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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO-FILOSOFICI E GIURIDICI
Relazione per il Corso di Diritto Penale progredito nel Corso di Laurea in Giurisprudenza, LMG-01
A.A. 2016/2017 23 marzo 2017
LE QUALIFICHE DI PUBBLICO UFFICIALE E
INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO NEI REATI
CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
A cura di:
Giulia Valori Marlenny Vargas
Rachele Viola
Relatore:
Dott. Nicolò Amore
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INDICE
1. La funzione della qualifica soggettiva nei reati contro la Pubblica Amministrazione……………1
1.1. Tra reato proprio e comune………………………………………………………………...………1
1.2. L’incidenza della qualifica soggettiva nei reati propri…..………………………………………3
1.3. Il dolo nelle qualifiche soggettive……………………………………...………………………….3
2. Le qualifiche di “pubblico soggetto” nel codice Rocco…………...…………………………………4
2.1. L’antitesi teorica tra concezione soggettiva ed oggettiva……………………….…….………..4
2.2. L’inadeguatezza delle norme definitorie nel quadro delle trasformazioni dell’economia
pubblica………………………………………………………………………………………..…….6
3. Gli artt. 357 e ss. c.p. dopo la a novella del 1990…………………………………..………….…7
3.1. La nozione vigente di Pubblico Ufficiale (art.357 c.p.)…………………….…..…………...7
3.1.1. Il c.d. confine “esterno” della qualifica………………………………….……….…..8
3.1.2. Il c.d. confine “interno” della qualifica………………………………….…………..10
3.2. La nozione vigente di Incaricato di Pubblico Servizio (art. 358 c.p.).………………….....12
3.3. La nozione vigente di Esercente un Servizio di Pubblica Utilità (art. 359 c.p.)….……….13
3.3.1. Il coordinamento tra l’art. 359 c.p. e gli artt. 357-358 c.p……………………..……14
4. I problemi definitori delle qualifiche soggettive……………………………….……………….14
4.1. Nel sistema delle concessioni pubbliche ……………………………………….…………14
4.2. Nelle società partecipate ………………………………………………………….…….….16
5. BIBLIOGRAFIA…………………………………………………………………………….….18
1
1. La rilevanza della qualifica soggettiva nei reati contro la Pubblica Amministrazione
1.1. Tra reato proprio e comune
Viene definito proprio quel reato che può essere realizzato solamente da una persona che riveste
una particolare qualifica soggettiva; di converso, viene definito comune quel reato che può essere
commesso da qualunque soggetto. Quanto alla natura delle qualità o delle relazioni valide a definire
il soggetto attivo, può trattarsi sia di qualità o relazioni di fatto (si pensi ad esempio al reato
dell’aborto autoprocuratosi dalla donna incinta) sia di qualità o relazioni di diritto (si pensi al reato
di abuso d’ufficio previsto nell’art. 323 c.p, che può essere commesso soltanto in presenza delle
qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio)1.
Il fondamento del reato proprio non è pacifico. Al riguardo, la dottrina ha avanzato tre soluzioni:
quella della “fattispecie propria”, quella della “norma propria” e, infine, quella del “bene giuridico
proprio”.
Secondo la teoria della fattispecie propria2, ciò che distingue il reato proprio dal reato comune è la
limitazione legislativa della punibilità. Nello specifico, le particolari qualità personali del soggetto
agente costituirebbero elementi antecedenti all’azione, e necessari per la sussistenza del fatto stesso,
costituendo perciò dei cc.dd. presupposti di fatto, con il logico corollario che se essi venissero
meno, mancherebbe pure il fatto di reato, data l’impossibilità di commettere quell’azione tipica
prevista dal legislatore. Nondimeno, questa teoria non fornisce alcuna chiave di lettura utile a
giustificare perché il legislatore abbia scelto di punire determinati soggetti piuttosto di altri.
Secondo, invece, la teorica della “norma propria”3, è già il comando o divieto contenuto nella
norma, a essere diretto a una limitata cerchia di individui, i quali saranno gli unici ad essere
sottoposti agli obblighi contenuti in essa. Nello specifico, si sarebbe in questi casi in presenza di
vere e proprie “norme a destinazione particolare”4, ossia di disposizioni dotate di efficacia
precettiva nei confronti dei soli soggetti dotati dei particolari requisiti personali in esse indicate. A
ben vedere, però, anche la teoria della norma propria finisce per descrivere un fenomeno presente
nell’ordinamento, ovvero l’esistenza di siffate norme, senza essere in grado di illustrarne il
1 G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di Diritto Penale, Parte generale, ed. IV, Milano, 2012, p. 201- 202. 2 Tesi sostenuta in particolare dagli autori Langer, Roeder e Schynder, come riporta G. P. DEMURO, Il bene giuridico proprio quale contenuto dei reati a soggettività ristretta, in Rivista di diritto e procedura penale, 1998, p. 859. 3 Tesi sostenuta principalmente dagli autori Binding e Nagler, come riporta G. P. DEMURO, op. cit., p.860- 861. 4 Cfr. per la teoria della “destinatarietà riservata”, G. BETTIOL, Legge penale e reato proprio, in Scritti giuridici, I, Padova, come riportato da G. P. DEMURO, op. cit., p. 861.
