpisca di volta in volta le azioni, le obbligazioni o le case, è solo una questione ciclica. Il problema è che la politica monetaria internazionale dei tassi sistematicamente bassi favorisce l'azzardo finanziario e disincentiva l'attività più naturale: il credito bancario alle imprese che intendono investire su progetti industriali considerati solidi e profittevoli. In realtà qualcosa residua sempre, per fortuna. L'innovazione tecnologica e i miglioramenti di produttività. E poi, le banche centrali hanno imparato a gestire le crisi finanziarie, con interventi coordinati come quelli che abbiamo visto tra la fine della settimana scorsa e l'inizio di questa. Fed, Bce e BoJ hanno pompato denaro fresco per evitare il peggio a breve termine. Lo Yen ne ha approfittato per recuperare terreno in modo generalizzato, schiantando le speculazioni fatte fino ad alcune settimane fa sul differenziale tassi. Bravi. Per questo non mi assocerei al coro di chi prevede l'apocalisse della finanza mondiale prossima ventura. Peraltro, l'integrazione e la liberalizzazione del movimenti di capitali hanno svolto e continueranno a svolgere un ruolo da protagonista come meccanismi di compensazione e riequilibrio di questa squassata economia globale, consentendo continui spostamenti degli investimenti dalle aree più rischiose a quelle più serie, dai paesi stagnanti a quelli emergenti, dalle valute sopravvalutate a quelle ingiustamente dimenticate. È un circuito virtuoso libero e spontaneo che consente aggiustamenti continui. Ma questa mano invisibile è fragile, e subisce la facile tentazione dell'azzardo morale seminato da chi decide sui tassi di riferimento e quindi, di fatto, su cosa conviene o non conviene investire. E quando i tassi sono bassi ed alta è l'attesa di interventi salvifici, statene pur certi, anche i migliori capitani d'industria si abbandonano temerari alle più improvvide avventure speculative. Forse con banche centrali un po' meno protagoniste, l'economia reale, quella vera, che lascia una traccia tangibile nella memoria delle persone e nei patrimoni delle famiglie, troverebbe qualche certezza in più su cui basare le proprie ambizioni di sviluppo, invece di farsi spingere continuamente su quest'altalena impazzita del rischio.

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l'unica strada per visco? nuove tasse...

pubblicato su www.ilpungolo.it 26/05/2006

I conti pubblici vanno a ramengo? Fitch minaccia declassamenti? Per Visco una sola risposta pare possibile: alziamo le tasse. Sarebbe preferibile, e tanto liberale, sottolineare che oltre al lato delle entrate esiste, sul bilancio dello stato, e ne sono sicuro, anche quello delle uscite. Forse per Visco la spesa pubblica può considerarsi una specie di fontanella rionale, a disposizione del viandante che capita. O un rubinetto guasto che perde copiosamente, con l’idraulico che non risponde al telefono. Possibile mai? Le spese sono intoccabili? Innominabili? Non c’è riforma possibile? Una riforma, a dire il vero, è stata tentata. Si avvicina, infatti, la scadenza del referendum costituzionale del 25-26 giugno sulla cosiddetta devolution che tutto consente, tranne il federalismo fiscale e quindi, per esempio, un vero risparmio di soldi pubblici. Tagli alle spese e federalismo fiscale, infatti, sono questioni strettamente correlate. E la correlazione dipende dal principio della responsabilità fiscale, ovvero: un ente territoriale finanziariamente autonomo, e con potestà legislativa in materia di tributi, può spendere unicamente ciò che incassa, al netto di un indebitamento proprio e di trasferimenti dal centro. Tagliando questi ultimi e consentendo a regioni e comuni di stabilire tributi propri e di riscuoterli in via esclusiva, si otterrebbe un circuito virtuoso fatto di migliore efficienza nella gestione dei servizi e dell’amministrazione pubblica di competenza locale. Seguendo tale principio, allo stato andrebbero, da parte degli enti locali, e in ragione delle diverse capacità contributive, solo le somme dovute per quanto concretamente realizzato sul territorio regionale e comunale dall’amministrazione centrale (si spera sempre meno). Nella riforma della Cdl, che sarà sottoposta a referendum a giugno, di queste cose, che sono poi le cose che contano, francamente non vi è traccia alcuna. Eppure, l’hanno redatta la Lega Nord e Forza Italia, mica Rifondazione e Alternativa sociale. Poteva essere l’occasione per una bella sforbiciata alle spese presenti e future dello stato. Occasione mancata. Ma vogliamo parlare di un’altra possibile sforbiciata di cui non parla quasi mai nessuno? Eccola, è l’abolizione delle Province. Mai sentito un leghista accennare alla faccenda. O forse mi è sfuggita qualche dichiarazione in merito. Di certo liberali e repubblicani posero la questione, da perdenti politici professionali, proprio in occasione dell’istituzione delle regioni. Le regioni sono particolarmente artificiose, e sembrano replicare in piccolo parecchie magagne burocratico-assistenziali tipiche degli stati centralisti più ampi. Dato che, però, le regioni sembrano il futuro di questo zoppicante federalismo italico, tanto vale fare i conti con questi enti, e spostare il mirino altrove. E cioè, appunto, sulle province. Fonti scandalose di sprechi, sperperi, intoppi e burocrazia insidiosa, le province campano riccamente con deleghe e funzioni spesso elaborate ad hoc, e si insinuano nel rapporto fisiologico tra regioni e comuni, complicando la vita amministrativa locale, o asservendola alle cricche di turno, che possono in tal modo allargare le proprie capacità di controllo sulle decisioni territoriali. E poi, naturalmente, come tutte le altre istituzioni elettive, spendono, spendono, spendono. A cominciare dagli stipendi per presidenti, assessori, consiglieri, funzionari, impiegati e, dulcis in fundo, consulenti esterni di varia natura, di incongrua retribuzione e di incerta competenza. Di solito, amici degli amici. A tutto questo caravanserraglio organizzato per la spesa dei soldi altrui, è necessario poi aggiungere gli inevitabili costi del clientelismo, fenomeno diffuso cui certamente queste istituzioni non si sottraggono, o cui di certo non oppongono una strenua resistenza. L’abolizione delle province consentirebbe una maggiore diffusione e un consolidamento di forme associative più spontanee e basate su un’autentica condivisione di interessi e problematiche locali, come i consorzi fra comuni. E il resto, alle regioni. Senza le province si avrebbe l’eliminazione dal bilancio dello stato di un pozzo nero fatto di cariche politiche inutili ai cittadini, ma utilissime per la carriera dei giovani rampolli delle dirigenze politiche locali. Ah, a proposito di federalismo. Giusto per rinfrescare la memoria a questa sinistra di conservatori, uno dei più acuti storici dei problemi meridionali, e uomo del socialismo liberale, Gaetano Salvemini, molto prima che D’Alema lanciasse le sue prime molotov o Napolitano si convertisse alla socialdemocrazia pur restando nel Pci, già scriveva: “…lasciate alle Regioni ed ai Comuni tutti i loro denari, all’infuori di quelli che sono necessari al governo centrale per compiere le sue funzioni di interesse

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nazionale; e allora, solo allora, le spese si ripartiranno egualmente, perché allora non si ripartiranno più, ma ognuno si terrà i suoi quattrini e li spenderà sul luogo come meglio crederà” (Scritti sulla questione meridionale). Amen.

riflettiamo sull'economia con hayek

pubblicato su www.ilpungolo.it 18/04/2006

“The Ricardo Effect” è l’ultimo saggio pubblicato da Hayek con contenuti di teoria economica in senso stretto. Era il 1942, e gli interessi del filosofo austriaco avevano già cominciato a spostarsi verso altre direzioni. Di lì a poco sarebbe giunto il grande successo di pubblico di “The Road to Serfdom”, e dell’Hayek economista puro si sarebbero ben presto perse le tracce. Nel dopoguerra infatti, l’economista austriaco spostò i suoi interessi dalla teoria economica alla filosofia politica e sociale, in particolare allo studio dell’origine spontanea delle istituzioni sociali e ai problemi dei limiti della conoscenza individuale. Ma prima dell’Hayek filosofo, è bene ricordarlo, il pensiero liberale ha avuto come suo fuoriclasse l’Hayek economista, la cui attenzione era rivolta alla teoria monetaria e allo studio dei cicli economici. Era il tempo della Grande Depressione, e Keynes stava lavorando al capovolgimento del modello neoclassico, con il depotenziamento del tasso d’interesse come prezzo indispensabile al coordinamento sul mercato dei capitali. Ma prima che si giungesse alla sua General Theory, Hayek aveva già elaborato un suo modello di interpretazione della crescita equilibrata e delle fluttuazioni congiunturali, raccogliendo più spunti teorici: la lezione sulla moneta fornita da Mises nel lavoro del 1912, “Teoria della Moneta e dei Mezzi di Circolazione”; le intuizioni di Knut Wicksell sulle differenze tra tasso naturale e tasso di mercato, e i conseguenti processi cumulativi che conducevano all’inflazione; la teoria del capitale e della struttura produttiva di Bohm-Bawerk. Ne nacque un modello descrittivo delle dinamiche cicliche – oggi noto come modello Mises-Hayek o Austrian Business Cycle Theory - destinato a contrastare per alcuni anni le idee emergenti della Cambridge keynesiana, per poi finire malinconicamente nel dimenticatoio. Metodo logico-deduttivo e formalismo verbale erano gli strumenti di argomentazione tipici di questo modello, ma la matematica stava ormai diffondendosi tra gli economisti, rendendo difficile anche solo articolare un dibattito coerente tra esponenti di una stessa disciplina che cominciavano a parlare delle stesse cose, ma con lingue diverse. Keynes, sotto certi profili, parlava la stessa lingua di Hayek, e respingeva anch’egli di principio un uso eccessivo della matematica in economia. Ma il livello elevato di aggregazione con cui aveva presentato le sue idee risultò infine vincente. La vittoria fu anzi un cappotto. Hayek e Mises quasi scomparvero negli indici dei nomi dei manuali di economia. Oggi la situazione è mutata, e si è tornato a parlare della Teoria Austriaca del ciclo economico, dato che i cicli hanno fatto nuovamente capolino nelle vicende economiche più recenti. Pur essendo il modello denominato Mises-Hayek, fu però Hayek che più si ostinò nel difendere la Teoria Austriaca dei cicli. Sono diversi i saggi cui si potrebbe fare riferimento per ricostruire le idee di Hayek, dalla nota raccolta delle lezioni tenute alla London School of Economics, “Prezzi e Produzione”, del 1931; a “Monetary Theory and the Trade Cycle”, del 1933, e successivamente “Profits, Interest and Investment” del 1939, fino al quasi sconosciuto “The Pure Theory of Capital, del 1941”, cui si deve aggiungere un numero svariato di articoli. Una cosa andrebbe subito sottolineata: non esiste una cesura netta tra questi lavori di economia pura e la filosofia individualista espressa da Hayek negli anni successivi. L’ispirazione comune tra economia e filosofia in Hayek è data dalle sue riflessioni sulla conoscenza individuale. La conoscenza, per Hayek, è soggettiva e limitata, ed è dispersa tra gli uomini in maniera diseguale. Essa è inoltre il risultato dell’elaborazione e dello scambio di informazioni parziali e molteplici che individui dalla razionalità limitata devono selezionare continuamente in un contesto di incertezza. Di qui si comprende la necessità che le informazioni che circolano in un sistema sociale così complesso siano libere, e non manipolate. Ora, tornando all’economia, nei nostri ordinamenti sociali le principali informazioni sono incluse nei prezzi. Un prezzo particolarmente critico è il tasso d’interesse, che coordina il mercato dei capitali. Coordinamento su questo mercato significa che vi è un tendenziale

