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DIRITTO COMMERCIALE 2 Dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina del diritto societario, gli elementi che caratterizzano il sistema dei finanziamenti nelle S.p.A. sono: 1. la moltiplicazione degli strumenti di finanziamento messi a disposizione degli operatori dalla legge. Mentre nel passato la distinzione fra capitale proprio e capitale di terzi era chiara, oggi dopo la riforma questa distinzione si sta progressivamente perdendo. Gli strumenti che con la disciplina del 1942 erano considerati tradizionali sistemi di finanziamento sono: - azioni = conferimento di capitale proprio - obbligazioni = titoli attraverso i quali la società provvede al reperimento di capitale di credito e che documentano così un credito della società nei confronti di terzi. Con la riforma del diritto societario è stato concessa la più ampia autonomia statutaria alle società e si è realizzata la deregolamentazione degli strumenti tradizionali di finanziamento (ma questo processo era già stato avviato prima della riforma del 1998). L’art. 2348 ribadisce il principio dell’autonomia statutaria nei limiti imposti dalla legge. Art. 2348. (Categorie di azioni). Le azioni devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti. Si possono tuttavia creare, con lo statuto o con successive modificazioni di questo, categorie di azioni fornite di diritti diversi anche per quanto concerne la incidenza delle perdite. In tal caso la società, nei limiti imposti 1

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DIRITTO COMMERCIALE 2

Dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina del diritto societario, gli elementi che caratterizzano il

sistema dei finanziamenti nelle S.p.A. sono:

1. la moltiplicazione degli strumenti di finanziamento messi a disposizione degli operatori dalla

legge. Mentre nel passato la distinzione fra capitale proprio e capitale di terzi era chiara, oggi

dopo la riforma questa distinzione si sta progressivamente perdendo.

Gli strumenti che con la disciplina del 1942 erano considerati tradizionali sistemi di finanziamento

sono:

- azioni = conferimento di capitale proprio

- obbligazioni = titoli attraverso i quali la società provvede al reperimento di

capitale di credito e che documentano così un credito della società nei confronti

di terzi.

Con la riforma del diritto societario è stato concessa la più ampia autonomia statutaria alle società

e si è realizzata la deregolamentazione degli strumenti tradizionali di finanziamento (ma questo

processo era già stato avviato prima della riforma del 1998).

L’art. 2348 ribadisce il principio dell’autonomia statutaria nei limiti imposti dalla legge. Art. 2348. (Categorie di azioni). Le azioni devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti.Si possono tuttavia creare, con lo statuto o con successive modificazioni di questo, categorie di azioni fornite di diritti diversi anche per quanto concerne la incidenza delle perdite. In tal caso la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie.Tutte le azioni appartenenti ad una medesima categoria conferiscono uguali diritti

Art. 2346. (Emissione delle azioni). La partecipazione sociale è rappresentata da azioni; salvo diversa disposizione di

leggi speciali lo statuto può escludere l’emissione dei relativi titoli o prevedere l’utilizzazione di diverse tecniche di

legittimazione e circolazione.

Se determinato nello statuto, il valore nominale di ciascuna azione corrisponde ad una frazione del capitale sociale;

tale determinazione deve riferirsi senza eccezioni a tutte le azioni emesse dalla società. In mancanza di indicazione del

valore nominale delle azioni, le disposizioni che ad esso si riferiscono si applicano con riguardo al loro numero in

rapporto al totale delle azioni emesse.

A ciascun socio è assegnato un numero di azioni proporzionale alla parte del capitale sociale sottoscritta e per un

valore non superiore a quello del suo conferimento. L’atto costitutivo può prevedere una diversa assegnazione delle

azioni. In nessun caso il valore dei conferimenti può essere complessivamente inferiore all’ammontare globale del

capitale sociale.

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Resta salva la possibilità che la società, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi,

emetta strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto

nell’assemblea generale degli azionisti. In tal caso lo statuto ne disciplina le modalità e condizioni di emissione, i

diritti che conferiscono, le sanzioni in caso di inadempimento delle prestazioni e, se ammessa, la legge di circolazione.

Mentre nel Codice Civile del 1942 vigeva il principio di bilanciamento, che affermava che nelle

azioni dovevano essere sempre bilanciati tra loro diritti amministrativi e quelli patrimoniali; oggi i

limiti imposti dalla legge sono andati sfumando. Ad esempio una categoria di azioni, come

stabilito dall’art. 2351, può anche essere totalmente privata del diritto di voto.

Art. 2351. (Diritto di voto). Ogni azione attribuisce il diritto di voto.

Salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni senza diritto di voto, con

diritto di voto limitato a particolari argomenti, con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni

non meramente potestative. Il valore di tali azioni non può complessivamente superare la metà del capitale sociale.

Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere che, in relazione alla

quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o disporne

scaglionamenti.

Non possono emettersi azioni a voto plurimo.

Gli strumenti finanziari di cui agli articoli 2346, sesto comma, e 2349, secondo comma, possono essere dotati del

diritto di voto su argomenti specificamente indicati e in particolare può essere ad essi riservata, secondo modalità

stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del

consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco. Alle persone così nominate si applicano

le medesime norme previste per gli altri componenti dell’organo cui partecipano.

Nell’art. 2351 si parla della possibilità di comprimere il diritto di voto ma si può anche intervenire

ulteriormente su questo diritto. Alcuni esempi possono essere:

argomenti di decisione: una certa categoria di azioni non vota sulla nomina degli organi sociali;

il diritto di voto di una certa categoria di azioni può essere subordinato al verificarsi di certe

condizioni.

In base all’art.2348, c.2 “Si possono tuttavia creare, con lo statuto o con successive modificazioni di questo, categorie di azioni fornite di diritti diversi anche per quanto concerne la incidenza delle perdite. In tal caso la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie” Si può infatti creare una categoria di

azioni privilegiate (sulla base delle partecipazioni alla perdite). Nel passato invece vigeva il

cosiddetto divieto del Patto Leonino, che proibiva l’esonero del socio da ogni diritto agli utili e alle

perdite.

Con la riforma del diritto societario, la legge ha introdotto una nuova categoria - azioni correlate

(art. 2350). Queste azioni sono correlate ai risultati dei determinati settori dell’attività sociale e

partecipano quindi alle perdite o all’utile di uno specifico ramo d’azienda.2

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Art. 2350. (Diritto agli utili e alla quota di liquidazione). Ogni azione attribuisce il diritto a una parte proporzionale

degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione, salvi i diritti stabiliti a favore di speciali categorie di

azioni.

Fuori dai casi di cui all’articolo 2447-bis, la società può emettere azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati

dell’attività sociale in un determinato settore. Lo statuto stabilisce i criteri di individuazione dei costi e ricavi imputabili

al settore, le modalità di rendicontazione, i diritti attribuiti a tali azioni, nonché l’eventuali condizioni e modalità di

conversione in azioni di altra categoria. Non possono essere pagati dividendi ai possessori delle azioni previste dal

precedente comma se non nei limiti degli utili risultanti dal bilancio della società.

La disciplina prevede che sia lasciata agli statuti delle singole società la possibilità di modellare le

caratteristiche delle azioni e delle obbligazioni da emettere.

Le obbligazioni rappresentano il capitale di credito dell’azienda che è documentato dai titoli offerti

in sottoscrizione. Il titolare di questo titolo vanta così un credito nei confronti della società

emittente.

Con la riforma la visione rigida del prestito così inteso si è trasformata in un’impostazione molto

più libera. Quindi l’operazione di emissione di un prestito obbligazionario può assumere forme

diverse (art. 2411):

Art. 2411. (Diritti degli obbligazionisti). - Il diritto degli obbligazionisti alla restituzione del capitale ed agli interessi

può essere, in tutto o in parte, subordinato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società.

I tempi e l’entità del pagamento degli interessi possono variare in dipendenza di parametri oggettivi anche relativi

all’andamento economico della società.

La disciplina della presente sezione si applica inoltre agli strumenti finanziari, comunque denominati, che condizionano

i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società.

La riforma ha permesso di emettere un prestito subordinato che, pur rimanendo formalmente tale,

preveda che il suo rimborso debba essere subordinato al rimborso di alcune o tutte tipologie

particolari di creditori della società (commi 2, 3). La società può così giocare non solo sugli interessi

da corrispondere, ma anche sulla restituzione del capitale stesso. Precedentemente alla riforma,

questa norma era già presente in alcuni settori, come ad esempio quello bancario.

.Un’altra innovazione introdotta dalla riforma del diritto societario riguarda:

2. un progressivo e sempre più rilevante processo di spostamento di competenze a decidere

(riguardanti l’acquisizione dei finanziamenti) dall’assemblea all’organo di gestione.

Art. 2410. (Emissione). - Se la legge o lo statuto non dispongono diversamente, l’emissione di obbligazioni è

deliberata dagli amministratori.

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In ogni caso la deliberazione di emissione deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata ed iscritta a

norma dell’articolo 2436.

Art. 2437-ter. (Criteri di determinazione del valore delle azioni). - Il socio ha diritto alla liquidazione delle azioni per

le quali esercita il recesso.

Il valore di liquidazione azioni è determinato dagli amministratori, sentito il parere del collegio sindacale e del

soggetto incaricato della revisione contabile, tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue

prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni.

Il valore di liquidazione delle azioni quotate in mercati regolamentati è determinato facendo esclusivo riferimento alla

media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione ovvero ricezione dell’avviso di

convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso.

Lo statuto può stabilire criteri diversi di determinazione del valore di liquidazione, indicando gli elementi dell’attivo e

del passivo del bilancio che possono essere rettificati rispetto ai valori risultanti dal bilancio, unitamente ai criteri di

rettifica, nonché altri elementi suscettibili di valutazione patrimoniale da tenere in considerazione.

I soci hanno diritto di conoscere la determinazione del valore di cui al secondo comma del presente articolo nei

quindici giorni precedenti alla data fissata per l’assemblea; ciascun socio ha diritto di prenderne visione e di ottenerne

copia a proprie spese.

In caso di contestazione da proporre contestualmente alla dichiarazione di recesso il valore di liquidazione è

determinato entro novanta giorni dall’esercizio del diritto di recesso tramite relazione giurata di un esperto nominato

dal tribunale, che provvede anche sulle spese, su istanza della parte più diligente; si applica in tal caso il primo

comma dell’articolo 1349.

L’art. 2410 prevede che l’emissione delle obbligazione sia di competenza degli amministratori,

mentre all’assemblea straordinaria rimane solo la competenza per l’emissione delle obbligazioni

convertibili (art. 2346).

Con la riforma si sono inoltre distinti e specificati in maniera chiara i compiti dell’assemblea e

quelli dell’organo amministrativo.

2364. (Assemblea ordinaria nelle società prive di consiglio di sorveglianza). Nelle società prive di consiglio di sorveglianza, l’assemblea ordinaria:1) approva il bilancio;2) nomina e revoca gli amministratori; nomina i sindaci e il presidente del collegio sindacale e, quando previsto, il soggetto al quale è demandato il controllo contabile;3) determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è stabilito dallo statuto;4) delibera sulla responsabilità degli amministratori e dei sindaci;5) delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, nonché sulle autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti;6) approva l’eventuale regolamento dei lavori assembleari.L’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta l’anno, entro il termine stabilito dallo statuto e comunque non superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale.Lo statuto può prevedere un maggior termine, comunque non superiore a centottanta giorni, nel caso di società tenute alla redazione del bilancio consolidato e quando lo richiedono particolari esigenze relative

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alla struttura ed all’oggetto della società; in questi casi gli amministratori segnalano nella relazione prevista dall’articolo 2428 le ragioni della dilazione.

La terza innovazione introdotta dalla riforma è caratterizzata da:3. definitiva emersione e legittimazione dei conferimenti atipici nelle S.p.A., che non essendo

iscrivibili a bilancio, non erano riconosciuti dalla legge e quindi neanche dagli statuti societari.

Questi apporti non vanno a capitale ma rappresentano comunque un’utilità non da poco per le

aziende.

Art. 2345. (Prestazioni accessorie). Oltre l’obbligo dei conferimenti, l’atto costitutivo può stabilire l’obbligo dei soci

di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in danaro, determinandone il contenuto, la durata, le modalità e il

compenso, e stabilendo particolari sanzioni per il caso di inadempimento. Nella determinazione del compenso devono

essere osservate le norme applicabili ai rapporti aventi per oggetto le stesse prestazioni.

Le azioni alle quali è connesso l’obbligo delle prestazioni anzidette devono essere nominative e non sono trasferibili

senza il consenso degli amministratori.

Se non è diversamente disposto dall’atto costitutivo, gli obblighi previsti in questo articolo non possono essere

modificati senza il consenso di tutti i soci

Si stabilisce:

Possibilità di emettere questi strumenti finanziari partecipativi a fronte delle prestazioni

d’opera o di servizi

Questa possibilità è stata riconosciuta nell’art. 2346, c.4: ”Resta salva la possibilità che la società, a

seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, emetta strumenti finanziari forniti di diritti

patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti. In tal caso lo

statuto ne disciplina le modalità e condizioni di emissione, i diritti che conferiscono, le sanzioni in caso di

inadempimento delle prestazioni e, se ammessa, la legge di circolazione”.

Possibilità per lo statuto di prevedere una diversa assegnazione delle azioni.

Questa possibilità è prevista purché la somma delle azioni comunque emesse sia pari al 100%; e il

capitale deve essere coperto per intero dal valore dei conferimenti. Quindi alzando la quota di un

socio, va diminuita quella di un altro.

Tradizionalmente, la disciplina della S.p.A., che era una disciplina tendenzialmente indifferenziata, si

applicava indistintamente a tutte le società per azioni, qualunque fosse la loro collocazione rispetto al

mercato dei capitali. Nel Codice del 1942 non si parlava neppure delle società per azioni quotate in borsa.

Progressivamente, dagli anni ottanta e, compiutamente, con il Testo Unico della Finanza del 1998 il

legislatore ha pensato ad una disciplina speciale per le S.p.A. quotate nel mercato. Così, accanto alla

disciplina generale delle S.p.A., per le società che avessero ottenuto la quotazione delle loro azioni nel

mercato regolamentato sono state previste delle norme speciali supplementari.

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Il legislatore con la riforma ha fatto un ulteriore passo: ha diversificato la S.p.A. come tipo sociale in due,

o addirittura tre modelli. Con la Legge delega n. 366/2001, art 4, c.1…... ..La disciplina della società per azioni è

modellata sui principi della rilevanza centrale dell’azione, della circolazione della partecipazione sociale e della possibilità di

ricorso al mercato del capitale di rischio. Essa, garantendo comunque un equilibrio nella tutela degli interessi dei soci, dei

creditori, degli investitori, dei risparmiatori e dei terzi, prevederà un modello di base unitario e le ipotesi nelle quali le società

saranno soggette a regole caratterizzate da un maggiore grado di imperatività in considerazione del ricorso al mercato del

capitale di rischio……si voleva dettare una disciplina base, che la legge chiama, appunto, “Modello di base

unitario”, ed inoltre delle distinte ipotesi caratterizzate da un maggior grado di imperatività della

disciplina. Questo significa che nel modello di base la volontà del legislatore delegante è quella di lasciare

il più ampio margine possibile alla libertà contrattuale, cioè all’autonomia statutaria, che deve

progressivamente venire meno per essere sostituita da norme imperative di obbligatoria applicazione man

mano che la società fa ricorso al mercato del capitale di rischio.

Questa distinzione è particolarmente rilevante perché per la prima volta il legislatore italiano fa una

selezione nelle forme delle società, non più sulla base dei tipi negoziali, ma in base ai modelli di società .

Le differenze tra i modelli non sono più date dal fatto che si scelga un tipo di società, e quindi un insieme

di norme piuttosto che un altro tipo. Ma ci sono dei modelli socio-economici all’interno di un unico tipo

di società, cioè alla medesima scelta sul piano negoziale corrispondono successivamente delle

conseguenze diverse a seconda di come questa scelta venga attuata:

- che si realizzi una società circoscritta a coloro che la costituiscono (con la possibilità ovviamente

di sostituire un socio ad un altro)

- che si costituisca una società orientata alla ricerca di capitali sul mercato del capitale di rischio.

→ Quando si parla di tipi di società, ci si riferisce alla selezione di schemi negoziali, ossia schemi

contrattuali diversi offerti dalla legge. Quando per esempio si sceglie il tipo S.p.A, ancora non sono

definite tutte le norme che saranno applicabili a quella specifica società; l’insieme delle norme applicabili

dipenderà da come concretamente si configurerà il modello sociale, che varierà a seconda del grado del

ricorso al mercato dei capitali di rischio.

Si procede ad analizzare il quadro complessivo emerso dalla riforma.

Da un lato vi sono una serie di norme, alcune imperative, altre meramente dispositive (quelle cioè dettate

dalla legge ma che nell’ambito dell’autonomia statutaria possono essere sostituite da altre regole), che

vengono applicate a tutte le S.p.A. (l’applicazione di questo insieme di norme deriva dal fatto che la

tipologia societaria scelta nel momento della costituzione della società è quella della S.p.A.); dall’altro

lato vi è un altro insieme di norme che vengono applicate o meno a seconda che la S.p.A. faccia o meno

ricorso al mercato del capitale di rischio (art. 2325).

Art. 2325. (Responsabilità). Nella società per azioni per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo

patrimonio.

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In caso di insolvenza della società, per le obbligazioni sociali sorte nel periodo in cui le azioni sono appartenute ad una sola

persona, questa risponde illimitatamente quando i conferimenti non siano stati effettuati secondo quanto previsto dall’articolo

2342 o fin quando non sia stata attuata la pubblicità prescritta dall’articolo 2362.

Art. 2325-bis. (Società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio). Ai fini dell’applicazione del presente capo, sono

società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le società emittenti di azioni quotate in mercati regolamentati o

diffuse fra il pubblico in misura rilevante.

Le norme di questo capo si applicano alle società con azioni quotate in mercati regolamentati in quanto non sia diversamente

disposto da altre norme di questo codice o di leggi speciali.

Quindi alle S.p.A. che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio si applica la disciplina generale

di norme, ma anche una serie di norme speciali previste esclusivamente per quei modelli di società (es:

art. 2351, c. 3 “Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere che, in

relazione alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o

disporne scaglionamenti”).

Volendo trovare un elemento costante nella selezione di queste regole diverse, a seconda che la S.p.A.

faccia o meno ricorso al mercato del capitale di rischio, fondamentalmente ciò che caratterizza la

disciplina speciale delle società che fanno ricorso al mercato di rischio è una intensificazione:

- da un lato dei limiti ai poteri della maggioranza

- dall’altro dell’aumento della significatività e dell’importanza dei controlli esterni sulle società.

Per quanto riguarda il singolo socio, egli non ha una diretta tutela endosocietaria. Dalla riforma gli viene

infatti solamente garantita una maggiore “libertà di fuga” dalla società.

La scelta piuttosto chiara del legislatore della riforma è quindi quella di privilegiare i poteri delle

minoranze qualificate, cioè soggetti che da soli o insieme detengono una determinata quota del capitale

sociale.

Ciò che è tutelato è il potere delle minoranze variamente qualificate: maggiore garanzia di trasparenza di

voto nelle assemblee (sindacato di voto - per garantire una certa costanza nelle decisioni di assemblea -

art. 2341-ter).

Art. 2341-ter. (Pubblicità dei patti parasociali). - Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio i patti

parasociali devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea. La dichiarazione deve essere

trascritta nel verbale e questo deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese.

In caso di mancanza della dichiarazione prevista dal comma precedente i possessori delle azioni cui si riferisce il patto

parasociale non possono esercitare il diritto di voto e le deliberazioni assembleari adottate con il loro voto determinante sono

impugnabili a norma dell’articolo 2377.

I patti parasociali però devono essere pubblicizzati e dichiarati all’inizio di ogni assemblea. Se non

vengono dichiarati vengono applicate delle sanzioni e il diritto di voto viene sospeso.

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Per quanto riguarda l’intensificazione dei controlli esterni è da notare che nelle S.p.A. che non fanno

ricorso al mercato del capitale di rischio, il controllo sia della gestione che della contabilità è svolto dal

collegio sindacale; mentre nelle società che fanno ricorso al suddetto mercato è necessario diversificare i

due controlli (in tal modo al collegio sindacale rimane solo il controllo sulla gestione interna dell’azienda,

mentre il controllo contabile deve essere necessariamente

affidato ad un revisore esterno).

Nel linguaggio comune, la distinzione tra questi due modelli di società equivale alla distinzione tra le

società chiuse e quelle aperte (una distinzione fuorviante).

Accanto alla distinzione tra i due modelli di società di cui abbiamo finora parlato, all’interno del secondo

modello emerge un terzo submodello (che a sua volta contiene altri due tipi di società) e cioè quello delle

S.p.A. quotate nei mercati regolamentati (art. 2325-bis).

Art. 2325-bis. (Società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio). Ai fini dell’applicazione del presente capo, sono

società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le società emittenti di azioni quotate in mercati regolamentati o

diffuse fra il pubblico in misura rilevante.

Le norme di questo capo si applicano alle società con azioni quotate in mercati regolamentati in quanto non sia diversamente

disposto da altre norme di questo codice o di leggi speciali.

A questo submodello oltre alle norme generali previste per le S.p.A., e a quelle speciali previste per le

società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, si applicano delle ulteriori norme contenute

nel T.U. sulla Finanza del 1998 e nel Codice Civile, mentre non sono più applicabili alcune regole proprie

di tutte le altre S.p.A.

Anche per quanto riguarda l’individuazione delle società quotate in mercati regolamentati, si presenta

qualche problema per quanto riguarda il riconoscimento dei mercati regolamentati (art. 67 T.U.); la legge

affida alla CONSOB l’individuazione di quelli che sono i mercati riconosciuti.

E’ meno semplice invece capire quali sono le società con azioni diffuse tra il pubblico in maniera

rilevante. Per capire cosa effettivamente voglia dire “in misura rilevante” bisogna ripercorrere un

percorso per niente semplice. Si comincia con l’analisi dell’art. 111-bis, contenuto nelle disposizioni di

attuazione del Codice (anche queste sono state novellate con la riforma del 2003), il quale dice che la

misura rilevante di cui all’art. 2325 bis è quella stabilita a norma dell’art. 116 del decreto legislativo del

24 febbraio 1998 n. 58 T.U. sulla Finanza e risultante alla data del 1 gennaio 2004. Ma nemmeno da

quest’ultimo articolo si riesce a ricavare il significato della definizione cercata. Successivamente si

afferma che è la CONSOB che stabilisce con regolamento i criteri per l’individuazione di tali emittenti

(regolamento emittenti del 1999 n. 119/71 aggiornato e modificato il 23 dicembre del 2003). Il

regolamento in questione, all’art. 2 bis, definisce le S.p.A. con azioni diffuse tra il pubblico in misura

rilevante, come quelle emittenti italiane le quali contestualmente abbiano azionisti diversi dai soci di

controllo in numero superiore a 200 e che questi azionisti detengano complessivamente una percentuale

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del capitale sociale pari almeno al 5%; che non abbiano la possibilità di redigere il bilancio in forma

abbreviata ai sensi dell’art. 2435 bis C.C.

Questa distinzione così complicata ha lo scopo di eliminare quello che molti critici della situazione

venutasi a creare dopo l’emanazione del T.U. sulla Finanza contestavano, ovvero l’eccessivo scalino

normativo tra le società quotate e quelle non quotate, che dissuadeva le società dal fare il passo della

quotazione in borsa.

I Conferimenti nelle S.p.A.I conferimenti nelle S.p.A., come in tutti gli altri tipi sociali, altro non sono che le prestazioni a favore

della società stessa, che i contraenti si impegnano a effettuare concludendo in questo modo il contratto

sociale. I conferimenti sono un elemento essenziale del contratto e non ci può essere un socio che non

conferisca qualcosa. Nelle società di capitali in particolare, i conferimenti vanno a capitale. In particolare

il capitale nominale è la cifra che rappresenta il valore complessivamente attribuito ai conferimenti dei

soci.

L’espressione “i conferimenti vanno a capitale” può essere sottoposta però a diverse critiche, poiché ci

sono diverse accezioni di capitale:

- da un lato il capitale è inteso come quella cifra espressa nella moneta corrente dello Stato

destinata ad essere iscritta nel passivo del bilancio(capitale nominale);

- dall’altro, si parla di capitale inteso come frazione ideale del patrimonio della società, che appare

nell’attivo (capitale reale).

Negli articoli 2446 e 2447 si assiste all’uso ambiguo del concetto di capitale da parte del legislatore

stesso. Ci sono inoltre molteplici altre accezioni di capitale come ad esempio il capitale deliberato,

sottoscritto, versato ecc.

Ci sono dei conferimenti atipici riconosciuti dalla legge che non vanno a capitale. Nelle S.p.A. accanto al

denaro possono essere conferiti anche beni in natura, quindi non necessariamente ci deve essere una

coincidenza tra capitale e il valore dei conferimenti. Nell’art. 2343 inerente questi conferimenti è previsto

che questi debbano essere valutati per poterli monetizzare, e per poter così calcolare l’ammontare in

moneta del capitale sociale; è prevista inoltre anche la possibilità di una revisione della stima da parte

degli amministratori una volta che la società si sia costituita (la legge tollera quindi una possibile

oscillazione del valore dei conferimenti dei beni in natura o dei conferimenti dei crediti all’interno di un

quinto; si intuisce così che non c’è una perfetta corrispondenza tra il valore dei conferimenti e il capitale

nominale). Questa corrispondenza viene meno quando si ammette la possibilità in sede di costituzione

della società di emettere azioni con sovrapprezzo (fin dall’inizio la società avrà una Riserva sovrapprezzo

azioni).

Non si verifica quasi mai la corrispondenza tra il capitale sociale nominale e il complessivo valore dei

conferimenti anche per il semplice fatto che in sede di costituzione vanno sostenute delle spese (notaio,

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tasse di registro, ecc.). Comunque sia questa tendenziale coincidenza viene del tutto meno non appena la

società comincia ad operare, a svolgere cioè il suo oggetto sociale.

Quando si parla delle S.p.A. e dei conferimenti in queste società diventa fondamentale stabilire quale

funzione sia attribuita al capitale sociale .

- da un lato si dice che il capitale sociale (iscritto nel passivo) abbia come sua funzione essenziale

quella della garanzia dei creditori sociali;

- dall’altro si parla di una funzione essenzialmente produttivistica del capitale (ci sarebbe poi una

terza funzione del capitale, quella cioè organizzativa che però con la recente riforma è venuta

quasi del tutto meno).

Nelle società di capitali però non qualunque entità può essere conferita in società.

Articoli che trattano dei conferimenti sono 2342-2345. Ma ci sono da prendere in considerazione anche le

norme comunitarie con le quali il legislatore ha cercato di uniformare la materia societaria nell’ambito dei

singoli ordinamenti europei.

I CONFERIMENTI ALLE SOCIETÀ PER AZIONI.Si cerca di chiarire la situazione in merito a quali sono le entità conferibili nelle S.p.A. L’art 2342,

rimasto formalmente invariato dopo la riforma, adesso va inquadrato da un lato tenendo conto di ciò che

affermava la legge delega in merito ai beni conferibili e dall’altro lato considerando quanto dice la

disciplina comunitaria.

Art. 2342. (Conferimenti). Se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve farsi in danaro. Alla

sottoscrizione dell’atto costitutivo deve essere versato presso una banca almeno il venticinque per cento dei conferimenti in

danaro o, nel caso di costituzione con atto unilaterale, il loro intero ammontare.

Per i conferimenti di beni in natura e di crediti si osservano le disposizioni degli articoli 2254 e 2255. Le azioni corrispondenti

a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione.

Se viene meno la pluralità dei soci, i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati entro novanta giorni.

Non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni di opera o di servizi.

Nella legge delega, il legislatore delegato prevede: l’art 4, co. 5. Legge 3 ottobre 2001, n. 366 "Delega al Governo

per la riforma del diritto societario"

(Società per azioni) Riguardo alla disciplina dei conferimenti, la riforma è diretta a dettare una disciplina dei conferimenti tale

da consentire l’acquisizione di ogni elemento utile per il proficuo svolgimento dell’impresa sociale, a condizione che sia

garantita l’effettiva formazione del capitale sociale; consentire ai soci di regolare l’incidenza delle rispettive partecipazioni

sociali sulla base di scelte contrattuali;

e dall’altro lato bisogna considerare: l’art 7 della Seconda Direttiva del Consiglio del 13 dicembre 1976

(art 7 Direttiva Consiglio C.E.E. 13-12-1976, n. 77/91/CEE Il capitale sottoscritto può essere costituito unicamente da

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elementi dell' attivo suscettibili di valutazione economica. Tali elementi dell' attivo non possono tuttavia essere costituiti da

impegni di esecuzione di lavori o di prestazione di servizi.)

Il legislatore delegato, prestando attenzione alla legge delega, ha applicato quanto previsto dall’art 7 della

seconda direttiva non ai conferimenti nelle S.p.A., ma ai conferimenti nelle S.r.l. (nonostante la direttiva

non si riferisca alle S.r.l., ma si riferisca soltanto alle S.p.A.).

Quindi i conferimenti d’opera o di servizi sono espressamente vietati nelle S.p.A. (la direttiva comunitaria

espressamente esclude la possibilità di conferire questo genere di prestazioni), ma questo tipo di

prestazioni è conferibile nelle S.r.l. Bisogna dire che in linea di principio qualunque entità che rappresenti

un’utilità economica per la società, e per l’impresa, deve considerarsi suscettibile di essere conferita in

società (sia S.p.A. sia S.r.l.). Questa conclusione deriva dal considerare la funzione del capitale come

funzione produttivistica che risulta ribadita e confermata dalla riforma.

Anche nella legge delega, i riferimenti sono sempre al miglior esercizio dell’impresa:

art 4 “consentire l’acquisizione di ogni elemento utile per il proficuo svolgimento delle imprese associate”, art. 2 Legge 3 ottobre 2001, n. 366"Delega al Governo per la riforma del diritto societario".(Princìpi generali in

materia di società di capitali) 1. La riforma del sistema delle società di capitali di cui ai capi V, VI, VII, VIII e IX del

titolo V del libro V del codice civile e alla normativa connessa, è ispirata ai seguenti princìpi generali:

a) perseguire l’obiettivo prioritario di favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese, anche attraverso il loro accesso

ai mercati interni e internazionali dei capitali;

b) valorizzare il carattere imprenditoriale delle società e definire con chiarezza e precisione i compiti e le responsabilità degli

organi sociali;

c) semplificare la disciplina delle società, tenendo conto delle esigenze delle imprese e del mercato concorrenziale;

d) ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria, tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti;

e) adeguare la disciplina dei modelli societari alle esigenze delle imprese, anche in considerazione della composizione

sociale e delle modalità di finanziamento, escludendo comunque l’introduzione di vincoli automatici in ordine

all’adozione di uno specifico modello societario;

 f) nel rispetto dei princìpi di libertà di iniziativa economica e di libera scelta delle forme organizzative dell’impresa,

prevedere due modelli societari riferiti l’uno alla società a responsabilità limitata e l’altro alla società per azioni, ivi

compresa la variante della società in accomandita per azioni, alla quale saranno applicabili, in quanto compatibili, le

disposizioni in materia di società per azioni;

g) disciplinare forme partecipative di società in differenti tipi associativi, tenendo conto delle esigenze di tutela dei

soci, dei creditori sociali e dei terzi;

h) disciplinare i gruppi di società secondo princìpi di trasparenza e di contemperamento degli interessi coinvolti.

La prospettiva del legislatore nella legge delega è quella di favorire lo sviluppo delle imprese. Essendo

questo è l’obiettivo non c’è dubbio che la funzione del capitale, come qui inteso è quella produttivistica.

Le due principali funzioni del capitale sono:

11

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- capitale come strumento di garanzia

- capitale come funzione produttivistica.

Questa ultima concezione è più in linea con tutta l’ispirazione della riforma.

È chiaro però che in linea di principio tutto ciò che può essere conferito nella S.p.A. deve avere un rilievo

economico. Però ciò che può essere conferito nella S.p.A. deve essere “elemento dell’attivo suscettibile di

valutazione economica” e non è possibile che questo elemento sia rappresentato da un impegno di

prestazione d’opera o prestazione di servizi (questo non è possibile solo perché è il legislatore a vietarlo

espressamente).

La legge comunitaria non si limita a dire che ciò che può essere conferito deve essere suscettibile di

valutazione economica, ma aggiunge anche che deve essere elemento dell’attivo. In realtà è preferibile

ritenere che il legislatore comunitario non abbia voluto esprimersi in modo tecnico, ma abbia voluto

intendere che quello che si può conferire deve rappresentare una voce attiva e non passiva. È ovvio che

non può essere conferito un debito. Il problema diventa delicato quando si ha come conferimento

un’azienda: non è detto che l’azienda rappresenti una posta attiva in quanto nel caso si trasferisca

un’azienda o una società la società conferitaria subentra in tutti i debiti dell’azienda acquisita; e al

momento del subentro può accadere che la somma dei debiti di cui si deve far carico la società

conferitaria in realtà superi la somma delle poste dell’attivo, e quindi si avrebbe un conferimento negativo

e non un conferimento positivo (risultato algebrico di ciò che si conferisce è negativo e non positivo).

Quindi in questo caso si può affermare che tale azienda non può essere conferita in società, perché non è

più un elemento dell’attivo, ma concretamente rappresenta una posta passiva per la società conferitaria.

Dal punto di vista della disciplina nazionale si possono trovare altri limiti proprio nella formulazione

dell’art 2342 dove si dice che ciò che si può conferire in società è denaro, e poi si parla di conferimenti di

beni in natura e di crediti. Da parte di alcuni interpreti un limite è stato visto proprio nell’uso di questi due

termini: “beni in natura e crediti”. Si è detto che, parlando di beni, bisogna fare riferimento al concetto di

bene dell’art 810 del Codice Civile .

Art. 810 (Nozione) Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti.

Ma se è questa la nozione di bene, c’è una forte restrizione in merito a ciò che può essere conferito. La

riforma ha proprio voluto chiarire che ciò che si può conferire nella S.p.A. non debba essere riferito al

concetto di bene ai sensi dell’art 810.

Il legislatore ha espressamente specificato la possibilità di conferire crediti perché un conferimento di

questo tipo non può essere parificato ai conferimenti in denaro (infatti questi conferimenti sono parificati

ai conferimenti di beni in natura). Infatti per i conferimenti di crediti come per i conferimenti di beni in

natura è necessaria una valutazione economica al momento del conferimento. La valutazione serve per

capire il valore effettivo di un bene o di un credito in un determinato momento. Lo necessità di specificare 12

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che i beni e i crediti vanno trattati allo stesso modo è legata solo alla loro necessaria stima. Ancora una

volta il legislatore ha voluto precisare che il conferimento di crediti non equivale al conferimento di

denaro.

Un altro limite in materia di conferimenti è contenuto nella disciplina nazionale, nell’art. 2342 co.3

(Conferimenti)…Le azioni corrispondenti a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al momento della

sottoscrizione. Per i conferimenti in denaro non si richiede l’immediata integrale liberazione del conferimento: la legge

consente un versamento parziale del 25% al momento della sottoscrizione e il restante 75% deve essere

versato dopo l’iscrizione della società sul registro delle imprese. La legge prevede che questo versamento

deve essere effettuato presso una banca e non nelle mani degli amministratori, perchè la società non è

ancora nata al momento del deposito, esse sorge con l’iscrizione del registro delle imprese, mentre il

versamento del 25% è una delle tre condizioni che permette l’iscrivibilità della società. Se la società non

è ancora sorta allora non esistono nemmeno gli amministratori anche se sono stati nominati al momento

della sottoscrizione del contratto, ma entrano nelle loro funzioni solo nel momento in cui la società è stata

iscritta nel registro delle imprese, infatti art 2342 co.2 (Conferimenti) Alla sottoscrizione dell’atto costitutivo deve

essere versato presso una banca almeno il venticinque per cento dei conferimenti in danaro o, nel caso di costituzione con atto

unilaterale, il loro intero ammontare. La banca ha il divieto di consegnare questi denari che sono stati depositati

presso di lei prima che la società venga iscritta art 2331 co.4 (Effetti dell’iscrizione) Le somme depositate a norma

del secondo comma dell’articolo 2342 non possono essere consegnate agli amministratori se non provano l’avvenuta iscrizione

della società nel registro. Se entro novanta giorni dalla stipulazione dell’atto costitutivo o dal rilascio delle autorizzazioni

previste dal numero 3) dell’articolo 2329 l’iscrizione non ha avuto luogo, esse sono restituite ai sottoscrittori e l’atto costitutivo

perde efficacia. Gli amministratori una volta che la società ha ottenuto l’iscrizione presso il registro delle

imprese devono andare in banca con l’attestazione dell’avvenuta iscrizione e a loro la banca libera le

somme depositate dai soci, e quindi gli amministratori ottengono a pieno titolo la capacità di gestione

dell’intera società. L’obbligo del deposito pressouna banca ha anche un’altra ragione, quella di consentire

ai sottoscrittori, qualora poi l’iscrizione della società non avvenga, di ottenere indietro quello che hanno

versato, art 2331 co.2 (Effetti dell’iscrizione) … Se entro novanta giorni dalla stipulazione dell’atto costitutivo o dal

rilascio delle autorizzazioni previste dal numero 3) dell’articolo 2329 l’iscrizione non ha avuto luogo, esse sono restituite ai

sottoscrittori e l’atto costitutivo perde efficacia. Il versamento del 25% dei conferimenti non è un elemento che

perfeziona il contratto ma è un elemento che condiziona la costituzione della società perché nell’ art 2329

si prescrive come una delle condizioni per l’iscrivibilità sia proprio il deposito delle somme.

art 2329. (Condizioni per la costituzione). Per procedere alla costituzione della società è necessario:

1) che sia sottoscritto per intero il capitale sociale;

2) che siano rispettate le previsioni degli articoli 2342 e 2343 relative ai conferimenti;

3) che sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalle leggi speciali per la costituzione della società, in

relazione al suo particolare oggetto.

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Questa regola non vale invece per i conferimenti di beni in natura e di crediti, che devono essere

integralmente liberati al momento della sottoscrizione.

Il legislatore comunitario si è trovato di fronte ad un problema non facile dato che all’interno dell’Unione

Europea sono presenti paesi con sistemi politico-giuridici profondamente diversi, in particolare il

legislatore si è trovato di fronte a due realtà:

1. realtà francese o latina - si basa in materia contrattuale principalmente sul principio con

sensualistico - qualunque contratto si conclude, si perfeziona e i suoi effetti si producono per il

solo fatto che ci sia l’incontro dei consensi. L’art. 1326. co.1 (CONCLUSIONE DEL CONTRATTO) Il contratto è

concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte.

2. sistema tedesco che si basa sulla realità del contratto - contratti che non si concludono con il

semplice scambio del consenso, ma che richiedono la consegna della cosa che è oggetto del

contratto; col contratto si assumono solo degli obblighi, ma l’effetto traslativo del passaggio di

proprietà si ha solo con la consegna. Ci sono tre contratti tipici di tipo reale:

DEPOSITO Art. 1766.(NOZIONE) Il deposito è il contratto con il quale una parte riceve dall'altra una

cosa mobile con l'obbligo di custodirla e di restituirla in natura. Il perfezionamento del contratto avviene con il

ricevimento della cosa.

COMODATO Art. 1803. (NOZIONE) 1. Il comodato è il contratto col quale una parte consegna all'altra

una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l'obbligo di

restituire la stessa cosa ricevuta. Il comodato è essenzialmente gratuito.

MUTUO Art. 1813. (NOZIONE) Il mutuo è il contratto col quale una parte consegna all'altra una

determinata quantità di denaro o di altre cose fungibili, e l'altra si obbliga a restituire altrettante cose della

stessa specie e qualità.

Il legislatore comunitario si è trovato quindi a dover risolvere questo problema, perché in un sistema di

tipo consensualistico nel momento in cui viene concluso un contratto di società sottoscrivendo azioni con

l’impegno di versare denaro o di trasferire la proprietà di un certo bene, la proprietà del denaro o del bene

passa automaticamente alla società per il solo fatto che il contratto sia stato sottoscritto; ma questo non

vale in Germania. Quindi il legislatore comunitario ha cercato in qualche modo di contemperare a queste

diverse situazioni, stabilendo che i conferimenti andavano liberati entro cinque anni dalla costituzione

della società. Ma il legislatore italiano ha ritenuto questa norma inutile, dato che in Italia vige il principio

con sensualistico, e ha stabilito che per i conferimenti di beni in natura o di crediti bisogna liberare

integralmente al momento della sottoscrizione, e per i conferimenti in denaro è possibile lo

scaglionamento (prima 25%, successivamente 75%).

Siccome non tutti i conferimenti in natura hanno una natura traslativa (si conferisce un bene solamente in

godimento), si precisa che ciò che può essere conferito deve essere tale da poter essere posto nella

immediata disponibilità della società fin dal momento della sottoscrizione. Quindi da parte di alcuni

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interpreti si ritiene che le cose che presuppongono una successiva collaborazione con chi conferisce non

sarebbero suscettibili di conferimento in S.p.A.

Art. 2344. (Mancato pagamento delle quote). Se il socio non esegue i pagamenti dovuti, decorsi quindici giorni dalla

pubblicazione di una diffida nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, gli amministratori, se non ritengono utile promuovere

azione per l’esecuzione del conferimento, offrono le azioni agli altri soci, in proporzione della loro partecipazione, per un

corrispettivo non inferiore ai conferimenti ancora dovuti. In mancanza di offerte possono far vendere le azioni a rischio e per

conto del socio, a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato alla negoziazione nei mercati regolamentati.

Qualora la vendita non possa aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori possono dichiarare decaduto il socio,

trattenendo le somme riscosse, salvo il risarcimento dei maggiori danni.

Le azioni non vendute, se non possono essere rimesse in circolazione entro l’esercizio in cui fu pronunziata la decadenza del

socio moroso, devono essere estinte con la corrispondente riduzione del capitale.

Il socio in mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto.

Questa norma si applicherebbe solo ai conferimenti in denaro e non ai conferimenti in natura perché un

inadempimento successivo non è ipotizzabile, dato che il bene deve essere immediatamente posto nella

disponibilità della società.

Da tutta questa serie di considerazioni, alla luce della legge delega e dei principi dettati dal legislatore

comunitario, oggi una qualunque entità, purché abbia una componente attiva e suscettibile di valutazione

economica, può essere conferita. (Semmai qualche limite lo possiamo trovare nel senso che non si

possono conferire beni futuri perché rappresentano solo una speranza di qualcosa), ma possono essere

conferiti beni immateriali come brevetti marchi e quant’altro, anche nella forma del godimento dei beni,

non solo di diritti reali.

Conferimenti in denaro e conferimenti diversi dal denaro.La diversità dei conferimenti in denaro rispetto ai conferimenti di beni in natura o di crediti, risiede nella

necessaria valutazione di questi ultimi. La legge sia nei conferimenti nelle S.p.A. in particolare, sia nei

conferimenti nelle società di capitali in generale, si preoccupa che questa necessaria valutazione non

dipenda dalla discrezionalità dei contraenti, ma che venga attestata in maniera ufficiale da un soggetto

neutrale.

CONFERIMENTI IN DENARO

L’art 2342, comma 1, (Conferimenti) stabilisce: “Se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il

conferimento deve farsi in danaro”. Da qui si ricava la predominanza dei conferimenti in denaro rispetto ai

conferimenti diversi dal denaro. Quindi solo quando è espressamente indicato nell’atto costitutivo il

conferimento può consistere in beni diversi dal denaro.

Lo scopo del legislatore della riforma è stato quello di garantire nel nostro ordinamento una maggiore

concorrenzialità rispetto agli altri ordinamenti. 15

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Per esempio, prima della riforma il versamento, all’atto della sottoscrizione, doveva essere dei 3/10, oggi

tale soglia si è abbassata al 25%, tale mutamento è dovuto proprio alla logica della concorrenzialità degli

ordinamenti, perché tale soglia è quanto prevede come minimo la legge comunitaria( ed è quanto previsto

in Germania ed in altri ordinamenti europei). La soglia superiore prevista prima nell’ordinamento italiano

poteva costituire un elemento di deterrenza alla costituzione di una società in Italia.

Viene inoltre introdotta la possibilità che la S.p.A. sia costituita da un unico socio, i quale però deve

versare l’intero conferimento e non solo il 25%. Prima della riforma non era previsto che una S.p.A.

potesse essere costituita con atto unilaterale, mentre questa possibilità era prevista solo per le S.r.l. Nel

1993 l’attuazione di una legge comunitaria obbligava gli stati membri a disciplinare la costituzione

unilaterale delle S.p.A. e delle S.r.l. In prima battuta il legislatore italiano ha preferito adeguarsi alla legge

comunitaria solo in merito alle S.r.l.; successivamente con la riforma è stata prevista la possibilità di

costituzione con atto unilaterale anche per le S.p.A.

I conferimenti in denaro sono dei conferimenti tipici nelle S.p.A. Solo attraverso un’espressa previsione

dell’atto costitutivo è possibile prevedere un conferimento diverso dal denaro. Il conferimento in denaro,

a differenza di quello in natura o di quello di crediti, non comporta l’obbligo dell’immediata e integrale

liberazione del conferimento stesso. .La legge ritiene sufficiente che all’atto della costituzione della

società sia versato solo il 25% del complessivo valore del conferimento (è una condizione necessaria per

costituire la società ossia per iscrivere la società nel registro delle imprese). Se questo versamento non è

realizzato la società non può essere iscritta e quindi costituirsi. Dal momento in cui la legge prevede che

alla sottoscrizione si versi solo il 25%, può nascere il problema del socio moroso, ossia del socio che non

completi poi il versamento del restante 75% (art. 2344 - riguarda solo il conferimento in denaro e non il

conferimento diverso dal denaro).

Art. 2344. (Mancato pagamento delle quote). Se il socio non esegue i pagamenti dovuti, decorsi quindici giorni dalla pubblicazione di una diffida nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, gli amministratori, se non ritengono utile promuovere azione per l’esecuzione del conferimento, offrono le azioni agli altri soci, in proporzione della loro partecipazione, per un corrispettivo non inferiore ai conferimenti ancora dovuti. In mancanza di offerte possono far vendere le azioni a rischio e per conto del socio, a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato alla negoziazione nei mercati regolamentati.Qualora la vendita non possa aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori possono dichiarare decaduto il socio, trattenendo le somme riscosse, salvo il risarcimento dei maggiori danni.Le azioni non vendute, se non possono essere rimesse in circolazione entro l’esercizio in cui fu pronunziata la decadenza del socio moroso, devono essere estinte con la corrispondente riduzione del capitale.Il socio in mora nei versamenti non può esercitare il diritto di voto.

All’atto della sottoscrizione va quindi versato il 25% dei conferimenti in denaro, ma la legge non dice

nulla su quando debba essere versato il restante 75%. E’ possibile quindi che sia lo stesso atto costitutivo

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a prevedere un termine per la totale liberazione delle azioni (un’evenienza piuttosto rara nella pratica).

Nella maggioranza dei casi questo versamento va fatto se e quando gli amministratori, una volta che la

società abbia completato l’iter della costituzione, cioè una volta che sia stata iscritta nel registro delle

imprese, decidono di sollecitare il versamento dei conferimenti (molte società continuano a vivere anche

molto tempo dopo l’iscrizione nel registro delle imprese, senza che sia proceduto a richiamare i centesimi

di conferimento ancora dovuti dai soci). Gli amministratori sono arbitri del momento in cui richiedere ai

soci il completamento del versamento; al legge quindi a loro una certa diligenza del comportamento.

Infatti è vero che sono agli amministratori a decidere se e quando pretendere la liberazione integrale delle

azioni, ma è anche vero che essi si rendono responsabili delle decisioni prese. Qualora gli amministratori

non abbiano provveduto tempestivamente all’ottenimento dai soci di quanto da loro ancora è dovuto e la

società non fosse in grado di fronteggiare le obbligazioni assunte nei confronti dei creditori, è evidente

che il mancato richiamo dei centesimi in questo caso può diventare fonte di responsabilità degli

amministratori nei confronti dei creditori sociali o della società stessa (in base alle regole sulla

responsabilità degli amministratori).

La disciplina di cui all’art. 2344 al socio che non rispetti l’obbligo di versare i pagamenti dovuti. Anche

prima della riforma si prevedeva la pubblicazione della diffida nella Gazzetta Ufficiale. Ma dopo la

riforma ci si chiede se questa forma di comunicazione possa essere sostituita da altri mezzi.

In particolare, prima della riforma oltre alla diffida al socio andava pubblicata in Gazzetta anche la

convocazione dell’assemblea di una S.p.A. La riforma (per quanto riguarda la convocazione

dell’assemblea) nell’art. 2366, comma 3 non ha abolito questo strumento di comunicazione, ma ha

previsto che lo statuto della società (di quelle che non fanno ricorso al mercato di rischio - società a

ristretta base azionaria) possa sostituire questo mezzo di comunicazione con altri: “Lo statuto delle società che

non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può, in deroga al comma precedente, consentire la convocazione mediante avviso

comunicato ai soci con mezzi che garantiscano la prova dell’avvenuto ricevimento almeno otto giorni prima dell’assemblea”. Il

legislatore si è reso conto delle problematiche legate all’utilizzo di questo strumento:

- onerosità in termini monetari

- tempi piuttosto lunghi

- in certi casi non garantisce affatto la conoscenza della comunicazione pubblicata

A questo punto la domande è se questa possbilità di deroga statutaria (prevista dal legislatore solo per la

convocazione dell’assemblea) possa applicarsi anche alla diffida per il socio in ritardo con i pagamenti

dovuti. Anche se l’art. 2344 non prevede una deroga analoga a quella dell’art. 2366, si potrebbe dire che,

dal punto di vista analogico, sia possibile prevedere statutariamente un mezzo alternativo alla Gazzeta

Ufficiale che garantisca la conoscenza del socio della diffida fatta nei suoi confronti.

Con la riforma, la diffida formale fatta dagli amministratori nei confronti del socio è diventata un

passaggio necessario, è un obbligo degli amministratori. Successivamente, pubblicata la diffida e decorso

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il termine di 15 giorni senza che il socio abbia assolto ai suoi obblighi, gli amministratori hanno due

alternative:

possono agire esecutivamente nei confronti del socio per ottenere quanto dovuto;

possono procedere alla vendita forzata delle azioni del socio moroso. La vendita forzata deve

seguire però un iter particolare. Innanzitutto le azioni del socio moroso devono essere offerte in

primis agli altri soci in proporzione alla partecipazione che ognuno di essi detiene. Questo è una

sorta di diritto di prelazione legale, che risponde al principio che i soci possono essere interessati

a non far entrare terzi in società. Le azioni devono essere offerte ai soci attuali, per un

corrispettivo non inferiore ai conferimenti ancora dovuti. Se fosse possibile vendere le azioni ai

soci per un corrispettivo inferiore a quello dei conferimenti ancora dovuti, si creerebbe un

annacquamento del capitale (non si avrebbe la copertura integrale del capitale sottoscritto). Se gli

altri soci, nel termine assegnato dagli amministratori, non provvedono ad assumersi le

obbligazioni del socio moroso, o non vi provvedono integralmente, la legge prevede che gli

amministratori possano procedere alla vendita al pubblico di queste azioni: “In mancanza di offerte

possono far vendere le azioni a rischio e per conto del socio, a mezzo di una banca o di un intermediario autorizzato alla

negoziazione nei mercati regolamentati”. “Qualora la vendita non possa aver luogo per mancanza di compratori, gli

amministratori possono dichiarare decaduto il socio, trattenendo le somme riscosse, salvo il risarcimento dei maggiori danni” gli

amministratori possono escludere il socio dalla società (questo è l’unico caso in cui è possibile

espellere un socio dalla S.p.A.). Le sue azioni non vengono solo annullate ma rimangono nella

disponibilità della società (art. 2344, c.3): “Le azioni non vendute, se non possono essere rimesse in circolazione

entro l’esercizio in cui fu pronunziata la decadenza del socio moroso, devono essere estinte con la corrispondente riduzione del

capitale”. La legge vuole che l’annullamento delle azioni, ovvero la riduzione del capitale sia

l’ultima eventualità (questo per la conservazione dell’integrità del capitale). Quindi lascia un

ulteriore margine per ritentare di vendere le azioni purché lo si riesca a fare entro l’esercizio nel

quale è stata pronunziata la decadenza del socio moroso. Se neppure questo tentativo va a buon

fine, bisogna annullare le azioni e proporzionalmente al valore delle azioni, ridurre il capitale

sociale.

Nelle società di persone la legge prevede espressamente una serie di ipotesi in cui il socio può essere

escluso:

- escluso di diritto dalla società per fallimento personale

- nella società semplice quando i creditori abbiano chiesto e ottenuto la liquidazione della sua quota

per potersi soddisfare

- per decisione degli altri soci (esclusione facoltativa)

- socio inadempiente agli obblighi derivanti dal contratto

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- il caso del socio d’opera che sia diventato inabile a effettuare l’attività per la quale aveva

sottoscritto il contratto sociale.

Nella S.p.A. invece l’unico motivo di esclusione è quello illustrato sopra. Per quanto riguarda le S.r.l. con

la riforma gli statuti possono prevedere delle cause di esclusione per giusta causa del socio (prima ciò non

era possibile).

C’è un ulteriore sanzione sul socio che seppure in ritardo, paghi quanto deve: “ Il socio in mora nei versamenti non

può esercitare il diritto di voto” in assemblea. Questa sanzione tocca i diritti fondamentali del socio, cioè quelli di

incidere sulle decisioni fondamentali inerenti la società.

Per essere in mora, non è necessario che sia avvenuta la pubblicazione in gazzetta della diffida, ma basta

che sia scaduto il termine indicato dagli amministratori nella prima richiesta di completare i versamenti

(purché quella richiesta sia stata formulata per iscritto) (art. 1219): ”Non è necessaria una formale costituzione in

mora quando sia scaduto il termine previsto per l’adempimento”.

La disciplina dell’art. 2344 si applica solo ai conferimenti in denaro, e non ai conferimenti di beni in

natura e di crediti. La ragione sta nel fatto che per i conferimenti di beni in natura e di crediti non si

potrebbe ipotizzare una mora del socio: per questi conferimenti la legge prevede la liberazione immediata

e integrale all’atto della sottoscrizione. Il contratto di società è un contratto consensuale, che si perfeziona

con l’incontro dei consensi, senza che l’effettuazione della prestazione o la sua mancata effettuazione

possano incidere sulla validità del contratto stesso. E’ possibile quindi seppure in casi analogici che ci sia

un ritardo nell’adempimento dell’obbligazione del conferimento in natura.

Nelle S.p.A. per la mancata liberazione dei conferimenti non in denaro si applica la disciplina generale

del diritto dei contratti.

Prima di parlare dei conferimenti in natura, bisogna parlare di un altro problema dei conferimenti in

denaro: è il problema della possibilità o meno di compensare il debito da conferimento del socio con un

suo eventuale credito maturato verso la società (il socio ha fatto un finanziamento alla società, un prestito,

o ha effettuato delle forniture di materie prime per la società, e per le quali ha diritto ad un corrispettivo).

Per spiegare la compensazione bisogna fare riferimento al suo concetto giuridico, alla compensazione

legale, cioè non decisa volontariamente tra le due parti. La compensazione legale si verifica (art. 2243)

“quando vi sia la compresenza di due debiti che abbiano per oggetto un somma di denaro o una quantità di cose fungibili dello stesso genere

e che siano ugualmente liquidi ed esigibili”.

Liquido = significa certo nel suo ammontare,

esigibile = nel senso che lo si può pretendere da subito e non c’è un termine.

Quando i crediti sono certi, omogenei, liquidi ed esigibili la compensazione è voluta dalla legge, ma non

sempre si verifica: art. 1246 “……ci sia un divieto stabilito dalla legge di effettuare la compensazione……….”

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Nel corso degli anni si sono avute diverse sentenze riguardanti l’argomento della compensazione:

La Cassazione ha usato diversi argomenti contro la compensazione:

- ammettere la compensazione avrebbe leso il principio fondamentale della necessaria

corrispondenza fra capitale nominale e capitale effettivo della società,

- ammettere la compensazione avrebbe significato di fatto riconoscere la possibilità per il socio di

conferire in società un suo credito personale. E’ come se il socio conferisse il credito che aveva

nei confronti della società stessa.

- il socio si sottrarrebbe al rischio proprio degli apporti di capitale, perché compensando subito il

suo debito con il suo credito il socio non subirebbe più le eventuali conseguenze negative

dell’attività sociale. In particolare, se la società dovesse diventare insolvente, avendo il socio già

ottenuto l’immediata soddisfazione del suo credito portandolo in compensazione con il suo debito,

avrebbe un ingiustificato vantaggio nei confronti degli altri creditori sociali.

A conclusione di tutte le considerazioni fin qua fatte, la compensazione si può quindi fare nei limiti

dell’art. 1243 (non sono sempre i conferimenti sono liquidi ed esigibili).

Il problema della compensazione diventa delicato nella disciplina dei gruppi. Per i gruppi (come anche

per le S.r.l.) la riforma ha previsto che i finanziamenti che la capogruppo fa ad una società del gruppo (nel

caso di una S.r.l. il socio faccia alla società) sono in determinati casi postergati agli altri crediti. Quei

crediti che i terzi vantano nei confronti della società stessa. È stato stabilito questo perché molte volte,

soprattutto nei gruppi, accade che i conferimenti vengano fatti figurare sotto forma di finanziamenti,

ovvero di debito. Questa pratica comporta un vantaggio per le società essendo meno rischiosa, in quanto

un prestito, per definizione, è insensibile alle vicende economiche del debitore. In questo caso la

compensazione entra in crisi (se si deve aspettare che siano pagati prima gli altri creditori, non si può

compensare perché il credito non è esigibile).

La compensazione può riguardare solo il 75% ancora da versare e non il 25% da versare alla

sottoscrizione (non è possibile da parte del socio opporre un credito alla società che ancora non esiste).

Conferimenti di beni in natura o di crediti.I conferimenti di beni in natura o di crediti sono trattati dalla legge con la stessa disciplina. Tutti i

conferimenti non in denaro devono essere oggetto di una stima da parte di un esperto indipendente dai

soci e dalla società stessa.

Uno dei presupposti della riforma, per quanto riguarda i conferimenti diversi dal denaro, è la

semplificazione delle procedure di valutazione di questi conferimenti, ma comunque nel rispetto della

certezza del valore e a tutela dei terzi.

L’elemento centrale dei conferimenti diversi dal denaro è il procedimento di stima (art. 2343). La

determinazione del valore del conferimento e il controllo del valore stesso si svolge in due fasi:

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FASE 1: stima di un esperto indipendente, nominato dal tribunale, su sollecitazione del socio che esegue

il conferimento (art. 2343, c.1): “Chi conferisce beni in natura o crediti deve presentare la relazione giurata di un esperto designato

dal tribunale nel cui circondario ha sede la società”. La stima fornita dall’esperto ha un carattere provvisorio, essendo

solo la prima parte del procedimento che porta alla determinazione del valore del bene o del credito

conferito;

FASE 2: controllo e l’eventuale revisione della stima da parte degli amministratori della società. Questa

fase ha luogo una volta che la società sia stata iscritta nel registro delle imprese (art. 2343, c. 3, 4).

Gli interpreti hanno opinioni contrastanti sugli interessi tutelati dalla norme dell’art. 2343:

alcuni ritengono che ad essere tutelati siano i contrapposti interessi del socio che conferisce

(conferimento deve essere adeguatamente valorizzato) e degli altri soci;

altri sostengono che bisogna tutelare i terzi rispetto alla società, in particolare gli eventuali futuri

creditori della società, (perché una esuberante valutazione, comporta un esagerato valore del

capitale, che non è invece quello reale).

Fra queste due posizioni opposte è preferibile la seconda:

- la legge prevede sì una semplificazione delle procedure di valutazione, ma nel rispetto della

certezza del valore e a tutela dei terzi;

- gli amministratori che devono controllare la stima effettuata dall’esperto indipendente “devono, nel

termine di centottanta giorni dalla iscrizione della società, controllare le valutazioni contenute nella relazione indicata nel primo

comma e, se sussistano fondati motivi, devono procedere alla revisione della stima” Bisogna procedere alla revisione

della stima, se gli amministratori lo ritengono opportuno, anche se tutti i soci abbiano aderito alla

valutazione fatta dall’esperto. Quindi non sono gli interessi dei soci ad essere tutelati in questo

caso, ma quelli di terzi.

FASE 1. La stima va redatta da un esperto indipendente (neutrale rispetto alle parti) nominato dal

tribunale su richiesta del socio che effettua il conferimento. L’esperto, non necessariamente deve essere

una persona fisica, ma può essere anche un ente collettivo come ad esempio una società revisione.

L’esperto deve presentare una relazione giurata della stima (si assume responsabilità penale). La stima

deve contenere: “la descrizione dei beni o dei crediti conferiti, l’attestazione che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai

fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale soprapprezzo e i criteri di valutazione seguiti”. Conclusioni:

lo scopo della stima è quello di attestare che il valore del conferimento è almeno pari a quello che

gli è stato attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale. La legge non si preoccupa

della sottovalutazione di un bene, ma bensì della sua sopravalutazione.

è legittimo prevedere una sottovalutazione in sede di costituzione della società: solo una parte del

conferimento va a capitale, mentre l’altra va a riserva.

Conferimenti di beni in natura o di crediti (segue).

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Riprendiamo il discorso che riguarda il procedimento che bisogna seguire nel caso siano previsti

conferimenti di beni in natura e di crediti (art. 2343).

2343. (Stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti). Chi conferisce beni in natura o crediti deve presentare la relazione giurata di un esperto designato dal tribunale nel cui circondario ha sede la società, contenente la descrizione dei beni o dei crediti conferiti, l’attestazione che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale soprapprezzo e i criteri di valutazione seguiti. La relazione deve essereallegata all’atto costitutivo. L’esperto risponde dei danni causati alla società, ai soci e ai terzi. Si applicano le disposizioni dell’articolo 64 del codice di procedura civile. Gli amministratori devono, nel termine di centottanta giorni dalla iscrizione della società, controllare le valutazioni contenute nella relazione indicata nel primo comma e, se sussistano fondati motivi, devono procedere alla revisione della stima. Fino a quando le valutazioni non sono state controllate, le azioni corrispondenti ai conferimenti sono inalienabili e devono restare depositate presso la società. Se risulta che il valore dei beni o dei crediti conferiti era inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il conferimento, la società deve proporzionalmente ridurre il capitale sociale, annullando le azioni che risultano scoperte. Tuttavia il socio conferente può versare la differenza in danaro o recedere dalla società; il socio recedente ha diritto alla restituzione del conferimento, qualora sia possibile in tutto o in parte in natura. L’atto costitutivo può prevedere, salvo in ogni caso quanto disposto dal quinto comma dell’articolo 2346, che per effetto dell’annullamento delle azioni disposto nel presente comma si determini una loro diversa ripartizione tra i soci.

Il procedimento si articola in due fasi:

1. la prima è quella della stima da parte di un esperto nominato dal tribunale (ha carattere

provvisorio),

2. la seconda si attua quando la società è stata iscritta nel registro delle imprese e consiste nel

controllo della stima da parte dell’organo amministrativo e eventualmente una revisione della

stima, in caso di difformità della valutazione.

FASE 1. Per quanto riguarda l’esperto nominato per la stima dei beni, egli deve avere delle caratteristiche

di indipendenza sia rispetto al socio conferente, sia rispetto agli altri soci e alla società. L’esperto non

deve essere necessariamente una persona fisica, ma può essere anche un ente collettivo, come una società

di revisione per esempio. Trattandosi di un esperto, deve esserlo nel particolare settore a cui si riferisce il

conferimento. Ad esempio se il conferimento consiste in un’azienda, l’esperto chiamato a stimare questo

particolare conferimento sarà un esperto di valutazione d’azienda, come commercialista oppure come

società di revisione.

Il compito dell’esperto è quello di stendere una relazione che contenga diverse informazioni:

- descrizione dei beni o degli eventuali crediti,

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- attestazione che il valore sia almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione

del capitale sociale e dell’eventuale sovrapprezzo,

- i criteri di valutazione seguiti.

Dall’analisi svolta si ricavano alcune conclusioni importanti:

1. quello di cui si preoccupa la legge non è tanto il fatto di arrivare ad una valutazione esatta in

termini assoluti del valore del conferimento, quanto di evitare che attraverso il conferimento si

possa giungere ad avere un capitale non effettivamente coperto (per colpa di una

sopravvalutazione dei beni in natura o dei crediti conferiti).

2. sono tollerate, invece, le eventuali sottovalutazioni. In questo caso si determina una situazione

simile a quella che si determina nel caso in cui vengano emesse delle azioni col sovrapprezzo.

Quando si sottovaluta un conferimento, è come se si emettessero fin dall’inizio delle azioni a

fronte dei conferimenti che solo per una parte vanno a capitale, mentre il resto va a riserva.

3. la formula in cui non si chiede all’esperto una determinazione esatta in termini assoluti del valore

del conferimento, serve a scaricare le responsabilità dell’esperto – ci sono dei conferimenti di

facile valorizzazione e ci sono quelli di molto più complessa valorizzazione – e se fosse chiesto

all’esperto di arrivare alla determinazione del valore esatto del conferimento, questo

aumenterebbe necessariamente anche la sua responsabilità. Mantenendo questa ampia tolleranza

ed elasticità, si favoriscono i conferimenti di beni in natura e di crediti, quando, appunto,

rappresentano entità di difficile valorizzazione.

4. il valore che l’esperto è chiamato ad attribuire deve comunque essere ancorato a dati oggettivi e

rappresentare il più possibile il valore corrente di quel certo bene. Non si possono quindi usare da

parte dell’esperto parametri di valutazione di carattere soggettivo (riferiti per esempio all’utilità

che quel bene può avere per la società stessa).

5. l’esperto non può usare come criteri di valutazione quelli che la legge richiede ai fini della stesura

del bilancio, che sono in larga misura criteri convenzionali, prudenziali. In questa sede non si

tratta di redigere un bilancio della società, ma di dare un valore effettivo al bene ai fini della

copertura di un certo capitale sociale.

La valutazione diventa molto difficile se il conferimento riguarda un’azienda. Un’azienda è un complesso

non solo di beni ma anche dei rapporti giuridici attivi e passivi; con l’azienda non circolano solo i beni

che fisicamente compongono l’azienda ma circolano anche i contratti relativi all’azienda ceduta, purché

non abbiano carattere personale (art. 2558). Assieme all’azienda sono trasferiti anche i crediti

dell’azienda stessa, la società conferitaria si accolla anche i debiti dell’azienda ceduta, risultanti dalle

scritture contabili. Quindi, in caso di un’azienda, ci si trova di fronte ad un complesso di entità positive e

negative di difficile valutazione, con la necessità di valutare anche l’avviamento dell’azienda conferita (di

ambigua determinazione). Su questa difficoltà e ambiguità della valutazione la legge non si esprime e

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rinvia alle regole tecniche di valutazione delle aziende di cui l’esperto dovrà necessariamente tener conto,

anche perché ha poi l’obbligo di elencare nella relazione i criteri di valutazione seguiti nel valutare quel

determinato conferimento.

All’esperto si applica l’art. 64 del Codice di Procedura Civile:Art. 64. (Responsabilità del consulente). Si applicano al consulente tecnico le disposizioni del Codice penale relative ai periti [c.p. 314 ss.,

366, 373 ss.; 376, 377, 384].

In ogni caso, il consulente tecnico che incorra in colpa grave nell’esecuzione degli atti che gli sono richiesti, è punito con l’arresto fino a un

anno o con la ammenda fino a € 10.329,00. Si applica l’art. 35 del Codice penale. In ogni caso è dovuto il risarcimento dei danni causati alle

parti [c.c. 2043 ss.; disp. att. 19 ss.].

FASE 2. Quando gli amministratori fanno il controllo della stima, se procedono a una revisione della

stima, al socio che ha conferito quel bene vengono date delle alternative (ma l’incidenza della minor

valutazione che eventualmente gli amministratori danno al bene va tutta a carico del socio conferente):

il socio può integrare il conferimento versando denaro

può recedere dalla società

può accettare una quota di azioni ridotta in base al fatto che il bene da lui conferito vale

meno del valore stimato dall’esperto. In questo caso va ridotto anche il capitale sociale.

La legge si preoccupa soltanto di evitare le sopravvalutazioni, mentre non si cura delle sottovalutazioni.

Nonostante la legge non dedichi attenzione al problema delle sottovalutazioni, esso è comunque

importante; si crea il problema fra sottovalutazione in sede di valutazione dei conferimenti di beni in

natura e di crediti e le necessità di appostazione a bilancio di queste entità che vengono conferite. Bisogna

distinguere le sottovalutazioni in due tipi:

a) sottovalutazione “convenzionale” – l’esperto valuta il bene 100, ma i soci (per un accordo)

nell’atto costitutivo indicano quel determinato bene per un valore di 80. Quindi si decide che

invece di mandare a capitale l’intero valore del bene conferito, si manda soltanto una parte di esso.

Nel momento di redigere il primo bilancio, gli amministratori devono indicare comunque il valore

stimato dall’esperto.

b) sottovalutazione come frutto della stima dell’esperto – usando criteri sbagliati l’esperto

sottovaluta il bene. In questo caso gli amministratori, nel momento di redigere il bilancio, hanno

l’obbligo di dare una rappresentazione chiara, veritiera e fedele della situazione patrimoniale della

società; devono assegnare al bene sottovalutato il suo giusto valore (secondo le regole della

redazione del bilancio). Il surplus di valore del bene va a vantaggio di tutti i soci, perché va a

costituire una riserva di cui godono tutti.

Tutte le variazioni (svalutazione del bene conferito) che si dovessero determinare nel valore del bene,

dopo la relazione di stima, sono posti a carico della società e non del socio che conferisce, e sono

distribuite proporzionalmente fra tutti i soci. (Es: il bene è un magazzino contenente delle merci, durante 24

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un incendio vanno perdute le merci e il bene conferito di conseguenza vale meno. Se questo evento

accade dopo la stipulazione dell’atto costitutivo, nel momento di redigere il primo bilancio gli

amministratori devono tener conto dell’accaduto; la svalutazione ricade sul patrimonio sociale e pro quota

su ciascuno dei soci.)

La seconda fase quindi è quella del controllo della stima da parte degli amministratori. Prima della

riforma questo compito spettava agli amministratori e ai sindaci (questa formula faceva nascere non pochi

dubbi). Adesso la riforma ha eliminato ogni compito dei sindaci in questa fase. I sindaci comunque hanno

il compito di controllare l’operato dell’organo di gestione e quindi anche in questa fase dovranno

controllare che non siano stati violati degli obblighi previsti dalla legge o dall’atto costitutivo, pena anche

la loro responsabilità in aggiunta a quella degli amministratori.

È possibile che il controllo della stima si risolva in una sostanziale adesione. Ma se gli amministratori

ritengano che esistano dei motivi fondati per ritenere non corretta la valutazione fatta dall’esperto, devono

procedere alla revisione della stima. La legge non stabilisce chiaramente se siano gli stessi amministratori

a dover effettuare questa nuova stima, o se debbano chiedere al giudice la nomina di un nuovo esperto che

proceda alla revisione. Sembra preferibile la prima interpretazione, per motivi soprattutto di tempistica,

visto che tutta la seconda fase deve concludersi entro 180 giorni dalla iscrizione della società. Si vuole

anche evitare che circolino delle azioni non coperte (vedi art. 2343, c.3).

I risultati del controllo devono necessariamente essere comunicati al socio conferente e, nel caso si

proceda alla revisione della stima, gli amministratori devono assegnarli un termine congruo perché decida

come procedere (ha tre possibilità viste sopra). Per quanto riguarda l’intervento sul capitale sociale, a

seguito di una revisione della stima del conferimento, si rimanda all’art. 2343, c.3.