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fondamento. Infine, secondo la posizione teorica del “bene giuridico proprio”5, la contrapposizione
tra reati comuni e reati propri dipenderebbe dalla particolare natura del bene giuridico, suscettibile,
in determinati casi di essere offeso da parte di chiunque, mentre in altri solo da parte di soggetti
qualificati, donde la definizione di quest’ultimo come bene giuridico “chiuso” o “riservato”6. Anche
tale teoria non è andata esente da critiche: proprio in virtù di tale orientamento, infatti, si era diffusa
la censurabile tendenza a confondere il bene giuridico con lo scopo della norma ovvero a
confonderlo con gli speciali doveri giuridici incombenti sul soggetto qualificato7. Nelle varie
elaborazioni dottrinali, tali criteri sono presenti con vari collegamenti. Una particolare attenzione è
tuttavia riservata a quest’ultima teoria. Il bene giuridico proprio costituisce, infatti, un prius logico
rispetto agli altri due criteri: se un bene può essere leso solamente da un soggetto, ne derivano sia
una limitazione della cerchia dei possibili autori, sia la riferibilità della norma solo a determinati
soggetti qualificati8.
In tal modo, si pone in rilievo l’affidamento di determinati beni alla tutela di particolari soggetti, gli
unici ad essere in grado di controllare e governare i fattori potenzialmente lesivi di tali beni9.
Secondo quanto osservato, sembra essere richiamata la figura del “garante” caratteristica del reato
omissivo improprio, il quale, in quanto particolare forma di reato proprio, sembra confermare che
l’essenza di quest’ultimo risieda in un rapporto “privilegiato” tra il soggetto attivo e il bene
giuridico tutelato. In tali reati, infatti, viene attribuito al soggetto qualificato l’obbligo di garantire la
tutela di speciali beni giuridici, da loro esclusivamente accessibili, che non trovano adeguata
protezione dal titolare del bene medesimo. Quest’ultimo è affidato a determinati soggetti
“qualificati” a proteggerlo e non ad offenderlo; un’eventuale offesa può derivare da un
comportamento omissivo degli obblighi di protezione10. Un particolare caso nel quale è possibile
rinvenire una generica “posizione di garanzia” è, proprio quello dei pubblici ufficiali nei reati
contro la pubblica amministrazione (ex artt. 314 ss. c.p.). In questi reati, i titolari della qualifica
5 Teoria elaborata dalla dottrina tedesca (v. autori Nagler, Kohler, Stephan, Binding), per poi essere ripresa ampiamente dalla dottrina italiana (v. autori Padovani, Mantovani, Marinucci e Dolcini) come riportato da G. P. DEMURO, op. cit., p. 865. 6 Il rapporto tra la qualifica e bene protetto è evidenziato anche dalla sentenza della Corte di Cass. Pen., sez. I, ud. 5/09/1982, n. 2416, in Cass. Pen., 1984, citata da G. P. DEMURO, op. cit., p. 868, nella quale si osserva come, pur comportando i reati propri una posizione di svantaggio per i soggetti qualificati, la loro esistenza in tanto non può porsi in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art.3 Cost., in quanto gli interessi tutelati con le norme del reato proprio sono di rilevanza tale da giustificare siffata posizione sfavorevole. 7 V. al riguardo A. PAGLIARO, Bene giuridico e interpretazione della legge penale, in Studi di onore di F. Antolosei, II, Milano, 1965 come citato da G. P. DEMURO, op. cit., p. 869. 8 A. LANGER, Das Sonderverbrechen, Berlino, 1972, p. 50, come riportato da G. P. DEMURO, op. cit., p. 869. 9 V. al riguardo D. PULITANO, Organizzazione dell’impresa e diritto penale del lavoro, in Riv. Giur. Lav., 1985, p. 5; P. SPIRITO, Datore di lavoro-imprenditore e tipicità dei soggetti nelle fattispecie omissive improprie colpose, in questa rivista, 1986, p. 1167; A. ALESSANDRI, Impresa (responsabilità penali), in Dig., Disc. Pen., Torino, 1992, p. 196; Cfr. in generale T. PADOVANI, Diritto penale del lavoro, Milano, 1983, p. 28 ss. come riportati da G. P. DEMURO, op. cit., p. 869. 10 A. LANGER, op. cit., p.406 come riportato da G. P. DEMURO, op. cit., p. 887.
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sono legati da un rapporto di immedesimazione organica e sono sottoposti ad una serie di doveri, tra
i quali, appunto, la tutela di determinati beni come il buon andamento e l’imparzialità ex art. 97
Cost.. Il “buon andamento” è da intendersi come “efficienza”, ossia conformità all’interesse
pubblico, e “imparzialità” nel senso di considerare oggettivamente i vari interessi contrapposti,
nell’adempimento delle proprie funzioni, senza operare arbitrarie discriminazioni nei confronti dei
consociati. Imparzialità e buon andamento costituiscono dunque, nei reati dei pubblici ufficiali
contro la pubblica amministrazione, un canone di condotta costituzionalmente orientato.
1.2. L’incidenza della qualifica soggettiva nei reati propri
La particolare posizione ricoperta dall’autore del fatto può assumere diverse funzioni nell’economia degli illeciti a
soggettività ristretta. A tale proposito, è stata elaborata dalla dottrina penale italiana, una classificazione che suddivide i
reati propri in non esclusivi, ove il fatto, in assenza della qualifica, rimane un illecito extracontrattuale od offensivo di
altrui interessi (ad esempio i fatti posti in essere in frode ai creditori, che diventano reato di bancarotta ex art. 217 della
legge fallimentare se posti in essere da imprenditori); semiesclusivi, ove il fatto, in assenza della qualifica soggettiva
costituirebbe un diverso reato (si pensi al reato di peculato ex art. 324 c.p., rispetto all’appropriazione indebita ex art.
646 c.p.); esclusivi, ove il fatto, in assenza della qualifica soggettiva, risulterebbe inoffensivo e lecito (si pensi ad
esempio al delitto di incesto ex art. 564 c.p.)11. Vengono spesso accostati a quest’ultima figura dei “reati propri
esclusivi”, i c.d. “reati di mano propria o ad attuazione personale”, i quali richiedono non solo che l’autore sia
portatore di una qualifica, ma altresì che questi ponga in essere personalmente (e non tramite una persona interposta) la
condotta tipica descritta dalla fattispecie (ad esempio il reato di infanticidio ex art. 578 c.p. dove la condotta deve essere
posta in essere personalmente dalla madre)12.