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incontro continuo fra le scelte di consumo e quelle di investimento. È un incontro intertemporale, poichè consente che la scelta del risparmio, cioè di differire nel tempo una spesa, si trasformi in una mobilitazione di risorse per un incremento della capacità produttiva, e quindi per una maggiore produzione futura, quando presumibilmente torneranno le spese a detrimento del risparmio. È un coordinamento complesso, e spetta al tasso d’interesse fornire chiarezza. In un’economia monetaria, se il sistema bancario si limitasse a svolgere una mera funzione di intermediazione, dall’incontro continuo tra domanda e offerta di fondi per l’investimento scaturirebbe un tasso d’interesse capace di coordinare le rispettive scelte individuali. Wicksell lo definiva tasso d’interesse naturale. Ma lo stesso Wicksell aveva compreso che le banche non si limitano all’intermediazione, e preferiscono giocare da protagonisti, occupandosi non solo di passare potere d’acquisto da una mano all’altra, ma anche di creare ulteriore potere d’acquisto ex novo. L’offerta di moneta, nelle nostre economie, viene cioè distorta da due fattori: il monopolio pubblico dell’emissione di moneta, che si accompagna all’inconvertibilità della stessa e dal ruolo della banca centrale come prestatore di ultima istanza per le banche commerciali; in secondo luogo, dal privilegio della riserva frazionaria accordato alle banche commerciali, che consente a queste ultime di detenere riserve inferiori al valore dei depositi a vista, e prestare la differenza a chi ne faccia richiesta, trasformando il loro ruolo di puro intermediario in creatore di mezzi di pagamento aggiuntivi. Ne deriva una notevole elasticità del credito bancario nei confronti della domanda di fondi delle imprese, poiché l’offerta di moneta può essere arbitrariamente estesa sia dalla banca centrale (operando sulla base monetaria inconvertibile), sia dalle banche commerciali (attraverso i prestiti). È questa la lezione di Mises e Wicksell raccolta da Hayek. Mises, in particolare, parlava di commodity credit come di risparmio genuino a disposizione degli investimenti, distinguendolo dal circulation credit, e cioè di fondi non prodotti da autentiche scelte di risparmio e non coperti da un collaterale reale. Abbiamo così il fenomeno descritto da Mises come “credit creation”, e cioé non si mette in circolazione moneta effettivamente risparmiata, ma moneta inventata, priva di una base reale. È denaro fiduciario (fiduciary media), e niente più. Il risultato di questo sistema è che il tasso d’interesse, così rilevante per il coordinamento del sistema economico, termina di essere un prezzo libero di oscillare, rimanendo frequentemente al di sotto del suo valore naturale. Troppa moneta in circolazione, insomma, rispetto alle risorse reali. L’esito di questo processo di manipolazione si riversa sulla struttura produttiva, secondo la lezione sul capitale di Bohm-Bawerk, recuperata da Hayek. La struttura produttiva di un’economia di mercato è rappresentabile come una complessa articolazione di più tappe produttive che utilizzano beni capitali e risorse umane, e i cui processi si svolgono nel tempo. Partendo dai comparti più vicini al consumo, ad esempio quelli delle vendite al dettaglio, si passa attraverso una catena varia e complessa di tappe intermedie della produzione, con una crescita continua nell’utilizzo del capitale e nell’orientamento a produrre beni finali in un tempo più lungo, fino a raggiungere i settori più lontani dal consumo presente, come i cantieri edilizi, o le attività di ricerca e sviluppo. Se questa è la struttura produttiva, la crescita sana di un’economia capitalista dipende dal risparmio. Il differimento del consumo, infatti, libera risorse per il sistema produttivo, e queste maggiori disponibilità di risparmio, segnalate da un tasso d’interesse più basso, vengono utilizzate soprattutto nelle fasi produttive più lontane dal consumo stesso, più sensibili alle variazioni del tasso d’interesse. La crescita di questi stadi produttivi, a maggiore intensità di capitale, consentirà all’economia di passare successivamente a condizioni di produzione finale superiori a quelli precedenti. Ecco che quindi un tasso d’interesse di mercato reso artificiosamente più basso del suo valore naturale fornisce informazioni errate agli imprenditori, rendendo profittevole investire su progetti industriali destinati a non incontrarsi con le reali preferenze dei consumatori. Ma il sistema non può tenere a lungo. La crescita determinata dal credito facile è insostenibile, si parla di investimenti errati, di malinvestments. Quando le preferenze effettive tornano a galla, le risorse cominciano a spostarsi nuovamente verso il consumo e i suoi settori produttivi, e inizia una competizione sul mercato dei capitali che fa rialzare il tasso d’interesse. Alcune imprese si ritrovano indebitate fino al collo per progetti mai terminati, o si ritrovano a fronteggiare mercati la cui domanda è decisamente inferiore alle attese. Il boom si rivela per una parte consistente una grossa bufala collettiva il cui prezzo è la liquidazione di investimenti errati e una disoccupazione più elevata. È la fase della crisi. E la crisi trae la sua origine nel boom artificiale precedente. Qualunque crisi è grave poichè abbiamo capitale umano che si è formato in settori insostenibili, e beni di produzione, specifici e durevoli, che bisogna riconvertire per poterli utilizzare in settori più vicini al consumo, e questo non sempre è possibile, se non in parte e a costi elevati. Questo è, in

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estrema sintesi, il modello cosiddetto Mises-Hayek dei cicli economici, caduto in disgrazia dopo il successo del modello keynesiano. Effettivamente, nonostante le diverse varianti presentate nel tempo da Hayek, la teoria presentava, diciamo, dei “buchi di sceneggiatura”. In particolare, questa teoria del ciclo è una teoria basata su variazioni relative degli investimenti in settori diversi, il cosiddetto malinvestment, e non considera seriamente il sovrainvestimento, cioè la possibilità che l’economia riesca temporaneamente a produrre persino al di là dei propri mezzi. Gli errori di investimento si possono effettuare solo in termini relativi (intertemporali), e non assoluti. Così come il sovrainvestimento non rappresentava un problema per gli Austriaci, così il fenomeno parallelo del sovraconsumo era un’idea che Hayek scartava a priori, e riteneva possibile solo in una fase finale del ciclo, fase che avrebbe segnalato le effettive preferenze temporali dei consumatori, mettendo in difficoltà gli imprenditori esposti su progetti industriali di lungo termine. Mises, d’altra parte, aveva considerato il sovraconsumo come un fenomeno sociale tipico delle fasi di crescita artificiale, ma senza considerarne le possibili conseguenze sulla struttura produttiva in termini di sovrainvestimento. Di più: Hayek ha per lungo tempo preferito parlare di risparmio forzato, per sottolineare proprio la distorsione temporale della struttura produttiva durante il ciclo, con imprese incapaci di soddisfare la domanda di consumi perché orientate a produrre per il futuro, con consumi correnti frustrati da una produzione insufficiente. Hicks fece notare ad Hayek che in realtà salari e stipendi pagati dalle imprese in errore nei loro investimenti di lungo termine sarebbero comunque confluiti sul mercato seguendo le preferenze effettive dei lavoratori, segnalando in poco tempo la giusta proporzione tra consumi e risparmi scelti dagli agenti.Roger W. Garrison, professore alla Auburn University, ha rielaborato di fatto il modello di ciclo Austriaco, rendendolo meno attaccabile su questi punti (introducendo l’ipotesi del sovrainvestimento e del sovraconsumo), e più confrontabile con le teorie macroeconomiche alternative moderne, senza per questo modificarne i principi di fondo. E molti economisti e analisti stanno ricominciando a guardare con serietà al modello Mises-Hayek, anche per interpretare meglio la realtà degli ultimi quindici anni. Se infatti andiamo riguardare il ciclo degli Usa negli anni ’90, culminato con la recessione della primavera 2001 e la ripresa successiva, possiamo individuare segnali classici del modello Mises-Hayek. Greenspan ha mantenuto il costo del danaro sistematicamente basso, come risulta dalla continua crescita dell’offerta di moneta in quegli anni, aiutato dagli incrementi di produttività determinati dalla rivoluzione tecnologica, e dalla forza del dollaro, valuta di riserva mondiale. Seguendo la logica Austriaca del ciclo, negli anni ’90 Greenspan ha creato il boom, lo ha calmierato solo in parte, per poi farlo ripartire. Ciò significa che in tutto il periodo di ribasso aggressivo dei Fed Funds (giunti all’1% nel 2003 e mantenuti tali per un anno) sono state mobilitate ulteriori risorse non solo per evitare la crisi, ma anche per dare carburante ad altri investimenti (privati e pubblici) sbagliati o eccessivi. Siamo passati dalla bolla di internet e delle telecomunicazioni della metà degli anni ’90 a quella delle obbligazioni e degli immobili del XXI secolo, dai forti livelli di indebitamento e speculazione tra le imprese durante la New Economy di Clinton, ai forti livelli di indebitamento delle famiglie e dello stato sotto l’amministrazione bellica di Bush junior. È difficile dire fino a quando e se la Fed potrà mantenere tutto in piedi senza che si giunga ad una crisi finanziaria. È invece sicuro che i testi di Hayek e Mises, grazie anche alle recenti modifiche di Garrison, continuano ancora a fornire, a 70 anni di distanza, una serie di spunti utili, e liberali, su cui ragionare.

Bernanke ed il futuro della moneta

Pubblicato su www.ilpungolo.it 25/02/2006

"Farò tutto quanto in mio potere per assicurare la prosperità e la stabilità dell'economia Usa", disse Bernanke poco dopo la nomina ufficiale alla guida della Federal Reserve System, risalente ormai allo scorso ottobre. Dal 1 febbraio di quest’anno la sostituzione annunciata è divenuta effettiva, e Bernanke ha preso il posto di Greenspan dopo 18 anni di presidenza dai tratti quasi mistici. Nei giorni scorsi Bernanke ha finalmente inaugurato le sue prime audizioni di fronte alle Commissioni che contano, la House Financial