Nel caso in cui il socio decide di recedere (il recesso dalla società e disciplinato dagli articoli 2437 e

seguenti) dalla società, con la restituzione del suo conferimento, il problema diventa quello di stabilire se

sia un recesso che abbia efficacia ex nunc o ex tunc, cioè se abbia efficacia dal momento in cui viene

dichiarato o dall’inizio. Questo è rilevante perché nel frattempo la società ha iniziato ad operare e quindi

si possono essere determinati degli utili o delle perdite. Se il recesso deve operare dall’inizio, il socio

dovrebbe avere indietro il valore del suo conferimento così com’era all’inizio. Ma la regola del recesso in

generale stabilisce che il valore della liquidazione è quello dato dalla situazione patrimoniale della società

nel momento del recesso. Quindi si dice che anche questo particolare tipo di recesso operi dal momento in

cui viene dichiarato. Non agisce retroattivamente – la società si è creata e ha cominciato ad operare

disponendo dei beni che in essa sono stati conferiti, anche se ancora sottoposti (i beni conferiti) ai

controlli e all’eventuale revisione della stima da parte degli amministratori - il socio deve comunque

subire i risultati dell’attività sociale che nel frattempo è stata svolta, e quindi potrà avere di più (se la

società ha prodotto utili) o di meno (se ha subito perdite) di quello che era il valore del suo conferimento.

Il recesso del socio si conclude con una riduzione del capitale sociale, salvo che la società non abbia

maturato riserve tali da poter permettere la liquidazione del socio senza intaccare il capitale. Questa

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riduzione del capitale sociale è paragonabile a quella per perdite e non ad una riduzione effettiva (non c’è

il diritto dei creditori di fare opposizione alla riduzione).

Ma il socio ha anche la possibilità di accettare una quota di azioni ridotta in base al fatto che il bene da lui

conferito vale meno del valore stimato dall’esperto. Anche in questo caso va ridotto il capitale sociale e la

riduzione assomiglia a quella delle perdite, anche se non si applica tutta la procedura dell’art. 2446 perché

bisogna procedere entro il primo esercizio alla riduzione del capitale sociale (questo non vale per le

perdite). 2446. (Riduzione del capitale per perdite). - Quando risulta che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, gli amministratori o il consiglio di gestione, e nel caso di loro inerzia il collegio sindacale ovvero il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti. All’assemblea deve essere sottoposta una relazione sulla situazione patrimoniale della società, con le osservazioni del collegio sindacale o del comitato per il controllo sulla gestione. La relazione e le osservazioni devono restare depositate in copia nella sede della società durante gli otto giorni che precedono l’assemblea, perché i soci possano prenderne visione. Nell’assemblea gli amministratori devono dare conto dei fatti di rilievo avvenuti dopo la redazione della relazione. Se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea ordinaria o il consiglio di sorveglianza che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate. In mancanza gli amministratori e i sindaci o il consiglio di sorveglianza devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultanti dal bilancio. Il tribunale provvede, sentito il pubblico ministero, con decreto soggetto a reclamo, che deve essere iscritto nel registro delle imprese a cura degli amministratori. Nel caso in cui le azioni emesse dalla società siano senza valore nominale, lo statuto, una sua modificazione ovvero una deliberazione adottata con le maggioranze previste per l’assemblea straordinaria possono prevedere che la riduzione del capitale di cui al precedente comma sia deliberata dal consiglio di amministrazione. Si applica in tal caso l’articolo 2436.

Con la riforma non è più necessario che ci sia una esatta proporzionalità tra valore del conferimento del

singolo socio e partecipazione che gli viene attribuita, cioè azioni che gli vengono assegnati. Comunque il

valore complessivo dei conferimenti deve necessariamente corrispondere al valore delle azioni che

vengono emesse, ma si può creare una redistribuzione interna. Questo si può applicare, purché lo preveda

l’atto costitutivo, anche quando si debba procedere all’annullamento di azioni e cioè ad una riduzione del

capitale in caso di rideterminazione del valore di un conferimento in natura.

Prima di chiudere il discorso sui conferimenti, vanno presi in considerazione ancora due istituti:

1. “acquisti pericolosi” - si trova in

2343-bis. (Acquisto della società da promotori, fondatori, soci e amministratori). L’acquisto da parte della società, per un corrispettivo pari o superiore al decimo del capitale sociale, di beni o di crediti dei promotori, dei fondatori, dei soci o degli amministratori, nei due anni dalla iscrizione della società nel registro delle imprese, deve essere autorizzato dall’assemblea ordinaria. L’alienante deve presentare la relazione giurata di un esperto designato dal tribunale nel cui circondario ha sede la società contenente la descrizione dei beni o dei crediti, il valore a ciascuno di

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essi attribuito, i criteri di valutazione seguiti, nonché l’attestazione che tale valore non è inferiore al corrispettivo, che deve comunque essere indicato. La relazione deve essere depositata nella sede della società durante i quindici giorni che precedono l’assemblea. I soci possono prenderne visione. Entro trenta giorni dall’autorizzazione il verbale dell’assemblea, corredato dalla relazione dell’esperto designato dal tribunale, deve essere depositato a cura degli amministratori presso l’ufficio del registro delle imprese. Le disposizioni del presente articolo non si applicano agli acquisti che siano effettuati a condizioni normali nell’ambito delle operazioni correnti della società nè a quelli che avvengono nei mercati regolamentati o sotto il controllo dell’autorità giudiziaria o amministrativa. In caso di violazione delle disposizioni del presente articolo gli amministratori e l’alienante sono solidalmente responsabili per i danni causati alla società, ai soci ed ai terzi.

Lo scopo di questa norma è quello di reprimere operazioni che siano elusive della disciplina dei

conferimenti in natura. La legge si preoccupa di sottoporre a verifica quelle operazioni di acquisto

fatte dalla società, ritenute potenzialmente pericolose, data la natura dei soggetti coinvolti, nei primi

anni di operato della società. La procedura è analoga a quella dei conferimenti di beni in natura e di

crediti (manca la seconda fase, non è previsto il controllo della stima da parte degli amministratori).

Ci vuole però l’autorizzazione dell’assemblea ordinaria. La norma si applica anche quando gli

acquisti siano formalmente più di uno ma dalla stessa persona e con ampi coordinati tra di loro (o da

più persone viene acquistato lo stesso tipo di bene). Si applica questa norma a tutte quelle operazioni,

a tutti quei contratti che comportano un trasferimento a titolo oneroso a favore della società (permuta,

un ulteriore conferimento).

L’esperto che viene chiamato a valutare il bene deve anche stabilire il valore della controprestazione

dovuta. In caso di violazione di questa norma, il contratto concluso rimane comunque valido ed

efficace, ma gli amministratori e l’alienante sono solidamente responsabili per i danni causati alla

società, ai soci e ai terzi.

Il legislatore prevede delle esenzioni dall’applicazione di queste disposizioni (art. 2343-bis, c.4). Non

si applica quindi alle operazioni correnti svolte in condizioni normali, cioè quelle che la società fa in

maniera continuata in relazione al tipo di attività che svolge; non si applicano alle operazioni che

avvengono nei mercati regolamentati o sotto il controllo dell’autorità giudiziaria o amministrativa.

2. prestazioni accessorie – si trova in2345. (Prestazioni accessorie). Oltre l’obbligo dei conferimenti, l’atto costitutivo può stabilire l’obbligo dei soci di eseguire prestazioni accessorie non consistenti in danaro, determinandone il contenuto, la durata, le modalità e il compenso, e stabilendo particolari sanzioni per il caso di inadempimento. Nella determinazione del compenso devono essere osservate le norme applicabili ai rapporti aventi per oggetto le stesse prestazioni. Le azioni alle quali è connesso l’obbligo delle prestazioni anzidette devono essere nominative e non sono trasferibili senza il consenso degli amministratori. Se non è diversamente disposto dall’atto costitutivo, gli obblighi previsti in questo articolo non possono essere modificati senza il consenso di tutti i soci.

Era una norma di scarso uso prima della riforma, e lo sarà ancora di più dopo la riforma. Era l’unica

norma che consentiva di riconoscere gli apporti atipici in S.p.A., non c’era altra possibilità di dare un

riconoscimento formale a quegli apporti d’opera di servizi ecc., che rappresentano un’utilità per la

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società. L’unica possibilità era rappresentata dal ricorso alle azioni con prestazioni accessorie. Ma con

la riforma sono stati previsti altri mezzi, su cui torneremo più avanti.

Possibilità di non proporzionalità nell’assegnazione delle azioni.

La regola, prima della riforma, è sempre stata quella che ciascuno dei soci nei contratti di S.p.A. avesse

diritto ad ottenere una quota di capitale (espresso in azioni) proporzionale al valore del suo conferimento.

Questa regola è rimasta assolutamente rigida e intangibile fino alla riforma. La novità della riforma

consiste in: art. 2346 co. 4 (Emissione di Azioni) “A ciascun socio è assegnato un numero di azioni proporzionale alla parte

del capitale sociale sottoscritta e per un valore non superiore a quello del suo conferimento. L’atto costitutivo può prevedere

una diversa assegnazione delle azioni”. Nella prima parte viene ancora una volta ribadita la regola generale della

proporzionalità del, ma la norma aggiunge che lo statuto può prevedere una diversa assegnazione delle

azioni, senza rispettare quindi la proporzionalità tra la quota di capitale sottoscritta e il numero di azioni

assegnate.

Questa possibile eccezione alla regola viene anche trovata nella norma sui conferimenti diversi dal

denaro: art 2343 co.4. (Stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti). “Se risulta che il valore dei beni o dei crediti

conferiti era inferiore di oltre un quinto a quello per cui avvenne il conferimento, la società deve proporzionalmente ridurre il

capitale sociale, annullando le azioni che risultano scoperte”; 2343 co.5. (Stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti).

“L’atto costitutivo può prevedere, salvo in ogni caso quanto disposto dal quinto comma dell’articolo 2346, che per effetto

dell’annullamento delle azioni disposto nel presente comma si determini una loro diversa ripartizione tra i soci”.

Una norma analoga la si trova in tema di trasformazione della società (sia di persone che di capitali): art.

2500-quater, dove si prevede la possibilità di ridisegnare la distribuzione delle azioni in accordo tra i soci, “Nel caso previsto dall’articolo 2500-ter, ciascun socio ha diritto all’assegnazione di un numero di azioni o di una quota

proporzionale alla sua partecipazione, salvo quanto disposto dai commi successivi.

Il socio d’opera ha diritto all’assegnazione di un numero di azioni o di una quota in misura corrispondente alla partecipazione

che l’atto costitutivo gli riconosceva precedentemente alla trasformazione o, in mancanza, d’accordo tra i soci ovvero, in

difetto di accordo, determinata dal giudice secondo equità.

Nelle ipotesi di cui al comma precedente, le azioni o quote assegnate agli altri soci si riducono proporzionalmente.

Tornando alla previsione generale dell’art. 2343, la possibilità di assegnazione non proporzionale delle

azioni non significa che la legge abbia voluto legittimare l’emissione di azioni sotto la pari (cioè che il

legislatore abbia ammesso che si possono emettere azioni anche se non coperte dai conferimenti

effettivamente effettuati). Il principio fondamentale rimane: il capitale sociale nominale deve essere

commisurato al valore complessivo dei conferimenti (salvo la possibilità che i conferimenti siano

addirittura superiori, visto che è possibile che in sede di costituzione si emettano le azioni con

sovrapprezzo). “…in nessun caso il valore dei conferimenti può essere complessivamente inferiore all’ammontare globale

del capitale sociale”. Con la riforma il principio che prima valeva all’interno di ogni singola azione è stato

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spostato a tutto il complesso delle partecipazioni. Viene inoltre ammesso che i conferenti possono, per

loro scelta, decidere di ridistribuirsi le azioni senza necessariamente rispettare il principio della

proporzionalità tra partecipazioni e valore del conferimento effettuato. Questa nuova opportunità della

redistribuzione ha un’unica conseguenza: se un socio riceve un numero di azioni maggiore rispetto a

quanto ha conferito, allora necessariamente ci sarà un altro socio che riceve meno del suo conferimento

effettivo.

Le ragioni della redistribuzione possono essere molteplici:

1. i soci intendono dare peso, all’interno della società, a conferimenti atipici che uno o più soci

possono effettuare. Quindi si vuole incoraggiare i conferimenti che non possono andare

direttamente a capitale, come ad esempio le prestazioni d’opera o di servizi, per i quali la legge

vieta l’iscrivibilità a capitale, ma che comunque portano un’utilità alla società. Così si assegna al

socio, che oltre al conferimento in denaro si impegna anche ad effettuare determinate prestazioni a

favore della società, una quota di capitale maggiore rispetto a quella a cui avrebbe avuto diritto per

i soli conferimenti capitalizzati.

2. ragione di liberalità: attraverso questo meccanismo si fa una sorta di donazione da parte di alcuni

soci a favore di altri. Un esempio può essere quello di una società familiare in cui il padre e la

madre rinunciano ad una parte delle loro azioni a favore dei figli, che ricevono più azioni di

quanto gli sarebbe spettato.

Comunque bisogna che sia data una giustificazione a questa assegnazione non proporzionale, perché il

principio generale del nostro ordinamento è che qualunque negozio deve avere una causa, una ragione

economico-sociale che sia non in difformità con le regole dell’ordinamento.

Ammettendo l’eccezione alla regola della proporzionalità nasce tutta una serie di problemi. Il problema

più grave riguarda i due estremi:

- che un socio riceva azioni senza conferire nulla

- che un socio conferisca ma riceve alcuna azione (tutte le azioni che a lui spetterebbero vengono

assegnate agli altri soci).

Secondo molti interpreti entrambe le situazioni sarebbero possibili. Ma secondo altri l’ipotesi della

distribuzione, anche non proporzionale, delle azioni prevista dalla legge avviene comunque sempre tra

soggetti che abbiano comunque sottoscritto una parte di capitale e che quindi siano, sia prima che dopo

l’assegnazione non proporzionale, soci per la società. Quindi l’ipotesi che un soggetto che conferisce ma

senza poi entrare come socio è una situazione esterna al rapporto sociale e quindi non riguarda la

disciplina della distribuzione non proporzionale.

Anche l’ipotesi del soggetto che risulti solo beneficiario della distribuzione non proporzionale ma che non

conferire non è compatibile con la disciplina. Bisogna sempre tener presente che in tanto si può avere un

rapporto sociale, in quanto si conferisca qualche cosa (la definizione di società all’ art 2247).

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Art 2247 (Contratto di società). Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in

comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili.

Un soggetto, quindi, per considerarsi socio nell’ambito di un determinato rapporto sociale, deve eseguire

il conferimento.

Altri problemi si manifestano per la vastità della riforma; non si può pensare che il legislatore abbia

previsto a priori tutte le possibili conseguenza che possono derivare da alcune previsioni che ha

introdotto.

La disciplina delle azioni.

Prima di cominciare bisogna fare una premessa terminologica sul concetto di azione in quanto le azioni

possono assumere significati diversi:

1. azione intesa come frazione del capitale sociale . Nelle società per azioni il capitale sociale è diviso

in azioni.

2. azione intesa come partecipazione sociale , cioè come sintesi di quel complesso di posizioni

giuridiche attive e passive, di diritti, di obblighi ecc., che fanno capo al socio di una società.

3. azione intesa come titolo azionario , cioè come documento che incorpora la partecipazione sociale

e che ha la natura del credito destinato alla circolazione.

Mentre le prime due accezioni di azione si trovano sempre in una S.p.A., non è sempre necessariamente

presente l’azione intesa come titolo azionario: art 2346 co.1 (Emissione di azioni). “la partecipazione sociale è

rappresentata da azioni; salvo diversa disposizione di leggi speciali lo statuto può escludere l’emissione dei relativi titoli o

prevedere l’utilizzazione di diverse tecniche di legittimazione e circolazione”. È possibile quindi in una S.p.A.

prevedere la non emissione dei titoli azionari (questa possibilità ha conseguenze importanti per quanto

riguarda il trasferimento delle partecipazioni sociali).

L’azione, intesa come partecipazione sociale, rappresenta un’unità indivisibile: nelle S.p.A. l’azione è il

minimo comune denominatore. Art 2347 (Indivisibilità delle azioni). le azioni sono indivisibili. Nel caso di comproprietà di un’azione, i diritti dei

comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune nominato secondo le modalità previste dagli articoli 1105

e 1106.

Se il rappresentante comune non è stato nominato, le comunicazioni e le dichiarazione fatte dalla società a uno dei

comproprietari sono efficaci nei confronti di tutti.

I comproprietari delle azioni rispondono solidamente delle obbligazioni da essa derivanti.

In una S.p.A. il soggetto che possiede un’azione non può cederne una parte; oppure nel caso ci sia la

comproprietà di una stessa azione, questa rimane necessariamente in comproprietà e non può essere divisa

fra i comproprietari. Quindi l’azione, intesa come partecipazione sociale, è indivisibile e rappresenta un

complesso di posizioni giuridiche, attive e passive, standardizzate e di uguale valore. 30

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Standardizzazione → ogni azione rappresenta l’unità minima di partecipazione sociale, ognuna incardina

la posizione giuridica di socio.

Uguaglianza del valore → non si possono creare azioni di diverso valore.

Tendenzialmente, tutte le azioni attribuiscono gli stessi diritti. Tendenzialmente in quanto la legge

prevede l’art 2348.Art 2348 (Categorie di azioni). Le azioni devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti.

Si possono tuttavia creare, con lo statuto o con successive modificazioni di questo, categorie di azioni fornite di diritti diversi

anche per quanto concerne la incidenza delle perdite. In tal caso la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente

determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie.

Tutte le azioni appartenenti ad una medesima categoria conferiscono uguali diritti.

Dall’art. 2348 si deduce che il principio dell’uguaglianza dei diritti è solo un principio dispositivo, ma che

può essere modificato creando categorie di azioni fornite di diritti diversi. Quindi il principio di

uguaglianza dei diritti non vale più per il complesso delle azioni, ma ha un significato diverso a seconda

di ciascuna categoria.

Ad ogni azione corrisponde una partecipazione: un socio che sia titolare di più azioni non ha un'unica

partecipazione sociale, ma ne ha tante quante sono le sue azioni. Questo significa che un socio può

esercitare i diritti che gli spettano in base alle azioni possedute, anche parzialmente: un soggetto quindi

potrebbe ritirare i dividendi anche solo per alcune delle azioni e lasciare all’interno della società la quota

dei dividendi relativi alle altre azioni; un socio può intervenire in assemblea anche solo con una parte

soltanto delle sue azioni.

Anche nel caso di recesso dalla società, la legge prevede che un socio possa recedere anche solo

parzialmente, cioè recedere con alcune delle azioni e rimanere socio con le altre. In un altro tipo di società

questo sarebbe inconcepibile.

A questo punto si pone un problema: se il socio avendo tante partecipazioni quante le azioni di cui è

titolare, possa esprimere in assemblea un voto diverso con ciascuna parte delle sue azioni. Questo è il

problema del voto divergente: ad esempio il socio potrebbe votare a favore dell’approvazione del bilancio

con dieci partecipazioni, e contro con altre dieci. Il problema difficilmente si pone in caso di persona

fisica. Invece è rilevante nel caso in cui le azioni siano intestate ad una società fiduciaria. La società

fiduciaria è una società alla quale, in base ad un rapporto di fiducia, si intestano delle azioni perchè il vero

socio, per qualche motivo, non vuole o non può apparire. La società fiduciaria riceve delle direttive su

come comportarsi. Può capitare e capita, che una società fiduciaria abbia azioni di una determinata società

che le sono state affidate da soggetti diversi, e che le direttive date da questi soggetti alla società siano

diverse. Questo è un caso che ha sempre fatto discutere, ma la manifestazione del voto divergente è

ammessa solo in casi in cui vi sia un’effettiva e ragionevole giustificazione (ed è proprio il caso della

società fiduciaria).

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Esercizio di diritti legati al possesso delle azioni.Ci sono tutta una serie di diritti e poteri che si riferiscono alla partecipazione sociale che non si possono

esercitare possedendo una singola azione, ma che per il loro esercizio presuppongono il possesso di una

determinata quantità di azioni (possesso azionario qualificato):

1. possibilità di impugnare le deliberazioni sociali, prevista per i casi in cui si hanno delle azioni

delle società quotate o non quotate in determinate aliquote del capitale sociale

2. possibilità di denunciare al tribunale le gravi scorrettezze degli amministratori, ma per cui è

necessario possedere il 10% del capitale sociale

3. possibilità da parte della minoranza di esercitare l’azione sociale di responsabilità verso gli

amministratori

La partecipazione sociale è un insieme di diritti, di poteri e di obblighi e non è un bene la partecipazione

sociale in quanto tale, lo diventa nel momento in cui la partecipazione viene incorporata in un titolo, in

un documento (così si diventa proprietari dell’azione come documento e non proprietari della

partecipazione). Inoltre i soci non sono proprietari, neppure pro-quota, dei beni che compongono il

patrimonio sociale dell’azienda. Solo la società è titolare del suo patrimonio, mentre il socio non è

comproprietario del patrimonio sociale. Questo può, secondo alcuni, valere per le società di persone, ma

sicuramente non può valere per le società di capitali, per le S.p.A. in particolare, che è oltretutto dotata di

una propria personalità giuridica.

Tutto questo ha delle conseguenze molto rilevanti nel caso di vendita di pacchetti azionari, soprattutto se

di maggioranza. Nel caso di vendita, per stabilire il prezzo del pacchetto azionario si tiene conto del

patrimonio della società (un criterio fondamentale per stabilire il valore del pacchetto è riferirsi al

patrimonio sociale). Per questo motivo quando si comprano o si vendono azioni viene prevista una

particolare garanzia per cui il venditore (socio) garantisce al compratore (futuro socio) il valore del

patrimonio sociale. Questa clausola di garanzia obbliga il venditore a tenere indenne il compratore da

eventuali minusvalenze del patrimonio sociale. Ed è proprio per questo motivo che i contratti di

trasferimento di partecipazioni sociali, soprattutto se di controllo e quindi di maggioranza, molto spesso

sono alquanto consistenti (in termini di lunghezza del contratto stesso, e di quantità di informazioni

contenute) - l’acquirente vuole essere garantito dal venditore in merito alla effettiva consistenza

patrimoniale della società.

Art 2346 co.1 (Emissione di azioni). La partecipazione sociale è rappresentata da azioni; salvo diversa disposizione di leggi

speciali lo statuto può escludere l’emissione dei relativi titoli o prevedere l’utilizzazione di diverse tecniche di legittimazione e

circolazione.

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Con la riforma si consacra il principio della libertà di documentazione delle partecipazioni sociali. Il fatto

che la partecipazione possa essere incorporata in titoli, in documenti azionari, oggi è solo una delle tante

forme possibili di documentazione. Quindi solo attraverso una previsione statutaria si possono prevedere

forme diverse di documentazione delle partecipazioni. Anche prima della riforma c’era la possibilità di

usare forme alternative per la documentazione della partecipazioni che però non erano previste dal

Codice Civile (c’era una legge speciale che prevedeva la possibilità attraverso una delibera

dell’assemblea straordinaria di non emettere le azioni).

Le azioni sono titoli a letteralità incompleta, cioè non si può e non si deve fare riferimento solo a quello

che è scritto sul titolo per sapere quali diritti attribuisce il titolo medesimo, perché il contenuto si ricava

anche dallo statuto della società che ha emesso quel titolo, dalle successive modifiche dello statuto e così

via.

Art 2355. (Circolazione delle azioni). Nel caso di mancata emissione dei titoli azionari il trasferimento delle azioni ha effetto

nei confronti della società dal momento dell’iscrizione nel libro dei soci.

Le azioni al portatore si trasferiscono con la consegna del titolo.

Il trasferimento delle azioni nominative si opera mediante girata autenticata da un notaio o da altro soggetto secondo

quanto previsto dalle leggi speciali. Il giratario che si dimostra possessore in base a una serie continua di girate ha diritto di

ottenere l’annotazione del trasferimento nel libro dei soci, ed è comunque legittimato ad esercitare i diritti sociali; resta salvo

l’obbligo della società, previsto dalle leggi speciali, di aggiornare il libro dei soci.

Il trasferimento delle azioni nominative con mezzo diverso dalla girata si opera a norma dell’articolo 2022.

Nei casi previsti ai commi sesto e settimo dell’articolo 2354, il trasferimento si opera mediante scritturazione sui conti destinati

a registrare i movimenti degli strumenti finanziari; in tal caso, se le azioni sono nominative, si applica il terzo comma e la

scritturazione sul conto equivale alla girata.

Quando la società decide per l’emissione delle azioni (dunque la partecipazione sociale è documentata),

le azioni possono circolare secondo le regole di circolazione dei titoli di credito. In particolare, le azioni

possono essere di due tipi:

al portatore

nominative

Quando invece le azioni non sono emesse, la partecipazione sociale non risulta da un documento, ma

risulta esclusivamente dall’iscrizione sul libro soci. Ovviamente cambia anche il modo di circolazione

delle partecipazioni che non avviene più attraverso le regole dei titoli di credito, ma secondo le regole

ordinarie della cessione di un contratto, dato che la partecipazione sociale rappresenta una posizione

contrattuale.

Accanto all’emissione e alla non emissione dei titoli si prevede la dematerializzazione delle azioni. Già

nel 1998 si prevedeva la dematerializzazione obbligatoria delle azioni per le società quotate in borsa, per i

titoli di Stato e per alcuni altri titoli.

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Dematerializzazione → l’azione non è più documentata da un titolo materiale, la documentazione delle

partecipazione è elettronica.

Con la riforma è stata prevista la possibilità di scegliere per la società (anche se non quotata) di

dematerializzare le proprie azioni. Ma se si imbocca questa strada, tutte le azioni devono essere

dematerializzate.

Una novità particolarmente significativa della riforma sta nella previsione dell’art 2346 co. 2 e 3 (Emissione delle azioni). “Se determinato nello statuto, il valore nominale di ciascuna azione corrisponde ad una frazione del

capitale sociale; tale determinazione deve riferirsi senza eccezioni a tutte le azioni emesse dalla società.

In mancanza di indicazione del valore nominale delle azioni, le disposizioni che ad esso si riferiscono si applicano con

riguardo al loro numero in rapporto al totale delle azioni emesse”. Il legislatore introduce la possibilità di emettere

azioni senza indicare il valore nominale; se si fa questa scelta, essa deve riguardare tutte le azioni della

società. Questa nuova norma è più formale che sostanziale: anche quando si sceglie di non indicare il

valore nominale delle azioni, in realtà esso è implicito nelle azioni stesse (è sempre determinabile dato

che basta dividere il valore del capitale sociale per il numero delle azioni). Comunque sia il valore

nominale deve essere sempre uguale per tutte le azioni. Per modificarlo bisogna intervenire a livello

statutario con le operazioni di frazionamento o raggruppamento delle azioni, soprattutto se la società è

quotata in borsa.

Frazionamento → la società può ritenere opportuno frazionare il valore nominale delle azioni, perché si

ritiene che sia troppo elevato (il che psicologicamente può rappresentare un freno sul mercato azionario).

Per frazionare bisogna apportare delle modifiche allo statuto societario. Raggruppamento → se per effetto

di riduzioni o perdite il valore nominale delle azioni assume un valore molto basso, si può decidere di

raggruppare le azioni.

Queste operazioni, in particolare quella di raggruppamento, potrebbero diventare assai troppo delicate. In

determinate situazioni il raggruppamento potrebbe essere preordinato per espellere un socio: se il socio

non possiede abbastanza azioni da dare in cambio della nuova azione con valore nominale superiore, di

fatto è fuori dalla società. Se l’operazione di raggruppamento è stata architettata in modo tale da portare

all’esclusione di uno o più soci, la delibera può essere impugnata per accumulo di eccessivo potere da

parte della maggioranza.

Così la scelta di non indicare il valore nominale delle azioni è un’operazione più formale che sostanziale,

dato che tale valore è sempre ricavabile. Questa scelte però facilita le operazioni di aumento o riduzione

del capitale sociale (dopo l’aumento o la riduzione del capitale sociale, non c’e bisogno di una delibera

assembleare riguardante il cambio del valore nominale delle azioni; il valore non è indicato e si calcola

dividendo il valore del capitale sociale per il numero delle azioni). L’azione non ha solo un valore

nominale, ma può avere anche un valore di mercato e, in particolare, un valore di borsa se sono azioni

quotate. Non c’è mai una corrispondenza precisa tra valore nominale e valore di contrattazione in borsa,

in quanto questo ultimo è frutto della domanda e dell’offerta, della consistenza patrimoniale della società

e di altri fattori. Quindi si può determinare il valore patrimoniale dell’azione, cioè un valore eguagliato 34

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non al capitale sociale, ma alla consistenza patrimoniale della società (in questo caso l’azione rappresenta

una quota ideale del patrimonio della società).

Anche se tutte le azioni hanno lo stesso valore nominale, lo stesso non si può dire del “peso” che possono

avere nella società. (Esempio 1: quando un socio possiede il 50% più un’azione, in base al possesso

azionario, egli ha il controllo della società; ma di fatto le sue azioni valgono molto di più perché gli

consentono di ottenere il cosiddetto premio di maggioranza). (Esempio 2: se un socio vende il 2% delle

proprie azioni ad un altro socio che già possiede il 49%, il valore aggiunto del 2% è superiore al suo

valore nominale, perché permette al socio che acquista di passare dal essere socio di minoranza a divenire

socio di maggioranza).

In caso di comproprietà di un’azione o di un pacchetto azionario indivisibile, si applicano gli articoli 1105

e 1106 che disciplinano la comunione e da cui si ricavano delle indicazioni importanti:

il rappresentante è nominato a maggioranza dei comproprietari;

se non è possibile raggiungere la maggioranza (ad esempio nel caso ci siano due comproprietari al

50%) uno dei due proprietari può rivolgersi all’autorità giudiziaria, e quindi sarà il giudice a

decidere;

il rappresentante comune può essere uno dei comproprietari oppure un terzo.

Accanto all’indivisibilità delle azioni, la legge prescrive anche l’inscindibilità delle azioni (questo

principio è ricavabile da una serie di norme). Questo principio attiene al contenuto dell’azione, cioè a quel

insieme di posizioni giuridiche attive e passive che l’azione attribuisce a chi ne sia titolare. Non si

possono attribuire a soggetti diversi i vari diritti e i poteri che l’azione attribuisce. Ci sono però dei casi

previsti dalla legge in cui è possibile la scissione dei diritti. Questo accade quando sull’azione si crea un

diritto reale limitato (l’azione può essere oggetto di usufrutto e di pegno).

Usufrutto → diritto reale limitato per cui il proprietario non cede la proprietà, ma cede la possibilità di

usare un bene per un dato periodo (è un diritto non obbligatorio).

Pegno → diritto reale limitato di garanzia.

In caso di diritti reali limitati sulle azioni si ha una scissione dei diritti in quanto alcuni diritti sono in capo

a chi gode del bene, mentre altri rimangono in capo al proprietario.

In generale comunque rimane valido il principio della inscindibilità, salvo si ipotizzi che la“ampia” libertà

statutaria, che a volte è lasciata in merito alla possibilità di inventarsi categorie speciali di azioni al di là

di quelle previste dalla legge, possa portare progressivamente a prevedere forme di scissione tra i vari

diritti riguardanti l’azione.

CATEGORIE DI AZIONI.La disciplina generale sulle categorie di azioni si trova nell’art. 2348, e in un’altra norma collocata

nell’ambito della disciplina dell’assemblea - l’art. 2376.

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In linea di principio l’azione rappresenta una partecipazione sociale, che si potrebbe definire

standardizzata. Tutte le azioni devono infatti avere lo stesso valore, sia espresso sia implicito (se la

società ha optato per non indicare il valore nominale).

In linea di principio, accanto all’uguaglianza di valore, la partecipazione rappresentata in azioni è

standardizzata anche per l’uguaglianza dei diritti che ciascuna azione conferisce. Anche se questa

uguaglianza di diritti non è assoluta come invece quella di valore, ma è relativa, nel senso che la legge

consente agli statuti di prevedere l’emissione di categorie di azioni speciali, e come tali dotate di diritti

diversi:

Art 2348. (Categorie di azioni). Le azioni devono essere di uguale valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti. Si possono tuttavia creare, con lo statuto o con successive modificazioni di questo, categorie di azioni fornite di diritti diversi anche per quanto concerne la incidenza delle perdite. In tal caso la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie.Tutte le azioni appartenenti ad una medesima categoria conferiscono uguali diritti.

La legge quindi consente agli statuti di creare diverse categorie di azioni, distinguendole sulla base dei

diritti che attribuiscono ai loro proprietari. Ma anche quando si crea una categoria di azioni, il principio

dell’uguaglianza di diritti si riproduce all’interno della categoria. Questo significa che tutte le azioni della

stessa categoria avranno i medesimi diritti.

Il principio dell’uguaglianza delle azioni è un principio di carattere oggettivo - si possono diversificare i

diritti sempre e solo con riferimento alle azioni, mai con riferimento ai soci. Con la riforma nella S.r.l. è

possibile che lo statuto attribuisca particolari diritti non tanto a singole partecipazioni, o a categorie di

partecipazioni sociali, ma ad uno o più soci. Questo significa che l’attribuzione dei diritti nella S.r.l. può

avvenire anche sul piano soggettivo (questo non è possibile nella S.p.A., dove la partecipazione sociale è

sempre oggettivizzata nell’azione).

Quando poi le azioni speciali passano da un soggetto ad un altro per effetto di un trasferimento, i diritti

speciali seguono queste azioni. Con questo si vuole dire che i diritti non sono mai riconosciuti alla

persona del socio, ma sono sempre e soltanto diritti che attengono alla partecipazione sociale

oggettivizzata.

Con la riforma la legge ha voluto lasciare la più ampia libertà all’autonomia statutaria per la

determinazione del contenuto delle varie categorie di azioni.

Il sistema che emerge dalla legge è quello in cui vi sono alcune categorie di azioni tipiche, previste e

disciplinate dal Codice Civile, e altre categorie atipiche, non disciplinate dalla legge, ma consentite,

sempre nei limiti imposti della legge, per il principio della libertà statutaria.

Non tutte le differenze che riguardano le azioni danno vita a diverse categorie di azioni.

Le azioni si possono diversificare sotto diversi profili, vi sono differenze:

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circa il contenuto dei diritti e dei poteri che le azioni attribuiscono, e allora vi sono diverse categorie

di azioni;

circa la regola di circolazione delle stesse. In linea di principio il codice ammette l’emissione di

azioni sia al portatore, sia nominative, e questo comporta una modalità diversa di trasferimento;

le azioni al portatore circolano infatti solamente con la consegna del titolo, e quindi

è legittimato ad esercitarne i diritti il possessore dell’azione in un certo momento,

le azioni nominative circolano con altre tecniche, quelle proprie dei titoli

nominativi, che normalmente consistono in una girata, con l’indicazione del nuovo

titolare, e l’iscrizione nel libro soci.

ci possono poi essere altre differenze sulle azioni, in base alle ragioni che hanno determinato

l’emissione.

Si ha una categoria di azioni, solo quando si incide sul contenuto delle azioni (primo caso).

È importante stabilire quando si è in presenza di categorie speciali di azioni per l’applicazione dell’art.

2376.

Art. 2376. (Assemblee speciali). Se esistono diverse categorie di azioni o strumenti finanziari che conferiscono diritti amministrativi, le

deliberazioni dell’assemblea, che pregiudicano i diritti di una di esse, devono essere approvate anche dall’assemblea speciale degli

appartenenti alla categoria interessata.

Alle assemblee speciali si applicano le disposizioni relative alle assemblee straordinarie.

Quando in una società convivono diverse categorie di azioni (non diverse tipologie), si ha un effetto

immediato nell’organizzazione stessa della società. Tutte le volte che una deliberazione dell’assemblea

della società, rechi un pregiudizio ad una delle categorie di azioni esistenti, quella delibera deve essere

accompagnata da una delibera conforme dell’assemblea speciale (assemblea a cui hanno diritto di

partecipare coloro che sono titolari delle azioni della categoria pregiudicata, che può essere ovviamente

anche la categoria degli azionisti ordinari).

Il pregiudizio deve essere un pregiudizio di diritto. (ESEMPIO: esiste una categoria di azioni privilegiata

sul piano della ripartizione degli utili periodici (5%). In un determinato momento l’assemblea delibera

una modifica statutaria per cui a queste azioni invece del 5%, spetta il 3%. Questa delibera deve essere

accompagnata da una delibera conforme dell’assemblea speciale dei possessori delle azioni privilegiate

sul piano patrimoniale, poiché si è andati a toccare un diritto in senso peggiorativo).

Il pregiudizio può essere sia diretto che indiretto (una delibera assembleare non tocca formalmente i diritti

di una categoria, lasciando la soglia del 5%, ma crea una nuova categoria di azioni, che ha diritto ad

ottenere il pagamento degli utili prima di tutte le altre categorie). Questo è un pregiudizio indiretto,

perché creando una nuova categoria c’è un’incidenza potenziale negativa sulla categoria di azioni speciali

già esistente.

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Sul pregiudizio indiretto c’è incertezza: alcuni interpreti ritengono che anche un pregiudizio indiretto

vada tutelato; ciò che interessa agli azionisti di una categoria è mantenere nell’ambito della società il

livello di privilegio che avevano prima; quindi se questo privilegio viene toccato, sia direttamente che

indirettamente, si rende necessaria la tutela offerta dall’art. 2376.

Riassumendo, la delibera dell’assemblea che pregiudica direttamente o indirettamente una categoria di

azioni, è una delibera non efficace di per sé, ma diviene efficace solo a condizione che vi sia una delibera

conforme dell’assemblea speciale. La delibera dell’assemblea speciale, diventa così una condizione di

efficacia per la delibera dell’assemblea generale di tutti i soci.

Il principio post-riforma è quello della libertà di creazione delle nuove categorie di azioni, anche atipiche,

seppur nei limiti fissati dalla legge. Questi limiti sono andati progressivamente sfumando. Sul piano

patrimoniale l’unico limite fissato dalla legge, che quindi non può essere superato dall’autonomia

statutaria, riguarda fondamentalmente la necessità di rispettare il divieto del Patto Leonino: non si

possono creare categorie di azioni il cui effetto sia quello di escludere una categoria da ogni

partecipazione agli utili o alle perdite. Anche se con la riforma è perfettamente legittimo prevedere

statutariamente che una categoria di azioni goda del privilegio di essere postergata nella partecipazione

delle perdite sociali (non rappresenta una violazione del divieto del Patto Leonino).

Anche sul piano dei diritti amministrativi la libertà è quasi assoluta. L’unico limite espresso dall’art. 2351

riguarda il divieto di emettere azioni a voto plurimo. Tuttavia oggi, l’elemento del diritto di voto non è

più un elemento essenziale delle azioni, quindi non solo lo si può limitare, ma addirittura si può arrivare

ad eliminarlo.

Altro limite sul piano amministrativo è dato dal fatto che le azioni prive del diritto di voto o con diritto di

voto limitato non possono superare il 50% del capitale sociale (art. 2351).

E’ scomparsa invece una regola prevista prima: limitando il diritto di voto di una categoria speciale di

azioni, bisognava attribuire a questa stessa categoria un privilegio sul piano patrimoniale. Oggi questo

limite non esiste più.

Ci sono poi alcuni diritti amministrativi a tutela della posizione dei vari soci (come ad esempio

denunciare al tribunale o al collegio sindacale le irregolarità degli amministratori) che vengono

considerati da parte di molti come diritti non eliminabili quando si crea una particolare categoria di

azioni.

Quando si va ad incidere sul il diritto di voto, correlativamente si vanno a toccare anche tutti quei diritti

che sono accessori al diritto di voto (ESEMPIO: se si crea una categoria di azioni senza diritto di voto,

questo significa che i titolari di queste azioni non possono neppure intervenire in assemblea, in quanto il

diritto di intervento è accessorio al diritto di voto).

Categorie tipiche di azioni che emergono dalla riforma:

1. le azioni correlate: (art. 2350, c.2) “Fuori dai casi di cui all’articolo 2447-bis, la società può emettere azioni fornite di

diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore.” Le azioni appartenenti a questa

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categoria non partecipano ai risultati di tutta l’attività della società, ma solo ad un determinato

settore che deve essere individuato nel momento in cui si procede alla creazione di questa categoria.

(Il patrimonio rimane unico).

Con la riforma la legge ha voluto individuare degli strumenti di finanziamento per società,

(finanziamenti effettuati sempre attraverso il capitale di rischio) finalizzati ad un certo fine. Con

riferimento a questo, da una parte troviamo le azioni correlate e dall’altra i patrimoni destinati.

Mentre le azioni correlate, si riferiscono correlate ad un certo settore stabile, permanente

dell’attività; i patrimoni destinati invece sono connessi ad un certo affare (è una operazione

determinata, che non riguarda la normale attività economica della società).

Art. 2350. (Diritto agli utili e alla quota di liquidazione). Ogni azione attribuisce il diritto a una parte proporzionale degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione, salvi i diritti stabiliti a favore di speciali categorie di azioni.Fuori dai casi di cui all’articolo 2447-bis, la società può emettere azioni fornite di diritti patrimoniali correlati airisultati dell’attività sociale in un determinato settore. Lo statuto stabilisce i criteri di individuazione dei costi e ricavi imputabili al settore, le modalità di rendicontazione, i diritti attribuiti a tali azioni, nonché l’eventuali condizioni e modalità di conversione in azioni di altra categoria.Non possono essere pagati dividendi ai possessori delle azioni previste dal precedente comma se non nei limiti degli utili risultanti dal bilancio della società.

Le azioni correlate partecipano così agli utili che maturano in uno specifico settore, bisogna quindi

avere a disposizione degli strumenti per dividere gli utili dello specifico settore da quelli

dell’intera società.

Anche se la legge parla solo di diritti agli utili correlati ad un certo settore, si intende che anche le

eventuali perdite incidono sulle stesse azioni correlate. Se in un certo periodo il settore, a cui sono

correlate le azioni produce delle perdite, ai proprietari di queste azioni non potranno essere

distribuiti utili finché non saranno state assorbite le perdite; la prima destinazione dell’utile è a

copertura delle perdite (anche per quanto riguarda il settore).

Nel caso in cui la società in generale vada male, ma il settore a cui è correlata una determinata

categoria di azioni vada bene, la legge impone un limite: non si possono distribuire i dividendi alle

azioni correlate solo per il fatto che il settore ha prodotto utili, ma bisogna che complessivamente

l’attività della società produca utili (ultimo comma art. 2350).

La società emettendo azioni correlate solo per settore, può attirare capitali interessati ad una buona

redditività, ma di soggetti che non intendono correre i rischi che corre la società nell’esercizio

della sua restante attività. Oppure al contrario si può isolare un determinato settore particolarmente

a rischio, per attrarre capitale sulla restante società.

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2. un’altra categoria tipica è quella delle azioni di godimento (art. 2353). Ci si riferisce ad un istituto

già presente nel Codice del 1942, sul quale la riforma non ha inciso per nulla. (Hanno una scarsa

utilizzazione).

Le azioni di godimento sono azioni che la società può emettere a fronte del rimborso di azioni. Fra

le varie azioni sul capitale che una società può fare, vi è anche quella di ridurre il capitale. Si parla

della riduzione effettiva, cioè riduzione con restituzione di parte dei conferimenti effettuati, o

liberando i soci che ancora debbono fare dei versamenti dall’obbligo di effettuarli (c’è un effettivo

esborso da parte della società, per questo viene chiamata effettiva). Il rimborso delle azioni

avviene al loro valore nominale, ma molte volte questo valore esprime solo una parte del valore

effettivo potenziale dell’azione (il valore effettivo dipende sì dal valore nominale, ma nel caso si

sciogliesse la società anche dalle riserve che a questo andrebbero aggiunte). Quando si procede ad

una riduzione effettiva del capitale, chi subisce la restituzione dei conferimenti e l’annullamento

delle azioni rischia di essere pregiudicato rispetto agli altri, perché ottiene solo il valore nominale

e nessun surplus. Proprio per ovviare a questi problemi la società può emettere azioni di

godimento a fronte dell’annullamento delle azioni a causa della riduzione del capitale.

Art. 2353. (Azioni di godimento). Salvo diversa disposizione dello statuto, le azioni di godimento attribuite ai possessori delle azioni rimborsate non danno diritto di voto nell’assemblea.Esse concorrono nella ripartizione degli utili che residuano dopo il pagamento delle azioni non rimborsate di un dividendo pari all’interesse legale e, nel caso di liquidazione, nella ripartizione del patrimonio sociale residuo dopo il rimborso delle altre azioni al loro valore nominale.

Si vuole garantire ai soci che si sono visti annullare le azioni per effetto della riduzione effettiva

del capitale e che con la restituzione hanno percepito solo il valore nominale delle azioni, la

possibilità di partecipare, in caso di liquidazione, all’attivo che residua dopo che anche alle altre

azioni sia stato restituito il valore nominale.

La legge dice che queste azioni possono essere emesse: non vi è un obbligo di emetterle ogni volta

che si proceda alla riduzione effettiva del capitale. Anche se molti interpreti sostengono che

l’emissione delle azioni di godimento sarebbe obbligatoria, quando la tecnica usata per rimborsare

le azioni è quella del sorteggio, perché questa può portare a discriminazioni per quanto casuali

all’interno della compagine sociale.

Le azioni di godimento non attribuiscono il diritto di voto. Lo statuto può prevedere però che

anche queste azioni votino in assemblea. Sono azioni del tutto peculiari, perché sono azioni a

fronte delle quali non c’è capitale, essendo emesse a fronte di un rimborso dello stesso, e non

rappresentano una quota dello stesso. Tuttavia le azioni di godimento certamente costituiscono una

categoria speciale di azioni.

Nel prevedere i diritti di queste azioni la legge è molto rigida, non c’è libertà statutaria nel

determinare i diritti patrimoniali da attribuire a queste azioni - sono solo quelli stabiliti dalla legge: 40

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“nella ripartizione degli utili che residuano dopo il pagamento delle azioni non rimborsate di un dividendo pari all’interesse legale

e, nel caso di liquidazione, nella ripartizione del patrimonio sociale residuo dopo il rimborso delle altre azioni al loro valore

nominale”. La libertà statutaria può incidere solo attribuendo a queste azioni il diritto di voto.

Gli altri tipi di azioni sono:

1. azioni a favore dei prestatori di lavoro (art. 2349). È una fattispecie che rappresenta uno dei tanti

segnali di favore che troviamo nel codice a sostegno dell’azionariato dei dipendenti (anche se nel

nostro paese non è molto diffuso).

Art. 2349. (Azioni e strumenti finanziari a favore dei prestatori di lavoro). Se lo statuto lo prevede, l’assemblea straordinariapuò deliberare l’assegnazione di utili ai prestatori di lavoro dipendenti della società o di società controllate mediante l’emissione, per un ammontare corrispondente agli utili stessi, di speciali categorie di azioni da assegnare individualmente ai prestatori di lavoro, con norme particolari riguardo alla forma, al modo di trasferimento ed ai diritti spettanti agli azionisti. Il capitale sociale deve essere aumentato in misura corrispondente.L’assemblea straordinaria può altresì deliberare l’assegnazione ai dipendenti della società o di società controllate di strumenti finanziari, diversi dalle azioni, forniti di diritti patrimoniali o diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti. In tal caso possono essere previste norme particolari riguardo alle condizioni di esercizio dei diritti attribuiti, alla possibilità di trasferimento ed alle eventuali cause di decadenza o riscatto.

Un'altra manifestazione evidente in questo senso la si trova nell’art. 2441 - la legge prevede che,

in caso di aumento del capitale a pagamento, una parte del capitale sia riservato alla sottoscrizione

da parte dei dipendenti della società (su questa parte non si può esercitare quindi il diritto di

opzione da parte dei soci attuali della società). La legge consente inoltre di introdurre questa

esclusione del diritto di opzione, senza imporre che l’emissione delle azioni avvenga al valore

nominale, ma secondo quello patrimoniale delle azioni (cioè con sovrapprezzo). Nel caso invece

in cui l’esclusione sia fatta per favorire la sottoscrizione da parte dei dipendenti, si può anche

emettere azioni al valore nominale.

Un'altra manifestazione della legge a favore dell’azionariato si trova nell’art. 2358: (Altre operazioni

sulle proprie azioni). La società non può accordare prestiti, nè fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni

proprie. La società non può, neppure per tramite di società fiduciaria, o per interposta persona, accettare azioni proprie in garanzia.

Tornando all’art. 2349, se la società ha degli utili che decide di non distribuire ai soci, né di

trattenere a riserva, deve aumentare il capitale gratuitamente (senza nuovi conferimenti), ed

emettere nuove azioni che regala ai dipendenti. In questo caso le azioni che vengono regalate ai

dipendenti sono e delle azioni ordinarie, quindi di per sé questa operazione non comporta la

creazione di una categoria speciale di azioni; anche se poi la legge aggiunge che la società può

prevedere norme particolari riguardo alla forma, al modo di trasferimento ed ai diritti spettanti agli

azionisti, quindi si può creare una nuova categoria di azioni ma è solo un’eventualità.

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2. azioni riscattabili sono una novità della riforma. La disciplina prevede che in relazione a queste

azioni ci sia un diritto in capo alla società o ai soci di riscattare queste azioni, pagando una

liquidazione ai titolari delle azioni stesse.

Art. 2437-sexies. (Azioni riscattabili). - Le disposizioni degli articoli 2437-ter e 2437-quater si applicano, in quanto compatibili, alle azioni o

categorie di azioni per le quali lo statuto prevede un potere di riscatto da parte della società o dei soci. Resta salva in tal caso l’applicazione

della disciplina degli articoli 2357 e 2357-bis.

Non è una categoria speciale perché queste azioni, a parte questa peculiarità, attribuiscono i

medesimi diritti delle altre. Se il riscatto è previsto in capo alla società, la legge prevede che deve

essere rispettata la disciplina degli articoli 2357 e 2357-bis, cioè quella sulle azioni proprie (la

possibilità che la società sia titolare di una parte delle sue azioni è una possibilità che la legge

consente, ma a certe condizioni).

La legge ha collocato la disciplina di queste azioni nell’ambito del recesso del socio, perché in

caso di esercizio del potere di riscatto, all’azionista che è stato riscattato va riconosciuta una

liquidazione, e i criteri per determinarne il valore sono gli stessi, usati per la determinazione del

valore della quota, seguente la liquidazione del socio che decida di recedere dalla società.

Quando si costituisce la società, si stabilisce che una parte del capitale sia costituita da azioni

riscattabili.

Queste due tipologie non sono delle categorie a parte, anche se possono diventarlo quando si

attribuiscono loro dei diritti diversi dalle altre azioni.

Art. 2351. (Diritto di voto). Ogni azione attribuisce il diritto di voto.Salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti, con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Il valore di tali azioni non può complessivamente superare la metà del capitale sociale.Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere che, in relazione alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o disporne scaglionamenti.Non possono emettersi azioni a voto plurimo.Gli strumenti finanziari di cui agli articoli 2346, sesto comma, e 2349, secondo comma, possono essere dotati del diritto di voto su argomenti specificamente indicati e in particolare può essere ad essi riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco. Alle persone così nominate si applicano le medesime norme previste per gli altri componenti dell’organo cui partecipano.

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Riguardo alla libertà della creazione delle categorie di azioni speciali, la disciplina riguardante i diritti sul

piano patrimoniale si trova nell’art. 2350, mentre quella dei diritti amministrativi e di voto nell’art. 2351.

Ogni azione attribuisce pro-quota, un duplice diritto (patrimoniale): alla ripartizione degli utili, e ad una

quota dell’attivo finale in caso di liquidazione. La diversità dei diritti che sul piano patrimoniale si

possono attribuire alle azioni speciali può riguardare entrambi i diritti.

- Sul piano della diversità di attribuzione periodica degli utili alle varie categorie si potrebbero creare le

cosiddette azioni di preferenza, che danno diritto rispetto alle altre categorie ad una quota maggiore degli

utili. Altrimenti si possono avere le azioni di priorità - non viene riconosciuto a queste azioni il diritto ad

un dividendo maggiorato, ma è riconosciuto loro il diritto di essere retribuite col dividendo prima delle

altre azioni, per una certa % prefissata. La conseguenza è che, se dopo la retribuzione di queste azioni non

ci sono più utili da distribuire, le altre azioni non percepiscono nulla.

- Sul piano patrimoniale, accanto al privilegio nella distribuzione degli utili, può esservi anche un

privilegio nella ripartizione delle perdite che opera o in sede di distribuzione dell’attivo finale, in caso la

società si sciolga con la liquidazione del patrimonio, o in caso sia obbligata a ridurre il capitale per

perdite. Le eventuali perdite sociali intaccheranno la parte di capitale rappresentata da questa categorie

solo dopo che saranno state integralmente assorbite dalla parte di capitale rappresentato dalle altre azioni.

Questo significa che queste ultime azioni subiscono solo le perdite che eventualmente residuano dopo che

è stato assorbito integralmente il capitale sociale rappresentato dalle altre azioni.

Un caso del genere può creare una situazione che la legge non tollera: si avranno azioni con valori

nominali diversi, perché tutte le perdite sono state assorbite dalle azioni ordinarie, mentre il valore di

quelle postergate è rimasto invariato. Ma la legge dice che tutte le azioni devono avere lo stesso valore

nominale. In questo caso la società è obbligata a procedere al raggruppamento delle azioni ordinarie che

ormai hanno un valore nominale ridotto rispetto alle altre azioni, in modo da riportare il valore di

entrambe allo stesso livello; o al frazionamento delle azioni speciali per portarle all’attuale valore

nominale delle azioni ordinarie. Una di queste operazioni deve essere comunque fatta, è obbligatoria.

Sul piano patrimoniale i limiti nei quali si possono creare categorie atipiche di azioni, per quanto

estremamente ridotti, si trovano in

Art. 2350. (Diritto agli utili e alla quota di liquidazione). Ogni azione attribuisce il diritto a una parte proporzionale degli utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione, salvi i diritti stabiliti a favore di speciali categorie di azioni. Fuori dai casi di cui all’articolo 2447-bis, la società può emettere azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un determinato settore. Lo statuto stabilisce i criteri di individuazione dei costi e ricavi imputabili al settore, le modalità di rendicontazione, i diritti attribuiti a tali azioni, nonché l’eventuali condizioni e modalità di conversione in azioni di altra categoria. Non possono essere pagati dividendi ai possessori delle azioni previste dal precedente comma se non nei limiti degli utili risultanti dal bilancio della società.

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Ben più ampi sono i margini che la legge concede per quanto riguarda l’individuazione delle categorie

atipiche con riferimento ai diritti amministrativi. E’ evidente che in realtà le distinzioni tra diritti

patrimoniali e diritti diversi sul piano amministrativo possono anche essere cumulati in una stessa

categoria. Non è detto che una categoria debba qualificarsi unicamente per una differenza di diritti sul

piano patrimoniale ovvero sul piano amministrativo; ci può essere anche una combinazione delle due

cose. Quindi non c’è più quel limite che invece era rigido nel passato regime, quello per cui ad ogni

limitazione del diritto di voto doveva corrispondere un privilegio sul piano patrimoniale.

Per individuare le possibili varianti riguardanti le categorie di azioni sul piano dei diritti amministrativi

bisogna fare riferimento alla norma generale di

Art. 2351. (Diritto di voto). Ogni azione attribuisce il diritto di voto. Salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti, con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Il valore di tali azioni non può complessivamente superare la metà del capitale sociale. Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere che, in relazione alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o disporne scaglionamenti. Non possono emettersi azioni a voto plurimo. Gli strumenti finanziari di cui agli articoli 2346, sesto comma, e 2349, secondo comma, possono essere dotati del diritto di voto su argomenti specificamente indicati e in particolare può essere ad essi riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o di un sindaco. Alle persone così nominate si applicano le medesime norme previste per gli altri componenti dell’organo cui partecipano.

Sul piano dei diritti amministrativi e quindi su quello fondamentale di votare in assemblea, l’art. 2351

esordisce dicendo che ogni azione attribuisce il diritto di voto. Il principio è quindi quello

dell’uguaglianza dei diritti amministrativi nel senso che: un’azione = un voto.

Il fatto che ogni azione attribuisca un voto, non significa necessariamente che il titolare delle azioni sia

obbligato a votare. Il voto è un diritto, mai un obbligo per il socio. Il socio può liberamente decidere se e

quando recarsi in assemblea per votare; non può mai essere imputato al socio il mancato esercizio del

diritto di voto, e neppure può mai essere imputato al socio il modo in cui esercita il diritto di voto.

Quindi non c’è neppure l’obbligo per il socio di perseguire l’interesse sociale. Questo è un punto

importante: il socio è perfettamente legittimato nell’esercizio dei suoi diritti amministrativi a perseguire

anche il proprio personale interesse senza tener conto dell’interesse sociale.

L’unico limite alla possibilità per il socio di perseguire il proprio interesse personale e non quello sociale,

è dato dal fatto che la legge reprime quelle manifestazioni di voto, attraverso le quali il socio si pone in

una situazione di conflitto di interessi con la società (art. 2373).

Art. 2373. (Conflitto d’interessi). La deliberazione approvata con il voto determinante di soci che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile a norma dell’articolo 2377 qualora

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possa recarle danno. Gli amministratori non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la loro responsabilità. I componenti del consiglio di gestione non possono votare nelle deliberazioni riguardanti la nomina, la revoca o la responsabilità dei consiglieri di sorveglianza.

L’art. 2373 stabilisce: non che il socio non possa votare quando è in conflitto di interessi (questo si poteva

sostenere sulla base della vecchia norma), ma, con la riforma, il socio può votare anche in conflitto

d’interessi, però la delibera è una delibera precaria (quella delibera che fosse approvata con il voto

determinante di un socio in conflitto di interessi è una delibera annullabile, cioè una delibera impugnabile

ai sensi dell’art. 2377). Questo non vale sempre, ma solo quando la delibera assunta col voto determinante del socio in conflitto d’interessi, è una delibera che possa recare danno alla società.

Per le situazioni in cui non ci sia nella società una maggioranza precostituita (non ci sia un socio che

abbia di per sé una posizione in grado di consentirgli il controllo della società), è molto frequente nella

pratica il ricorso ai sindacati di voto. I sindacati di voto sono che dei patti parasociali, attraverso cui

alcuni soci, sindacandosi, riescono ad ottenere il controllo della società, stipulano fra di loro un accordo

parasociale (è esterno al contratto della società, ma si riferisce alla società). I soci sindacati decidono di

votare in una assemblea o in tutte le assemblee della società tutti allo stesso modo. Il modo in cui votare

verrà determinato dalla volontà espressa dalla maggioranza delle azioni sindacate. (Esempio: c’è da

approvare il bilancio. Ci sono tre soci che insieme fanno il 51% del capitale. Prima di ogni assemblea si

riuniscono e decidono a maggioranza di quote di capitale come tutti i tre andranno a votare in assemblea.

La maggioranza vincola anche la minoranza. E questo garantisce la continuità nel controllo della società.)

Questo è il più importante e il più frequente tra i patti parasociali e oggi è assolutamente legittimo. Negli

anni passati si discuteva sulla legittimità dei sindacati di voto: la giurisprudenza era in gran parte contraria

perché riteneva che in questo modo si realizzasse uno svuotamento sostanziale del ruolo dell’assemblea;

si diceva che le decisioni così vengono assunte fuori dall’assemblea.

Oggi i patti parasociali sono disciplinati dagli articoli 2341-bis e 2341-ter:

Art. 2341-bis. (Patti parasociali). I patti, in qualunque forma stipulati, che al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o ilgoverno della società:a) hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano;b) pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano;c) hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società, non possono avere durata superiore a cinque anni e si intendono stipulati per questa durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore; i patti sono rinnovabili alla scadenza. Qualora il patto non preveda un termine di durata, ciascun contraente ha diritto di recedere con un preavviso di centottanta giorni. Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai patti strumentali ad accordi di

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collaborazione nella produzione o nello scambio di beni o servizi e relativi a società interamente possedute dai partecipanti all’accordo.

Art. 2341-ter. (Pubblicità dei patti parasociali). - Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio i pattiparasociali devono essere comunicati alla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea. La dichiarazione deve esseretrascritta nel verbale e questo deve essere depositato presso l’ufficio del registro delle imprese. In caso di mancanza della dichiarazione prevista dal comma precedente i possessori delle azioni cui si riferisce il patto parasociale non possono esercitare il diritto di voto e le deliberazioni assembleari adottate con il loro voto determinante sono impugnabili a norma dell’articolo 2377.

I patti devono avere una durata limitata nel tempo - la loro validità non può durare più di cinque anni. C’è la possibilità che siano anche a tempo indeterminato, ma in questo caso ciascuno degli aderenti al patto ha diritto di recedere con un semplice preavviso di 180 giorni. I patti parasociali possono riguardare anche la circolazione delle azioni. Il principio fondamentale è: i patti sono accordi che vincolano soltanto gli aderenti al patto stesso. Questo significa che il patto sociale non è mai opponibile alla società. Se un socio viola il patto, viola il sindacato di voto (ad esempio va in assemblea e non vota come ha stabilito la maggioranza del sindacato, ma vota diversamente), il suo voto è perfettamente valido nei confronti della società, perché la società è terza rispetto al sindacato. Ma violando il patto il socio si è reso inadempiente e ha violato il contratto; la conseguenza è che dovrà risarcire i danni agli altri soci, qualora dal suo comportamento derivi agli altri un danno.

Ogni azione attribuisce un voto. Un limite che la legge pone alla variabilità dei diritti col riferimento al voto è il tradizionale divieto di creare categorie di azioni a voto plurimo. Per quanto riguarda il resto, la legge lascia la più ampia liberta statutaria nel limitare il diritto di voto. La libertà è molto più ampia rispetto al passato: si può andare dalla totale privazione del diritto di voto per una categoria di azioni (che prima della riforma erano previste soltanto nelle società quotate e venivano e tuttora vengono chiamate azioni di risparmio) alla limitazione con la più ampia gamma di possibilità del diritto di voto:

si può limitare il voto per contenuto della deliberazione, come ci dice l’art. 2351.

è possibile prevedere che una categoria di azioni che voti soltanto su determinati argomenti, a prescindere dal tipo di assemblea.

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si può prevedere un voto condizionato al verificarsi di determinati eventi (per esempio se la società non distribuisce utili per tre anni consecutivi). “Condizioni

meramente potestative”, di cui si parla nell’art. 2351 vuol dire che il voto non dipende da eventi oggettivi ma dipende dalla volontà di qualcuno (per esempio il voto è condizionato alla volontà degli altri soci). Questo tipo di condizioni non possono essere apportate.

Un altro limite indiretto alla libertà statutaria nel creare categorie di azioni con riferimento al diritto di voto, è dato dal fatto che il valore delle azioni, per le quali si è inciso sul diritto di voto, non può complessivamente superare la metà del capitale sociale. Al sopraggiungere di alcune circostanze, può capitare che le azioni col diritto di voto limitato superino il 50% del capitale sociale. È un problema a cui bisogna porre rimedio. In realtà il Codice non ne parla, ma certamente si dovranno applicare le norme che il Testo unico della finanza detta per quanto riguarda l’analoga situazione che si può verificare per le azioni di risparmio, cioè azioni senza voto nelle società quotate in borsa. L’art. 145 prevede il meccanismo per risolvere la questione: se, in conseguenza della riduzione del capitale per perdite, l’ammontare delle azioni di risparmio e delle azioni a voto limitato supera la metà del capitale sociale, il rapporto deve essere ristabilito entro due anni mediante l’emissione di azioni ordinarie. In sostanza, bisogna fare un aumento di capitale sociale esclusivamente in azioni ordinarie, da riservare in opzione agli azionisti ordinari per ristabilire il rapporto almeno al 50%.Nell’ambito delle operazioni che si possono fare sul diritto di voto, vi è un’altra prevista dall’art. 2351 solo per le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio (leggere comma 3). Questa regola non si riferisce alla creazione di una nuova categoria di azioni: essa riguarda l’azionista, cioè il socio. (ESEMPIO: se un socio ha 1000 azioni, ma ha solo per 100 voti con riferimento a 1000 azioni; il socio decide di vendere le sue 1000 azioni, queste hanno ancora 1000 voti - sono ancora azioni a voto pieno.) Parlando dell’inscindibilità delle azioni, si è detto che ogni azione rappresenta un insieme di diritti e di poteri, rappresenta la posizione giuridica di socio. In linea di principio l’azione è inscindibile, cioè non si può, ad esempio, attribuire ad un soggetto il diritto di voto e ad un altro soggetto il diritto di percepire gli utili. Tutti i diritti che si riferiscono ad una azione devono stare assieme. Un’eccezione a questa regola è prevista dalla legge in

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Art. 2352. (Pegno, usufrutto e sequestro delle azioni). Nel caso di pegno o usufrutto sulle azioni, il diritto di voto spetta, salvo convenzione contraria, al creditore pignoratizio o all’usufruttuario. Nel caso di sequestro delle azioni il diritto di voto è esercitato dal custode. Se le azioni attribuiscono un diritto di opzione, questo spetta al socio ed al medesimo sono attribuite le azioni in base ad esso sottoscritte. Qualora il socio non provveda almeno tre giorni prima della scadenza al versamento delle somme necessarie per l’esercizio del diritto di opzione e qualora gli altri soci non si offrano di acquistarlo, questo deve essere alienato per suo conto a mezzo banca od intermediario autorizzato alla negoziazione nei mercati regolamentati. Nel caso di aumento del capitale sociale ai sensi dell’articolo 2442, il pegno, l’usufrutto o il sequestro si estendono alle azioni di nuova emissione. Se sono richiesti versamenti sulle azioni, nel caso di pegno, il socio deve provvedere al versamento delle somme necessarie almeno tre giorni prima della scadenza; in mancanza il creditore pignoratizio può vendere le azioni nel modo stabilito dal secondo comma del presente articolo. Nel caso di usufrutto, l’usufruttuario deve provvedere al versamento, salvo il suo diritto alla restituzione al termine dell’usufrutto. Se l’usufrutto spetta a più persone, si applica il secondo comma dell’articolo 2347. Salvo che dal titolo o dal provvedimento del giudice risulti diversamente, i diritti amministrativi diversi da quelli previsti nel presente articolo spettano, nel caso di pegno o di usufrutto, sia al socio sia al creditore pignoratizio o all’usufruttuario; nel caso di sequestro sono esercitati dal custode.

La norma prevede e disciplina il pegno, l’usufrutto e il sequestro delle azioni. Il sequestro è stato introdotto dalla riforma, invece per quanto riguarda il pegno e l’usufrutto si prevede la possibilità che sulle azioni, ferma restando la proprietà in capo al titolare, si creino dei diritti reali limitati. Questo tipo di disposizione dice che, in qualche misura, la legge tratta l’azione come se fosse un bene mobile, anche se non sono emessi titoli. Ci sono due tipi di sequestro:

1. sequestro giudiziario – si ha in presenza di una lite tra due persone che sostengono entrambe di essere proprietari delle stesse azioni. In questo caso bisogna rivolgersi al tribunale, ma i tempi del giudizio sono lunghi, e quindi, nel frattempo, le parti possono chiedere al giudice di sottoporre le azioni, oggetto della lite, al sequestro giudiziario. Viene nominato un custode e le azioni restano in mano di questo ultimo fino a quando, al termine del giudizio, non si chiarisce a chi effettivamente appartengono le azioni contese.

2. sequestro conservativo – si ha in presenza di un’azione in giudizio contro un’altra persona, sostenendo che questa persona ci è debitore di una certa somma. C’è la possibilità che, arrivati alla fine del giudizio, il debitore venga condannato, ma abbia volontariamente fatto sparire tutto il suo patrimonio per non adempiere ai suoi obblighi. In questo caso si chiede al giudice un sequestro conservativo. Le azioni vengono affidate ad un custode e il titolare non può disfarsene.

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La legge prevede una suddivisione nell’esercitazione di vari diritti:- diritti amministrativi : il diritto di voto nel caso di pegno o usufrutto

spetta all’usufruttuario o al creditore pignoratizio. Ma la legge ammette anche la convenzione contraria (leggere comma 6). Nel caso di sequestro è tassativo che voti il custode. In ogni caso, l’usufruttuario che il creditore pignoratizio devono esercitare il diritto di voto tenendo sempre presenti gli interessi del socio – nudo proprietario (il voto espresso dall’usufruttuario o dal creditore pignoratizio è comunque valido anche se lede gli interessi del socio).Per quanto riguarda poi gli altri diritti amministrativi diversi dal diritto di voto, si ritiene che questi spettino ad entrambi, con la possibilità quindi di un esercizio disgiunto, salvo quei diritti amministrativi che siano strumentali al diritto di voto (ad esempio il diritto di intervenire in assemblea).

- diritti patrimoniali : il diritto di percepire i dividendi che maturassero a favore delle azioni spetta all’usufruttuario o al creditore pignoratizio. (Nel diritto reale limitato c’è il diritto di usare e sfruttare il bene, e tra i modi di sfruttamento del bene c’è anche quello di percepire le utilità che quel bene è in grado di produrre.) E’ più difficile capire cosa succeda ai dividendi in caso di sequestro delle azioni. Nel caso del sequestro giudiziario (si direbbe che) è il custode ad incassare i dividendi e poi attribuirli i a chi, alla fine del giudizio, risulti essere l’effettivo proprietario delle azioni contese. Nel caso del sequestro conservativo i dividendi, probabilmente, spettano al socio (ma la legge non lo dice espressamente). Per quanto riguarda il diritto patrimoniale di opzione , cioè poter sottoscrivere le eventuali azioni di aumento di capitale, la legge stabilisce che spetta al socio l’esercizio di questo diritto; e al medesimo sono attribuite le azioni in base a esso sottoscritte (non si estende il pegno o l’usufrutto sulle azioni nuove). Se però il socio non provvede almeno tre giorni prima della scadenza al versamento delle somme necessarie per l’esercizio del diritto di opzione e, qualora gli altri soci non si offrano di acquistarlo, questo deve essere alienato per suo conto a mezzo banca o intermediario autorizzato alla negoziazione nei mercati regolamentati (leggere comma 2, 3, 4, 5, 6).

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Il diritto di recesso, cioè il diritto di sciogliere il rapporto con la società, non può che spettare al socio. Il socio potrà esercitare il recesso solo se si trova in condizioni per poterlo fare. In particolare, se il diritto di voto spetta all’usufruttuario o al creditore pignoratizio, siccome solo i soci che siano in disaccordo con le eventuali delibere dell’assemblea possono recedere, bisogna, per poter recedere, che l’usufruttuario o il creditore pignoratizio abbiano votato contro quella delibera (con cui il socio che vuole recedere è in disaccordo). La legge disciplina poi il caso in cui il pegno o l’usufrutto sia previsto per azioni non integralmente liberate (leggere comma 4).Quindi si vede che a seconda dei vari diritti, questi appartengono o al nudo proprietario o al titolare del diritto reale limitato, quindi c’è una scissione tra i diritti che l’azione attribuisce.

Normalmente le azioni sono documentate in titoli, quindi la regola è che la S.p.A. emetta titoli azionari che documentino l’azione, documentino la partecipazione sociale. Questi titoli devono avere determinate caratteristiche, come spiega ilArt. 2354. (Titoli azionari). I titoli possono essere nominativi o al portatore, a scelta del socio, se lo statuto o le leggi specialinon stabiliscano diversamente. Finché le azioni non siano interamente liberate, non possono essere emessi titoli al portatore.I titoli azionari devono indicare:1) la denominazione e la sede della società;2) la data dell’atto costitutivo e della sua iscrizione e l’ufficio del registro delle imprese dove la società è iscritta;3) il loro valore nominale o, se si tratta di azioni senza valore nominale, il numero complessivo delle azioni emesse, nonché l’ammontare del capitale sociale;4) l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate;5) i diritti e gli obblighi particolari ad essi inerenti.I titoli azionari devono essere sottoscritti da uno degli amministratori. è valida la sottoscrizione mediante riproduzione meccanica della firma. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche ai certificati provvisori che si distribuiscono ai soci prima dell’emissione dei titoli definitivi. Sono salve le disposizioni delle leggi speciali in tema di strumenti finanziari negoziati o destinati alla negoziazione nei mercati regolamentati. Lo statuto può assoggettare le azioni alla disciplina prevista dalle leggi speciali di cui al precedente comma.