1.3. Il dolo nelle qualifiche soggettive
Dalla diversificazione in base alla funzione che le qualifiche soggettive rivestono nelle diverse figure delittuose,
discendono delle conseguenze applicative rilevanti in tema di “dolo”13: si pone a tal riguardo il problema dell’inclusione
o meno nell’oggetto del dolo delle specifiche qualità del soggetto attivo, giuridiche o di fatto, che caratterizzano i reati
propri. Se una qualifica soggettiva è richiesta perché, senza di essa, il bene giuridico tutelato non verrebbe offeso, è
necessario che il soggetto agente sia consapevole di essere portatore di quella qualifica per rispondere dolosamente di
quel reato (è questo il caso dei reati propri esclusivi e semiesclusivi). Se tale qualifica personale è invece richiesta dalla
norma al solo fine di applicare una sanzione penale in luogo di altre sanzioni, non è necessario che il soggetto agente sia
consapevole di essere portatore di quella qualifica (è questo il caso dei reati propri non esclusivi). Tuttavia, è opportuno
precisare che, nel primo caso, oggetto del dolo non sarà la specifica conoscenza del contenuto della norma giuridica che
definisce la qualifica, bensì la conoscenza profana delle qualifiche rivestite. Si prenda in considerazione l’ipotesi sulle 11 F. MANTOVANI, Diritto Penale, Parte Generale, Padova, 2015 , p. 146- 147, 375- 376, 541- 544, come riportato da G. P. DEMURO, op. cit., p. 849. 12 Cfr. G. P. DEMURO, op. cit., p. 855-856-857. 13 Il dolo rappresenta quell’elemento intenzionale del reato che dà origine alla forma più grave di responsabilità. Secondo i giudizi comuni, il rimprovero che può essere mosso a chi commette un torto con dolo è: “l’hai fatto a posta. Ben sapevi quello che facevi e l’hai voluto fare”. Per l’esistenza del dolo si richiede infatti un duplice coefficiente psicologico: la rappresentazione del fatto (ovvero la conoscenza effettiva di tutti gli elementi rilevanti del fatto concreto che integra un specifica figura di reato) e la volizione del fatto (ovvero nella risoluzione di realizzare l’azione). Cfr. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, op. cit., p. 296- 297.
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qualifiche soggettive nei reati contro la pubblica amministrazione, per i quali (come sostiene e ribadisce autorevole
dottrina) non risultano necessarie le conoscenze tecnico-giuridiche delle proprie qualifiche di “pubblico ufficiale” o
“soggetto incaricato di pubblico servizio” ex artt. 357 e 358 c.p. bastando una conoscenza generica di compiere
un’attività al servizio dello Stato (es: chi si lascia corrompere deve sapere che riveste una funzione non privata, ma
pubblica, e poco importa se sappia esattamente se è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio)14.
2. Le qualifiche di “pubblico soggetto” nel codice Rocco
2.1. L’antitesi teorica tra concezione soggettiva ed oggettiva
L’evoluzione del problema definitorio di “pubblico soggetto” inizia a delinearsi tramite una scarna
definizione contenuta nel codice penale Zanardelli del 188915. L’art. 207 del quale forniva una
definizione di carattere meramente soggettivo, per cui era “pubblico ufficiale” colui che “rivestisse”
(e non “svolgesse”) pubbliche funzioni a servizio dello Stato, della Provincia, dei Comuni, o di un
istituto sottoposto per legge alla tutela di tali enti. A questa definizione generica seguiva una doppia
elencazione: nella prima venivano richiamate figure non connotate da questo rapporto di pubblico
impiego (come ad esempio la figura del notaio che non è un dipendente pubblico); nella seconda
venivano invece menzionati i “soggetti equiparati” ai pubblici ufficiali come i periti o gli arbitri. In
virtù di quest’impostazione casistica e dell’enfatizzazione del rapporto di pubblico impiego,
venivano realizzate delle inclusioni (come ad esempio impiegati muniti di mansioni meramente
materiali) ed esclusioni (ad esempio i parlamentari) all’evidenza poco ragionevoli, tanto che s’era
avvertita la necessità di operare espresse equiparazioni, a fini correttivi16.
Con l’avvento del codice Rocco, si giunge ad una definizione più articolata. Negli artt. 357 e 358
c.p.17si tenta di porre fine ai numerosi problemi posti dalla previgente disciplina. Innanzitutto,
tramite la formulazione di una definizione di pubblico funzionario non frammentata in elencazioni.