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Services Committee e la Senate Banking Committee. Niente di particolarmente nuovo è uscito fuori da queste testimonianze. I tassi a breve continueranno a salire per raggiungere un valore di neutralità nei confronti dell’economia reale, che rimane solida e in crescita nonostante gli sbilanci arcinoti del deficit commerciale e del deficit pubblico. Del resto, analisti, operatori e politici sembra si siano già fatti un’idea comoda del successore di Greenspan, sperando in una politica monetaria che prosegua la linea degli ultimi vent’anni, senza strappi. Ma ad un Bernanke continuista dell’era Greenspan, tanto desiderato e auspicato dalla maggioranza degli operatori, sarebbe forse preferibile un Bernanke realista, come quello che a luglio del 2005, dopo aver lasciato il board della Federal Reserve per andare alla Casa Bianca a guidare il Consiglio Economico, non esitò a sottolineare con forza, ed un pizzico di malinconico pessimismo, quel che non funzionava nell’economia americana. In quell’occasione Bernanke fece presente che: "Nel 2004 abbiamo preso a prestito qualcosa come 666 miliardi di dollari". Una cifra abnorme. E aggiunse poi: "Il tasso di risparmio negli Stati Uniti nel 1985 era pari al 18 per cento del Pil, nel 1995 si era ridotto al 16 per cento; e nel 2004 al 14 per cento". E gli ultimi dati relativi al quarto trimestre del 2005 hanno confermato tale tendenza generale, facendo registrare un tasso di risparmio in calo di un altro 0.5% nel 2005. Un dato preoccupante, dato che dal risparmio dipende lo sviluppo futuro di un paese, essendo il risparmio la base reale per i progetti d’investimento. Ma negli Usa guidati da Greenspan, per compensare il risparmio che diminuiva, e spingere la crescita ai ritmi vertiginosi osservati nella seconda metà degli anni ‘90, si è fatto ricorso ad una ricetta non troppo originale: basso costo del danaro, ovvero dollari in abbondanza. Ma i tassi mantenuti bassi con sistematicità certosina hanno disincentivato negli anni ’90 l’attività di risparmio di famiglie, imprese e stato federale, e favorito al contempo una politica creditizia particolarmente accomodante da parte delle banche commerciali nei confronti di chi intendeva indebitarsi. In assenza di risparmio interno sufficiente, i prestiti sono stati coperti con i dollari emessi dalla Fed e prestati agli americani dal sistema bancario per investire e consumare, consumare e investire, e poi ancora investire e consumare, senza sosta. In un circuito vizioso che ha drogato il sistema rendendolo sempre più vulnerabile ai rialzi dei tassi e alla volubilità del risparmio estero, principalmente cinese, giapponese e coreano. Ora, il denaro a buon mercato è uno strumento sicuramente potente, ma anche rischioso, distorsivo e in parte illusorio. L’economia americana, con i suoi favolosi tassi di crescita del Gdp della seconda metà degli anni ’90 e degli anni successivi alla recessione del 2001, è stata infatti finanziata per una parte cospicua con un ricorso all’indebitamento che si è infine rivelato sia eccessivo che mal diretto. Eccessivo, nel senso di un indebitamento di troppo superiore rispetto alle risorse effettivamente disponibili, cioè fornite dal risparmio genuino; uno sbilanciamento testimoniato dalla crescita continua dello stock di moneta nello stesso periodo in cui il risparmio diminuiva. Mal diretto, nel senso di aver incentivato investimenti concentrati nei settori di volta in volta favoriti dall’offerta di moneta statale, cioè l’azionario, e poi l’immobiliare e poi ancora l’obbligazionario, con bolle in serie che hanno creato la stretta necessità di un attento monitoraggio e un crescente rischio di crisi finanziaria. La politica monetaria di Greenspan ha inoltre inciso anche sul risparmio estero, dato che paesi come la Cina, l’India, la Corea del Sud e i paesi esportatori di petrolio hanno in questi anni reinvestito in titoli del Tesoro e obbligazioni societarie targate Usa i dollari ottenuti commerciando con gli americani. E così gli stessi dollari che venivano emessi senza tregua dalla Fed finivano pure fuori dai confini, per rientrarci sotto forma di prestiti dall’estero, contribuendo non poco a mantenere bassi i tassi d’interesse sui titoli del Tesoro americano decennali, nonostante i quattordici rialzi consecutivi dei tassi di riferimento. E il mantenimento dei tassi a lungo termine su valori più bassi di quelli naturali consente alle bolle di non esplodere, ma conserva intatte le condizioni di distorsione della struttura produttiva. Infatti, una politica monetaria troppo accomodante tende a creare problemi di lunga durata ad un’economia, traducibili in una all’allocazione squilibrata delle risorse disponibili, causata dai ridotti costi di finanziamento degli investimenti che rendono redditizi anche piani industriali non del tutto giustificabili, e favoriscono investimenti in alcuni settori a scapito di altri. L’eredità di Greenspan, allora, si può sintetizzare in una sola parola: debito. Greenspan lascia a Bernanke e agli americani tutti un’economia che ha affrontato – è innegabile - una straordinaria fase di aumento della produttività. Ma la Fed di Greenspan ha scelto di finanziare questo magnifico sviluppo produttivo e tecnologico con una marea montante di moneta, di liquidità priva di autentico risparmio alle sue spalle, abituando gli americani, per lungo tempo, a vivere ben al di sopra dei loro mezzi. Peccato, perché in fondo l’economia americana non aveva bisogno di questa spinta “cartacea” per crescere in maniera solida. Gli Usa godevano già degli

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incrementi di produttività determinati dalla rivoluzione tecnologica delle telecomunicazioni e dell’informatica; della forza del dollaro come valuta di riserva; della riduzione del costo delle importazioni grazie all’esplosione sul mercato internazionale di nazioni come la Cina e l’India, con costi del lavoro irrisori; dell’elevata competitività strutturale dell’industria americana, frutto della deregulation reaganiana, e di un mercato del lavoro interno flessibile. Grazie a questi fattori la stessa inflazione finora è stata contenuta (almeno per le statistiche ufficiali), e la Fed ha potuto agire quasi indisturbata. Ma l’inflazione è un problema relativo, che può anche emergere in maniera accettabile sul breve periodo. E però quel che conta in un’economia, quantomeno per i suoi equilibri di lungo termine, sono i prezzi relativi tra i beni di consumo e i beni capitali, e i prezzi relativi tra i diversi settori produttivi, da cui dipendono gli investimenti. Sono i prezzi relativi che regolano costantemente l’allocazione delle risorse disponibili nei diversi comparti industriali. Modificando artificialmente e con continuità questi prezzi così critici (ad esempio, mantenendo basso il costo del danaro), si inviano al mercato segnali riguardanti la profittabilità degli investimenti del tutto inadeguati rispetto ai valori fondamentali dell’economia, cioè alle effettive preferenze degli individui.In termini più generali, il problema non è però Greenspan, né in futuro sarà Bernanke. Il problema resta legato alle caratteristiche dei nostri regimi monetari, dove il monopolio di emissione di moneta legale a corso forzoso attribuisce poteri straordinari ai consigli direttivi delle banche centrali. I vincoli statutari che limitano l’offerta di moneta, stabilendo obiettivi d’inflazione nel medio termine, sono paletti che non possono comunque impedire l’irrazionalità di fondo insita in un sistema di gestione centralizzato dell’offerta di moneta.Pur ponendosi Bernanke a metà, sotto il profilo delle convinzioni teoriche, tra Volker e Greenspan, la sua idea di inflation targeting non potrà mai comunque rendere il sistema attuale più efficiente. L’attuale prevalenza dell’obiettivo della stabilità dei prezzi nel medio termine tra le principali banche centrali mondiali è comunque migliore di qualunque alternativa fondata sulla mera discrezionalità. Ma rimane un sistema rigido, burocratico, sensibile alle sirene politiche e tendenzialmente disequilibrante. Se un’autorità centrale si lancia in tentativi di gestione di variabili macro molto complesse da stimare e monitorare, rischia sempre di ritrovarsi in situazioni in cui non si fa a tempo a turare una falla, che ne sbuca fuori un’altra. E così, per un’esuberanza irrazionale lasciata correre ci si ritrova nel bel mezzo di una spiacevole bolla azionaria, che scoppiando porta alla recessione, il cui atterraggio morbido costringe a creare una bolla immobiliare, finché per bloccare gli eccessi della bolla immobiliare si rischia di frenare una fragile ripresa, mentre nel frattempo si gonfia una bolla obbligazionaria e i consumatori continuano ad indebitarsi per tenere alto il tenore di vita, perché la vita è breve. E così via di seguito, nel nome, neanche a dirlo, della stabilità e dei suoi miti moderni. E a rimetterci sono sempre i soliti: chi arriva ultimo sulla bolla di turno e si becca solo il declino, o chi non ha potere per chiedere soldi in banca o non ha forza contrattuale per chiedere adeguamenti nominali del proprio reddito, come possono fare invece i lavoratori dei settori sindacalizzati o i dipendenti statali. La ricerca di condizioni di neutralità dei tassi è una chimera. L’unica neutralità monetaria possibile sarebbe quella determinata da un sistema decentrato di emissione di moneta. Ma non sembra che Bernanke sia interessato ad una simile faccenda.

tassi bce e ciclo economico

pubblicato su www.ilpungolo.it 24/11/2005

Il prossimo dicembre la Bce muoverà i suoi tassi di riferimento fermi al 2.0% dal lontano giugno 2003. E li muoverà al rialzo, quasi sicuramente di un quarto di punto. La notizia l’ha data direttamente il suo presidente, Trichet, dopo che per un paio di mesi si erano sprecate le dichiarazioni in libertà dei diversi membri del consiglio direttivo. La Bce si è spaccata nelle ultime settimane tra falchi, moderati e colombe, ma i falchi hanno avuto la meglio, e il costo del danaro in zona euro è ora destinato a futuri incrementi. Come può giudicarsi questa mossa? Gli osservatori direttamente interessati, e cioè politici, imprenditori e sindacati, hanno finora mostrato una triste convergenza di giudizio, naturalmente negativo, sulle possibili

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ripercussioni sull’economia europea, che avanza al rallentatore, sciancata e claudicante. E alcuni economisti hanno subito spennellato di nero cupo gli orizzonti possibili, spiattellando tutte le conseguenze nefaste in termini di apprezzamento dell’euro sui mercati valutari, della riduzione di competitività delle nostre merci all’estero, dei maggiori interessi da pagare sul debito pubblico e sui prestiti privati. Insomma, con l’Europa che arranca, che fatica a riformare le sue strutture socio-economiche e ad aggiustare i conti pubblici, alzare i tassi proprio ora significherebbe darle il colpo di grazia, e gettare al vento l’occasione di godere di un dollaro debole per un po’. Sarà pure come dicono loro, ma tutti questi argomenti assomigliano maledettamente a delle banali scuse per la loro inerzia. I politici, ad esempio, cominciamo da loro. Non hanno fatto fino in fondo le riforme di liberalizzazione dei servizi e del mercato del lavoro necessarie al Vecchio Continente, se non in parte, e spesso in maniera pasticciata e concertata con i soggetti coinvolti, depotenziandone l’efficacia. Le privatizzazioni, poi, hanno marciato a fasi alterne, e ci sono anche politici (come i socialisti e certa destra gollista in Francia) che vedrebbero di buon’occhio un ritorno alla socializzazione di alcuni settori. Hanno infine mancato in maniera grave l’obiettivo di una finanza pubblica sana e sostenibile, regalandosi un nuovo Patto di stabilità con un atto di estrema auto-indulgenza ed irresponsabilità, dandogli da subito una interpretazione lassista e di comodo, lasciando andare le spese correnti e ripristinando la più deleteria delle politiche di deficit spending. In assenza di vero rigore sul fronte dei conti pubblici, si distolgono sistematicamente risorse dai settori privati e si ostacola qualunque tentativo serio, e quindi durevole, di ridurre la pressione fiscale su imprese e famiglie. Ai politici europei un basso costo del danaro serve per indebitarsi meglio e continuare a rimandare all’infinito ciò che dovrebbe rientrare fra le loro responsabilità. Ci sono poi gli imprenditori, sempre pronti a chiedere tassi bassi sui prestiti, così come i sussidi all’esportazione, dazi e contingentamenti all’importazione, barriere di ogni tipo all’ingresso nei rispettivi settori, protezioni, difese, fondi, gratifiche, aiuti e sostegni di ogni tipo e grado. Salvo poi elogiare la concorrenza e la competitività, per gli altri. Agli imprenditori europei, che subiscono un elevato livello di fiscalità e regolamentazione bisogna ricordare che la lotta si fa su queste leve e non chiedendo denaro a buon mercato. Il danaro facile aiuta solo la speculazione improduttiva e facilita gli investimenti più fragili e rischiosi, in settori che altrimenti, in assenza di bassi tassi, non sarebbero affatto profittevoli. Gli economisti della Scuola Austriaca (ieri Mises, Hayek, Rothbard, oggi Garrison, Selgin, Cochran, Huerta de Soto, Shostak) parlano di malinvestiments, investimenti sbagliati. Ma di questo problema i nostri imprenditori poco si curano. Così come non si curano dei pericoli derivanti dai bassi tassi di riferimento i sindacati, ben consapevoli che con un sistema bancario accomodante riescono a spuntare ai padroni aumenti salariali al di sopra dei livelli di crescita della produttività effettiva. E non se ne preoccupano nemmeno quegli economisti che non disdegnerebbero affatto una banca centrale che avesse come priorità la crescita, e si ponesse quindi dei target più o meno espliciti anche sui tassi di cambio. È del tutto evidente come agli occhi di simili soggetti, abituati a vivere incartapecoriti e protetti, non vi siano lati positivi per questo possibile rialzo. Eppure la crescita di un paese, e quindi anche dell’Europa, non dipende da quanto denaro c’è in giro, ma vale esattamente l’opposto: è la crescita della produzione e degli scambi che determina la necessità di una maggiore quantità di mezzi di pagamento in circolazione. E la crescita della ricchezza dipende da fattori reali e non monetari, come i guadagni di produttività dei fattori produttivi, i miglioramenti dei processi, le innovazioni di prodotto, i progressi tecnologici. Sono questi i fattori che incidono sull’offerta, e normalmente vengono stimolati da una fiscalità e una regolamentazione ridotta all’osso. Il denaro a basso costo, invece, dispiace dirlo e deludere le classi dirigenti continentali, non crea ricchezza, se non illusoria, e determina non tanto un problema sul livello generale dei prezzi (inflazione), che è solo una eventualità, ma soprattutto una pesante distorsione dei prezzi relativi tra i beni di consumo e beni capitali. Poiché i prezzi sono le informazioni su cui gli imprenditori basano le loro aspettative e disegnano i piani d’investimento, questa distorsione dei prezzi relativi (indotta dai tassi bassi) si traduce in un flusso continuo di informazioni sbagliate, in quanto incongruenti rispetto agli elementi reali dell’economia, come le preferenze e i gusti delle persone, la distribuzione della ricchezza e la redditività dei diversi settori industriali. Con i tassi più bassi del dovuto si forniscono informazioni incoerenti, rendendo profittevoli investimenti altrimenti non redditizi. Questa redditività artificiale crea piccole e grandi bolle di settore, sostenibili solo fino a quando l’autorità monetaria riesce a manipolare il costo del danaro. Non appena la politica monetaria cambia orientamento, mutano anche le informazioni per gli agenti economici, che scoprono di aver sbagliato nell’indirizzare le