I titoli possono essere nominativi o al portatore, il che non determina la nascita delle categorie speciali di azioni: la differenza data dall’essere nominativi o al portatore determina solo il modo di circolazione dei titoli, non il loro contenuto, che rimane assolutamente identico. La scelta del socio tra i titoli nominativi o al portatore è subordinata alle diverse previsioni dello statuto oppure al fatto che

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esistano delle leggi speciali che dispongono diversamente. Ebbene, c’è una legge ancora del 1942 che prevede, per ragioni fiscali, la nominatività obbligatoria dei titoli azionari. Per cui oggi, finché non viene abrogata questa disposizione, le azioni delle S.p.A. devono essere necessariamente nominative. L’unica deroga a questa regola si ha soltanto per le azioni di risparmio delle società quotate in borsa e per (è un caso marginale) le azioni delle società di intermediazione. Per tutte le altre società non quotate non è possibile prevedere azione al portatore. E’ consuetudine nelle società che al posto delle azioni singole vengano emessi dei certificati multipli (le azioni delle società sono di piccolo valore e sono tante, quindi si sceglie l’emissione di certificati multipli). Questa facoltà che la legge in realtà non prevede ma che nella prassi è molto diffusa, non coincide con il raggruppamento delle azioni, per il quale si ha bisogno della delibera dell’assemblea straordinaria. In ogni caso, il socio può chiedere alla società che invece del certificato multiplo gli siano date le singole azioni (può servire al socio quando egli voglia vendere una parte soltanto delle sue azioni).

Circolazione delle azioni.

Le azioni sono naturalmente destinate a circolare. La legge prevede tutta una serie di meccanismi diversi di circolazione, a seconda dell’opzione che la società faccia.

Art. 2355. (Circolazione delle azioni). Nel caso di mancata emissione dei titoli azionari il trasferimento delle azioni haeffetto nei confronti della società dal momento dell’iscrizione nel libro dei soci. Le azioni al portatore si trasferiscono con la consegna del titolo. Il trasferimento delle azioni nominative si opera mediante girata autenticata da un notaio o da altro soggetto secondo quanto previsto dalle leggi speciali. Il giratario che si dimostra possessore in base a una serie continua di girate ha diritto di ottenere l’annotazione del trasferimento nel libro dei soci, ed è comunque legittimato ad esercitare i diritti sociali; resta salvo l’obbligo della società, previsto dalle leggi speciali, di aggiornare il libro dei soci. Il trasferimento delle azioni nominative con mezzo diverso dalla girata si opera a norma dell’articolo 2022. Nei casi previsti ai commi sesto e settimo dell’articolo 2354, il trasferimento si opera mediante scritturazione sui conti destinati a registrare i movimenti degli strumenti finanziari; in tal caso, se le azioni sono nominative, si applica il terzo comma e la scritturazione sul conto equivale alla girata.

Circolazione delle azioni = trasferimento delle azioni da un soggetto ad un altro soggetto. Un problema che la legge non risolve è il caso in cui si crei un conflitto tra più acquirenti (un azionista vende le stesse azioni a più persone). Il contratto tra le

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parti si perfeziona col consenso, ma non si riesce a capire chi sia effettivamente il socio tra questi più acquirenti. Bisogna quindi distinguere diversi casi:

- mancata emissione delle azione. In questo caso chi ha concluso per primo il contratto è preferito a chi l’ha concluso per secondo. Questo vale a prescindere da chi ottenga per primo l’iscrizione al libro soci, perché il libro soci di per sé non ha un’efficacia dichiarativa, il libro soci è semplicemente un documento interno alla società.

- titoli al portatore: prevale chi ha ottenuto per primo il possesso in buona fede dei titoli stessi, chi ha in mano il titolo prevale sugli altri acquirenti, anche se i contratti da questi stipulati sono stati fatti anteriormente

- titoli nominativi: vale la regola prevista per i titoli al portatore; qui oltre ad avere il possesso del titolo bisogna avere anche la girata al proprio nome.

- azioni dematerializzate: prevale colui che abbia per primo ottenuto la registrazione con l’accredito sul proprio conto delle azioni.

Ovviamente, la circolazione delle azioni può avvenire anche a causa di morte. La regola nelle società di capitali, in particolare nelle S.p.A., a differenza delle società di persone, è quella della libera trasferibilità delle partecipazioni sociali a causa di morte. Mentre, nelle società di persone, in caso di morte di un socio gli eredi hanno solo diritto alla liquidazione della quota, salvo presenza di clausole particolari, nelle S.p.A. la regola è il trasferimento delle azioni al erede o agli eredi. In linea di principio, nelle S.p.A. la figura del socio è indifferente, e quindi quando muore un socio i titolari delle sue azioni diventano i suoi eredi o colui che è indicato come erede nel testamento. L’erede ha l’onere di presentarsi alla società e di chiedere l’annotazione del suo nome nel libro soci, documentando sia la sua qualità di erede sia il fatto che sia morto il socio.

Limiti alla circolazione delle azioni.

Il carattere della libera circolazione della partecipazione sociale è un carattere che non può mai essere radicalmente soppresso (sarebbe sicuramente nulla la clausola dello statuto della S.p.A. che prevedesse l’intrasferibilità delle azioni). Bisogna aggiungere che il principio della libera circolazione delle partecipazioni sociali non è incondizionato. La legge prevede la possibilità di condizionare in vario modo la circolazione delle azioni:

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Art. 2355-bis. (Limiti alla circolazione delle azioni). Nel caso di azioni nominative ed in quello di mancata emissione dei titoli azionari, lo statuto può sottoporre a particolari condizioni il loro trasferimento e può, per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto, vietarne il trasferimento. Le clausole dello statuto che subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento di organi sociali o di altri soci sono inefficaci se non prevedono, a carico della società o degli altri soci, un obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso dell’ alienante; resta ferma l’applicazione dell’articolo 2357. Il corrispettivo dell’acquisto o rispettivamente la quota di liquidazione sono determinati secondo le modalità e nella misura previste dall’articolo 2437-ter. La disposizione del precedente comma si applica in ogni ipotesi di clausole che sottopongono a particolari condizioni il trasferimento a causa di morte delle azioni, salvo che sia previsto il gradimento e questo sia concesso. Le limitazioni al trasferimento delle azioni devono risultare dal titolo.

Si parla dei limiti convenzionali alla circolazione delle azioni, cioè dei limiti previsti per volontà delle parti (cioè dei soci). Ma ci sono anche dei limiti legali alla circolazione delle partecipazioni sociali (ESEMPIO: azioni che siano state emesse a fronte di un conferimento in natura e quindi sono vincolate fino a quando non si sarà completato l’iter del controllo e dell’eventuale revisione della stima da parte degli amministratori nei 180 giorni dalla costituzione della società). Come prevede l’art. 2355-bis, solamente nel caso di azioni nominative ed in quello di mancata emissione dei titoli azionari, lo statuto può sottoporre a particolari condizioni il loro trasferimento e può (per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto) vietarne il trasferimento. Per quanto riguarda le azioni al portatore, è per definizione che queste circolano liberamente (non è possibile limitarne la circolazione). Per le azioni dematerializzate, è il regolamento CONSOB che prevede: non possono essere immesse nel sistema di gestione accentrata delle azioni dematerializzate, le azioni che abbiano vincoli alla circolazione. Con la riforma si chiarisce un punto molto importante: questi limiti alla circolazione delle azioni possono essere introdotti, modificati o rimossi dallo statuto con una delibera dell’assemblea straordinaria assunta a maggioranza (prima della riforma era all’unanimità). Questa considerazione si ricava dalle norme sul recesso del socio (leggere la b) del comma 2).

Art. 2437. (Diritto di recesso). - Hanno diritto di recedere, per tutte o parte delle loro azioni, i soci che non hanno concorsoalle deliberazioni riguardanti:

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a) la modifica della clausola dell’oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società;b) la trasformazione della società;c) il trasferimento della sede sociale all’estero;d) la revoca dello stato di liquidazione;e) l’eliminazione di una o più cause di recesso previste dal successivo comma ovvero dallo statuto;f) la modifica dei criteri di determinazione del valore dell’azione in caso di recesso;g) le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione.Salvo che lo statuto disponga diversamente, hanno diritto di recedere i soci che non hanno concorso all’approvazione delle deliberazioni riguardanti:a) la proroga del termine;b) l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari.Se la società è costituita a tempo indeterminato e le azioni non sono quotate in un mercato regolamentato il socio può recedere con il preavviso di almeno centottanta giorni; lo statuto può prevedere un termine maggiore, non superiore ad un anno. Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere ulteriori cause di recesso. Restano salve le disposizioni dettate in tema di recesso per le società soggette ad attività di direzione e coordinamento. E’ nullo ogni patto volto ad escludere o rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso nelle ipotesi previste dal primo comma del presente articolo.

Limiti alla circolazione delle azioni (segue).

Quando si parla di limiti alla circolazione delle azioni si fa riferimento a limiti che vengono previsti nello

statuto della società. È da notare che i limiti alla circolazione possono essere introdotti anche dal patto

parasociale (esistono nella pratica dei patti parasociali che hanno ad oggetto proprio il divieto di cedere le

azioni). Nel caso in cui i soci fondatori vogliono garantirsi “l’originarietà” dei soci (non vogliono

intromissioni di nuovi soci attraverso l’acquisto delle azioni dai soci fondatori), l’unica via è quella del

patto parasociale che si chiama sindacato di blocco. Con esso si pattuisce nel contratto di società il

divieto di cedere azioni. Il patto parasociale vale tra le parti che lo hanno sottoscritto, ma non è opponibile

né alla società, né ai terzi. Se un socio fondatore, impegnato con altri soci in un sindacato di blocco,

vende le sue azioni, la vendita è perfettamente valida ed efficace (la società non può rifiutarsi di iscrivere

l’acquirente nel libro soci). L’unica conseguenza in capo al socio che viola il patto parasociale è il

risarcimento degli eventuali danni agli altri contraenti.

Un limite alla circolazione che si può legittimamente introdurre nello statuto di una S.p.A. riguarda: il

divieto assoluto, ma necessariamente temporaneo, di trasferimento delle azioni. Questa

è una novità della riforma: L’art 2355-bis.co.1 (Limiti alla circolazione delle azioni). Nel caso di azioni nominative ed in quello di

mancata emissione dei titoli azionari, lo statuto può sottoporre a particolari condizioni il loro trasferimento e può, per un periodo non

superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto, vietarne il trasferimento . Si dice 54

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che la ragione di questa clausola sia quella di garantire la stabilità della compagine sociale nella fase di

start-up (di partenza) della società, per evitare che si possano verificare intrusioni di altri soci con

intenzioni diverse rispetto ai soci fondatori. Ma con questa sola ragione non si spiegherebbe perché una

clausola di questo tipo può essere introdotta anche quando la società è già avviata. Se un socio, violando

questa clausola dovesse vendere una parte o tutte le sue azioni ad un altro soggetto, la vendita è valida,

ma l’acquirente dovrebbe aspettare la scadenza dei cinque anni per poter chiedere l’iscrizione nel registro

delle imprese e nel libro soci. Si ritiene che (anche se non c’è un’espressa previsione legislativa in questo

senso) sia possibile estendere questo divieto temporaneo, non solo al trasferimento per vendita di azioni,

ma anche al trasferimento per causa di morte. Ma in caso di morte non è possibile che le azioni

rimangano per cinque anni senza proprietario.

CLAUSOLA DI PRELAZIONE. È una clausola molto importante ed è presente in quasi tutti gli statuti di società a ristretta base azionaria

(società chiuse) con pochi soci. Con questa clausola stabilisce: quando un socio vuole trasferire in tutto o

in parte le sue azioni, egli ha diritto di farlo ma deve preferire, nella vendita o nell’altro negozio di

trasferimento che vuole mettere in atto, i soci e non il terzo. In questo modo i terzi hanno diritto di

prelazione sull’acquisto rispetto ai terzi. La clausola prevede anche che il socio che voglia vendere deve

dichiarare questa sua intenzione indicando tutte quelle notizie che possono mettere in condizioni gli altri

soci di valutare se esercitare o meno il diritto di prelazione.

Il primo problema che si pone, è quello di valutare a quali contratti si estenda l’applicazione della

clausola. Le azioni si ossono trasferire attraverso: la vendita, la donazione, come conferimento in altra

società, come conferimento in natura, la permuta. In tutti questi casi (tranne la vendità) è evidente che gli

altri soci non potrebbero applicare la clausola di prelazione a parità di condizioni. Infatti, esistono molte

sentenze secondo cui la clausola di prelazione si applica solo al caso della vendita delle azioni e non ad

altri tipi di contratti. Se così fosse, clausola di prelazione potrebbe essere facilmente aggirata. Infatti

alcuni interpreti ritengono che la clausola sia applicabile anche ad altri tipi di contratti diversi dalla

vendita. Se si ritiene che la clausola di prelazione è sempre applicabile, bisogna introdurre dei

meccanismi per valutare le azioni oggetto di trasferimento. In questi casi si prevede che venga nominato

un terzo che valuti il valore delle azioni, in modo che gli altri soci possano avvalersi della clausola di

prelazione offrendo la somma di denaro corrispondente alla valutazione.

La dichiarazione del socio deve in caso di vendita di azioni, va fatta alla società, all’organo

amministrativo oppure direttamente ai soci. Normalmente, la clausola prevede un termine entro il quale i

soci, informati dell’intenzione di vendere dell’altro socio, devono dichiarare di voler esercitare la

prelazione.

La clausola ha efficacia reale e la sua eventuale violazione comporta la totale inefficacia del trasferimento

(nei confronti sia della società, sia del terzo acquirente). (Alcuni interpreti sostengono che la violazione

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della causa generi invece una nullità del contratto di trasferimento.) anche se il dubbio tra nullità ed

inefficacia assoluta permane, sul piano pratico la differenza è minima.

In ogni caso questa clausola non limita la possibilità di trasferire le azioni; il limite viene posto per quanto

riguarda la scelta dell’acquirente.

CLAUSOLA DI GRADIMENTO. Questa clausola è possibile in due configurazioni:

Ci può essere una previsione dello statuto di quali sono le categorie di soggetti che possono

diventare soci mediante acquisto di partecipazioni sociali. Quindi si individuano degli elementi

soggettivi per l’acquisizione della qualità di socio e specularmene vengono previste le categorie di

soggetti che non possono diventare soci della società. Una clausola di questo tipo è sempre stata

ritenuta valida, anche prima della riforma. Il trasferimento di azioni ad un soggetto che non

corrisponda ai requisiti soggettivi indicati nello statuto, non è mai efficace nei confronti della

società. Queste clausole vengono chiamate clausole di gradimento predeterminato (nello statuto

già si identifica chi sono i potenziali soci graditi e chi sono invece i potenziali soci non graditi).

Ci può essere poi una clausola di gradimento in senso proprio, con la quale si affida ad un organo

sociale il potere di esprimere il gradimento o il non gradimento nei confronti di un soggetto che

acquisti le azioni della società. Quindi quando un socio vende o trasferisce in un altro modo le sue

azioni, viene chiamato un organo sociale (normalmente è la maggioranza dell’organo

amministrativo, o l’assemblea o addirittura un terzo) ad esprimere il gradimento sulla persona

dell’acquirente.

Con la riforma art 2355-bis. Co.2 (Limiti alla circolazione delle azioni). “Le clausole dello statuto che subordinano il

trasferimento delle azioni al mero gradimento di organi sociali o di altri soci sono inefficaci se non prevedono, a carico della

società o degli altri soci, un obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso dell’ alienante; resta ferma l’applicazione dell’articolo

2357. Il corrispettivo dell’acquisto o rispettivamente la quota di liquidazione sono determinati secondo le modalità e nella misura

previste dall’articolo 2437-ter.”, il legislatore ha stabilito che sono efficaci anche le clausole di mero

gradimento purché sia previsto l’obbligo, in caso di rifiuto del gradimento, da parte della società o

degli altri soci di acquistare loro stessi le azioni che il socio intendeva vendere al terzo non

gradito; oppure che in caso di rifiuto del gradimento al terzo acquirente, il socio che intendeva

vendere abbia diritto di recedere dalla società. In questo modo, in entrambe i casi il socio che

intendeva vendere riesce a disfarsi della sua partecipazione in società.

La legge quindi prevede la possibilità di prevedere una clausola che obblighi all’acquisto in caso

di rifiuto di gradimento, ma aggiunge che tutto questo deve avvenire nel rispetto dell’art. 2357

(norma che prevede entro quali limiti e a quali condizioni una S.p.A. può acquistare le proprie

azioni). Quindi è ovvio che nella clausola bisogna prevedere accanto all’obbligo di acquisto da 56

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parte della società, anche l’obbligo di acquisto da parte degli altri soci; perché altrimenti se la

società non si trovasse nelle condizioni dell’art. 2357, si rischierebbe di entrare in una condizione

di stallo e non si riuscirebbe a dare corso alla predizione della clausola.

Una novità della riforma è quella che prevede la possibilità per il socio di recedere anche per una parte

soltanto delle proprie azioni.

Una vendita effettuata senza chiedere il gradimento o a gradimento rifiutato, è del tutto inefficace nei

confronti della società. Il dubbio sorge invece con riguardo al rapporto tra le parti (tra il socio che ha

venduto e l’acquirente che ha acquistato). Secondo alcuni interpreti si avrebbe l’inefficacia nel rapporto

tra le parti; secondo altri invece ci sarebbe una efficacia di rapporto tra le parti del contratto, ma con la

possibilità per chi ha acquistato, e non è stato gradito, di retrocedere le azioni al socio, dato che il suo

acquisto sarebbe inefficace nei confronti della società; altri ancora sostengono che l’unico effetto che si

produrrebbe tra le parti e anche nei confronti della società sarebbe quello per cui l’acquirente non gradito

possa esercitare i diritti patrimoniali ma non può esercitare i diritti amministrativi.

Una precisazione: se, per la clausola di mero gradimento, si prevede il meccanismo di obbligo d’acquisto

da parte della società, a questo non corrisponde l’obbligo da parte dell’alienante di vendere.

Con la riforma si risolve anche il problema della legittimità delle clausole di gradimento in caso di morte

di un socio. L’opinione prevalente prima della riforma era che le clausole di gradimento considerate

efficaci erano applicabili nei trasferimenti tra vivi e non per trasferimenti a causa di morte. Oggi la

disciplina legittima l’estensione dell’efficacia delle clausole di gradimento anche nel caso di morte del

socio: art 2355-bis co.4 (Limiti alla circolazione delle azioni). La disposizione del precedente comma si applica in ogni ipotesi di clausole

che sottopongono a particolari condizioni il trasferimento a causa di morte delle azioni, salvo che sia previsto il gradimento e questo sia

concesso. Quindi, se non viene concesso il gradimento all’erede, la clausola deve prevedere o l’obbligo di

acquisto da parte della società o degli altri soci, o l’utilizzo del recesso (ma questo ultimo strumento non è

idoneo perché ci sarebbe il recesso di un socio che non è socio - l’erede subentra idealmente nel

patrimonio del defunto, ma non viene iscritto nel libro soci perché manca il gradimento).

CLAUSOLA DI RISCATTO.

In caso di morte di un socio si prevede nello statuto che gli altri soci possano riscattare le azioni

dall’erede. Questo rappresenta una sorta di meccanismo di prelazione (la prelazione si realizza tra vivi).

Anche in questo caso l’acquisto delle azioni dall’erede avviene ad un prezzo, determinato sulla base delle

previsioni dell’art. 2355 che richiama a sua volta l’art. 2437-ter.

Art. 2437-ter. (Criteri di determinazione del valore delle azioni). Il socio ha diritto alla liquidazione delle azioni per le qualiesercita il recesso.Il valore di liquidazione azioni è determinato dagli amministratori, sentito il parere del collegio sindacale e del soggetto

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incaricato della revisione contabile, tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni.Il valore di liquidazione delle azioni quotate in mercati regolamentati è determinato facendo esclusivo riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione ovvero ricezione dell’avviso di convocazione dell’assemblea le cui deliberazioni legittimano il recesso.Lo statuto può stabilire criteri diversi di determinazione del valore di liquidazione, indicando gli elementi dell’attivo edel passivo del bilancio che possono essere rettificati rispetto ai valori risultanti dal bilancio, unitamente ai criteri di rettifica, nonché altri elementi suscettibili di valutazione patrimoniale da tenere in considerazione.I soci hanno diritto di conoscere la determinazione del valore di cui al secondo comma del presente articolo nei quindici giorni precedenti alla data fissata per l’assemblea; ciascun socio ha diritto di prenderne visione e di ottenerne copia a proprie spese.In caso di contestazione da proporre contestualmente alla dichiarazione di recesso il valore di liquidazione è determinato entro novanta giorni dall’esercizio del diritto di recesso tramite relazione giurata di un esperto nominato dal tribunale, che provvede anche sulle spese, su istanza della parte più diligente; si applica in tal caso il primo comma dell’articolo 1349.

Tutte le clausole finora esaminate possono avere diverse varianti, e spesso sono inserite insieme. (Ad

esempio è abbastanza frequente che la clausola di prelazione e la clausola di gradimento siano entrambe

presenti nello statuto di una società.)

Parlando dei conferimenti, si è visto che per i conferimenti in denaro all’atto della sottoscrizione la legge

richiede il versamento del 25%, quindi ci sono azioni non integralmente liberate. È da notare che la legge

non pone dei vincoli alla circolazione delle azioni non integralmente liberate (l’unico limite in merito ai

conferimenti si riferisce ai conferimenti in natura, che devono essere interamente liberati al momento

della sottoscrizione e necessitano della stima).

Il problema che a questo punto si pone è quello di capire chi è il soggetto obbligato a versare i

conferimenti, qualora le azioni siano state trasferite.

Art 2356. (Responsabilità in caso di trasferimento di azioni non liberate). Coloro che hanno trasferito azioni non liberate sono obbligati in

solido con gli acquirenti per l’ammontare dei versamenti ancora dovuti, per il periodo di tre anni dall’annotazione del trasferimento nel libro

dei soci.

Il pagamento non può essere ad essi domandato se non nel caso in cui la richiesta al possessore dell’azione sia rimasta infruttuosa.

La legge pone in essere un meccanismo di doppia responsabilità per i versamenti ancora dovuti. È un

meccanismo a favore della società, in quanto quest’ultima non è obbligata a versare i il resto dei

conferimenti; è il nuovo acquirente ad essere obbligato, accanto al venditore delle azioni (quantomeno per

un periodo di tre anni dal momento in cui è stato annotato nel libro soci l’avvenuto trasferimento). Se in

questo triennio si dovesse verificare più di un’alienazione, risponderanno in solido tutti coloro che hanno

venduto le azioni (gli obbligati in solido possono essere anche più di uno). La legge indica che in ogni

caso il pagamento non può essere chiesto al venditore, se non nel caso in cui la richiesta al possessore

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attuale dell’azione sia rimasta infruttuosa. Sull’azione, nel caso di emissione, deve essere annotato il fatto

che si tratta di azioni non ancora liberate. Se manca tale indicazione, si ritiene che l’acquirente sia

comunque obbligato ai versamenti ancora dovuti, anche se non ha potuto verificare dal titolo che queste

azioni non siano state ancora integralmente liberate. Le azioni sono dei titoli di credito causali: non vale

solo quello che viene indicato sul titolo, ma valgono anche i rapporti sottostanti. Mentre per il titolo di

credito in astratto, ad esempio una cambiale, si può pretendere solo quello che risulta dal titolo e quindi

quello che può essere successo nei rapporti sottostanti non ha nessuna importanza.

ACQUISTO DELLE AZIONI PROPRIE DA PARTE DELLA SOCIETA’.

L’acquisto di azioni proprie da parte della società è un fenomeno alquanto strano: siamo di fronte ad una

situazione in cui la società acquista una parte di sé stessa. Questo fatto è giustificabile solo considerando

l’oggettivazione della partecipazione societaria, che si realizza nella S.p.A. L’acquisto di azioni proprie è

consentita dalla legge solo nelle società a base azionaria, mentre nelle società che non prevedano le azioni

ciò non è mai possibile.

La possibilità per le S.p.A. di acquistare le proprie azioni è un’operazione con evidenti rischi e pericoli:

1. è possibile un annacquamento del capitale. Se un soggetto fosse libero di acquistare azioni

proprie, anche se non interamente liberate, di fatto i conferimenti ancora dovuti non verrebbero

effettuati più da nessuno e si avrebbe un capitale non interamente coperto.

2. c’è un’alterazione dei rapporti tra l’organo amministrativo e l’assemblea. Sulle azioni proprie

acquistate dalla società, la gestione appartiene all’organo amministrativo di gestione. Quindi se ci

fosse la possibilità di acquistare le azioni proprie e con queste azioni esercitare tutti i diritti sociali,

si potrebbe arrivare ad una situazione paradossale: gli amministratori avrebbero la maggioranza in

assemblea, senza sborsare una lira (qualora la quota delle azioni in mano alla società fosse di

maggioranza). [Non ci sarebbe nulla di male se l’amministratore fosse anche socio di maggioranza

(che per diventare tale ha effettuato i pagamenti dovuti), ma in questo caso si avrebbe un

amministratore che di fatto è un socio di maggioranza (ma ha avuto la sua quota facendo pagare la

società, i soci)] Questa è una situazione non tollerabile e porterebbe ad una ritorsione.

Proprio per evitare questo insieme di rischi, la legge prevede la possibilità di acquisto di azioni proprie

solo per le S.p.A., circondando questa operazione da tutta una serie di cautele e introducendo condizioni e

limiti a questa possibilità. Si prevede inoltre che tutte queste regole si applichino oltre agli acquisti fatti

direttamente dalla società, anche agli acquisti fatti dalla società per interposta persona o tramite società

fiduciaria.

Art 2357. (Acquisto delle proprie azioni). La società non può acquistare azioni proprie se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve

disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato. Possono essere acquistate soltanto azioni interamente liberate.

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L’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea, la quale ne fissa le modalità, indicando in particolare il numero massimo di azioni da

acquistare, la durata, non superiore ai diciotto mesi, per la quale l’autorizzazione è accordata, il corrispettivo minimo ed il corrispettivo

massimo.

In nessun caso il valore nominale delle azioni acquistate a norma dei commi precedenti può eccedere la decima parte del capitale sociale,

tenendosi conto a tal fine anche delle azioni possedute da società controllate.

Le azioni acquistate in violazione dei commi precedenti debbono essere alienate secondo modalità da determinarsi dall’assemblea, entro un

anno dal loro acquisto. In mancanza, deve procedersi senza indugio al loro annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale. Qualora

l’assemblea non provveda, gli amministratori e i sindaci devono chiedere che la riduzione sia disposta dal tribunale secondo il procedimento

previsto dall’articolo 2446, secondo comma.

Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli acquisti fatti per tramite di società fiduciaria o per interposta persona.

La legge prevede che l’acquisto di azioni proprie, che è un atto di cessione, è un tipico atto di competenza

esclusiva dell’organo amministrativo; in aggiunta la legge prevede che questa operazione debba anche

essere autorizzata dall’assemblea ordinaria della società. Gli amministratori quindi non sono liberi di

procedere all’acquisto di azioni proprie, ma devono ottenere un’autorizzazione da parte dell’assemblea.

Art. 2357. (Acquisto delle proprie azioni). La società non può acquistare azioni proprie se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve

disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato. Possono essere acquistate soltanto azioni interamente liberate.

L’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea, la quale ne fissa le modalità, indicando in particolare il numero massimo di azioni da

acquistare, la durata, non superiore ai diciotto mesi, per la quale l’autorizzazione è accordata, il corrispettivo minimo ed il corrispettivo

massimo.

In nessun caso il valore nominale delle azioni acquistate a norma dei commi precedenti può eccedere la decima parte del capitale sociale,

tenendosi conto a tal fine anche delle azioni possedute da società controllate.

Le azioni acquistate in violazione dei commi precedenti debbono essere alienate secondo modalità da determinarsi dall’assemblea, entro un

anno dal loro acquisto. In mancanza, deve procedersi senza indugio al loro annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale. Qualora

l’assemblea non provveda, gli amministratori e i sindaci devono chiedere che la riduzione sia disposta dal tribunale secondo il procedimento

previsto dall’articolo 2446, secondo comma.

Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli acquisti fatti per tramite di società fiduciaria o per interposta persona.

ACQUISTO DI AZIONI PROPRIE DA PARTE DELLA SOCIETA’ (segue).

È una disciplina che si applica solo alle S.p.A. La legge quindi consente alla società di acquistare le

proprie azioni, anche se è un fenomeno paradossale perché, in un certo senso, l’ente acquista una parte di

sé. Questa operazione è delicata perché presenta almeno due rischi rilevanti:

1. annacquamento del capitale, nel senso che la società acquistando col capitale, parte del suo stesso

capitale, avrebbe un esborso, in quanto le azioni vanno pagate al socio che vende, senza che ci sia

però una copertura del capitale.

2. gestendo il pacchetto di azioni proprie, gli amministratori possono liberarsi dal controllo

assembleare, perché se fosse consentito acquistare in numero illimitato azioni proprie, gli

amministratori potrebbero arrivare ad ottenere la gestione della maggioranza in assemblea,

sfuggendo così al controllo dell’assemblea stessa.

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Per evitare che questi rischi si concretizzino, la legge consentendo l’acquisto di azioni proprie, per

cautela, pone dei limiti e delle condizioni soltanto in presenza delle quali si può procedere all’acquisto.

La condizione è

→ l’operazione deve essere autorizzata dall’assemblea, in quanto l’operazione in questione è di gestione

e quindi spetta alla competenza dell’organo amministrativo; ma in considerazione della sua delicatezza, la

legge prevede che sia preventivamente autorizzata con una delibera dell’assemblea (art. 2357, c.2).

Questa autorizzazione, non è una generica autorizzazione, ma è qualificata, ovvero “L’acquisto deve essere

autorizzato dall’assemblea, la quale ne fissa le modalità, indicando in particolare il numero massimo di azioni da acquistare, la durata, non

superiore ai diciotto mesi, per la quale l’autorizzazione è accordata, il corrispettivo minimo ed il corrispettivo massimo ” entro il quale

gli amministratori devono stare per poter procedere legittimamente all’acquisto. Il fatto che l’assemblea

abbia autorizzato, non comporta l’obbligo di acquisto per gli amministratori, in quanto in questo modo

ottengono solo la facoltà di acquistare, ma la scelta rimane a loro.

I limiti sono:

1. si possono acquistare azioni proprie solo nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve

disponibili, quali risultano dall’ultimo bilancio approvato. Questo serve per evitare che la

società acuisti azioni proprie utilizzando capitale, perché si provocherebbe così un effetto di

annacquamento; dunque, solo quando la società dispone di un surplus rispetto al capitale nominale,

si può procedere all’acquisto.

Gli utili distribuibili sono quelli depurati di ciò che non si può distribuire, è una quota resa libera per

essere distribuita in forma di dividendi ai soci, e che la società a propria discrezione può trattenere.

La legge infatti prevede che sia l’assemblea, in cui si approva il bilancio, a decidere sulla

destinazione degli utili (potrebbero essere trattenuti in società, senza essere distribuiti e usati per

l’acquisto di azioni proprie, o destinati a riserva). Accanto alla quota di utili distribuibili, per

calcolare il limite in cui la società può acquistare azioni proprie, si devono considerare anche le

riserve disponibili, ovvero tutte quelle riserve che non abbiano una destinazione vincolata (la riserva

legale, fino a quando non raggiunge il limite stabilito dalla legge, non è disponibile). Non c’è

un’esatta corrispondenza fra riserva disponibile, e riserva distribuibile ai soci, perché ci sono alcune

riserve che non sono distribuibili, o non lo sono fino ad un certo punto (es. riserva sovrapprezzo

azioni, che viene integrata dagli eventuali sovrapprezzi che sono stati apposti all’emissione delle

azioni, art. 2431……… non possono essere distribuite fino a che la riserva legale non abbia raggiunto il limite stabilito

dall’articolo 2430……….è una riserva che solo a questa condizione può essere distribuita ai soci), ma il

fatto che non possa essere distribuita ai soci non significa che non possa essere considerata

disponibile per altri diritti e quindi anche per l’acquisto di azioni proprie.

Sono disponibili tutte quelle riserve facoltative, ovvero libere; e lo possono diventare anche le

riserve statutarie per previsione statutaria, che non sono immediatamente utilizzabili per l’acquisto

di azioni proprie se hanno una destinazione specifica, ma possono essere rese disponibili attraverso

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una modifica dello statuto; eliminando la previsione statutaria di quella riserva, questa diventa

facoltativa e quindi anche disponibile, e come tale utilizzabile anche per l’acquisto di azioni proprie.

La legge dice che il limite per l’acquisto delle azioni proprie è dato dalla somma degli utili

distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato. Questo

non significa che possiamo necessariamente acquistare azioni proprie per tale somma, perché la

verifica della consistenza degli utili distribuibili e delle riserve disponibili va fatta solo quando si

procede all’acquisto. Il limite teorico è che non si può andare oltre a quello che risulta dal bilancio;

tuttavia può accadere che, nei mesi successivi l’approvazione del bilancio, la società abbia subito

delle perdite che abbiano compresso le riserve, gli amministratori quindi, per non ricorrere in

responsabilità, dovranno verificare che ancora sussistano queste riserve.

2. si possono acquistare solo azioni già interamente liberate, perché se la società potesse

liberamente acquistare azioni non liberate, per le quali il socio è ancora debitore di una parte dei

conferimenti, si determinerebbe un annacquamento del capitale; non vi sarebbe più nessun obbligato

a completare i conferimenti, e la società potrebbe farlo solo con il proprio patrimonio.

3. non si possono mai acquistare azioni in misura superiore al 10% del capitale sottoscritto,

Questa regola ha un’unica eccezione, introdotta dalla riforma, che si ha in caso di recesso del socio.

La legge prevede infatti che, nel caso in cui il socio abbia una causa che lo legittima al recesso, egli

possa recedere ed esigere la liquidazione del valore della propria quota. La riforma ha previsto un

meccanismo complesso per la liquidazione della quota del socio: dapprima le azioni del socio che

ha receduto vanno offerte in opzione agli altri soci; qualora questi non le acquistino, la società può

acquistare le azioni direttamente dal socio recedente, rimborsandolo, anche in deroga al limite del

10%.

Se la società viola i limiti e le condizioni stabilite dalla legge, ciò non comporta la nullità dell’acquisto. In

questo caso la legge sceglie una sanzione alternativa alla nullità: la validità dell’acquisto rimane ferma,

ma la società ha l’obbligo di rivendere le azioni entro un anno dall’acquisto “Le azioni acquistate in violazione dei

commi precedenti debbono essere alienate secondo modalità da determinarsi dall’assemblea, entro un anno dal loro acquisto”. Se si è

superato il limite del 10% non vanno rivendute tutte le azioni, ma solo quelle che risultano in più.

La cessione deve essere una cessione a titolo oneroso (la società deve percepire un prezzo). In particolare,

quando la condizione violata sia quella degli utili distribuibili e delle riserve disponibili, la cessione a

titolo oneroso è indispensabile, altrimenti si avrebbe un effetto di annacquamento. Se la società non riesce

a vendere entro un anno le azioni che ha acquistato violando i limiti e le condizioni imposti dalla legge,

essa “deve procedere senza indugio al loro annullamento e alla corrispondente riduzione del capitale” (in proporzione delle azioni

annullate).

Qualora invece sia mancata, come requisito di legittimo acquisto, l’autorizzazione assembleare

preventiva, questo vizio può essere sanato dopo l’acquisto con l’intervento dell’assemblea che concede

un’autorizzazione a posteriori, ovvero ratifica l’operato degli amministratori.

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Dopo aver dettato le regole generali per l’acquisto di azioni proprie, la legge prevede dei casi speciali. Art. 2357-bis. (Casi speciali di acquisto delle proprie azioni). Le limitazioni contenute nell’articolo 2357 non si applicano

quando l’acquisto di azioni proprie avvenga:

1) in esecuzione di una deliberazione dell’assemblea di riduzione del capitale, da attuarsi mediante riscatto e annullamento di azioni;

2) a titolo gratuito, sempre che si tratti di azioni interamente liberate;

3) per effetto di successione universale o di fusione o scissione;

4) in occasione di esecuzione forzata per il soddisfacimento di un credito della società, sempre che si tratti di azioni interamente liberate.

Se il valore nominale delle azioni proprie supera il limite della decima parte del capitale per effetto di acquisti avvenuti a norma dei numeri

2), 3) e 4) del primo comma del presente articolo, si applica per l’eccedenza il penultimo comma dell’articolo 2357, ma il termine entro il

quale deve avvenire l’alienazione è di tre anni.

Il primo caso è quello in cui la società acquista azioni proprie dando esecuzione di una

deliberazione dell’assemblea di riduzione del capitale, da attuarsi mediante riscatto e

annullamento di azioni. Tra le varie operazioni di riduzione del capitale (accanto a quella per

perdite, che è una riduzione meramente nominale) vi è una riduzione effettiva che si realizza con

la restituzione ai soci di una parte dei conferimenti. In questo caso, tra le varie modalità di

esecuzione della delibera, ci può essere quella con cui la società riscatta dai soci una parte delle

azioni (le fa proprie per annullarle e ridurre così il capitale). Se la società acquista azioni a questo

fine, non ci sono pericoli di cui sopra, e in questo caso si possono superare i limiti e le condizioni

previste dalla legge per l’acquisto di azioni proprie.

Il secondo caso e quello di acquisto di azioni a titolo gratuito (sempre che si tratti di azioni

interamente liberate). Anche in questo caso non c’è nessun rischio, perché la società non sborsa

nulla per acquistare le azioni (le vengono regalate).

Lo stesso vale anche in occasione dell’esecuzione forzata per il soddisfacimento di un credito

della società (sempre che si tratti di azioni interamente liberate) . Se la società ha un credito verso

un soggetto che non paga, può procedere all’esecuzione forzata per ottenerne il pagamento,

ottenendo dei beni di valore corrispondente al credito. Potrebbe darsi (se il debitore è un socio)

che questi beni corrispondano alle azioni della società stessa. Anche in questo caso il rispetto dei

limiti normativi non è obbligatorio.

L’ultimo caso di deroga è quello in cui la società divenga titolare delle proprie azioni per effetto di

successione universale o di fusione o di scissione. In questo caso la società si trova a ricevere delle

azioni proprie sostanzialmente a titolo gratuito.

L’unico obbligo riguardante i casi speciali di acquisto di azioni proprie è: se per l’effetto dell’acquisto

fatto in casi di deroga, il valore nominale delle azioni proprie supera il 10% del capitale, le azioni in

eccesso vanno rivendute entro tre anni.

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Una volta che la società abbia acquistato azioni proprie, rispettando tutti i limiti e le condizioni previsti

dalla legge, esse diventano parte del patrimonio della società. La legge disciplina la permanenza delle

azioni proprie nel patrimonio della società (art. 2357-ter):

Art. 2357-ter. (Disciplina delle proprie azioni). Gli amministratori non possono disporre delle azioni acquistate a norma dei due articoli

precedenti se non previa autorizzazione dell’assemblea, la quale deve stabilire le relative modalità. A tal fine possono essere previste, nei

limiti stabiliti dal primo e secondo comma dell’articolo 2357, operazioni successive di acquisto ed alienazione.

Finché le azioni restano in proprietà della società, il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti proporzionalmente alle altre azioni;

l’assemblea può tuttavia, alle condizioni previste dal primo e secondo comma dell’articolo 2357, autorizzare l’esercizio totale o parziale del

diritto di opzione. Il diritto di voto è sospeso, ma le azioni proprie sono tuttavia computate nel capitale ai fini del calcolo delle quote richieste

per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea.

Una riserva indisponibile pari all’importo delle azioni proprie iscritto all’attivo del bilancio deve essere costituita e mantenuta finché le

azioni non siano trasferite o annullate

Gli amministratori non sono liberi di cedere queste azioni. Per la cessione è necessaria un’autorizzazione

assembleare (nella pratica avviene che nella stessa delibera che autorizza l’acquisto si stabiliscano anche

le modalità e i tempi dell’eventuale alienazione).

Riguardo ai diritti che le azioni attribuiscono, la legge stabilisce:

DIRITTI PATRIMONIALI: il diritto agli utili è attribuito proporzionalmente alle altre azioni: la

quota di utili che spetterebbe alle azioni che sono di proprietà della società è distribuita

proporzionalmente alle altre azioni, che quindi aumentano il livello di dividendi percepiti. Lo

stesso accade per quanto riguarda il diritto d’opzione: quando una parte delle azioni sia in mano

alla società, il diritto d’opzione non spetta alla società stessa, che non può esercitare l’opzione

sulle nuove azioni, sottoscrivendo una parte del capitale, ma questo diritto è distribuito

proporzionalmente alle altre azioni. Prima della riforma questa era una regola assoluta. La riforma

ha introdotto una deroga a questo principio: il nuovo art. 2357-ter prevede che l’assemblea possa

autorizzare il diritto d’opzione da parte della società, con l’unico limite - devono sussistere le

condizioni previste dal primo e secondo comma dell’articolo 2357 (cioè che la società abbia utili

distribuibili e riserve disponibili per un importo sufficiente per questa sottoscrizione, che le azioni

siano comunque autorizzate dall’assemblea). Quando invece la società delibera un aumento

gratuito del capitale, effettuato con il passaggio delle riserve a capitale, le nuove azioni emesse

sono attribuite anche alla società, perché in questo caso non c’è nessun rischio di annacquamento

del capitale.

DIRITTI AMMINISTRATIVI: La legge prevede, senza possibilità di deroga, che il diritto di voto

che spetterebbe in astratto alle azioni proprie, è sospeso per tutto il tempo in cui queste azioni

rimangono di proprietà della società (anche se queste azioni sono conteggiate per calcolare i

quorum costitutivi e deliberativi delle assemblee). È solo una sospensione del diritto di voto; ifatti

se queste azioni vengono vendute riacquistano il diritto di voto. Altra previsione importante: (art.

2357 ter- 2,3 c.) per tutto il tempo che la società detiene azioni proprie deve essere iscritta, 64

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costituita e mantenuta al passivo “Una riserva indisponibile pari all’importo delle azioni proprie iscritto all’attivo del

bilancio deve essere costituita e mantenuta finché le azioni non siano trasferite o annullate”. Mentre per le altre

partecipazioni si procede solo all’iscrizione nell’attivo, per le partecipazioni proprie bisogna anche

appostare una riserva indisponibile di pari importo al passivo, cioè una riserva che azzeri il valore

delle azioni proprie. Questo perché il bilancio, oltre alla funzione di accertare l’utile o la perdita

della società, ha anche una funzione tipo informativo, e quindi bisogna informare i terzi e i soci

che la società è titolare di una quota delle proprie azioni. La ratio di questa previsione sta nella

volontà di evitare una duplicazione di valori del patrimonio della società. (La ragione è quella di

evitare che si valorizzi due volte una stessa porzione del patrimonio, in parte come beni, e in parte

come partecipazione proprie). La riserva in questione non può mai essere utilizzata a copertura

delle perdite, quindi non è una riserva in senso tecnico, ma è solamente una posta correttiva

dell’attivo.

L’assemblea può dunque autorizzare la società ad esercitare il diritto di opzione sulle azioni nuove

emesse in sede di aumento del capitale; ma vige la regola che la società non può mai sottoscrivere

le sue azioni. la differenza concettuale fra sottoscrivere ed acquistare azioni:

sottoscrivere = è il primo acquisto che si fa quando le azioni vengono emesse; acquistare =

significa acquistarle da qualcuno che le abbia a suo tempo sottoscritte.

In caso di violazione del divieto di sottoscrivere le proprie azioni, come anche in caso di violazione dei

limiti e delle condizioni entro le quali si possono acquistare azioni proprie, la legge non sanziona la

sottoscrizione con la nullità, la legge sceglie una sanzione alternativa: le azioni sottoscritte in nome della

società si intendono sottoscritte, e devono essere liberate o dai soci fondatori, nel caso in cui la

sottoscrizione da parte della società sia avvenuta in sede stessa di contribuzione; oppure (caso più

normale) sia avvenuta in sede di aumento del capitale, si intendono come sottoscrittori gli amministratori,

con tutti i conseguenti obblighi, e in particolare quello di effettuare i conferimenti. Anche quando (art.

2357-quater “Chiunque abbia sottoscritto in nome proprio, ma per conto della società, azioni di quest’ultima è considerato a tutti gli

effetti sottoscrittore per conto proprio”) la sottoscrizione sia stata fatta in nome proprio da qualche soggetto,

(amministratori) ma per conto della società, cioè sulla base di un mandato della società, con l’obbligo

cioè di cederle poi alla società; è come se fosse una sottoscrizione diretta da parte della società, e quindi

le azioni devono essere sottoscritte e liberate sempre dai soggetti che hanno effettuato l’operazione.

Per evitare annacquamenti del capitale, la legge vieta la sottoscrizione non solo da parte della società

stessa, ma anche da parte di una società controllata (art. 2359 quinquies), stabilendo che la società

controllata non può mai sottoscrivere azioni o quote della società controllante (anche in questo caso le

azioni o quote acquisite non rispettando il divieto, si intendono sottoscritte e liberate dagli

amministratori).

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La legge si preoccupa di regolare anche le altre operazioni che la società potrebbe fare in relazione alle

azioni proprie (art. 2358).

Art. 2358. (Altre operazioni sulle proprie azioni). La società non può accordare prestiti, nè fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione

delle azioni proprie.

La società non può, neppure per tramite di società fiduciaria, o per interposta persona, accettare azioni proprie in garanzia.

Le disposizioni dei due commi precedenti non si applicano alle operazioni effettuate per favorire l’acquisto di azioni da parte di dipendenti

della società o di quelli di società controllanti o controllate. In questi casi tuttavia le somme impiegate e le garanzie prestate debbono essere

contenute nei limiti degli utili distribuibili regolarmente accertati e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente

approvato.

La società non può mai concedere un finanziamento ad un soggetto per l’acquisto delle azioni della

società stessa. Allo stesso modo, la società non può mai fornire garanzie, rendersi fideiussore in una

banca, presso la quale un soggetto si rechi per farsi finanziare in modo da sottoscrivere o acquistare azioni

(lo scopo è sempre quello di tutelare l’effettività del capitale sociale). Al 2 comma si stabilisce che la

società non può mai accettare come garanzia il pegno su proprie azione. Qualora la società non rispetti

questi divieti assoluti, le operazioni eseguite sono nulle.

L’unica eccezione a questi divieti si ha nei confronti dei dipendenti della società (azioni a favore dei

dipendenti): “Le disposizioni dei due commi precedenti non si applicano alle operazioni effettuate per favorire l’acquisto di azioni da

parte di dipendenti della società o di quelli di società controllanti o controllate”. Ritornando alla norma che vieta i prestiti e

le garanzie per l’acquisto di azioni proprie a favore di terzi, essa è stata utilizzata in passato dagli

interpreti e dalla giurisprudenza per ritenere vietata una particolare operazione - leverage by out = una

operazione molto diffusa, in base alla quale alcuni soggetti, di solito gli amministratori, che intendono

acquisire il controllo della società X, costituiscono una nuova società con un capitale minimo, la quale

contrae un prestito dalla banca, attraverso il quale acquista il pacchetto di controllo della società X.

Ovviamente, per avere il prestito la società deve fornire delle garanzie. (Innanzitutto il patrimonio della

stessa società bersaglio, perché spiegano alla banca che quel prestito lo useranno per acquisire il controllo

della società bersaglio, e una volta ottenuto si realizzerà una fusione tra questa e la new company in modo

che poi il patrimonio che fungerà da garanzia per la restituzione del prestito sarà dato dal patrimonio della

società bersaglio, che ormai è entrata a far parte del patrimonio comune con la new company, per effetto

della fusione; in questo modo senza avere i soldi gli amministratori ottengono il controllo della società di

cui sono amministratori.)

In passato molti interpreti ritenevano che questa operazione violasse l’art. 2358. In realtà, già prima della

riforma si era arrivati alla conclusione che questa operazione fosse lecita e non violasse l’art. 2358. Oggi

la liceità di questa operazione è affermata espressamente da una norma in tema di fusione (l’art. 2501

bis):

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Art. 2501-bis. (Fusione a seguito di acquisizione con indebitamento). Nel caso di fusione tra società, una delle quali abbia contratto debiti

per acquisire il controllo dell’altra, quando per effetto della fusione il patrimonio di quest’ultima viene a costituire garanzia generica o fonte

di rimborso di detti debiti, si applica la disciplina del presente articolo.

Il progetto di fusione di cui all’articolo 2501-ter deve indicare le risorse finanziarie previste per il soddisfacimento delle obbligazioni della

società risultante dalla fusione.

La relazione di cui all’articolo 2501-quinquies deve indicare le ragioni che giustificano l’operazione e contenere un piano economico e

finanziario con indicazione della fonte delle risorse finanziarie e la descrizione degli obiettivi che si intendono raggiungere.

La relazione degli esperti di cui all’articolo 2501-sexies, attesta la ragionevolezza delle indicazioni contenute nel progetto di fusione ai sensi

del precedente secondo comma.

Al progetto deve essere allegata relazione della società di revisione incaricata della revisione contabile obbligatoria della società obiettivo o

della società acquirente.

Alle fusioni di cui al primo comma non si applicano le disposizioni degli articoli 2505 e 2505-bis.

La legge, oltre a vietare la sottoscrizione delle azioni proprie, vieta anche un’operazione combinata tra

due società di sottoscrizione reciproca delle azioni (l’art. 2360):

Art. 2360. (Divieto di sottoscrizione reciproca di azioni). È vietato alle società di costituire o di aumentare il capitale mediante sottoscrizione

reciproca di azioni, anche per tramite di società fiduciaria o per interposta persona.

La ragione del divieto: si vuole impedire che mediante questa operazione combinata le due società

finiscano per far figurare un capitale che cresce in entrambe, quando in realtà cresce in maniera fittizia.

La norma, nel vietare assolutamente l’operazione, non prevede quale sia la conseguenza della violazione.

L’unica conclusione è che i contratti reciproci di sottoscrizione del capitale siano nulli.

Una società può però acquisire, sia nella forma di sottoscrizione che dell’acquisto nel mercato secondario,

partecipazioni in altre società, o imprese. Questo tipo di operazione, che pure in astratto è lecito, purché

sia sempre previsto dallo statuto, presenta dei rischi: in seguito agli acquisti o all’assunzione di

partecipazioni in altre società, può determinarsi un cambiamento di fatto dell’oggetto sociale della

società. (Il cambiamento dell’oggetto sociale è anche uno dei casi in cui il socio dissenziente ha diritto di

recesso dalla società; ma agendo in questo modo si arginerebbe anche il diritto di recesso, perché

formalmente non si è variato l’oggetto sociale.) La legge allora nell’art. 2361 c.1, prevede: “L’assunzione di

partecipazioni in altre imprese, anche se prevista genericamente nello statuto, non è consentita, se per la misura e per l’oggetto della

partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l’oggetto sociale determinato dallo statuto”. Quindi l’assunzione di

partecipazione è un’attività lecita purché sia prevista dallo statuto.

Anche in questo caso la legge non prevede la sanzione per la violazione di questo divieto (e quindi non si

può dire che l’assunzione delle partecipazione sia nulla, quando per misura e per l’oggetto della

partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l’oggetto sociale).

Art. 2361. (Partecipazioni). L’assunzione di partecipazioni in altre imprese, anche se prevista genericamente nello statuto, non è consentita,

se per la misura e per l’oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l’oggetto sociale determinato dallo statuto.

L’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere

deliberata dall’assemblea; di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio.

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Con la riforma all’art. 2361 è stato aggiunto il secondo comma. Prima della riforma vi era un

orientamento molto consolidato nel ritenere illecito, vietato da parte di una S.p.A. di acquistare

partecipazioni in società di persone, dove uno o più soci assumono responsabilità solidale, illimitata per le

obbligazioni sociali. Oggi questa operazione è consentita e lecita, anche quando l’acquisto comporti

l’assunzione di responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali.

L’atto di acquisto rimane comunque di competenza degli amministratori, perché è un atto di gestione,

serve una semplice autorizzazione, ove previsto dalla legge o dallo statuto, da parte dell’assemblea.

UNICO AZIONISTA.Art. 2362. (Unico azionista). Quando le azioni risultano appartenere ad una sola persona o muta la persona dell’unico socio, gli amministratori devono depositare per l’iscrizione del registro delle imprese una dichiarazione contenente l’indicazione del cognome e nome o della denominazione, della data e del luogo di nascita o di costituzione, del domicilio o della sede e cittadinanza dell’unico socio.Quando si costituisce o ricostituisce la pluralità dei soci, gli amministratori ne devono depositare apposita dichiarazione per l’iscrizione nel registro delle imprese.L’unico socio o colui che cessa di essere tale può provvedere alla pubblicità prevista nei commi precedenti.Le dichiarazioni degli amministratori previste dai precedenti commi devono essere depositate entro trenta giorni dall’iscrizione nel libro dei soci e devono indicare la data di iscrizione.I contratti della società con l’unico socio o le operazioni a favore dell’unico socio sono opponibili ai creditoridella società solo se risultano dal libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione o da atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento.

La norma dedicata all’unico socio si trova nell’art. 2362, ma in parte troviamo qualcosa a riguardo già

nell’art. 2325, che è la prima norma in tema di S.p.A. Con la riforma anche la S.p.A. (mentre prima era

previsto solo per le S.r.l.), può essere costituita con atto unilaterale. Prima della riforma si ammetteva che

la S.p.A. potesse avere un unico socio, ma solo come sopravvenienza nel corso della vita della società, e

doveva essere previsto in un contratto tra 2 o più soggetti. Poteva capitare, ad esempio, che un socio

progressivamente acquistasse le azioni di tutti gli altri, diventando unico socio. Anche nelle società di

persone può accadere che tutte le quote finiscano in mano ad un unico socio, ma in questo caso la legge

stabilisce che entro 6 mesi il socio deve ricostituire la pluralità dei soci,altrimenti la società si scioglie.

Nelle S.p.A. anche prima della riforma, la società poteva continuare ad esistere con un unico socio, ma

solo se sopravvenuto.

Con la riforma anche la S.p.A. può essere costituita da un unico socio. Cambia anche il regime della

responsabilità rispetto al passato (nel passato la legge accettava che la società continuasse a vivere avendo

un unico socio, però si stabiliva che questo qualora la società divenisse insolvente rispondeva

personalmente e solidalmente e in maniera illimitata delle obbligazioni sociali sorte da quando lui era

l’unico socio). Oggi vige la regola che delle obbligazioni sociali risponde solo la società col suo

patrimonio. Solo in due casi l’unico socio assume responsabilità illimitata (solo quando la società si rende

insolvente, e solo per le obbligazioni sorte nel periodo in cui lui è stato l’unico socio): 68

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1. quando i conferimenti non siano stati effettuati nel rispetto dell’art. 2342: se la società nasce

con un unico socio, egli deve versare integralmente all’atto della sottoscrizione il conferimento in

denaro; se la società nasce con più soci ma ad un certo punto si ritrova ad avere un unico socio, e

non sono stati completati ancora i versamenti, l’unico socio ha 90 giorni per completarli;

2. fino a quando non sia stata effettuata la pubblicità prevista nell’art. 2362: la legge stabilisce

che bisogna dare adeguata informazione ai terzi con la pubblicazione nel registro delle imprese

riguardo al fatto che la società abbia un unico socio. Fino a quando la pubblicità non è stata

realizzata, l’unico socio risponde illimitatamente.

UNICO AZIONISTA (segue).

Vi sono delle ipotesi in cui l’unico azionista assume responsabilità illimitata: questo accade quando la

società è insolvente e solo per quelle obbligazioni che siano sorte nel periodo in cui quel soggetto è stato

effettivamente l’unico socio. Date queste premesse ciò accade in due ipotesi:

- quando l’unico socio non abbia effettuato i conferimenti così come previsto dall’art. 2342 in caso

di costituzione unilaterale (è necessaria l’integrale e l’immediata liberazione delle azioni);

- quando l’unico socio sia diventato tale dopo la costituzione della società, se ci sono ancora dei

versamenti dovuti, ha un termine massimo (di 90 giorni) per completare i versamenti ancora

dovuti.

Un’altra ipotesi in cui l’unico socio assume responsabilità illimitate è quella in cui non sia stata effettuata,

nei termini previsti dall’art. 2362, la pubblicità nel registro delle imprese.

Art. 2362. (Unico azionista). Quando le azioni risultano appartenere ad una sola persona o muta la persona dell’unico socio, gli amministratori devono depositare per l’iscrizione del registro delle imprese una dichiarazione contenente l’indicazione del cognome e nome o della denominazione, della data e del luogo di nascita o di costituzione, del domicilio o della sede e cittadinanza dell’unico socio.Quando si costituisce o ricostituisce la pluralità dei soci, gli amministratori ne devono depositare apposita dichiarazione per l’iscrizione nel registro delle imprese. L’unico socio o colui che cessa di essere tale può provvedere alla pubblicità prevista nei commi precedenti. Le dichiarazioni degli amministratori previste dai precedenti commi devono essere depositate entro trenta giorni dall’iscrizione nel libro dei soci e devono indicare la data di iscrizione. I contratti della società con l’unico socio o le operazioni a favore dell’unico socio sono opponibili ai creditori della società solo se risultano dal libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione o da atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento.

La S.p.A. presenta un procedimento di costituzione complesso: non basta la stipulazione del contratto, ma

è necessario procedere all’iscrizione della società nel registro delle imprese. In questo modo, nel lasso di

tempo che passa dalla stipulazione del contratto davanti al notaio al momento in cui si procede

all’iscrizione nel registro delle imprese, si compiono delle operazioni in nome della società (che

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formalmente ancora non esiste). Nel caso la società abbia un unico socio, egli risponde solidalmente delle

operazioni pre-iscrizione che siano state eventualmente fatte.

La legge, pur considerando ideologica la situazione della S.p.A. con un unico socio, impone a queste

società (sia l’unico socio originario o sopravvenuto) di indicare in tutti i loro atti e nella corrispondenza,

la circostanza che si tratta della società con unico socio (in modo che anche i terzi che entrano in contatto

con la società siano sempre informati di questa particolare situazione).

L’art. 2362 prevede che quando le azioni risultano appartenere ad una sola persona o quando cambia

l’unico socio, gli amministratori della società devono depositare, per l’iscrizione nel registro delle

imprese, una dichiarazione che contenga gli elementi identificativi dell’unico socio (comma 1). Quando

per effetto di trasferimento di azioni, di aumento di capitale altro, si costituisca o ricostituisca la pluralità

dei soci, va presentata, presso il registro delle imprese, un’apposita dichiarazione che attesti l’avvenuto

mutamento della situazione.

Quando la legge parla di azioni che risultano appartenere ad un’unica persona, il legislatore e gli interpreti

sono concordi nel ritenere che si debba usare un criterio formale per identificare la società con un unico

socio (ESEMPIO: basterebbe anche una sola azione intestata ad un soggetto diverso per trovarsi al di

fuori della situazione della società con un unico socio). Ma la situazione dell’esempio non può essere

fittizia o simulata (può far comodo ad un sostanziale unico azionista fare l’intestazione simulata di una

azione ad un’altra persona per non far scattare la disciplina dell’unico azionista). Il problema quindi

diventa quello di capire se l’intestazione è effettiva oppure se è una semplice simulazione.

Abbiamo visto come gli avvertimenti pubblicitari siano condizione perché l’unico azionista possa

continuare a godere del beneficio della responsabilità limitata.

C’è poi un secondo aspetto della disciplina dell’unico azionista contenuto nell’ultimo comma dell’art.

2362: “I contratti della società con l’unico socio o le operazioni a favore dell’unico socio sono opponibili ai creditori della società solo se risultano dal libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio di amministrazione o da atto scritto avente data certa(tramite contratto concluso in presenza di un notaio) anteriore al pignoramento.” C’è questa previsione normativa perché l’unico socio può, facendo operazioni con la sua stessa società, trasferire nel suo patrimonio personale o nel patrimonio della società beni anche in maniera slegata dalle logiche di mercato. Proprio per questo la legge stabilisce il principio indicato sopra. In sostanza è un principio di relativa opponibilità dei contratti della società con l’unico socio e delle operazioni a favore dell’unico socio.Quando invece non siano rispettati questi requisiti, la questione diventa soltanto di inopponibilità di quel

contratto o di quella operazione ai creditori (non si pone mai un problema di invalidità). (ESEMPIO di

inopponibilità: il bene uscito dal patrimonio sociale per effetto del contratto di compravendita con l’unico

socio, per quanto riguarda i creditori sociali è come se fosse nel patrimonio della società). Si vuole 70

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quindi evitare che, di fronte ai creditori sociali che aggrediscono il patrimonio della società, l’unico socio riesca a far uscire i beni sociali attraverso le operazioni con se stesso.Il pignoramento è quel atto con cui un creditore può ottenere che siano bloccati i beni di un debitore; è un’azione esecutiva che è seguita dalla vendita forzata dei beni dell’obbligato, per soddisfare le ragioni del creditore.

Prestito obbligazionario.Un altro tradizionale strumento di finanziamento della società è quello che si realizza attraverso il prestito obbligazionario. Le obbligazioni sono un tradizionale strumento di finanziamento di massa, sono titoli di credito che possono essere al portatore o nominativi e sono emessi in serie a fronte di un’unica operazione economica di finanziamento (tradizionalmente di un mutuo, cioè di un prestito fatto alla società). Con le obbligazioni ci si rivolge sostanzialmente al pubblico per raccogliere il capitale di credito attraverso l’emissione di titoli di credito emessi in serie (sono tutti uguali l’uno all’altro) che documentano pro quota quel particolare rapporto di credito con la società. Il prestito obbligazionario è uno strumento di raccolta di capitale di credito riservato esclusivamente alle società azionarie, cioè alla società per azioni e alle società in accomandita per azioni (anche se con la riforma per le S.r.l. è stata prevista per la prima volta la possibilità di emettere titoli di debito che sono sostanzialmente uguali alle obbligazioni - questo accade solo in circostanze particolari, ed in particolare solo se destinati ad essere sottoscritti da investitori professionali, quindi non ci si può rivolgere al pubblico). In tema di prestiti obbligazionari la riforma è intervenuta in modo importante sostanzialmente lungo tre linee guida:

1) l’apertura, rispetto al passato, dei limiti quantitativi all’emissione dei prestiti obbligazionari. In alcune situazioni questi limiti vengono totalmente meno;

2) la competenza a decidere l’emissione di un prestito obbligazionario passa, con la riforma, dall’assemblea straordinaria, che era l’unico organo che poteva assumere questa decisione prima della riforma, all’organo amministrativo;

3) con la riforma si ha un esplicito riconoscimento e una esplicita disciplina di alcuni tipi speciali di obbligazioni già presenti prima, ma considerate del tutto

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atipiche e col dubbio che fossero effettivamente legittime (ci si riferisce alle obbligazioni indicizzate e alle obbligazioni subordinate).

L’art. 2410 disciplina proprio l’emissione delle obbligazioni:

Art. 2410. (Emissione). - Se la legge o lo statuto non dispongono diversamente, l’emissione di obbligazioni è deliberata dagliamministratori.In ogni caso la deliberazione di emissione deve risultare da verbale redatto da notaio ed è depositata ed iscritta a norma dell’articolo 2436.

Già prima della riforma, a partire dal Testo Unico Bancario del 1993, per le obbligazioni emesse dalle banche, all’art. 12 si prevedeva (senza neppure ipotizzare possibili competenze diverse stabilite nello statuto) che è obbligatoriamente competenza degli amministratori (con l’unica eccezione per le obbligazioni convertibili in azioni).

Art. 2420-bis. (Obbligazioni convertibili in azioni). - L’assemblea straordinaria può deliberare l’emissione di obbligazioniconvertibili in azioni, determinando il rapporto di cambio e il periodo e le modalità della conversione. La deliberazione non può essere adottata se il capitale sociale non sia stato interamente versato. Contestualmente la società deve deliberare l’aumento del capitale sociale per un ammontare corrispondente alle azioni da attribuire in conversione. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del secondo, terzo, quarto e quinto comma dell’articolo 2346.Nel primo mese di ciascun semestre gli amministratori provvedono all’emissione delle azioni spettanti agli obbligazionistiche hanno chiesto la conversione nel semestre precedente. Entro il mese successivo gli amministratori devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese un’attestazione dell’aumento del capitale sociale in misura corrispondente al valore nominale delle azioni emesse. Si applica la disposizione del secondo comma dell’articolo 2444. Fino a quando non siano scaduti i termini fissati per la conversione, la società non può deliberare nè la riduzione volontaria del capitale sociale, nè la modificazione delle disposizioni dello statuto concernenti la ripartizione degli utili, salvo che ai possessori di obbligazioni convertibili sia stata data la facoltà, mediante avviso depositato presso l’ufficio del registro delle imprese almeno novanta giorni prima della convocazione dell’assemblea, di esercitare il diritto di conversione nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione. Nei casi di aumento del capitale mediante imputazione di riserve e di riduzione del capitale per perdite, il rapporto di cambio è modificato in proporzione alla misura dell’aumento o della riduzione. Le obbligazioni convertibili in azioni devono indicare in aggiunta a quanto stabilito nell’articolo 2414, il rapporto di cambio e le modalità della conversione.

Per le obbligazioni non convertibili in azioni e per tutti gli altri tipi di obbligazioni la competenza naturale è dell’organo amministrativo, salvo che la legge o lo statuto

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non prevedono altrimenti. Per le azioni convertibili in azioni l’organo competente è obbligatoriamente l’assemblea straordinaria.Al di la delle obbligazioni convertibili, per tutti gli altri tipi di obbligazioni, si assiste ad un ampliamento dell’autonomia statutaria perché è possibile stabilire una diversa competenza organica per l’emissione. Ma in caso di silenzio dello statuto la competenza è degli amministratori. Il legislatore ha inteso che l’emissione delle obbligazioni sia un tipico atto di gestione al pari del ricorso al prestito bancario o ad altre forme di finanziamento. In ogni caso si ritiene che non si possa statutariamente prevedere che competente a decidere l’emissione sia l’assemblea ordinaria dei soci. Questo perché nell’art. 2380-bis la legge stabilisce che l’attività di gestione della società è competenza esclusiva dell’organo amministrativo. Nella stessa linea si colloca poi l’art. 2364 , dove sono individuate le competenze dell’assemblea ordinaria. Mentre nel passato gli statuti potevano ridisegnare le competenze reciproche tra organo amministrativo e assemblea ordinaria, oggi questo non è più possibile. A questo punto è chiaro che l’assemblea ordinaria non potrebbe essere statutariamente indicata come organo deputato a emettere obbligazioni. Ma si potrebbe, mantenendo la competenza dell’organo amministrativo, stabilire nello statuto che tutte le volte che l’organo amministrativo intenda fare un’emissione delle obbligazioni, debba chiedere l’autorizzazione all’assemblea ordinaria.Quello che certamente si potrebbe stabilire statutariamente è che la competenza sia sottratta agli amministratori e sia affidata all’assemblea straordinaria, come era prima della riforma. Nella disciplina sulle delibere assembleali c’è una nuova norma:

Art. 2379-ter. (Invalidità delle deliberazioni di aumento o di riduzione del capitale e della emissione di obbligazioni).Nei casi previsti dall’articolo 2379 l’impugnativa dell’aumento di capitale, della riduzione del capitale ai sensi dell’articolo 2445 o della emissione di obbligazioni non può essere proposta dopo che siano trascorsi centottanta giorni dall’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese o, nel caso di mancata convocazione, novanta giorni dall’approvazione del bilancio dell’esercizio nel corso del quale la deliberazione è stata anche parzialmente eseguita.Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio l’invalidità della deliberazione di aumento del capitale non può essere pronunciata dopo che a norma dell’articolo 2444 sia stata iscritta nel registro delle imprese l’attestazione che l’aumento è stato anche parzialmente eseguito; l’invalidità della deliberazione di riduzione del capitale ai sensi dell’articolo 2445 o della deliberazione di emissione delle obbligazioni non può essere pronunciata dopo che la deliberazione sia stata anche parzialmente eseguita. Resta salvo il diritto al risarcimento del danno eventualmente spettante ai soci e ai terzi.

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In questa norma si parla della nullità di alcune deliberazioni e tra queste viene citata anche la deliberazione di emissione delle obbligazioni (senza ulteriori specificazioni).Altro problema sorge quando la legge dice che la decisione di emettere obbligazioni è deliberata dagli amministratori. Ma “gli amministratori” è un termine generico. Bisogna quindi stabilire se questa è una competenza necessariamente collegiale o una competenza che può essere delegata all’amministratore delegato. L’organo amministrativo, quando sia pluripersonale, e quindi ci sia un consiglio d’amministrazione, può sempre delegare alcune o tutte le sue funzioni, salvo alcune che la legge considera indelegabili, o ad un comitato esecutivo o a uno o più amministratori delegati. Siccome tra le materie non delegabili all’amministratore delegato nell’art. 2381 non c’è traccia dell’emissione delle obbligazioni, si ritiene che anche questa operazione sia materia delegabile, per cui potrebbe essere delegata dal consiglio d’amministrazione all’amministratore delegato.Qual è l’ambito oggettivo della competenza degli amministratori? Si tratta di capire qual è il rapporto tra l’art. 2410 e l’art. 2420-ter. È ovvio che l’ambito della competenza degli amministratori ci sarà tutte le volte che non si debba applicare l’art. 2420-bis. Se si considera il 2420-bis come norma eccezionale che deroga alla norma generale del 2410 ecco che allora dovremmo poter dire che gli amministratori possono emettere tutti quei tipi di obbligazione che non comportino ciò che invece comporta l’emissione di un prestito obbligazionario convertibile (che non comportino modificazioni del contratto sociale, e quindi che non abbiano impatto sulle posizioni dei soci).Le obbligazioni convertibili, perlomeno secondo il procedimento diretto di conversione (che è l’unico che la legge disciplina), necessitano di un aumento del capitale sociale per avere un capitale sociale destinato al servizio del prestito obbligazionario convertibile. È ovvio che in questo caso si va a impattare sulla posizione dei soci e si va a modificare lo statuto della società. E quindi si può concludere che in questo caso la competenza per l’emissione del prestito sia dell’assemblea straordinaria. Tutte le volte che si emettano obbligazioni che non abbiano questo impatto, che non necessitino della modifica dello statuto per poter operare, rimane competente l’organo amministrativo. Si ha quindi una norma generale dell’art. 2410 e una norma particolare dell’art. 2420-bis.Anche se la competenza è dell’organo amministrativo, la legge prevede nel comma 2 dell’art. 2410 che in ogni caso la deliberazione di emissione deve risultare da verbale redatto da notaio e depositata ed iscritta nel registro delle imprese a norma

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dell’articolo 2436. La delibera dell’emissione delle obbligazioni, sia essa adottata dall’assemblea straordinaria, sia essa adottata dall’organo amministrativo, segue tutto il procedimento previsto per le modifiche statutarie nell’art. 2436. Con la riforma le delibere acquisiscono efficacia solo con l’iscrizione nel registro delle imprese. Inoltre, con la riforma trovano riconoscimento e disciplina alcuni tipi speciali di obbligazioni che prima si usavano solo nella pratica ma erano del tutto atipiche e in alcuni casi anche considerate illegittime.Questa disciplina la troviamo nell’art. 2411 che impropriamente è intitolato Diritti degli obbligazionisti:

Art. 2411. (Diritti degli obbligazionisti). - Il diritto degli obbligazionisti alla restituzione del capitale ed agli interessi può essere, in tutto o in parte, subordinato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società.I tempi e l’entità del pagamento degli interessi possono variare in dipendenza di parametri oggettivi anche relativiall’andamento economico della società.La disciplina della presente sezione si applica inoltre agli strumenti finanziari, comunque denominati, che condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società.