14 G. MARINUCCI, E. DOLCINI, op. cit., p. 305. 15 L’art. 207 del codice penale Zanardelli : “per gli effetti della legge penale sono considerati pubblici ufficiali: 1) coloro che sono rivestiti di pubbliche funzioni, anche temporanee, stipendiate o gratuite, a servizio dello Stato, delle Province o dei Comuni, o di un istituto sottoposto per legge alla tutela dello Stato, della Provincia o di un Comune; 2) i notai; 3) gli agenti della Forza pubblica e gli uscieri addetti all’Ordine giudiziario. Ai pubblici ufficiali sono equiparati, per gli stessi effetti, i giurati, gli arbitri, i periti, gli interpreti e i testimoni, durante il tempo in cui sono chiamati ad esercitare le loro funzioni”. Definizione tratta dal dizionario Treccani online http://www.treccani.it/enciclopedia/qualifiche-soggettive-nell-ambito-dei-reati-contro-la-pubblica-amministrazione_(Diritto-on-line)/ . 16 A. VALLINI, “Le qualifiche soggettive”, in “Delitti contro la pubblica amministrazione”, a cura di F. PALAZZO, Napoli, 2011, p. 738. 17 Art. 357 del codice Rocco (versione originale del 1930) “Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali: gli impiegati dello Stato o di altro ente pubblico che esercitano, personalmente o temporaneamente, una pubblica funzione, legislativa, amministrativa o giudiziaria od ogni altra persona che esercita, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per obbligo, una pubblica funzione, legislativa, amministrativa o giudiziaria.”; Art. 358 del codice Rocco (versione originale del 1930) “Agli effetti della legge penale, sono persone incaricate di un pubblico servizio: gli impiegati dello Stato, o di un altro ente pubblico, i quali prestano, permanentemente o temporaneamente, un pubblico servizio od ogni altra persona che presta, permanentemente o temporaneamente, gratuitamente o con retribuzione, volontariamente o per obbligo, un pubblico servizio”. Cfr. A. VALLINI, op. cit., p. 735.
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Pertanto, venivano definiti “pubblico ufficiale” e “incaricato di pubblico servizio” coloro i quali,
oltre ad essere impiegati dello Stato o di un altro ente pubblico, esercitavano rispettivamente una
“pubblica funzione” e un “pubblico servizio”. Inoltre, tramite l’utilizzo di questi ultimi concetti, si
inizia a delineare il passaggio da una c.d. concezione soggettiva ad una di stampo più oggettivo cioè
dal considerare pubblici funzionari soltanto gli impiegati-dipendenti di un ente pubblico, si passava
invece a dare rilievo assorbente alla natura delle mansioni esercitate. Nondimeno, questo passaggio
non è stato mai compiutamente realizzato, e la nozione di pubblico soggetto fornita dal codice
Rocco, sospesa com’era tra la valorizzazione dell’aspetto soggettivo del rapporto di impiego, e di
quello oggettivo della natura dell’attività svolta (per giunta descritta in termini tautologici e
insoddisfacenti) è risultata assolutamente incapace di orientare la prassi nel variegato panorama di
entità giuridiche che andavano vieppiù caratterizzando il tessuto economico-produttivo
contemporaneo.
Ciò è stato possibile grazie alle ambiguità strutturali degli artt. 357 e segg. c.p., i quali valorizzando
elementi in certo qual modo opposti, e a ogni buon conto indefiniti, hanno permesso ai giudici di
ritenere “pubblico” tendenzialmente ogni soggetto che presentasse una qualsivoglia
caratterizzazione pubblicistica, vuoi con riferimento all’inquadramento soggettivo, vuoi con
riferimento ad aspetti afferenti alla tipologia di compiti espletati.
Rientra ad esempio nel primo caso, l’ipotesi degli addetti alle ferrovie dello Stato, i quali venivano considerati dei
“pubblici ufficiali” solo in virtù del rapporto d’impiego con una pubblica amministrazione18. Rientra invece, nel
secondo caso, l’ipotesi del notaio, il quale veniva ad essere qualificato come “pubblico ufficiale” solo in virtù della
natura delle mansioni esercitate occasionalmente (quali quelle volte alla certificazione di una data situazione, come ad
esempio la costituzione di una società)19.
Il legislatore prova ad invertire la rotta nel 1990, con la legge n. 86. Con questa riforma, il
legislatore aderisce a una concezione compiutamente oggettiva della qualifica, disancorando
completamente la qualità di pubblico agente dal rapporto di dipendenza con un ente pubblico. Viene
infatti attribuita rilevanza esclusiva alla natura dell’attività in concreto svolta dal soggetto, che verrà
considerata pubblica ogniqualvolta sia disciplinata dal diritto pubblico e da un atto autoritativo.
Inoltre, a differenza della precedente formulazione della disposizione, con questa novella il
legislatore si è premurato di definire meglio anche la demarcazione interna tra gli artt. 357 e 358
18 A. VALLINI, op. cit., p. 737. 19 Ivi, p. 752.
6
c.p., precisando i connotati propri del “pubblico ufficiale” e definendo in negativo, sulla base di
essi, la figura dell’ “incaricato di un pubblico servizio”20.
2.2. L’inadeguatezza delle norme definitorie nel quadro delle trasformazioni
dell’economia pubblica
Un ulteriore elemento che, nel corso degli anni ’80 del XX secolo, ha contribuito a ritenere
necessaria la presentata riforma sulle qualifiche pubblicistiche è dato dall’influenza del processo di
liberalizzazione derivante dal diritto comunitario, che ha comportato una modificazione nella
nozione interna di “servizio pubblico”, come precedentemente concepito, e ha indirettamente
influenzato la medesima definizione di “pubblico funzionario” di cui trattasi.
Con il termine “liberalizzazione” si fa riferimento ad un complesso fenomeno volto a perseguire
l’obbiettivo di consentire l’apertura alla concorrenza di attività precedentemente esercitate in un
regime di monopolio21. Tramite questo processo si passa dal regime del c.d. Stato gestore a quello
del c.d. Stato regolatore, il quale, invece di gestire attività economiche che hanno una rilevanza
pubblica, si limita a porre le regole del gioco, anche mediante l’istituzione di apposite autorità
indipendenti, lasciando che siano soggetti privati ad erogare servizi pubblici fondamentali. Dunque,
sulla scia di questo processo, numerose funzioni pubbliche cominciano ad essere realizzate da
soggetti diversi dallo Stato. Pertanto, la previgente teoria soggettiva di “pubblico servizio”, basata
unicamente sulla natura pubblica del soggetto che gestisce una certa attività22, è apparsa sempre più
inadeguata a cogliere i processi evolutivi che andavano interessando il c.d. diritto pubblico
dell’economia. Di converso, anche in ragione dell’avanzamento del processo d’integrazione
eurounitaria, ha riscosso sempre più consensi la c.d. teoria oggettivo-funzionale23, in base alla quale
la natura del soggetto deve essere apprezzata esclusivamente in relazione alle finalità della
disciplina presa volta per volta in considerazione. La pubblicità di un ente non può più essere
apprezzata in astratto e una volta per tutte, alla stregua, appunto, di uno status. Adesso acquista
rilievo soltanto il momento dinamico dell’esercizio dell’attività, che potrà essere considerata
amministrativa o privata a seconda della funzionalità della qualifica rispetto agli scopi perseguiti.