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proprie risorse, bruciando in parte del capitale. Dunque? Dunque, per essere coerenti con la lezione Austriaca del ciclo economico, la Bce non dovrebbe neanche esistere, ma dovremmo avere un’offerta di moneta liberalizzata. Dato però che con la Bce dobbiamo fare i conti, la sua prossima mossa è non solo positiva, ma persino tardiva. Questo rialzo giunge infatti in ritardo, dato che l’analisi monetaria segnala una liquidità abbondante e in crescita da troppo tempo, con il settore creditizio fin troppo allegro nel fornire prestiti al settore privato. Insomma, le condizioni di finanziamento in zona euro sono già abbastanza drogate, possono tranquillamente iniziare un periodo di disintossicazione. Possiamo quindi dire che una Bce indipendente e meno accomodante, di questi tempi, è la cosa migliore che si possa avere. Speriamo solo che la classe politica incapace di riformare il sistema non decida di seguire ancora una volta la via più facile, ridimensionando l’autonomia dell’istituto di Francoforte anziché assumersi le proprie responsabilità.

finanziaria, un miserevole pacchetto privo

di modernizzazione

pubblicato su www.ilpungolo.it 05/10/2005

La prima finanziaria non si scorda mai. E l’esordio del secondo governo Prodi è parso subito indimenticabile. Una indimenticabile occasione sprecata. Lo hanno detto in tanti. Se non si pensa ora alle misure impopolari indirizzate alla crescita, quando? Ma il problema è alla radice, ed investe la cultura politica dell’esecutivo, persino a dispetto della cultura di riferimento della sua maggioranza. Le componenti ideologiche prevalenti nel governo sono tre: quella tecnico-contabile, quella moralista-giustizialista e infine la parte sindacal-populista. Ciò che resta tra i ministri, a cominciare dalla coppia Bersani-Bonino, si arrabatta come può per giustificare l’azione di governo anche quando gli argomenti a favore sono irrintracciabili. Il timone oscilla tremulo fra le istanze delle parti sociali, la necessità di passare contentini alla confindustria e l’impossibilità fatale di tagliare la spesa statale. Un indirizzo liberal-progressista può forse ancora trovare il sostegno di alcune parti non marginali del centrosinistra, dai rutelliani ai popolari di Letta, dai radicali della Rosa nel Pugno ai diessini liberal. Ma il gioco di squadra impone alle parti più avanzate della coalizione di marciare verso la liberalizzazione del paese con il freno a mano tirato, perdendo in visibilità e incidenza effettiva sulla linea di governo. Di fatto, da questa situazione di squilibrio è uscito fuori un miserevole pacchetto di iniziative privo di slancio modernizzatore, volto a ripristinare l’ammuffita e fallimentare retorica della redistribuzione. Almeno nella versione rilanciata da Prodi e Padoa-Schioppa. Chè nulla vieta alla redistribuzione di vestire panni diversi da quelli osservati in questi giorni. In fondo, dietro ad una parola possono nascondersi diversi obiettivi. Sarebbe ora che la sinistra, incapace di liberarsi di certi slogan, avesse almeno il buon senso di modificarne i contenuti.La redistribuzione è emblematica a questo riguardo. È un termine che fa rabbrividire i liberali ma, se adeguatamente riverniciato, può tranquillamente diventare un concetto utile al liberalismo che alberga scomodo, minoritario, ma volenteroso, anche a sinistra. Vogliamo proprio continuare a propagandare la redistribuzione come soluzione alle sperequazioni? Ottimo, facciamone pure una bandiera, ma capovolgiamone i cardini. È sacrosanta, ad esempio, la redistribuzione della ricchezza dallo stato ai cittadini, e non quella, ingiusta, dannosa ed illusoria, tra i cittadini. Non vogliamo rinunciare alla redistribuzione fra le classi? Magnifico, cosa ci sarebbe di più progressista di una bella e consistente redistribuzione di potere d’acquisto e forza contrattuale dagli ordini professionali e dai sindacati di ogni ordine e grado, ai cittadini-consumatori e ai cittadini-lavoratori? Qui redistribuzione fa rima con liberalizzazione. Una cosa davvero progressista. Ma non basta. Anzi, più si va avanti, più c’è da ridistribuire, mica fessi questi socialisti! La spesa pubblica, ad esempio? Non vogliamo ridistribuire anche quella? Beh, inutile dirlo, non si può certo immaginare un governo progressista che si presenti al suo elettorato con un programma di drastici tagli alla spesa per sanità, scuola e assistenza. Del resto, molti servizi sono percepiti ormai come assolutamente irrinunciabili, e molti cittadini difficilmente

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scambierebbero qualche quattrino in più in busta paga con una serie di servizi in meno, per quanto inefficienti e irritanti. Allora, tanto vale redistribuire anche la spesa pubblica: dagli enti statali ai soggetti privati, interessati o incentivati ad occuparsi di fornire servizi e beni di interesse pubblico; e poi dalle burocrazie centrali alla periferia (regioni e comuni), non scatenando ogni volta la farsa dei tagli ai trasferimenti agli enti territoriali, cui seguono, inesorabili, le minacce di inasprimento del carico fiscale regionale e comunale. E allora via, ridistribuiamo anche su questo fronte, senza timori, attribuendo potestà legislativa in materia fiscale alle regioni e ai comuni, lasciando loro anche le residue competenze in materia sanitaria e scolastica, e in tutto ciò che in periferia può essere meglio controllato sotto il profilo della copertura finanziaria e dell’efficacia. E se poi la redistribuzione deve per forza entrare anche nella dichiarazione dei redditi, chè la progressività, non c’è dubbio, di sinistra lo è senz’altro, si lascino stare le aliquote, per carità. Ma era davvero necessario ripescare la quinta aliquota, scatenando un’indegna cagnara, solo per racimolare spiccioli e tappare buchi? Si mantenga dunque la progressività, neanche Einaudi ne faceva un dramma. Ma si diminuiscano le aliquote tutte, minime e massime, senza ipocrisie pseudoclassiste, che saranno poi le deduzioni e detrazioni a mantenere una struttura fiscale che aiuti i ceti più in difficoltà, ridistribuendo le risorse a favore di chi proprio non ce la fa. Il progressismo deve difendere il welfare, altrimenti che progressismo è? Ci mancherebbe. Ma c’è modo e modo, e c’è welfare e welfare. E soprattutto, c’è redistribuzione e redistribuzione. Speriamo che dietro le quinte i vari Bersani, Bonino, D’Alema e Letta sappiano trovare presto il timone e invertire la rotta verso un’altra idea di equità. Il vento rischia di cambiare presto direzione e il timoniere di Bologna non ha ancora deciso l’approdo. Troppo rischioso, per il paese prima ancora che per il centrosinistra.

patto di stabilità: un continente in affanno

pubblicato su www.ilpungolo.it 10/03/2005

Cosa fa crescere un paese? Cosa gli assicura un futuro di sviluppo e prosperità? Italia, Germania e Francia non hanno dubbi al riguardo e, sfidando una rivoluzione culturale che va avanti da un quarto di secolo circa, dimostrano con le loro più recenti strategie economiche che i deliri bertinottiani sui presunti fallimenti delle politiche liberiste non sono in fondo così isolati. Il vecchio continente è in affanno, e i conti pubblici proprio non tornano. Da anni ormai. E siccome a nessuno piace essere accusato di fare macelleria sociale, la strada verso il ritorno ad un keynesismo su misura sembra spianarsi ogni giorno di più. Un comodo rigurgito di deficit spending, elaborato da politici infingardi la cui visione del mondo non va oltre le ansie suscitate periodicamente dai cicli elettorali. L’occupazione non cresce? La congiuntura va male? L’imprenditoria si lamenta? I sindacati pure? La soluzione a questa brutta storia di ristagno economico per i nostri governi è una sola: discrezionalità. I governi vogliono tornare liberi di agire, di dominare la vita economica dei loro paesi. Vogliono comandare ancora, e se le cose vanno male, sia ben chiaro, è solo perché alcuni vecchi accordi hanno loro legato le mani, impedendogli di intervenire. Quindi basta. Basta con questo Patto, basta con questi vincoli al deficit, e altre amenità simili. Basta con questa storia, trita e ritrita, delle riforme strutturali, la sanità costosa o le pensioni, e l’invecchiamento inesorabile degli europei. E poi, ‘ste liberalizzazioni! davvero non se ne può più. Da come si lamentano, sembra quasi che Germania Francia e Italia abbiano speso l’ultima decade unicamente a realizzare una serie di profonde riforme liberali, senza però vedere risultati apprezzabili. Ecco che quindi assistiamo non ad un ragionevole tentativo di aggiustamento di un accordo complessivamente funzionante, ma alla sua sostanziale archiviazione. Un’archiviazione chiamata riforma. Il Patto è odiato perché finora ha funzionato, nel senso che ha costretto gli stati nazionali a stringere i cordoni della spesa pubblica e aprire i loro mercati alla concorrenza. Almeno parzialmente. E la politica ha deciso di vendicarsi contro le leggi dell’economia, cercando di affossare un Patto la cui unica colpa è quella di chiedere, in modo magari un po’ macchinoso e arbitrario, l’inimmaginabile, ovvero bilanci pubblici in tendenziale pareggio.In questi giorni alcuni signori stanno decidendo il futuro dell’Unione Europea e, in particolare, dell’Unione monetaria. Si annuncia una

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malinconica svolta epocale rappresentata dalla prossima riunione dell’Eurogruppo/Ecofin, che si terrà il 20 marzo, e dal Consiglio europeo di due giorni dopo. Tutti pronti ad aggiustare gli ultimi dettagli di un progetto di riforma del Patto di Stabilità volto unicamente a fornire ad una serie di nazioni imbelli, ma politicamente influenti, una giustificazione formale per evitare di riformare la propria finanza, di liberalizzare e deregolamentare a sufficienza la propria economia, facendo pulizia di privilegi corporativi e camorre pubbliche. Francia, Germania e Italia cercano solo un pretesto per tornare alle vecchie, amatissime e mai dimenticate politiche di deficit spending, accompagnate da un contorno indigeribile di protezionismo commerciale e un surreale, graduale abbandono delle riforme pensionistiche e del mercato del lavoro. Gli ormai noti 16 fattori proposti per allentare i vincoli del Patto sarebbero i pretesti perfetti a tale scopo: essi brillano per ambiguità e vaghezza, fornendo di fatto una serie indefinita di scusanti a buon prezzo, tutte ottime per evitare di doversi impegnare in futuro a mantenere in ordine i propri conti, e quindi garantire la formazione della ricchezza reale, attuale e futura, dei cittadini.Queste sono scelte di governo che anziché guardare al lungo periodo e badare al benessere delle prossime generazioni, mirano ad assumere atteggiamenti di chiusura e irrigidimento delle politiche economiche, e un ripotenziamento del ruolo pubblico, a difesa delle più inefficienti e immorali prerogative statali, promuovendo una cultura economica e civica ispirata alla tutela inerziale dello status quo e delle proprie debolezze strutturali. L’unica istituzione comunitaria che non ci sta è la Bce. Si legge sul suo ultimo bollettino mensile di febbraio, nell’editoriale: “…È importante che non sussistano dubbi sull’efficacia del processo di sorveglianza e sulla solidità delle politiche di bilancio dell’area dell’euro nel lungo periodo, poiché tali dubbi indurrebbero infine un aumento dei premi al rischio e dei tassi di interesse reali nell’area”. Le stesse recenti dichiarazioni di Trichet che confermano la possibilità di un prossimo rialzo dei tassi per contenere le prime spinte inflazionistiche, possono certamente essere lette anche come un avvertimento nei confronti dei presunti riformatori del Patto. La Bce non farà sconti di fronte alla prospettiva di un peggioramento futuro dei conti pubblici.La Bce, muovendosi con estrema cautela e fornendo il maggior grado possibile di prevedibilità delle proprie azioni, si preoccupa del futuro, delle condizioni che consentono ai cittadini di creare ricchezza, ben consapevole che gli stati la ricchezza la possono solo bruciare. Ma la Bce, la saggia Bce, è sotto assedio, mentre i singoli governi, malati di protagonismo e forieri di incertezza, sentono di avere l’appoggio dell’opinione pubblica continentale nel respingere al mittente le richieste di un’economia più libera. Altro che meno tasse, bilanci in pareggio e competizione. L’Europa si reputa evidentemente troppo vecchia e stanca per queste americanate.