Con la riforma si è reso più elastico il contenuto possibile delle obbligazioni. Prima della riforma l’emissione della obbligazione corrispondeva sempre ad un rapporto tipico di mutuo sottostante, cioè di un prestito oneroso; oggi questo contenuto può variare. Tanto è che si dice ormai da parte di molti interpreti che le obbligazioni sono uno strumento finanziario tipico, perché disciplinate dalla legge in maniera articolata, ma che possono avere anche un contenuto atipico. Riconoscere spazio alle obbligazioni subordinate e alle obbligazioni indicizzate, significa, pur mantenendo la funzione tipica del finanziamento per prestito obbligazionario, di fatto attribuire, a chi sottoscrive questi tipi particolari di obbligazioni, una partecipazione al rischio d’impresa, che nel rapporto tipico di mutuo non c’è. Perché con il mutuo il diritto alla restituzione del capitale alla scadenza del prestito e il diritto di percepire le rate di interesse, è un diritto che non può essere condizionato in nessun modo. Potendo indicizzare all’andamento della società le obbligazioni, potendo prevedere le obbligazioni subordinate, significa rendere in qualche modo i creditori della società partecipi del rischio d’impresa. Ciò che rimane sicuramente incompatibile con la natura del prestito obbligazionario è che ai titolari delle obbligazioni siano riconosciuti diritti di natura associativa, diritti di tipo amministrativo. Tipi di obbligazioni speciali espressamente disciplinati dalla legge:

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- obbligazioni subordinate (comma 1 dell’art. 2411). Il rapporto tra i vari creditori, che normalmente è un rapporto paritario, viene alterato. Chi è titolare di un’obbligazione subordinata è subordinato agli altri o ad alcuni degli altri creditori. La clausola di subordinazione comporta che ci sia una condizione sospensiva della esigibilità di questo credito. La subordinazione applicata al prestito obbligazionario può essere totale o parziale: potrebbe essere una subordinazione per quanto riguarda solo il pagamento degli interessi, oppure per quanto riguarda la restituzione del capitale oppure in parte per l’uno e per l’altro.C’è comunque un limite invalicabile alla possibilità di subordinare le obbligazioni: la subordinazione non può mai essere subordinazione rispetto ai diritti dei soci della società.

- obbligazioni indicizzate (il comma 2 dell’art. 2411) la legge disciplina solo l’indicizzazione per quanto riguarda gli interessi. (Nel terzo coma anche se indirettamente si parla di un’indicizzazione in linea di capitale.) Già prima della riforma, anche se la legge non ne parlava assolutamente, si ammetteva nei determinati limiti una clausola di indicizzazione. Le obbligazioni indicizzate vengono chiamate anche obbligazioni partecipanti (anche se è una forma che fa nascere equivoci e che quindi è bene non usare). Una cosa è prevedere che l’interesse sia parametrato all’andamento ad esempio della società emittente (alla quantità di utili che la società produce) – e in questo caso si parla di indicizzazione; altro è prevedere che le obbligazioni partecipino direttamente agli utili della società – in questo caso si hanno delle obbligazioni partecipanti in senso stretto (si va fuori dalla disciplina dell’art. 2411). Nel primo caso l’utile è solo un parametro per sapere quanto interesse si deve corrispondere all’obbligazione; nel secondo caso invece le obbligazioni partecipano alla divisione degli utili. L’ultimo comma dell’art. 2411 fa sorgere alcuni problemi interpretativi. Da questa norma si può ricavare che rientrano nella previsione anche le obbligazioni indicizzate in linea di capitale, purché l’indicizzazione sia attuata con l’esclusivo riferimento a parametri dell’andamento economico della società, quindi a parametri interni e non esterni. C’è un’obbiezione che tradizionalmente veniva fatta alla possibilità di indicizzazione del capitale in un prestito obbligazionario, che veniva collocata nell’art. 2412:

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Art. 2412. (Limiti all’emissione). - La società può emettere obbligazioni al portatore o nominative per somma complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato. I sindaci attestano il rispetto del suddetto limite.Il limite di cui al primo comma può essere superato se le obbligazioni emesse in eccedenza sono destinate alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali. In caso di successiva circolazione delle obbligazioni, chi le trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali.Non è soggetta al limite di cui al primo comma, e non rientra nel calcolo al fine del medesimo, l’emissione di obbligazioni garantite da ipoteca di primo grado su immobili di proprietà della società, sino a due terzi del valore degli immobili medesimi.Il primo e il secondo comma non si applicano all’emissione di obbligazioni effettuata da società le cui azioni siano quotate in mercati regolamentati, limitatamente alle obbligazioni destinate ad essere quotate negli stessi o in altri mercati regolamentati. Quando ricorrono particolari ragioni che interessano l’economia nazionale, la società può essere autorizzata con provvedimento dell’autorità governativa, ad emettere obbligazioni per somma superiore a quanto previsto nel presente articolo, con l’osservanza dei limiti, delle modalità e delle cautele stabilite nel provvedimento stesso.Restano salve le disposizioni di leggi speciali relative a particolari categorie di società e alle riserve di attività…… (manca l’ultimo comma)In questo articolo, prima in maniera più rigida, adesso in maniera più elastica, si fissavano i limiti quantitativi alle obbligazioni che si possono emettere. Nel passato si obiettava che, indicizzando il capitale, non sarebbe più stato possibile prevedere a priori quanto avrebbe dovuto essere poi rimborsato agli obbligazionisti al termine dell’operazione. Questo da parte di molti veniva considerato incompatibile con i limiti fissati all’emissione dei prestiti obbligazionari; la ragione di fissare questi limiti è che la legge vuole che coloro che sottoscrivono le obbligazioni abbiano una garanzia che la società sarà in grado di restituire il prestito alla scadenza.Dal complesso delle norme dettate in tema di obbligazione emerge chiaramente una diversa spiegazione del perché dei limiti all’emissione delle obbligazioni: assicurare nell’ambito di una società il bilanciamento tra capitale di rischio e capitale di credito ottenuto con il ricorso ad un prestito di massa. Non c’è nessuna garanzia tecnica data agli obbligazionisti. I limiti stabiliti all’emissione sono valutati esclusivamente al momento dell’emissione. È chiaro che poi si possono creare degli sbilanciamenti in questo rapporto che la legge vuole imporre (può capitare che l’ammontare del prestito superi il limite). Per rimediare a questo c’è una norma apposita, dettata dall’art. 2413:

Art. 2413. (Riduzione del capitale). - Salvo i casi previsti dal terzo, quarto e quinto comma dell’articolo 2412, la società cheha emesso obbligazioni non può ridurre volontariamente il capitale sociale o distribuire riserve se rispetto all’ammontare

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delle obbligazioni ancora in circolazione il limite di cui al primo comma dell’articolo medesimo non risulta più rispettato.Se la riduzione del capitale sociale è obbligatoria, o le riserve diminuiscono in conseguenza di perdite, non possonodistribuirsi utili sinché l’ammontare del capitale sociale e delle riserve non eguagli l’ammontare delle obbligazioni in circolazione.

Con questa norma la legge vuole rimediare agli eventuali sbilanciamenti in corso d’opera che si possono realizzare. È chiaro che i limiti che il 2412 fissa sono dei limiti valutati esclusivamente al momento dell’emissione delle obbligazioni; le vicende successive sono regolate dall’art. 2413.

Obbligazioni (segue).Art 2411. (Diritti degli obbligazionisti). - Il diritto degli obbligazionisti alla restituzione del capitale ed agli interessi può essere, in tutto o in

parte, subordinato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società.

I tempi e l’entità del pagamento degli interessi possono variare in dipendenza di parametri oggettivi anche relativi all’andamento economico

della società.

La disciplina della presente sezione si applica inoltre agli strumenti finanziari, comunque denominati, che condizionano i tempi e l’entità del

rimborso del capitale all’andamento economico della società.

Il terzo comma dell’art. 2411 estende la disciplina delle obbligazioni anche a tutti quegli strumenti

finanziari che condizionino i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della

società. In base a questa norma oggi è consentito emettere obbligazioni indicizzate, seppure soltanto

quando l’indicizzazione sia riferita all’andamento economico della società, cioè solo quando ci sia un

parametro interno di indicizzazione e non un parametro esterno.

Sorge la domanda se attraverso queste norme si possa ritenere che abbiano fatto ingresso nel nostro

sistema generale delle S.p.A. quelli che in ambito bancario sono chiamati prestiti irredimibili e perpetui.

L’art. 12, u.c. del Testo Unico Bancario del 1996 prevede che la Banca d’Italia disciplini l’emissione, da

parte delle altre banche, di prestiti subordinati (obbligazioni subordinate vengono oggi disciplinate

espressamente), i prestiti irredimibili ovvero rimborsabili. Questi possono essere fatti solo previa

autorizzazione della Banca d’Italia, e possono avvenire anche sotto forma di obbligazioni.

Prestito perpetuo - non prevedono un rimborso, se non al momento in cui si estingua o si sciolga la

società, e quindi si estingua il prestito.

Prestiti irredimibili - sono prestiti che prevedono una durata a lunghissima scadenza (solo l’emittente ha

la possibilità di rimborsarli anticipatamente). Essi prevedono una partecipazione alla copertura delle

perdite dell’emittente e, molto spesso, prevedono anche una clausola di corresponsione degli interessi

quando l’emittente si viene a trovare in una situazione economica difficile.

Questo tipo di strumenti, che la legge continua a chiamare prestito, va a costituire il capitale proprio (ciò

che entra in società per effetto dell’emissione di questi strumenti è parificato al capitale proprio).

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Si può dubitare quindi che la formula usata nell’art 2411 co.3 “strumenti finanziari …che condizionano i tempi e l’entità del

rimborso del capitale all’andamento economico della società” permetta l’uso di questi strumenti anche fuori dal settore

bancario, cioè nelle S.p.A. infatti l’uso di tali strumenti finirebbe per accentuare il fenomeno di

sostanziale perdita di senso della tradizionale netta distinzione tra Capitale Proprio e Capitale di Credito.

Limiti alla quantità di obbligazioni emettibili da una società.La legge pone dei limiti alla quantità di obbligazioni che una società può emettere; questi limiti in alcuni

casi possono essere superati. I limiti con la riforma sono diventati molto meno rispetto al Codice Civile

del 1942. Art. 2412. (Limiti all’emissione). - La società può emettere obbligazioni al portatore o nominative per somma complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato. I sindaci attestano il rispetto del suddetto limite.Il limite di cui al primo comma può essere superato se le obbligazioni emesse in eccedenza sono destinate alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali. In caso di successiva circolazione delle obbligazioni, chi le trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali.Non è soggetta al limite di cui al primo comma, e non rientra nel calcolo al fine del medesimo, l’emissione di obbligazioni garantite da ipoteca di primo grado su immobili di proprietà della società, sino a due terzi del valore degli immobili medesimi.Il primo e il secondo comma non si applicano all’emissione di obbligazioni effettuata da società le cui azioni siano quotate in mercati regolamentati, limitatamente alle obbligazioni destinate ad essere quotate negli stessi o in altri mercati regolamentati. Quando ricorrono particolari ragioni che interessano l’economia nazionale, la società può essere autorizzata con provvedimento dell’autorità governativa, ad emettere obbligazioni per somma superiore a quanto previsto nel presente articolo, con l’osservanza dei limiti, delle modalità e delle cautele stabilite nel provvedimento stesso.Restano salve le disposizioni di leggi speciali relative a particolari categorie di società e alle riserve di attività. (manca l’ultimo comma)

Tali limiti sono disciplinati dall’art 2412. Questa norma è stata modificata dall’art. 11 della Legge

n. 262 del 28/12/2005 (la legge sul risparmio) che ha abrogato l’ultimo comma e ne ha aggiunto uno (4

comma).

La riforma è intervenuta accrescendo quantitativamente in maniera considerevole il limite stabilito in

generale per l’emissione delle obbligazioni, in due sensi:

1. accrescendo le ipotesi di deroga ai limiti stabiliti in generale, e aumentando i casi in cui le deroghe

non sono collegate ad una specifica prestazione di garanzia da parte dell’emittente;

2. aumentando il limite del rapporto tra le obbligazioni e il capitale sociale, la riserva legale e le

riserve disponibili.

Comma 1: il termine “complessivamente” è importante perché vuol dire che questo limite non va

calcolato in relazione alla singola emissione delle azioni, ma va calcolato nel complesso delle emissioni

in essere da parte della società. Nel nominare il capitale sociale la legge intende il capitale sottoscritto,

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cioè il capitale nominale a prescindere dal fatto che sia interamente o meno versato. Bisogna fare

attenzione al fatto che il concetto di riserva disponibile non necessariamente coincide con il concetto di

riserva distribuibile. La riserva distribuibile è quella riserva che può essere liberata per essere distribuita

ai soci in forma di dividendi. La riserva disponibile invece non può essere distribuita o non può essere

distribuita se sussistono determinate condizioni. L’ipotesi tipica in cui si verifica questa dissociazione tra

il concetto di riserva disponibile e il concetto di riserva distribuibile riguarda per esempio la cosiddetta

riserva da sovrapprezzo azioni.

Art 2431. (Soprapprezzo delle azioni). - Le somme percepite dalla società per l’emissione di azioni ad un prezzo superiore al loro valore

nominale, ivi comprese quelle derivate dalla conversione di obbligazioni, non possono essere distribuite fino a che la riserva legale non abbia

raggiunto il limite stabilito dall’articolo 2430.

Quindi non si può fare la distribuzione della riserva soprapprezzo azioni fino a quando la riserva legale

non raggiunge il limite di 1/5 del capitale sociale; infatti a tal fine la riserva legale deve essere integrata

ogni anno con una quota di utili. Questa riserva è temporaneamente non disponibile, ma sicuramente è

una riserva disponibile per la società, in quanto non ha un vincolo di destinazione specifico.

Nel calcolare il tetto delle possibili emissioni si trova un ulteriore precisazione nel comma inserito dalla L

262 del 2005:

Legge 28 dicembre 2005, n. 262 – Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari Art. 11 co.1 –

(Circolazione in Italia di strumenti finanziari collocati presso investitori professionali e obblighi informativi) 1. All’articolo 2412 del codice

civile sono apportate le seguenti modificazioni:

a) dopo il terzo comma è inserito il seguente: «Al computo del limite di cui al primo comma concorrono gli importi relativi a garanzie

comunque prestate dalla società per obbligazioni emesse da altre società, anche estere».

b) il settimo comma è abrogato.

In questa legge si prevede che “al computo del limite, di cui al primo comma dell’art. 2412, concorrono

gli importi relativi a garanzie comunque prestate dalla società per obbligazioni emesse da altre società

anche estere”. È un fenomeno frequente, specialmente nei gruppi: una società appartenente ad un gruppo

emette un prestito obbligazionario garantito da un’altra società del gruppo con una fideiussione o una

garanzia reale o un immobile. Quindi anche l’ammontare di queste garanzie deve essere cumulato alle

obbligazioni già emesse dalla società, per calcolare il limite massimo all’emissione.

La legge specifica che per il calcolo del limite si deve fare riferimento all’ultimo bilancio approvato.

Questo non significa che non si possano emettere obbligazioni nel corso del primo esercizio di vita della

società, visto che nel primo esercizio non c’è un bilancio regolarmente approvato. Questo problema è

superabile redigendo una situazione patrimoniale straordinaria sulla base della quale calcolare il capitale,

la riserva legale e le riserve distribuibili in quel momento. Allo stesso modo il fatto che il riferimento sia

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all’ultimo bilancio approvato, non significa che non si debbano conteggiare, per il calcolo del limite, le

eventuali operazioni sul capitale che siano state fatte dopo l’approvazione dell’ultimo bilancio. Si può

anche in questo caso redigere una situazione patrimoniale ad hoc che registri la situazione e quindi attesti

il nuovo limite per l’emissione di obbligazioni. In sostanza il riferimento all’ultimo bilancio dell’esercizio

precedente regolarmente approvato rappresenta la condizione minima, il punto di partenza minimo, ma

non il punto di partenza necessario in quanto è possibile intervenire con una nuova situazione

patrimoniale che tra l’altro è anche supportata dal parere dei sindaci.

Questi limiti all’emissione sono ampiamente derogabili (comma 2). I soggetti “investitori professionali

soggetti a vigilanza prudenziale” non sono tutti gli investitori professionali perché non tutti gli investitori

professionali sono sottoposti poi a vigilanza prudenziale. Quelli che sono invece sottoposti a vigilanza

sono le banche, SIM società di intermediazione immobiliare, società di gestione del risparmio, vari

organismi collettivi del risparmio, come i Fondi Comuni le FICAV fondi pensione. Un ulteriore limite è

dato dalla modifica del Testo Unico Bancario, art. 11: “gli investitori professionali che rivestano idonei

requisiti patrimoniali stabiliti dalle competenti autorità di vigilanza”; quindi non solo investitori

professionali che siano sottoposti a vigilanza, ma che inoltre posseggano determinati requisiti di

consistenza patrimoniale stabiliti dalle autorità di vigilanza.

La legge prevede che, quando si eccedano i limiti e la sottoscrizione sia prevista soltanto per questo tipo

di soggetti, chi fa successivamente circolare le obbligazioni risponde della insolvenza della società nei

confronti degli acquirenti, che non siano a loro volta investitori professionali. La sottoscrizione può essere

fatta solo dagli investitori professionali che posseggano determinate caratteristiche; non c’è poi un divieto

di ulteriore circolazione di obbligazioni, quindi gli investitori professionali possono offrirle al pubblico,

ma nel momento in cui offrono al pubblico e chi sottoscrive non è un altro investitore professionale,

l’investitore professionale risponde della solvenza della società. Rispondere della solvenza vuol dire che,

se la società non è in grado di onorare il prestito obbligazionario, esso dovrà essere onorato

dall’investitore professionale che ha fatto circolare liberamente i titoli facendoli acquistare a investitori

non professionali.

Per identificare le obbligazioni emesse in eccedenza (perché solo per queste funziona il meccanismo

dell’eventuale responsabilità dell’intermediario che faccia circolare le obbligazioni) si segue questo

procedimento: il meccanismo della responsabilità è valido quando tutta l’emissione sia in eccedenza (se la

società abbia già raggiunto il suo limite e nonostante questo, proceda ad una nuova emissione ovviamente

riservata ai professionisti). (ESEMPIO: se la società non ha raggiunto il suo limite ed emette obbligazioni

direttamente al pubblico per 50, facendo un’emissione di 100, allora 50 sono libere mentre 50 sono sotto

il regime di responsabilità e devono seguire le regole viste prima.) L’unica soluzione a questo problema è

che la regola della responsabilità valga per tutte le obbligazioni emesse perché non è possibile capire in

seguito quali obbligazioni facciano parte dell’eccedenza e quali no - gli investitori professionali saranno

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così responsabili per tutte le obbligazioni emesse. Nella pratica si usa un escamotage per evitare la

responsabilizzazione dell’intera emissione: è sufficiente spezzare l’emissione in due e farne una che stia

dentro i limiti e un’altra che vada oltre..

Bisogna capire come si identificano gli investitori responsabili che rispondono della solvenza della

società. Nel caso delle obbligazioni al portatore questo è materialmente impossibile. Le obbligazioni al

portatore sono tutte una uguale all’altra: non hanno indicazione del titolare, non è rintracciabile la storia

di queste obbligazioni. Anche in questo caso l’unica soluzione possibile sarebbe quella di applicare la

regola della responsabilizzazione su tutti gli investitori che hanno partecipato alla sottoscrizione delle

obbligazioni al portatore. Nel caso invece di obbligazioni nominative o dematerializzate le tracce dei vari

trasferimenti sono sempre verificabili e quindi si può ricostruire qual è l’investitore professionale che ha

ceduto le obbligazioni ad un investitore non professionale per responsabilizzarlo.

Un’altra complicazione può derivare dalla complessità della circolazione delle obbligazioni se sono

sottoscritte da un investitore professionale che le cede ad uno non professionale, che a sua volta le cede ad

un investitore professionale e così via. Qui si sceglie o di responsabilizzare l’investitore che ha venduto al

risparmiatore il quale non riesce a farsi pagare dalla società, o responsabilità solidale estesa a tutti gli

investitori che sono intervenuti nella circolazione.

Il fatto che un venditore professionale sottoscriva delle obbligazioni all’interno dei limiti di legge e quindi

non risponde della solvenza della società, non significa che questo investitore professionale non possa

essere chiamato a rispondere nel momento in cui non abbia rispettato le norme che la legge e i

regolamenti Consob impongono all’intermediario (in particolare ci deve essere un contratto in forma

scritta, ci deve essere l’informazione sulla natura dell’investimento, l’intermediario deve raccogliere

dall’investitore notizie sulla sua professione a rischio, sulla sua conoscenza del mercato finanziario e così

via).

Vi è un’altra deroga, del tutto nuova: “Il primo e il secondo comma non si applicano all’emissione di obbligazioni effettuata da

società le cui azioni siano quotate in mercati regolamentati, limitatamente alle obbligazioni destinate ad essere quotate negli stessi o in altri

mercati regolamentati”. Prima della riforma si prevedeva un limite diverso da quello generale nel caso di

quotazione in borsa. Oggi invece non c’è più alcun limite per la società che ha le azioni quotate in un

mercato regolamentato, quando le obbligazioni siano destinate ad essere quotate.

Ci sono inoltre delle deroghe che già erano previste prima:

o “Non è soggetta al limite di cui al primo comma, e non rientra nel calcolo al fine del medesimo, l’emissione di obbligazioni

garantite da ipoteca di primo grado su immobili di proprietà della società, sino a due terzi del valore degli immobili medesimi.”

L’ipoteca è un contratto reale di garanzia in base al quale si vincola un certo bene, e su questo

bene ha diritto di soddisfarsi il creditore che rimanga insoddisfatto, in questo caso la massa degli

obbligazionisti (l’ipoteca deve obbligatoriamente essere di primo grado).

o “Quando ricorrono particolari ragioni che interessano l’economia nazionale, la società può essere autorizzata con provvedimento

dell’autorità governativa, ad emettere obbligazioni per somma superiore a quanto previsto nel presente articolo, con l’osservanza

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dei limiti, delle modalità e delle cautele stabilite nel provvedimento stesso.” Quindi quando sono presenti motivi

eccezionali possono essere emessi dei provvedimenti ad hoc individuali a seconda della circostanza in atto.

È scomparsa invece, rispetto al regime passato, quella deroga che era data dal fatto che si potevano superare i limiti quando le società offrivano a garanzia titoli di Stato di loro proprietà.

o “Restano salve le disposizioni di leggi speciali relative a particolari categorie di società e alle riserve di attività.” Anche qui

sono deroghe speciali previste il leggi ad hoc per settori di attività o tipologie di imprese.

Si è accennato al fatto che la legge introduce delle cautele per mantenere l’equilibrio fra l’ammontare del

prestito obbligazionario e i mezzi propri della società, per tutto il periodo in cui le obbligazioni restano in

circolazione.

Art. 2413. (Riduzione del capitale). - Salvo i casi previsti dal terzo, quarto e quinto comma dell’articolo 2412, la società che ha emesso obbligazioni non può ridurre volontariamente il capitale sociale o distribuire riserve se rispetto all’ammontare delle obbligazioni ancora in circolazione il limite di cui al primo comma dell’articolo medesimo non risulta più rispettato.Se la riduzione del capitale sociale è obbligatoria, o le riserve diminuiscono in conseguenza di perdite, non possono distribuirsi utili sinché l’ammontare del capitale sociale e delle riserve non eguagli l’ammontare delle obbligazioni incircolazione.

L’art. 2413 prevede due meccanismi diversi che rispondono alla logica di cautela. Si vuole evitare che la

società formalmente rispetti il tetto delle obbligazioni emettibili e poi, quando il prestito o i prestiti siano

in essere, faccia una riduzione effettiva del capitale restituendo ai soci parte dei conferimenti o

distribuendo riserve disponibili che erano conteggiate. In questo caso si romperebbe l’equilibrio

necessario. Certamente rientra in questa previsione della rottura dell’equilibrio, il caso della riduzione

effettiva del capitale; rientra anche il caso in cui la società riscatti le proprie azioni per poi procedere

all’annullamento, come riduzione volontaria.

L’unica riduzione di capitale obbligatoria, che quindi non rientra nella previsione fatta sopra è la

riduzione per perdite:Art. 2446 co 1 e 2 (Riduzione del capitale per perdite). Quando risulta che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite,

gli amministratori o il consiglio di gestione, e nel caso di loro inerzia il collegio sindacale ovvero il consiglio di sorveglianza, devono senza

indugio convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti. All’assemblea deve essere sottoposta una relazione sulla situazione

patrimoniale della società, con le osservazioni del collegio sindacale o del comitato per il controllo sulla gestione. La relazione e le

osservazioni devono restare depositate in copia nella sede della società durante gli otto giorni che precedono l’assemblea, perché i soci

possano prenderne visione. Nell’assemblea gli amministratori devono dare conto dei fatti di rilievo avvenuti dopo la redazione della

relazione.

Se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea ordinaria o il consiglio

di sorveglianza che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate. In mancanza gli

amministratori e i sindaci o il consiglio di sorveglianza devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale in ragione

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delle perdite risultanti dal bilancio. Il tribunale provvede, sentito il pubblico ministero, con decreto soggetto a reclamo, che deve essere

iscritto nel registro delle imprese a cura degli amministratori.

Se si riduce il capitale per perdite da subito, non aspettando il termine dell’esercizio successivo, allora ci

si trova nuovamente in una situazione di riduzione volontaria del capitale (non c’è l’obbligo di procedere

alla riduzione e quindi la fattispecie di questa situazione rientra nel divieto previsto dall’art. 2413).

Le operazioni fatte in violazione del primo comma dell’art. 2413 sono certamente nulle, quindi sono nulle

le dichiarazioni di riduzione di capitale volontaria.

La legge vuole, per quanto possibile, garantire il mantenimento di questo rapporto anche quando la

riduzione del capitale sia obbligatoria l’art 2413 co.2 (Riduzione del capitale). Se la riduzione del capitale sociale è

obbligatoria, o le riserve diminuiscono in conseguenza di perdite, non possono distribuirsi utili sinchè l’ammontare del capitale sociale e

delle riserve non eguagli la metà dell’ammontare delle obbligazioni in circolazione. Non si può evitare la riduzione del

capitale, ma tutti gli utili maturati negli esercizi successivi devono avere come prima destinazione quella

di andare a riserva, in modo da ricostituire per questa via la riserva legale, e quindi quel equilibrio

ritenuto obbligatorio; solo dopo si potranno distribuire utili ai soci.

Le obbligazioni, come le azioni hanno un determinato contenuto. Art. 2414. (Contenuto delle obbligazioni). - I titoli obbligazionari devono indicare:

1) la denominazione, l’oggetto e la sede della società, con l’indicazione dell’ufficio del registro delle imprese presso il quale la società è

iscritta;

2) il capitale sociale e le riserve esistenti al momento dell’emissione;

3) la data della deliberazione di emissione e della sua iscrizione nel registro;

4) l’ammontare complessivo dell’emissione, il valore nominale di ciascun titolo, i diritti con essi attribuiti, il rendimento o i criteri per la sua

determinazione e il modo di pagamento e di rimborso, l’eventuale subordinazione dei diritti degli obbligazionisti a quelli di altri creditori

della società;

5) le eventuali garanzie da cui sono assistiti.

Inoltre viene introdotta un’altra novità:Art. 2414-bis. (Costituzione delle garanzie). - La deliberazione di emissione di obbligazioni che preveda la costituzione di garanzie reali a

favore dei sottoscrittori deve designare un notaio che, per conto dei sottoscrittori, compia le formalità necessarie per la costituzione delle

garanzie medesime.

L’assemblea degli obbligazionisti è un’assemblea speciale che raggruppa gli obbligazionisti di una

determinata emissione; nel caso ci siano stati più prestiti obbligazionari per ogni emissione viene

costituita un’assemblea degli obbligazionisti, perché ogni emissione ha condizioni termini e

caratteristiche diverse. L’assemblea degli obbligazionisti ha una serie di compiti che gli sono attribuiti

dall’art. 2415 co.1 (Assemblea degli obbligazionisti). - L’assemblea degli obbligazionisti delibera:

1) sulla nomina e sulla revoca del rappresentante comune;

2) sulle modificazioni delle condizioni del prestito;

3) sulla proposta di amministrazione controllata e di concordato;

4) sulla costituzione di un fondo per le spese necessarie alla tutela dei comuni interessi e sul rendiconto relativo;

5) sugli altri oggetti d’interesse comune degli obbligazionisti.

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Le due attribuzioni di cui ai numeri 2 e 3 sono di grande favore nei confronti della società emittente. Se non ci fosse questa norma, la società potrebbe modificare le condizioni del prestito solo con il consenso di tutti gli obbligazionisti.All’assemblea degli obbligazionisti si applicano le disposizioni relative all’assemblea straordinaria dei soci. Quando un’assemblea degli obbligazionisti a maggioranza, rispettando il quorum degli obbligazionisti, delibera se accettare una certa modifica sulle condizioni del prestito anche gli obbligazionisti dissenzienti sono obbligati ad accettarla. Il problema è quello di capire quali sono i limiti entro cui l’assemblea può intervenire e quindi che cosa si intende per modifica delle condizioni del prestito. Dato che si deve comunque trattare di modifica delle condizioni del prestito, non può essere una decisione che tocchi la natura e la stessa essenza del prestito (non si potrebbe trasformare un prestito obbligazionario ordinario in un prestito con un limite diverso o viceversa, in quanto si avrebbe una modifica dell’essenza del prestito). Altra attribuzione dell’assemblea è la nomina e l’eventuale revoca del rappresentante comune, che certamente è un organo in senso tecnico della società. Art 2417 co.1 (Rappresentante comune). - Il rappresentante comune può essere scelto al di fuori degli obbligazionisti e possono essere

nominate anche le persone giuridiche autorizzate all’esercizio dei servizi di investimento nonché le società fiduciarie. Non possono essere

nominati rappresentanti comuni degli obbligazionisti e, se nominati, decadono dall’ufficio, gli amministratori, i sindaci, i dipendenti della

società debitrice e coloro che si trovano nelle condizioni indicate nell’articolo 2399.

Questa disposizione serve ad evitare la situazione di conflitto d’interessi. Se potesse essere nominato

come rappresentante comune un amministratore della società questo si troverebbe in un immediato

conflitto di interessi. Il rappresentante comune funge da tramite tra la società e la massa degli

obbligazionisti, ma egli non può intervenire nelle vicende societarie che non interessino gli

obbligazionisti.

La legge da la possibilità al singolo obbligazionista di tutelare i suoi interessi nei confronti della società. Art 2419. (Azione individuale degli obbligazionisti). - Le disposizioni degli articoli precedenti non precludono le azioni individuali degli

obbligazionisti, salvo che queste siano incompatibili con le deliberazioni dell’assemblea previste dall’articolo 2415.

Obbligazioni convertibili.Molto interessanti sono le due norme finali della sezione sulle obbligazioni, e sono le norme che trattano di obbligazioni convertibili in azioni. Questo particolare tipo di obbligazione in realtà era del tutto sconosciuta nel codice del 1942, anche se in realtà era stato molto diffuso il ricorso a questo tipo di obbligazioni. Solo nel 1974 si sono avute le norme che disciplinavano l’istituto delle obbligazioni convertibili. Queste ultime sono una particolare forma del prestito obbligazionario e quindi mantengono tutte le sue caratteristiche, ma in più offrono, a chi sottoscrive il

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prestito, una facoltà di scegliere se rimanere obbligazionisti fino alla scadenza del termine o di optare per la conversione delle obbligazioni in azioni della società, e quindi di trasformarsi da creditori a soci della società. Questo può avvenire solo a certe scadenze e a certe condizioni che devono essere contenute nel prospetto del prestito. La legge del 1974 che ha introdotto l’art. 2420-bis disciplina soltanto uno dei procedimenti che nella pratica sono usati, cioè il cosiddetto procedimento diretto di conversione. La legge prevede che, quando si delibera un prestito convertibile in azioni, la stessa assemblea che delibera l’emissione di questo prestito deve anche deliberare l’aumento di capitale, in modo tale da creare le azioni che devono poi essere date in offerta agli obbligazionisti se e quando decideranno di convertire le loro obbligazioni.In pratica ci sono altre ipotesi che anche in passato sono state molto usate:

emissione di un prestito convertibile sempre in azioni della stessa società emittente in azioni già detenute come azioni proprie dalla società stessa. La società può detenere azioni proprie per una quota massima del 10% del suo capitale; per disfarsi di queste azioni la società può scegliere di emettere un prestito obbligazionario che sia convertibile in quel 10% di azioni che la società detiene.

Procedimento indiretto prevede l’emissione di un prestito convertibile, non in azioni già emesse o da emettere della stessa società, ma convertibile in azioni di altra società; azioni che la società emettente il prestito ha nel suo portafoglio o oppure azioni che l’altra società si impegna ad emettere a servizio del prestito (è necessario un accordo tra le due società).

Questi sistemi alternativi usati nella pratica non sono ancora stati disciplinati dalla legge, e questo crea tutta una serie di problemi.

Art. 2420-bis. (Obbligazioni convertibili in azioni). - L’assemblea straordinaria può deliberare l’emissione di obbligazioni convertibili in azioni, determinando il rapporto di cambio e il periodo e le modalità della conversione. La deliberazione non può essere adottata se il capitale sociale non sia stato interamente versato.Contestualmente la società deve deliberare l’aumento del capitale sociale per un ammontare corrispondente alle azioni da attribuire in conversione. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del secondo, terzo, quarto e quinto comma dell’articolo 2346.Nel primo mese di ciascun semestre gli amministratori provvedono all’emissione delle azioni spettanti agli obbligazionisti che hanno chiesto la conversione nel semestre precedente. Entro il mese successivo gli amministratori devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese un’attestazione dell’aumento del capitale sociale in misura corrispondente al valore nominale delle azioni emesse. Si applica la disposizione del secondo comma dell’articolo 2444.

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Fino a quando non siano scaduti i termini fissati per la conversione, la società non può deliberare nè la riduzione volontaria del capitale sociale, nè la modificazione delle disposizioni dello statuto concernenti la ripartizione degli utili, salvo che ai possessori di obbligazioni convertibili sia stata data la facoltà, mediante avviso depositato presso l’ufficio del registro delle imprese almeno novanta giorni prima della convocazione dell’assemblea, di esercitare il diritto di conversione nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione.Nei casi di aumento del capitale mediante imputazione di riserve e di riduzione del capitale per perdite, il rapporto di cambio è modificato in proporzione alla misura dell’aumento o della riduzione.Le obbligazioni convertibili in azioni devono indicare in aggiunta a quanto stabilito nell’articolo 2414, il rapporto di cambio e le modalità della conversione.

Obbligazioni convertibili (segue).L’istituto delle obbligazioni convertibili in azioni è stato disciplinato per la prima volta nel 1974, anche se

nella pratica era già diffuso.

Le obbligazioni convertibili in azioni, sono un prestito obbligazionario, che ha come caratteristica quella

di consentire, a coloro che lo sottoscrivono, di optare a scadenze prestabilite per la conversione delle

obbligazioni in azioni. Si può quindi scegliere se rimanere obbligazionisti fino alla scadenza del prestito

obbligazionario, e quindi richiederne alla scadenza la restituzione, oppure trasformarsi in soci della

società. Con la riforma il legislatore ha deciso di disciplinare soltanto una delle possibili forme in cui si

manifesta l’istituto delle obbligazioni convertibili - il procedimento diretto, cioè la situazione in cui una

società emette obbligazioni convertibili in azioni della stessa società che emette il prestito

obbligazionario, e in azioni di nuova emissione.

La legge impone che, nella stessa assemblea in cui si delibera l’emissione del prestito obbligazionario

convertibile, venga deliberato anche un aumento di capitale, il cosiddetto aumento a servizio del prestito

obbligazionario convertibile.

Nella pratica ci sono altre modalità attraverso cui si realizza la regola della convertibilità di un prestito

obbligazionario in azioni: ad esempio l’ipotesi della convertibilità in azioni della stessa società che emette

il prestito, ma azioni che la società già possiede nel proprio portafoglio come azioni proprie; è sempre un

procedimento diretto, ma che non richiede un aumento di capitale, poiché le azioni da mettere a

disposizione degli obbligazionisti che dovessero decidere di convertire, sono già presenti nel portafoglio

della società.

Non viene disciplinato dalla legge il procedimento indiretto (nella pratica ha avuto molte manifestazioni):

il caso in cui la società emette un prestito obbligazionario, convertibile non in proprie azioni, ma in quelle

di una altra società. Ci sono due ipotesi di procedimento indiretto:

1. il caso in cui la società che emette un prestito obbligazionario convertibile, abbia già nel suo

portafoglio le azioni di un'altra società da offrire in conversione;

2. il caso in cui le obbligazioni sono dichiarate convertibili in azioni di un’altra società che ancora

devono essere emesse, o comunque di nuova emissione. Questa seconda ipotesi presuppone

necessariamente un accordo preventivo tra le due società per cui la società nelle cui azioni si può

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realizzare la conversione si è impegnata ad effettuare un aumento di capitale, per mettere a

disposizione degli obbligazionisti dell’altra società le proprie azioni.

Questi ultimi procedimenti non sono disciplinati dalle legge e quindi si apre il problema di vedere in che

misura le norme che la legge detta esclusivamente per il procedimento diretto, siano applicabili in via

analogica anche all’ipotesi di un’emissione con un procedimento di conversione indiretto.

Se con la riforma l’emissione di obbligazioni in generale è competenza dell’organo amministrativo, e non

più, come in passato, dell’assemblea straordinaria; per quanto riguarda invece il caso delle obbligazioni

convertibili, la legge prevede che competente resti l’assemblea straordinaria. Con il procedimento diretto

e il conseguente aumento di capitale, si spiega la presenza dell’assemblea straordinaria, visto che per

questo è necessaria una modifica dell’atto costitutivo che è di sua competenza. C’è il dubbio se questa

necessaria competenza dell’assemblea straordinaria ci sia anche quando la società emetta un prestito

obbligazionario convertibile in azioni proprie già possedute dalla stessa; perché in questo caso non c’è la

necessità di un aumento di capitale, e quindi si può sostenere che questo tipo di emissione di prestito

convertibile possa essere deliberato anche dagli amministratori (?).

Si è già visto che la legge prevede che sia l’acquisto di azioni proprie, che la loro disposizione

(dismissione) debbano essere autorizzate dall’assemblea; ecco allora che se gli amministratori emettono

un prestito obbligazionario convertibile in azioni della società già possedute dalla stessa, questo diventa

una forma, una modalità di dismissione delle azioni proprie, perché saranno destinate agli obbligazionisti

che convertono; quindi anche in questo caso sarà necessaria un’autorizzazione assembleare.

Bisogna non confondere le obbligazioni convertibili con le obbligazioni accompagnate da un warrant,

che sono un normale prestito obbligazionario che in più attribuisce a chi le sottoscrive una possibilità di

opzione per la sottoscrizione o l’acquisto in un secondo momento di azioni della stessa società che emette

il prestito obbligazionario, o di una società diversa.

Nel caso delle obbligazioni convertibili, al sottoscrittore è lasciata un’opzione alternativa, cioè può

decidere di rimanere fino in fondo obbligazionista, e quindi alla fine ottenere la restituzione del prestito, o

in alternativa decidere di diventare socio, cessando così di essere obbligazionista.

Nelle obbligazioni con warrant invece, non c’è un’opzione alternativa, ma bensì cumulativa, nel senso

che l’obbligazionista rimane comunque tale fino in fondo, ma ad un certo punto ha la possibilità, secondo

quote predeterminate, anche di diventare socio.

La differenza è chiara, nel primo caso si ha alternatività dell’opzione (optando per una cosa si perde

l’altra); nel caso invece di obbligazioni con warrant, c’è cumulo delle possibilità (si è comunque

obbligazionisti ma in più si può diventare soci, senza perdere la qualità di obbligazionisti).

IL PROCEDIMENTO DIRETTO.

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E’ espressamente disciplinato dalla legge, e l’emissione è riservata alla delibera dell’assemblea

straordinaria dei soci. Per questo caso valgono tutte le regole proprie dei prestiti obbligazionari normali, e

in più, per le obbligazioni convertibili, c’è una disciplina particolare che all’art. 2420-bis prevede

l’obbligatoria indicazione nella delibera di emissione di un prestito convertibile, di due elementi:

1. il rapporto di cambio è un elemento decisivo per valutare la convenienza dell’offerta fatta dalla

società e per questo deve essere indicato sin dal momento della delibera di emissione; perché la

scelta del sottoscrittore sia consapevole, e non sia lasciata alla società la possibilità di mutare il

rapporto di cambio, che porterebbe ad un mutamento della convenienza complessiva

dell’operazione;

2. il periodo e le modalità della conversione : il sottoscrittore deve sapere quando potrà esercitare la

sua opzione per diventare socio, e in che modo dovrà farlo. Normalmente, nei prestiti

obbligazionari convertibili ogni anno è prevista una finestra temporale per poter dichiarare di

voler convertire.

Inoltre sempre l’art. 2420 bis al 1° com. aggiunge che “La deliberazione non può essere adottata se il capitale sociale non

sia stato interamente versato”. L’art. 2438: “Un aumento di capitale non può essere eseguito fino a che le azioni precedentemente

emesse non siano interamente liberate”. La legge vuole evitare che una società chieda nuovo capitale prima di aver

richiamato i versamenti ancora dovuti sul precedente capitale, la legge vuole evitare che il patrimonio

della società sia costituito in misura eccessiva da crediti verso soci. Questo significa che si può deliberare

un aumento di capitale, ma non lo si può eseguire: è un divieto agli amministratori e non ai soci, i quali

possono in sede di assemblea straordinaria deliberare un aumento di capitale; ma gli amministratori che

sono gli esecutori della delibera potranno darne esecuzione solo quando avranno verificato effettivamente

che tutti i versamenti precedenti dovuti sono stati completati.

In caso di emissione di un prestito obbligazionario convertibile, la legge adotta un criterio più rigoroso,

perché si dice che la stessa delibera di emissione del prestito convertibile che non può essere adottata se il

capitale sociale non sia stato interamente versato. Qui si ha il divieto già nel momento della decisione

assembleare; quindi sarebbe illegittima la stessa delibera assembleare di emissione di un prestito

obbligazionario convertibile in presenza di un capitale sociale ancora non integralmente versato.

La legge all’art. 2430-bis prevede che quando si delibera l’emissione di un prestito obbligazionario

convertibile nella stessa assemblea “Contestualmente la società deve deliberare l’aumento del capitale sociale per un ammontare

corrispondente alle azioni da attribuire in conversione”. E’ un aumento di capitale sui generis, perché non si sa nel

momento in cui si delibera contestualmente l’emissione del prestito convertibile, quanto di questo

aumento sarà sottoscritto, perché questo dipende dalla volontà degli obbligazionisti. E’ un aumento

necessariamente scindibile (ha effetto anche se solo una parte delle azioni di nuova emissione sono

sottoscritte). E’ inoltre un aumento di capitale, a differenza di quanto avviene per quelli ordinari, che

prevede necessariamente l’esclusione del diritto d’opzione dei soci. Un aumento di capitale a servizio di

un prestito obbligazionario convertibile può essere tale, in quanto non c’è il diritto d’opzione dei soci,

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perché altrimenti, se i soci esercitassero l’opzione non ci sarebbero più azioni da offrire agli

obbligazionisti. Comunque i soci hanno diritto di esercitare il diritto d’opzione sulle obbligazioni

convertibili (art. 2441):

Art. 2441. (Diritto di opzione). - Le azioni di nuova emissione e le obbligazioni convertibili in azioni devono essere offerte in opzione ai soci

in proporzione al numero delle azioni possedute. Se vi sono obbligazioni convertibili il diritto di opzione spetta anche ai possessori di queste,

in concorso con i soci, sulla base del rapporto di cambio……

I soci sono comunque tutelati: il diritto d’opzione ha lo scopo di consentire a ciascun socio di mantenere

inalterata, dal punto di vista percentuale, la propria partecipazione a seguito di un aumento di capitale.

Questa possibilità rimane sempre perché al legge consente il diritto d’opzione sul prestito convertibile.

E poi un aumento di capitale per l’emissione di un prestito obbligazionario convertibile è differenziato

rispetto a quello ordinario, perché è necessariamente a esecuzione progressiva e differita. Come detto, i

prestiti obbligazionari convertibili prevedono delle finestre periodiche nelle quali esercitare il diritto

d’opzione e quindi la formazione del nuovo capitale, sarà frazionata nel tempo e progressiva. La legge

prevede infatti sempre nell’art. 2420-bis che “Nel primo mese di ciascun semestre gli amministratori provvedono

all’emissione delle azioni spettanti agli obbligazionisti che hanno chiesto la conversione nel semestre precedente. Entro il mese successivo

gli amministratori devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese un’attestazione dell’aumento del capitale sociale in misura

corrispondente al valore nominale delle azioni emesse”.

Con la riforma è scomparsa, ma c’era in passato come disposizione imperativa, la previsione che non si

potessero emettere obbligazioni convertibili con disaggio (quando si fa pagare un prezzo di sottoscrizione

inferiore al valore nominale del titolo che si emette). Le obbligazioni ordinarie possono essere emesse ad

un valore superiore al prezzo richiesto dalla sottoscrizione.

E’ chiaro che quando si emette un prestito obbligazionario convertibile che ha una certa durata, e che

consente a certe scadenze agli obbligazionisti di diventare soci, ci sono tutta una serie di operazioni

sociali, fatte nel periodo in cui si è ancora liberi di decidere se rimanere obbligazionisti o diventare soci,

che possono creare danno agli obbligazionisti. In particolare questo riguarda le operazioni sul capitale che

la società potrebbe fare nel periodo in cui l’obbligazionista è ancora libero di decidere cosa fare. Allora

l’art. 2420-bis a tutela dell’effettività e del mantenimento del diritto dell’obbligazionista alla conversione,

così com’era quando è stato emesso il prestito obbligazionario convertibile, stabilisce tutta una serie di

regole, non tutte contenute nell’art. 2420-bis, ma anche in altri articoli. In particolare l’art. 2441

……….Le azioni di nuova emissione e le obbligazioni convertibili in azioni devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al

numero delle azioni possedute. Se vi sono obbligazioni convertibili il diritto di opzione spetta anche ai possessori di queste, in concorso con i

soci, sulla base del rapporto di cambio. Si prevede che accanto al diritto d’opzione, che spetta ai soci in caso di

aumento di capitale, alla pari ci sia anche un diritto d’opzione dei possessori di obbligazioni convertibili.

Anche l’art. 2420-bis parla di questa possibilità in tema di fusione o scissione di società (operazioni che

potrebbero ledere i diritti degli obbligazionisti). In caso di fusione l’art. 2503-bis prevede che ai

possessori di obbligazioni convertibili, quando al società che ha emesso il prestito convertibile decida una

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fusione con altre società, deve essere data la possibilità di esercitare preventivamente il diritto di

conversione, in modo da poter partecipare alla deliberazione di fusione (si da diritto di anticipare il diritto

di conversione per essere soci quando la società poi delibererà la fusione).

Art. 2503-bis. (Obbligazioni). I possessori di obbligazioni delle società partecipanti alla fusione possono fare opposizione a norma

dell’articolo 2503, salvo che la fusione sia approvata dall’assemblea degli obbligazionisti.

Ai possessori di obbligazioni convertibili deve essere data facoltà, mediante avviso da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica

italiana almeno novanta giorni prima della iscrizione del progetto di fusione, di esercitare il diritto di conversione nel termine di trenta giorni

dalla pubblicazione dell’avviso.

Ai possessori di obbligazioni convertibili che non abbiano esercitato la facoltà di conversione devono essere assicurati diritti equivalenti a

quelli loro spettanti prima della fusione, salvo che la modificazione dei loro diritti sia stata approvata dall’assemblea prevista dall’articolo

2415.

È a tutela dell’obbligazionista anche il comma 4 dell’art. 2420.

Mentre l’aumento di capitale gratuito, che si realizza col passaggio di una riserva a capitale o di una

riduzione per perdite, gli obbligazionisti con diritto di conversione sono tutelati con una modifica

proporzionale all’aumento o alla riduzione del capitale del rapporto di cambio che era stato individuato

nella delibera di emissione del prestito obbligazionario convertibile: “Nei casi di aumento del capitale mediante

imputazione di riserve e di riduzione del capitale per perdite, il rapporto di cambio è modificato in proporzione alla misura dell’aumento o

della riduzione”.

L’emissione del prestito obbligazionario deve essere dunque deliberata dall’assemblea straordinaria, ma

la legge prevede che lo statuto possa delegare questa competenza all’organo amministrativo: art. 2420-ter.

Art. 2420-ter. (Delega agli amministratori). - Lo statuto può attribuire agli amministratori la facoltà di emettere in una o più volte

obbligazioni convertibili, fino ad un ammontare determinato e per il periodo massimo di cinque anni dalla data di iscrizione della società nel

registro delle imprese. In tal caso la delega comprende anche quella relativa al corrispondente

aumento del capitale sociale.

Tale facoltà può essere attribuita anche mediante modificazione dello statuto, per il periodo massimo di cinque anni dalla data della

deliberazione.

Si applica il secondo comma dell’articolo 2410.

Nella delega devono essere indicati:

1. ammontare massimo predeterminato

2. un periodo massimo, entro cui si esaurisce la delega (non può essere superiore a 5 anni dal momento

in cui è avvenuta l’iscrizione della società).

Tale delega può anche essere attribuita con una modifica dello statuto, quindi non è necessaria che sia

prevista sin dall’origine; e nel caso di successiva modifica il periodo di 5 anni si calcola dall’iscrizione

nel registro delle imprese della modifica statutaria.

Gli amministratori non sono obbligati ad emettere obbligazioni per quell’ammontare, hanno solo la

facoltà di farlo. 91

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ALTRI STRUMENTI FINANZIARI PARTECIPATIVI.

Si è di fronte ad una delle parti meno chiare della riforma, soprattutto perché a questi altri strumenti

finanziari partecipativi la legge dedica poche norme, non sempre chiare e collocate in modo sparso nel

codice., ponendo così problemi di coordinamento, che lasciano aperte tutta una serie di questioni.

Il quadro normativo su cui bisogna cercare di ricostruire la fattispecie degli altri strumenti finanziari

partecipativi è:

Art. 2346. (Emissione delle azioni). In questo articolo all’ultimo comma si dice: “Resta salva la possibilità

che la società, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, emetta strumenti finanziari forniti di diritti

patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti”. Si prevede quindi che,

a fronte di determinati apporti da parte di soci o terzi che possono consistere anche in apporti

d’opera e di servizi (che non possono essere oggetto di conferimenti in S.p.A.), la società emetta

strumenti finanziari diversi dalle azioni, dotati comunque di diritti patrimoniali, ma anche di diritti

amministrativi con l’unica esclusione del voto nell’assemblea generale degli azionisti. Sempre

questo comma demanda poi all’autonomia statutaria tutta una serie di previsioni: “ In tal caso lo statuto ne

disciplina le modalità e condizioni di emissione, i diritti che conferiscono, le sanzioni in caso di inadempimento delle prestazioni e, se

ammessa, la legge di circolazione”.

Art. 2349 (Azioni e strumenti finanziari a favore dei prestatori di lavoro): nel caso in cui la società

decida di dare un’assegnazione straordinaria di utili ai propri dipendenti, questa può avvenire con la

modalità della distribuzione di azioni ai dipendenti. La società aumenta gratuitamente il proprio

capitale facendo passare gli utili non distribuibili a capitale, creando così nuove azioni da distribuire

ai dipendenti. Questa assegnazione straordinaria di utili può realizzarsi oltre che con l’assegnazione

di azioni anche con “l’assegnazione ai dipendenti della società o di società controllate di strumenti finanziari, diversi dalle

azioni, forniti di diritti patrimoniali o diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti”.

Art. 2376 (Assemblee speciali), assemblee che vanno obbligatoriamente previste quando in una

società si creino più categorie di azioni. Questa stessa previsione vale anche nel caso di emissione di

altri strumenti finanziari partecipativi previsti nell’art. 2346, ma soltanto quando questi siano dotati

anche di diritti amministrativi. “Se esistono diverse categorie di azioni o strumenti finanziari che conferiscono diritti

amministrativi, le deliberazioni dell’assemblea, che pregiudicano i diritti di una di esse, devono essere approvate anche

dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata”. Non è chiaro se questa previsione per gli

strumenti finanziari partecipativi scatti tutte le volte che si faccia un’unica emissione di strumenti

finanziari, o se invece scatti quando vi siano più categorie di strumenti finanziari partecipativi (non

si riesce a capire che rapporto vi possa essere tra strumenti finanziari partecipativi e categorie di

azioni).

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Art. 2411, 3c., (Diritti degli obbligazionisti) prevede che la disciplina delle obbligazioni si applichi

anche agli strumenti finanziari comunque denominati, che condizionano tempi ed entità del

rimborso del capitale all’andamento economico della società.

Art. 2427, (Contenuto della nota integrativa). Una previsione che riguarda gli strumenti finanziari

partecipativi, la troviamo anche in una norma in tema di bilancio, e in particolare nella norma che

disciplina la nota integrativa: deve essere indicato “il numero e le caratteristiche degli altri strumenti finanziari

emessi dalla società, con l’indicazione dei diritti patrimoniali e partecipativi che conferiscono e delle principali caratteristiche delle

operazioni relative”. (Si parla di strumenti che attribuiscono diritti patrimoniali e partecipativi, come se

“partecipativi” si riferisse solo a strumenti che attribuiscono diritti amministrativi, invece nel 2346

sono considerati partecipativi, anche quelli che attribuiscono solo diritti patrimoniali -confusione.)

Poi c’è una disciplina che prevede la possibilità di emettere strumenti finanziari partecipativi

quando la società costituisca un patrimonio destinato al compimento di uno specifico affare (istituto

del tutto nuovo). Nel caso di strumenti finanziari partecipativi ad una patrimonio destinato si

prevede l’istituzione di un libro apposito per gli strumenti finanziari, cosa che non si prevede

quando gli strumenti finanziari siano emessi dalla società generale, e non con riferimento ad uno

specifico affare in relazione al quale è stato costituito il patrimonio destinato. Si prevede poi,

sempre per gli strumenti finanziari partecipativi emessi a fronte della creazione di un patrimonio

destinato, anche un’organizzazione di categoria molto simile a quella prevista per la categoria degli

obbligazionisti.

Vi è poi un ultima norma in tema di scissione della società, in cui troviamo gli strumenti finanziari

partecipativi. La scissione è quella operazione speculare alla fusione, in cui due società si fondono

dando vita ad un'unica società. La scissione si ha quando una società scinde una parte del suo

patrimonio per attribuirlo o ad una società già esistente, o ad una di nuova costituzione. La scissione

può anche essere globale. In caso di scissione nell’art. 2506-ter, in cui la legge prevede cosa devono

fare gli amministratori per preparare la scissione, si prevede anche che “Con il consenso unanime dei soci e

dei possessori di altri strumenti finanziari che danno diritto di voto nelle società partecipanti alla scissione l’organo amministrativo

può essere esonerato dalla redazione dei documenti previsti nei precedenti commi”.

Il quadro quindi è molto frammentato.

La fonte principale della disciplina degli altri strumenti finanziari, è essenzialmente lo statuto (tutto o

quasi tutto viene lasciato alla determinazione statutaria, ovvero a decisioni convenzionali di chi dà vita

alla società, come prevede anche l’art. 2346. Si prevede innanzitutto che siano indicate nello statuto le

modalità e le condizioni di emissione, specificando:

1. quali sono gli apporti consentiti a fronte dell’emissione di questi strumenti;

2. i diritti che conferiscono , se sono apporti di denaro o di beni; in caso di beni se sono in proprietà

o in godimento;

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3. la durata delle prestazioni in caso in cui gli apporti siano di prestazioni d’opera o di servizi, che

possono essere o continuative o a scadenza periodica;

4. la scadenza degli strumenti finanziari (può anche esservi una durata inferiore a quella della

società).

5. Deve essere previsto anche il carattere della prestazione; bisogna dunque stabilire se è una

prestazione che si esaurisce in un unico atto, o se è continuativa, o periodica; se è fungibile

(possono essere effettuate da chiunque) o infungibile (es. prestazione d’opera).

6. L’apporto deve sempre essere suscettibile di valutazione economica, deve dare un’utilità

economica alla società.

Un primo problema si presenta quando la legge stabilisce che l’emissione di questi strumenti finanziari

partecipativi debba essere prevista nello statuto, ma non si dice nulla su quale sia l’organo competente a

procedere effettivamente all’emissione di questi strumenti finanziari. A questo proposito si sono create

diverse opinioni:

Alcuni interpreti ritengono che questo potere sia riconosciuto all’assemblea

straordinaria, anche se la legge non prevede tra i suoi compiti questo. Si dice che anche se non sono

partecipazioni sociali, sono pur sempre strumenti destinati ad incidere, se pur indirettamente, sulle

condizioni dei soci, ed è quindi corretto che a deliberarne l’emissione sia l’assemblea straordinaria.

in alternativa, si riconosce questo potere agli amministratori, all’organo

amministrativo, perché si tratta pur sempre di una atto di gestione e come tale sempre attribuito in

via esclusiva all’organo amministrativo.

Quindi si ritiene che, formalmente, la competenza sia dell’assemblea straordinaria, ma si ammette

comunque la possibilità di delegare questo potere all’organo amministrativo.

Un’altro punto oscuro è quello del trattamento contabile da riservare a questi strumenti finanziari (è il

tema legato anche alla natura che si ritiene di dover attribuire all’apporto che viene effettuato a fronte

dell’emissione di questi strumenti). Se nell’apporto di beni o di denaro, si ritiene che non ci sia a fronte

dell’emissione di questi strumenti, un diritto di credito alla restituzione del capitale conferito, dal punto di

vista contabile gli apporti ottenuti dalla società non potranno essere considerati passivo reale della società

(non saranno cioè debiti della società se non c’è un diritto reale alla restituzione da parte di chi ha fornito

quella prestazione di capitale). Inoltre, sempre che non ci sia un diritto alla restituzione, i conferimenti

andranno ad incrementare il patrimonio sociale, e quindi si dovrà quindi costituire una riserva. Se gli

apporti sono d’opera o di servizi, non c’è nessun incremento del patrimonio e quindi non c’è nessuna

appostazione del patrimonio netto (in società non entra niente dal punto di vista patrimoniale). Quindi nel

momento in cui questi strumenti finanziari siano congeniati in modo che, chi sottoscrive debba versare

del denaro senza un diritto alla restituzione, questi strumenti finanziari potranno poi diventare una valida

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alternativa a quel fenomeno, molto diffuso nella pratica soprattutto nelle società a ristretta base azionaria,

e cioè dei cosiddetti versamenti da parti dei soci in conto capitale.

Altri strumenti finanziari partecipativi.

Art. 2346. (Emissione delle azioni). La partecipazione sociale è rappresentata da azioni; salvo diversa disposizione di leggi speciali lo statuto può escludere l’emissione dei relativi titoli o prevedere l’utilizzazione di diverse tecniche di legittimazione e circolazione. Se determinato nello statuto, il valore nominale di ciascuna azione corrisponde ad una frazione del capitale sociale; tale determinazione deve riferirsi senza eccezioni a tutte le azioni emesse dalla società. In mancanza di indicazione del valore nominale delle azioni, le disposizioni che ad esso si riferiscono si applicano con riguardo al loro numero in rapporto al totale delle azioni emesse. A ciascun socio è assegnato un numero di azioni proporzionale alla parte del capitale sociale sottoscritta e per un valore non superiore a quello del suo conferimento. L’atto costitutivo può prevedere una diversa assegnazione delle azioni. In nessun caso il valore dei conferimenti può essere complessivamente inferiore all’ammontare globale del capitale sociale. Resta salva la possibilità che la società, a seguito dell’apporto da parte dei soci o di terzi anche di opera o servizi, emetta strumenti finanziari forniti di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti. In tal caso lo statuto ne disciplina le modalità e condizioni di emissione, i diritti che conferiscono, le sanzioni in caso di inadempimento delle prestazioni e, se ammessa, la legge di circolazione.

Abbiamo già visto che la disciplina riguardante gli altri strumenti partecipativi non è sempre di facile

lettura. In base all’ultimo comma dell’art. 2346, questi altri strumenti finanziari partecipativi possono

essere dotati di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi. I diritti sul piano patrimoniale che

possono essere attribuiti ai possessori di questi strumenti sono analoghi a quelli che spettano ai soci:

- diritti che riguardano la ripartizione periodica degli utili;

- diritti che riguardano la quota di liquidazione, una volta che la società sia destinata ad estinguersi

o alla scadenza degli strumenti finanziari.

Non è detto che questi strumenti debbano avere una vita corrispondente a quella della società. Questo

principio vale invece per le azioni, salvo le azioni riscattabili. Gli altri strumenti finanziari partecipativi

dovrebbero avere una durata minore della durata della società; questo diventa inevitabile quando a fronte

dell’emissione di questi strumenti si prevedano accordi periodici o di durata (quindi la liquidazione dagli

strumenti finanziari in questo caso è separata dalla liquidazione del patrimonio sociale nel suo

complesso).

A questi strumenti può essere attribuita una partecipazione agli utili in senso tecnico; questo però pone

dei problemi non risolti dalla legge e che quindi sono del tutto affidati allo statuto. Il fatto che manchi una

disciplina imperativa da parte della legge e che si rimandi allo statuto lo stabilire delle regole riguardanti

gli altri strumenti finanziari partecipativi, rende il ricorso a questi strumenti non molto frequente.

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Alcuni hanno anche ipotizzato che, tra i diritti patrimoniali che possono essere attribuiti a questi strumenti

finanziari, ci sarebbe anche quello consistente nel riconoscere ai possessori (a certe condizioni e a certe

scadenze) il diritto di convertire questi strumenti in vere e proprie partecipazioni sociali, cioè in azioni.

Questa pratica in astratto e possibile, ma si creano problemi molto rilevanti:

come garantire al titolare di questi strumenti, che optasse successivamente alla conversione

in azioni, la disponibilità effettiva delle azioni

attribuire un diritto di conversione a chi abbia apportato, ad esempio, un bene, pone il

problema di valutazione del bene (tutti i conferimenti diversi dal denaro, necessitano di una stima

da parte di un esperto nominato dal tribunale). Questo per mantenere e garantire la logica

dell’effettività del capitale sociale: che non ci siano delle sopravvalutazioni dei beni conferiti che

porterebbero alla creazione del capitale sociale artificiale.

A questi strumenti, in aggiunta ai diritti patrimoniali, possono essere anche attribuiti diritti di tipo

amministrativo. Come dice l’ultimo comma dell’art. 2346 è escluso soltanto il voto nell’assemblea

generale degli azionisti. In sostanza, possono essere attribuiti tutti quei diritti amministrativi, salvo il voto

nell’assemblea generale degli azionisti, che possono essere attibuiti alle azioni: poteri di controllo, poteri

di impugnare le delibere assembleali, poteri di fare la denuncia al tribunale, diritto di dare autorizzazioni

per certe operazioni societarie.

Questa è una delle parti più oscure della disciplina (la possibilità di attribuire il voto a questi strumenti).

La difficoltà nasce dal confronto tra l’ultimo comma dell’art.2346, dove si prevede la possibilità di

attribuire diritti amministrativi con l’unica esclusione del voto nell’assemblea generale degli azionisti, e

l’ultimo comma dell’art. 2351, dove si dice che gli strumenti finanziari sia quelli del 2346 sia quelli del

2349 possono essere dotati del diritto di voto su argomenti specificamente indicati; ed in particolare può

essere ad essi riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente

del consiglio di amministrazione, o del consiglio di sorveglianza, o di un sindaco. Il problema diventa

quello di capire, coordinando queste due norme, che ruolo può evere il diritto di voto e soprattutto dove e

come si manifesta.

Art. 2351. (Diritto di voto). Ogni azione attribuisce il diritto di voto. Salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato a particolari argomenti, con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Il valore di tali azioni non può complessivamente superare la metà del capitale sociale.Lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio può prevedere che, in relazione alla quantità di azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato ad una misura massima o disporne scaglionamenti. Non possono emettersi azioni a voto plurimo. Gli strumenti finanziari di cui agli articoli 2346, sesto comma, e 2349, secondo comma, possono essere dotati del diritto di voto su argomenti specificamente indicati e in particolare può essere ad essi riservata, secondo modalità stabilite dallo statuto, la nomina di un componente indipendente del consiglio di amministrazione o del

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consiglio di sorveglianza o di un sindaco. Alle persone così nominate si applicano le medesime norme previste per gli altri componenti dell’organo cui partecipano.

Per quanto riguarda il caso che a questi strumenti sia attribuito il potere di nominare un amministratore

indipendente o un sindaco, il problema è di facile soluzione: in questo caso si ritiene che il voto per la

nomina di un amministratore indipendente o di un sindaco possa tranquillamente essere esercitato

nell’assemblea speciale dei possessori di strumenti finanziari partecipativi, facendo così salva quella

regola del 2346 che dice che essi non possono votare in assemblea generale.

Quando invece a questi strumenti sia attribuito il diritto di voto su argomenti specifici (argomenti di

competenza dell’assemblea dei soci), bisogna capire dove votano e come si calcola il loro voto. Alcuni

interpreti dicono che anche per questa ipotesi il voto viene esercitato nell’assemblea speciale dei

possessori di strumenti finanziari partecipativi. Me se nel caso della nomina di un amministratore

indipendente o di un sindaco sono solo i possessori di questi strumenti a votare, nel caso del diritto di

voto su argomenti specifici (per esempio sull’approvazione del bilancio) il voto spetta anche

all’assemblea. Liquidare il problema dicendo i possessori degli altri strumenti finanziari devono votare

nella loro assemblea speciale pone un problema radicale: succederebbe che ai possessori di questi

strumenti verrebbe attribuito una sorta del diritto di veto sulle decisioni dell’assemblea. In questo caso le

soluzioni possibili sono soltanto due:

1) continuare a dire che effettivamente questi strumenti finanziari votano nell’assemblea speciale, ma

stabilendo nello statuto quanto vale il voto espresso in questa assemblea speciale rispetto al voto

espresso dai soci nell’assemblea generale (creare un meccanismo di comparazione dei due voti).

2) soluzione preferibile: dire che l’espressione usata dal legislatore nell’art. 2346 non significa in

realtà che i titolari degli strumenti finanziari partecipativi non possano votare nell’assemblea

generale, ma soltanto dire che ad essi non può essere attribuito un potere di voto di portata

generale, ma solo un diritto di voto su argomenti specifici. Anche qui è necessario che nello

statuto sia indicato un tetto al diritto di voto complessivamente attribuito agli strumenti.

Per quanto riguarda l’emissione degli strumenti finanziari partecipativi la legge non stabilisce alcun

limite. (Questo è stato fatto dal legislatore in un’altra sede dove comunque possono esistere questi

strumenti finanziari partecipativi, cioè nell’ambito delle società cooperative. In questa sede la legge ha

dettato una disciplina molto più vasta e articolata rispetto a quella dettata per le S.p.A. L’art. 2526

prevede che l’atto costitutivo può prevedere l’emissione di altri strumenti finanziari e quando a questi sia

attribuito il diritto di voto, in ogni caso a questi strumenti non può essere attribuito più di 1/3 dei voti

spettanti complessivamente ai soci presenti in assemblea.)

Un altro problema molto grave non affrontato dalla legge è quello della tutela da riconoscere ai possessori

di questi strumenti finanziari. L’unica tutela espressa dalla legge è quella dell’art. 2376:

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Art. 2376. (Assemblee speciali). Se esistono diverse categorie di azioni o strumenti finanziari che conferiscono diritti amministrativi, le deliberazioni dell’assemblea, che pregiudicano i diritti di una di esse, devono essere approvate anche dall’assemblea speciale degli appartenenti alla categoria interessata.Alle assemblee speciali si applicano le disposizioni relative alle assemblee straordinarie.

Vi sono tutta una serie di operazioni che la società può compiere che sono in grado di recare un

pregiudizio ai possessori degli strumenti finanziari partecipativi. Per esempio, tutte le operazioni

straordinarie della società (la fusione, la scissione, la trasformazione).

Per esempio, nella trasformazione di un S.p.A. in una società non azionaria, gli strumenti finanziari

partecipativi, previsti solo per la S.p.A., dovrebbero sparire.

Un pregiudizio a questa categoria potrebbe aversi anchequando la società decide di aumentare il capitale

in maniera gratuita, cioè per il passagio di riserve a capitale: supponiamo che a questa categoria sia

riconosciuta una partecipazione all’utile; nel momento in cui si emettano nuove azioni gratuite,

aumentano quantitativamente i titoli che hanno diritto ad una quota degli utili.

I pregiudizi di fatto a danno degli strumenti finanziari partecipativi possono intervenire anche a seguito di

una cattiva gestione della società, visto che essi partecipano ai risultati dell’attività. Nell’ambito delle

azioni ci sono delle forme di tutela nei confronti di una gestione non diligente da parte degli

amministratori. Ma nulla di tutto questo è previsto per i possessori degli strumenti finanziari partecipativi.

Tutto quindi è affidato alla volontà degli statuti.

L’art. 2346 stabilisce anche che bisogna prevedere l’utilizzazione di diverse tecniche di legittimazione e circolazione. Questo significa che questi strumenti finanziari partecipativi non necessariamente devono essere incorporati in titoli destinati alla circolazione. In questo caso tali strumenti saranno trasferibili secondo le regole ordinarie della cessione del contratto. Quando le prestazioni previste a fronte dell’emissione di questi strumenti siano prestazioni infungibili, bisognerà prevedere condizioni, limiti o il divieto per il trasferimento. Un’altra cosa che la legge non disciplina per nulla è: cosa succede quando il titolare di questi strumenti si renda inadempiente alle prestazioni a cui si era obbligato. Tutta la disciplina del socio moroso si spiega per fatto che i conferimenti che fa il socio vanno a capitale, e allora tutte le volte che non c’è un versamento integrale dei conferimenti si crea un problema di frizione fra capitale nominale e capitale reale, e quindi di non effettività del capitale che la legge deve in qualche modo risolvere. Siccome gli apporti degli strumenti finanziari non vanno a capitale l’esigenza di garantire l’effettività non c’è. Il problema allora va risolto sul piano meramente contrattuale e i rimedi saranno quelli tipici dell’inadempimento dei contratti.