Dunque, l’evoluzione del sistema italiano nel senso imposto dal diritto europeo, depone per un
20 Vedi infra par. 3.1. ss. 21G. NAPOLITANO, Le normative di liberalizzazione, in Liberalizzazione e concorrenza, a cura di G. VESPERINI- G. NAPOLITANO, Milano, 1999, p. 9, come indicato da V. LOPILATO, Diritto Amministrativo, Servizi pubblici, par. 1 “Nozione di servizio pubblico”. 22 Di cui uno dei maggiori esponenti risulta essere V. E. ORLANDO, Introduzione al diritto amministrativo, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, I, Milano, 1900 come indicato da V. LOPILATO, op. cit., par. 1 “Nozione di servizio pubblico”. 23 La più accurata elaborazione al riguardo si vede all’autore U. POTOTSCHING, I servizi pubblici, Padova, 1964, come indicato da V. LOPILATO, op. cit., par. 1 “Nozione di servizio pubblico”.
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definitivo abbandono delle posizioni meramente soggettive della nozione di “pubblico servizio”, in
quanto, presupponendo le stesse una “riserva di attività” in capo all’ente pubblico, con la
contestuale sottrazione della medesima al principio di libera concorrenza, non si pongono in linea
con le indicazioni provenienti dal diritto comunitario. Specularmente, deve ritenersi come la
nozione di servizio pubblico comunitario coincida sostanzialmente con la nozione interna oggettiva
di pubblico servizio, anzi sono proprio gli sviluppi in ambito comunitario ad indurre a ritenere, sul
piano interno, preferibile la tesi oggettiva, in quanto in entrambi gli ambiti considerati, si prescinde
dalla titolarità del servizio in capo allo Stato, potendo essere svolto da imprese private o
pubbliche24. Perciò come sostenuto dalla dottrina amministrativistica “non è la pubblicità del
soggetto che determina la pubblicità del servizio ma è la pubblicità obbiettiva del servizio, a
imporre la necessaria titolarità pubblica”25.
In conclusione, è su quest’ulteriore spinta di matrice comunitaria, che si è conseguentemente
ritenuto necessario operare una radicale inversione di prospettiva nella nozione di “pubblico
funzionario” di cui trattasi, disancorandola completamente dal rapporto diretto con lo Stato (ormai
quasi completamente assente, in conseguenza dei processi di concessioni e privatizzazioni), ed
attribuendo rilevanza esclusiva alle attività effettivamente espletate, tramite la già menzionata legge
n. 86 del 1990.
3. Gli articoli 357 e ss. c.p. dopo la novella del 1990
3.1. La nozione vigente di pubblico ufficiale (art. 357 c.p.)
Come si è avuto modo di osservare, l’articolo 17 della legge n. 86 del 26 aprile 1990, ha
sostanzialmente modificato i contenuti del previgente art. 357 del codice Rocco. In particolare, con
il nuovo criterio oggettivo impiegato dal legislatore, si mette adesso in risalto la sola attività in
concreto svolta dal soggetto, disinteressandosi dell’esistenza di un rapporto di pubblico impiego con
lo Stato o qualsiasi altro ente pubblico.
La normativa in esame risulta idealmente scomponibile in tre parti: la parte enunciativa, attraverso
la quale è possibile prendere visione del modo in cui la qualifica soggettiva aderisce al criterio
oggettivo-funzionale dell’attività; la parte più strettamente definitoria, nella quale si collocano i
parametri di delimitazione “esterna” tra attività pubblica e privata; e la parte di discrimine tra i
contenuti della figura di cui l’art. 357 c.p. e l’art. 358 c.p., nella quale sono indicati i parametri di
24 V. LOPILATO, op. cit., par. 2 “Servizio pubblico comunitario”. 25 Ibidem.
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delimitazione “interna” tra la figura del pubblico ufficiale e il soggetto incaricato di pubblico
servizio26.
La prima parte emerge con chiarezza nel primo comma dell’art. 357 c.p., il quale attribuisce la
qualifica di pubblico ufficiale, a coloro i quali “ esercitano una pubblica funzione legislativa,
giudiziaria o amministrativa”.
Non si è compiuto alcuno sforzo definitorio per precisare i concetti di “funzione legislativa” e
“funzione giudiziaria” , in quanto “l’individuazione dei soggetti che rispettivamente le esercitano
non ha di solito dato luogo a particolari difficoltà”27.
Così non è stato, invece, per l’individuazione della c.d. “funzione amministrativa”, alla quale è
dedicato l’intero secondo comma dell’art. 357 c.p..