la competitività...

pubblicato su www.ilpungolo.it 22/10/2005

Arriverà la proposta del governo sulla competitività. Le parti sociali la discuteranno, gli industriali proporranno più sgravi fiscali e meno Cina; la Cisl si mostrerà scettica e dirà che di tutto si parla tranne che di competitività, e che comunque le risorse sono poche. La Uil farà come la Cisl, ma lo farà con la faccia più feroce, mentre la Cgil boccerà la proposta perché vedrà solo macelleria sociale e liberismo selvaggio. Tutti sicuramente si lamenteranno per i pochi soldi messi in conto, mentre il governo sottolineerà che la priorità rimane, neanche a dirlo, il Sud. E tutto ciò in nome della competitività. Ma la competitività significa questo? Forse c’è un grande equivoco. Si chiede che il paese sia più competitivo, ma spesso questa richiesta si traduce in interventi statali, lavori pubblici, sussidi, grandi opere, fiumi di denaro verso la ricerca pubblica, una spruzzata di protezionismo, uno stop deciso alla delocalizzazione, una smorfia di disgusto di fronte all’arrivo di capitali stranieri e cose simili. E così la retorica della competizione si trasforma nella scusa perfetta per giustificare meglio l’arroccamento a protezione dei diritti e dei privilegi accumulati nel tempo. E quindi nell’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere. Le parti sociali, sempre meno rappresentative del tessuto produttivo del paese, sono ossessionate da una battaglia sui mercati internazionali che, nelle loro convinzioni, l’Italia dovrebbe combattere come sistema-paese, come nazione.

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Pessima idea. La competizione non riguarda il rapporto degli italiani con gli stranieri, ma riguarda innanzitutto il rapporto degli italiani con se stessi. Per essere competitiva l’Italia non deve chiudersi e imbacuccarsi tra gli stracci di un’economia asfittica, cullandosi nella sciocca illusione di vivere in un sistema che in fondo funziona, e che merita solo piccole correzioni. L’Italia necessita invece di una rivoluzione culturale e legislativa, che spezzi definitivamente le catene di un neocorporativismo sostanziale e diffuso. La competizione è un’idea di convivenza civile che gli italiani dovrebbero comprendere e accogliere per se stessi, per la loro vita economica quotidiana e, soprattutto, per il loro futuro. La competizione non è il sogno dorato di un futuro all’insegna della concertazione permanente tra le parti sociali, ma è, dovrebbe essere, l’esaltazione del conflitto continuo tra interessi diversi, dell’impegno personale quotidiano nelle attività più ordinarie. Dovrebbe essere la promessa di sacrifici immediati e certi per la costruzione di uno sviluppo diverso e di una società più aperta e dinamica. Le riforme a costo zero di cui parla Montezemolo, presidente della Confindustria, non esistono. Qualcuno queste riforme per la competitività, se sono vere, se sono significative, dovrebbe pagarle. E parliamo di costi alti. Non in termini di soldi che lo stato dovrebbe indirizzare verso non si sa quali settori, ma in termini di soldi cui dovrebbero invece rinunciare tutte le categorie che hanno finora prosperato in condizioni di tutela dalla concorrenza o in simbiosi con la burocrazia pubblica. Rimettere al centro della cultura economica italiana la competizione non significa chiedere che lo stato dia qualcosa, ma al contrario chiedere allo stato di restituire ciò di cui si è indebitamente appropriato negli anni, a cominciare dalla voglia di fare, di impegnarsi più a lungo e di migliorarsi continuamente. Una società più competitiva è una società dove lo stato si ritira e i mercati vengono liberalizzati, dove volontà e talento ricevono il giusto, naturalissimo premio. E dove c’è ricchezza sufficiente per sostenere chi non ce la fa o chi, per l’età, proprio non ce la fa più. In una società competitiva non ci sono prepensionamenti, articoli 18, ponti sullo stretto, e non ci sono nemmeno il Cnr, dove i soldi per la ricerca si trasformano quasi tutti in stipendi per la burocrazia. In una società competitiva non c’è nessun Governatore della Banca d’Italia che impedisca agli stranieri di dare agli italiani banche più capitalizzate, meno onerose e più efficienti solo per un po’ di spirito patriottico o curiosi principi di reciprocità. In una società competitiva i lavoratori contrattano in azienda il grosso della retribuzione, e non si dividono in iperprotetti e iperprecari, non c’è la cassa integrazione straordinaria e nemmeno quella ordinaria. E non c’è neanche l’obbligo di iscriversi a feudali ordini professionali, si possono aprire farmacie dove si vuole e i titoli di studio non hanno valore legale. Solo una società realmente competitiva al suo interno, tra i suoi membri, è una società in grado di affrontare le sfide provenienti dai mercati internazionali, che sono mercati delle merci e dei servizi, ma anche mercati delle idee. E non per vincere, perché non c’è proprio alcuna guerra da combattere, ma solo per l’orgoglio di poter fornire alla crescita dell’uomo il proprio piccolo, infinitesimale contributo, sia esso uno spazzolino dai colori più allegri o un vaccino capace di render la nostra esistenza meno fragile.

inerzia dei governi e credibilità della

moneta unica

pubblicato su www.ilpungolo.it 13/01/2005

“La liquidità nell’area euro continua a essere notevolmente superiore a quanto necessario per una crescita non inflazionistica”. È tutto qui, in queste poche parole, facilmente rintracciabili in ogni singolo bollettino mensile pubblicato dalla Bce, che è possibile farsi un’idea, anche solo cauta e generica, sull’atteggiamento e le preoccupazioni future dell’istituto di Francoforte. La liquidità domina sovrana tra le analisi di Trichet e soci, e influisce pesantemente sui giudizi che la Bce esprime periodicamente sulla congiuntura europea. L’obiettivo formale ed ufficiale della Bce è la stabilità dei prezzi nel medio termine, espressa anche in un numeretto inflazionistico piuttosto discutibile, il 2%, al quale ci si dovrebbe avvicinare, ma non troppo, rimanendo comunque al di sotto, ma senza esagerare. Praticamente, bisognerebbe rimanere in prossimità

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del 2%, e se per caso ci si dovesse ritrovare un po’ al di sopra, pazienza, purché nel medio termine… insomma, un classico pasticcio nato dalla mitologia statistica che ha partorito l’arcinoto livello generale dei prezzi, che tutti fanno finta di considerare rilevante e realistico, ma che nessuno ha mai veramente riscontrato nelle sue spese quotidiane. Eppure dietro questo paravento accademico si cela l’idea, per fortuna mai seppellita, dell’importanza della quantità di moneta in circolazione per i prezzi e per il regolare andamento degli affari. Per cui se c’è una cosa che interessa a Trichet non è tanto l’andamento delle zucchine nel medio termine, ma come varia la liquidità nel sistema economico, e cioè la quantità di moneta detenuta dai cittadini. Poiché però la moneta è concetto vago e sfuggente, la Bce ha deciso di seguire il suo surrogato ampio, il cosiddetto M3, e ne ha fissato un parametro di riferimento per la crescita annua, il 4 e mezzo percento. Una crescita costantemente al di sopra del 4 e mezzo mette in allarme la Bce, poiché ciò si traduce in forte liquidità in circolazione pronta a incanalarsi verso la spesa o gli investimenti. Insomma, c’è del denaro in giro, in gran quantità, che al momento meno opportuno, e cioè quando la sfiducia e le incertezze cominciano a diradarsi, potrebbe gonfiare la domanda di beni e servizi, o di azioni o di case, creando inflazione ben superiore a quella attuale, e bolle speculative. E la stabilità dei prezzi nel medio termine andrebbe a farsi benedire. La Bce è poi sensibile anche ad alcuni argomenti tipicamente “austriaci”, come la capacità della moneta in eccesso di incidere sui prezzi relativi, creando condizioni di opacità e distorsione nell’allocazione delle risorse finanziarie tra le diverse possibili finalità produttive. Con condizioni di credito facile, quando c’è troppa liquidità a disposizione, si rischia una valanga di errori imprenditoriali e finanziari, che si scontano duramente nelle fasi recessive. Ecco perché ciò che veramente conta nelle segrete stanze della Bce è la moneta e la sua quantità in circolazione. Ora, il famigerato M3 ha ricominciato pericolosamente a salire durante la seconda parte del 2004, e questa crescita è dovuta a condizioni di incertezza sul futuro che permangono e spingono i risparmiatori e le imprese ad una particolare cautela nella detenzione della ricchezza. Essi esprimono tutto questo con portafogli pieni di attività monetarie, mentre le alternative alla grezza liquidità o sono ancora viste con un certo disagio, a causa della dolorosa memoria delle perdite subite dalla primavera del 2000 sui mercati finanziari, oppure sono semplicemente poco interessanti, dato che i rendimenti sono comunque bassi. Insomma, rischiare non vale ancora la pena, e le cosiddette riallocazioni di portafoglio verso le attività di più lungo termine, che finanziano gli investimenti, avanzano con lentezza. I tassi sono bassi a sufficienza in Eurolandia, e su questo la Bce ha ragione. In fondo le famiglie continuano ad indebitarsi, soprattutto per comprare casa, pur mantenendo saldi finanziari positivi - differentemente dagli americani che non sanno più cos’è il risparmio - e pagando oneri decrescenti per il servizio del debito grazie sempre ai tassi bassi. Stessa cosa per le imprese, che pur godendo di buone condizioni di finanziamento in termini reali, preferiscono però ridurre l’indebitamento, presentando saldi finanziari già negativi, e approfittano di questa fase per ristrutturare e consolidare le proprie condizioni finanziarie. Si indebitano meno, perché si erano già indebitate assai negli anni d’oro. Ma in generale i prestiti al settore privato sono in costante aumento. I tassi insomma vanno bene, anzi, stanno già creando condizioni di pericolo sui prezzi. E in un’ottica “austriaca”, mantenere i tassi di riferimento troppo bassi per troppo tempo potrebbe innescare di nuovo una pericolosa esuberanza sui mercati finanziari e immobiliari, e una serie di investimenti errati e insostenibili nel tempo. È questo in sostanza che la Bce va ripetendo da mesi, avvertendo che possibilità di riduzione dei tassi non ve ne sono, ed anzi si va probabilmente, anche se con molta gradualità, verso una fase di rialzo del costo del danaro anche in Europa. Del resto, l’inerzia riformista dei singoli governi non lascia alla Bce molte altre alternative: la credibilità della moneta unica dipende solamente da lei.