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C’è un’iltima questione radicale da affrontare: il problema del rapporto fra la disciplina degli strumenti finanziari partecipativi e l’ultimo comma dell’art. 2411 in tema di obbligazioni, che rende applicapile la disciplina di tutta la sezione dedicata alle obbligazioni a quelli strumenti finanziari comunque denominati che condizionino tempi e entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società. “La disciplina della presente sezione si applica inoltre agli strumenti finanziari, comunque denominati, che

condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società”.Si pone il problema di stabilire che natura abbia l’apporto che si effettua a fronte dell’emissione di questi strumenti finanziari. Bisognerebbe riuscire a trovare un modo per isolare la fattispecie “altri strumenti finanziari” rispetto alle azioni da un lato e alle obbligazioni dall’altro. Una possibilità per trovare uno spazio agli strumenti finanziari è quella di considerare che gli strumenti di cui all’art. 2346, dotati o meno che siano di diritti amministrativi, si caratterizzino per il fatto che sono emessi sempre a fronte di apporti di rischio, cioè di apporti che una volta effettuati, non vi è nessuna garanzia di restituzione al termine dell’operazione. Quindi una distinzione si baserebbe sulla natura dell’apporto. Si potrebbe concludere che l’elemento distintivo di questi strumenti finanziari partecipativi è il fatto che l’apporto è un apporto di capitale di rischio, un apporto che va a integrare il patrimonio della società. Così sarebbe ben chiara la distinzione nei confronti delle obbligazioni (nelle obbligazioni comunque, per quanto condizionato o subordinato, l’obbligazionista ha sempre diritto alla restituzione del capitale prestato alla società).E come si distinguono questi strumenti rispetto alle azioni? La natura dell’apporto è simile alla natura dei conferimenti, previsti per gli azionisti. La distinzione allora sarebbe: i conferimenti vanno a capitale invece gli apporti degli strumenti finanziari non sono capitalizzabili (vanno a patrimonio).Ma allora gli strumenti finanziari dell’art. 2346 non entrerebbero nella previsione dell’ultimo comma dell’art. 2411. Vi entrerebbero comunque dei prestiti, cioè degli apporti di capitale che comunque garantiscono in astratto la restituzione del capitale, che viene condizionato all’andamento economico dell società.

Art. 2411. (Diritti degli obbligazionisti). - Il diritto degli obbligazionisti alla restituzione del capitale ed agli interessi puòessere, in tutto o in parte, subordinato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società. I tempi e l’entità del pagamento degli interessi possono variare in dipendenza di parametri oggettivi anche relativi all’andamento economico della società.

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La disciplina della presente sezione si applica inoltre agli strumenti finanziari, comunque denominati, che condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società.

È stato usato un gioco di parole per non chiamare obbligazioni quelle che invece sarebbero obbligazioni.

C’è una lettura che vede negli strumenti finanziari degli strumenti che non attribuiscono alcun diritto alla

restituzione del capitale. A questo proposito si è obiettato che in questo modo si limiterebbe fortemente

l’autonomia statutaria che invece il legislatore ha voluto massima dettando l’ultimo comma dell’art. 2346.

Si limiterebbe fortemente perchè è chiaro che nel momento in cui si dicesse che quegli strumenti previsti

dall’art. 2346 non possono mai dare diritto al rimborso del capitale, significherebbe che tutti gli strumenti

che attribuiscono un diritto (anche condizionato) al rimborso del capitale starebbero fuori dalla previsione

dell’art 2346. Questo significherebbe che a questi non potrebbero mai essere attribuiti dei diritti

amministrativi, perchè in base alla disciplina delle obbligazioni non si possono attribuire agli

obbligazionisti diritti amministrativi.

Chi fa questo tipo di obiezione si pone anche dei problemi che così sorgono. Il fatto che l’ultimo comma

dell’art. 2411 rende applicabile l’intera sezione sulle obbligazioni a questi strumenti che condizionano i

tempi e l’entità del rimborao all’andamento economico della società, rende applicabile anche, per

esempio, la disciplina dei limiti all’emissione. Cioè anche per questi strumenti varrebbero i tetti

all’emissione delle obbligazioni previsti nell’art. 2412. Ma ci sono anche altre differenze: per gli

strumenti finanziari previsti dal 2346 è prevista l’assemblea speciale ai sensi dell’art. 2376; per le

obbligazioni c’è la previsione dell’assemblea speciale ma anche del rappresentante comune in base all’art.

2411. Sono tante le differenze.

Un tentativo di risolvere questo problema potrebbe essere quello di distinguere le tre possibilità:

1) se si emettono strumenti che attribuiscono un diritto al rimborso senza attribuire alcun diritto

amministrativo, allora non c’è dubbio che si applica integralmente la disciplina delle obbligazioni:

2) se si creano strumenti finanziari che attribuiscono un diritto al rimborso e che abbiano anche dei

diritti amministrativi, si avrebbe un’applicazione solo parziale della sezione sulle obbligazioni. La

si applica per quanto riguarda gli aspetti patrimoniali, ivi compresi anche i limiti all’emissione, ma

per la disciplina dei diritti amministrativi si dovrebbe applicare quello che è previsto negli artt.

2346, 2351 e 2376;

3) se si creano strumenti che non attribuiscono un diritto al rimborso, sia che attribuiscano diritti

amministrativi oppure no, non si applicherebbero mai i limiti previsti dal 2412.

Patrimoni destinati ad uno specifico affare.

I patrimoni destinati ad uno specifico affare sono disciplinati in una sessione nuova, inserita nel codice

con la riforma. In realtà, sotto questa comune etichetta la legge ha voluto disciplinare due fattispecie

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radicalmente diverse. Anche se sono comunate per il fatto che in entrambe si assiste ad un fenomeno di

separazione patrimoniale; un altro tratto comune è che in entrambe c’è una separazione finalizzata ad un

obiettivo, cioè una separazione che ha una destinazione specifica.

Art. 2447-bis. (Patrimoni destinati ad uno specifico affare). – La società può:a) costituire uno o più patrimoni ciascuno dei quali destinato in via esclusiva ad uno specifico affare;b) convenire che nel contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare al rimborso totale o parziale del finanziamento medesimo siano destinati i proventi dell’affare stesso, o parte di essi.Salvo quanto disposto in leggi speciali, i patrimoni destinati ai sensi della lettera a) del primo comma non possono essere costituiti per un valore complessivamente superiore al dieci per cento del patrimonio netto della società e non possono comunque essere costituiti per l’esercizio di affari attinenti ad attività riservate in base alle leggi speciali.

Le due fattispecie sono ben chiare e sono indicate nelle lettere a) e b) del primo comma dell’art.2447-bis.a) Il primo caso viene definito modello operativo dei patrimoni destinati – all’interno del patrimonio dell società, si isola una parte di patrimonio, che viene separata dal restante patrimonio e destinata allo svolgimento di uno specifico affare. La legge prevede che quando la società decida di costituire un patrimonio destinato, si possa anche prevedere una partecipazione finanziaria da parte di terzi e anche l’eventuale emissione di strumenti finanziari partecipativi all’affare a cui è destinato il patrimonio(art. 2447-ter):

Art. 2447-ter. (Deliberazione costitutiva del patrimonio destinato). - La deliberazione che ai sensi della lettera a) del primo comma dell’articolo 2447-bis destina un patrimonio ad uno specifico affare deve indicare:a) l’affare al quale è destinato il patrimonio;b) i beni e i rapporti giuridici compresi in tale patrimonio;c) il piano economico-finanziario da cui risulti la congruità del patrimonio rispetto alla realizzazione dell’affare, lemodalità e le regole relative al suo impiego, il risultato che si intende perseguire e le eventuali garanzie offerte ai terzi;d) gli eventuali apporti di terzi, le modalità di controllo sulla gestione e di partecipazione ai risultati dell’affare;e) la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecinuita pazione all’affare, con la specifica indicazione dei diritti che attribuiscono;f) la nomina di una società di revisione per il controllo contabile sull’andamento dell’affare, quando la società non èassoggettata alla revisione contabile ed emette titoli sul patrimonio diffusi tra il pubblico in misura rilevante ed offerti ad investitori non professionali;g) le regole di rendicontazione dello specifico affare.Salvo diversa disposizione dello statuto, la deliberazione di cui al presente articolo è adottata dal consiglio di amministrazione o di gestione a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

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L’utilità di questo tipo di operazioni è nella compartimentazione dei rischi: coloro che acquisiscono dei crediti nei confronti della società, nello svolgimento di uno specifico affare, possono rifarsi solamente sulla parte del patrimonio isolata e destinata all’affare in questione; non possono aggredire il restante patrimonio della società. b) la seconda ipotesi è totalmente diversa – “la società può convenire che nel contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare al rimborso totale o parziale del finanziamento medesimo siano destinati i

proventi dell’affare stesso, o parte di essi”. Questo vuol dire che tutti gli eventuali utili, che scaturiranno dall’affare in questione serviranno per coprire il finanziamento fatto all’affare stesso. Nel primo caso la separazione riguarda il patrimonio stesso della società (scissione endosocietaria); nel secondo caso ciò che viene separato non è una parte del patrimonio della società, ma sono i proventi di un affare rispetto a tutto il resto dell’attività.

I vantaggi delle operazioni di questo tipo sono chiari: la facilitazione che così si può ottenere nell’ottenimento di un credito – a fronte dell’illustrazione di un affare che ha buone possibilità di portare provventi, sapendo che comunque quei proventi saranno inataccabili da soggetti terzi, il finanziatore può convincersi di effettuare il finanziamento anche in assenza di garanzie specifiche.Sono due fenomeni completamente diversi: separazione patrimoniale nel primo caso, e separazione dei proventi di un affare nel secondo caso. Si può notare che il legislatore mostra una qualche preferenza per il secondo modello perchè nel comma 2 dell’art.2447-bis dice che i patrimoni destinati ai sensi della lettera a) del primo comma non possono essere costituiti per un valore complessivamente superiore al dieci per cento del patrimonio netto della società e non possono comunque essere costituiti per l’esercizio di affari attinenti ad attività riservate in base alle leggi speciali. Per questo tipo di soluzione la legge pone dei limiti, mentre per quanto riguarda il ricorso alla seconda opzione non c’è alcun limite.Patrimoni destinati.Cominciamo con l’analisi della prima fattispecie, che è anche quella che ha la disciplina più ampia nella legge. Qui siamo di fronte ad una novità assoluta della riforma (i finanziamenti destinati c’erano anche prima - finanza di progetto). La novità della riforma è che oggi questa separazione all’interno di un patrimonio di un’unico soggetto, può realizzarsi in tutte le S.p.A., non soltanto in determinati settori o per un certo tipo di operazioni.

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In questo caso all’unità soggettiva corrisponde una pluralità di patrimoni separati.

I PATRIMONI DESTINATI (SEGUE).

La possibilità del frazionamento del patrimonio è una facoltà di tutte le S.p.A., e quindi diventa un

normale modello operativo per ogni società di questo tipo. In qualche modo, la scelta di costituire un

patrimonio destinato equivale, come obiettivo e come funzione, alla costituzione di una nuova società. La

stessa relazione ministeriale alla riforma imposta il discorso in questi termini, in quanto attraverso

l’istituto dei patrimoni destinati si vuole evitare che, ogni volta che una società abbia la volontà di

perseguire una certa operazione economica, e non volesse subire integralmente i rischi di questa nuova

attività economica, debba creare una società nuova alla quale conferire una parte del patrimonio. La

creazione di un patrimonio destinato dovrebbe essere meno costosa rispetto alla costituzione di una nuova

società, ma nella disciplina dei patrimoni destinati ci sono tutta una serie di obblighi e oneri che la società

deve eseguire, rischiando di sostenere dei costi economici sostanzialmente paragonabili a quelli della

costituzione di una nuova società.

Potendo destinare una parte del patrimonio allo svolgimento di un certo affare in qualche modo si

aumentano le garanzie per coloro che entrano in contatto con la società relativamente a quel affare: coloro

che diventeranno creditori della società in relazione a quel affare determinato, per il quale è stato

costituito il patrimonio destinato, hanno un diritto esclusivo di soddisfare il loro credito sul patrimonio

destinato. Si ha così una garanzia supplementare che può facilitare la concessione di credito alla società.

Oltretutto, la garanzia è anche accentuata dal fatto che, non solo quel patrimonio non può essere aggredito

da altri creditori della società, ma anche gli stessi incrementi del patrimonio che si realizzano nello

svolgimento dell’affare rimangono a garanzia di coloro che hanno un credito relativamente allo

svolgimento di quel affare.

La possibilità di separare all’interno del complessivo patrimonio sociale una parte di esso per fare un

patrimonio autonomo e separato, mantenendo l’unicità del soggetto titolare, pone una serie di problemi:

sia nella fase fisiologica di attività della società - problemi di natura societaria

sia nell’eventuale fase patologica di vita della società, cioè quando la società dovesse entrare in

crisi e diventare insolvente, o specularmene quando è l’affare a cui il patrimonio è destinato che

va male e il patrimonio separato diviene insolvente.

Innanzitutto si cerca di identificare quali sono gli elementi che realizzano la possibilità di creare un

patrimonio separato. La legge dice che si può costituire uno o più patrimoni, se destinati in via esclusiva

ad uno “specifico affare”. Il fatto che questo affare deve essere specifico significa che deve essere una

operazione determinata , distinta e distinguibile dalla residua attività della società. Per quanto riguarda,

invece il termine “affare”, deve trattarsi evidentemente di un’operazione che sia in grado di produrre

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guadagni; allora si intende un insieme di atti giuridici coordinati in un’attività; l’affare è una operazione

economica naturalmente destinata a compiersi a esaurirsi.

Il problema è allora capire se il legislatore ha usato il termine affare in merito ai patrimoni destinati

proprio in questa accezione così ristretta, perché è chiaro che se così fosse, si restringerebbe molto il

campo e la possibilità di utilizzare lo strumento del patrimonio destinato.

Anche in questo caso gli interpreti si sono divisi:

A favore di una tesi più restrittiva concependo l’affare come un’operazione economica

naturalmente destinata a chiudersi, a completarsi, c’è un argomento abbastanza forte: riguarda le

azioni correlate disciplinate nell’ art 2350. co.2(Diritto agli utili e alla quota di liquidazione) Fuori dai casi di cui

all’articolo 2447-bis, la società può emettere azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività sociale in un

determinato settore. Lo statuto stabilisce i criteri di individuazione dei costi e ricavi imputabili al settore, le modalità di

rendicontazione, i diritti attribuiti a tali azioni, nonché l’eventuali condizioni e modalità di conversione in azioni di altra categoria.

Sono una particolare categoria di azioni che si caratterizza per il fatto che partecipano ai risultati

patrimoniali ed economici soltanto relativamente ad un determinato settore dell’attività della

società. Per le azioni correlate la legge usa il termine settore, mentre invece per i patrimoni

destinati si usa l’espressione specifico affare.

Dovendo tenere per buona questa distinzione e quindi affermare che il legislatore ha scientemente

usato questi due termini diversi, dovremmo dire che la costituzione di un patrimonio destinato si

ha solo quando abbiamo un’operazione che non necessariamente deve finire a breve, ma

comunque deve essere un’operazione che si chiude.

Da parte di altri interpreti viene valutata questa distinzione tra settore → azioni correlate e affare

specifico → patrimonio destinato, sulla base soprattutto della considerazione secondo cui il

legislatore dichiara, nella relazione che accompagna la riforma, di creare l’istituto dei patrimoni

destinati come alternativa alla costituzione di una nuova società. Da questo punto di vista quindi

molti tendono a dire che nel termine “affare specifico” il sostantivo affare è usato in modo

generico, cioè affare può anche essere un settore o un ramo d’azienda non necessariamente deve

essere un’operazione destinata a compiersi.

Quello che va tenuto presente, per evitare equivoci, è che comunque si voglia interpretare il termine

affare, il fatto che in ogni caso rimane unico il soggetto società che svolge questo affare accanto alla sua

normale attività; non c’è dubbio che l’attività cui viene destinato il patrimonio che si separa deve essere

un’attività, sia come specifico affare in senso stretto sia come settore (che rientra nel soggetto sociale

della società); non può essere superato il limite dell’oggetto sociale proprio perché il soggetto rimane

unico. Se si dovesse procedere ad intraprendere attività, non originariamente comprese nell’oggetto

sociale, deve esserci una modifica statutaria che le introduca nell’oggetto sociale, altrimenti sarebbe

illegittima la costituzione di un patrimonio destinato.

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La legge pone dei limiti alla possibilità di costituire patrimoni destinati. I limiti sono sostanzialmente di

due tipi:

1. limite di tipo quantitativo . Si trova indicato nell’art 2447-bis co.2 (Patrimoni destinati ad uno specifico affare) Salvo

quanto disposto in leggi speciali, i patrimoni destinati ai sensi della lettera a) del primo comma non possono essere costituiti per un

valore complessivamente superiore al dieci per cento del patrimonio netto della società e non possono comunque essere costituiti

per l’esercizio di affari attinenti ad attività riservate in base alle leggi speciali.

Considerando tutti i patrimoni destinati, a cui una società da vita, non può mai essere superato il 10% del

patrimonio netto. Questa limitazione contraddice quella volontà, dichiarata dal legislatore, di predisporre,

attraverso questo nuovo istituto, uno strumento alternativo alla costituzione di una nuova società. Qui il

problema nasce per il fatto che la legge, a differenza di altri casi in cui si tratta di valutare il valore del

patrimonio netto o comunque il valore della società, non impone, nel momento in cui si intende dar vita

ad un patrimonio destinato, la redazione di un bilancio ad hoc (nulla viene detto in merito alla redazione

di un bilancio straordinario). Rimane quindi aperto il problema se sia sufficiente riferirsi all’ultimo

bilancio regolarmente approvato, oppure se comunque sia opera degli amministratori, dato che la

costituzione di un patrimonio destinato è di loro competenza, accertare, attraverso un bilancio che rimane

interno, se effettivamente quel valore del patrimonio netto si è mantenuto oppure se è andato parzialmente

perduto dall’ultimo bilancio approvato.

Meno chiaro è il concetto di “valore complessivo dei patrimoni destinati”. Qui sorge subito un problema:

se nella costituzione di un patrimonio destinato sia possibile trasferire solo attività o anche le passività. È

chiaro che le conseguenze sono radicalmente diverse a seconda della strada adottata: se si adotta la strada

secondo cui è possibile trasferire anche le passività, quel limite del 10% del patrimonio netto diventa un

limite evanescente.

Gli interpreti sostengono entrambe le tesi:

La prima, che consentirebbe di destinare al patrimonio anche le passività, ha a suo vantaggio il discorso

che fa il legislatore volendo creare uno strumento alternativo alla costituzione di una nuova società (non

c’è dubbio che se come conferimento in una società viene conferito un ramo d’azienda, questo è formato

da attivo e passivo). C’è anche un dato testuale a favore di questa tesi in quanto nell’art 2447-ter. (Deliberazione

costitutiva del patrimonio destinato). La deliberazione che ai sensi della lettera a) del primo comma dell’articolo 2447-bis destina un

patrimonio ad uno specifico affare deve indicare …

b) i beni e i rapporti giuridici compresi in tale patrimonio;

Quindi non solo vengono trasferiti beni ma anche rapporti giuridici.

La seconda tesi ritiene che siano trasferibili al patrimonio destinato soltanto componenti attivi del

patrimonio. Il primo argomento a favore usato dagli interpreti è che, consentendo anche il trasferimento

delle passività, di fatto quel limite del 10% è un limite privo di senso. In secondo luogo, se fosse

consentito trasferire anche passività e quindi debiti al patrimonio destinato, si avrebbe l’effetto che alcuni

creditori della società, già esistenti al momento della costituzione del patrimonio destinato, vedrebbero

restringere la loro garanzia (nel patrimonio destinato viene trasferito il credito che un soggetto ha nei

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confronti della società; in questo modo la garanzia del suo credito diventa il patrimonio destinato e non

tutto il patrimonio della società).

È venuta anche ad emergere una posizione intermedia tra queste due: sostiene che non si può negare la

possibilità di trasferire anche le passività al patrimonio destinato, ma si dice che quel rapporto di 1 a 10,

che la legge vuole mantenere, andrebbe calcolato prendendo a riferimento, non il saldo tra attività e

passività trasferite, ma solo la parte attiva, per evitare che il termine del 10% perda di qualsiasi

significato.

La legge non prevede nulla per quanto riguarda il momento in cui potrebbe verificarsi la rottura del

rapporto di 1 a 10, nella fase successiva alla costituzione del patrimonio destinato. Si conclude quindi che

questo effetto non produce alcuna conseguenza. La legge non impone di verificare periodicamente che

questo limite del 10% rispetto al patrimonio netto, permanga nella vita del patrimonio desinato, è

sufficiente che questo rapporto ci sia al momento in cui il patrimonio destinato viene costituito. Quando

vengono costituiti patrimoni destinati in epoche diverse, è ovvio che, ogni volta che viene costituito un

patrimonio nuovo, andrà verificata la sussistenza del rapporto di 1 a 10. Il problema a questo punto è: nel

calcolare se un soggetto sta costituendo un patrimonio destinato nel limite del 10% del patrimonio netto

della società, in questo ultimo bisogna conteggiare anche i patrimoni destinati già costituiti, perché sono

comunque patrimoni destinati che fanno parte del patrimonio complessivo della società e quindi fanno

parte del patrimonio netto. Volendo mantenere un senso al limite del 10%, si dovrebbe dire che in questo

caso bisogna escludere i patrimoni già esistenti.

2. limite che riguarda l’oggetto dell’attività nell’art 2447-bis co.2 (Patrimoni destinati ad uno specifico affare) Salvo

quanto disposto in leggi speciali, i patrimoni destinati ai sensi della lettera a) del primo comma non possono essere costituiti per un

valore complessivamente superiore al dieci per cento del patrimonio netto della società e non possono comunque essere costituiti

per l’esercizio di affari attinenti ad attività riservate in base alle leggi speciali.

La legge vuole evitare che, attraverso la costituzione dei patrimoni destinati, si eludano quei vincoli che la

legge impone per l’esercizio di una determinata attività. Questa previsione si ritiene superflua: essendo

comunque unico il titolare, ciò che si va a fare con il patrimonio destinato deve essere qualcosa che ha a

che fare con l’oggetto sociale. Ci può essere solo un margine per cui si può mantenere il senso di questa

previsione: con riferimento all’attività finanziaria, la legge impone lo svolgimento di tale attività solo a

società con determinate caratteristiche e cioè quando l’attività finanziaria sia svolta in via principale e nei

confronti di un pubblico. Ecco che nella realtà si usa inserire negli statuti della società, accanto ad un

certo oggetto sociale, al possibilità di svolgere anche tutte le attività finanziarie in relazione a questo

oggetto sociale, che siano strumentali al perseguimento dell’oggetto stesso, purché non le svolga in via

permanente.

Il potere di costituire patrimoni destinati appartiene naturalmente all’organo amministrativo art 2447-ter co.2

(Deliberazione costitutiva del patrimonio destinato). Salvo diversa disposizione dello statuto, la deliberazione di cui al presente articolo è

adottata dal consiglio di amministrazione o di gestione a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

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Nel caso di costituzione del patrimonio destinato è necessario un quorum deliberativo, cioè una

maggioranza di voti, che sia almeno pari alla maggioranza dei componenti del consiglio amministrativo.

La legge non richiede che la costituzione di patrimoni destinati sia prevista nello statuto. Il potere

concesso agli amministratori è quindi un potere non condizionato in alcun modo, nel senso che non

essendoci la necessità di una previsione statutaria, non c’è neppure la necessità che lo statuto indichi

come e quando si può costituire un patrimonio destinato. L’unico limite che hanno gli amministratori

nella loro discrezionalità di decidere sulla costituzione di un patrimonio destinato, è quello previsto dalla

legge. Si accentua quindi la centralità di questo organo nello svolgimento complessivo dell’attività della

società. Questo è l’unico caso di un patrimonio separato che è amministrato dallo stesso organo e quindi

dagli stessi soggetti che amministrano anche la società. Questo è inevitabile data l’unicità del soggetto,

dove i gestori della società sono gli stessi gestori dell’affare cui viene destinato una parte del patrimonio.

Nella normalità dei casi quando si realizza una separazione patrimoniale la gestione del patrimonio

separato è affidata a soggetti diversi dal titolare del patrimonio principale.

Come si diceva prima dall’art 2447-ter co.2 (Deliberazione costitutiva del patrimonio destinato). Salvo diversa disposizione dello

statuto, la deliberazione di cui al presente articolo è adottata dal consiglio di amministrazione o di gestione a maggioranza assoluta dei suoi

componenti. Da qui si vede che, se lo statuto lo prevede, competente alla costituzione di un patrimonio

separato potrebbe essere un organo diverso dal consiglio di amministrazione.

La delibera di costituzione è una delibera che dal contenuto complesso; e la legge prevede tutta una serie

di dati, notizie ed informazioni che devono essere contenute nella delibera di costituzione. È norma

imperativa, cui non si può derogare. L’art 2447-ter co.1. (Deliberazione costitutiva del patrimonio destinato). La deliberazione

che ai sensi della lettera a) del primo comma dell’articolo 2447-bis destina un patrimonio ad uno specifico affare deve indicare:

a) l’affare al quale è destinato il patrimonio;

b) i beni e i rapporti giuridici compresi in tale patrimonio;

c) il piano economico-finanziario da cui risulti la congruità del patrimonio rispetto alla realizzazione dell’affare, le modalità e le regole

relative al suo impiego, il risultato che si intende perseguire e le eventuali garanzie offerte ai terzi;

d) gli eventuali apporti di terzi, le modalità di controllo sulla gestione e di partecipazione ai risultati dell’affare;

e) la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione all’affare, con la specifica indicazione dei diritti che attribuiscono;

f) la nomina di una società di revisione per il controllo contabile sull’andamento dell’affare, quando la società non è assoggettata alla

revisione contabile ed emette titoli sul patrimonio diffusi tra il pubblico in misura rilevante ed offerti ad investitori non professionali;

g) le regole di rendicontazione dello specifico affare.

Le uniche due voci di questo elenco che non necessariamente devono comparire sono quelle contenute

nella lettera d) ed e), perché le previsioni in esse contenute sono delle possibilità che possono o meno

verificarsi.

In caso non vengano rispettate queste regole dell’art. 2447-ter, si va a guardare la norma successiva - art

2447-quater.co.1 (Pubblicità della costituzione del patrimonio destinato). - La deliberazione prevista dal precedente articolo deve essere

depositata e iscritta a norma dell’articolo 2436.

Art 2436. (Deposito, iscrizione e pubblicazione delle modificazioni). Il notaio che ha verbalizzato la deliberazione di modifica dello statuto,

entro trenta giorni, verificato l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge, ne richiede l’iscrizione nel registro delle imprese

contestualmente al deposito e allega le eventuali autorizzazioni richieste.

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L’ufficio del registro delle imprese, verificata la regolarità formale della documentazione, iscrive la delibera nel registro.

Se il notaio ritiene non adempiute le condizioni stabilite dalla legge, ne dà comunicazione tempestivamente, e comunque non oltre il termine

previsto dal primo comma del presente articolo, agli amministratori. Gli amministratori, nei trenta giorni successivi, possono convocare

l’assemblea per gli opportuni provvedimenti oppure ricorrere al tribunale per il provvedimento di cui ai successivi commi; in mancanza la

deliberazione è definitivamente inefficace.

Il tribunale, verificato l’adempimento delle condizioni richieste dalla legge e sentito il pubblico ministero, ordina l’iscrizione nel registro

delle imprese con decreto soggetto a reclamo.

La deliberazione non produce effetti se non dopo l’iscrizione.

Dopo ogni modifica dello statuto deve esserne depositato nel registro delle imprese il testo integrale nella sua redazione aggiornata.

Si prevede quindi che le modifiche dello statuto siano redatte da un notaio che esegue un controllo di

legittimità sulla delibera e, solo ad esito positivo di questo controllo, chiede l’iscrizione nel registro delle

imprese della delibera stessa.

La legge richiama questa norma anche nel caso della costituzione di patrimoni destinati, che non

rappresentano una modifica dello statuto, ma sono in qualche modo parificati alla modifica di statuto.

Quindi si ritiene che ciò comporti l’integrale applicazione della norma dell’ Art 2436 e quindi ivi compreso

il controllo del notaio sulla legittimità della deliberazione.

Altri rimedi in caso di violazione dell’ art 2447-ter sono nella impugnabilità della delibera dell’organo

amministrativo. Mentre prima della riforma la legge prevedeva esplicitamente una sola ipotesi in cui si

poteva impugnare la delibera dell’organo amministrativo (in caso di delibera assunta con il voto

determinante di un amministratore in conflitto di interessi), dopo la riforma tutte le deliberazioni

dell’organo amministrativo sono impugnabili, quando siano viziate, anche dai soci l’art 2388 uc. (Validità delle

deliberazioni del consiglio) Le deliberazioni che non sono prese in conformità della legge o dello statuto possono essere impugnate solo dal

collegio sindacale e dagli amministratori assenti o dissenzienti entro novanta giorni dalla data della deliberazione; si applica in quanto

compatibile l’articolo 2378. Possono essere altresì impugnate dai soci le deliberazioni lesive dei loro diritti; si applicano in tal caso, in quanto

compatibili, gli articoli 2377 e 2378 In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione

delle deliberazioni.

Siccome è certo che la creazione di un patrimonio destinato potenzialmente può ledere i diritti dei soci,

anche i soci possono impugnare una delibera illegittima di costituzione di un patrimonio destinato.

La semplice deliberazione di costituzione di un patrimonio destinato non realizza la separazione

patrimoniale immediatamente; perché la separazione patrimoniale si realizza solo dopo che siano passati

due mesi dall’iscrizione della delibera stessa nel registro delle imprese e sempre che nel frattempo i

creditori della società non abbiano fatto opposizione.

Data la mancanza di un capitale minimo nel caso di patrimonio destinato, si spiega la necessità di

congruità tra i beni destinati e ciò che si vuole fare con quei beni. Quindi c’è la necessità di una

valutazione iniziale del patrimonio per ciò che la società si prefigge di fare attraverso quel patrimonio.

Una volta che ci sia una valutazione iniziale adeguata sulla congruità dei mezzi rispetto all’affare che si

intende svolgere, non c’è necessità alcuna su limiti ulteriori in corso d’opera per il mantenimento di

questo rapporto di congruità fra mezzi e scopi che si vuole perseguire. Solo quando, per effetto di perdite,

l’affare diventasse impossibile da realizzare, ci sono delle conseguenze.

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Potrebbe darsi che la delibera costitutiva preveda una responsabilità aggiuntiva della società, che quindi

non risponderebbe solo con il patrimonio destinato, ma risponderebbe anche con il complesso del suo

patrimonio.

La delibera costitutiva del patrimonio destinato, è adottata dall’organo amministrativo, salvo diversa

disposizione dello statuto.

Art. 2447-ter. (Deliberazione costitutiva del patrimonio destinato). La deliberazione che ai sensi della lettera a) del primo comma

dell’articolo 2447-bis destina un patrimonio ad uno specifico affare deve indicare:

a) l’affare al quale è destinato il patrimonio;

b) i beni e i rapporti giuridici compresi in tale patrimonio;

c) il piano economico-finanziario da cui risulti la congruità del patrimonio rispetto alla realizzazione dell’affare, le modalità e le regole

relative al suo impiego, il risultato che si intende perseguire e le eventuali garanzie offerte ai terzi;

d) gli eventuali apporti di terzi, le modalità di controllo sulla gestione e di partecipazione ai risultati dell’affare;

e) la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione all’affare, con la specifica indicazione dei diritti che attribuiscono;

f) la nomina di una società di revisione per il controllo contabile sull’andamento dell’affare, quando la società non è assoggettata alla

revisione contabile ed emette titoli sul patrimonio diffusi tra il pubblico in misura rilevante ed offerti ad investitori non professionali;

g) le regole di rendicontazione dello specifico affare. Salvo diversa disposizione dello statuto, la deliberazione di cui al presente articolo è

adottata dal consiglio di amministrazione o di gestione a maggioranza assoluta dei suoi componenti. gestione e di partecipazione ai risultati

dell’affare;

Nella delibera degli amministratori con cui si costituisce il patrimonio destinato, deve essere contenuta

anche la nomina di una società di revisione (questo solo nel caso in cui la società non sia già soggetta a

revisione da parte di un revisore esterno).

Con la riforma la legge ha previsto che in tutte le S.p.A., per ciò che riguarda il controllo contabile, debba

essere nominato un revisore esterno; mentre, soltanto per le S.p.A. che non fanno ricorso al mercato del

rischio, è possibile che, per espressa previsione statutaria, anche il controllo contabile rimanga al collegio

sindacale.

Se una società che non far ricorso al mercato e che ha scelto di mantenere il controllo in capo al collegio

sindacale, decide di costituire un patrimonio destinato, deve nominare una società di revisione. Questo

accade dunque, quando la società non si già soggetta al controllo di un società di revisione, e quando la

delibera di costituzione del patrimonio destinato preveda l’emissione di titoli partecipativi al patrimonio.

L’ultima lettera dell’art. 2447- ter prevede che nella delibera di costituzione siano anche indicate le

regole di rendicontazione dello specifico affare.

E’evidente che quando si costituisce un patrimonio destinato, separando una parte del patrimonio della

società, c’è una categoria di soggetti che possono subire un pregiudizio da questa operazione (i creditori

sociali). Nel momento in cui si separa una parte del patrimonio, su questa i creditori generali della società

non potranno più agire per ottenere la soddisfazione del loro credito, e quindi con la costituzione del

patrimonio si vedono diminuite le loro garanzie. C’è quindi un problema di tutela dei creditori sociali,

quando si delibera la costituzione di un patrimonio destinato. 10

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Art. 2447-quater. (Pubblicità della costituzione del patrimonio destinato). - La deliberazione prevista dal precedente articolo deve essere

depositata e iscritta a norma dell’articolo 2436.

Nel termine di sessanta giorni dall’iscrizione della deliberazione nel registro delle imprese i creditori sociali anteriori all’iscrizione possono

fare opposizione. Il tribunale, nonostante l’opposizione, può disporre che la deliberazione sia eseguita previa prestazione da parte della

società di idonea garanzia.

Il primo elemento di tutela è dato dal 2 c. dell’art. 2447-quater, dove si dice che i creditori sociali

hanno diritto di presentare opposizione alla costituzione del patrimonio destinato entro 2 mesi

dall’iscrizione della delibera di costituzione nel registro delle imprese. Questo significa che la

delibera di costituzione del patrimonio non è immediatamente eseguibile, efficace (la sua efficacia è

sospesa per 2 mesi).

(In sostanza questo è un regime molto simile alla disciplina che la legge prevede per il caso di riduzione

effettiva del capitale. In base all’art. 2445 infatti, quando la società deliberi una riduzione effettiva del

capitale (che non è una riduzione per perdite), ossia una riduzione che comporti la restituzione di parte dei

conferimenti ai soci, anche qui la delibera non è immediatamente efficace perché deve essere lasciato il

tempo ai creditori di fare opposizione.)

Art. 2447-quinquies. (Diritti dei creditori). - Decorso il termine di cui al secondo comma del precedente articolo ovvero dopo l’iscrizione

nel registro delle imprese del provvedimento del tribunale ivi previsto, i creditori della società non possono far valere alcun diritto sul

patrimonio destinato allo specifico affare nè, salvo che per la parte spettante alla società, sui frutti o proventi da esso derivanti.

Qualora nel patrimonio siano compresi immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri, la disposizione del precedente comma non si

applica fin quando la destinazione allo specifico affare non è trascritta nei rispettivi registri.

Qualora la deliberazione prevista dall’articolo 2447-ter non disponga diversamente, per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico

affare la società risponde nei limiti del patrimonio ad esso destinato. Resta salva tuttavia la responsabilità illimitata della società per le

obbligazioni derivanti da fatto illecito.

Gli atti compiuti in relazione allo specifico affare debbono recare espressa menzione del vincolo di destinazione; in mancanza ne risponde la

società con il suo patrimonio residuo.

L’art. 2447 quinquies dice poi che…. Decorso il termine di cui al secondo comma del precedente articolo ovvero dopo

l’iscrizione nel registro delle imprese del provvedimento del tribunale ivi previsto, i creditori della società non possono far valere alcun

diritto sul patrimonio destinato allo specifico affare né, salvo che per la parte spettante alla società, sui frutti o proventi da esso derivanti.

Quindi decorsi i 60gg, si determina l’effetto di separazione, per cui la delibera di costituzione del

patrimonio produce effetti. La legge prevede un’ulteriore possibilità, ossia che il tribunale, nonostante

l’opposizione, possa disporre che la deliberazione possa essere eseguita previa prestazione di idonee

garanzie da parte della società.

Per quanto riguarda l’opposizione alla delibera, i creditori devono essere in grado di dimostrare che la

diminuzione del patrimonio (patrimonio che per loro è una garanzia) pregiudica la possibilità di ottenere

soddisfazione del loro credito; e che allo stesso tempo la garanzia che la società può offrire e sulla base

della quale il tribunale potrebbe decidere di superare l’opposizione, non sussiste. Questa garanzia deve

riguardare il soddisfacimento di quei creditori che hanno fatto opposizione. In questo modo la legge

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ritiene che siano garantiti i diritti dei creditori sociali, che potenzialmente subiscono pregiudizio ogni

qualvolta la società decida di separare una parte del suo patrimonio per dar vita ad un patrimonio

destinato.

Gli effetti conseguenti alla costituzione di patrimonio destinato:

L’art. 2447 quinquies, stabilisce che si determinano effetti su due versanti:

1. Tutto ciò che va a confluire nel patrimonio destinato non è più aggredibile dai creditori della

società. Allo stesso modo i creditori della società non possono agire, oltre che sui beni, neppure

sui proventi dell’affare, salvo su quei proventi che spettino alla società, e che quindi vanno a

confluire nel patrimonio sociale generale.

2. I creditori particolari del patrimonio destinato, cioè coloro che sono diventati creditori della

società per obblighi relativi allo specifico affare cui si riferisce il patrimonio destinato,

possono rivalersi, per avere soddisfazione del proprio credito, solo sul patrimonio destinato.

Si crea un'impermeabilità dei due patrimoni, che può tuttavia essere sottoposta a delle eccezioni:

→ La legge prevede che nella stessa deliberazione di costituzione della società sia prevista una

responsabilità della società stessa, con il suo restante patrimonio, per tutte o per alcune delle obbligazioni

relative alla gestione dello specifico affare: 3.c art. 2447-quinquies “Qualora la deliberazione prevista dall’articolo

2447-ter non disponga diversamente, per le obbligazioni contratte in relazione allo specifico affare la società risponde nei limiti del

patrimonio ad esso destinato. Resta salva tuttavia la responsabilità illimitata della società per le obbligazioni derivanti da fatto illecito ”. È

ovvio che, se si fa questa scelta, la separazione dei patrimoni è parziale, o, meglio, rimane integra solo a

vantaggio dei creditori particolari del patrimonio destinato.

→ La legge prevede 3 c. art 2447-quinquies che ”Resta salva tuttavia la responsabilità illimitata della società per le

obbligazioni derivanti da fatto illecito”. In questo caso l’impermeabilità non c’è mai, perché è una norma

imperativa, e vale in ogni caso in cui si verifica un fatto illecito.

Si ricorda dal diritto privato che gli obblighi di un soggetto possono derivare da diverse fonti, ma le

fondamentali sono il contratto (atto di volontà) oppure il fatto illecito. La separazione patrimoniale opera

solo per le obbligazioni sorte da contratto e non per quelle derivanti da fatto illecito.

→ Ultimo comma art. 2447-quinquies “Gli atti compiuti in relazione allo specifico affare debbono recare espressa menzione

del vincolo di destinazione; in mancanza ne risponde la società con il suo patrimonio residuo”. Bisogna indicare quindi che su

quell’atto c’è un vincolo di destinazione, in modo che la controparte sappia che per gli obblighi sociali

non può rifarsi su tutto il patrimonio della società, ma solo su quello del patrimonio destinato.

→ Sul versante del diritto esclusivo dei creditori particolari di soddisfarsi sui beni del patrimonio

destinato, con esclusione degli altri creditori della società per fatti diversi dall’affare specifico cui è

destinato il patrimonio, bisogna ricordare che questi beni devono essere beni immobili o beni mobili

iscritti in pubblici registri. La separazione patrimoniale si determina infatti, non tanto per effetto della

delibera di costituzione del patrimonio destinato, ma solo dal momento in cui il vincolo di destinazione

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viene trascritto nei pubblici registri. Sono infatti beni le cui vicende e proprietà devono risultare dai

pubblici registri. Qui la legge fa prevalere la pubblicità sulla sostanza. La trascrizione quindi ha una

funzione di pubblicità. Applicando al patrimonio destinato questo principio, la legge ha voluto dire che se

non si effettua la pubblicità attraverso l’annotazione nel registro degli immobili registrati, i creditori della

società sono legittimati a rivalersi anche su quei beni che sono stati destinati ad uno specifico affare

patrimonio destinato.

Il 1° com. art 2447-quinquies prevede che i creditori generali della società, non solo non possono vantare

alcun diritto sui beni, ma anche sui proventi dell’affare, se non nei limiti dei proventi che spettano alla

società. Se non c’è partecipazione di terzi all’affare, il problema non sussiste e tutti i proventi dell’affare

andranno alla società. Se, invece, ci sono dei terzi, prima che i proventi dello specifico affare possano

essere attribuiti alla società, vanno soddisfatti i diritti di tutti coloro che partecipano all’affare; soltanto

l’eventuale eccedenza potrà andare a favore della società, e concorrerà a determinare il risultato

complessivo dell’esercizio sociale. Si ritiene sia possibile, quando si delibera la costituzione di un

patrimonio destinato, che si possa prevedere che tutti i proventi derivanti dall’affare specifico cui il

patrimonio è destinato, una volta soddisfatti i terzi partecipanti, debbano essere destinati

all’autofinanziamento dell’affare stesso a cui si riferisce il patrimonio destinato.

Sempre per effetto di questa separazione patrimoniale, nell’ipotesi in cui l’attività generale della società

abbia prodotto utili, mentre l’affare cui si destina il patrimonio destinato abbia prodotto perdite, l’utile

prodotto dalla società non viene eroso dalle perdite del patrimonio destinato, e quindi sarà tutto

distribuibile ai soci secondo le regole generali.

La costituzione di un patrimonio destinato comporta dei rilevanti aspetti contabili di cui bisogna tener

conto: gli artt. 2447 sexies e septies sono dedicati proprio alla disciplina di questi aspetti. L’art 2447

sexies stabilisce che “gli amministratori o il consiglio di gestione tengono separatamente i libri e le scritture contabili prescritti dagli

articoli 2214 e seguenti” (ossia le scritture e contabili obbligatorie per l’imprenditore commerciale), con

riferimento allo specifico affare, e ciò vale per ogni specifico affare che sia stato costituito. Si ha quindi

una duplicazione di tutte le scritture contabili; lo stesso vale per tutti gli altri obblighi conseguenti, relativi

alla redazione e conservazione delle scritture che incombono all’imprenditore commerciale. Questa è una

delle ragioni per cui molti hanno dubitato della convenienza di dar vita ad un patrimonio destinato,

piuttosto che ad una nuova società.

I beni che confluiscono nel patrimonio destinato dovranno essere indicati nel libro inventari del

patrimonio destinato, ed inoltre dovranno essere rivalorizzati secondo il valore che avevano nel

patrimonio della società, cioè quello che risultava dalla contabilità generale della società. Se ci sono

anche apporti di terzi, anche questi dovranno essere sempre indicati e valorizzati. Per i beni l’unico

possibile riferimento è il valore di mercato degli stessi.

E’vero che c’è una duplicazione di patrimoni e quindi di scritture contabili, ma è anche vero che il

soggetto rimane uno solo, poiché il titolare è sempre la stessa società, e quindi tutti i dati della contabilità

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separata che bisogna tenere per il patrimonio destinato, dovranno alla fine confluire nella contabilità

generale della società.

Un problema che si pone quando si destina un patrimonio, riguarda i criteri per imputare i costi comuni

delle attività. E’ chiaro che quando si individua uno specifico affare e per il compimento di questo si

destina un patrimonio, il fine è quello di ottenere un contenimento dei costi (che non si avrebbe con la

creazione, per l’esecuzione dell’affare, di una nuova società). Con la costituzione del patrimonio destinato

si può centralizzare tutta una serie di servizi comuni, che servono sia per l’attività principale sia per

l’affare specifico. Sorge però il problema di come vengono imputati pro-quota questi costi comuni. A

questo proposito l’art. 2447-septies, prevede:Art. 2447-septies. (Bilancio). - I beni e i rapporti compresi nei patrimoni destinati ai sensi della lettera a) del primo comma dell’articolo

2447-bis sono distintamente indicati nello stato patrimoniale della società.

Per ciascun patrimonio destinato gli amministratori redigono un separato rendiconto, allegato al bilancio, secondo quanto previsto dagli

articoli 2423 e seguenti. Nella nota integrativa del bilancio della società gli amministratori devono illustrare il valore e la tipologia dei beni e

dei rapporti giuridici compresi in ciascun patrimonio destinato, ivi inclusi quelli apportati da terzi, i criteri adottati per la imputazione degli

elementi comuni di costo e di ricavo, nonché il corrispondente regime della responsabilità.

Qualora la deliberazione costitutiva del patrimonio destinato preveda una responsabilità illimitata della società per le obbligazioni contratte

in relazione allo specifico affare, l’impegno da ciò derivante deve risultare in calce allo stato patrimoniale e formare oggetto di valutazione

secondo criteri da illustrare nella nota integrativa.

Gli amministratori nella nota integrativa del bilancio sociale devono indicare i criteri adottati per

l’imputazione degli elementi comuni di costo e ricavo; ed è a ciò che probabilmente si riferisce la lettera

g) dell’art. 2447 ter (contenuto obbligatorio della delibera di costituzione del patrimonio, dove parla delle

regole di rendicontazione dello specifico affare). Si può così dire che gli amministratori devono sin

dall’inizio con la delibera indicare come si procederà all’imputazione dei costi comuni. Normalmente

succede che è la società ad anticipare, con il suo restante patrimonio, delle spese che poi parzialmente

sono imputabili al patrimonio destinato. Bisogna dire che la società, per le somme che ha anticipato,

somme che sono imputabili a servizi resi a favore del patrimonio destinato, deve comunque concorrere

con gli altri creditori particolari del patrimonio destinato per farsi pagare i corrispettivi di questi servizi.

La legge stabilisce poi, accanto all’obbligo di tenuta delle scritture contabili separate per il patrimonio

destinato, che per ciascun patrimonio destinato gli amministratori redigano un rendiconto separato, che

deve essere allegato al bilancio d’esercizio della società. In realtà questo rendiconto è un vero e proprio

bilancio separato che si deve fare con riferimento all’affare cui è destinato il patrimonio. E’ un documento

che deve essere redatto nel rispetto degli artt. 2423 e seguenti. Questo “bilancio” ha una particolarità: non

sarà composto dalle parti di cui è composto il bilancio d’esercizio, e cioè stato patrimoniale, conto

economico e nota integrativa, ma sarà composto unicamente da stato patrimoniale e conto economico; i

dati che dovrebbero essere compresi in una ipotetica nota integrativa del bilancio del patrimonio destinato

devono essere ripresi nella nota integrativa del bilancio generale della società.

Si è visto, anche se è solo un’eventualità, che nel patrimonio destinato possono confluire anche apporti di

terzi. Nel bilancio del patrimonio destinato, se questi apporti sono apporti di denaro o di beni in proprietà, 11

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il relativo importo andrà considerato all'attivo del bilancio, e per i beni si dovranno seguire i criteri, che

bisogna utilizzare per l’ammortamento dei beni nei bilanci delle società. Se si tratta invece di apporto di

beni in mero godimento, bisogna capitalizzare il canone dell’utilizzo del bene per il periodo di tempo in

cui l’apporto in godimento fornito da parte del terzo è rimasto nel patrimonio destinato. Se gli apporti

sono d’opera o di servizi, ossia di obbligazioni di fare, non c'è nessuna iscrizione all’attivo.

Si potrebbe immaginare che per gli apporti di terzi che confluiscono nel patrimonio destinato, sia previsto

un diritto di restituzione. Cioè il terzo apporta una somma di denaro sotto forma di finanziamento, che

implica l’obbligo di restituzione del denaro quando cessa il patrimonio destinato. Questa somma non

andrà iscritta all'attivo del bilancio del patrimonio destinato, ma andrà scritta al passivo, perché è un

debito della società.

Tutte le volte, invece, in cui non sia prevista la restituzione dell’apporto e questo confluisca nel

patrimonio destinato, a fronte dell'attivo ci sarà una riserva nel bilancio.

Tutto ciò che va nel patrimonio destinato è pur sempre della società, non cambia il proprietario, e quindi

nel redigere il bilancio generale della società bisogna rifarsi all’art. 2447-septies 1°c: “I beni e i rapporti

compresi nei patrimoni destinati ai sensi della lettera a) del primo comma dell’articolo 2447-bis sono distintamente indicati nello stato

patrimoniale della società”. La legge, per non creare confusione, impone in questo caso di indicarli

distintamente, cioè non confonderli con gli altri beni e rapporti della società.

Il 1°c. dell’art. 2447-septies parla solo di stato patrimoniale della società, non dice nulla del conto

economico. Si discute se il fatto che ci si un patrimonio destinato, abbia influenza anche sul conto

economico e sul modo di rappresentare in questo i dati, o meno. Qui si aprono due possibilità:

1. o si ritiene che nel Conto Economico si possa inserire un’unica voce riassuntiva dei risultati attivi

o negati del patrimonio destinato,

2. oppure che, anche nel Conto Economico, ci debba essere un’indicazione analitica e distinta delle

varie voci riguardanti il patrimonio destinato, così come la legge impone di fare per lo stato

patrimoniale

Sembra più corretta la seconda versione, anche per mantenere la coerenza e la simmetria dell’intero

bilancio. Se è necessaria un’indicazione separata e analitica delle voci dello SP, ossia dei beni e dei

rapporti che confluiscono nel patrimonio destinato, è corretto che altrettanto analitica sia l’indicazione nel

CE dei risultati d’esercizio del patrimonio destinato.

Un altro problema delicato e di cui la legge non si fa per nulla carico è quello delle conseguenze che può

avere la costituzione di un patrimonio destinato rispetto alle regole di conservazione del capitale sociale

nella società. Nel momento in cui nasce il patrimonio destinato la legge prescrive soltanto che a questo

non sia attribuito più del 10% del patrimonio netto della società, la legge quindi non fa distinzione fra

capitale e altre poste del netto. Si potrebbe quindi anche ipotizzare che, una società che ha come netto

semplicemente il capitale sociale, e in sostanza non ha riserve, costituisca un patrimonio destinato,

destinando ad esso una parte del capitale reale, cioè un parte di quell’attivo che corrisponde al capitale

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sociale nominale. L’effetto di questa operazione è che una parte del capitale sociale è sottratta ai creditori

sociali e riservata solo ai creditori particolari del patrimonio destinato.

La legge, per garantire l’effettività del capitale sociale, prevede che, quando la società registra delle

perdite oltre 1/3, diventa obbligatorio ridurre il capitale per perdite in modo da registrare un diverso

livello di capitale.

Ma cosa succede quando si costituisce un patrimonio destinato?

E’ vero che il patrimonio destinato è pure sempre patrimonio della società, ma è anche vero che è

riservato alla soddisfazione dei creditori particolari, e che le perdite della società non possono andare ad

incidere su quel patrimonio. Questo è un problema ancora aperto, perché la legge non lo risolve, e che

forse, nel silenzio della legge, non si può che risolvere sul piano formale. Sul piano formale tutto rimane

patrimonio della società, e quindi i parametri per stabilire se la società è obbligata a ridurre il capitale per

perdite, o addirittura a reintegrare il capitale per evitare lo scioglimento, qualora il capitale reale sia sceso

al di sotto del limite previsto dalla legge (minimo per quel tipo di società), devono essere definiti

utilizzando il criterio formale, quello cioè di vedere complessivamente il patrimonio della società

comprendendovi anche il patrimonio destinato.

A fronte della costituzione di patrimonio destinato la società può emettere strumenti finanziari

partecipativi ai risultati dello specifico affare cui si riferisce il patrimonio destinato. Per questi particolari

strumenti finanziari la legge prevede e disciplina un’apposita organizzazione della categoria (art. 2447-

octies).Art. 2447-octies. (Assemblee speciali). - Per ogni categoria di strumenti finanziari previsti dalla lettera e) del primo comma dell’articolo

2447-ter l’assemblea dei possessori delibera:

1) sulla nomina e sulla revoca dei rappresentanti comuni di ciascuna categoria, con funzione di controllo sul regolare andamento dello

specifico affare, e sull’azione di responsabilità nei loro confronti;

2) sulla costituzione di un fondo per le spese necessarie alla tutela dei comuni interessi dei possessori degli strumenti finanziari e sul

rendiconto relativo;

3) sulle modificazioni dei diritti attribuiti dagli strumenti finanziari;

4) sulle controversie con la società e sulle relative transazioni e rinunce;

5) sugli altri oggetti di interesse comune a ciascuna categoria di strumenti finanziari.

Alle assemblee speciali si applicano le disposizioni contenute negli articoli 2415, secondo, terzo, quarto e quinto comma, 2416 e 2419.

Al rappresentante comune si applicano gli articoli 2417 e 2418.

La legge prevede un’organizzazione in assemblee speciali della categoria dei possessori di strumenti

finanziari partecipativi relativi al patrimonio destinato; assemblea che nomina un rappresentante comune

della categoria. In sostanza è una disciplina che ricalca in larga misura l’organizzazione prevista per gli

obbligazionisti. Anche qui l’assemblea speciale delibera sulle modificazioni dei diritti attribuiti dagli

strumenti finanziari, così come l’assemblea speciale degli obbligazionisti delibera sulle modificazioni

delle condizioni generali del prestito.

Quello che è particolare, è che in questo caso si prevede che la società, che eventualmente possieda

strumenti finanziari partecipativi (perché la società può farsi lei stessa acquirente di strumenti finanziari

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partecipativi al proprio patrimonio destinato), non possa votare in assemblea speciale con gli strumenti

finanziari di cui sia entrata in possesso.

Cessazione del patrimonio destinato.

Un altro aspetto molto delicato riguarda la cessazione dell’attività svolta attraverso il patrimonio

destinato, ed in particolare gli effetti che si producono nei confronti dei creditori. La chiusura dell'attivo

che si svolge per il patrimonio destinato non presenta particolari problemi quando il patrimonio, al

termine dell’affare, risulti sufficiente a soddisfare in maniera integrale tutti i creditori particolari, cioè

quelli che sono divenuti tali per obblighi assunti dalla società con riferimento a quello specifico affare.

Più complessa è la situazione che si determina quando lo stesso patrimonio non sia sufficiente a pagare

integralmente i creditori particolari.

Si ha cessazione di un patrimonio destinato, quando l’affare alla cui realizzazione era stato destinato il

patrimonio si realizza ovvero (art. 2447-novies) “è divenuto impossibile l’affare cui è stato destinato un patrimonio”. Lo

stesso articolo prevede poi che, la stessa delibera che costituisce il patrimonio destinato preveda

eventualmente altre ipotesi di cessazione, (ultimo comma art. 2447 novies): La deliberazione costitutiva del

patrimonio destinato può prevedere anche altri casi di cessazione della destinazione del patrimonio allo specifico affare . Una terza

ipotesi di cessazione si ha per il fallimento della società. Riassumendo quindi il patrimonio destinato

cessa innanzitutto quando:

1. si realizza l’affare per cui fu costituito il patrimoni;

2. si registra l’impossibilità di realizzare l’affare, altre ipotesi possono essere previste

convenzionalmente nella delibera;

3. c’è il fallimento della società.

Sul fallimento della società, come causa di cessazione del patrimonio destinato, è intervenuto di recente il

legislatore - 9.01.2006 riforma diritto fallimentare, dove, tra le norme di riforma, ve ne sono anche alcune

dedicate ai patrimoni destinati.

Tornando all’ipotesi dell’impossibilità di realizzazione dell’affare, essa può essere materiale o giuridica

(es. l’affare cui è destinato il patrimonio è diventata un’attività che la legge considera illecita, o che

riserva solo a speciali categorie di soggetti). Vi possono essere altre cause che determinano la cessazione

e che vengono stabilite nella stessa delibera di costituzione. Queste però non devono essere cause

meramente potestative, (ovvero non può essere indicato nella delibera che la società cessa quando lo

vuole), devono essere indicate cause che siano oggettivamente ricavabili. Quando si verifica una causa di

cessazione convenzionale o di legge la conseguenza è che gli amministratori hanno l’obbligo di redigere

un rendiconto finale dell’affare che deve essere accompagnato da una relazione dei sindaci e del revisore

della società e poi registrata nel registro delle imprese.

Cessazione del patrimonio destinato (segue).

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La legge prevede, che il patrimonio cessi quando l’affare si realizza, ovvero quando l’affare non puo più

realizzarsi. Queste sono le due principali cause di cessazione. La legge prevede che la stessa delibera di

costituzione del patrimonio destinato possa prevedere altre cause di cessazione.

Accanto a quelle gia citate c’e un’ulteriore causa data dal fallimento della societa. Il legislatore e

nuovamente intervenuto su questo ultimo aspetto: con la recentissima riforma della legge fallimentare

sono state dettate delle regole per il fallimento di società che abbia costituito patrimoni destinati. Il primo

effetto del determinarsi di una causa di cessazione è l’obbligo per gli amministratori della societa (che

sono anche gli amministratori del patrimonio destinato) di redarre il rendiconto finale, che deve essere

accompagnato anche dalla redazione dei sindaci e da quella della societa di revisione. Questo insieme di

documenti deve essere depositato nel registro delle imprese. Proseguendo la disciplina diventa abbastanza

oscura. Ciò, soprattutto, mettendo in correlazione il primo comma con i successivi commi secondo e

terzo. Il legislatore ha voluto prevedere una scissione tra il momento in cui cessa la destinazione

patrimoniale e il momento in cui cessa la separazione patrimoniale. Il patrimonio destinato è un

patrimonio non semplicemente separato. In caso di patrimonio destinato la separazione è una separazione

qualificata, nel senso che è un patrimonio esclusivamente destinato al compimento di un certo affare - c’è

un vincolo di destinazione. Quindi ci sono due aspetti:

- la destinazione del patrimonio alla realizzazione di un certo affare,

- la separazione del patrimonio rispetto al restante patrimonio.

Ciò che cessa, quando si verifica una causa di cessazione e gli amministratori redigono il rendiconto

finale, in realtà è soltanto la destinazione del patrimonio. Nel terzo comma dell’art. 2447-novies: “Sono

comunque salvi, con riferimento ai beni e rapporti compresi nel patrimonio destinato, i diritti dei creditori previsti dall’articolo 2447-

quinquies.” È ovvio che se questo patrimonio destinato è in grado di soddisfare integralmente i creditori

particolari (che sono divenuti tali per operazioni, per atti relativi allo svolgimento dell’affare a cui si

riferisce il patrimonio), l’eventuale patrimonio separato residuo, torna a confondersi con il restante

patrimonio della società. Il problema sorge quando il patrimonio destinato non è in grado di soddisfare

integralmente i creditori particolari (comma 2): “Nel caso in cui non siano state integralmente soddisfatte le obbligazioni

contratte per lo svolgimento dello specifico affare cui era destinato il patrimonio, i relativi creditori possono chiederne la liquidazione

mediante lettera raccomandata da inviare alla societa entro novanta giorni dal deposito di cui al comma precedente. Si applicano in tal caso,

in quanto compatibili, le disposizioni sulla liquidazione della societa.” Se è mancata l’integrale soddisfazione, ferma la

cessazione della destinazione, il patrimonio rimasto deve essere liquidato su richiesta dei creditori

particolari. Sul ricavato di questa opera di liquidazione si soddisfaranno in tutto o in parte i creditori

particolari. La cosa da notare è che questa liquidazione non è automatica ma deve essere chiesta dai

creditori particolari. La legge non prevede l’eventualità che i creditori non chiedano la liquidazione. Ma

c’è anche un termine perentorio di 90 giorni. Tutti gli interpreti si sono espressi sul fatto che sarebbe stato

meglio prevedere, in ogni caso, la liquidazione del patrimonio (cioe tutte le volte che si verifichi che non

c’è stata la soddisfazione integrale dei creditori particolari). I creditori quindi hanno un onere gravoso,

cioè quello di attivarsi entro novanta giorni dal momento in cui è stato depositato il rendiconto finale da

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parte degli amministratori, per chiedere che si liquidino i beni del patrimonio in modo da potersi

soddisfare il più possibile. Quando si procede su richiesta dei creditori alla liquidazione del patrimonio,

essa deve avvenire secondo le regole della liquidazione della società (come se il patrimonio destinato

fosse una società).

Il rendiconto finale che gli amministratori devono fare è un vero e proprio bilancio finale e quindi un

documento che comprende lo SP e il CE. In realtà non è un bilancio di liquidazione perchè la liquidazione

è solo eventuale.

Tra le cause che determinano la cessazione della destinazione, la legge cita anche il fallimento della

società. La legge parla solo di fallimento della società e non dice nulla su cosa debba succedere ai

patrimoni destinati quando la società, invece che al fallimento, sia ammessa ad altre procedure (es:

concordato preventivo, amministrazione straordinaria).

In base all’ultimo comma dell’art. 2447-novies: “La deliberazione costitutiva del patrimonio destinato può prevedere anche altri casi di cessazione della destinazione del patrimonio allo specifico affare. In tali ipotesi ed

in quella di fallimento della società si applicano le disposizioni del presente articolo.” Su questa situazione è intervenuta la riforma della Legge fallimentare con due articoli che hanno sostituito gli articoli 155 e 156 della Legge fallimentare. Qui il legislatore, sul presupposto del fallimento della società, ha distinto due fattispecie:

1) Art. 155 - fallita la società, il patrimonio destinato sia rimasto capiente (sufficiente a soddisfare tutti i creditori particolari), l’amministrazione del patrimonio destinato è attribuita al curatore che vi provvede con gestione separata. [Quando viene dichiarato il fallimento di un imprenditore, egli perde la possibilità di amministrare e di disporre del suo patrimonio. L’amministrazione e la disponibilità del patrimonio passa all’organo che si chiama curatore fallimentare.] La regola è che il curatore subentri alla società nell’amministrazione del patrimonio destinato con gestione separata. Quindi rimane la separazione, e sembrerebbe che vada avanti anche l’affare cui è destinato il patrimonio. Dal secondo comma dell’art.155 si ricava che il curatore ha davanti a sé solo due alternative per quanto riguarda la gestione del patrimonio destinato:

- cedere a terzi il patrimonio secondole regole dell’art. 107 della Legge fallimentare, “al fine di conservarne la funzione produttiva” . Quindi dovrebbe essere una vendita in blocco.

- se la prima alternativa non è possibile, il curatore deve liquidare il patrimonio secondo le regole della liquidazione della società (mentre il restante patrimonio seguirà le regole di liquidazione fallimentare). Ciò che il curatore riuscirà a ricavare dalla vendita del patrimonio destinato

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andrà a soddisfare i creditori particolari. Il curatore potrà riportare nel patrimonio della società solo ciò che residua dopo il pagamento dei creditori particolari

Si vede che qui c’è una variante rispetto a quanto stabilito dall’art. 2447-novies, nel senso che in base a quest’ultimo, la liquidazione del patrimonio era solo un’eventualità per il caso di patrimonio incapiente. 2) Art. 156 - il caso in cui il patrimonio destinato si riveli incapiente (non

sufficiente a soddisfare integralmente i creditori): se al tempo del fallimento della società o nel corso della gestione il curatore rileva che il patrimonio destinato è incapiente, il curatore provvede, previa autorizzazione del giudice delegato, alla liquidazione del patrimonio secondo le regole della liquidazione della società. Non è del tutto chiaro il perchè dell’unica alternativa: nulla permette escludere la possibilità di procedere anche qui ad una vendita in blocco (MA ciò non è previsto in questo caso). Nella delibera di costituzione del patrimonio destinato è possibile anche prevedere che ci sia, per tutte o solo per alcune obbligazioni del patrimonio destinato, una responsabilità sussidiaria da parte della società. In caso di presenza di tale responsabilità sussidiaria, quei creditori particolari che, a seguito della liquidazione del patrimonio, non sono stati in grado di soddisfarsi integralmente, avranno diritto di insinuarsi al passivo del fallimento della società.

Il punto su cui, sia il 2447-novies sia queste nuove leggi fallimentari, sicuramente concordano è che il

patrimonio destinato, anche in caso di fallimento della società, viene sempre liquidato secondo le regole

della liquidazione di una società. Non si applicano mai al patrimonio destinato le regole fallimentari.

Fino ad adesso abbiamo visto l’ipotesi in cui la società vada male fino a diventare insolvente e fallisca;

invece il patrimonio sia capiente o incapiente. Si potrebbe dare, però, anche una situazione speculare: la

società è solvente ma diviene insolvente il patrimonio destinato. Questa fattispecie non è espressamente

prevista dalla legge. Ma si può dedurre dall’art. 2447-novies che la legge abbia voluto escludere la

possibilità che venga dichiarato il fallimento del patrimonio destinato. È vero che il nostro sistema

fallimentare prevede il fallimento dei soggetti titolari dell’attività d’impresa. Il patrimonio destinato, pur

essendo isolato dal restante patrimonio della società, è privo di una soggettività giuridica, cioè non è un

soggetto di diritto. Quindi secondo il regime tradizionale, bisognerebbe dire che neppure si dovrebbe

porre il problema del fallimento di un patrimonio destinato. Negli ultimi tempi da parte di molti interpreti

si è tentato di spostare il fallimento dal piano soggettivo a quello oggettivo. Alcuni sono anche arrivati a

dire che proprio i patrimoni destinati potrebbero essere il caso del fallimento di un’attività e non di un

soggetto. Ma ciò che la legge dice con l’art. 2447-novies dovrebbe far escludere a priori questa

possibilità. Questo finisce col creare una situazione di disparità di trattamento tra diversi patrimoni (tutti

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comunque destinati all’esercizio di un attività commerciale): chi è creditore di un patrimonio destinato è

creditore comunque di un’attività economica (ma non può chiedere il fallimento), così come è creditore di

un’attività economica chi è creditore della società in generale (può chiedere il fallimento).

Finanziamenti destinati. “La società può... convenire che nel contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare al rimborso totale o parziale del finanziamento medesimo siano destinati i proventi dell’affare stesso, o parte di essi.”

Art. 2447-decies. (Finanziamento destinato ad uno specifico affare). - Il contratto relativo al finanziamento di uno specificoaffare ai sensi della lettera b) del primo comma dell’articolo 2447-bis può prevedere che al rimborso totale o parziale del finanziamento siano destinati, in via esclusiva, tutti o parte dei proventi dell’affare stesso.Il contratto deve contenere:a) una descrizione dell’operazione che consenta di individuarne lo specifico oggetto; le modalità ed i tempi di realizzazione;i costi previsti ed i ricavi attesi;b) il piano finanziario dell’operazione, indicando la parte coperta dal finanziamento e quella a carico della società;c) i beni strumentali necessari alla realizzazione dell’operazione;d) le specifiche garanzie che la società offre in ordine all’obbligo di esecuzione del contratto e di corretta e tempestiva realizzazione dell’operazione;e) i controlli che il finanziatore, o soggetto da lui delegato, può effettuare sull’esecuzione dell’operazione;f) la parte dei proventi destinati al rimborso del finanziamento e le modalità per determinarli;g) le eventuali garanzie che la società presta per il rimborso di parte del finanziamento;h) il tempo massimo di rimborso, decorso il quale nulla più è dovuto al finanziatore.I proventi dell’operazione costituiscono patrimonio separato da quello della società, e da quello relativo ad ogni altra operazione di finanziamento effettuata ai sensi della presente disposizione, a condizione:a) che copia del contratto sia depositata per l’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese;b) che la società adotti sistemi di incasso e di contabilizzazione idonei ad individuare in ogni momento i proventi dell’affare ed a tenerli separati dal restante patrimonio della società.Alle condizioni di cui al comma precedente, sui proventi, sui frutti di essi e degli investimenti eventualmente effettuati in attesa del rimborso al finanziatore, non sono ammesse azioni da parte dei creditori sociali; alle medesime condizioni, delle obbligazioni nei confronti del finanziatore risponde esclusivamente il patrimonio separato, tranne l’ipotesi di garanzia parziale di cui al secondo comma, lettera g).I creditori della società, sino al rimborso del finanziamento, o alla scadenza del termine di cui al secondo comma, lettera h) sui beni strumentali destinati alla realizzazione dell’operazione possono esercitare esclusivamente azioni conservativea tutela dei loro diritti.Se il fallimento della società impedisce la realizzazione o la continuazione dell’operazione cessano le limitazioni di cui al comma precedente, ed il finanziatore ha diritto di insinuazione al passivo per il suo credito, al netto delle somme di cui ai commi terzo e quarto.Fuori dall’ipotesi di cartolarizzazione previste dalle leggi vigenti, il finanziamento non può essere rappresentato da titoli destinati alla circolazione. La nota integrativa alle voci di bilancio relative ai proventi di cui al terzo comma, ed ai beni di cui al quarto comma, deve contenere l’indicazione della destinazione dei proventi e dei vincoli relativi ai beni.

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Siamo di fronte ad una particolare forma di finanziamento, cioè una particolare forma di prestito che la

società ottiene. L’obiettivo è quello di consentire alla società di ricorrere al credito, nella prospettiva di

una futura liquidità proveniente dallo svolgimento di uno specifico affare. Siamo di fronte ad una

garanzia vista in prospettiva della reddittività dell’affare che viene finanziato (non c’è la garanzia

patrimoniale, che c’è di solito per gli altri finanziamenti).

In questo caso, a differenza di quanto accade nel patrimonio destinato, la separazione patrimoniale ha

l’effetto limitato: è alla restituzione del finanziamento. Qui il senso della separazione patrimoniale è

quello di garantire la restituzione del finanziamento. Non è del tutto chiaro, dalla norma, a che cosa debba

riferirsi il finanziamento. Un investimento nuovo che una volta realizzato, se va a buon fine, produrra dei

proventi da usare in tutto o in parte per restituire il prestito ottenuto dal finanziatore. Questo

finanziamento non può essere utilizzato dalla società per coprire generiche necessità finanziarie. Quello

che la legge sembra abbia voluto prevedere è il caso di una società che deve fare una nuova operazione,

per lo svolgimento della quale necessita di un finanziamento, che viene destinato esclusivamente a questa

nuova operazione economica, con la previsione e la garanzia per il finanziatore che tutti i proventi

derivanti dalla nuova operazione saranno destinati alla restituzione del prestito stesso

Vanno tenuti distinti i tempi (che devono essere necessariamente precisati nel contratto di finanziamento)

dell’investimento che la società intende fare e in relazione a cui si chiede il finanziamento e i tempi

dell’attività economica, resa possibile dal finanziamento.

Giuridicamente, il finanziamento destinato va qualificato (secondo alcuni) come un mutuo di scopo,

oppure come associazione in partecipazione (secondo altri).