3.1.1. Il c.d. confine “esterno” della qualifica
Il secondo comma dell’art. 357 c.p., definisce la “funzione amministrativa” come quella attività
disciplinata da “norme di diritto pubblico” e da “atti autoritativi”. Sono quest’ultimi che delineano
il c.d. confine “esterno” della qualifica, ovvero quel confine che distingue un’attività pubblica da
un’attività privata. Nell’utilizzo della congiunzione “e”, richiede la necessaria compresenza dei due
elementi, affinché possa qualificarsi una funzione come pubblica. Ergo sia la sottoposizione alle
norme di diritto pubblico, sia l’assoggettamento ad atti autoritativi.
a) Norme di diritto pubblico
Quanto al primo criterio, sorgono numerosi problemi nella distinzione tra una disciplina
compiutamente “pubblica” e una disciplina meramente “privata”, soprattutto in virtù della crescente
commistione tra i due tipi di attività in conseguenza delle trasformazioni economiche
antecedentemente descritte. Vennero, pertanto, elaborati una serie di criteri per la delimitazione
dell’area pubblicistica e privatistica, tra i quali si possono ad esempio richiamare quelli incentrati
sulla natura predeterminata o indifferenziata del soggetto cui la norma è diretta28, oppure sul
carattere ufficioso o ad iniziativa di parte del meccanismo di procedibilità previsto per la sanzione
che assiste “la specifica attività del soggetto da qualificare”29. Tuttavia, queste ricostruzioni non
sono riuscite a conferire maggiore chiarezza alle lasche definizioni codicistiche, anche perché
dotate esse stesse di una ratio non perspicua. Nella maggior parte dei casi, infatti, come è stato 26 P. S. DI BENEDETTO, Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino, 1995, p.509. 27 Cfr. G. FIANDACA– E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, Bologna, 2012, p. 137 come riportato da P. S. DI BENEDETTO, op. cit., p. 518. 28 V. G. GUARINO, Pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio, in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Milano, 1970, p. 216 ss. come riportato da A. VALLINI, op. cit., p. 770-771. 29 Cfr. P. S. DI BENEDETTO, op. cit., p. 515.
9
detto, “viene delineato un criterio, magari ‘formalmente’ appagante, ma non si comprende in che
modo esso dovrebbe offrire una distinzione funzionale al progetto di tutela sotteso al sistema di
salvaguardia penale della p.a.”30. Pertanto, iniziarono a svilupparsi delle interpretazioni alternative,
le quali cercavano di fornire oltre ad un utile parametro di distinzione tra i due tipi di attività, anche
una giustificazione all’esistenza di siffatte norme. In particolare, tra le varie interpretazioni fornite
degli artt. 357 e 358 c.p., assumono rilevanza quelle orientate agli artt. 97 e 98 della Costituzione, ai
sensi delle quali viene definita “pubblica” quella “normativa che vincola una determinata attività
per indirizzarla, in via autoritativa, verso una pubblica utilità, postulando scelte vincolate -se non
altro nel fine - al posto di scelte libere, ed ispirate al criterio dell’imparzialità e del buon
andamento”31. Dovrà, dunque, osservarsi il margine di discrezionalità riconosciuto al soggetto nello
svolgimento della mansione medesima. Infatti i soggetti che, nello svolgimento dei propri compiti,
non vanno a curare un proprio interesse, ma vanno a svolgere delle attività nell’interesse della
collettività, sono vincolati da una “pubblica” disciplina a tenere degli atteggiamenti imparziali ed un
orientamento che prescinde da personali predilezioni.
Di converso, laddove il soggetto sia libero di agire sulla base di scelte e preferenze del tutto personali, siamo di fronte
ad una attività non vincolata al soddisfacimento di pubblici interessi, né parametrata a dei canoni di condotta imparziali,
e dunque non disciplinata da norme di diritto pubblico. E’ per questo motivo che la qualifica che definisce il soggetto
attivo nei reati contro la pubblica amministrazione merita di venire in considerazione, non in quanto espressiva di un
“prestigio” o di un altro valore collegato al possesso della qualifica di “pubblico funzionario”, bensì nella misura in cui
certifichi l’attuale ed effettiva gestione di un’azione amministrativa oggettivamente vincolata ai parametri di
imparzialità e buon andamento, come delineati negli artt. 97 e 98 Cost.32. Al riguardo un caso esemplare risulta essere
quello nel quale la Suprema Corte di Cassazione, in una sentenza del 201433, ha ritenuto sussistente la qualifica di
“incaricato di pubblico servizio” nei confronti del responsabile amministrativo della Federazione italiana Sport del
Ghiaccio (F.I.G.S.), nonostante fosse un’associazione di diritto privato (autonoma rispetto al C.O.N.I., organismo di
diritto pubblico). Tuttavia, quest’ultima assume una connotazione pubblicistica allorché agisca nell’obiettivo di
realizzare specifici scopi di pubblico interesse, come nel caso in questione, l’utilizzo dei contributi pubblici (erogati dal
C.O.N.I.) al fine di promuovere l’attività sportiva. Pertanto, il soggetto imputato è stato ritenuto responsabile di
“appropriazione indebita” (reato comune) per l’appropriazione di quei fondi “privati” versati dai tesserati (e, pertanto,
non destinati all’esercizio di un’attività sportiva); viceversa, è stato ritenuto responsabile di “peculato” (reato proprio)
per l’appropriazione di quei fondi “pubblici” destinati al finanziamento dell’attività sportiva erogati dal C.O.N.I. .
b) Atti autoritativi
30 Cfr. A. VALLINI, op. cit., p. 770. 31Ivi, p. 771. 32 A.VALLINI, “Delitti contro la pubblica amministrazione”, Quando e perché i commissari di una gara indetta da una s.p.a. possono ritenersi pubblici ufficiali in “Diritto penale e processo”, 2012, p. 1092. 33 Corte di Cassazione, sez. VI, ud. 23.12.2014, tratta da D. FALCINELLI, “In punta di fioretto” sul reato proprio e comune, il che e il cosa del peculato e dell’appropriazione indebita, in Osservatorio sulla Corte di Cassazione, 2015.