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fitoussi: nostalgico di un potere

interventista

pubblicato su www.ilpungolo.it 06/01/2005

Se l’Europa non cresce è perché non c’è sufficiente partecipazione democratica nelle scelte di politica economica. Sembra questa la tesi di fondo dell’articolo di Jean-Paul Fitoussi, “L’euro forte e l’Europa debole” pubblicato su la Repubblica del 4 gennaio scorso. Fitoussi parte da un dato di fatto, la tutela cui sono sottoposti i governi dei singoli paesi membri dell’Unione da parte delle istituzioni europee, ma di questa subordinazione si mostra insofferente: “questa tutela forte di indiscutibili successi (...) tende a diventare arrogante, e a scaricare la colpa di ogni difficoltà sulle popolazioni (riforme strutturali) e sui governi nazionali (consolidamento del bilancio). In altri termini, i cittadini sarebbero riluttanti ad accettare le riforme per troppo attaccamento ai rispettivi sistemi di protezione sociale, ed i governi esiterebbero ad imporle (...) per timore di non essere rieletti”. Ad essere franchi, sembrerebbe proprio così: solo le resistenze politiche di privilegiati storici impediscono l’attuazione delle riforme necessarie, a danno dei più deboli. Altro che scaricare colpe su poveri innocenti! Ma Fitoussi non ne è affatto convinto, e ritiene questa spiegazione semplicistica, preferendo invece mettere in dubbio la stessa base scientifica dei principi liberali incarnati dalle istituzioni europee. È quindi opportuno che le questioni di politica economica siano dibattute in qualche assemblea democraticamente eletta. Per questo lo stesso Fitoussi sottolinea come “...occorrerebbe almeno rafforzare i poteri del Parlamento europeo, tanto da metterlo in condizioni di incidere sugli orientamenti della politica economica condotta dalle istituzioni Ue”. Tradotto in linguaggio vetero-keynesiano, occorrerebbe rovesciare i rapporti di forza attuali tra regole e discrezionalità, restituendo piena sovranità fiscale ai governi, mettendo sotto tutela la Bce e depotenziando il Patto di stabilità. Il bersaglio di Fitoussi è quindi l’idea di un’Europa liberal-liberista univocamente indirizzata verso un sistema economico più aperto; una cultura di fondo – il famoso pensiero unico - che molti economisti considerano un cappio al collo del vecchio continente. Fitoussi è tra questi, e si dimostra nostalgico di un potere interventista che le riforme strutturali dovrebbero invece tendere a ridurre stabilmente, e forse anche di un ruolo che un economista come lui può svolgere in nazioni che possano riprendere liberamente ad attuare politiche di bilancio discrezionali e di breve periodo. Questo suo richiamo ad un democratizzazione del dibattito sulle scelte economiche, attraverso un inevitabile potenziamento delle prerogative politiche, sarebbe infatti un clamoroso passo indietro rispetto a quanto fatto dagli europei finora. Significherebbe restituire voce e potere ai soggetti che più hanno ingessato l’economia continentale, dando carta bianca per il consolidamento dei privilegi già conquistati e per l’instaurazione di nuovi privilegi. Parliamo dei partiti, dei sindacati, delle corporazioni professionali e della burocrazie nazionali, la cui azione deve essere limitata e circoscritta, e non potenziata ulteriormente. Alcuni settori statali sono sovradimensionati in termini di spesa, mentre l’iniziativa privata è soverchiata dall’eccessiva regolamentazione e da una fiscalità esosa e punitiva, in particolare quella sul lavoro. Questo quadro, si sa, disincentiva la formazione del risparmio, gli investimenti e l’accumulazione di capitale materiale e intellettuale, mortificando le potenzialità di sviluppo economico dell’Europa. Fitoussi sa bene che buona parte delle riforme di struttura richieste dalle istituzioni europee continuano ad essere accuratamente evitate, o se ne realizzano dei surrogati indigeribili, o troppo timidi. Ma richiedendo un più incisivo intervento politico sugli indirizzi di politica economica dell’Unione, egli non fa altro che chiedere uno stop definitivo agli sforzi sin qui erogati per dare più slancio e competitività al sistema economico continentale. Sarebbe il mesto e anacronistico trionfo della libertà di intervento pubblico contro la libertà economica e la sua conseguenza logica, la crescita e il progresso. Eppure Fitoussi è ansioso di rivedere all’opera il polveroso moltiplicatore keynesiano con politiche di bilancio di breve termine, giusto per raggranellare un pizzico di pil in più oggi, senza pensare troppo al domani. Degli effetti positivi, non keynesiani, di politiche di consolidamento dei conti pubblici, non si interessa. Il liberismo per lui a volte può funzionare, a volte no, e quando funziona va a danno dei più deboli. Eppure dandosi istituzioni sottoposte a vincoli formali e

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una disciplina di bilancio, l’Europa è riuscita a darsi un volto liberale, contenendo, seppur a fatica, i capricci dei singoli governi e delle categorie più potenti. Esiste un’agenda di riforme non rivoluzionarie, ma minimali ed essenziali per il rilancio europeo nel futuro. Con più potere alla politica, e meno alle regole, di queste riforme rimarrebbe solo il ricordo.

il cuore degli italiani dentro un telefonino

pubblicato su www.ilpungolo.it

In tutta questa immane tragedia del maremoto asiatico c’è un elemento che, se osservato bene, può rappresentare una speranza in più per il futuro che purtroppo, di certo, non ci risparmierà altri simili drammatici eventi. Questa speranza proviene dalle innovazioni tecnologiche degli anni novanta. La straordinaria applicazione industriale delle nuove tecnologie informatiche, e soprattutto la fulminante diffusione dei nuovi strumenti di telecomunicazione, a cominciare dai cellulari, ha determinato un progresso notevole nella ricerca, raccolta e trasmissione delle informazioni di qualunque tipo, ma ha soprattutto creato un nuovo sistema di comunicazione capace di adattarsi alle futilità più stupide così come all’attuazione di transazioni delicatissime, o alla manifestazione di solidarietà umana. Il cellulare è uno strumento con cui è possibile inviare i famigerati sms, i messaggini con cui soprattutto i più giovani comunicano attraverso un linguaggio sintetico e semplificato, anche per risparmiare sulla babele tariffaria che grava sui loro portafogli. Questa tecnica banale è spesso irritante per chi si ritrovi a dibattere con interlocutori che all’improvviso perdono concentrazione o interesse alla conversazione a causa di uno squillo che annuncia l’arrivo del messaggino agognato, o che magari cominciano di punto in bianco a punzecchiare la minuscola tastierina del telefonino mentre fingono, tra mugugni e casuali gesti di assenso, di continuare a seguire gli eventi del mondo che li circonda. Eppure questa stessa tecnica di comunicazione, che ci fa tanto imbestialire durante gli ordinari rapporti umani, e che dilania quotidianamente la lingua italiana facendone strame, può trasformarsi, in drammatiche occasioni come queste, in un piccolo strumento in più a disposizione di ciascuno di noi per fare, velocemente, facilmente e in tutta sicurezza, una donazione rapida per le associazioni umanitarie direttamente impegnate al fianco delle persone che soffrono. In un paio di giorni l’appello per la raccolta di contributi attraverso gli sms al numero 48580 (valido per tutti gli utenti Tim, Vodafone, Wind e H3G) è riuscito ad accumulare un corposo importo monetario di donazioni. Si parla infatti di circa 5 milioni di euro, messi subito a disposizione della Protezione civile italiana. Per comprendere l’entità del successo di questo tipo di iniziativa resa possibile solo grazie alle nuove tecnologie, la raccolta parallela denominata «Un aiuto subito», effettuata attraverso le classiche carte di credito CartaSi, Visa, MasterCard e American Express, che non tutti posseggono, ha ottenuto un risultato, nello stesso periodo di tempo, di gran lunga più magro, pari a circa 600 mila euro. I messaggini sono quindi riusciti a trasferire una somma di danaro otto volte superiore a quella mossa con gli strumenti tradizionali. È la prima volta che tutti i gestori della telefonia mobile hanno trovato un accordo per utilizzare un unico numero su cui far confluire gli sms. La somma raccolta finora, destinata certamente a salire nei prossimi giorni, è già un sesto dell’importo messo ufficialmente a disposizione dall’intera Unione europea (30 milioni di euro); e anche questo la dice lunga sulla capacità di un sistema apparentemente freddo e stupido come il messaggino di mobilitare risorse senza chiedere particolari sforzi tecnici. Facilitare l’esercizio della solidarietà ha ottenuto un gran risultato, ancora misero rispetto alla devastazione materiale subita dalle popolazioni asiatiche colpite dal maremoto, ma un puntello in più per la solidarietà del futuro, che potrà evidentemente contare su strumenti che ci consentiranno, anche a distanze straordinarie, di partecipare del dolore altrui fornendo un supporto monetario, anche più che simbolico, che può aggiungersi a quello immediato delle organizzazioni che istituzionalmente di occupano di tali disgrazie umane.

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tasse: giri a sinistra e...

pubblicato su www.ilpungolo.it 01/12/2004

Eccola dunque la controproposta del centrosinistra in materia di fisco. Si aumenta la deduzione per lavoratori dipendenti, pensionati e autonomi; si parla di assegni familiari e si punta sulle detrazioni fiscali; si riparla di fiscal drag. Ma sui numeri che più contano, sulle percentuali che l’italiano medio va per prima cosa a guardare negli articoli di giornale, sistemandosi con cura gli occhialini da presbite, e cioè le aliquote fiscali, su quelle il centrosinistra proprio non osa: il programma di riforma contiene una insulsa riorganizzazione degli scaglioni: 23% fino a 18.000 euro; 30% da 18 a 33.500 euro; 40% da 33.500 a 70.000 euro; 45% oltre i 70.000 euro. Davvero una misera cosa, persino peggio della mancia elettorale berlusconiana su cui peraltro peseranno le contromosse della fiscalità locale, i giudizi delle società di rating e la necessità sempre più realistica di una manovra correttiva. Quelle quattro aliquote, quelle quattro dannate percentuali, assai più della rimanente e farraginosa proposta di interventi, tagli e incrementi variamenti sparpagliati fra strumenti fiscali diversi, proprio quelle quattro aliquote stanno lì a dimostrare quanto sia faticoso per la sinistra italiana modificare il proprio dna. È una questione culturale, non c’è niente da fare. Berlusconi ha fatto la sua mossa riformistica, spacciandola per una rivoluzione epocale. Il centrosinistra ha fatto la sua contromossa, e probabilmente già si augura che il pubblico la dimentichi. Berlusconi infatti almeno ci ha provato: abbiamo assistito ad una timida riduzione delle aliquote da cinque a tre. Niente di pazzesco, intendiamoci, ma è una direzione che emerge con chiarezza: giù le tasse, si va verso la flat tax. La sinistra, tempo pochi giorni, è riuscita a confezionare un’articolata e complessa proposta di riforma che merita probabilmente una disamina scientifica piuttosto accurata affinché emerga con chiarezza una qualche dimostrabile riduzione fiscale. La quale successivamente emergerà senz’altro per qualcuno, non v’è dubbio. E però, che fatica! Ma possibile che la semplificazione non rientri tra le parole magiche della propaganda progressista? Su deduzioni, detrazioni, assegni familiari, crediti d’imposta e fiscal drag potevano sbizzarrirsi, ma le aliquote quelle no, dovevano per forza mantenerne tre, se non portarle a due. E invece, ecco qua, quattro aliquote. Troppe. La riduzione delle aliquote fiscali rappresenta un argomento particolarmente ostico per la sinistra incapace di cogliere il valore di giustizia nella diminuzione generale delle imposte. La flat tax è un indirizzo politico che non ha legittimità alcuna in campo progressista. Eppure la flat tax non è più una semplice ipotesi accademica, né un feroce strumento reazionario; non è il frutto amaro del pensiero unico e nemmeno il crudele prezzo da pagare al turbo-capitalismo trionfante. La flat tax, ovvero l’abbattimento radicale del numero di aliquote, non immiserisce, ma rappresenta un’opportunità per riformare le istituzioni indirizzandole verso una spesa sociale più equilibrata al suo interno. La flat tax non la si trova più soltanto nei libri universitari, ma è applicata con discreto successo in diversi paesi dell’Est europeo: ce l’ha la Polonia al 19%; ce l’ha la Slovacchia, grazie alle riforme fiscali del ministro Miklos, che ha introdotto una flat tax allo stesso livello polacco sui redditi individuali, sui redditi d’impresa e pure sull’Iva; ce l’ha la Russia al 13 % e la piccolissima Estonia, al 26%. Quest’ultima poi si prepara probabilmente a ridurle ancora, portandole al 20%, come anticipato dal protagonista delle riforme liberali in Estonia, Marc Laar, due volte premier, in un’intervista rilasciata a Stagnaro e pubblicata su Libero il 24 novembre scorso. Gli effetti della flat tax e delle altre riforme liberiste? Li ricorda lo stesso Laar a L’Indipendente del 25 novembre: “Una crescita continua del 13 per cento, l’inflazione ridotta al 2 per cento, pieno rispetto dei parametri europei, azzeramento del debito pubblico. il 40 per cento delle esportazioni che riguardano l’alta tecnologia”. Anche in Germania alcuni consulenti tecnici del Ministero delle Finanze hanno provato tempo fa ad avanzare una proposta di flat tax al 30%, ma Schroeder è costretto a misurarsi quotidianamente con un partito che lo segue a fatica e lo sopporta appena.La sinistra italiana che risponde ai tagli berlusconiani con slogan persino peggiori tipo “più stato e più mercato”, o che si dimostra incapace di programmare un riduzione delle imposte anche solo virtuale, si nasconde dietro un dito, lasciando emergere tutta la sua mancanza di visione strategica, dovuta ad un serio ritardo culturale, che difficilmente Pecoraro Scanio, Diliberto, la Bindi e la Sbarbati saranno in grado di colmare nei prossimi anni. La sinistra deve convincersi di una cosa: la progressività non viene