Mentre la creazione di un patrimonio destinato è frutto di un atto unilaterale della società (una delibera

del consiglio di amministrazione), il finanziamento destinato nasce da un contratto di finanziamento

stipulato tra la società e il soggeto che si rende disponibile a finanziare quella determinata operazione

economica. Per i finanziamenti la legge disciplina il contenuto che deve avere il contratto di

finanziamento. La legge prevede in parte un contenuto obbligatorio e in parte meramente eventuale:

una descrizione dell’operazione che consenta di individuarne lo specifico oggetto; le modalità ed i tempi di realizzazione; i costi previsti ed i ricavi attesi. L’operazione che la società vuole farsi finanziare deve essere un’operazione che rientra nell’oggetto sociale e deve trattarsi di un affare nuovo per la società.

un piano finanziario dell’operazione, indicando la parte coperta dal finanziamento e quella a carico della società. Può darsi che l’operazione sia integralmente finanziata dal terzo, oppure che il finanziamento copra solo parzialmente i costi preventivati dell’operazione (in questo caso il restante costo dell’operazione rimane a carico della società). Se si sceglie questa seconda strada, e cioè del finanziamento parziale, la società dovrà provare nel piano finanziario, inserito nel contratto, di essere in grado, con le sue

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risorse interne, di finanziare quella pqrte dell’operazione che non è coperta dal finanziamento del terzo (altrimenti il terzo non finanzia).

devono anche essere indicati i beni strumentali necessari alla realizzazione dell’operazione.

deve essere indicato, quali sono le specifiche garanzie che la società offre in ordine all’obbligo di esecuzione del contratto e di corretta e tempestiva realizzazione dell’operazione. Questo particolare viene inserito nel contratto di finanziamento nell’interesse del finanziatore che deve essere sicuro che la società sia in grado di eseguire quel investimento correttamente e nei termini previsti. Guardando il punto sucessivo si capisce che il contratto di cui qui si parla, non è il contratto di finanziamento, ma un contratto che si riferisce in particolare all’operazione (un eventuale contratto concluso per dare corso all’operazione); altrimenti sarebbe una ripetizione.

devono essere indicate nel contratto anche le eventuali garanzie che la società presta per il rimborso di parte del finanziamento.

devono essere anche indicati quali sono i controlli che il finanziatore, o soggetto da lui delegato, può effettuare sull’esecuzione dell’operazione. Anche questo è strumentale a garantire al finanziatore che la società, una volta ottenuto il finanziamento, lo destini alla realizzazione dell’operazione. Il controllo sarà poi ovviamente molto diverso a seconda del tipo di operazione a cui il finanziamento è finalizzato.

bisogna indicare quale parte dei proventi è destinata al rimborso del finanziamento e le modalità per determinarli. Qui non si può fare riferimento agli utili dell’operazione economica perchè, per quanto riguarda questa fattispecie particolare del finanziamento destinato, la legge non prevede una contabilizzazione separata dell’affare, né un bilancio da cui sia possibile ricavare l’utile o la perdita dell operazione (diverso è il caso dei patrimoni destinati). Qui invece la legge si limita a stabilire che: “I proventi dell’operazione costituiscono patrimonio separato da quello della società, e da quello relativo ad ogni altra operazione di finanziamento effettuata ai sensi della presente disposizione, a condizione:a) che copia del contratto sia depositata per l’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese;b) che la società adotti sistemi di incasso e di contabilizzazione idonei ad individuare in ogni momento i

proventi dell’affare ed a tenerli separati dal restante patrimonio della società.” Non si parla quindi mai di bilancio. Il legislatore ha voluto tenere generico questo termine “proventi” per consentire anche qui il manifastarsi più ampio dell’autonomia contrattuale.

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il contratto deve eventualmente contenere le eventuali garanzie che la società presta per il rimborso di parte del finanziamento. La legge dice che queste eventuali garanzie possono riguardare solo una parte del finanziamento ottenuto, non l’intero finanziamento. L’unica spiegazione che si può dare di questa solo parziale garanzia è che altrimenti si snaturerebbe il senso dell’operazione (cioè quello di essere alternativa ad un tradizionale finanziamento).

nel contratto di finanziamento deve essre indicato anche il tempo massimo di rimborso, decorso il quale nulla più è dovuto al finanziatore. Non è del tutto chiaro il senso di questa previsione. Si finisce per introdurre un elemento di aleatorietà dell’operazione: non c’è certezza della restituzione del finanziamento. Nella pratica l’incidenza di questa previsione è nulla.

Se nei patrimoni destinati la separazione patrimoniale riguarda beni che vengono distaccati per lo svolgimento di un certo affare, nel finanziamento destinato la separazione patrimoniale riguarda i proventi dell’affare. Con la separazione, i creditori sociali non hanno la possibilità di agire su ciò che è oggetto di separazione. Specularmente, il finanziatore non può mai agire sul residuo patrimonio della società, salvo per quella parte di garanzia eventuale di cui all’art. 2447-decies, comma 1, lettera g). C’è anche un altro caso in cui il finanziatore può superare la barriera della separazione: quando la società si renda inadempiente alle obbligazioni relative all’esecuzione corretta e tempestiva dell’operazione (non rispetta il contratto di finanziamento). Questa separazione patrimoniale è sottoposta ad alcune condizioni (leggere comma 3 dell’art. 2447-decies).Nel contratto di finanziamento vanno anche indicati gli eventuali beni strumentali che sono destinati alla realizzazione dell’operazione. La legge prevede per questi beni strumentali una sorta di sospensione temporanea: non è possibile, per i creditori sociali, aggredire questi beni (fino a quando i beni rimengono strumentali alla realizzazione di questa operazione). (leggere comma 5 dell’art. 2447-decies). Anche nel caso dei finanziamenti destinati si pone il problema del fallimento. E di nuovo, accanto alle norme dettate dell’art. 2447-decies, è intervenuta la riforma della Legge fallimentare. “Se il fallimento della società impedisce la realizzazione o la continuazione dell’operazione cessano le limitazioni di cui al comma precedente, ed il finanziatore ha diritto di insinuazione al passivo per il suo credito, al netto delle somme di cui ai commi terzo e quarto.” (comma 6).

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Questa norma non dice nulla sul caso in cui il fallimento non determini l’impossibilità di proseguire o terminare l’affare. Se ne deduce, che il fallimento della società, se non determina l’impossibilità di proseguire e terminare l’affare: l’operazione ve avanti, il finanziamento rimane in piedi e tutto procede sempre con la regola della separazione dei proventi. È chiaro che ci sono certe operazioni che si bloccano con il fallimento della società. L’art.72-ter della legge fallimentare dice che il fallimento della società determina lo scioglimento del contratto di finanziamento, ma solo quando il fallimento impedisce la realizzazione o la continuazione dell’operazione. Poi si aggiunge: in caso contrario, cioè quando il fallimento non impedisce la realizzazione, il curatore può decidere di subentrare nel contratto in luogo della società. Se il curatore non subentra nel contratto, il finanziatore può chiedere al giudice di continuare la realizzazione dell’operazione in proprio o affidarla a terzi. In tale ipotesi il finanziatore può trattenere i proventi dell’affare e può insinuarsi al passivo del fallimento per l’eventuale credito residuo. Il problema nasce dall’ultimo comma di questa norma: nel caso in cui il fallimento impedisce la realizzazione, non si verifichino alcune delle ipotesi previste al 2 e al 3 comma (casi in cui il fallimento non impedisce la realizzazione), allora si applica l’art. 2447-decies.

AUMENTO DI CAPITALE.La società nasce con un determinato capitale, ritenuto adeguato dai soci fondatori rispetto all’oggetto

sociale che hanno prefissato. Ma nel corso della vita della società è possibile che questo capitale non sia

più sufficiente per perseguire quel oggetto sociale; oppure che si presenti una necessità o un’opportunità

di sviluppare un’attività, per cui si richiedano nuovi mezzi propri alla società. In questo caso serve

l’aumento di capitale.

In alcuni casi, l’aumento di capitale è un’operazione necessaria: se la società, nel corso della sua attività,

ha maturato delle perdite tali da comportare una riduzione del capitale, al di sotto del minimo legale. Per

continuare ad agire quella società deve reintegrare il capitale per riportarlo al valore minimo stabilito

dalla legge.

Accanto a operazioni di aumento di capitale per reperire nuovi mezzi propri, la legge disciplina anche

l’aumento di capitale gratuito (che la legge formalmente chiama aumento di capitale per passaggio di

riserve a capitale). Aumento gratuito non comporta nuovi conferimenti, non è quindi a carattere oneroso

per chi sottoscrive, ma è semplicemente un’operazione contabile per cui determinate poste del netto da

riserva transitano a capitale.12

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Quando parliamo di aumento di capitale, sia esso a pagamento, sia esso gratuito si entra comunque nel

campo delle modifiche dello Statuto. Dato che il capitale nominale è uno degli elementi essenziali dello

Statuto, ecco quindi che per modificare il capitale sociale nominale è necessario intervenire con una

modifica statutaria.

MODIFICHE DELLO STATUTO.

Costituisce modifica statutaria qualunque mutamento dell’originario contenuto del contratto sociale, che è

composto da Atto Costitutivo e da Statuto.

La disciplina delle modifiche statutarie è stata modificata già prima della riforma. Nel 2000, con legge

speciale, è stato modificato il procedimento di modifica statutaria così come era previsto nel codice del

1942. Il tratto caratterizzante di questa modifica, che poi è stata sostanzialmente recepita anche dalla

riforma, è stato l’abolizione, come elemento essenziale del procedimento, del giudizio di omologazione

da parte del tribunale. La disciplina della modifica statutaria è generale, e vale quindi per tutte le

modifiche. Essa si trova nell’art. 2436 (modificato dalla riforma nel 2003).

Modifica:

1. aggiunta di una clausola prima non presente

2. soppressione di una clausola preesistente

3. modificazione di una clausola preesistente.

Nel caso di aumento di capitale si va a modificare la clausola contenente il valore del capitale sociale.

SOGGETTI PREPOSTI ALLA MODIFICA DELLO STATUTO.

In linea generale, la competenza per le modifiche statutarie, e quindi anche per gli aumenti di capitale, è

dell’assemblea straordinaria.

La riforma del 2003 ha chiarito in maniera definitiva che tutte le modifiche statutarie, anche quelle più

radicali e rilevanti, sono sempre adottabili con le maggioranze previste per l’assemblea straordinaria.

Questa acquisizione è importante: prima della riforma vi era un orientamento, specialmente nella

giurisprudenza, che riteneva che vi fossero alcune modifiche talmente gravi che non potessero essere

adottate a maggioranza, ma dovevano essere necessariamente adottate con il consenso unanime di tutti i

soci. [Un esempio di questa posizione giurisprudenziale era dato dalla introduzione nello Statuto di limiti

che ponevano condizioni alla circolazione delle azioni (causa di prelazione, causa di gradimento…); la

giurisprudenza riteneva che una clausola di questo tipo, che porta a dei condizionamenti o a dei limiti alla

libera circolazione delle azioni, andasse contro ad un principio cardine della S.p.A., che è quello della

massima facilità di circolazione delle partecipazioni sociali, e che quindi ci fosse un diritto del socio a

conservare questa libera circolabilità delle sue azioni.]

Oggi non esiste più nessuna clausola statutaria che per essere modificata comporti la necessità di

unanimità dei consensi. L’unico caso rimasto che viene disciplinato dalla legge, è il caso delle azioni che

abbiano delle prestazioni accessorie, con obbligo da parte di chi sottoscrive di fare ulteriori prestazioni

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oltre ai conferimenti; gli obblighi previsti da tali azioni non possono essere modificate se non con

l’unanimità di tutti i soci.

La legge prevede che sia possibile che lo statuto attribuisca alcune competenze di modifica dello statuto

all’organo amministrativo sottraendole all’assemblea straordinaria.

Art. 2365. (Assemblea straordinaria). L’assemblea straordinaria delibera sulle modificazioni dello statuto, sulla nomina, sulla sostituzione e

sui poteri dei liquidatori e su ogni altra materia espressamente attribuita dalla legge alla sua competenza.

Fermo quanto disposto dagli articoli 2420-ter e 2443, lo statuto può attribuire alla competenza dell’organo amministrativo o del consiglio di

sorveglianza o del consiglio di gestione le deliberazioni concernenti la fusione nei casi previsti dagli articoli 2505 e 2505-bis, l’istituzione o

la soppressione di sedi secondarie, la indicazione di quali tra gli amministratori hanno la rappresentanza della società, la riduzione del

capitale in caso di recesso del socio, gli adeguamenti dello statuto a disposizioni normative, il trasferimento della sede sociale nel territorio

nazionale. Si applica in ogni caso l’articolo 2436.

La delega fa riferimento a deliberazioni di poco conto (questa è una novità importante nel senso che è un

segnale del peso maggiore che nella filosofia della riforma ha assunto l’organo amministrativo rispetto

all’assemblea dei soci). Oltre a questo è possibile che lo statuto deleghi all’organo amministrativo,

seppure a certi limiti e sotto certe condizioni, anche la decisione di aumentare il capitale (così come lo

statuto può delegare agli amministratori la decisione di emettere delle obbligazioni convertibili in azioni).

Concludendo si può dire che la competenza è, in via generale dell’assemblea straordinaria; ma è possibile

derogare ampiamente da questa regola. Attenzione: una cosa sono le attribuzioni dirette ed esclusive

all’organo amministrativo di certe modifiche statutarie previste nell’art. 2365, altra cosa è la possibilità di

delegare all’organo amministrativo ad assumere deliberazioni di aumento di capitale. La differenza sta nel

fatto che quando lo statuto approfitta della possibilità lasciata dall’art. 2365, si ha un vero e proprio

spostamento di competenze dall’assemblea all’organo amministrativo; con il sistema delle deleghe

sull’aumento del capitale invece l’assemblea non viene spogliata del potere di deliberare un aumento del

capitale, è solo che accanto al potere dell’assemblea si accompagna anche il potere dell’organo

amministrativo.

La legge prevede che la delibera debba esser assunta dall’assemblea straordinaria e in presenza di un

notaio, che assume la veste di segretario verbalizzante dell’assemblea. La legge prevede che il notaio, che

ha verbalizzato la deliberazione di modifica dello statuto, deve, entro 30gg dal momento di assunzione

della delibera, verificare che siano state adempiute le condizioni previste dalla legge.

Se il notaio ritiene che siano state adempiute le condizioni previste dalla legge e quindi che la delibera sia

legale, secondo art 2436 co.1 (Deposito, iscrizione e pubblicazione delle modificazioni).Il notaio che ha verbalizzato la deliberazione di

modifica dello statuto, entro trenta giorni, verificato l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge, ne richiede l’iscrizione nel registro

delle imprese contestualmente al deposito e allega le eventuali autorizzazioni richieste. Con l’iscrizione nel Registro delle

Imprese la delibera prende efficacia: art 2436 co.5 (Deposito, iscrizione e pubblicazione delle modificazioni)La deliberazione

non produce effetti se non dopo l’iscrizione. La delibera, se non iscritta, non produce effetti né verso terzi né nei

rapporti interni alla società.

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RUOLO DEL NOTAIO.

Il notaio sostituisce il giudizio di omologazione del tribunale. Nel criterio ordinario del codice del 1942 il

notaio verbalizzava la delibera assembleare, che in seguito andava depositata in cancelleria del tribunale;

ed era il tribunale che doveva verificare che fossero state adempiute le condizioni previste dalla legge e,

se l’effetto di questo controllo era positivo, era il tribunale ad ordinare l’iscrizione nel Registro delle

Imprese. Ora questo passaggio davanti all’autorità giudiziaria è stato eliminato e sostituito con il controllo

da parte del notaio stesso. Il notaio così, nelle modifiche statutarie, assume due ruoli diversi, con poteri e

doveri diversi.

La prima attribuzione è di pura documentazione di quanto accade in assemblea: la funzione di

verbalizzatore della delibera. Il notaio non può sindacare sulle decisioni che si stanno prendendo. L’unica

cosa che forse potrebbe fare il notaio sarebbe quella di rifiutarsi di verbalizzare, se dalla convocazione

dell’assemblea sia palese una nullità di ciò che si sta per deliberare. Nella seconda fase, il notaio assume

un’altra veste, e cioè quella di controllore della legalità della delibera. La riforma non specifica però quale

sia l’ambito del potere di controllo che ha il notaio. A questo proposito ci sono posizioni diverse:

1. Secondo alcuni, il notaio potrebbe rifiutarsi di procedere all’iscrizione della delibera solo se verifica che questa delibera è affetta da un vizio che ne comporta la nullità.

2. Secondo altri, il notaio dovrebbe rifiutarsi di iscrivere nel Registro delle Imprese anche la deliberazione che sia affetta da semplice annullabilità.

3. Secondo altri ancora, ed è forse la posizione migliore, il notaio dovrebbe preoccuparsi che quel atto o quella delibera sia compatibile al modello legale che è dettato dalla legge per quel dato tipo di società.

Il notaio procede, ritenendo che siano state rispettate le condizioni dettate dalla legge, all’iscrizione della delibera sul Registro delle Imprese. Se, invece, ritiene che queste condizioni non siano state adempiute, il notaio deve dare comunicazione agli amministratori della società della sua decisione di non procedere all’iscrizione della delibera, in ogni caso nel termine di 30gg successivi alla delibera. Si ritiene che questa comunicazione debba essere fatta per iscritto e che il notaio debba motivare la sua decisione di rifiuto. A questo punto gli amministratori hanno diverse possibilità dettate dalla legge:

La prima: accettare la posizione assunta dal notaio e quindi non procedere. La legge stabilisce che, passati 30gg dalla comunicazione del notaio, la delibera è definitivamente inefficacie.

La seconda: convocare nuovamente l’assemblea per assumere gli opportuni provvedimenti. (questa è una novità della riforma del 2000, infatti prima

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questa possibilità non era presente). All’assemblea verrà sottoposta la stessa delibera e verrà modificata, in modo tale da essere conforme alla legge.

La terza: ritorna solo in maniera eventuale il ruolo del tribunale. Gli amministratori, se ritengono che il notaio non abbia fatto una valutazione corretta, possono ricorrere al tribunale affinché sia questo a ordinare l’iscrizione della stessa. Prima della riforma anche i piccoli soci potevano ricorrere a questo mezzo; mentre adesso sono solo gli amministratori a poterlo fare. Il tribunale potrà decidere con decreto, se avallare la posizione presa dal notaio, e quindi confermare la non iscrivibilità della delibera, che a questo punto diventa inefficace; oppure potrebbe ordinare l’iscrizione sul registro delle imprese.

L’ufficio delle imprese, una volta depositata la delibera, fa a sua volta un ulteriore controllo: l’art 2330 co.4 (Deposito dell’atto costitutivo e iscrizione della società). L’ufficio del registro delle imprese, verificata la

regolarità formale della documentazione, iscrive la società nel registro. In questa sede, quindi si deve solo verificare la

conformità formale dei documenti che la legge, ma non si può entrare in nessun nel merito della sostanza.

Una volta che sia stata iscritta, la delibera diviene effettivamente efficace. Questo comporta delle

conseguenze importanti anche in tema di aumento di capitale, perché significa che si rende più difficile

fare delle deliberazioni multiple in una stessa assemblea. Prima della riforma, era frequente, anche per

ragioni di risparmio, l’assunzione di deliberazioni “a cascata”, dove una è conseguenza dell’altra. Oggi

con la regola dell’efficacia della delibera dovuta all’iscrizione, diventa più complicato il fatto che in

un’assemblea si assumano più deliberazioni. La legge ha voluto dire che l’iscrizione nel Registro delle

imprese condiziona l’efficacia della delibera, e che quindi una seconda delibera assunta sulla base della

prima è, per legge, sospensivamente condizionata. Si può, nella stessa seduta assembleare, deliberare ad

esempio l’aumento di capitale e poi la trasformazione sociale, ma la delibera di trasformazione diverrà

efficace solo quando la delibera di aumento di capitale otterrà l’iscrizione nel Registro delle imprese.

Una volta che sia stato completato l’iter la legge prevede all’art 2436 uc. (Deposito, iscrizione e pubblicazione delle

modificazioni). Dopo ogni modifica dello statuto deve esserne depositato nel registro delle imprese il testo integrale nella sua redazione

aggiornata. La legge pretende che gli amministratori depositino anche il testo aggiornato dello statuto.

Questa è una norma a vantaggio di terzi: per facilitare la consultazione dello Statuto.

All’aumento di capitale sono dedicati gli articoli che vanno dal 2438 al 2444. Ma non è chiaro quali di

queste norme si applicano ad entrambe le operazioni di aumento di capitale (oneroso o gratuito). Ci sono

alcune norme che si riferiscono solo all’aumento a pagamento: artt. 2439, 2440, 2441.

Il problema riguarda soprattutto due norme – l’art. 2438 e l’art. 2443.

Art. 2438. (Aumento di capitale). - Un aumento di capitale non può essere eseguito fino a che le azioni precedentemente

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emesse non siano interamente liberate.In caso di violazione del precedente comma, gli amministratori sono solidalmente responsabili per i danni arrecati aisoci ed ai terzi.Restano in ogni caso salvi gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione del precedentecomma.Art. 2443. (Delega agli amministratori). - Lo statuto può attribuire agli amministratori la facoltà di aumentare in una opiù volte il capitale fino ad un ammontare determinato e per il periodo massimo di cinque anni dalla data dell’iscrizione della società nel registro delle imprese. Tale facoltà può prevedere anche l’adozione delle deliberazioni di cui al quarto e quinto comma dell’articolo 2441; in questo caso si applica in quanto compatibile il sesto comma dell’articolo 2441 e lo statuto determina i criteri cui gli amministratori devono attenersi.La facoltà di cui al secondo periodo del precedente comma può essere attribuita anche mediante modificazione dello statuto, approvata con la maggioranza prevista dal quinto comma dell’articolo 2441, per il periodo massimo di cinque anni dalla data della deliberazione.Il verbale della deliberazione degli amministratori di aumentare il capitale deve essere redatto da un notaio e deveessere depositato e iscritto a norma dall’articolo 2436.

Partendo dall’art. 2438, le azioni si dicono liberate quando siano stati effettuati tutti i versamenti che si

riferiscono ad esse. Prima della riforma la legge diceva che era vietata l’emissione di nuove azioni,

quando ci fossero ancora in circolazione quelle non integralmente liberate (non si può deliberare un

aumento di capitale; per cui diventava invalida la stessa delibera di aumento di capitale in presenza di

azioni non ancora totalmente liberate).

La formula usata dal legislatore della riforma chiarisce qual è l’interpretazione da dare oggi: un aumento

di capitale non può essere eseguito fino a quando le azioni precedentemente emesse non siano liberate.

Questo inequivocabilmente significa che si può, invece, deliberare un aumento di capitale. Ciò che è

vietato è di dare corso a questa delibera. Il divieto è rivolto solo agli amministratori (comma 2 art. 2438).

Normalmente questa norma viene spiegata dicendo che la legge vuole evitare che il patrimonio della

società sia composto in misura eccessiva da crediti nei confronti dei soci, perché è chiaro che se una

società potesse dare esecuzione a un secondo aumento di capitale dopo che un primo aumento non è

ancora liberato, cumulerebbe il credito verso soci per il precedente aumento col credito dovuto al nuovo

aumento.

Un altro problema è capire se questo divieto di dare esecuzione ad una delibera di aumento di capitale

riguardi solo gli aumenti a pagamento o riguardi anche gli aumento gratuiti.

Esistono anche altri divieti non espressi dalla legge. Se una normale modifica dello statuto diventa

efficace solo con l’iscrizione nel Registro delle imprese, quando si parla di aumento di capitale a

pagamento il procedimento è molto più complesso: la semplice delibera di aumento non modifica ancora

lo statuto, per modificare lo statuto bisogna che quel aumento di capitale sia sottoscritto. La delibera di

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aumento è una semplice proposta che viene rivolta in primo luogo ai soci ed eventualmente ai terzi,

perché costoro sottoscrivano questa proposta e sottoscrivendo questa proposta accettino e si impegnino ad

effettuare i conferimenti. Ma se non c’è questo incontro tra la proposta contenuta nella delibera e la

sottoscrizione che proviene dagli interessati non c’è nessuna modifica dello statuto. Anche se in

precedenza è stato deliberato un aumento di capitale che non è stato sottoscritto, e poi ne viene deliberato

un secondo, al secondo si può dare esecuzione fino a quando il primo non ha avuto sottoscrizione. Questo

principio si ricava anche dall’art.2444:

Art 2444. (Iscrizione nel registro delle imprese).Nei trenta giorni dall’avvenuta sottoscrizione delle azioni di nuova

emissione gli amministratori devono depositare per l’iscrizione nel registro delle imprese un’attestazione che l’aumento del capitale è stato

eseguito.

Fino a che l’iscrizione nel registro non sia avvenuta, l’aumento del capitale non può essere menzionato negli atti della società.

Quindi la legge impone agli amministratori, una volta che sia stato completato l’iter di aumento di

capitale, di depositare una dichiarazione che quella delibera (che a suo tempo era stata depositata), è stata

eseguita attraverso la sottoscrizione.

Il capitale sottoscritto e il capitale versato possono non coincidere, e la legge impone che la società

specifichi il capitale sottoscritto e la quota versata, qualora non coincidano.

Un altro limite che non è specificato dalla legge, ma che quasi tutti gli interpreti ritengono implicitamente

presente: si dice che, quando dallo stato patrimoniale della società risultino perdite e il tetto del capitale è

inferiore al capitale nominale, non si può aumentare il capitale fino a quando non si sono assorbite le

perdite. Ancora una volta si discute su qual sia il limite di queste perdite che impedirebbero l’aumento di

capitale. Per alcuni, qualsiasi sia l’ammontare della perdita non può essere aumentato il capitale. Per altri,

invece, non si può aumentare il capitale senza preventivamente procedere a copertura delle perdite,

soltanto quando la società si trovi di fronte a un obbligo di legge di ridurre il capitale, il che avviene:

- ci siano perdite oltre a 1/3 del capitale e “Se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un

terzo, l’assemblea ordinaria o il consiglio di sorveglianza che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in

proporzione delle perdite accertate. In mancanza gli amministratori e i sindaci o il consiglio di sorveglianza devono chiedere al

tribunale che venga disposta la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultanti dal bilancio. Il tribunale provvede, sentito il

pubblico ministero, con decreto soggetto a reclamo, che deve essere iscritto nel registro delle imprese a cura degli amministratori.”

- quando ci si trovi nella situazione dell’art 2447. (Riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale). Se, per la

perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dall’articolo 2327, gli amministratori o il

consiglio di gestione e, in caso di loro inerzia, il consiglio di sorveglianza devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare

la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione

della società. Il fatto che gli amministratori violino l’obbligo di non dare esecuzione di un aumento di capitale, prima del totale versamento

del capitale precedentemente sottoscritto, comporta una loro responsabilità, la norma generale in merito viene sancita nell’art.

2392:

Art. 2392. (Responsabilità verso la societa). Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la

diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei

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danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni in concreto

attribuite ad uno o più amministratori.

In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’articolo 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a

conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze

dannose.

La responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto

annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al

presidente del collegio sindacale.

Terzo comma dell’art. 2438: “Restano in ogni caso salvi gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione

del precedente comma.” Se è stato deliberato un aumento di capitale del tutto legittimo, ma gli amministratori

hanno violato l’obbligo di non dare esecuzione a questo aumento, ed eseguendolo hanno emesso nuove

azioni che sono state sottoscritte, la legge dice che a chi le ha sottoscritte, rimangono gli obblighi assunti

con la sottoscrizione: obblighi di versare il 25% e in seguito anche di completare i versamenti.

DISCIPLINA DELL’AUMENTO GRATUITO DI CAPITALE. Art. 2442. (Passaggio di riserve a capitale). - L’assemblea può aumentare il capitale, imputando a capitale le riserve e gli altri fondi iscritti in bilancio in quanto disponibili.In questo caso le azioni di nuova emissione devono avere le stesse caratteristiche di quelle in circolazione, e devono dimiessere assegnate gratuitamente agli azionisti in proporzione di quelle da essi già possedute.L’aumento di capitale può attuarsi anche mediante aumento del valore nominale delle azioni in circolazione.È sostanzialmente un’operazione contabile che fa transitare una certa posta del netto a capitale. Il

patrimonio della società non cambia. È un’operazione che ha precise implicazioni giuridiche (il capitale

ha dei vincoli molto maggiori di quelli che sono posti alle riserve).

In particolare, il capitale ha i vincoli di indistribuibilità. Innanzitutto, per ridurre il capitale bisogna

deliberare una modifica statutaria, ma la legge prevede in questo caso anche il diritto di opposizione da

parte dei creditori. Altra conseguenza importante è che aumentando gratuitamente il capitale si alza il

tetto della riserva legale, che deve raggiungere almeno 1/5 del capitale.

Il concetto di disponibilità di una riserva è un concetto che non necessariamente coincide con quello di

distribuibilità ai soci di quella riserva. Esempio tipico si ha con la riserva sovrapprezzo azioni: in base

all’art. 2431 è una riserva che non può essere distribuita fino a quando la riserva legale non abbia

raggiunto il limite, ma certamente è una riserva disponibile in quanto non ha nessun vincolo di

destinazione particolare perché è una riserva generica. Quindi. anche quando la società non potrebbe

ancora distribuire la riserva sopraprezzo azioni può certamente imputare tale riserva a capitale. Ovvio che

se ci sono delle riserve statutarie che abbiano una destinazione particolare non potrebbero essere usate per

un aumento gratuito del capitale, fino a quando non si modifichi lo statuto, mutando la destinazione di

quelle riserve o rendendo quelle riserve generiche.

Per quanto riuarda la riserva legale, se ha superato i limiti previsti dalla legge, l’eccedenza può

certamente essere portata a capitale. Il dubbio si ha, semmai, per quanto riguarda la riserva legale nei

limiti previsti dalla legge, nel senso che questa è una riserva assolutamente non distribuibile. Ma bisogna 13

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concludere che non si può utilizzare la riserva legale, se non per l’eventuale eccedenza. Certamente non si

può usare la riserva azioni proprie, perché tecnicamente è una riserva correttiva dell’attivo.

L’aumento gratuito di capitale, che si realizza mediante il passaggio di riserve disponibili a capitale, e non

comporta un arricchimento del patrimonio sociale (esaurendosi solo in un operazione contabile), non è

un’operazione priva di conseguenze sul piano giuridico, perché il vincolo delle poste inserite a capitale è

diverso e superiore di quello di semplici riserve.

Art. 2442. (Passaggio di riserve a capitale). - L’assemblea può aumentare il capitale, imputando a capitale le riserve e gli altri fondi iscritti

in bilancio in quanto disponibili. In questo caso le azioni di nuova emissione devono avere le stesse caratteristiche di quelle in circolazione, e

devono essere assegnate gratuitamente agli azionisti in proporzione di quelle da essi già possedute.

L’aumento di capitale può attuarsi anche mediante aumento del valore nominale delle azioni in circolazione.

Il 2° c dell’art. 2442 stabilisce che in caso di passaggio da riserve a capitale le azioni di nuova emissione

devono avere le stesse caratteristiche di quelle già in circolazione e devono essere assegnate,

proporzionalmente e in maniera gratuita, agli azionisti. Non si possono così creare nuove categorie di

azioni in sede di aumento gratuito del capitale.

In alternativa a questa modalità di esecuzione dell’aumento, la legge nel 3° c dell’art. 2442 ne prevede

un'altra e cioè che l’aumento di capitale possa attuarsi attraverso l’aumento del valore nominale delle

azioni già esistenti (senza procedere cioè all’emissione di nuove azioni). Qui la legge sembra essersi

dimenticata di una circostanza nuova della riforma, e cioè della possibilità che le azioni possano non

avere valore nominale (azioni prive di indicazione del valore nominale). Nell’ipotesi in cui la società

abbia azioni senza l’indicazione del valore nominale, quando decide un aumento di capitale gratuito, non

è necessario che intervenga in alcun modo sulle azioni (né occorre che ne emetta di nuove né aumenti il

loro valore nominale). Qualcuno prima della riforma, ma anche dopo, riteneva che non sempre ci sia la

totale libertà di scegliere tra emettere nuove azioni con le stesse caratteristiche o aumentare il valore

nominale delle azioni già esistenti. La seconda modalità di esecuzione sarebbe l’unica consentita in tutte

le ipotesi in cui non sarebbe altrimenti possibile garantire a ciascun azionista di ottenere nuove azioni in

proporzione a quelle già possedute.

Un problema connesso all’aumento gratuito di capitale è quello di vedere che trattamento va riservato a

quelli che sono i versamenti dei soci in conto capitale. Nelle società a ristretta base azionaria è frequente,

che i soci, oltre che effettuare i conferimenti dovuti, effettuino anche altri versamenti a favore della

società che però non vanno iscritti a capitale, perché non rappresentano tecnicamente dei conferimenti.

Questa pratica comporta un problema di qualificazione di questi versamenti, perché potrebbero avere due

diverse nature:

1. finanziamenti che i soci fanno a favore della società c’è l’obbligo della società di restituire alla

scadenza il prestito;

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2. versamenti che comportano un arricchimento del patrimonio della società se sono dei versamenti

a fondo perduto vanno a costituire nel patrimonio della società una riserva.Il problema della qualificazione in realtà è venuto in parte meno, perché, con la riforma dei bilanci della società di capitali, in

seguito dell’attuazione della direttiva comunitaria nel 1991, è molto più facile oggi individuare la natura di questi versamenti;

l’impostazione dello SP permette di individuare, a seconda della loro appostazione, che tipo di natura abbiano questi

versamenti.

Sulla natura di questi versamenti in passato influiva molto il regime fiscale. Il dpr. 597 del 1973, cioè la

prima riforma fiscale, aveva infatti introdotto una presunzione per cui tutti i versamenti fatti dai soci e in

misura non proporzionale tra loro (un socio versa più di un altro) andavano considerati, e quindi trattati

come prestiti; soltanto quando questi versamenti fossero stati fatti in modo proporzionale al capitale

posseduto da ciascun socio, si potevano considerare come versamenti in conto capitale.

Questa presunzione è venuta meno con il TU del 1986, ecco che allora si è aperta maggiormente la pratica

di effettuare versamenti da parte dei soci in misura non proporzionale. Quando i versamenti sono

effettuati dai soci in misura rigorosamente proporzionale, nessuno dubita che un aumento di capitale, che

venga realizzato e coperto con questa riserva sia un aumento gratuito di capitale, di cui all’art. 2442, (per

passaggio di riserva a capitale). Ma quando i versamenti non siano proporzionali, si è invece sostenuto

che la riserva che viene costituta con questi versamenti, perderebbe il collegamento con coloro che hanno

contribuito a formarla. Si parla di una riserva targata, (es: se c’è una società di 4 soci, e quello di

maggioranza effettua un versamento pari ad X a favore della società, in base a questa tesi questi denari

vanno nel patrimonio della società, ma però mantengono il collegamento con chi li ha effettuati), che ha

un nome e cognome; questo ha una conseguenza radicale. Questi interpreti dicono infatti che quando la

società decide un aumento di capitale e decide di servirsi di questa riserva per coprirlo non si sarebbe in

presenza di un aumento gratuito, ma bensì di un aumento a pagamento, nel senso che siccome i

versamenti sono firmati, vengono considerati come un’anticipazione di versamenti a seguito di un

aumento di capitale. C’è un rovesciamento della normale consecuzione di operazioni che si realizza con

un aumento a pagamento: in un aumento di capitale normale la società delibera l’aumento e offre in

sottoscrizione le nuove azioni ai soci, chi sottoscrive deve effettuare i versamenti; qui la situazione è che

uno o più soci anticipano un versamento in vista di un futuro aumento di capitale, e quando viene

deliberato, loro l’hanno già versato, quindi sarebbe un aumento di capitale a pagamento.

Altri interpreti invece continuano a sostenere che si tratta di un aumento gratuito. Se si sceglie la prima

strada, le nuove azioni sono date solo a chi ha effettuato i versamenti; se invece si dice che è un aumento

gratuito, le nuove azioni vanno date in proporzione a tutti i soci (quindi in sostanza vi sarebbero alcuni

soci che approfitterebbero dei versamenti effettuati da altri). Per trovare una soluzione adeguata a questo

problema bisogna distinguere all’interno dei versamenti in conto capitale due fattispecie diverse:

1. da un lato quella dei versamenti generalmente in conto capitale, cioè denari che vengono dati alla

società e che confluiscono nel suo patrimonio senza avere una destinazione specifica;

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2. dall’altra quella versamenti che sono riferiti a un futuro e ben determinato aumento di capitale, cioè

il versamento ha una causale (si dice “versamento in conto futuro” dell’aumento di capitale da

deliberarsi entro una certa data).

Nella seconda ipotesi funziona il sistema della riserva targata; saremo di fronte ad un’anticipazione dei

versamenti che saranno dovuti da quei soci, quando la società effettivamente realizza l’aumento di

capitale programmato. Se la società non deliberasse l’aumento di capitale programmato, entro i termini

stabiliti, ci sarebbe un obbligo di restituzione dei versamenti ai soci; ma se invece i versamenti, per

quanto non proporzionali tra loro, fossero fatti senza questa specifica causale, allora questi denari

andrebbero nel patrimonio della società e si confonderebbero nello stesso. E’ una sorta di liberalità che un

socio fa a vantaggio degli altri.

Questa posizione è stata fatta propria dalla Cassazione, che nel 1996 ha fatto una distinzione tra generici

versamenti in conto capitale e versamenti in conto futuro aumento di capitale.

Nel 1° caso, l’eventuale aumento di capitale che si realizzasse utilizzando quella riserva sarebbe un

aumento gratuito, per cui tutte le nuove azioni sarebbero date a tutti in proporzione delle azioni possedute.

Nella 2° ipotesi, l’eventuale aumento di capitale sarebbe un aumento a pagamento, e quei soci che hanno

effettuato i versamenti in vista dell’aumento avrebbero già coperto per la loro parte, mentre tutti gli altri

per ottenere nuove azioni dovrebbero effettuare a loro volta dei versamenti. Si tratta comunque siano fatti

sempre di versamenti spontanei da parte dei soci, per cui rimane fermo il principio per cui in una S.p.A.

ciascun socio è e rimane obbligato unicamente ad effettuare i conferimenti promessi.

L’AUMENTO DI CAPITALE A PAGAMENTO.

Art. 2439. (Sottoscrizione e versamenti). - Salvo quanto previsto nel quarto comma dell’articolo 2342, i sottoscrittori delle azioni di nuova

emissione devono, all’atto della sottoscrizione, versare alla società almeno il venticinque per cento del valore nominale delle azioni

sottoscritte. Se è previsto un soprapprezzo, questo deve essere interamente versato all’atto della sottoscrizione.

Se l’aumento di capitale non è integralmente sottoscritto entro il termine che, nell’osservanza di quelli stabiliti dall’articolo 2441, secondo e

terzo comma, deve risultare dalla deliberazione, il capitale è aumentato di un importo pari alle sottoscrizioni raccolte soltanto se la

deliberazione medesima lo abbia espressamente previsto.

Art. 2440. (Conferimenti di beni in natura e di crediti). - Se l’aumento di capitale avviene mediante conferimento di beni in natura o di

crediti si applicano le disposizioni degli articoli 2342, terzo e quinto comma, e 2343.

Si applicano solo all’aumento di capitale a pagamento gli artt. 2439-2440-2441. I primi due articoli sono

dedicati alla disciplina della sottoscrizione e dei versamenti in un aumento di capitale a pagamento, che

comporta quindi nuovi conferimenti.

La disciplina è tendenzialmente la stessa che si realizza in sede di costituzione della società. L’art. 2439

dice “sottoscrittori delle azioni di nuova emissione devono, all’atto della sottoscrizione, versare alla società almeno il venticinque per cento

del valore nominale delle azioni sottoscritte. Se è previsto un soprapprezzo, questo deve essere interamente versato all’atto della

sottoscrizione.” Correlativamente l’art. 2440, per il caso in cui le nuove azioni debbano essere liberate in 13

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natura o attraverso il conferimento di credito, rinvia alla disciplina degli art. 2342 e 2343, cioè a quella

dei conferimenti in natura in sede di costituzione della società.

L’aumento di capitale a pagamento è complesso, e comporta una modifica dello statuto che a differenza

delle altre modifiche statutarie non si perfeziona con la deliberazione di modifica e il suo deposito nel

registro delle imprese. Per perfezionarsi questa modifica ha bisogno di un ulteriore elemento, che è dato

dalla sottoscrizione del nuovo capitale. Essendo la disciplina dei versamenti analoga a quella prevista in

sede di costituzione, per gli aumenti previsti in denaro sarà sufficiente, a chi sottoscrive, versare all’atto

della sottoscrizione il 25%, mentre per i conferimenti in natura o di crediti sarà necessaria l’immediata e

l’integrale liberazione di questi versamenti all’atto della sottoscrizione. Se la società è unipersonale, in

caso di aumento di capitale a pagamento il socio dovrà versare l’intera somma sottoscritta all’atto della

sottoscrizione, pena la perdita della responsabilità limitata.

Anche qui si ripropongono come nel caso di costituzione della società, diversi problemi in relazione a:

natura del negozio di sottoscrizione. È vero che la legge prevede che all’atto della sottoscrizione

dell’aumento, chi sottoscrive deve versare contestualmente il 25% o tutto se si tratta di conferimenti

in natura, ma nonostante questo rimane fermo, che si tratta pur sempre di un contratto che ha natura

consensuale e non reale. Questo significa che il negozio si perfeziona per il solo fatto che vi sia la

dichiarazione di sottoscrizione, per cui anche se non c’è la contestualità del versamento il negozio si

intende già perfezionato.

Problema di vedere se sia possibile per il socio che sottoscrive un aumento di capitale eccepire nel

momento in cui lo sottoscrive che non deve versare nulla, perché vanta un credito preesistente nei

confronti della società. Il socio ritiene infatti che il suo obbligo di versamento sia già stato

realizzato, per effetto della compensazione del suo debito da sottoscrizione con il suo credito

vantato nei confronti della società; cosicché la compensazione è un effetto di legge - compensazione

legale. Questa teoria ha fatto molto discutere e ha visto in epoche diverse posizioni opposte, anche

da parte della Cassazione (nessuno dubitava circa la possibilità di effettuare la compensazione), ma

nel 1992 una sentenza della Cassazione ha ritenuto illegittima la compensazione in questo

particolare caso, sulla base di una serie di considerazioni:

In primo luogo consentire la compensazione avrebbe svilito il principio dell’ effettività del

capitale, perché il capitale sarebbe aumentato senza nessun effettivo versamento. È vero che

materialmente non c’è nessun versamento, ma dal passivo del bilancio viene cancellata una

posta negativa corrispondente al debito della società nei confronti del socio, e quindi c’è

comunque un arricchimento della società.

In questo modo si finirebbe per consentire una sorta di conferimento del credito da parte del

socio.

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Altro argomento: si può fare questa operazione, ma si dovrebbe applicare la stessa regola che

si applica ai conferimenti di crediti o di beni in natura, ci vorrebbe cioè la relazione giurata di

stima da parte di un esperto nominato dal tribunale.

Questi argomenti non sono vincenti, infatti la stessa Cassazione nel 1996 e nel 1998 ha corretto la sua

posizione riconoscendo perfettamente legittimo procedere con la compensazione tra il credito del socio e

il suo debito all’atto della sottoscrizione. (Anche se nel 2005 un giudice di merito nega la leggitimità della

compensazione.)

Il 2° comma dell’art. 2439 “Se l’aumento di capitale non è integralmente sottoscritto entro il termine che, nell’osservanza di quelli

stabiliti dall’articolo 2441, secondo e terzo comma, deve risultare dalla deliberazione, il capitale è aumentato di un importo pari alle

sottoscrizioni raccolte soltanto se la deliberazione medesima lo abbia espressamente previsto”. Si parla dell’inscindibilità

dell’aumento di capitale. Quando si delibera un aumento di capitale, nessuno può sapere quanti

sottoscriveranno quell'aumento, e può anche darsi che una delibera di aumento di capitale rimanga priva

di effetto, perché nessuno fa la sottoscrizione.

Per questi casi la legge detta una norma molto chiara, che è quella del 2° comma dell’art. 2439: prescrive

che se la deliberazione di aumento di capitale non dice nulla si deve intendere che quell’aumento di

capitale è inscindibile, cioè avrà effetto solo se tutto l’aumento sarà stato integralmente sottoscritto.

Questa è la regola in assenza di diverse previsioni che devono essere contenute nella delibera di aumento,

con l’ulteriore obbligo, quando non tutte le sottoscrizioni siano state effettuate da parte della società, di

restituire ai soci i versamenti che (coloro che hanno sottoscritto) hanno già versato.

Mentre in sede di costituzione della società i versamenti vanno fatti presso una banca, e poi soltanto una

volta iscritta la società nel registro delle imprese gli amministratori potranno ritirare questi depositi; nel

caso di sottoscrizione di un aumento di capitale i versamenti vanno fatti direttamente nella cassa della

società, ma sono versamenti provvisori. La legge impone che nella stessa delibera di aumento di capitale

sia previsto un termine finale dell’operazione. Questa prescrizione del termine finale è imperativa, perché

è invalida una deliberazione che non contiene l’indicazione del termine finale. Se la delibera non dice

nulla si intende che l’aumento è inscindibile. In ogni caso la legge consente che sia prevista la scindibilità

dell’aumento di capitale (2° comma), e che inoltre la delibera preveda un tetto minimo di sottoscrizione.

Quando l’aumento di capitale sia espressamente dichiarato scindibile si apre un problema delicato, cioè

quello di vedere se le singole sottoscrizioni producano immediatamente il loro effetto o si debba attendere

il termine finale dell’operazione. Quando l’aumento di capitale è inscindibile è logico che si deve

attendere il termine finale dell’operazione, ma in caso di aumento dichiarato scindibile basta anche solo

una sottoscrizione perchè l’aumento abbia effetto per quella parte. Allora ci si chiede se gli effetti propri

della sottoscrizione, ossia quelli dell’acquisto della qualità della socio per quella parte sottoscritta, si

realizza subito al momento della sottoscrizione, o anche in questo caso solo al termine finale

dell’operazione. Anche su questo punto ci sono incertezze tra gli interpreti. Ci pare che la situazione più

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equa sia quella che, anche nel caso di aumento scindibile, si porti l’efficacia delle sottoscrizioni alla

scadenza del termine finale. È più equa perché garantisce ai soci attuali di poter contare fino in fondo sul

termine che la delibera contiene per decidere se sottoscrivere o no.

L'art. 2441 concede ai soci un diritto di opzione sull’aumento di capitale, cioè un diritto di essere preferiti

nella sottoscrizione dell’aumento. Sempre questo articolo impone anche che si debba prevedere un

termine non inferiore a 30 gg, periodo entro il quale i sottoscrittori possono decidere se sottoscrivere

l’aumento, rendendo immediatamente efficaci le sottoscrizioni parziali dell’aumento scindibile. In questo

modo di fatto, si costringerebbero tutti i soci ad effettuare la sottoscrizione, per evitare di trovarsi con le

maggioranze cambiate.

Si è più volte detto che in caso di aumento a pagamento, la legge si premura di tutelare i soci attuali della

società. È chiaro che in un’operazione di aumento del capitale a pagamento (in quello gratuito non c’è

problema perché ciascun socio ha diritto di conservare la medesima posizione che aveva in precedenza) le

cose possono cambiare sia sul piano dei poteri amministrativi di ciascun socio, sia su quello dei diritti

patrimoniali, perché questi ultimi sono attribuiti in base alla percentuale di partecipazione al capitale. Se

la società aumenta il capitale raddoppiandolo, e se un socio non è nella condizione di sottoscrivere questo

aumento, alla fine dell’operazione si ritroverebbe con tutti poteri e diritti ridotti a metà. La legge allora si

preoccupa di consentire al socio, quando la società deliberi un aumento di capitale a pagamento, di

conservare la medesima posizione che aveva prima. Questa possibilità per il socio di conservare la

posizione che aveva prima viene garantita riconoscendogli in sede di aumento del capitale il diritto

d’opzione sulle azioni di nuova emissione (1° com. art 2441) “Le azioni di nuova emissione e le obbligazioni convertibili

in azioni devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al numero delle azioni possedute. Se vi sono obbligazioni convertibili il

diritto di opzione spetta anche ai possessori di queste, in concorso con i soci, sulla base del rapporto di cambio.”

In un aumento del capitale a pagamento, a differenza di quello gratuito, si possono emettere anche nuove

categorie di azioni che prima non esistevano, così come non è obbligatorio che in sede di aumento del

capitale a pagamento sia rispettata la proporzione tra le categorie di azioni che esistevano prima. In

questi casi, la legge non dice nulla su come e su quali azioni si debba esercitare il diritto d’opzione da

parte dei vari soci; però si ritiene che si debba applicare analogicamente una norma contenuta nel TU

della Finanza, ed una norma che si applica solo alle società con azioni quotate. Nel TU della finanza

nell'art. 145, che disciplina le azioni di risparmio, prive cioè del diritto di voto, si stabilisce che nel caso

in cui la società deliberi un aumento del capitale, il titolare delle azioni di risparmio ha diritto ad avere in

opzione, in primo luogo azioni di risparmio che siano emesse in sede di aumento di capitale, quindi

provvisoriamente azioni della medesima categoria, ma se non sono sufficienti o se l’aumento di capitale

non prevede l’emissione di azioni di risparmio il diritto di opzione si estende anche alle altre categorie di

azioni.

Comunque non c’è nessun diritto dei soci attuali di avere in opzione azioni della medesima categoria, cioè

non c’è nessun obbligo per la società quando effettua l’aumento a pagamento di fare l’emissione in modo

tale da garantire alle varie categorie di azioni già esistenti la possibilità di esercitare l’opzione su azioni 13

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analoghe, ma, nel caso in cui vi sia una pluralità di categorie di azioni emesse, c’è diritto di ciascuna

categoria di esercitare l’opzione prima di tutto sulle azioni corrispondenti.

La tutela del socio quindi, è data dal diritto di opzione che prevede che l’offerta di opzione debba essere

resa conoscibile ai soci, perché non tutti vanno in assemblea. Il 2° com. dell’art. 2441 prevede allora che

l’offerta di opzione debba essere depositata presso il registro delle imprese, e ai soci deve essere garantito

per poter esercitare il diritto di opzione un termine non inferiore a 30 gg dalla pubblicazione dell’offerta.

Attenzione, che allora in realtà si hanno due termini quando si fa l’aumento del capitale a pagamento: il

termine finale complessivo dell’operazione previsto dall’art. 2439, cioè il termine finale entro cui devono

chiudersi tutte le operazioni di aumento; ma all’interno di questo c’è un termine necessariamente più

breve entro il quale i soci possono decidere se esercitare o meno l’opzione. L’art. 2439 specifica che il

termine finale dell’operazione che deve essere previsto nella delibera di aumento deve tener conto del

termine che è concesso ai soci per esercitare il diritto di opzione.

La sorte dell’inoptato, cioè di quella parte di aumento del capitale non coperta dall’esercizio del diritto

d’opzione da parte dei soci, è diversa a seconda che la società abbia o meno azioni quotate in mercati

regolamentati.

Se la società ha azioni quotate in mercati regolamentati, la legge stabilisce che, i diritti d’opzione

non esercitati dai soci devono essere offerti in borsa da parte degli amministratori, per almeno 5

riunioni di borsa, entro il mese successivo alla scadenza del termine previsto per l’opzione.

Se la società non ha azioni quotate in mercati regolamentati, la legge prevede che i soci che

esercitano il diritto d’opzione hanno anche diritto, purché sia esercitato contestualmente al diritto

d’opzione, di chiedere di ottenere in prelazione le azioni o le obbligazioni convertibili che siano

state non optate. Questo tipo di prelazione si ha solo se la dichiarazione di volere esercitare il diritto

di prelazione, è contestuale all’esercizio del diritto d’opzione.

E’dubbio però che natura abbia il diritto di prelazione che spetta al socio, perché la legge usa due

termini diversi, prima parla di diritto d’opzione e poi di diritto di prelazione sull’inoptato. Bisogna

vedere quindi se il diritto di prelazione:

sia semplicemente un diritto d’opzione di secondo grado (e quindi abbia la stessa natura del

diritto d’opzione),

o se invece sia qualcosa di diverso, e quindi un diritto di prelazione in senso tecnico, cioè il

diritto di essere preferiti ai terzi a parità di condizioni.

La scelta tra queste alternative ha conseguenze importanti sul piano pratico, perché:

se diciamo che la prelazione è un diritto d’opzione di secondo grado, allora il socio avrebbe diritto

di avere quelle azioni inoptate su cui ha scelto di esercitare il diritto di prelazione allo stesso prezzo

al quale erano state offerte al primo giro;

se, invece, diciamo che il diritto di prelazione ha natura diversa dal diritto d’opzione, potremmo

prevedere che il prezzo delle azioni inoptate sia diverso da quelle offerte in opzione.

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Quest’ultima è la tesi prevalente. Se la delibera prevede sin da subito che anche l’offerta eventuale delle

azioni a terzi sia fatta allo stesso prezzo a cui le azioni sono state offerte in opzione ai soci non c’è

problema; ma siccome spesso si prevede un prezzo diverso per i soci e per i terzi, in particolare con un

sovrapprezzo per i terzi, le cose cambiano. Perché se si dice che è una prelazione in senso tecnico, il socio

che esercita la prelazione avrà si diritto di avere le azioni inoptate, ma allo stesso prezzo a cui le avrebbe

dovuto pagare eventualmente il terzo.

Un altro problema che la legge non risolve è come vadano ripartite le azioni inoptate - con che criterio

l’inoptato venga suddiviso tra i soci. Anche qui ci sono diverse alternative possibili, ma la tesi prevalente

è che l’assegnazione vada fatta in proporzione al possesso azionario di ciascuno dei soci che esercitano la

prelazione. Altri interpreti ritengono, però, che quando ci siano richieste uguali, la divisione vada fatta in

base a quanto ha chiesto in prelazione ciascuno dei soci.

Aumento di capitale a pagamento (segue).

La questione principale, quando la società decide di aumentare il capitale mediante nuovi conferimenti, è

la tutela dei soci attuali, tutela che viene realizzata attraverso la concessione del diritto di opzione sulle

azioni di nuova emissione e anche sulle obbligazioni convertibili di nuova emissione. Solo in questo

modo, al socio è garantita la possibilità di conservare la posizione che aveva prima dell’operazione di

aumento del capitale, sia dal punto di vista dei diritti patrimoniali, sia dal punto di vista dei diritti

amministrativi. Ovviamente si tratta di una possibilità, perché il diritto di opzione non dà il diritto di avere

le azioni, ma solo il diritto di avere le azioni con preferenza rispetto ad altri soggetti.

Il diritto di opzione è quindi il momento centrale dell’operazione di aumento del capitale. Ovviamente

deve essere concesso un termine ai soci per poter decidere se esercitare o meno l’opzione, termine che

non può mai essere inferiore ai 30 giorni dal momento in cui l’offerta di opzione viene pubblicata nel

registro delle imprese. I soci, oltre al diritto di opzione hanno anche il diritto di prelazione sulle azioni che

eventualmente rimangono inoptate, per il mancato esercizio dell’opzione da parte di altri soci. Si tratta di

un diritto che deve obbligatoriamente essere esercitato contestualmente all’esercizio del diritto di opzione,

altrimenti viene perso.

Limitazione o esclusione del diritto di opzione.

Il diritto di opzione, pur essendo uno fra i diritti più importanti che spettano al socio in una S.p.A., non è

un diritto intangibile; la legge infatti prevede tutta una serie di casi in cui questo diritto può essere escluso

completamente o limitato a una sola parte delle azioni che astrattamente spetterebbero in opzione a

ciascuno dei soci. Si tratta ovviamente, di situazioni eccezionali, perché vanno a comprimere un diritto

fondamentale del socio, pertanto sono situazioni che la legge circonda di un insieme di cautele, proprio

per evitare che il socio possa essere ingiustamente danneggiato attraverso la privazione di questo diritto.

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1. Il primo dei casi in cui non opera il diritto di opzione dei soci (è un caso di esclusione “ex lege”) si

ha quando la società, nella delibera di aumento di capitale a pagamento, prevede che le azioni di

nuova emissione devono essere liberate mediante conferimenti in natura.

La ragione è abbastanza ovvia, se la società fa una operazione di aumento di capitale non per reperire

nuovi mezzi finanziari generici, ma per acquisire un determinato bene, è chiaro che quel bene la società

può acquisirlo solo dal proprietario. In questa previsione, la legge parla espressamente di conferimenti in

natura. Da questo, qualcuno ricava, probabilmente non a torto, che questa causa di esclusione del diritto

di opzione opera effettivamente solo quando la società intende acquisire, attraverso il conferimento, un

determinato tipo di bene; e non anche nel caso in cui le azioni sono liberate mediante il conferimento di

crediti. Se c’è una ragione per escludere il diritto di opzione, quando la società vuole acquisire uno

specifico bene, non si capisce perché escludere tale diritto, quando si vogliono acquisire dei crediti. I

crediti, in quanto tali, sono dei mezzi finanziari che non hanno “etichetta”. Pertanto è ragionevole ritenere

che quando la legge parla di conferimenti in natura si deve pensare ai soli conferimenti di beni (anche

beni fungibili).

Questo è un caso di esclusione legale, cioè voluta dalla legge, ovvero fissata nella delibera (il

conferimento a liberazione delle nuove azioni deve essere in natura, il diritto di opzione è

automaticamente escluso).

2. Il secondo caso di esclusione o possibile limitazione del diritto di opzione, si ha, come prevede il

5° comma dell’art. 2441, “quando l’interesse della società lo esige”.

Questa ovviamente non è una causa di esclusione ex lege, ma è una causa volontaria: è la deliberazione

stessa che prevede che, essendoci un interesse della società che lo esige, si possa escludere o limitare il

diritto di opzione dei soci (si tratta cioè di una decisione rimessa alla stessa assemblea che delibera

l’aumento di capitale). In realtà, già prima della riforma, la posizione della giurisprudenza ha sostenuto

che l’interesse sociale che giustifica l’esclusione o la limitazione del diritto di opzione, deve essere

certamente un interesse qualificato (detto altrimenti serio e consistente), e in ogni caso deve essere un

interesse specificatamente individuato nella delibera. Quali possono essere allora questi interessi della

società? Il caso classico in cui si esclude il diritto di opzione, perché la società lo esige, si ha quando la

società ha l’interesse, ad esempio, di acquisire nella sua compagine sociale un nuovo socio, che per le sue

caratteristiche è ritenuto strategico, ad esempio, per l’espansione della società in un determinato mercato.

Un es. reale è stata la Fiat, che in anni passati volendo favorire l’ingresso dei propri prodotti nei mercati

mediorientali, ha escluso il diritto di opzione per consentire l’ingresso in società della Banca di stato

Libica, anche se, di fatto, l’operazione non ha avuto un grande successo.

In questo caso, vista la delicatezza della situazione, la decisone è rimessa alla stessa assemblea e quindi

alla maggioranza; la legge prevede dei quorum rafforzati, cioè superiori a quelli qualificati, previsti per

l’assemblea straordinaria, che è appunto l’assemblea competente per le decisioni di aumento di capitale.

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In questo caso, si prevede che la deliberazione deve essere approvata da tanti soci quanti rappresentano

oltre la metà del capitale sociale.

3. La terza ipotesi in cui può essere più che escluso, limitato, il diritto di opzione dei soci è quando la

società intenda che le azioni siano sottoscritte dai dipendenti della società stessa, o dai dipendenti

di società che la controllano o che sono da essa controllate.

Si tratta dell’ennesimo caso di favore legislativo per l’azionariato dei dipendenti (gli altri casi già visti

sono quelli disciplinati dall’art. 2349 attribuzione gratuita di azioni quando la società decide una

assegnazione straordinaria di utili ai dipendenti; dall’art 2358 quando, nel vietare alla società di

concedere prestiti e garanzie per l’acquisto delle proprie azioni, la legge stabilisce che è invece possibile,

quando il prestito o la garanzia servono per favorire l’acquisto di azioni da parte dei dipendenti). In

questo terzo caso si tratta di una limitazione e non di una esclusione totale del diritto di opzione, perché la

legge prevede che, per approvare la delibera con il quorum ordinario, il diritto di opzione deve essere

escluso solo per 1/4 delle azioni di nuova emissione e quindi solo per 1/4 dell’aumento di capitale.

Se la società intende invece assegnare più di 1/4 dell’aumento di capitale ai suoi dipendenti, o ai

dipendenti di società controllanti o controllate, si applicano le maggioranze rafforzate.

4. La quarta ipotesi di esclusione, è una novità della riforma, ed è il caso in cui la società ha azioni

quotate in borsa.

In questo caso la legge prevede che sia possibile, per clausola statutaria, che, quando la società aumenta il

capitale, si possa escludere il diritto di opzione per una certa aliquota dell’aumento di capitale. Il 4°

comma dell’art. 2441 dice che nelle società con azioni quotate in mercati regolamentati, lo statuto può

altresì escludere il diritto di opzione nei limiti del 10% del capitale sociale preesistente. Si tratta di una

ipotesi straordinaria perché qui è lo statuto che prevede questa limitazione (è più corretto parlare di

limitazione, si tratta infatti di una esclusione parziale del diritto d opzione). Negli altri casi, l’esclusione o

deriva dalla legge (come nel caso dei conferimenti in natura), o deriva da una decisione assembleare. Non

ci sono motivazioni di questa esclusione, semplicemente lo statuto può prevedere che ogni volta che si

aumenta il capitale, sempre che la società sia quotata in mercati regolamentati, un 10% dell’aumento non

è offerto in opzione ai soci. Le ragioni per cui il legislatore ha introdotto questa possibilità sono

probabilmente dovuti alla volontà di favorire l’aumento del flottante delle azioni. Il flottante è quella

parte del capitale che è circolante in borsa. La legge stabilisce che questa operazione è possibile, cioè lo

statuto può prevedere questa esclusione del diritto di opzione nella misura del 10% del capitale

preesistente (quindi il parametro non è l’aumento, ma è dato dal capitale preesistente), a condizione che il

prezzo di emissione corrisponda al valore di mercato delle azioni e che sia confermato in un’apposita

relazione della società incaricata della regione contabile.

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La legge si preoccupa comunque di garantire in ogni caso la serietà dell’operazione, cioè che l’operazione

non sia fatta solo per pregiudicare la posizione dei soci di minoranza. Per garantire tale serietà, la legge

prevede che le proposte di aumento di capitale, che comportano l’esclusione del diritto di opzione,

debbano essere illustrate in un’apposita relazione, da parte degli amministratori. Nella relazione devono

risultare le ragioni dell’esclusione o della limitazione. La relazione deve essere preventivamente

comunicata al collegio sindacale e al soggetto incaricato della revisione, quando esiste, prima

dell’assemblea, in modo che questi soggetti esprimano un parere su quanto previsto dagli amministratori.

Sempre a tutela dei soci che si vedono escludere questo diritto importante, la legge stabilisce che in questi

casi, la deliberazione di aumento deve determinare il prezzo di emissione in base al valore del patrimonio

netto, tenendo conto, quando si tratta di azioni quotate, anche dell’andamento delle quotazioni nell’ultimo

semestre. Quando la legge dice che leazioni devono essere emesse in base al valore del patrimonio netto,

questo ha un senso quando il patrimonio netto è superiore al capitale; perché siccome non si possono

emettere azioni sotto il valore nominale (perché si creerebbe capitale fittizio), se il patrimonio netto fosse

inferiore al capitale sociale, le azioni andrebbero comunque emesse al nominale. Il patrimonio netto è

quindi il parametro intorno a cui deve aggiustarsi il sovrapprezzo che viene stabilito, e il fatto che ci siano

comunque degli spazi di discrezionalità in capo alla società è chiarito anche dal fatto che, quando le

azioni della società sono quotate in borsa, la legge dice che si deve tener conto anche dell’andamento

delle quotazioni dell’ultimo semestre.

La legge, poi, disciplina una particolare operazione che si verifica, specialmente in società di grosse

dimensioni e che quindi fanno grosse operazioni sul capitale e spesso quotate in borsa; o in società che

attraverso questa operazione vogliono arrivare alla quotazione di borsa. In queste situazioni l’aumento di

capitale viene gestito attraverso una sottoscrizione immediata dell’aumento da parte di banche o società

finanziarie. Cioè quando una società fa una grossa operazione sul capitale, invece di gestire direttamente

l’operazione, si affida ad una banca o ad una società finanziaria per il collocamento di queste azioni. E’

ovvio che se ci fosse il diritto di opzione da parte dei soci questa operazione di collocamento attraverso

banche, società finanziarie o consorzi, non potrebbe aver luogo. In questi casi allora si esclude il diritto di

opzione, ma non è una esclusione vera e propria, perché la legge prevede, che qualora la delibera di

aumento preveda che le azioni di nuova emissione siano sottoscritte da banche, enti o società finanziarie,

ci sia l’obbligo da parte di questi di offrirle agli azionisti della società. Le banche sottoscrivono a nome

proprio e quindi loro rimangono soci, ma con l’impegno di offrire le azioni agli azionisti; può darsi poi

che non tutti gli azionisti intendano sottoscrivere, come anche che le banche non trovino un terzo disposto

a sottoscrivere, in quel caso le azioni vengono tenute dal consorzio. Per fare queste operazioni

ovviamente la società paga un prezzo. Nel periodo in cui queste azioni di nuova emissione rimangono in

capo a questi enti che le hanno sottoscritte, la legge dice che i medesimi soggetti non possono esercitare il

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diritto di voto, si vuole ciò evitare che attraverso questa operazione gli enti finiscano con l’acquisire un

potere all’interno della società.

Aumento di capitale per perdite.Art. 2446. (Riduzione del capitale per perdite). - Quando risulta che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, gli amministratori o il consiglio di gestione, e nel caso di loro inerzia il collegio sindacale ovvero il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti. All’assemblea deve essere sottoposta una relazione sulla situazione patrimoniale della società, con le osservazioni del collegio sindacale o del comitato per il controllo sulla gestione. La relazione e le osservazioni devono restare depositate in copia nella sede della società durante gli otto giorni che precedono l’assemblea, perché i soci possano prenderne visione.Nell’assemblea gli amministratori devono dare conto dei fatti di rilievo avvenuti dopo la redazione della relazione.Se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea ordinaria o il consiglio di sorveglianza che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate. In mancanza gli amministratori e i sindaci o il consiglio di sorveglianza devono chiedere al tribunale che venga disposta la riduzione del capitale in ragione delle perdite risultanti dal bilancio. Il tribunale provvede, sentito il pubblico ministero, con decreto soggetto a reclamo, che deve essere iscritto nel registro delle imprese a cura degli amministratori.Nel caso in cui le azioni emesse dalla società siano senza valore nominale, lo statuto, una sua modificazione ovverouna deliberazione adottata con le maggioranze previste per l’assemblea straordinaria possono prevedere che la riduzione del capitale di cui al precedente comma sia deliberata dal consiglio di amministrazione. Si applica in tal caso l’articolo 2436.

Si presenta evidentemente una situazione in cui c'è l'esigenza di reperimento di nuove risorse, ma bisogna

vedere come, se, e quando è possibile per la società cercare di uscire dalla situazione di crisi in cui si

viene a trovare, attraverso il ricorso all'acquisizione di nuovi mezzi finanziari con l'aumento del capitale.

La legge tollera, ma solo entro certi limiti, che in conseguenza di perdite la società si venga a trovare con

un patrimonio netto inferiore al valore del capitale nominale.

L'art. 2446 prevede, infatti, che quando risulta che il capitale è diminuito di oltre 1/3 in conseguenza di

perdite, gli amministratori devono iniziare la procedura che poi, salvo che a questa situazione si ponga

rimedio, porterà alla riduzione obbligatoria del capitale per perdite.

Innanzitutto è da chiarire cosa significa capitale diminuito di oltre 1/3 in conseguenza di perdite. Questo è

uno dei casi in cui la legge usa il termine capitale, evidentemente non come capitale nominale, ma come

capitale reale; perché è chiaro che il capitale nominale non può ridursi in conseguenza di perdite. Il

capitale nominale è una cifra rigida, fissa, che è indicata nell’atto costitutivo e che per essere modificata

necessita di una modifica dell'atto costitutivo. Quello che può variare in conseguenza di perdite è il

capitale reale, cioè quella parte del netto che corrisponde al capitale sociale nominale.

Se si supera la soglia prevista dalla legge, non si deve ancora necessariamente ridurre il capitale per

perdite; la riduzione del capitale diventerà a obbligatoria, come prevede l'art. 2446, se al termine

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dell'esercizio successivo a quello in cui si è accertata questa situazione, la situazione è rimasta invariata.

Il problema dell'aumento di capitale si inserisce perché la legge dice, appunto, che una volta che gli

amministratori, nel corso dell'esercizio abbiano accertato che la situazione della società è tale per cui c'è

una perdita di oltre 1/3, devono convocare l'assemblea per gli opportuni provvedimenti, presentando a

questa una relazione sulla situazione patrimoniale, che altro non è che un vero e proprio bilancio

straordinario.

Si tratta quindi di capire che margini di manovra ha l'assemblea che è chiamata a deliberare gli opportuni

provvedimenti. Ovviamente, sono provvedimenti funzionali alla eliminazione o alla riduzione della

perdita.

L'assemblea, come accade nella stragrande maggioranza dei casi in cui le società si trova in questa

situazione, può limitarsi a rinviare ogni decisione alla fine dell'esercizio successivo, oppure, fare qualcosa

per cercare di rimediare alla situazione.

- Innanzitutto, va escluso, soprattutto dopo la riforma, che la società possa assumere provvedimenti

opportuni di carattere gestionale. Questo perché, con la riforma, è stato chiarito che la gestione della

società è competenza esclusiva dell'organo amministrativo; l'assemblea non può intromettersi nella

gestione salvo per quegli aspetti, che la legge consente che lo statuto attribuisca all'assemblea.

- Quindi le uniche cose che l'assemblea può fare è intervenire sul capitale.

- Molto più discusso è invece il problema se per rimediare alla situazione sia opportuno deliberare un

aumento di capitale. Infatti, attraverso un aumento di capitale, si potrebbe uscire dalla situazione critica

perché con un aumento di capitale si può riportare le perdite all'interno del rapporto di 1/3.

Questo potrebbe essere un rimedio, ma c'è molta incertezza, e anzi, la maggioranza degli interpreti e della

giurisprudenza sono decisamente contrari a questa eventualità. Perché, anche se non è espressamente

stabilito dalla legge, vi sarebbe un altro divieto implicito per l’aumento del capitale (oltre a quello di dar

corso a un aumento di capitale quando vi sono azioni non ancora integralmente liberate), cioè l'esistenza

di perdite.

Da parte della giurisprudenza si dice che non si può intervenire sul capitale, aumentandolo, fino a quando

ci sono perdite. Si tratta di una posizione abbastanza consolidata, ma che non ha riscontro nella legge. La

legge stabilisce invece che, quando la società si trova in una situazione in cui ormai è diventata

obbligatoria la riduzione per perdite, cioè alla fine dell'esercizio successivo, allora non si potrebbe più

aumentare il capitale, perché ormai la legge ne stabilisce la riduzione obbligatoria e se l’assemblea non vi

provvede, si va in tribunale perché vi provveda il tribunale.

Ma fino a quando non si è in questa situazione, e cioè quando si è ancora nella situazione degli opportuni

provvedimenti che l'assemblea è chiamata a deliberare in prima istanza subito dopo che si è verificata

l'esistenza di una perdita rilevante, non c’è nessuna motivazione sul perché la società non possa uscire da

questa situazione semplicemente lasciando le perdite e aumentando il capitale. Non c’è nessun ostacolo

di legge, e neppure esistono degli interessi che verrebbero lesi da questo.

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Aumento di capitale a seguito della discesa del capitale reale sotto il minimo di legge.

La legge poi introduce un caso particolare in cui, per effetto di una perdita di oltre un terzo, il capitale

reale della società è sceso sotto il minimo di legge.

Il fatto che la società abbia un capitale reale inferiore ai due terzi del capitale nominale, obbliga in base

all’art. 2446, gli amministratori a convocare l'assemblea senza indugi per individuare gli opportuni

provvedimenti. Se, quando l'assemblea sarà chiamata ad approvare il bilancio dell'esercizio successivo, si

verificherà ancora la stessa situazione, si procederà alla riduzione obbligatoria.

Devono coesistere tutte due le condizioni: le perdite di oltre 1/3, che comportino una discesa sotto il

minimo di legge. Di per sé una società può continuare a vivere a tempo indeterminato, avendo un capitale

reale inferiore al minimo di legge, ma purché questo non comporti anche una perdita oltre 1/3. Ciò che la

legge non tollera è che la società viva con un capitale sociale inferiore al minimo per effetto di perdite

superiori al terzo.

Art. 2447. (Riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale). - Se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dall’articolo 2327, gli amministratori o il consiglio di gestione e, in caso di loro inerzia, il consiglio di sorveglianza devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società.

L'articolo 2447 prevede che in questo caso, gli amministratori devono comunque convocare senza indugio

l'assemblea, ma non per gli opportuni provvedimenti, ma per deliberare la riduzione del capitale. E’ ovvio

che riducendo il capitale avremo una società con il capitale nominale inferiore al minimo di legge e

questa è una situazione nella quale la società non può vivere. Infatti l’art. 2447 prevede che bisogna

deliberare la riduzione per assorbire tutte le perdite accumulate (non è possibile assorbire una sola parte

delle perdite) e bisogna poi o aumentare il capitale per riportarlo ad una cifra non inferiore al minimo di

legge, oppure trasformare la società. Se però una volta ridotto il capitale, non lo si aumenta o non si

trasforma la società, questa è destinata ad estinguersi (questa è una causa di scioglimento della società).