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Non meno confusione ha generato il riferimento agli atti autoritativi. La menzione di questi atti, se
non correttamente interpretata, potrebbe apparire superflua perché certamente la categoria degli atti
autoritativi rappresenta quella tipologia di atti tipici tramite i quali viene svolta una pubblica
attività34. Come nel caso precedente, tra le varie proposte ermeneutiche avanzate al riguardo,
assumono rilievo quelle costituzionalmente orientate, le quali si distaccano completamente dal
considerare questi atti come fonte di regolamentazione, in quanto è opinione diffusa che
l’emanazione di un “provvedimento amministrativo” non è di per sé sufficiente a giustificare la
sottoposizione dell’attività cui il medesimo si riferisce, alla disciplina pubblica. Infatti, sulla base di
questo orientamento, con il termine “atti autoritativi” viene ad intendersi la “possibilità di
un’incidenza unilaterale e di un indirizzo sulla funzione, da parte di soggetti pubblici, verso la quale
non valgono le preferenze individuali dell’esercente la funzione stessa”35. Pertanto, diviene di per sé
irrilevante sia il titolo di investitura per l’espletamento di una funzione derivante da un ente
pubblico, sia la sottoposizione a poteri pubblici di controllo e di vigilanza, o la ricezione di pubblici
finanziamenti, sia che l’attività si realizzi mediante tipici schemi negoziali.
Tale conclusione, viene accolta anche dalla giurisprudenza, per la quale la menzione degli atti in
questione, fa riferimento al regime cui deve essere assoggettata l’attività ovvero esprime la
posizione non discrezionale di un soggetto, nell’espletamento della propria mansione, la quale deve
essere indirizzata da un altro soggetto che ha il potere di imporsi in maniera autoritativa.
Si riporta come esempio il caso di un capitolato d’appalto, contestuale alla stipula del contratto d’appalto intercorrente
tra una ditta di costruzioni ed un committente privato. In tale documento vengono inserite in maniera dettagliata le
modalità di realizzazione, i materiali ed i costi dell’opera che andranno a vincolare l’intera esecuzione della stessa.
3.1.2. Il c.d. confine “interno” della qualifica
Passiamo ora al c.d. confine interno cioè quello tra il “pubblico ufficiale” (art. 357 c.p.) ed il
“soggetto incaricato di pubblico servizio” (art. 358 c.p.)36.
Ai sensi della presente norma, viene definito “pubblico ufficiale” colui che concorre “alla
formazione e alla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione” o che svolge
un’attività pubblica tramite “poteri autoritativi o certificativi”. Dal tenore della norma emergono tre
criteri identificativi; la presenza di un solo criterio è sufficiente (come evidenziato dall’utilizzo della
34 Cfr. G. FIANDACA- E. MUSCO, Op. cit., p. 8, come riportato da P. S. DI BENEDETTO, op. cit., p. 517. 35 Cfr. A.VALLINI, op. cit., p. 775. 36 Il secondo comma dell’art. 357 c.p. trasforma in precetti penali quei criteri distintivi che dottrina e giurisprudenza avevano già comunemente accolto come caratterizzanti una pubblica funzione. Classica è, al riguardo, la posizione di F. ANTOLOSEI, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Milano, VIII ed., p. 741 e ss. come riportato da P. S. DI BENEDETTO, op. cit., p. 520.
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locuzione “o”37) al fine di qualificare un soggetto quale pubblico ufficiale38.
Quanto al primo criterio, si deve evidenziare come non ogni contributo alla formazione e alla
manifestazione della volontà sia parimenti rilevante. Invero, il contributo del pubblico ufficiale non
può mai limitarsi ad un comportamento di mera trasmissione, ma deve sempre implicare un apporto
determinante ed infungibile, destinato a riflettersi nel contenuto dell’atto amministrativo, nonché il
potere di impegnare verso l’esterno l’amministrazione.
Si riporta, ad esempio, il caso di un professore universitario che, prendendo parte al consiglio dei docenti
dell’Università della Tuscia, partecipi ad una delibera per l’adozione di un provvedimento, che diventerà esecutivo.
Tale soggetto sarà, pertanto, un pubblico ufficiale.
Quanto al secondo criterio, una parte della dottrina considera “poteri autoritativi” soltanto quei
poteri “coercitivi”, che legittimano anche l’utilizzo della violenza corporea (come ad esempio il
potere di arresto)39. La giurisprudenza invece, secondo un’interpretazione estensiva fornita dalle
Sezioni Unite40, dispone che rientrano nel concetto di “poteri autoritativi” non soltanto i poteri
coercitivi, ma anche: “[..]tutte quelle attività che sono comunque esplicazione di un potere pubblico
discrezionale nei confronti di un soggetto, che viene a trovarsi così su un piano non paritetico
rispetto all’autorità che lo esercita.”.
Si prenda come esempio, il caso dell’autorizzazione per la somministrazione di bevande ed alimenti rilasciata dal
Comune di Viterbo al bar “Unitus”. Tramite l’emanazione discrezionale di tale atto, il Comune di Viterbo si colloca,
infatti, in una posizione di supremazia rispetto al bar, che si troverà, invece, vincolato alle decisioni di quest’ultima.