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assicurata solo e unicamente da un numero elevato di scaglioni di aliquote. La progressività tanto cara al progressismo generico può essere tranquillamente conservata, ed anzi ampliata, anche accompagnando alla semplificazione della flat tax, e cioè alla presenza di una o massimo due aliquote, un sistema adeguatamente articolato di deduzioni e detrazioni, con cui si personalizza il carico fiscale sulla base delle diverse condizioni economiche, sociali, sanitarie e familiari. Alla sinistra non conviene affatto quindi battagliare su questo versante, poiché sbaglierebbe clamorosamente bersaglio. La flat tax non è di sinistra e neanche di destra. È solo una soluzione ragionevole che semplifica e riduce il carico fiscale, una roba per cui un tempo si facevano le rivoluzioni e ci si beccava le cannonate in piazza.

tasse: la politica vive tra nì e liti

pubblicato su www.ilpungolo.it 25/11/2004

E’vero. Non si discute. Non c’è niente di più squisitamente liberale di una sforbiciata netta e decisa alle tasse. Ma la ferma volontà di Berlusconi di tagliarle proprio ora è curiosamente tardiva e non ha assolutamente nulla di liberale. Inutile parlare di ritorno allo spirito del 1994, sempre che tale spirito sia mai effettivamente esistito. Ma lasciamo stare il 1994, parliamo delle tasse, appunto, che tanto hanno esaltato le anime belle del berlusconismo militante. Tre anni di legislatura passati invano, per ricordarsi solo oggi, a pochi mesi dalle regionali e poco più di un anno dalle politiche che il famoso patto con gli italiani non è stato affatto rispettato. Diciamo pure che la tempistica, come notato da molti, è piuttosto sospetta. Ma soprattutto, tagliare le tasse senza prima occuparsi di ridurre le spese in modo strutturale, cercando invece in tutta fretta la copertura alla bell’e meglio, in un paese indebitato come il nostro non è da considerarsi liberale, ma solo populistico e miope: c’è il rischio decisamente elevato che dopo pochi anni ciò che ci è stato gaiamente restituito ci venga nuovamente tolto sotto forma di nuove tasse, o di un livello nuovamente rialzato delle stesse, o per un peggioramento delle condizioni di finanziamento (rialzo dei tassi d’interesse), o in tutti e tre i modi. L’effetto finale di un taglio condito da una copertura rabberciata, come quella che pare essere stata finalmente trovata, è ampiamente limitato da aspettative incerte sul loro mantenimento nel tempo. Occasioni per ridurre le spese (così come per liberalizzare e privatizzare) ve ne sono state, ma non sono state colte, e purtroppo è un fatto che la discesa del debito pubblico ha rallentato il ritmo proprio in coincidenza del governo Berlusconi. Ma mentre su tasse e liberalizzazioni il Cavaliere può sempre giustificarsi chiamando in causa alleati riottosi e congiuntura internazionale, non ha invece scusanti quando parla in prima persona di altri argomenti, su cui mostra di essere assai poco liberale. Il primo è quello di chiedere un giorno sì e l’altro pure una revisione del Patto di Stabilità e Crescita. In particolare il nostro premier è tra i più strenui propugnatori della madre di tutte le riforme: scorporare dal calcolo del disavanzo le spese pubbliche per gli investimenti. Che si traduce direttamente in licenza di spendere di più e rendere più aleatori i contenuti del Patto, che per i paesi membri dell’unione monetaria è una specie di costituzione fiscale. Bisogna ricordare che darsi delle regole, come quelle del Patto, serve appunto a diminuire la discrezionalità di chi ci governa, il quale potrebbe anche offrirci cose molto gradevoli, come un taglio delle tasse, solo per affrontare con armi migliori gli appuntamenti elettorali, salvo poi doversi rimangiare le riforme appena effettuate perché non sostenibili nel tempo. Berlusconi, se fosse davvero un liberale, dovrebbe pensare non solo a difendere il Patto che ha costretto l’Italia ad assumersi delle responsabilità e una certa disciplina, ma persino di proporre riforme autenticamente liberali, come ad esempio, la diminuzione drastica delle ingerenze politiche in materia fiscale, attraverso la trasformazione del ministero dell’Economia e delle Finanze di ciascun paese della UE in una specie di authority con proprie regole e propri obiettivi (di disavanzo, di debito, di spese correnti e investimenti fissi, di imposizione fiscale) fissati su uno statuto e garantiti costituzionalmente. Regole contro discrezionalità, è questo il motto dei liberali, l’unico indirizzo politicamente congruo con l’abbattimento

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del potere statale. Eppure Berlusconi naviga in direzione esattamente opposta. Ma il Cavaliere, oltre a dare legnate a questa nostra fragile costituzione fiscale, continua periodicamente a bastonare anche la Bce, rea di immobilismo di fronte all’apprezzamento della moneta unica. Anziché ringraziare per il beneficio dei tassi bassi e la credibilità internazionale dell’Euro, Berlusconi rimpiange i vecchi tempi della politica monetaria discrezionale e lassista, quella dell’inflazione vera, non dell’inflazione dei tempi odierni, che deriva da una struttura concorrenziale risicata che consetente agli operatori di molti settori, soprattutto nei servizi e nei comparti professionali più protetti, di mantenere prezzi alti nonostante una domanda asfittica. L’inflazione che chiede Berlusconi riguarda invece un fenomeno che viene prodotto principalmente da una banca centrale che stampa moneta senza ritegno, con l’esclusivo scopo di venire incontro alle esigenze della classe politica, sempre pronta a pagare il silenzio del gruppo organizzato che fa la voce più grossa. Contro questo malcostume di stampare moneta avendo esclusivo riguardo a quanto richiesto dai politici, l’economia politica ha elaborato uno strumento imperfetto e discutibile, ma liberale ed efficace: una banca centrale limitata da uno statuto che fissa obiettivi di medio termine. La Bce è un’istituzione rispettata e di successo, ed è un’istituzione liberale perché toglie dalle grinfie dei politici gli strumenti potenti della politica monetaria. E Berlusconi che fa? Bussa dalle parti di Francoforte perché lui quegli strumenti li rivuole indietro. Berlusconi vuole una politica monetaria discrezionale, a suo uso e consumo. Cosa c’è di liberale in un simile atteggiamento? Niente. Un politico liberale dovrebbe prima avere il coraggio e la lucidità di tagliare le spese dello stato per poi dimostrare di saper ridurre la pressione fiscale in modo durevole e strutturale. Un politico liberale dovrebbe sempre tutelare le regole in materia di politica monetaria e respingere la discrezionalità inflazionistica. Un politico liberale dovrebbe difendere il Patto di stabilità interpretandolo come una preziosa costituzione fiscale, dovrebbe difendere strenuamente la Bce come autorità indipendente, e dovrebbe persino, con un rivoluzionario colpo di reni, chiedere l’istituzione di un’autorità per le politiche fiscali attraverso la trasformazione del ministero dell’Economia e delle Finanze in un soggetto indipendente simile ad una banca centrale, con un proprio statuto intangibile dalle forze politiche. Berlusconi su queste materie si muove in direzione esattamente opposta. Cosa sia rimasto di liberale in Berlusconi lo sanno davvero in pochi. Ma si sa, la fede è un sostegno indispensabile per giustificare cose a cui la ragione non riesce a fornire spiegazioni.

il dollaro perde quota

pubblicato su www.ilpungolo.it 19/11/2004

Moneta che sale non si vende. Questo dovrebbe essere l’imperativo categorico per chi crede di potersi mettere da solo contro il mercato. Eppure non lo rispettano in molti, anzi. E la negoziazione di questi giorni sul mercato valutario lo conferma. Lavorare in una sala cambi fornisce infatti un punto di vista privilegiato, consente di conoscere gli istinti che guidano gli operatori, dal piccolo risparmiatore al gestore. E in queste settimane di salita impetuosa dell’euro contro il dollaro si sono moltiplicate le posizioni cosiddette “contrarian”, cioè di quelli che se vedono qualcosa, come un tasso di cambio per esempio, che si apprezza, lo vendono, si mettono short nel linguaggio tecnico dei traders, nella convinzione che prima o poi non possa che ridiscendere. Pessimo calcolo, in particolare se si assumono posizioni di lungo periodo. Mettersi dalla parte del dollaro non va più di moda. La soglia di 1,30 dollari per un euro è ormai stata abbondantemente violata, e se pure raggiungessimo nelle prossime settimane natalizie o post-natalizie valori ben superiori, non ci sarebbe da meravigliarsi poi tanto: si tratterebbe in fondo di prezzi già visti, almeno prima che l’euro facesse la sua comparsa fisica sui mercati. Stiamo parlando del 1994-95, periodo in cui inizia il boom della famigerata new economy. In quegli anni il valore calcolato dell’euro contro il dollaro si aggirava appunto intorno a prezzi che ancora tra molti osservatori si ritengono fantascientifici, in un’area compresa tra 1,3300 e 1,3500. E se facessimo qualche passo indietro, tornando alla recessione del 1992 con Bush senior al comando, il valore calcolato raggiungerebbe persino quota 1,4200-1,4300. Roba da strapparsi i capelli e tutto il cuoio capelluto per chi nell’euro proprio non ci crede, e prega il dio dollaro ogni sera con