Per altro, quando la società va così male che il suo capitale reale scende al di sotto del minimo, nella

stragrande maggioranza dei casi il capitale va interamente perduto (il netto è uguale ad zero o, come

normalmente, accade è sotto zero). Cioè le perdite superano l'entità stessa del capitale, vanno oltre il

capitale. Si tratta allora di capire cosa fare, quando i soci e gli amministratori della società vogliono

conservare la società e riprendere l’operato.

È chiaro che, se il capitale reale è ancora positivo, è sufficiente ridurlo per assorbire le perdite e fare un

aumento fino al minimo; ma quando il capitale è integralmente “mangiato”, si pone un problema. (In

realtà il 2447 parla di riduzione al di sotto del minimo, non parla mai di azzeramento del capitale; e

qualcuno infatti ha sempre sostenuto che questa fattispecie non rientrerebbe nel 2447.) 14

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Alcuni interpreti dicono che quando il capitale è azzerato, la società è sciolta, e non c'è possibilità di

rimediare (una posizione ampiamente minoritaria, anche in giurisprudenza, cioè si ritiene che nel concetto

di riduzione di al di sotto del minimo ci sia anche l’azzeramento del capitale).

Nel caso in cui le perdite superino il capitale, evidentemente, non basta più per rimediare, fare una

riduzione a zero del capitale e poi aumentarlo, almeno al minimo, perché si avrebbero ancora delle perdite

non assorbite. Per ripristinare la vita ordinaria della società ci sono varie tecniche. La legge, infatti,

consente alla società di riprendersi, ma il principio di fondo è che comunque tutte le perdite devono essere

assorbite.

Nella pratica si sono allora escogitate tutta una serie di tecniche per uscire da questa situazione (per

assorbire le perdite oltre il capitale) e alcune di queste tecniche hanno avuto anche il conforto della

giurisprudenza:

1) Prima azzerare il capitale; in secondo luogo deliberare un aumento al minimo di legge ma prevedendo

un sovrapprezzo di misura tale da coprire tutte le perdite ulteriori.

2) Prima azzerare il capitale; poi aumentarlo una prima volta in misura corrispondente alle perdite residue

(quelle che vanno oltre il capitale); azzerare nuovamente il capitale e riaumentarlo fino al minimo di

legge. È ovvio che il primo aumento di capitale, quello che è destinato ad essere subito azzerato, deve

essere immediatamente sottoscritto, cioè ci devono essere dei conferimenti o già versati o quantomeno

promessi, perché solo a quel punto si crea un attivo nello stato patrimoniale che assorbe le perdite, poi si

procede ad un azzeramento successivo e quindi alla ricostituzione del mimino.

3) Altra tecnica invece è quella di azzerare il capitale e poi procedere ad un aumento, non al minimo, ma

al minimo più le perdite residue.

Queste sono dunque le tecniche che vengono utilizzate per evitare di dover sciogliere la società.

AUMENTO DELEGATO NELLA S.P.A.

Vediamo ora i rapporti tra assemblea e organo amministrativo nella S.p.A. e nella S.r.l.

Con la riforma il legislatore ha fatto due scelte di segno completamente opposto, per quanto riguarda i

due diversi tipi di società.

In materia di S.p.A. infatti il legislatore ha scelto di distinguere nettamente le competenze dell’organo

amministrativo dalle competenze dell’assemblea.

Prima della riforma la disciplina in materia di potere gestionale degli amministratori prevedeva due

sezioni:

una sezione statutaria (l’assemblea si poteva riservare nello Statuto alcune competenze proprie

dell’organo amministrativo).

una sezione volontaria (gli amministratori potevano essere loro stessi a richiedere all’assemblea

di pronunciarsi su operazioni di carattere gestionale).

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La scelta del legislatore della riforma è stata quella di creare una divisione decisa tra gestione della

società da un lato e decisioni assembleari dall’altro. Questa scelta si è realizzata attraverso l’abrogazione

delle due sezioni citate sopra.

Oggi non è più possibile per gli amministratori rimettere all’assemblea decisioni riguardanti la gestione

ma è possibile solo la richiesta di autorizzazioni; ugualmente non è possibile la riserva statutaria di

competenze amministrative in capo all’assemblea. Il legislatore ha pensato di attribuire determinate

operazioni, se previste dallo statuto agli amministratori, operazioni che normalmente (prima della

riforma) erano di competenza dell’assemblea. Quindi al secondo comma dell’art. 2365 è previsto che “lo

statuto può attribuire alla competenza dell' organo amministrativo o del consiglio di sorveglianza o del consiglio di gestione le deliberazioni

concernenti la fusione nei casi previsti dagli articoli 2505 e 2505-bis, l' istituzione o la soppressione di sedi secondarie, la indicazione di quali

tra gli amministratori hanno la rappresentanza della società, la riduzione del capitale in caso di recesso del socio, gli adeguamenti dello

statuto a disposizioni normative, il trasferimento della sede sociale nel territorio nazionale. Si applica in ogni caso l' articolo 2436”.

Da questo quadro emerge che il legislatore della riforma, nella S.p.A. ha potenziato quelle che sono le

competenze e le facoltà dell’organo amministrativo rispetto all’assemblea.

Scelta totalmente di segno opposto invece si ha in materia di S.r.l., dove il legislatore della riforma sposta

il baricentro dall’organo amministrativo a favore dei soci. Anche in questo caso c’è una norma

fondamentale che è l’art. 2479, 1° comma che dice che i soci decidono sulle materie riservate alla loro

competenza dall’atto costitutivo, nonché sugli argomenti che uno o più amministratori, o tanti soci che

rappresentano almeno 1/3 del capitale sociale, sottopongono alla loro approvazione.

Vediamo che le competenze dei soci sono potenziate sotto un duplice aspetto:

I soci possono riservarsi già nell’atto costitutivo la decisione di determinate operazioni.

La seconda opzione è tacita nel senso che, indipendentemente dal fatto di un’eventuale riserva

nell’atto costitutivo di competenza in favore dei soci, è sempre possibile, per una determinata

percentuale di capitale, scegliere durante la vita della società, di attribuire a sé determinate

decisioni in materia di gestione della società.

Questa diversa scelta fatta dal legislatore per le S.p.A. e le S.r.l., si riporta nella delega che va ad

aumentare il capitale.

L’art. 2443 è la norma di riferimento in materia di S.p.a. Art. 2443. (Delega agli amministratori). - Lo statuto può attribuire agli amministratori la facoltà di aumentare in una opiù volte il capitale fino ad un ammontare determinato e per il periodo massimo di cinque anni dalla data dell’iscrizione della società nel registro delle imprese. Tale facoltà può prevedere anche l’adozione delle deliberazioni di cui al quarto e quinto comma dell’articolo 2441; in questo caso si applica in quanto compatibile il sesto comma dell’articolo 2441 e lo statuto determina i criteri cui gli amministratori devono attenersi.La facoltà di cui al secondo periodo del precedente comma può essere attribuita anche mediante modificazione dello statuto, approvata con la maggioranza prevista dal quinto comma dell’articolo 2441, per il periodo massimo di cinque anni dalla data della deliberazione.Il verbale della deliberazione degli amministratori di aumentare il capitale deve essere redatto da un notaio e deve essere depositato e iscritto a norma dall’articolo 2436.

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Il primo periodo del 1 comma è sostanzialmente quasi invariato rispetto alla norma anti-riforma. C’è solo

una precisazione da fare: il vecchio art. 2443 prevedeva che era l’atto costitutivo che poteva attribuire la

delega; mentre il nuovo art. 2443 dice che è lo statuto. La modifica non è del tutto priva di una valenza:

prima della riforma, proprio perché vi era scritto “atto costitutivo” molti ritenevano che la delega per

aumentare il capitale dovesse essere deliberata all’unanimità. Oggi se la delega viene introdotta durante la

vita della società, chiaramente è introdotta a maggioranza, perché la maggioranza è il principio che

caratterizza l’assemblea delle società di capitali.

Il 2° comma dell’art. 2443 prevede una novità e richiede una precisazione. La norma parla di efficacia

quinquennale, dal momento della liberazione; mentre invece con la riforma la regola prevista dall’art.

2437 per tutte le modifiche dello statuto, è che le stesse siano efficaci dal momento dell’iscrizione nel

registro delle imprese. Probabilmente questo è un errore di coordinamento.

Venendo all’esclusione del diritto di opzione (una novità assoluta della riforma), l’art. 2443, 1° comma,

parla di facoltà dell’organo amministrativo di provvedere anche all’adozione delle deliberazioni di cui al

4° e 5° comma dell’art. 2441 (che prevede l’esclusione del diritto di opzione: ipotesi del conferimento in

natura e’ipotesi in cui vi sia un interesse della società che lo esige).

Una recente sentenza del tribunale di Milano, del 21 gennaio 2005, che influenza a maggior ragione la

nostra trattazione, riduce di molto la possibilità di esclusione del diritto di opzione anche nel caso di

delibera adottata da assemblea (art. 2441, 5° comma). E’ una sentenza che elude tanto l’interesse della

società nel senso che dice che l’interesse c’è quando c’è, già nella sostanza, chi sottoscriverà, in luogo dei

soci. Quindi non solo la prospettazione dell’interesse, ma l’attualità, la sicurezza e l’interesse che

verrebbero aggiunti attraverso la sottoscrizione da parte del terzo.

L’art. 2443, quando parla di delega ad esclusione del diritto di opzione attribuito agli amministratori, dice

che si applica, in quanto compatibile, l’art. 2441, 6° comma (dispone il procedimento in caso di

esclusione deliberata dall’assemblea).

L’art. 2441, 6° comma, dice che le proposte di aumento del capitale sociale, con esclusione o limitazione

del diritto di opzione, devono essere illustrate dagli amministratori con apposita relazione dalla quale

devono risultare le ragioni dell’esclusione o della limitazione, ovvero, qualora l’esclusione derivi da

conferimenti in natura, le ragioni di questo, e in ogni caso i criteri adottati per la determinazione del

premio di emissione.

Il problema è che dopo il richiamo effettuato nell’art. 2443, c’è un inciso di chiusura che dice: “si

applicano in quanto compatibili”. Bisogna quindi capire cosa è compatibile e cosa non lo è, con

l’esclusione adottata per decisione degli amministratori su delega dell’assemblea.

Il primo problema è il deposito, previsto nel caso di decisione assembleare, della relazione degli

amministratori presso la sede della società. Questo è un deposito che, nel caso di delega agli

amministratori, non è necessario. Un significato di deposito lo si può avere solo in riferimento alla

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deliberazione, che delega l’organo amministrativo, ma non può avere alcun riferimento per quanto

riguarda la deliberazione dell’organo delegato.

Un ulteriore problema riguarda i criteri cui gli amministratori devono attenersi.

Potrebbero esserci due interpretazioni della norma:

1. restrittiva in linea con la giurisprudenza del tribunale milanese; nel senso che la delega dovrebbe

essere inevitabilmente molto specifica quindi dovrebbe già predeterminare il valore a cui verranno

collocate le azioni o comunque i criteri precisi a cui si debbono attenere gli amministratori nel

calcolarlo e tutte le modalità delle operazioni.

2. interpretazione più larga nella determinazione dei criteri, ma richiede poi un intervento e un

controllo successivo in qualche maniera sull’operazione almeno per quanto riguarda il parere che

deve esprimere l’organo di controllo sull’operazione stessa.

Una curiosità in materia di assemblea delegante. C’è un equivoco nel senso che il quorum rafforzato è

espressamente richiamato solo nell’ipotesi in cui vi sia delega con esclusione del diritto di opzione, quindi

quando la delega agli amministratori è comprensiva anche della facoltà di escludere il diritto di opzione.

Nulla si dice invece nel caso di delega semplice quindi senza esclusione del divieto di sottoscrizione.

Quindi sono due diverse interpretazioni:

1. Letterale - distingue le due ipotesi, ovvero di delega con esclusione dei diritti di sottoscrizione

che andrebbe con quorum rafforzato e delega semplice che andrebbe senza quorum rafforzato

2. Sistematica - richiede comunque il quorum rafforzato per entrambe le ipotesi di delega

DISCIPLINA DELL’AUMENTO DI CAPITALE DELLE SRL

Il rapporto diverso che esiste tra gli organi fa sì che anche la finalità della delega è diversa nella S.r.l.

perché questo tipo di società non può attingere al capitale sul mercato, come fa la S.p.A., perché la S.r.l.

non può emettere azioni. Mentre la finalità della delega ad aumentare il capitale nelle S.p.A. è quella di

consentire agli amministratori di attingere velocemente risorse sul mercato, questa non può essere per

definizione la finalità della delega nelle S.r.l.

Nelle S.r.l. la finalità è di carattere programmatico. Questa programmazione va a vantaggio della

maggioranza che può sempre revocare il proprio programma; meno della minoranza che si vede imporre

dalla maggioranza. La disciplina in materia di delega nelle S.r.l.: non possiamo avere quell’ampiezza di

poteri che sono attributi con la delega in caso di S.p.A.

In realtà infatti il baricentro decisionale nelle S.r.l. è sempre spostato a vantaggio dei soci.

In secondo luogo, ci sono delle norme in materia di operazioni di aumento del capitale che distinguono

decisamente l’opzione dalla sottoscrizione nel senso che la sottoscrizione nelle S.r.l. è destinata

normalmente ai soci e solo eccezionalmente è destinata ai terzi.

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Altra norma, art. 2479, 2° comma, numero 5, è una norma di principi e dice: “Ogni socio ha diritto di partecipare

alle decisioni previste dal presente articolo ed il suo voto vale in misura proporzionale alla sua partecipazione”.

Questo è un principio che deve essere tutelato e garantito e che potrebbe essere saltato facilmente qualora

fosse passata all’organo amministrativo la facoltà di deliberare sull’aumento con l’esclusione del diritto di

sottoscrizione.

L’art. 2481, 1° comma dice: “L' atto costitutivo può attribuire agli amministratori la facoltà di aumentare il capitale sociale,

determinandone i limiti e le modalità di esercizio; la decisione degli amministratori, che deve risultare da verbale redatto senza indugio da

notaio, deve essere depositata ed iscritta a norma dell' articolo 2436. La decisione di aumentare il capitale sociale non può essere attuata fin

quando i conferimenti precedentemente dovuti non sono stati integralmente eseguiti”.

La norma in materia di S.r.l. parla di attribuzione della delega da parte dell’atto costitutivo. Parte della

dottrina ha ritenuto che la delega possa essere contenuta esclusivamente nell’atto di costituzione della

società, e quindi non possa essere introdotta durante la vita della società.

A conferma di questo si invoca la disciplina dell’art. 2443 in materia di S.p.A.; norma che precisa che

l’introduzione può avvenire sia in sede di costituzione della società, ma anche in un momento successivo

con deliberazione. In realtà, anche nel caso di S.r.l. si deve ritenere che la delega debba essere riferita non

solo in sede di costituzione della società ma anche in un momento successivo con deliberazione

assembleare. Il legislatore in materia di S.r.l. non parla mai di Statuto, parla sempre e solo di atto

costitutivo scritto.

Il problema è vedere se la delibera successiva che introduce la delega debba essere adottata all’unanimità

o a maggioranza e qui la soluzione deve essere quella maggioritaria alla luce della nuova disciplina delle

S.r.l., art. 2479, 6° comma in materia di quorum dice: “Salvo diversa disposizione dell' atto costitutivo, le decisioni dei soci

sono prese con il voto favorevole dei soci che rappresentano almeno la metà del capitale sociale”.

Ma anche altre norme tra cui soprattutto l’art. 2479, 5° comma che dice: “Ogni socio ha diritto di partecipare alle

decisioni previste dal presente articolo ed il suo voto vale in misura proporzionale alla sua partecipazione”.

La regola anche nelle S.r.l. è il voto a maggioranza.

Ulteriore conferma, l’abbiamo dall’art. 2468, 2° e 4° comma, dove è prevista solo per questa ipotesi,

l’unanimità derogabile con disposizione dell’atto costitutivo. In forza di queste considerazioni, motivo

dello scioglimento della società è l’inattività dell’organo amministrativo: la delega ad aumentare il

capitale nelle S.r.l. può essere introdotta con deliberazione successiva alla costituzione e in base al

principio maggioritario.

Ci sono poi due problemi che riguardano la disciplina particolare delle S.r.l.:

1. amministrazione (art. 2475, ultimo comma): la norma prevede che nella S.r.l. si possa adottare,

in alternativa all’organo pluripersonale collegiale (il consiglio di amministrazione),

l’amministrazione disgiunta o congiunta nell’ambito di quelli che sono gli amministratori

nominati

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2. modalità di adozione delle decisioni dell’organo amministrativo della S.r.l. La relativa norma

prevede la possibilità di adottare le decisioni del consiglio di amministrazione anche in forma non

collegiale attraverso la consultazione scritta o il consenso espresso per iscritto.

Il problema è che, rispetto alla S.p.A., abbiamo la possibilità che l’organo non sia collegiale ma sia

pluripersonale disgiunto o congiunto, e potrebbe essere anche un organo che decide in modo non

collegiale.

Nel caso di delega ad aumentare il capitale è ammessa la delega disgiunta o congiunta ai singoli

amministratori, o con l’obbligo per tutti di decidere favorevolmente e ammesso che la decisione di

aumento delegata si perfezioni non attraverso la riunione collegiale nello stesso luogo, ma attraverso

l’invio dei consensi e quindi una verbalizzazione del notaio. Secondo parte della dottrina la risposta

sarebbe positiva in entrambe le ipotesi quindi nel caso di revisione del consenso o della consultazione

scritta, questa sarebbe sufficiente come modalità per perfezionare la decisione di aumentare il capitale. E’

prevista per la S.r.l. la verbalizzazione non contestuale.

Artt. 2475, 2487, 2481, 2479

Con la riforma si è stabilito che tutta una serie di modifiche statutarie possano essere dallo statuto

attribuite alla competenza dell’organo amministrativo. Qui siamo di fronte ad un fenomeno diverso dalla

delega, nel senso che qui non c’è un organo che semplicemente attribuisce per delega ad un altro organo

la possibilità di procedere; ma c’è proprio uno spostamento di competenze in senso tecnico, cioè lo statuto

può decidere che quelle competenze spettano all’organo amministrativo con la conseguenza che non

apparterebbero più alla competenza dell’assemblea straordinaria.

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LA SOCIETÀ A RESPONSABILITÀ LIMITATA (Società di capitali)

La S.r.l. è stata, tra i tipi di società di capitali su cui si è incentrata maggiormente la riforma (ha subito il

maggior stravolgimento rispetto alla disciplina precedente. Questo, perché nella disciplina del Codice del

1942 la S.r.l. aveva pochissime norme proprie, e la maggior parte della disciplina era semplicemente

ricavata per rinvio alle norme della società per azioni. In sostanza, come si diceva prima della riforma, la

società a responsabilità limitata, così come era disegnata dal Codice, altro non era che una piccola S.p.A.

senza le azioni. Questo aveva fatto sì che nel corso degli anni dall'emanazione del Codice Civile, la scelta

tra S.p.A. e S.r.l. non era dovuta, tanto a caratteristiche particolari dei due tipi che meglio si potevano

adattare alle esigenze degli operatori che intendevano aprire una società, ma da convenienze di varia

natura, soprattutto da convenienze di natura fiscale.

Il legislatore della riforma ha voluto rompere questa logica, rendendo la S.r.l. un qualcosa di

completamente diverso dalla S.p.A. Questo si comprende già a partire dai principi espressi nella legge

delega del 2001, da cui poi ha avuto origine il decreto legislativo n. 6 del 2003 (quello della riforma).

I principi generali che si trovano nella legge delega:

- in primo luogo si dà direttiva al legislatore delegato per creare un' autonomo e organico complesso di

norme, separato da quelle della S.p.A. e modellato sul principio della rilevanza centrale del socio e dei

rapporti contrattuali tra i soci. Se la S.p.A. si basava, e si basa anche dopo la riforma, sulla centralità

dell'azione e quindi del capitale (le persone dei soci sono totalmente indifferenti), il modello S.r.l. si deve

basare sul principio della rilevanza della persona del socio e dei rapporti tra i soci, in un contesto della più

ampia autonomia statutaria, e quindi della massima libertà di forme organizzative, seppure nel rispetto

(questo è l'unico limite) del principio di certezza nei rapporti con i terzi. La S.r.l. viene destinata alle

imprese medio piccole, sia come dimensione della struttura organizzativa dell'attività da svolgere, sia dal

punto di vista della compagine sociale (numero dei soci).

La grande elasticità nel modello che la legge consente, rende possibile ancora oggi l’utilizzazione della

S.r.l. anche in altri casi, ed anche in relazione ad imprese di grandi dimensioni, purché sempre, a ristretta

compagine sociale. Si può quindi tranquillamente ipotizzare la collocazione della S.r.l. come società

capogruppo all'interno dei gruppi, proprio perché è un modello organizzativo che i soci possono plasmare

in maniera molto più ampia, rispetto ciò che è possibile fare con le S.p.A; e certamente la S.r.l. si può

prestare per usi diversi da quello naturale.

- d'altra parte è lo stesso legislatore che in qualche modo ipotizza un possibile ampliamento verso l'alto

della utilizzazione del modello della S.r.l. Per la prima volta viene consentito alla S.r.l. anche una forma

di finanziamento, che prima era consentita solo alla S.p.A., cioè emettere titoli di debito (che

assomigliano molto alle obbligazioni che può emettere la S.p.A.), quindi una forma di finanziamento in

serie, di massa.

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- si delinea con la riforma, attraverso la nuova disciplina della S.r.l., un modello polifunzionale, che può

porsi in concorrenza (grazie proprio all'autonomia statutaria e alla libertà di forme organizzative) da un

lato nei confronti della S.p.A., e dall'altro nei confronti delle società di persone.

La S.r.l. quindi è una società che si pone a cavallo tra la S.p.A., cioè la società capitalistica tipica, e le

società di persone . Infatti, la definizione sintetica della S.r.l. è quella di una società di capitali con

impronta personalistica.

Questo è reso evidente da un lato dal fatto che ci sono regole previste nella disciplina certamente di

carattere capitalistico, che però sono modificabili dall’autonomia statutaria in senso personalistico. Un

principio capitalistico presente nelle S.r.L. è la libera trasferibilità delle partecipazioni (come nella

S.p.A.), ma nella S.r.l. si può stabilire, a differenza della S.p.A., anche l’intrasferibilità delle

partecipazioni.

Ci sono poi delle regole di carattere personalistico che però possono essere modificate in senso

capitalistico. Un esempio potrebbe essere la regola secondo cui per l'amministrazione della S.r.l. gli

amministratori sono scelti tra i soci; ma è possibile prevedere anche la nomina di amministratori non soci.

Oppure in caso di aumento di capitale la legge prevede che il capitale aumentato sia riservato ai soci, ma

è possibile prevedere che invece l'aumento di capitale sia offerto ai terzi.

Vi sono poi tutta una serie di casi in cui il legislatore addirittura non detta una disciplina, lasciando tutto

all'autonomia statutaria. Questo ha già fatto nascere il problema di quale disciplina si debba applicare, nei

casi in cui il legislatore non dice nulla, e l'autonomia statutaria non è intervenuta a disciplinare quella

materia.

Con la riforma la soluzione è: si può forse dire che in base alla scelta operata dai soci in un senso o

nell'altro (verso la S.p.A. o verso una società di persone), le norme a cui fare riferimento per applicarle

analogicamente, in caso di buchi nella disciplina siano appunto quelle della S.p.A., se cioè i soci hanno

voluto un qualcosa di simile alla S.p.A., o quelle delle società di persone, se i soci hanno voluto un

modello accentuatamente personalistico.

Il modello della S.r.l. è quindi polifunzionale, modellabile dalle parti in maniera molto ampia rispetto al

passato.

La disciplina dei conferimenti.

Art. 2464. (Conferimenti). Il valore dei conferimenti non può essere complessivamente inferiore all’ammontare globaledel capitale sociale.Possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica.Se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve farsi in danaro.Alla sottoscrizione dell’atto costitutivo deve essere versato presso una banca almeno il venticinque per cento dei conferimenti in danaro e l’intero soprapprezzo o, nel caso di costituzione con atto unilaterale, il loro intero ammontare. Il versamento può essere sostituito dalla stipula, per un importo almeno corrispondente, di una

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polizza di assicurazione o di una fideiussione bancaria con le caratteristiche determinate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri;in tal caso il socio può in ogni momento sostituire la polizza o la fideiussione con il versamento del corrispondente importo in danaro.Per i conferimenti di beni in natura e di crediti si osservano le disposizioni degli articoli 2254 e 2255. Le quote corrispondenti a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione.Il conferimento può anche avvenire mediante la prestazione di una polizza di assicurazione o di una fideiussione bancaria con cui vengono garantiti, per l’intero valore ad essi assegnato, gli obblighi assunti dal socio aventi per oggettola prestazione d’opera o di servizi a favore della società. In tal caso, se l’atto costitutivo lo prevede, la polizza o la fideiussione possono essere sostituite dal socio con il versamento a titolo di cauzione del corrispondente importo indanaro presso la società.Se viene meno la pluralità dei soci, i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati nei novanta giorni.

Il legislatore della riforma si è comportato in maniera abbastanza singolare. Se andiamo a vedere la legge

delega, i principi che questa detta per i conferimenti nella S.r.l. sono assolutamente i medesimi che sono

dettati in tema di conferimenti nella S.p.A. Nel senso che nella legge delega a troviamo la medesima

formula per quanto riguarda i conferimenti sia per la S.p.A. che per la S.r.l.. Questa formula dice

semplicemente che “il legislatore delegato deve consentire l'acquisizione a titolo di conferimento di ogni

elemento utile per il proficuo svolgimento dell'impresa sociale, a condizione unica che sia garantita

l'effettiva formazione del capitale sociale”. La formula è assolutamente la stessa e non fa altro che

riprodurre, quella che a suo tempo era contenuta nella seconda direttiva comunitaria che disciplinava i

conferimenti.

La cosa poi strana è che, in sede di attuazione della delega, le formule tra S.p.A. e S.r.l. sono state invece

diversificate. Nel senso che nella S.p.A. l'art. 2342 dice semplicemente che il conferimento deve farsi in

denaro, se non è previsto diversamente, e che sono possibili i conferimenti in natura e di crediti, mentre

sono vietati i conferimenti d'opera o di servizi.

Invece la norma corrispondente in materia di S.r.l. nell'art. 2464 dice che possono essere conferiti tutti gli

elementi dell'attivo suscettibili di valutazione economica; se nell'atto costitutivo non è stabilito

diversamente, il conferimento deve farsi in denaro.

Una cosa certamente diversa è che in tema di S.r.l. (art. 2464) il legislatore non ripete il divieto, previsto

invece nell'art. 2342, di effettuare conferimenti d'opera o di servizi, anzi nell'art. 2464 si specifica una

disciplina apposita proprio per i conferimenti di questo genere.

Altra differenza che si può notare è che nella S.r.l. è consentito sostituire il versamento del denaro, nel

caso di conferimenti in denaro, con la stipula per un importo corrispondente di una fideiussione bancaria

o di una polizza fideiussoria. In sostanza il socio quando sottoscrive, e deve versare almeno il 25%,

invece di versare il denaro può sostituire il versamento, stipulando a favore della società una fideiussione

o una polizza fideiussoria.

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Queste sono certamente differenze chiare, ma rimane il problema sulle entità conferibili, al di là del

problema dei conferimenti d'opera o di servizi. Probabilmente non c'è una differenza da questo punto di

vista tra S.p.A. e S.r.l., nel senso che gli stessi problemi già visti sulle entità conferibili nella S.p.A. si

possono riproporre anche per la S.r.l.. Quindi i problemi da questo punto di vista sono assolutamente

analoghi, anche perché per quanto riguarda i conferimenti di beni o di crediti anche nella S.r.l. si ripete la

stessa formula prevista per la S.p.A., e cioè che le quote (per la S.p.A le azioni) che corrispondono a

conferimenti di questo genere, devono comunque essere integralmente liberate al momento della

sottoscrizione. Anche qui si tratta di capire quali sono queste entità che hanno la capacità di essere

integralmente liberate al momento della sottoscrizione.

A parte le differenze evidenti, i problemi sui conferimenti sono essenzialmente uguali sia per la S.p.A. sia

per la S.r.l.

Tra le specifiche novità della disciplina dei conferimenti in S.r.l. rispetto alla S.p.A., la prima da

affrontare riguarda la possibilità di sostituire il versamento dovuto in denaro con la stipulazione di una

fideiussione bancaria o di una polizza fideiussoria. Nell’art. 2464 al 4° comma si dice che all'atto della

sottoscrizione deve essere versato presso una banca almeno il 25% dei conferimenti in denaro o in caso di

costituzione con atto unilaterale (anche la S.r.l. si può costituire con atto unilaterale) il loro intero

ammontare. Poi però si aggiunge che il versamento può essere sostituito dalla stipula, per un importo

corrispondente, di una polizza di assicurazione o di una fideiussione bancaria con le caratteristiche

determinate con decreto del presidente del consiglio dei ministri. In tale caso il socio però può sostituire,

in ogni momento, la polizza o la fideiussione con il versamento del corrispondente importo in denaro.

Fermo restando che non è ancora stato mai emanato questo decreto ministeriale che deve stabilire le

caratteristiche e la tipologia di queste due garanzie, questa previsione riprende una previsione più

generale che era contenuta in una legge del 2001 che prevedeva questa possibilità per tutte le società di

capitali, quindi anche per la S.p.A.; ma con una formula diversa, nel senso che si prevedeva non che il

semplice versamento potesse essere sostituito da una polizza, ma che addirittura la sottoscrizione potesse

essere sostituita dalla prestazione di una polizza o di una fideiussione.

Oggi, questa legge si considera sicuramente implicitamente abrogata per la S.p.A., visto che la riforma

non ne parla più nell'art. 2342; ed abrogata anche per la S.r.l. perché oggi viene disciplinata

espressamente quest’altra possibilità, per cui è solo il versamento può essere sostituito.

Ora si tratta di capire come inquadrare questa possibilità che è lasciata al socio sottoscrittore.

L'interpretazione che si è andata consolidando è nel senso che la stipulazione della fideiussione o della

polizza fideiussoria ha un effetto solutorio di adempimento dell'obbligo di conferire.

Questo è importante perché la formula del comma 4°, che consente di sostituire il versamento con la

polizza o con la fideiussione, è talmente ampia che certamente questa possibilità può riguardare anche il

versamento integrale dovuto dall’unico socio. L'unico socio non può mai limitarsi a versare solo il 25%,

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deve versare integralmente tutto. Ma data la formula usata nel 4° comma si può dire, che il socio unico

potrebbe non versare nulla, e semplicemente stipulare a favore della società una fideiussione bancaria per

l'importo complessivo del conferimento che dovrebbe versare.

E proprio il caso della socio unico fa capire la delicatezza della questione: se è vero che la polizza o la

fideiussione ha un effetto solutorio, cioè il socio è liberato nei confronti della società, vorrà dire che il

socio unico non perde, facendo così, la responsabilità limitata. Infatti il socio unico mantiene la

responsabilità limitata, sempre che abbia effettuato i conferimenti secondo quanto previsto, e sempre che

sia stata data pubblicità nelle forme previste dalla legge per la situazione di socio unico. Oppure su un

altro versante si può dire che, attribuendo quest'effetto solutorio, ad esempio sarà possibile dare

attuazione a un aumento di capitale, perché si deve considerare che il capitale iniziale è stato interamente

liberato, in quanto anche nella S.r.l. vale il principio per cui non si può dare attuazione ad un aumento di

capitale, fino a quando le quote non sono state integralmente liberate. Sorge però un problema: questa è

certamente la soluzione più corretta, ma va verificata alla luce del complesso della disciplina. E c'è, nella

disciplina della S.r.l., una norma, quella dell'art. 2466, che regola il caso del socio moroso, cioè il socio

che non completi, nei termini prescritti, i propri conferimenti. Nell'art. 2466, ultimo comma si dice che le

disposizioni dei precedenti commi, cioè così come viene regolata la situazione del socio moroso, si

applicano anche nel caso in cui, per qualsiasi motivo, siano scadute o divengano inefficaci la polizza

assicurativa o la garanzia bancaria prestate ai sensi dell'art. 2464; resta salva in tale caso (cioè in caso di

scadenza o inefficacia della garanzia) la possibilità del socio di sostituirle con il versamento del

corrispondente importo in denaro. Allora il socio è liberato, ma a condizione che la fideiussione o la

polizza fideiussoria non scadano o non divengano per qualche motivo inefficaci fino a che dura la

società, se così non fosse tornerebbe un obbligo di versamento da parte del socio (non è poi così vero che

c'è un effetto solutorio definitivo; c'è un effetto solutorio provvisorio, cioè l'effetto solutorio sia ha solo se

effettivamente queste garanzie rimangono in piedi; ma se queste garanzie per qualche motivo vengono

meno, ritornano gli obblighi del socio e quindi non viene più considerato come un socio che ha

integralmente liberato le quote che ha sottoscritto).

L'altro aspetto importante riguarda i conferimenti di fare. Per i conferimenti in natura o di crediti la

disciplina è la stessa (rispetto alla S.p.A.) per quanto riguarda l'obbligo di liberazione integrale al

momento della sottoscrizione; diversa è la stima di questi tipi di conferimenti. C’è invece una novità

assoluta, in una società di capitali, della conferibilità di opera o di servizi.

La norma al riguardo dice che il conferimento può anche avvenire mediante la prestazione di una polizza

di assicurazione o di una fideiussione bancaria con cui vengono garantiti, per l'intero valore ad essi

assegnato, gli obblighi assunti dal socio, aventi per oggetto la prestazione d'opera o di servizi a favore

della società; e poi si aggiunge che se l'atto costitutivo lo prevede, la polizza o la fideiussione possono

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anche essere sostituite con il versamento da parte del socio a titolo di cauzione di un importo

corrispondente al valore attribuito a queste prestazioni.

Questa formula si presta a due interpretazioni completamente diverse:

1) oggetto di conferimento sono la fideiussione o la polizza a cui semplicemente sono collegate delle

prestazioni d'opera o di servizio, che rappresenterebbero solo il parametro su cui valutare l'entità

della polizza o della fideiussione;

2) oggetto di conferimento sono effettivamente queste prestazioni di fare rispetto a cui cioè la polizza

o la fideiussione svolgono un semplice ruolo di garanzia

In base all’interpretazione cambia di molto il quadro complessivo.

Quello che è certo è che l'intenzione del legislatore usando questa previsione è chiara: la prospettiva è

quella di accentuare la caratterizzazione in senso personalistico del tipo societario S.r.l.. Nella relazione

che accompagna la riforma si dice che nella S.r.l. il contributo del socio molto spesso si qualifica più per

le sue qualità personali e professionali, quindi per l'apporto di servizio o d'opera che è in grado di dare,

piuttosto che per il valore dei beni o del denaro che conferisce.

1) Se partiamo dalla prima ipotesi, non c'è dubbio che un argomento a favore di questa tesi potrebbe

ricavarsi dalla legge del 2001 che prevedeva la generale sostituibilità della sottoscrizione del

capitale con la prestazione di garanzie.

Come i sostenitori di questa tesi ricostruiscono allora il quadro complessivo? Si dice che gli obblighi, che

il socio si assume, sarebbero semplicemente degli obblighi che rimarrebbero limitati nei rapporti interni

tra società e socio, e non riguarderebbero la tutela dei terzi e quindi l'integrità del capitale sociale. Mentre

invece l'integrità del capitale sociale, e quindi la tutela dei terzi, sarebbe garantita unicamente dal fatto

che il socio deve prestare o una polizza fideiussoria o una fideiussione.

Una delle caratteristiche delle prestazioni di fare rispetto alle prestazioni di dare è che ci può essere una

impossibilità anche oggettiva, che subentra a prescindere dalla volontà di inadempimento di chi si è

obbligato a un obbligo di fare. In questi casi di involontario inadempimento la società potrebbe escutere la

garanzia. Ma da come lo vedono i sostenitori di questa tesi, per quanto riguarda i terzi e in particolare i

creditori sociali, per i quali sarebbe del tutto indifferente questo rapporto tra società e socio concernente le

prestazioni di fare, questi creditori potranno escutere loro stessi la garanzia in tutte quelle situazione in cui

il restante patrimonio sociale risulti incapiente. La garanzia non sarebbe posta unicamente a salvaguardia

dell'adempimento in senso tecnico dell'obbligazione del socio di fare qualche cosa, ma più in generale

sarebbe posta a presidio dell'acquisizione integrale da parte della società del valore corrispondente al

capitale sottoscritto.

Sempre seguendo questa tesi, se la prestazione di fare è indifferente rispetto all'integrità del capitale

sociale, che sarebbe garantita invece dalla fideiussione o dalla polizza, è allora altrettanto evidente che

anche se il socio, nel frattempo, ha fatto le sue prestazioni di fare, fino all’eventuale escussione della

fideiussione o della polizza, la quota di capitale relativa a questo non potrebbe mai considerarsi versata

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(saremmo di fronte a un capitale semplicemente garantito ma non versato). Da questo punto di vista

allora, il conferimento di questo genere sarebbe del tutto analogo ad un conferimento di denaro non

versato immediatamente ma solo garantito attraverso una garanzia di un terzo qualificato. Qui c'è una

conseguenza importante: se è analogo al conferimento in denaro, ciò significa che non sarebbe comunque

necessario valutare la prestazione di fare cui si è impegnato il socio, perché ciò che andrebbe a capitale

non sarebbe il valore della prestazione ma il valore che è coperto dalla fideiussione o dalla polizza

fideiussoria. Non c'è bisogno di nessuna relazione di stima per valutare il valore della prestazione che il

socio vuole effettuare, come invece si deve fare quando si conferisce un bene o un credito.

Altra conseguenza è che questa garanzia rimarrebbe in piedi fino allo scioglimento della società, o

all'eventuale riduzione del capitale che si dovesse fare con liberazione dai conferimenti ulteriori, proprio

perché quella quota di capitale, se oggetto del conferimento è la fideiussione, non può dirsi mai versata; è

solo garantito quel versamento. E quindi, anche se socio ha completato i suoi obblighi di fare questa

garanzia, dovrebbe rimanere eternamente in piedi fino quando la società non si scioglie o fino a quando

non si riduce il capitale con liberazione dei soci di effettuare nuovi conferimenti.

Ma allora i sostenitori di questa tesi concludono che il legislatore, così come aveva fatto nel 2001,

avrebbe potuto semplicemente dire che nella S.r.l. il capitale, o una parte del capitale, può essere coperto

da conferimenti di fideiussioni o di polizze fideiussorie. Allora si dice che è stata solo una scelta

discrezionale del legislatore, limitare questa possibilità al caso in cui ci sia anche l'assunzione di un

impegno di fare qualcosa da parte del socio; ma è una cosa che poteva anche non esserci, e poteva essere

prevista, in generale la possibilità, di sostituire i conferimenti con una prestazione di garanzia.

2) Sull'altro versante, ci sono invece i sostenitori della tesi per cui ciò che si conferisce è proprio

l'opera o i servizi. In sostanza in questa logica, che rovescia quella di prima, la garanzia che la legge

prevede, attraverso la prestazione della polizza o della fideiussione, serve semplicemente per garantire

l'effettività delle prestazioni di fare.

Queste prestazioni di fare sono per loro natura più a rischio delle prestazioni di dare, perché, a parte il

caso dell'inadempimento volontario che ci può essere anche nelle prestazioni di dare, nelle prestazioni di

fare ci può essere una impossibilità sopravvenuta della prestazione, che prescinde dalla volontà di chi si

era obbligato a farla. E siccome qui c'è maggiore rischio di non copertura del capitale ecco che allora la

legge dice che si ammettono i conferimenti di fare, ma che questi conferimenti devono essere garantiti da

uno strumento di garanzia (una polizza o una fideiussione). Ma ciò che si conferisce sono le prestazioni di

fare, semplicemente blindate da una garanzia di un terzo qualificato (banca o assicurazione).

Art. 2464. (Conferimenti). Il valore dei conferimenti non può essere complessivamente inferiore all’ammontare globale del capitale sociale. Possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica. Se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, il conferimento deve farsi in danaro. Alla sottoscrizione dell’atto costitutivo deve essere versato presso una banca almeno il venticinque per cento dei conferimenti

in danaro e l’intero soprapprezzo o, nel caso di costituzione con atto unilaterale, il loro intero ammontare. Il versamento può

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essere sostituito dalla stipula, per un importo almeno corrispondente, di una polizza di assicurazione o di una fideiussione

bancaria con le caratteristiche determinate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri; in tal caso il socio può in ogni

momento sostituire la polizza o la fideiussione con il versamento del corrispondente importo in danaro.

Per i conferimenti di beni in natura e di crediti si osservano le disposizioni degli articoli 2254 e 2255. Le quote corrispondenti a tali conferimenti devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione. Il conferimento può anche avvenire mediante la prestazione di una polizza di assicurazione o di una fideiussione bancaria con cui vengono garantiti, per l’intero valore ad essi assegnato, gli obblighi assunti dal socio aventi per oggetto la prestazione d’opera o di servizi a favore della società. In tal caso, se l’atto costitutivo lo prevede, la polizza o la fideiussione possono essere sostituite dal socio con il versamento a titolo di cauzione del corrispondente importo in danaro presso la società. Se viene meno la pluralità dei soci, i versamenti ancora dovuti devono essere effettuati nei novanta giorni.

Si vuole esaminare il problema della possibilità di conferire opera o servizi nella S.r.l.

Proprio per l’ambiguità della formula usata dalla legge nell’art. 2464, le possibili interpretazioni di questa

disciplina sono due:

1) l’interpretazione secondo cui il vero oggetto del conferimento non sarebbero le prestazioni di fare

(a cui si è impegnato il socio), ma sarebbero le prestazioni di garanzia che il socio fornisce alla

società (fideiussione bancaria o polizza fideiussoria). L’eventuale accettazione di questa tesi ha a

cascata una serie di conseguenze:

il fatto che questo tipo di conferimento sarebbe sostanzialmente assimilabile ad un

conferimento in danaro – il suo valore quindi non necessita di un valore di stima, essendo

il valore dato dal valore della prestazione di garanzia.

il capitale non può considerarsi integralmente versato fino a quando non è escussa la

garanzia (oppure fino allo scioglimento della società).

2) la tesi opposta è quella che tende a riportare al centro del conferimento la prestazione

d’opera o di servizi (anche ai fini della rispettiva formazione dl capitale sociale). In questa ottica,

la garanzia data dalla fideiussione bancaria o dalla polizza fideiussoria è prevista dalla legge solo

in considerazione alla naturale precarietà di un conferimento, consistente in una o più prestazioni

di fare. Le prestazioni di fare, a differenza di quelle di dare, non solo possono venir meno per un

inadempimento, ma anche per l’impossibilità sopravvenuta non dipendente dalla volontà del

prestatore d’opera o di servizi. Adottando questa posizione, il conferimento non può più essere

qualificato in nessun modo come un conferimento in danaro, ed entra in pieno titolo nell’ambito

dei conferimenti diversi dal danaro. Quindi si deve necessariamente applicare la disciplina della

stima dei conferimenti. Altra conseguenza di questa tesi è, che la garanzia che è dovuta (per

garantire l’integrità del capitale sociale) opera fin dal momento della sottoscrizione e solamente

per la durata dell’obbligo di fare. Una volta completata l’opera o prestato il servizio il

conferimento è completamente realizzato e non c’è più la necessità di alcuna garanzia. Si può

anche sostenere, in questa logica, che man mano viene svolta la prestazione di fare da parte del

socio, l’entità della garanzia necessaria si riduce (una sorta di ammortamento della garanzia). 15

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È evidente la profonda differenza teorica, ma anche pratica, che comporta l’accettazione di una o

dell’altra tesi. Un’altra differenza: se si accetta la prima tesi, ciò comporta l’applicazione a questi

conferimenti di tutta la disciplina del socio moroso; se invece si accetta la seconda tesi, il conferimento è

considerato immediatamente liberato all’atto della sottoscrizione (anche se con l’obbligo di un’ulteriore

collaborazione del socio che deve poi completamente svolgere la sua attività) e quindi non ci sarebbe, in

nessun caso, l’applicazione della disciplina del socio moroso.

Gli interpreti della riforma sono divisi tra queste due tesi, anche se forse tende a prevalere la seconda. È

un aspetto rivoluzionario perché si è sempre considerato che le obbligazioni di fare non sono

capitalizzabili in quanto tali. Oggi, però, siamo in presenza di una prospettiva che vede nel capitale uno

strumento di produttività per la società: quindi anche le prestazioni di fare rappresentano entità utili al

fine della realizzazione dell’attività sociale.

Per chi accetta la prima tesi, c’è un’altra considerazione da svolgere: sorge un’evidente contraddizione.

Da un lato, se il socio completasse la sua prestazione di fare, si troverebbe ad aver esaurito il suo obbligo

verso la società, ma la garanzia non decadrebbe (essendo essa l’oggetto del conferimento, deve rimanere

in piedi fino alla fine della società). La conseguenza paradossale è che ad un certo punto questa garanzia

potrebbe essere escussa e la banca o l’assicurazione, costrette a pagare, si rivarrebbero su colui che ha

acceso la garanzia, cioè sul socio. Il socio si troverebbe ad aver lavorato a favore della società e a dover

versare il valore della garanzia. Questa è una conseguenza paradossale che non può essere accolta. Questo

non accadrebbe nel caso speculare (seconda tesi): mentre il socio è impegnato a svolgere la sua attività, la

fideiussione o la polizza fossero escusse, è chiaro che il socio non sarebbe più obbligato a prestare la sua

attività. Quindi è solo nel primo caso che la conseguenza sarebbe grave, salvo non ipotizzare che a questo

punto la società dovesse pagare le prestazioni del socio (ma questa sembra una forzatura). Anche per

questo motivo sarebbe preferibile, e sembra più rispondente alla volontà del legislatore, la tesi che vede

come oggetto del conferimento proprio le prestazioni d’opera o di servizi.

Dall’altra parte questa novità avrà (si ipotizza da parte di molti) una scarsa utilizzazione pratica.

L’utilizzazione sarebbe scarsa perché:

per accendere la garanzia bisogna supportare dei costi;

se si accettasse la seconda tesi, in più ci sarebbero i costi della relazione di stima;

è da considerare anche la difficoltà di definire fin dall’inizio la durata e gli effettivi elementi

costitutivi della prestazione di fare, che dovrà effettuare il socio.

Anche nelle S.r.l. è previsto dalla riforma lo stesso meccanismo che è possibile realizzare nelle S.p.A.:

quello per cui al socio possono essere assegnate azioni (S.p.A) o quote (S.r.l.) in misura non

necessariamente proporzionale al valore del conferimento. Così il socio che si fosse impegnato ad

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effettuare le prestazioni d’opera o di servizio potrebbe essere remunerato con l’assegnazione di una quota

di valore superiore al valore effettivo del suo conferimento in denaro o in natura.

La formula generale usata nell’art. 2464 (“nelle S.r.l. possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo

suscettibili di valutazione economica”) necessita di una precisazione: se si ritiene che l’oggetto del

conferimento possono essere anche le prestazioni d’opera o di servizi, la formula non va intesa nel senso

tecnico (solo ciò che può andare all’attivo del bilancio può essere conferito), ma la legge intende dire che

devono essere elementi attivi; ciò che va conferito non solo deve essere suscettibile di valutazione

economica ma deve anche rappresentare un arricchimento per la società, cioè deve essere una

componente attiva (questo appare meno ovvio quando si conferiscano entità complesse, come ad esempio

un’azienda).

Anche nelle S.r.l. i conferimenti in natura o di crediti (i conferimenti diversi dal denaro) devono essere

valutati. Anche qui troviamo una novità assoluta della riforma: nella precedente disciplina si prevedeva

già che i conferimenti in natura o di crediti dovessero essere valutati, ma la legge semplicemente rinviava

alla corrispondente disciplina prevista per le S.p.A.; oggi invece la legge ha dettato una disciplina ad hoc

per i conferimenti in natura o di crediti nelle S.r.l.

Art. 2465. (Stima dei conferimenti di beni in natura e di crediti). Chi conferisce beni in natura o crediti deve presentare la relazione giurata di un esperto o di una società di revisione iscritti nel registro dei revisori contabili o di una società di revisioneiscritta nell’apposito registro albo. La relazione, che deve contenere la descrizione dei beni o crediti conferiti, l’indicazionedei criteri di valutazione adottati e l’attestazione che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini delladeterminazione del capitale sociale e dell’eventuale soprapprezzo, deve essere allegata all’atto costitutivo. La disposizione del precedente comma si applica in caso di acquisto da parte della società, per un corrispettivo pari o superiore al decimo del capitale sociale, di beni o di crediti dei soci fondatori, dei soci e degli amministratori, nei due anni dalla iscrizione della società nel registro delle imprese. In tal caso l’acquisto, salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo, deve essere autorizzato con decisione dei soci a norma dell’articolo 2479. Nei casi previsti dai precedenti commi si applicano il secondo comma dell’articolo 2343 ed il quarto e quinto comma dell’articolo 2343-bis.

Le principali differenze di questa disciplina da quella delle S.p.A. sono:1. l’esperto che deve valutare il conferimento nelle S.r.l. non deve essere

designato dal tribunale. Qua il legislatore ha volto privilegiare la rapidità del procedimento rispetto all’imparzialità dell’esperto;

2. mentre nella S.p.A. l’autorità giudiziaria, chiamata a designare l’esperto, non è vincolata nella scelta dell’esperto, nella disciplina della S.r.l. l’esperto viene scelto dal socio conferente, ma deve rientrare nell’ambito delle categorie

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qualificate. Il 2465 prevede che l’esperto, che può essere anche una società di revisione, debba essere iscritto nei registri dei revisori contabili o nell’albo speciale delle società di revisione. Qui si sorvola sull’indipendenza, ma si recupera la serietà della stime che verrà fatta dall’esperto;

3. il 2465 richiama la disciplina corrispondente dettata in tema delle S.p.A.: si prevede nell’ultimo comma che “nei casi previsti dai precedenti commi si applicano il

secondo comma dell’articolo 2343 ed il quarto e quinto comma dell’articolo 2343-bis”. Il secondo comma dell’art. 2343 prevede: “L’esperto risponde dei danni causati alla società, ai soci e ai

terzi. Si applicano le disposizioni dell’articolo 64 del codice di procedura civile”. Non vengono richiamati invece il terzo e il quarto comma in cui si prevede l’obbligo per gli amministratori di controllare la stima e, se ritenuto necessario, di procedere alla revisione della stima. A questo punto si pone il problema di cosa succede se l’esperto abbia sovrastimato il bene o il credito. La posizione prevalente è: il valore attribuito al bene o al credito dall’esperto sarebbe definitivo e immodificabile, salvo fatti sopravvenuti. Questo fatto comporta la massima responsabilizzazione dell’esperto perché egli è responsabile per i danni eventualmente causati da una sua “falsa” stima, nei confronti dei terzi, dei soci e della società. Rimane comunque il problema degli amministratori della società che devono iscrivere nel bilancio il valore effettivo del bene o del credito conferito. Per quanto riguarda la tutela dei terzi, la legge ha ritenuto sufficiente, a fronte di una eventuale sopravvalutazione dei conferimenti (una non effettiva integrale copertura del capitale), la responsabilità attribuita soltanto all’esperto.

4. L’art. 2465, analogamente a quanto accade per le S.p.A., prevede che la necessità di una relazione giurata di un esperto o di una società di revisione si applichi anche nei casi di acquisti pericolosi. Cioè di quelli acquisti che la società effettua nei due anni dall’iscrizione della società nel registro delle imprese. La legge ha voluto parificare questi acquisti ai conferimenti, per evitare che, attraverso questa strada, si arrivi all’annacquamento del capitale, che si può determinare attraverso una sopravvalutazione dei conferimenti diversi dal denaro. L’unica differenza dalla disciplina della S.p.A. è che l’acquisto di questo genere (superiore ad 1/10 del capitale sociale) non necessariamente deve essere autorizzato dall’assemblea (come invece deve essere nelle S.p.A.).

5. la disposizione del secondo comma dell’art. 2465 non prevede quelle esenzioni che abbiamo visto esserci nelle S.p.A.: non occorre applicare tutto il

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procedimento dei conferimenti in natura quando gli acquisti siano fatti a condizioni d’uso oppure nell’attuazione dell’ordinaria attività della società, o quando i beni acquistati siano valutati in mercati regolamentati o dall’autorità amministrative. Qui (nelle S.r.l.) tutti gli acquisti che superino 1/10 del capitale devono invece seguire questa particolare procedura.

Socio inadempiente.

Art. 2466. (Mancata esecuzione dei conferimenti). Se il socio non esegue il conferimento nel termine prescritto, gli amministratori diffidano il socio moroso ad eseguirlo nel termine di trenta giorni. Decorso inutilmente questo termine gli amministratori, qualora non ritengano utile promuovere azione per l’esecuzione dei conferimenti dovuti, possono vendere agli altri soci in proporzione della loro partecipazione la quota del socio moroso. La vendita è effettuata a rischio e pericolo del medesimo per il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato. In mancanza di offerte per l’acquisto, se l’atto costitutivo lo consente, la quota è venduta all’incanto. Se la vendita non può aver luogo per mancanza di compratori, gli amministratori escludono il socio, trattenendo le somme riscosse. Il capitale deve essere ridotto in misura corrispondente. Il socio moroso non può partecipare alle decisioni dei soci. Le disposizioni dei precedenti commi si applicano anche nel caso in cui per qualsiasi motivo siano scadute o divenganoinefficaci la polizza assicurativa o la garanzia bancaria prestate ai sensi dell’articolo 2464. Resta salva in tal caso la possibilità del socio di sostituirle con il versamento del corrispondente importo di danaro.

In questa norma si stabilisce che se il socio non esegue il conferimento nel termine prescritto, gli amministratori diffidano il socio ad eseguirlo, nel termine di trenta giorni. Questa diffida è un vero e proprio obbligo. Quando questa diffida rimane inevasa, cioè nei 30 giorni successivi il socio interessato non provveda a versare, gli amministratori tornano ad avere una discrezionalità nel comportamento da seguire: decorso inutilmente questo termine gli amministratori, qualora non ritengano utile promuovere azione per l’esecuzione dei conferimenti dovuti, possono vendere agli altri soci in proporzione della loro partecipazione la quota del socio moroso. Quindi, una prima alternativa che hanno gli amministratori: possono agire esecutivamente nei confronti del socio per ottenere quanto il socio non ha versato nei tempi dovuti. La seconda alternative: procedere alla vendita della quota del socio moroso (possono vendere agli altri soci in proporzione della quota da ciascuno di questi posseduta). Non c’è l’obbligo per la vendita. Questa vendita che gli amministratori possono fare a favore degli altri soci deve essere effettuata per il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato. Questo significa che gli amministratori devono invitare i soci a formulare delle offerte di acquisto della partecipazione del socio

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moroso. Questa offerta deve essere fatta a un valore minimo che è dato dal valore risultante dall’ultimo bilancio approvato. In mancanza di offerte da parte dei soci la legge prevede ulteriormente, ma solo se l’atto costitutivo lo prevede, la possibilità di una vendita all’incanto – la quota viene messa all’asta nei confronti di terzi che siano interessati a fare una proposta di acquisto. Se poi questa vendita a favore degli altri soci o, ove consentito, all’incanto non ha luogo, la legge prevede che gli amministratori escludono il socio. L’esclusione del socio è un obbligo per gli amministratori, non una mera possibilità (come nella S.p.A.). L’esclusione del socio comporta che la società, a titolo di risarcimento, trattenga comunque le somme già versate da quel socio e che riduca il capitale sociale, in misura corrispondente alla quota del socio che è stato escluso. Così come nella S.p.A. anche nella S.r.l., come ulteriore stimolo a completare i versamenti dovuti, si prevede che il socio in mora non può votare. L’ultimo comma dell’art. 2466 prevede che: “Le disposizioni dei precedenti commi si applicano anche nel caso in cui per

qualsiasi motivo siano scadute o divengano inefficaci la polizza assicurativa o la garanzia bancaria prestate ai sensi dell’articolo 2464. Resta

salva in tal caso la possibilità del socio di sostituirle con il versamento del corrispondente importo di danaro.” Nell’art. 2464 si

prevedono due ipotesi in cui si possono o si debbano prestare le garanzie:

1. quando il socio decide di sostituire il versamento dovuto con la prestazione di una fideiussione o

di una polizza fideiussoria

2. quando il conferimento consiste in una prestazione d’opera o di servizi.

Queste due garanzie non sono identiche:

nel primo caso la legge prevede che la garanzia deve essere prestata sulla base di un

modello elaborato e previsto in un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e nel

secondo caso no;

nel primo caso, anche se in maniera non completa, la prestazione della garanzia è un modo

alternativo di eseguire il conferimento; mentre nel secondo caso la garanzia ha proprio una

funzione di garanzia della prestazione.

Per sapere se l’ultimo comma dell’art. 2466 si applica a entrambi i casi o ad uno solo, bisogna prima

capire se la disciplina del socio moroso si applica solo ai conferimenti in denaro o anche agli altri. Se si

applica solo ai conferimenti in danaro (la tesi più corretta), è evidente che la disposizione dell’ultimo

comma dell’art. 2466 si applica solo alle fideiussioni e alle polizze fideiussorie usate come sostitutivo del

conferimento in danaro (1).

Nell’art. 2467 si disciplina un particolare regime che riguarda i finanziamenti fatti dai soci a favore della

società. È una particolare disciplina che viene poi richiamata nell’ambito dei gruppi.

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Art. 2467. (Finanziamenti dei soci). Il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispettoalla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito. Ai fini del precedente comma s’intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.

Quote di partecipazione nella S.r.l.Una delle differenze fondamentali tra le S.p.A. e le S.r.l. è data dal fatto che nella S.r.l. non è possibile

che le partecipazioni dei soci siano rappresentate da azioni. Questo viene espressamente detto nel primo

comma dell’art. 2468.

Art. 2468. (Quote di partecipazione). Le partecipazioni dei soci non possono essere rappresentate da azioni nè costituire oggetto di sollecitazione all’investimento. Salvo quanto disposto dal terzo comma del presente articolo, i diritti sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione da ciascuno posseduta. Se l’atto costitutivo non prevede diversamente, le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale al conferimento.Resta salva la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardantil’amministrazione della società o la distribuzione degli utili.Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo e salvo in ogni caso quanto previsto dal primo comma dell’articolo2473, i diritti previsti dal precedente comma possono essere modificati solo con il consenso di tutti i soci.Nel caso di comproprietà di una partecipazione, i diritti dei comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune nominato secondo le modalità previste dagli articoli 1105 e 1106.Nel caso di pegno, usufrutto o sequestro delle partecipazioni si applica l’articolo 2352.

Il primo comma dice anche che le quote non rappresentabili da azioni non possono neppure formare

oggetto di sollecitazione all’investimento, cioè non possono neppure essere oggetto di un’offerta al

pubblico degli investitori. Va detto però che con la riforma, se da un lato si specifica il divieto di

sollecitazione all’investimento, dall’altro viene creato un altro istituto che permette alle S.r.l. di ricorrere

al mercato di capitale di credito; non necessariamente attraverso rapporti individuali con un istituto di

credito, ma anche attraverso una sollecitazione al prestito.

In base all’art. 2483 la S.r.l. può emettere titoli di debito.

Art. 2483. (Emissione di titoli di debito). Se l’atto costitutivo lo prevede, la società può emettere titoli di debito. In tal casol’atto costitutivo attribuisce la relativa competenza ai soci o agli amministratori determinando gli eventuali limiti, le modalità e le

maggioranze necessarie per la decisione.

I titoli emessi ai sensi del precedente comma possono essere sottoscritti soltanto da investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali. In caso di successiva circolazione dei titoli di debito, chi li trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano

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investitori professionali ovvero soci della società medesima. La decisione di emissione dei titoli prevede le condizioni del prestito e le modalità del rimborso ed è iscritta a cura degli amministratori presso il registro delle imprese. Può altresì prevedere che, previo consenso della maggioranza dei possessori dei titoli, la società possa modificare tali condizioni e modalità. Restano salve le disposizioni di leggi speciali relative a particolari categorie di società e alle riserve di attività.

Questa è una sorta di possibilità di emissione di obbligazioni da parte della S.r.l., cosa che prima della

riforma non era affatto disciplinata e ritenuta impossibile.

Il problema è quello della natura che si deve riconoscere alle quote delle S.r.l. A questo riguardo ci sono

state nel tempo varie posizioni elaborate sia in dottrina, che in giurisprudenza. Secondo la tesi prevalente

in giurisprudenza, prima della riforma, la quota della S.r.l. veniva identificata come un bene mobile

immateriale non registrato. Sempre prima della riforma, la disciplina delle quote della S.r.l. aveva già

subito una modifica, nel 1993 con la legge Mancino: si disciplinava il trasferimento delle quote delle S.r.l.

e il trasferimento delle aziende commerciali. Si voleva, attraverso l’obbligo di iscrizione nel registro delle

imprese dei trasferimenti di cui sopra, tracciare il percorso che queste entità fanno. Una parte della

dottrina così ha ritenuto che dalla riforma del 1993 in poi, le quote delle S.r.l. dovessero essere

considerate come dei beni mobili registrati.

Con la recente riforma viene pienamente confermata la qualificazione della quota di S.r.l.come bene

mobile – la conferma viene dall’art. 2471-bis.

Art. 2471-bis. (Pegno, usufrutto e sequestro della partecipazione). La partecipazione può formare oggetto di pegno, usufrutto e sequestro.Salvo quanto disposto dal terzo comma dell’articolo che precede, si applicano le disposizioni dell’articolo 2352.

Il pegno, l’usufrutto e il sequestro si applicano necessariamente a dei beni. Quindi da qui si trae la

conferma che le quote sono beni mobili. Rimane invece aperto il problema di capire se si tratti di un bene

mobile registrato o non registrato. A questo proposito ci sono dei segnali contraddittori nella riforma. A

favore della tesi che si tratti di un bene registrato deporrebbe il nuovo art. 2470:

Art. 2470. (Efficacia e pubblicita). Il trasferimento delle partecipazioni ha effetto di fronte alla società dal momento dell’iscrizione nel libro dei soci secondo quanto previsto nel successivo comma. L’atto di trasferimento, con sottoscrizione autenticata, deve essere depositato entro trenta giorni, a cura del notaio autenticante, presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale. L’iscrizione del trasferimento nel libro dei soci ha luogo, su richiesta dell’alienante o dell’acquirente, verso esibizione del titolo da cui risultino il trasferimento e l’avvenuto deposito. In caso di trasferimento a causa di morte il deposito e l’iscrizione sono effettuati a richiesta dell’erede o del legatario verso presentazione della documentazione richiesta per l’annotazione nel libro dei soci dei corrispondenti trasferimenti in materia di società per azioni. Se la quota è alienata con successivi contratti a più persone, quella tra esse che per prima ha effettuato in buona fede l’iscrizione nel registro delle imprese è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore. Quando l’intera partecipazione appartiene ad un solo socio o muta la persona dell’unico socio, gli amministratori devono depositare per l’iscrizione del registro delle imprese una dichiarazione contenente l’indicazione del

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cognome e nome o della denominazione, della data e del luogo di nascita o di costituzione, del domicilio o della sede e cittadinanza dell’unico socio. Quando si costituisce o ricostituisce la pluralità dei soci, gli amministratori ne devono depositare apposita dichiarazione per l’iscrizione nel registro delle imprese. L’unico socio o colui che cessa di essere tale può provvedere alla pubblicità prevista nei commi precedenti. Le dichiarazioni degli amministratori previste dai precedenti quarto e quinto comma devono essere depositate entro trenta giorni dall’iscrizione nel libro dei soci e devono indicare la data di tale iscrizione.[cfr. anche art. 2479/4°c. vecchio testo].

Al terzo comma si prevede che, nel caso una quota di S.r.l., sia venduta a più persone, prevale tra i più acquirenti quello che ha effettuato per primo l’iscrizione nel registro delle imprese. Sembrerebbe quindi un regime analogo a quello di beni immobili e dei beni mobili registrati. Il problema è che questa stessa norma aggiunge, che la priorità dell’iscrizione nel registro delle imprese vale come vittoria nel conflitto di più acquirenti, solo nella misura in cui, chi per primo ha effettuato l’iscrizione nel registro delle imprese, lo abbia fatto in buona fede. Si introduce quindi l’elemento soggettivo – quello di buona fede, che sembrerebbe incompatibile col regime dei pubblici registri. Quindi rimane il dubbio sul fatto che si tratti di un bene mobile registrato o di un bene mobile comune.

La disciplina di partecipazione in S.r.l. è chiaramente diversa da quella della S.p.A. Mentre la disciplina della S.p.A. è modellata sul principio della rilevanza centrale della quota, la disciplina della S.r.l. è modellata sul principio della rilevanza centrale del socio e dei rapporti tra soci. Nella S.r.l. il numero delle quote è dato dal numero dei soci. Questo comporta che naturalmente le quote possono essere di diverso valore – le quote sono commisurate alla figura del loro titolare.

DISCIPLINA DELLE PARTECIPAZIONI NELLE S.r.l.È stato visto come nella S.r.l., a differenza della S.p.A., le quote non sono individuate oggettivamente

come frazioni, tutte uguali del capitale sociale, ma la quota si diversifica in base all’appartenenza al

singolo socio. Quindi ciascun socio ha sempre un'unica quota, ovviamente un'unica quota che ha diverso

valore in base alla quota di capitale sottoscritta da ciascuno.

Questo è il principio base che segna il tratto personalistico delle S.r.l. In relazione ai diritti che

attribuiscono le quote di partecipazione la legge detta due regole, entrambe derogabili con previsione

statutaria diversa:

1. la prima regola secondo cui le quote di partecipazione dei soci sono determinate in misura

proporzionale al conferimento da ciascuno di essi effettuato, però è possibile una diversa

previsione dell’atto costitutivo. L’art 2468 co.2 (Quote di partecipazione). Salvo quanto disposto dal terzo comma del

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presente articolo, i diritti sociali spettano ai soci in misura proporzionale alla partecipazione da ciascuno posseduta. Se l’atto

costitutivo non prevede diversamente, le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale al conferimento.

Quindi si parla di assegnazione delle azioni in misura non proporzionale ai conferimenti effettuati.

2. viene prevista una seconda regola, anche questa derogabile, secondo cui i diritti sociali spettano ai

soci in misura proporzionale alla partecipazione che ciascuno di essi possiede. Questa regola era

immodificabile prima della riforma, oggi può essere modificata nelle S.r.l., perché sempre all’art

2468 co.3 (Quote di partecipazione). Resta salva la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di

particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili. Quindi l’atto costitutivo può

prevedere che a singoli soci, non a singole quote, possano essere dati particolari diritti che devono

riguardare o l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili.

Va segnalato che l’ art 2468 co.4 (Quote di partecipazione). Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo e salvo in ogni caso

quanto previsto dal primo comma dell’articolo 2473, i diritti previsti dal precedente comma possono essere modificati solo con il consenso di

tutti i soci. Per modificare l’atto costitutivo, in riferimento a questi diritti particolari attribuiti a uno o più

soci, serve quindi la votazione unanime di tutti i soci.

La modifica dei diritti particolari, se fatta direttamente, può avvenire solo all’unanimità, ma che essa può

in realtà anche derivare da decisioni di soci prese a maggioranza, decisioni relative ad una certa

operazione, da cui indirettamente può derivare una modifica di quei diritti particolari. Riassumendo:

se si vuole intervenire direttamente sull’atto costitutivo per modificare i diritti lo si può fare solo

con l’unanimità.

se invece viene assunta una decisione, che indirettamente va a toccare i diritti particolari attribuiti

da un socio, ecco che allora questa decisione viene presa a maggioranza però comporta il diritto di

recesso del socio (anche se solo quando questi diritti spettanti al socio sono modificati in modo

rilevante).

Questi particolari diritti che possono essere attribuiti ad uno o più soci della S.r.l. sono diritti che possono

riguardare o l’amministrazione della società, o la partecipazione agli utili.

Parlare di diritti particolari legati all’amministrazione mostra una forma ambigua: bisogna capire se questi

diritti possono riguardare soltanto l’amministrazione in senso restrittivo (come gestione della società), o

se il riferimento all’amministrazione possa essere inteso anche come riferimento ai diritti amministrativi

che spettano ai soci. A questo proposito si analizza il riferimento è contenuto in una norma che riguarda le

decisione dei soci: l’art. 2479, co. 5 (Decisioni dei soci) Ogni socio ha diritto di partecipare alle decisioni previste dal presente

articolo ed il suo voto vale in misura proporzionale alla sua partecipazione. Questa previsione così drastica, dove non si

prevedono possibili deroghe a questa necessaria proporzionalità del diritto di voto rispetto alla misura

della partecipazione che ciascun socio ha, è palesemente una norma imperativa. Allora è chiaro che non si

può toccare il voto in sede di attribuzione di diritti particolari ai soci. Quindi, la previsione per cui si

possono attribuire particolari diritti riguardanti l’amministrazione, secondo art. 2468, va intesa nel senso di

amministrazione in senso tecnico (nel senso di particolari diritti che riguardano la gestione della società).

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Esclusa la possibilità di intervento sul diritto di voto, rimane ancora un’ampia gamma di diritti particolari

di questa categoria, che si possono attribuire ad uno o più soci: ad esempio potrebbe essere previsto

nell’atto costitutivo che un socio ha il potere di nominare uno, più o tutti gli amministratori della società;

si può prevedere che tal socio sia di diritto amministratore della società senza il bisogno di essere

nominato; si può prevedere un diritto particolare per cui un certo socio vuole mettere il veto a certe

operazioni di gestione - certe operazioni di gestione possono essere compiute solo con il suo assenso; al

singolo socio sia attribuito il diritto di decidere il compimento di certe operazioni. In particolare l’ultima

ipotesi, ed è quella che ha fatto più discutere (secondo cui l’attribuzione ad un socio del diritto di decidere

sul compimento di certe azioni pur non essendo lui amministratore) perché qualcuno ha sostenuto che in

questo caso il socio sarebbe svincolato da ogni responsabilità ( che invece è prevista per gli

amministratori); ma in realtà non è così perché la norma all’art 2476 co.6 (Responsabilità degli amministratori e

controllo dei soci) Sono altresì solidalmente responsabili con gli amministratori, ai sensi dei precedenti commi, i soci che hanno

intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi.

I diritti particolari possono riguardare anche la distribuzione degli utili. La legge ha voluto che attraverso

questa via sia possibile attribuire dei livelli nella ripartizione degli utili a uno o più soci. Semmai il

problema è capire se è possibile conferire un privilegio in merito alla sopportazione delle perdite. La

norma che chiarisce il tutto è l’art. 2482-quater.

Art 2482-quater. (Riduzione del capitale per perdite e diritti dei soci). In tutti i casi di riduzione del capitale per perdite è esclusa ogni

modificazione delle quote di partecipazione e dei diritti spettanti ai soci.

Quindi nella S.r.l. le perdite devono essere comunque addossate proporzionalmente alla quota posseduta

da ciascuno dei soci.

Rimane da chiarire un punto importante cioè cosa succeda ai diritti particolari in caso di cessione della

partecipazione sociale da parte del socio, che sia titolare di questi particolari diritti. Questi diritti sono

attribuiti al socio, non sono oggettivizzati nella partecipazione sociale - per questa via non si è creata una

partecipazione privilegiata, ma un socio privilegiato. Quindi è chiaro con il trasferimento della

partecipazione, non si possono trasferire anche i diritti particolari, perché quelli appartengono al socio.