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le ginocchia sullo scendiletto, rinfrancato quotidianamente dalle dichiarazioni di Snow sul dollaro forte. Qualunque graficista conosce questi livelli di prezzo, eppure ad ogni passo in alto dell’eurodollaro corrisponde una selva di chiamate in sala operativa per vendere vendere vendere, che più in alto non può andare, proprio no. E ogni volta arriva la delusione cocente dello storno che non giunge, o che se giunge non basta, e se basta lascia comunque perplessi, ché il dollaro aveva abituato a ben altri rintracciamenti in passato. Oggi invece perde quota contro la moneta unica, contro il franco svizzero, contro la sterlina e persino lo yen. Alla grande abbuffata partecipano estasiati anche il dollaro australiano e quello neozelandese, e il dollaro canadese non è da meno. A questo punto tutti guardano disperati alle banche centrali, o almeno alla nipponica BoJ, il braccio armato del ministero delle finanze giapponese, sempre pronto ad intervenire sul mercato per tenere lo yen ai livelli più adeguati al sostegno delle esportazioni verso l’Asia e gli Usa, ché sarà pur vero che la domanda interna in Giappone ha ripreso a marciare, ma non si sa mai. Quindi, yen debole please, e le speranze di interventi rivolti a vendere yen contro dollari aumentano al deprezzarsi dell’usdyen. Ma allora perché la Bce non fa lo stesso? Agli americani un dollaro debole va di lusso, così rilanciano le esportazioni e diminuiscono la domanda di prodotti esteri, e possono almeno immaginare di avviare un lento recupero del disequilibrio delle partite correnti. Ma gli europei? Perché l’istituto di Francoforte non muove un dito? “Perdiamo competitività!!!” urlano gli imprenditori italici e tedeschi, come se la loro battaglia commerciale possa farsi unicamente sul prezzo. La Bce non si muove, almeno per ora, perché sa che molto dipende dalle politiche fiscali e monetarie americane, che hanno sospinto e drogato l’economia Usa per tre anni di seguito e in modo aggressivo. Ora che questa spinta è destinata ad esaurirsi gradualmente, emergono e si consolidano aspettative di riduzione del ritmo di crescita dell’economia americana per i prossimi trimestri, e ricominciano a pesare i soliti squilibri strutturali, inclusa l’assenza in Usa di risparmio interno tra famiglie, imprese e stato federale. Insomma, al di là dei naturali rintracciamenti che favoriranno temporaneamente il dollaro in futuro, il resto del percorso, chiamiamolo pure trend di medio lungo termine, è in un certo senso già segnato. Si interverrà forse per calmierare, attutire, rallentare. Ma la strada è già ben impressa sui grafici, e l’ha disegnata Greenspan con le sue mani da maestro. Alla faccia di chi non vede l’ora di vendere sui massimi e ricomprare sui minimi.

la scuola austriaca di economia comincia a

parlare anche in italiano

pubblicato su l’opinione 28/04/2004

Le recenti disavventure del professor Salin in Francia hanno regalato un po' di spazio, per quanto ridotto, sulle pagine del giornalismo nostrano alla misconosciuta Scuola Austriaca di economia. Quando si parla del cosiddetto affaire Salin si fa riferimento a quell'odioso, livido ostracismo, accademico e burocratico, esercitato dall'intellighenzia francese nei confronti dell'economista Pascal Salin, la cui unica colpa è quella di essere stato nominato presidente di una commissione deputata alla selezione di alcuni docenti di economia, nonostante si tratti di un liberale impenitente. Il peccato originale, chiaramente, coincide con il suo essere un liberale, e più in particolare un economista liberale. E così Piero Ostellino dalle colonne del Corriere della Sera, e con lui Carlo Lottieri da Il Giornale, hanno colto entrambi l'occasione dell'affaire Salin, e delle difficoltà esistenziali della cultura liberale ed anglosassone sul vecchio continente, per citare in qualche modo la Scuola Austriaca, una scuola di pensiero ignota agli studenti universitari di economia, perché sostanzialmente assente dalla manualistica, dalla didattica e dalla ricerca, o presente in pillole, se si escludono piccole oasi accademiche e qualche recentissima pubblicazione. La questione Salin ha dunque rappresentato una minuscola occasione per parlare di teoria economica austriaca, che sta conoscendo una rinascita negli Usa ormai da più di un quarto di secolo, ma che in Italia è sbarcata, tra mille difficoltà di divulgazione, solo da pochi anni.Pascal Salin, in effetti, non è semplicemente liberale. È un intellettuale

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che studia, approfondisce e divulga il liberalismo imbevendolo dello spirito provocatorio e spiazzante della filosofia libertarian. E la sua economia politica è quindi austriaca. Ed è qui che Ostellino commette una lieve imprecisione. Nel citare infatti i padri della scuola Austriaca di economia (il noto Hayek, il meno noto Mises, l'ignoto e bistrattato Rothbard) - cosa decisamente rara nell'ambito del giornalismo nazionale, e quindi preziosa - parla di una corrente di pensiero in perenne opposizione alle idee marxiste e keyensiane. Giusto. Ma andrebbero aggiunti anche i neoclassici in senso lato, intendendo per tali tutti coloro i quali aderiscono, tra mille varianti, al paradigma teorico tuttora dominante. La Scuola Austriaca, se associata ad avversari marxisti e keynesiani, pare inesorabilmente destinata a vivere le sue dispute in un tempo assai lontano dal nostro, con autori morti e sepolti che, se confutati, possono al limite rivoltarsi nella tomba. La Scuola Austriaca di Economia è invece riuscita a spezzare l'isolamento e il boicottaggio culturale subito durante il regno incontrastato della sintesi neoclassica, e cioè dal dopoguerra fino ai primi anni settanta, per rilanciarsi con nuovi programmi di ricerca e rinnovata attenzione accademica proprio in corrispondenza della crisi delle idee neokeynesiane, e la controrivoluzione monetarista. Affrontando quindi problematiche del nostro tempo, e restituendo all'attualità questioni non più affrontate dalla maggioranza degli economisti, i neoaustriaci della cosiddetta quarta generazione (Garrison, White, Salin, Kirzner, Vaughn, Rizzo, lo stesso Rothbard...) hanno rilanciato con vigore gli argomenti che più stavano a cuore ai padri fondatori, dalla riforma monetaria contro il centralismo degli istituti di emissione, alla teoria monetaria del ciclo economico; dal ruolo fondamentale dell'imprenditore nei processi di equilibrio del mercato, al danno potenziale di qualunque legislazione antitrust; dalla concorrenza come processo di scoperta e trasmissione delle informazioni rilevanti, all'esaltazione del mercato come luogo di libertà e coordinamento spontaneo tra persone che perseguono finalità differenti e potenzialmente confliggenti. L'economia austriaca è l'economia dell' azione; è un'immersione rapida e profonda nel mondo reale delle persone che interagiscono, che vivono vite autentiche in contesti che mutano continuamente; delle persone in carne ed ossa che non ottimizzano, né massimizzano alcunché. Non ci sono parametri cui aggrapparsi, modellini da verificare , curve da disegnare. Il tempo nell'economia austriaca è reale, non lo si misura sull'asse delle ascisse, ma lo si vive direttamente e interiormente, quando si fanno delle scelte che non sempre posso essere revocate, e si commettono errori. E a nulla valgono le distribuzioni di probabilità durante la vita, incerta, di tutti i giorni. Questa eterodossia economica, che respinge il formalismo matematico recuperando il formalismo verbale, e applica la logica deduttiva partendo da affermazioni auto-evidenti, ha restituito qualità letteraria e aderenza alla realtà ad una disciplina altrimenti sempre più arida e chiusa nei suoi vacui modelli fatti di individui finti. E, diciamolo, ci ha anche ridato il gusto di leggerci un saggio di economia senza la necessità di rituffarci ogni tre righe nelle fragili ed incerte reminiscenze universitarie di statistica ed econometria, nella speranza di raccogliere frammenti di comprensione del testo. Economia politica austriaca e libertarismo sono ormai due lati di una stessa medaglia. Il pensiero libertarian, dalle forti radici culturali americane, esalta il diritto comune rispetto ai labirinti paludosi della incessante e stucchevole produzione legislativa degli stati. Enfatizza la libertà individuale, ridimensiona o addirittura cancella la macchina statale dal novero delle necessità vitali dell'umanità, restituendo autonomia e responsabilità di azione all'individuo. Mette gravemente in discussione la capacità della democrazia rappresentativa di rispettare seriamente e durevolmente lelibertà fondamentali. E coerentemente con questa sfiducia di fondo nei confronti dei normali meccanismi di rappresentanza politica e di limitazione costituzionale del potere pubblico, il pensiero libertarian si ricongiunge coerentemente con l'economia austriaca e il suo netto rifiuto dell'interventismo e della programmazione economica, della tassazione e della regolamentazione, per esprimere un'unica formidabile visione d' insieme. La divulgazione di quello che possiamo chiamare estremismo liberale passa evidentemente in maniera assai difficoltosa attraverso la vita e i percorsi compromissori dei partiti politici. La diffusione delle idee libertarian in politica e in economia ha ottenuto successi straordinari negli Usa grazie alla fondazione dei think tank. Ora anche in Italia queste istituzioni cominciano a mettere radici. Per potersi allora fare un'idea di cosa sia l'economia austriaca, e affrontare i doverosi approfondimenti, è utile conoscere il Liberanimus Institute, nato a Bologna nel 1995, che realizza la sua attività di studio e divulgazione unicamente su internet con il suo sito www.liberanimus.org. Da questo sito, gestito da giovani ricercatori bolognesi, è possibile accedere a documentazione, articoli, papers, interviste e links diretti all' arcipelago libertario nazionale e internazionale. Si può apprendere la teoria monetaria del ciclo, per poter leggere la congiuntura

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internazionale attuale alla luce delle argomentazioni neoaustriache, totalmente alternative a quelle del cosiddetto mainstream. Intellettualmente legato all'istituto Liberanimus è il sito US Equity e Macro Lab (www.usemlab.com), interamente dedicato a fornire una lettura neoaustriaca dei mercati finanziari americani agli investitori e agli analisti italiani, e a denunciare l'enorme bolla speculativa tuttora in atto. Anche qui è finalmente possibile reperire materiale in gran quantità sulle tesi neoaustriache relative al ciclo economico, e approfondire la conoscenza dei meccanismi di funzionamento di un'economia monetaria. E magari prendere coscienza di come la politica monetaria espansiva della Fed, e un sistema bancario dal credito un po' troppo elastico, abbia creato condizioni di crescita insostenibile, con cui prima o poi ci toccherà fare i conti, nonostante i recenti segnali di ripresa.Stesso discorso, passando dalle vicende cicliche all'annosa questione dei trust e alla vituperata globalizzazione, vale per l'istituto intestato a Bruno Leoni, giurista e filosofo libertarian, che la nostra cultura accademica aveva deciso di seppellire nel dimenticatoio nazionale, già ricco di intellettuali liberali, appollaiandosi pigra tra le proprie stantie, ridondanti e polverose elucubrazioni, tutte rigorosamente illiberali. Questo istituto (www.brunoleoni.it), la cui nascita è stata salutata dall'editore Leonardo Facco già nel numero 25 di Enclave - rivista dei libertari italiani - dedica la propria attività proprio alla divulgazione della cultura antistatalista e pro-global, per la formazione anche in Italia di una diffusa coscienza libertarian. Si tratta di progetti culturali di lungo termine, destinati alla promozione degli ideali del mercato attraverso papers, articoli e la pubblicazione di due collane di libri. Anche in questo caso troviamo argomenti dell'economia austriaca capaci di sostenere la globalizzazione proprio nell'interesse dei paesi più poveri, o tutelare l'ambiente contro le inefficienze dello stato. E magari difendere Bill Gates dalla Commissione europea, argomentando a favore anche delle grandi imprese contro una legislazione antitrust frequentemente imbevuta di cultura della concorrenza da modellino astratto, che ignora il significato della competizione come processo di scoperta e trasmissione delle conoscenze. Una delle attività di maggior pregio dell'IBL è poi certamente rappresentata dai seminari intitolati a Murray Rothbard. Si promuovono in tal modo incontri periodici su specifiche tematiche liberali e libertarian per creare al contempo opportunità di incontro e un ambiente di dibattito. Si tratta di una iniziativa abbastanza inedita in Italia, che potrebbe riecheggiare, in dimensioni e ambizioni per ora ridotte, i Pritivatseminar tenuti il venerdì pomeriggio da Mises nel suo ufficio alla Camera di Commercio di Vienna. E a ottobre è previsto il Seminario Mises, a Sestri Levante, per raccogliere le migliori intelligenze italiane e internazionali che si ispirano alla metodologia individualista e ai principi libertari Se l' economia austriaca, e il pensiero libertarian in genere, avranno mai un futuro in Italia, dipenderà certamente più dallo sviluppo di think tank di questo tipo che non dall'attività politica di partiti dall'incerta ispirazione liberale. A guadagnarcene sarebbe la nostra cultura, la nostra libertà e, perché no, anche i nostri portafogli.