Ma se il socio trasferisce la sua partecipazione ad un terzo, quei diritti particolari che a lui spettavano

statutariamente si estinguono. Ma si pone il problema di attribuzione dei diritti particolari a qualcun altro.

Se invece il socio trasferisce solo parzialmente la sua partecipazione, fermo restando che i diritti

particolari non seguono la quota, la conseguenza è che questi diritti rimangono integralmente in capo allo

stesso socio Peraltro si ritiene, anche se la legge non ne parla espressamente, che l’atto costitutivo possa

prevedere la trasferibilità del diritto particolare a seguito del trasferimento della partecipazione. La regola

generale, in ogni caso, è che i diritti particolari in caso di trasferimento della partecipazione:

se il trasferimento è parziale rimangono interamente in capo al socio trasferente.16

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se il trasferimento è integrale il diritto semplicemente si estingue.

Riassumendo, nella S.r.l. è possibile diversificare le posizioni dei soci, attraverso una attribuzione

statutaria di particolari diritti, ma non si possono creare diverse categorie di quote dotate oggettivamente

di diritti diversi.

Quanto è stato detto prima sulla possibilità del socio di cedere anche parzialmente la sua quota, deriva da

un principio che la legge oggi non esplicita, ma che è insito proprio nel fatto che le quote in S.r.l. sono

tendenzialmente di diverso valore, perché si commisurano alla persona del loro titolare. È ovvio che la

possibilità di cedere parzialmente la quota deriva dal fatto che le quote sono liberamente divisibili. Nella

S.p.A. questa possibilità non c’è, in forza del fatto che le partecipazioni sono standardizzate in azioni tutte

di ugual valore necessario. Nella S.r.l. invece la quota è liberamente divisibile dato che non c’è il vincolo

della parità di valore. Dato che il numero delle quote è legato al numero dei soci, aumentando il numero

dei soci aumenta anche il numero delle quote, ma la somma delle quote deve essere sempre uguale al

capitale sociale.

La legge prevede una disciplina della comunione della quota, così come viene prevista nella S.p.A. una

disciplina della comunione dell’azione, nell’art 2468 co.5 (Quote di partecipazione). Nel caso di comproprietà di una

partecipazione, i diritti dei comproprietari devono essere esercitati da un rappresentante comune nominato secondo le modalità previste dagli

articoli 1105 e 1106. (ESEMPIO: Il caso di comproprietà può accadere nel caso in cui muoia il socio di una

società a responsabilità limitata che ha più eredi, quella quota evidentemente va in comunione tra gli

eredi, anche se secondo il principio della divisibilità potrà essere sempre divisa poi tra gli eredi.)

Nulla comunque impedisce che a livello statutario sia prevista l’inscindibilità delle quote.

DISCIPLINA DEL TRASFERIMENTO DELLA PARTECIPAZIONI NELLA S.r.l.

A questa disciplina sono dedicati gli artt. 2469 e 2470. Si vede subito una differenza radicale rispetto alla

S.p.A. dove la legge prevede il principio di libera trasferibilità delle azioni, salvo diverse previsioni

statutarie. Anche nella S.r.l. si afferma il principio della libera trasferibilità delle quote, ma è possibile

non solo prevedere limiti e condizioni alla libera circolazione delle quote, ma addirittura prevedere

l’intrasferibilità delle quote (l’art. 2469).

Art 2469 (Trasferimento delle partecipazioni). Le partecipazioni sono liberamente trasmissibili per atto tra vivi e per successione a causa di

morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo.

Qualora l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci

o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di

morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’articolo 2473. In tali casi l’atto costitutivo può stabilire un

termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non

può essere esercitato.

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Anche dalla disciplina pre-riforma si ricavava l’intrasferibilità; ma la riforma ha previsto, nel momento in

cui l’atto costitutivo preveda un’intrasferibilità delle quote, un meccanismo che tuteli il socio interessato a

cedere la quota. La possibile blindatura della società che avviene attraverso la previsione di una assoluta

intrasferibilità delle quote, oggi è mitigata garantendo al socio un diritto di uscita dalla società: La legge

di riforma ha voluto contemperare gli interessi coinvolti nella sitauzione:

quelli dell’insieme dei soci di mantenere inalterata la compagine sociale nel tempo, che si esprime

attraverso l’inserimento si una clausola di intrasferibilità,

quelli del socio a non rimanere prigioniero a tempo indefinito all’interno della società,

e terzo, quelli dei terzi e dei creditori sociali di vedersi garantita comunque la permanenza del

capitale sociale a seguito di tutte queste operazioni.

Per quanto riguarda l’interesse dell’insieme dei soci a mantenere inalterata la compagine sociale, la legge

prevede, in deroga al principio della libera trasferibilità della partecipazione, o il possibile inserimento di

una clausola di intrasferibilità o l’inserimento, a norma dell’art. 2469, di clausole anche di mero

gradimento (che non necessita di motivazioni o del rispetto dei criteri predeterminati), sia per atti tra vivi,

sia per successioni a causa di morte. Un’altra norma che va in questo senso è nell’art 2469 co.2 … l’atto

costitutivo può stabilire un termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima

del quale il recesso non può essere esercitato.

Per quanto riguarda l’interesse del singolo socio di non rimanere prigioniero a tempo indefinito nella

società la tutela si vede sempre nel art 2469 co.2 (Trasferimento delle partecipazioni) Qualora l’atto costitutivo preveda

l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne

condizioni e limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte, il socio o i suoi eredi

possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’articolo 2473… In sostanza, il socio che vorrebbe vendere ma non può

perché c’è una clausola di intrasferibilità o di gradimento, anche mero; per il solo fatto che c’è questa

clausola nell’atto costitutivo il socio ha diritto a recedere, ottenendo lo stesso effetto che avrebbe potuto

avere, cedendo a terzi la sua quota. Attenzione perché se se ne va il socio di minoranza non accade nulla;

ma se ad andarsene è il socio di maggioranza si crea qualche problema. Il recesso segue le regole previste

per il recesso del socio nell’art 2473 e si stabilisce:

1. che i soci che recedono, hanno diritto di ottenere in rimborso della partecipazione in proporzione

del patrimonio sociale e che questo patrimonio sociale va determinato tenendo conto del suo

valore di mercato

2. si prevede che il rimborso delle partecipazioni deve essere eseguito entro 180 giorni e questa

liquidazione può essere ottenuta attraverso: l’acquisto della quota del socio recedente da parte

degli altri soci; o utilizzando riserve della società; o se non ci sono riserve riducendo il capitale

sociale. Se si deve ridurre il capitale, per rimborsare il socio che recede, si applica la norma

dell’art 2482 co.2 (Riduzione del capitale sociale). La decisione dei soci di ridurre il capitale sociale può essere eseguita soltanto

dopo tre mesi dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese della decisione medesima, purché entro questo termine nessun

creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto opposizione.

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e ancora il 2473 co.4 (Recesso del socio). Il rimborso delle partecipazioni per cui è stato esercitato il diritto di recesso deve

essere eseguito entro centottanta giorni dalla comunicazione del medesimo fatta alla società. Esso può avvenire anche mediante

acquisto da parte degli altri soci proporzionalmente alle loro partecipazioni oppure da parte di un terzo concordemente individuato

da soci medesimi. Qualora ciò non avvenga, il rimborso è effettuato utilizzando riserve disponibili o in mancanza

corrispondentemente riducendo il capitale sociale; in quest’ultimo caso si applica l’articolo 2482 e, qualora sulla base di esso non

risulti possibile il rimborso della partecipazione del socio receduto, la società viene posta in liquidazione.

Ma non tutte le clausole di gradimento hanno la conseguenza del diritto del socio a recedere, perché

questo avviene solo quando la clausola non preveda condizioni o limiti. Si tratta di capire quando la

clausola preveda condizioni o limiti e quindi non faccia scattare il diritto di recesso del socio. Per trovare

un criterio e quindi per stabilire un confine bisogna pensare alla ratio cioè alla giustificazione della

norma; e allora si può concludere in via generale che tutte le volte che il socio, in forza della clausola, sia

comunque in grado di ottenere il medesimo effetto che otterrebbe con il recesso, cioè quello di uscire

dalla società vedendosi pagata la sua quota, allora non si avrà diritto di recesso.

Quello che va ulteriormente sottolineato e che differenzia la disciplina della S.r.l. da quella della S.p.A. è Art 2469 (Trasferimento delle partecipazioni). Le partecipazioni sono liberamente trasmissibili per atto tra vivi e per successione a causa di

morte, salvo contraria disposizione dell’atto costitutivo.

Qualora l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci

o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di

morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’articolo 2473. In tali casi l’atto costitutivo può stabilire un

termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non

può essere esercitato.

Da questa norma si vede che il gradimento può essere espresso da organi sociali, dai soci o da terzi, in

sostanza; si dice che è possibile anche che l’espressione del gradimento sia rimessa ad alcuni dei soci o al

limite anche ad uno solo dei soci. Si può nominare anche un terzo come arbitro dell’ espressione del

gradimento.

Tutto ciò vale per i trasferimenti per atti tra vivi, ma anche per la successione a causa di morte. Qui la

legge si esprime in modo improprio, in forza della clausola di intrasferibilità gli eredi non diventano mai

soci, e allora dire che possano esercitare il diritto di recesso è un controsenso. La norma va intesa

evidentemente nel senso che: la liquidazione della quota agli eredi, perché gli eredi hanno il diritto alla

liquidazione della quota nel caso di intrasferibilità, va fatta con gli stessi criteri che la legge detta nel caso

di recesso del socio.

Sempre a proposito di clausole che limitano la circolazione delle quote, con la riforma nella S.p.A. si è

espressamente chiarito che queste clausole sono inseribili, modificabili o sopprimibili con una decisione

assunta a maggioranza. Analoga previsione espressa non c’è nella disciplina delle S.r.l., e allora si deve

chiedere se nella S.r.l. sia possibile inserire, modificare o sopprimere una clausola di gradimento o di

prelazione secondo le regole di maggioranza previste per le modifiche dell’atto costitutivo, oppure se sia

necessaria un’unanimità dei consensi. Ci sono due tesi contrapposte:

qualcuno dice che nella S.r.l. ciò non può essere fatto a maggioranza,17

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altri dicono, che nulla impedisce di applicare analogicamente la disciplina della S.p.A. anche alla

S.r.l., visto che non c’è una norma contraria, ma semplicemente manca la norma. Si dice quindi

che sarebbe possibile una decisione anche a maggioranza.

AUMENTO DI CAPITALE NELLA S.r.l.

L’autonomia statutaria è stata molto enfatizzata dai primi commentatori della riforma.

Prima della riforma la disciplina della S.r.l. era una disciplina di richiamo, nel senso che quasi tutte le

norme che andavano a comporre la disciplina della S.r.l., erano norme espressamente o

interpretativamente richiamate dalla disciplina della S.p.A.

Con riferimento all'operazione di aumento del capitale, prima della riforma la disciplina della S.r.l.

richiamava espressamente solo il 1° comma dell'art. 2441, che era quello originario del codice del 1942

(non modificato da interventi successivi).

Nella nuova disciplina della S.r.l. il legislatore ha fatto un utilizzo scarsissimo del concetto

dell’inderogabilità della norma. Quindi sembrerebbe che la disciplina della S.r.l. sia quasi integralmente

una disciplina derogabile da parte dell’autonomia statutaria.

Quindi come primo principio in materia di S.r.l., potremmo dire che, laddove il legislatore ha dettato

norme a tutela dei terzi, in particolare dei creditori, queste norme sono da ritenere inderogabili.

Però poi il legislatore ha fatto anche una scelta di tutela individuale del socio prevedendo tutta una serie

di norme sui diritti “dei singoli soci” nella S.r.l..

Altro principio, anche questo da alcuni discusso, che sembrerebbe potersi riaffermare come inderogabile

nella S.r.l., è il principio della responsabilità limitata del socio.

Il 7° comma dell'art. 2476 dice che “sono altresì solidalmente responsabili con gli amministratori, ai sensi dei presenti commi, i

soci che hanno intenzionalmente deciso e autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci, i terzi” . Questa è una

responsabilità di carattere eccezionale, che è comunque sempre legata all’agire del socio. All'infuori di

questa ipotesi speciale, nella S.r.l. va confermato il principio che il socio risponde limitatamente al

proprio conferimento, e quindi non gli possono essere richieste prestazioni ulteriori, salvo il risarcimento

del danno nell'ipotesi specifica in cui lui direttamente abbia autorizzato o deciso determinate operazioni

sul capitale.

Quindi anche se la dottrina parla sempre di derogabilità, in realtà invece ci sono una serie di principi che

devono essere tenuti come inderogabili.

Ci sono nella S.r.l. altri problemi di coesistenza di disciplina di norme. Uno è quello che, nella disciplina

delle S.r.l., è possibile prevedere statutariamente i cosiddetti diritti particolari dei soci.

Il secondo problema è quello del confine fra organi della società. Nel senso che, mentre nella S.p.A. c’è

una scelta legislativa decisissima (le operazioni di gestione spettano all'organo amministrativo, e

l'assemblea ha solo le competenze che le sono affidate per legge); nella S.r.l. invece c'è una linea di

confine che non è delineata chiaramente. C'è una norma, l'art. 2479, che ci fa capire che il socio nella 17

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S.r.l. è sovrano, nel senso che può sovrapporsi e sostituirsi all'organo amministrativo nelle scelte

gestionali. Infatti l'art. 2479 dice che “i soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall'atto costitutivo, nonché

sugli argomenti che uno o più amministratori, o tanti soci che rappresentano almeno un terzo del capitale sociale, sottopongono alla loro

approvazione”. Questo vuol dire che i soci nella S.r.l. possono fare una scelta programmatica. Si può nell'atto

costitutivo privare gli amministratori delle loro naturali competenze. Ma si può fare anche una scelta una

tantum: se un socio ha più di un terzo del capitale, come partecipazione, può sempre chiedere che

un'operazione gestionale venga decisa dai soci piuttosto che dall'organo amministrativo.

Il problema è che, secondo parte della dottrina, addirittura può esistere, per scelta statutaria, una S.r.l.

dove tutte le operazioni sono decise dai soci e non dall'organo amministrativo. È quindi, nella sostanza,

una società dove all'organo amministrativo rimarrebbe solo il potere di rappresentanza, e non il potere di

gestione. Questa possibilità che esista una S.r.l. dove i soci decidono tutto, e gli amministratori non

decidono praticamente nulla, è uno degli argomenti su cui maggiormente si discute.

L'altra cosa è l'art. 2468 in materia di particolari diritti dei soci. In primo luogo diritto particolare del

socio vuol dire che, come enuncia la stessa definizione, è un diritto che spetta al singolo socio come tale,

e quindi teoricamente non sarebbe una prerogativa, o comunque un accessorio, della partecipazione, ma

sarebbe un diritto ad personam, e cioè un diritto che è legato a quel determinato socio. Quindi se c'è un

diritto particolare del socio in materia di utili, per norma di carattere generale, nel momento in cui il

particolare socio, che ha quel particolare diritto, cede la sua partecipazione, la cede senza che si

trasferisca anche il diritto particolare.

L'art. 2468 in materia di particolari diritti ci dice “resta salva la possibilità che l'atto costitutivo preveda l'attribuzione a

singoli soci di particolari diritti riguardanti l'amministrazione della società o la distribuzione degli utili” . Un orientamento, che

ormai è maggioritario, che ritiene che questa norma non sia di carattere tassativo, e cioè

l'esemplificazione non sia tassativa, ma sia indicativa. Quindi ci possono essere dei particolari diritti,

diversi da quelli di nominare un amministratore, piuttosto che avere una maggiore partecipazione agli

utili; e tra questi particolari diritti qualcuno prevede anche un diritto di sottoscrizione rafforzato in sede di

aumento delle operazioni di capitale.

L'aumento del capitale nella S.r.l. è espressamente disciplinato da norme particolari. Però anche in questo

caso, a partire dalla norma dell’art. 2481, c'è una tendenza ad andare a ricercare nella disciplina della

S.p.A., come si faceva prima della riforma, risposte a quesiti che la norma in materia di S.r.l. non dà.

La prima norma in materia di aumento del capitale, che è l'art. 2481, nel 2° comma, dice che “la decisione di

aumentare il capitale sociale non può essere attuata fin quando i conferimenti precedentemente dovuti non sono stati integralmente eseguiti” .

Qui la patch dependence è nella corrispondente norma in materia di S.p.A. Questo perché la disciplina

della S.p.A ha un 1° comma dell'art. 2438 che ha sostanza equivalente. Dice infatti che “un aumento di capitale

non può essere eseguito fino a che le azioni precedentemente emesse non siano state interamente liberate” . Però poi il 2438 ha anche

un comma, il 2°, dedicato alle conseguenze della violazione; comma che non c'è invece nelle S.r.l. E

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quindi si tende a pensare che la conseguenza sia la stessa anche per le S.r.l. Il 2° comma dell’art. 2438

dice: “in caso di violazione del precedente comma gli amministratori sono solidalmente responsabile per i danni arrecati ai soci e ai terzi;

restano in ogni caso salvi gli obblighi assunti con la sottoscrizione delle azioni emesse in violazione del precedente comma” . Non c’è

necessità di andare a cercare nella disciplina della S.p.A una norma come quella delle 2° comma del

2438, perché si ha una norma di principio nella S.r.l., che all'art. 2476 1°comma dice che “gli amministratori

sono solidalmente responsabili verso la società per danni derivanti dall'inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto

costitutivo per l'amministrazione della società”.

Ma in realtà oggi l'interpretazione delle norme della S.r.l. non deve essere mai per analogia alle norme in

materia della S.p.A., ma deve essere, in primo luogo, sistematica in riferimento alle norme della S.r.l.

L’art. 2481-bis è la norma centrale in tema di aumento del capitale mediante nuovi conferimenti. È una

norma strutturata in maniera decisamente diversa dall'art. 2441. Ovviamente anche nella S.r.l. l'aumento

di capitale è una modificazione dell'atto costitutivo, e quindi vanno seguite le regole per le modifiche

dell'atto costitutivo. In particolare nella S.r.l. oggi non è più necessario, per tutte le decisioni dei soci,

l'uso del metodo assembleare; le decisioni possono essere assunte anche in modo diverso. Le

modificazioni dell'atto costitutivo invece sono comunque riservate alla decisione assembleare, salvo il

caso dell'aumento di capitale delegato agli amministratori.

Si enfatizza nella S.r.l. la personalizzazione della partecipazione. Ed effettivamente il legislatore dà

seguito, nella nuova disciplina della S.r.l., a questo principio. Nella S.r.l. l'aumento del capitale è pensato

solo come operazione in riferimento ai soci.

Mentre nelle S.p.A. il diritto di decidere l’aumento del capitale è un diritto che spetta ai soci, ma poi può

spettare anche ai terzi; invece nella nuova disciplina delle Srl, il diritto spetta ai soci, e solo

eccezionalmente, e se espressamente previsto nell’atto costitutivo o con delibere, la sottoscrizione può

avvenire da parte di terzi.

L’aumento del capitale nelle S.r.l. è un aumento naturalmente destinato ai soci, e non anche ai terzi (l’art.

2481-bis) Art. 2481-bis. (Aumento di capitale mediante nuovi conferimenti). In caso di decisione di aumento del capitale sociale mediante nuovi conferimenti spetta ai soci il diritto di sottoscriverlo in proporzione delle partecipazioni da essi possedute. L’atto costitutivo può prevedere, salvo per il caso di cui all’articolo 2482-ter, che l’aumento di capitale possa essere attuato anche mediante offerta di quote di nuova emissione a terzi; in tal caso spetta ai soci che non hanno consentito alla decisione il diritto di recesso a norma dell’articolo 2473.La decisione di aumento di capitale prevede l’eventuale soprapprezzo e le modalità ed i termini entro i quali può essere esercitato il diritto di sottoscrizione. Tali termini non possono essere inferiori a trenta giorni dal momento in cui viene comunicato ai soci che l’aumento di capitale può essere sottoscritto.La decisione può anche consentire, disciplinandone le modalità, che la parte dell’aumento di capitale non sottoscritta da uno o più soci sia sottoscritta dagli altri soci o da terzi.Se l’aumento di capitale non è integralmente sottoscritto nel termine stabilito dalla decisione, il capitale è aumentato di un importo pari alle sottoscrizioni raccolte soltanto se la deliberazione medesima lo abbia espressamente consentito.

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Salvo quanto previsto dal secondo periodo del quarto comma e dal sesto comma dell’articolo 2464, i sottoscrittori dell’aumento di capitale devono, all’atto della sottoscrizione, versare alla società almeno il venticinque per cento della parte di capitale sottoscritta e, se previsto, l’intero soprapprezzo. Per i conferimenti di beni in natura o di crediti si applica quanto disposto dal quinto comma dell’articolo 2464.Se l’aumento di capitale è sottoscritto dall’unico socio, il conferimento in danaro deve essere integralmente versatoall’atto della sottoscrizione.Nei trenta giorni dall’avvenuta sottoscrizione gli amministratori devono depositare per l’iscrizione nel registro delleimprese un’attestazione che l’aumento di capitale è stato eseguito.

In prima battuta quindi il legislatore dice che l’aumento è destinato ai soci.

Poi dice che, al contrario, laddove l’atto costitutivo non lo preveda espressamente, sembrerebbe che la

sottoscrizione da parte di terzi, con l’esclusione del diritto di sottoscrizione dei soci, non sia ammessa.

Riassumendo:

1. La sottoscrizione spetta ai soci

2. Si può escludere il diritto di sottoscrizione dei soci solo se questo è previsto nell’atto costitutivo

3. Non si può mai escludere il diritto di sottoscrizione dei soci in sede di ricostituzione del capitale

(art. 2482-ter)

4. Anche laddove i soci non sottoscrivano, se la delibera non lo prevede espressamente, non è

ammessa la sottoscrizione del non sottoscritto da parte di terzi.

E’ evidente la differenza da questo punto di vista rispetto alla S.p.A.:

- la possibilità di escludere il diritto di opzione è prevista nella stessa decisione della delibera assembleare

che aumenta il capitale.

- si è sempre prevista la possibilità che sia un terzo a sottoscrivere.

Sempre nel 1 comma dell’art 2483-bis si dice che nel caso di esclusione del diritto di sottoscrizione dei

soci in sede di aumento, spetta ai soci che non hanno acconsentito alla decisione, il diritto di recesso a

norma dell' articolo 2473. Il recesso però non consegue solo alla presenza della regola nell’atto

costitutivo, segue all’esecuzione della regola.

La ratio della norma è evidente, nel senso che, nel momento in cui c’è un’operazione che esclude il diritto

di sottoscrizione dei soci, si modificano sicuramente i rapporti di forza all’interno della società - il socio

vede diminuito il suo peso nella società, vede ridotta la sua partecipazione proporzionale al capitale e

quindi anche l’esercizio dei diritti connessi.

In questa norma è importante sottolineare che il legislatore parla di chi non ha consentito: chi non ha

consentito in questo caso è non solo il socio dissenziente, cioè quello che ha votato contro, ma anche chi

non ha votato a favore, quindi il socio astenuto e quello assente. Tutti questi soggetti hanno diritto a

recedere fatta salva la possibilità, che è norma di carattere generale nella S.r.l., dell’assemblea di ritornare

sui suoi passi e di revocare l’operazione che aveva dato origine al recesso.

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La norma della S.r.l. è una norma profondamente diversa rispetto a quella della S.p.A. La S.p.A. ha delle

forme di tutela del socio che la S.r.l. non ha.

Nel 2° comma dell’art. 2481-bis questo eventuale sovrapprezzo è letto dalla dottrina come non

necessarietà del sovrapprezzo che sia rimesso comunque alla decisione dei soci e non sia quindi

obbligatorio come invece è nel caso di S.p.A.

Le modalità e i termini entro i quali può essere esercitato il diritto di sottoscrizione.

Qui il principio è dell’inscindibilità dell’aumento e dell’eccezione della scindibilità.

Il legislatore della riforma precisa per le S.r.l. il termine per sottoscrivere dedicato ai soci non può essere

inferiore ai 30 giorni. Il momento iniziale dal quale decorrono i 30 giorni è la comunicazione fatta ai soci.

Il problema è come strutturare la comunicazione ai soci. Sicuramente la norma non consentirebbe di far

riferimento, né all’iscrizione nel registro delle imprese, né a un’iscrizione nel libro dei soci. E quindi

l’interpretazione data alla norma è che in questo caso sia necessaria una comunicazione ad personam, cioè

la lettera raccomandata inviata ai soci.

Qui però sorge il problema che che tutti i soci abbiano lo stesso termine e che lo stesso termine scada per

tutti lo stesso giorno. Questo specie, laddove sia consentito agli altri soci di sottoscrivere l’inoptato.

Nella pratica si è detto che effettivamente il termine in sé non può decorrere dall’iscrizione nel registro

delle imprese, però forse si poterbbe fare una comunicazione personale, indicando un termine che decorra

comunque da un atto comune a tutti i soci, che può essere l’iscrizione nel registro delle imprese.

Nella S.r.l. si potrebbe prevedere nella delibera una prelazione a posteriori, mentre nella S.p.A. il diritto di

prelazione è preventivo. Normalmente la regolamentazione della prelazione è nello statuto in questo

caso., proprio per non lasciarla poi all’arbitrarietà o alla casualità della delibera. La regola è che il termine

decorre per tutti dallo stesso giorno.

Un altro interrogativo che ci poniamo riguarda la norma sull’esclusione del diritto di sottoscrizione che fa

riferimento solo all’offerta ai terzi. Qui nasce il dubbio se possa esserci una clausola che esclude la

sottoscrizione a vantaggio di uno dei soci. Nella diligenza operativa della società si crede che

l’interpretazione debba essere, che la norma possa prevedere anche l’esclusione a favore di uno dei soci,

in particolari ipotesi dell’aumento del capitale.

Eventualmente il socio che viene pregiudicato andrà a cercare la sua giustizia in sede contenziosa, se

l’operazione effettivamente è un’operazione di abuso di potere della maggioranza quindi è un’operazione

che non è nell’interesse della società ma è solo un interesse dei soci di maggioranza rispetto ai soci di

minoranza.

Invece per l’aumento del capitale, la decisione può anche consentire, disciplinandone le modalità, che la

parte dell’aumento di capitale non sottoscritta da uno o più soci, sia sottoscritta da altri soci o da terzi. Qui

non è necessario, invece, che ci sia a monte una clausola statutaria: per collocare quello che non è

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sottoscritto presso gli altri soci e il terzo è sufficiente l’espressa previsione della delibera ma non è

necessaria una regola nei patti sociali a monte nell’atto costitutivo.

Il terzo comma prevede il principio della naturale inscindibilità dell’aumento, quindi se non è previsto

diversamente nella delibera, o aumenta illegalmente il sottoscritto, o l’aumento parzialmente sottoscritto

rimane inefficace. Questo diritto che abbiamo visto caratterizzato, salvo diverse previsioni statutarie, dal

suo tendenziale essere riservato ai soci, renderebbe difficile pensare che ci possa essere un mercato del

diritto della sottoscrizione simile alla cessione del diritto di opzione nella S.p.A.

Invece la strutturazione dell’aumento del capitale in materia di S.r.l. porta a pensare che, per lo meno,

salvo diversa previsione statutaria, il diritto di sottoscrizione personale del socio sia un diritto

normalmente incedibile, non trasmissibile quindi a terzi che possano sostituirsi ad un’operazione riservata

ai soci e non aperta quindi verso i terzi.

Il regime dei versamenti invece è analogo a quanto previsto per le S.p.A.

È stato inserita al 4° comma dell’art. 2481-bis la possibilità espressa, anche in sede di aumento del

capitale, di fare il conferimento d’opera. Norma che nella versione originaria non c’era per cui era sorto

subito il dubbio che siccome era richiamato il conferimento in natura e non era richiamato il conferimento

d’opera, allora il conferimento d’opera fosse operazione che si possa fare solo in sede di costituzione

della società e per mancato richiamo invece in sede di disciplina di aumento, non fosse possibile. In tutte

le ipotesi di conferimento diverso dal conferimento in denaro, anche in sede di aumento, anche se in

alcuni casi non è espressamente prevista, è necessario prevedere la perizia di stima. Qui la perizia di stima

è richiesta per i conferimenti di crediti e in natura, non è invece espressamente richiesta per il

conferimento d’opera, però molti ritengono che anche nel caso di aumento del capitale con conferimento

dell’opera, la perizia di stima è necessaria, anche per motivi di carattere pratico.

La norma dell’art. 2470 detta le regole, con riferimento al trasferimento delle quote, con riguardo

all’efficacia del trasferimento e al regime di pubblicità:

Art. 2470 (Efficacia e pubblicità). Il trasferimento delle partecipazioni ha effetto di fronte alla società dal momento dell’iscrizione nel libro

dei soci secondo quanto previsto nel successivo comma.

L’atto di trasferimento, con sottoscrizione autenticata, deve essere depositato entro trenta giorni, a cura del notaio autenticante, presso

l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale. L’iscrizione del trasferimento nel libro dei soci ha luogo,

su richiesta dell’alienante o dell’acquirente, verso esibizione del titolo da cui risultino il trasferimento e l’avvenuto deposito. In caso di

trasferimento a causa di morte il deposito e l’iscrizione sono effettuati a richiesta dell’erede o del legatario verso presentazione della

documentazione richiesta per l’annotazione nel libro dei soci dei corrispondenti trasferimenti in materia di società per azioni.

Se la quota è alienata con successivi contratti a più persone, quella tra esse che per prima ha effettuato in buona fede l’iscrizione nel registro

delle imprese è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore.

Quando l’intera partecipazione appartiene ad un solo socio o muta la persona dell’unico socio, gli amministratori devono depositare per

l’iscrizione del registro delle imprese una dichiarazione contenente l’indicazione del cognome e nome o della denominazione, della data e del

luogo di nascita o di costituzione, del domicilio o della sede e cittadinanza dell’unico socio.

Quando si costituisce o ricostituisce la pluralità dei soci, gli amministratori ne devono depositare apposita dichiarazione per l’iscrizione nel

registro delle imprese.17

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L’unico socio o colui che cessa di essere tale può provvedere alla pubblicità prevista nei commi precedenti.

Le dichiarazioni degli amministratori previste dai precedenti quarto e quinto comma devono essere depositate entro trenta giorni

dall’iscrizione nel libro dei soci e devono indicare la data di tale iscrizione.

[cfr. anche art. 2479/4°c. vecchio testo].

Va detto, innanzitutto, che il contratto con cui si trasferiscono le quote di una S.r.l., è di per sé un

contratto a forma libera, cioè la legge non prevede nessuna particolare forma per questo contratto, salvo

naturalmente la particolare natura del contratto con cui si trasferiscono le quote. Per cui, ad esempio, se le

quote vengono donate, bisogna ricordare che il contratto di donazione è un contratto che richiede la forma

solenne (non sarà valido un contratto di trasferimento concluso oralmente). Peraltro la legge richiede una

forma scritta, anche se non per la validità del contratto, l’art. 2470 c.2 ………L’atto di trasferimento, con

sottoscrizione autenticata, deve essere depositato entro trenta giorni, a cura del notaio autenticante, presso l’ufficio del registro delle imprese

nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale. Cioè la legge richiede una forma non per la validità, ma bensì per

poter procedere all’obbligo di iscrivere il trasferimento della quota, dapprima presso il registro delle

imprese, e poi nel libro dei soci; quindi per dare al trasferimento efficacia al di là di quella che ha tra le

parti.

E’ qualcosa di analogo a quello che vale per il trasferimento d’azienda, che è anche a forma libera di per

sé, salvo la natura dei beni che compongono l’azienda. Se un’azienda ha solo beni immobili ci vorrà la

forma scritta; ma potrebbe essere costituita anche solo da beni mobili e quindi la forma sarebbe libera.

Anche in questo caso la legge prevede l’iscrizione nel registro delle imprese, e si può iscrivere soltanto

qualcosa che abbia forma scritta.

Sono state introdotte contemporaneamente queste due cose, nella logica di controllare i flussi di denaro

(legge antimafia).

Quindi è un contratto a forma libera, ma con la necessità della scrittura privata autenticata per completare

l’iter di efficacia del trasferimento, che tra le parti è efficace comunque, ma deve esserlo anche nei

confronti della società, art. 2470 c.1 Il trasferimento delle partecipazioni ha effetto di fronte alla società dal momento

dell’iscrizione nel libro dei soci secondo quanto previsto nel successivo comma.

Le fasi di iscrizione:

1. la conclusione del un contratto di trasferimento;

2. l’iscrizione nel registro delle imprese, che deve essere fatta da un notaio che autentica le

sottoscrizioni delle firme del contratto e, sulla base dell’iscrizione avvenuta nel libro soci, chiede

l’iscrizione del trasferimento nel libro soci. Solo dal momento in cui si è iscritto il nome del nuovo

socio nel libro dei soci, il trasferimento diviene efficace nei confronti della società.

Un problema delicato che affronta il 2470 è quello del conflitto tra più acquirenti, cioè quando il socio

alieni la sua quota a più soggetti. Bisogna stabilire il criterio, per capire chi è l’effettivo acquirente. Il 3 c

dell’art. 2470 dice: Se la quota è alienata con successivi contratti a più persone, quella tra esse che per prima ha effettuato in buona

fede l’iscrizione nel registro delle imprese è preferita alle altre, anche se il suo titolo è di data posteriore . Quindi il criterio per

identificare chi vince fra più acquirenti è quello, non della priorità di conclusione del contratto di 17

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trasferimento, ma quello della priorità dell’iscrizione nel registro delle imprese. È certo che l’elemento

della buona fede, per quanto poco rilevante a causa della presunzione di buona fede, introduce degli

elementi di incertezza. Rimane invece, anche a seguito della riforma, un ulteriore problema di conflitto di

chi si presenta rispetto a quella quota come titolare di diversi diritti. La soluzione del problema dipende

dalla natura che si intende dare alla quota, perché se la consideriamo:

Un bene mobile registrato , bisogna considerare l’iscrizione del trasferimento o del pignoramento nel

registro delle imprese. Chi prima trascrive tra il creditore pignoratizio e l’acquirente prevale

sull’altro. Quindi se ha trascritto prima il creditore pignoratizio, chi acquista dopo la quota, la

acquista gravata dal pignoramento; mentre se invece trascrive prima chi acquista a questo non può

essere opposto il pignoramento della quota.

Un bene mobile non registrato , si dovrebbero applicare le regole generali dettate dal codice civile in

materia di esecuzione forzata, cioè di pignoramento ed espropriazione, e quindi l’art 2914. Questo

articolo prevede che non hanno effetto sul pregiudizio del creditore pignorante le alienazioni di

beni mobili di cui non sia stato trasferito il possesso anteriormente al pignoramento, salvo che

risultino da atti aventi data certa. Qui dovrebbero dunque valere la data degli atti e non quella

dell’iscrizione nel registro delle imprese.

Sempre il 2470 detta regole analoghe a quelle già viste in tema di S.p.A., per quanto riguarda l’ipotesi in

cui tutte le quote appartengano ad un unico socio. La legge prevede tutta una serie di regole per garantire

la pubblicità della situazione dell’unico socio e anche per identificare colui che è unico socio. Cioè si

prevede che a questi dati debba essere data notizia attraverso l’iscrizione nel registro delle imprese, con la

conseguenza che, qualora non si eseguano le pubblicità come previsto l’unico socio perde il beneficio

della responsabilità limitata.

Art. 2471. (Espropriazione della partecipazione). La partecipazione può formare oggetto di espropriazione. Il pignoramento

si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese.

Gli amministratori procedono senza indugio all’annotazione nel libro dei soci.

L’ordinanza del giudice che dispone la vendita della partecipazione deve essere notificata alla società a cura del creditore.

Se la partecipazione non è liberamente trasferibile e il creditore, il debitore e la società non si accordano sulla vendita della quota stessa, la

vendita ha luogo all’incanto; ma la vendita è priva di effetto se, entro dieci giorni dall’aggiudicazione, la società presenta un altro acquirente

che offra lo stesso prezzo.

Le disposizioni del comma precedente si applicano anche in caso di fallimento di un socio.

La legge disciplina anche l’espropriazione della quota (questo è uno degli argomenti vincenti per arrivare

a dire che la quota è un bene mobile per quanto immateriale, perché l’espropriazione che si realizza in

primo passaggio col pignoramento si può fare solo su un bene). Il 2471 ci dice che “La partecipazione può

formare oggetto di espropriazione. Il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel

registro delle imprese. Gli amministratori procedono senza indugio all’annotazione nel libro dei soci”. Normalmente

l’espropriazione porta alla vendita forzata del bene, ecco che allora si presenta un problema che la legge 18

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non risolve. È possibile nelle S.r.l. prevedere l’intrasferibilità della quota, e quindi c’è un contrasto con

l’espropriabilità della quota, perché quest’ultima porta alla vendita forzata. Bisogna quindi capire se in

questa società le quote non sono passibili di espropriazione, e quindi di vendita forzata. In realtà, tende a

prevalere la tesi che dà maggior peso alla regola che prevede l’espropriabilità delle quote, anche quando

sia prevista in atto costitutivo l’intrasferibilità delle stesse. La legge si preoccupa dell’ipotesi in cui

nell’atto costitutivo ci siano delle clausole che limitano o che impediscono il trasferimento delle quote, e

vuole che, fin dove sia possibile, si trovi un accordo tra i soggetti coinvolti nella vicenda (il creditore che

ha provveduto a pignorare la quota del debitore, il socio debitore e la società interessata), individuando

un compratore che vada bene a tutti. Se questo non è possibile si procede alla vendita ad incanto, cioè al

miglior offerente. Ma sempre nell’ottica, che cerca di impedire che entrino nella società persone sgradite,

la vendita all’incanto non produce subito i suoi effetti perché alla società è lasciato un margine di 10 gg

per cercare di reperire un acquirente più gradito che compra al medesimo prezzo.

Sempre nella logica, che le quote delle S.r.l. sono beni, l’art. 2471-bis prevede che la quota sia passibile

di pegno, usufrutto o sequestro, e questa è una novità assoluta della riforma.

L‘art. 2474 prevede un divieto assoluto per la S.r.l. di effettuare operazioni sulle proprie partecipazioni: (Operazioni sulle proprie partecipazioni). In nessun caso la società può acquistare o accettare in garanzia partecipazioni proprie, ovvero

accordare prestiti o fornire garanzia per il loro acquisto o la loro sottoscrizione.

Questa radicale differenza tra S.r.l. e S.p.A. si giustifica normalmente perché nel caso delle S.r.l.

mancherebbe l’oggettivizzazione della partecipazione che nella S.p.A. viene incardinata nell’azione.

Emissione dei titoli di debito.

Art. 2483. (Emissione di titoli di debito). Se l’atto costitutivo lo prevede, la società può emettere titoli di debito. In tal caso l’atto costitutivo attribuisce la relativa competenza ai soci o agli amministratori determinando gli eventuali limiti, le modalità e le maggioranze necessarie per la decisione.I titoli emessi ai sensi del precedente comma possono essere sottoscritti soltanto da investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali. In caso di successiva circolazione dei titoli di debito, chi li trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali ovvero soci della società medesima.La decisione di emissione dei titoli prevede le condizioni del prestito e le modalità del rimborso ed è iscritta a cura degli amministratori presso il registro delle imprese. Può altresì prevedere che, previo consenso della maggioranza dei possessori dei titoli, la società possa modificare tali condizioni e modalità.Restano salve le disposizioni di leggi speciali relative a particolari categorie di società e alle riserve di attività.

Un istituto del tutto nuovo riguarda la possibilità prevista nell’art. 2483 per la S.r.l. di emettere dei titoli

di debito. Una possibilità c’era già prima della riforma, anche se la raccolta presso il pubblico di mezzi di

debito, non di mezzi propri, poteva essere fatta solo attraverso banche o altri enti sottoposti a vigilanza

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prudenziale e con una serie di condizioni. Oggi invece, la legge apre a tutte le S.r.l. la possibilità di

attingere, seppure in via indiretta, al pubblico risparmio.

La formula dei titoli di debito non è frequentemente usata dalla legge. I titoli di debito sono parificati,

come dalle disposizione del Testo Unico della Finanza, ai titoli di Stato e alle obbligazioni. Quindi con

questa espressione contenuta nell’art. 2483 si vuole fare riferimento a titoli che contengano l’impegno da

parte della società emittente, di restituire una somma di denaro. Questi titoli di debito della S.r.l. non sono

emettibili allo stesso modo, in cui la S.p.A. può emettere obbligazioni. La legge prevede soltanto un

meccanismo di raccolta indiretta del pubblico risparmio. Si può attingere al pubblico risparmio, non

direttamente con un’offerta al pubblico, ma soltanto attraverso degli intermediari qualificati. Questi

intermediari qualificati sono i medesimi, che sono già stati visti nelle emissioni di obbligazioni senza

limiti quantitativi da parte delle S.p.A.

Quanto poi al contenuto, che possono avere i titoli di debito, nella S.r.l. non sono comunque ammesse

emissioni di titoli partecipativi, cioè di titoli che attribuiscano dei diritti amministrativi (questa possibilità

è prevista nelle S.p.A. attraverso l’emissione di strumenti finanziari partecipativi). Con questi limiti,

secondo cui i titoli di debito non possono avere e non possono attribuire dei diritti di tipo amministrativo,

né possono avere una clausola di convertibilità in quote; si può avere la più ampia autonomia statutaria:

nulla impedisce di prevedere per questi tipi di titoli, clausole analoghe a quelle prevedibili per le

obbligazioni (indicizzazione, clausole di postergazione, ecc.): Art 2483 co.3 (Emissione di titoli di debito). La decisione

di emissione dei titoli prevede le condizioni del prestito e le modalità del rimborso ed è iscritta a cura degli amministratori presso il registro

delle imprese. Può altresì prevedere che, previo consenso della maggioranza dei possessori dei titoli, la società possa modificare tali

condizioni e modalità. C’è la più ampia autonomia nello stabilire quali sono le condizioni del prestito, le regole

che governano il prestito.

Non ci sono limiti quantitativi all’emissione di un prestito da parte della S.r.l. Questa circostanza si

giustifica con il fatto che gli intermediari che sono gli unici a poter sottoscrivere questi titoli, si assumono

la garanzia per la solvibilità della società nel caso di successiva circolazione di questi titoli. Anche qui il

regime è sostanzialmente analogo a quello visto nel caso di obbligazioni emesse superando il limite

previsto dalla legge. Si prevede che, in caso di successiva circolazione di titoli, chi li trasferisce risponde

della solvenza della società nei confronti degli acquirenti, che non siano a loro volta investitori

professionali ovvero che non siano soci della società medesima. La società a responsabilità limitata è una

società tendenzialmente a ristretta base sociale, in cui i soci hanno grossi poteri di controllo

dell’amministrazione, e quindi si conclude evidentemente che il socio, se decide di acquistare

dall’intermediario titoli di debito della propria società, lo faccia consapevolmente conoscendo la

situazione; e quindi non sia necessaria in questo caso la garanzia aggiuntiva da parte dell’intermediario.

Si ha la massima autonomia statutaria per quanto riguarda lo stabilire le condizioni del prestito, le

caratteristiche che deve avere; ma anche massima libertà statutaria per quanto riguarda la competenza a

decidere l’emissione dei titoli di debito: 2483 co.1 (Emissione di titoli di debito). Se l’atto costitutivo lo prevede, la società può

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emettere titoli di debito. In tal caso l’atto costitutivo attribuisce la relativa competenza ai soci o agli amministratori determinando gli

eventuali limiti, le modalità e le maggioranze necessarie per la decisione.

Questo tipo di titoli può essere emesso solo se previsto dall’atto costitutivo (differenza rispetto alla

S.p.A.: l’emissione delle obbligazioni è prevista dalla legge come possibilità, non occorre dirlo nell’atto

costitutivo). C’è una libertà totale, non si prevedono né limiti, né chi può emettere questi titoli, perché

deve essere la clausola statutaria a specificare, tra gli amministratori e i soci, chi abbia questo potere, le

eventuali maggioranze necessarie ecc.

Manca completamente, salvo che non lo si preveda nell’atto costitutivo, un’organizzazione di categoria

per i titoli di debito, come invece viene prevista per gli obbligazionisti con l’assemblea degli

obbligazionisti. Altra differenza rispetto alle obbligazioni: non è prevista per legge una modificabilità a

maggioranza delle condizioni del prestito, salvo diversa previsione dell’atto costitutivo (nel caso la

società intenda modificare le condizioni del prestito è necessario ottenere il consenso di ciascun

possessore di questi titoli).

In ogni caso si prevede una scarsa utilizzazione di questo strumento (soprattutto per la poca convenienza

che ne ricavano gli intermediari qualificati, essendo loro, in caso di vendita al pubblico a garantire la

solvibilità della società).

Disciplina dei finanziamenti dei soci della S.r.l. e introduzione ai gruppi.La disciplina dei finanziamenti dei soci della S.r.l. è poi richiamata nella nuova disciplina dei Gruppi di

Società. L’art 2467 che disciplina i finanziamenti dei soci in S.r.l. è poi richiamato, quindi si applica la

medesima disciplina, anche nel caso di Gruppi, o meglio di società sottoposte a direzione e

coordinamento da parte di altre società, come la legge le chiama

Art 2497-quinquies. (Finanziamenti nell’attività di direzione e coordinamento). Ai finanziamenti effettuati a favore della società da chi

esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti ad essa sottoposti si applica l’articolo 2467.

Quando si parlava di S.p.A. si è saltala la parte sul controllo, che la legge colloca proprio nella sezione

dedicata alle azioni (anche se il controllo di una società su un’altra si può avere anche a prescindere di un

possesso azionario).

La definizione di controllo la si trova nell’art 2359

Art 2359. (Società controllate e società collegate). - Sono considerate società controllate:

1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;

2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;

3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.

Ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a

persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi.

Sono considerate collegate le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. L’influenza si presume quando

nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.

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Va detto, anzitutto, che il concetto di controllo è diverso dal concetto di gruppo. Si può dire che ci sia un

gruppo quando vi è un insieme di società, dove una di queste svolge sulle altre società un’attività di

direzione unitaria, cioè quando una società effettivamente dà direttive a società a lei sottoposte in modo

che il gruppo si muova, si comporti come se fosse un’unica entità. Il controllo è il presupposto del

gruppo, ma non è ancora il gruppo. Quindi la realizzazione di un controllo è prodromica all’esistenza di

un gruppo, ma si può dire che c’è un gruppo soltanto quando, sfruttando la situazione di controllo, un

soggetto esercita l’attività di direzione unitaria delle società.

Nel nostro sistema non esiste una disciplina generale dei gruppi.

Partendo dal discorso del controllo, che non equivale all’esistenza del gruppo, anche se con la riforma è

stata introdotta una presunzione di esistenza di una attività di direzione e coordinamento tutte le volte che

c’è un controllo. In base all’ Art 2359 co.1 (Società controllate e società collegate). - Sono considerate società controllate:

1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;

2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;

3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.

Il primo caso viene chiamato controllo di diritto: se un soggetto dispone della maggioranza dei voti in

assemblea ordinaria, è in grado di far fare alla società sottoposta al suo controllo quello che vuole, perché

l’assemblea ordinaria è l’assemblea in cui si prendono le decisioni fondamentali per la vita e la strategia

della società, nel senso che si nominano gli amministratori e si approvano i bilanci. Non si tratta di

maggioranza delle azioni, si tratta di maggioranza dei voti esercitabili in assemblea (questo è ovvio

perché la società può avere un capitale che è composto anche da azioni senza voto, con voto limitato solo

all’assemblea straordinaria, con voto condizionato al verificarsi di determinati eventi e tutte quelle

possibili eccezioni al principio che ogni azione attribuisce un voto che si possono inserire nello statuto).

Nel secondo punto si aggiunge che una società è controllata anche quando sia sotto l’influenza dominante

di un’altra società, quando “una società sia partecipata da un’altra società che disponga di voti sufficienti per esercitare un’influenza

dominante nell’assemblea straordinaria”, qui siamo di fronte ad un controllo di fatto, non di diritto. In questi casi

non è affatto necessario, per dominare la società sottoposta, di disporre della maggioranza dei voti

esercitabili in assemblea, perché si dà per scontato che all’assemblea ordinaria di quella società si

presentino, ad esempio, in seconda convocazione soltanto i detentori di azioni per un totale del 40% del

capitale; ecco che allora si può dire che c’è un controllo anche di chi pur non possedendo la maggioranza

aritmetica dei voti esercitabili, abbia una partecipazione qualificata tale da permettere comunque di

vincere le assemblee, proprio giocando sull’assenteismo dei piccoli azionisti. Questo è di più difficile

accertamento perché bisogna verificare il concreto della singola società, per verificare effettivamente se i

voti a disposizione del socio di maggioranza relativa, non assoluta, siano sufficienti per esercitare

l’influenza dominante nell’amministrare la società.

La terza ipotesi di controllo si ha quando una società sia sotto l’influenza dominante di un’altra società in

virtù di particolari vincoli contrattuali. Questo significa che ci possono essere, e ci sono, molti casi in cui

una società dipende per la sua sopravvivenza dal mantenimento in essere di un contratto con un’altra

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società. In questo caso si può ritenere che ci sono dei vincoli contrattuali che danno ad una società il

potere di esercitare l’influenza dominante, anche senza possedere un’azione o quota della società

controllata. Questo è un controllo che previene da qualunque possesso azionario.

Poi la legge prevede anche il controllo indiretto, nel secondo comma dell’ Art 2359 co.2 (Società controllate e

società collegate) Ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a

società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi. (ESEMPIO: È chiaro che io posso

essere una società che possiede il 20% di una società, ma a sua volta una mia altra controllata ha il 31%

sempre di quella società, nel controllare se io ho il controllo su quella società bisogna contare il mio 20%

ma anche il 31% che ha la mia controllata, perché è chiaro che questa fa quello che gli dico io e quindi è

come se io detenessi il 51% di quella società.)

La nozione di controllo che viene data dall’art. 2359, in realtà non è l’unica nozione di controllo che

troviamo nell’ordinamento. Per settori, fattispecie particolari la legge detta ulteriori nozioni di controllo

che riprendono quella data nell’art. 2359, e la estendono in qualche modo.

La più importante tra queste si trova nell’ambito della disciplina del bilancio consolidato (D. Lgs. N

127/1991). Nella disciplina del bilancio consolidato, all’art. 26 si dà una nozione di società controllate

(agli effetti ovviamente limitati dell’obbligo di redazione del bilancio consolidato da parte della

controllante). La società che controlla altre società, oltre al suo bilancio d’esercizio, deve redigere anche

il bilancio consolidato di gruppo. In questa nozione di controllo data dall’art. 26 si richiama l’art. 2359,

ma poi si aggiunge che, agli effetti dell’obbligo di redazione del bilancio consolidato, sono considerate

controllate anche quelle imprese su cui un’altra abbia il diritto, in virtù di un contratto o di una clausola

statutaria, di esercitare un’influenza dominante. Si specifica però: “quando la legge applicabile consenta

tali contratti o clausole”. Questo vuol dire che ci troviamo in un sistema nazionale che è inglobato in un

sistema più ampio che è il sistema dell’Unione Europea. Le varie leggi nazionali hanno discipline

piuttosto diversificate: in particolare in Germania è prevista, accanto al gruppo basato sul possesso

azionario (gruppo verticale), la possibilità di altre due modalità di composizione del gruppo dal punto di

vista giuridico.

1. In particolare, attraverso un contratto di dominazione; è un contratto in forza del quale una società

spontaneamente si pone sotto l’influenza dominante di un’altra. In Italia una situazione di questo

tipo è sempre stata considerata illecita perché si è sempre ritenuto, che facendo in questo modo si

avrebbe una fuoriuscita dalla società del potere di decidere sulla gestione della società stessa.

Infatti in questo modo la gestione della società sottoposta viene affidata alla società controllante.

2. un altro tipo di contratto da cui può nascere il gruppo, presente in altri ordinamenti, è il fenomeno

del cosiddetto gruppo orizzontale. È il caso di più società che spontaneamente, attraverso un

contratto, decidono di sottoporsi tutte quante a una direzione unitaria che viene individuata

attraverso la creazione di una nuova ulteriore società. A questa società viene affidata la funzione

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della capogruppo. Si parla di un gruppo orizzontale perché non c’è un rapporto gerarchico tra le

società: sono tutte sullo stesso piano e tutte decidono di sottomettersi ad una direzione unitaria.

È proprio a questo tipo di contratti che fa riferimento l’art. 26 quando individua altre fattispecie in cui c’è

il controllo. La legge ha cura di precisare che questo si ha quando la legge applicabile consenta tali

contratti.

Un altro modo in cui si può arrivare ad un gruppo fondato su un accordo è che una società inserisca nel

suo statuto, che si sottopone alla direzione unitaria di un’altra società.

Questo tipo di soluzione prima della riforma era considerato dalla stragrande maggioranza degli interpreti

non consentito, illecito. Perché si riteneva che non fosse possibile esternalizzare il centro di comando

della società come scelta volontaria. Bisogna dire che con la riforma sono state inserite delle nuove norme

sui gruppi (anche se la legge non parla mai di gruppi, ma di attività di direzione e coordinamento), in

particolare l’art. 2497-sexies:

Art. 2497-sexies. (Presunzioni). Ai fini di quanto previsto nel presente capo, si presume salvo prova contraria che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalle società o enti tenuti al consolidamento dei loro bilanci o che comunque le controllano ai sensi dell’articolo 2359.Le disposizioni del presente capo si applicano altresì a chi esercita attività di direzione e coordinamento di società sulla base di un contratto con le società medesime o di clausole dei loro statuti.

Viene usata la stessa formula della legge sul bilancio consolidato. Ma c’è una differenza: il Codice non

aggiunge più la formula “quando la legge nazionale lo consente”. Per questa ragione da parte di molti si è

vista in questa norma la legittimazione anche nel nostro ordinamento dei gruppi fondati su scelte

contrattuali (sia i gruppi orizzontali, sia quelli fondati sui contratti di dominazione).

Oltre all’allargamento della nozione di controllo fin qui illustrato, la legge ne fa un altro. Si dice che al di

là dei casi di controllo già previsti dall’art. 2359, sono da considerarsi controllate anche le imprese in cui

un’altra, in base ad accordi con altri soci, controlla da sola la maggioranza dei diritti di voto. Il fenomeno

a cui fa riferimento la legge è quello dei sindacati di voto. È un fenomeno comunque presente in tutte le

S.p.A. di medie-grandi dimensioni.

Facciamo l’ipotesi di una società in cui si faccia un sindacato di voto tra tre soci (1 ha il 40%; 2 ha il

10%; 3 ha il 10%), e in questo modo si crea la maggioranza. Quindi i soci sindacati eserciteranno il

controllo della società (perché voteranno tutti allo stesso modo, essendo vincolati dal patto parasociale). È

ovvio che nell’assemblea del sindacato di voto il socio che possiede il 40% ha la maggioranza, e quindi

sarà lui ad imporre agli altri come andare a votare nell’assemblea della società – è come se il socio 1

avesse da solo il controllo di diritto della società. Questa è una delle ragioni per cui in passato si dubitava

della legittimità dei sindacati di voto (un socio di minoranza può di fatto diventare un socio di

maggioranza).

Per il solo fatto che esiste un controllo, anche se la controllante non svolge un’attività di coordinamento,

la legge prevede delle conseguenze importanti. 18

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2359. (Società controllate e società collegate). - Sono considerate società controllate:1) le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;2) le società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un’influenza dominante nell’assembleaordinaria;3) le società che sono sotto influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.Ai fini dell’applicazione dei numeri 1) e 2) del primo comma si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta: non si computano i voti spettanti per conto di terzi.Sono considerate collegate le società sulle quali un’altra società esercita un’influenza notevole. L’influenza si presume quando nell’assemblea ordinaria può essere esercitato almeno un quinto dei voti ovvero un decimo se la società ha azioni quotate in borsa.

2359-bis. (Acquisto di azioni o quote da parte di società controllate). - La società controllata non può acquistareazioni o quote della società controllante se non nei limiti degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultantidall’ultimo bilancio regolarmente approvato. Possono essere acquistate soltanto azioni interamente liberate.L’acquisto deve essere autorizzato dall’assemblea a normadel secondo comma dell’articolo 2357.In nessun caso il valore nominale delle azioni o quote acquistate a norma dei commi precedenti può eccedere la decima parte del capitale della società controllante, tenendosi conto a tal fine delle azioni o quote possedute dalla medesima società controllante e dalle società da essa controllate.Una riserva indisponibile, pari all’importo delle azioni o quote della società controllante iscritto all’attivo del bilancio deve essere costituita e mantenuta finché le azioni o quote non siano trasferite.La società controllata da altra società non può esercitare il diritto di voto nelle assemblee di questa.Le disposizioni di questo articolo si applicano anche agli acquisti fatti per il tramite di società fiduciaria o per interposta persona.

Negli art. 2359-bis e seguenti si prevede tutta una serie di conseguenze giuridiche per il fatto che ci sia un

rapporto di controllo tra due società. Ad esempio, si prevede che nel caso di società controllante e

controllata, la controllata non possa acquistare le azioni della controllante, se non negli stessi limiti che

sono previsti per l’acquisto di azioni proprie da parte della società.

Allo stesso modo è sancito il divieto per la società controllata di sottoscrivere le azioni della controllante.

Praticamente la legge parifica la situazione in cui c’è il controllo alla situazione di una società che fa

operazioni sulle proprie azioni.

Fino alla riforma mancava completamente una disciplina organica del fenomeno conseguente al controllo,

cioè del fenomeno dei gruppi. Su questo è intervenuta la riforma, anche se non è vero che con la riforma è

stata introdotta nel nostro ordinamento una vera è propria disciplina organica dei gruppi (che quindi

ancora manca nel nostro sistema). Quella aggiunta è una disciplina ancora del tutto parziale ed è una

disciplina che essenzialmente mira a disciplinare solo un aspetto dei tanti, che sarebbero coinvolti

nell’esistenza di un gruppo. Si detta tutta quella disciplina volta a tutelare i soci e i creditori sociali delle

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società che sono sottoposte alla direzione di un’altra società. Quello che è comunque importante è che

l’esercizio di un’attività di direzione e coordinamento è un fenomeno di per sé fisiologico e legittimo.

L’intervento del legislatore si dirige verso diversi aspetti:

vengono innanzitutto imposti degli obblighi di pubblicità. Questo viene certamente dettato a

vantaggio di chi entri in relazione con società che appartengono ad un gruppo.

2497-bis. (Pubblicità). La società deve indicare la propria soggezione all’altrui attività di direzione e coordinamento negli atti e nella corrispondenza, nonché mediante iscrizione, a cura degli amministratori, presso la sezione del registro delle imprese di cui al comma successivo. È istituita presso il registro delle imprese apposita sezione nella quale sono indicati i soggetti che esercitano attività di direzione e coordinamento e quelle che vi sono soggette. Gli amministratori che omettono l’indicazione di cui al comma primo ovvero l’iscrizione di cui al comma secondo, o le mantengono quando la soggezione è cessata, sono responsabili dei danni che la mancata conoscenza ditali fatti abbia recato ai soci o ai terzi. La società deve esporre, in apposita sezione della nota integrativa, un prospetto riepilogativo dei dati essenziali dell’ultimo bilancio della società o dell’ente che esercita su di essa l’attività di direzione e coordinamento. Parimenti, gli amministratori devono indicare nella relazione sulla gestione i rapporti intercorsi con chi esercita l’attività di direzione e coordinamento e con le altre società che vi sono soggette, nonché l’effetto che tale attività ha avuto sull’esercizio dell’impresa sociale e sui suoi risultati.

L’art. 2497-bis prevede tutta una serie di nuovi obblighi di pubblicità quando c’è una situazione

per cui una società è sottoposta all’attività di direzione e coordinamento di un’altra. La

capogruppo deve iscriversi in una nuova apposita sezione del registro delle imprese. Allo stesso

modo, le società che sono sottoposte all’altrui attività di direzione e coordinamento devono

anch’esse iscriversi in un’apposita sezione del registro delle imprese. Queste ultime devono anche

indicare in tutti i loro atti e in tutta la loro corrispondenza tale situazione di soggezione. Questo

ovviamente è fatto a tutela di coloro che entrano in contatto con la società.

Sono poi previsti degli obblighi di trasparenza di questa situazione.

2497-ter. (Motivazione delle decisioni). Le decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento, quando da questa influenzate, debbono essere analiticamente motivate e recare puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi la cui valutazione ha inciso sulla decisione.Di esse viene dato adeguato conto nella relazione di cui all’articolo 2428.

Nell’art. 2597-ter è previsto che le decisioni delle società che sono sottoposte all’altrui attività di

direzione e coordinamento, quando siano decisioni influenzate da questa situazione di soggezione,

devono essere analiticamente motivate e recare puntuale indicazione delle ragioni e degli interessi,

la cui valutazione ha inciso sulla decisione. E di esse deve essere dato adeguato conto nella

relazione degli amministratori al bilancio di esercizio. Questo significa che, tutte le volte che le

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decisioni della società sono prese sotto l’influenza della controllante, esse devono essere

analiticamente motivate e devono indicare puntualmente quali sono stati gli interessi e le ragioni

che hanno portato a quella decisione.

Tornando all’art. 2497-bis, si prevede che la società, sottoposta all’attività di direzione e

coordinamento, deve indicare (in un’apposita sezione della nota integrativa del bilancio) un

prospetto riepilogativo dei dati essenziali del bilancio della società che su di essa esercita l’attività

di direzione e coordinamento. Questa è una norma che sta creando tutta una serie di problemi

perché non sempre la capogruppo è una società che è obbligata a dare pubblicità ai suoi bilanci.

Quindi può succedere che la società capogruppo non abbia nessuna intenzione di rendere noti i

suoi bilanci (non avendo un obbligo legale di pubblicità del bilancio).

A tutela dei soci (di minoranza) delle società che appartengono al gruppo, si prevede una tutela attraverso

una previsione specifica dell’ipotesi in cui il socio può recedere dalla società.

Art. 2497-quater. (Diritto di recesso). Il socio di società soggetta ad attività di direzione e coordinamento può recedere: a) quando la società o l’ente che esercita attività di direzione e coordinamento ha deliberato una trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale, ovvero ha deliberato una modifica del suo oggetto sociale consentendo l’esercizio di attività che alterino in modo sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della società soggetta ad attività di direzione e coordinamento;b) quando a favore del socio sia stata pronunciata, con decisione esecutiva, condanna di chi esercita attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’articolo 2497; in tal caso il diritto di recesso può essere esercitato soltanto per l’intera partecipazione del socio;c) all’inizio ed alla cessazione dell’attività di direzione e coordinamento, quando non si tratta di una società con azioni quotate in mercati regolamentati e ne deriva un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento e non venga promossa un’offerta pubblica di acquisto. Si applicano, a seconda dei casi ed in quanto compatibili, le disposizioni previste per il diritto di recesso del socio nella società per azioni o in quella a responsabilità limitata.

Si prevedono quindi nuove ipotesi di recesso rispetto a quelle che ordinariamente sono previste nei vari tipi di società. Riguardo la lettera a) del primo comma: è chiaro che quando una società fa parte di un gruppo, è la capogruppo che decide le strategie. Le vicende della capogruppo influenzano inevitabilmente le vicende della società controllata. Se la società capogruppo cambia improvvisamente il suo oggetto sociale, questo inevitabilmente crea dei riflessi sulla società controllata, sia dal punto di vista della stabilità economica e patrimoniale, sia dagli altri punti di vista. Riguardo la lettera b) del primo comma: nel momento in cui un socio entra in conflitto radicale con la società capogruppo (fa e vince la causa), questo socio ha il diritto di recedere dalla società.

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Riguardo la lettera c) del primo comma: quando una società che prima era assolutamente “autonoma” entra a far parte di un gruppo, il socio può decidere di uscire dalla società. Lo stesso vale per la situazione in cui la società che prima faceva parte di un gruppo, ne esce.

L’aspetto più interessante delle nuove norme sui gruppi è certamente la previsione di un’ipotesi di

responsabilità della società capogruppo nei confronti dei soci e dei creditori della società sottoposta alla

sua attività di direzione e di coordinamento.

L’art. 2497 prevede infatti che le società o gli enti, esercitanti attività di direzione o di coordinamento,

che nello svolgere questa attività (in sé lecita) agiscano in violazione dei principi di corretta gestione

societaria e imprenditoriale delle società soggette, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di

queste, per il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della loro partecipazione sociale; nonché

sono responsabili nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio

della società.

È la società capogruppo che impartisce le direttive alla società controllata, e quindi l’organo

amministrativo della società controllata deve obbedire alle direttive impartite dalla società capogruppo

senza possibilità di discostarsi. Però se questa società capogruppo impartisce delle direttive che

comportano una scorretta gestione della società controllata, e da questo derivano dei danni ai soci della

controllata o ai creditori della controllata, questi possono agire direttamente per il risarcimento del danno

nei confronti della società controllante.

Nella versione che in un primo momento era uscita dal Consiglio dei ministri, si diceva non “le società o

gli enti che esercitano attività di direzione e coordinamento” ma si diceva “chiunque esercita attività di

direzione e di coordinamento”. Il cambiamento apportato prima della pubblicazione nella gazzetta

ufficiale, è importante nel senso che tutta questa disciplina si applica solo quando, in veste di capogruppo,

ci sia comunque un ente o una società (una persona giuridica).

Si intende che per effetto della scorretta gestione della società soggetta, si sia determinato un

depauperamento del patrimonio di questa società soggetta, da cui indirettamente deriva una perdita di

valore e di redditività delle partecipazioni dei soci di minoranza.

Teoria dei vantaggi compensativi.

Nell’art. 2497 si dice che “non vi è responsabilità quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di

direzione e coordinamento”. Questo è’ l’accoglimento da parte del nostro legislatore, di quella teoria molto

diffusa tra coloro che studiano il fenomeno dei gruppi sia dal punto di vista giuridico che economico, dei

vantaggi compensativi. Ciò significa che l’appartenenza ad un gruppo per una società, va valutata nel

complesso dell’attività del gruppo. Può darsi che ci sia una singola operazione che reca danno alla società

soggetta, ma può succedere che questo danno sia compensato dal fatto che, appartenendo al gruppo, la

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società ottiene per altra via altri vantaggi. Questa è la teoria dei vantaggi compensativi. In concreto non è

facile stabilire quando ci sia questo fenomeno di compensazione.

Non è responsabile solo la società capogruppo quando si verifica questa situazione, ma dice la legge, che

risponde anche in solido chiunque abbia preso parte al fatto lesivo. Premesso che deve essere accertata la

responsabilità della capogruppo, ma accanto alla capogruppo rispondono nei confronti dei soci e dei

creditori della società partecipata, anche tutti coloro che hanno preso parte al fatto lesivo e cioè gli

amministratori della società soggetta i quali hanno passivamente aderito alle direttive scorrette della

capogruppo; e gli stessi amministratori della capogruppo che hanno impartito queste direttive scorrette.

Rispondono anche coloro, che ne abbiano tratto consapevolmente beneficio, seppure soltanto nei limiti

del vantaggio conseguito, cioè dall’arricchimento che è stato indotto da quella operazione.

Definizione di attività di direzione e coordinamento

La legge non definisce cosa vuol dire attività di direzione e coordinamento, ma introduce una presunzione

molto importante. Nell'art. 2497 si dice che ai fini di quanto previsto nel presente capo (pubblicità,

responsabilità, trasparenza) si presume, salvo prova contraria, che l’attività di direzione e coordinamento

sia esercitata da quella società o quell’ente che sia tenuto al consolidamento del loro bilancio o che

comunque le controlla ai sensi dell’art. 2359.

Cioè dal fatto statico del controllo si ricava la presunzione che effettivamente si sfrutta questo controllo

per svolgere un'attività di direzione e coordinamento e semmai, è la società che deve dimostrare che non è

così. È una presunzione semplice e non assoluta, nel senso che è ammesso dare la prova contraria.

Finanziamenti

La legge prevede poi, che quando ci sia la situazione di esercizio di una attività di direzione e di controllo,

all'articolo 2497-quinquies che ai finanziamenti effettuati a favore della società controllata, da chi esercita

attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti, o da altri soggetti ad essa sottoposti si applica

l'art. 2467. che è dettato in tema a società a responsabilità limitata.

Questo articolo riguarda il finanziamento che i soci fanno a favore della società (NB: si parla di

finanziamenti non di versamenti in conto capitale); cioè si parla di prestiti fatti dai soci a favore della

società. La norma dice che il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato

rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, e se questo rimborso è avvenuto nell'anno precedente alla

dichiarazione di fallimento della società deve essere restituito.

Questa disciplina si applica:

I) Il 2° comma dell'art. 2467 dice che “si intendono finanziamenti dei soci quei finanziamenti che siano stati concessi in un

momento in cui, anche in considerazione dell'attività svolta risulti, un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al patrimonio netto” .

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II) finanziamenti concessi dal socio alla società in una situazione finanziaria della società, nella quale

sarebbe stato ragionevole un conferimento. Innanzitutto non si capisce se questa seconda ipotesi è diversa

dalla prima o sia un altro modo di dire la stessa cosa della prima.

Qualcuno dice che sarebbe ragionevole un conferimento quando si intenda ad es. sviluppare una nuova

attività aziendale duratura nel tempo, è chiaro che sarebbe più ragionevole fare un investimento di

capitale piuttosto che semplicemente ricorrere al prestito dei soci, ma anche qui siamo in un ambito

estremamente generico.

L'obiettivo che il legislatore si è proposto con questa disciplina è quello di combattere un fenomeno molto

diffuso nel nostro paese, cioè il fenomeno della sottocapitalizzazione delle società di capitali.

Prima di questa norma, i soci per via dei finanziamenti acquisivano la qualità di creditori della società, e

quindi concorrevano con gli altri creditori per ottenere la restituzione di quanto prestato; se avessero

invece effettuato nuovi conferimenti, erano postergati perché chiaramente i conferimenti sono restituiti ai

soci solo quando sono stati pagati tutti i creditori.

Si tratta anche di capire cosa voglia dire postregazione del finanziamento rispetto ai diritti degli altri

creditori e quando deve essere valutato il finanziamento.

La maggioranza dei primi interpreti dice che la valutazione va fatta al momento in cui questi

finanziamenti sono stati concessi, cioè è solo a questo momento che si deve fare riferimento per capire se

erano patologici, anomali oppure no, senza che si possa considerare le vicende successive della società.

Altri invece dicono che vanno considerate tutte le vicende anche successive, perché può darsi che un

finanziamento che non era anomalo nel momento in cui è stato concesso, lo diventi in un momento

successivo.

Altro problema è stabilire quando si realizzi questa postregazione. Si discute molto se questa

postergazione operi sempre, il che vorrebbe dire che la società non può mai restituire questi finanziamenti

fino a quando non ha soddisfatto i suoi creditori. Ma la tesi che si va affermando è che in realtà la

postergazione sarebbe destinata ad operare soltanto o quando la società fosse dichiarata fallita, o quando

la società fosse entrata in liquidazione.

Questa stessa disciplina dei finanziamenti la legge applica anche all'interno dei gruppi, non sempre, ma

solo quando, dice l'art. 2497-quinquies, si tratta di finanziamenti a favore di una società soggetta alla

altrui attività di gestione coordinamento (un finanziamento fatto dalla capogruppo ad una società

controllata ovvero fatto da un'altra società controllata ad un'altra altrettanto controllata).

La cosa singolare alla luce di queste due disposizioni, che da un lato prevedono il regime dei

finanziamenti anomali nelle S.r.l. e che poi lo estendono all’ipotesi del gruppo, è che rimane fuori la

S.p.A.; o meglio non è che rimanga fuori sempre perché i finanziamenti infragruppo trattati nell'articolo

2497-quinquies, possono riguardare una S.p.A. Si va formando un’interpretazione per cui questa

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disciplina, anche se mai citata nella disciplina delle S.p.A., sia applicabile analogicamente anche alle

S.p.A.

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