Trattando, infine, del terzo ed ultimo criterio, si ritiene munito di “potere certificativo” colui che,
istituzionalmente, ha la facoltà di attestare la conformità di un atto alla realtà a esso sottostante,
attribuendogli una particolare efficacia probatoria. Nello specifico, per la dottrina maggioritaria
possono ritenersi “certificazioni” non soltanto gli atti destinati a far fede fino a querela di falso (ex
artt. 2699 e 2700 c.c.), ma anche tutti quei documenti che abbiano la funzione generale di
37 Prima della legge sopra citata n. 181 del 7 Febbraio 1992, tali criteri venivano richiesti congiuntamente tramite l’utilizzo della locuzione “e”; data l’impossibilità di riscontrare tutti e tre i criteri contemporaneamente in una pubblica amministrazione, è stata sostituita dalla locuzione “o”. 38 Come anche evidenziato dalla sentenza della Corte di Cassazione, sez. VI, 21.2.2003, Sannia, Ced 224050, tratta da A. VALLINI, op. cit, p. 758: “[..]la qualifica di pubblico ufficiale è poi riservata a tutti coloro che formano o concorrono a formare la volontà della pubblica amministrazione o che svolgono tale attività per mezzo di poteri autoritativi o certificativi, mentre quella di incaricato pubblico è assegnata dalla legge in via residuale a coloro che non svolgono pubbliche funzioni ma che non curino neppure mansioni di ordine o non prestino opera semplicemente materiale.” 39 Tra i quali emergono G. FIANDACA- E. MUSCO, op. cit., p. 175, e A. PAGLIARO- M. PARODI GIUSINO, Principi di diritto penale, parte speciale, Milano, 2008, p. 13, come evidenziato da A. VALLINI, op. cit., p. 789. 40 Cfr. Cass., sez. un., 27.3.1992, Delogu, tratta da A. VALLINI, op. cit., p. 784.
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testimoniare, attestare, dichiarare la veridicità o le caratteristiche di determinate situazioni di fatto o
di diritto41.
Ad esempio si ritiene munito di “potere certificativo” il medico che rilasci un certificato che accerti l’idoneità psico-
fisica del paziente, per il rilascio della patente di guida.
3.2. La nozione vigente di Incaricato di Pubblico Servizio (art. 358 c.p.)
Ai sensi del primo comma dell’art. 358 c.p., sono incaricati di pubblico servizio “coloro i quali, a
qualunque titolo, prestano un pubblico servizio”; non vi è dubbio che la norma in esame,
eliminando qualsiasi riferimento al rapporto di dipendenza da un ente pubblico, abbia voluto
accentuare la prospettiva funzionale-oggettiva promossa dalla riforma del 1990. Prima di tale
riforma, nasceva il problema della definizione di “pubblico servizio” in quanto, la norma del codice
Rocco (a differenza di quella sul pubblico ufficiale), non ne individuava il contenuto. È soltanto con
l’avvento della novella, che il legislatore, pur non fornendo una vera e propria definizione sul punto,
ha delimitato l’area del “pubblico servizio”. Infatti, è dal secondo comma dell’art. 358 c.p. che si
evince come l’incaricato di pubblico servizio, pur collocandosi nel medesimo contesto pubblicistico
del pubblico ufficiale, non sia dotato di quei poteri tipici a quest’ultimo riconosciuti dall’art. 357
c.p. (potere decisionale o rappresentativo, certificativo o autoritativo). Citando la norma in
questione, un’attività al fine di essere qualificata come “servizio pubblico”, deve essere disciplinata
nelle stesse forme della “pubblica funzione” (di cui il precedente art. 357 c.p.) ma diversificata per
l’assenza di quei poteri che sono propri di quest’ultima.
Tuttavia, dall’inciso “con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni d’ordine e della
prestazione di opera meramente materiale” della norma, si deduce che le competenze riconosciute
all’incaricato di un pubblico servizio, pur non essendo rilevanti come quelle del pubblico ufficiale,
non sono prive di autonomia e discrezionalità. Dal combinato disposto di queste indicazioni, le
sezioni unite della Cassazione hanno infatti dedotto che è “pubblico servizio” una “attività di
carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dalla mancanza dei poteri autoritativi e
certificativi” che comunque si prospetti come accessoria o complementare ad una pubblica
funzione42.
Si prenda come esempio il bidello di una scuola che viene definito “incaricato di pubblico servizio” in quanto,
svolgendo delle mansioni di sorveglianza degli alunni e custodia dei locali, pur non essendo dotato dei poteri
41 A. BONDI, Nozioni comuni e qualifiche soggettive, in Reati contro la pubblica amministrazione, II ed., Torino, 2008 come riportato da A. VALLINI, op. cit., p. 790. 42 Cfr. Cass., sez. un., ud. 27.3.1992, Delogu, cit., tratta da A. VALLINI, op. cit., p. 784.
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autoritativi e certificativi che invece vengono riconosciuti al capo dell’istituto, svolge delle mansioni che, richiedendo la
conoscenza della normativa scolastica, non sono “meramente materiali” ma complementari alla pubblica funzione
devoluta agli istituti scolastici43.
Contrariamente, non viene riconosciuta la qualifica di “incaricato di pubblico servizio”, ad esempio, al dipendente delle
Poste Italiane S.p.a. addetto allo smistamento della corrispondenza, in quanto svolge un’attività “meramente
materiale”44.
Per avere un quadro completo in ordine agli artt. 357 e 358 c.p., risulta necessario accennare al caso in cui i reati dei
pubblici funzionari nei confronti della pubblica amministrazione vengano realizzati da cittadini stranieri; la
cittadinanza, infatti, non è un elemento costitutivo della qualifica; ciò che rileva è la circostanza che l’attività posta in
essere dal funzionario estero venga realizzata nei confronti dello Stato italiano o risulti funzionale ad una pubblica
funzione disciplinata da norme di diritto italiano45. La norma rilevante in materia è l’art. 322 bis c.p., il quale, estende
l’applicabilità di alcune norme relative ai delitti contro la pubblica amministrazione (quali i peculati ex artt. 314 e 316
c.p.; la concussione ex art. 317 c.p.; le corruzioni ex artt. 318,319 e 320 c.p.) ai membri delle istituzioni della Comunità
Europea, a funzionari ed agenti della stessa, a “persone comandate” degli Stati membri o di enti, pubblici o privati,
operativi presso le Comunità Europee, a enti costituiti in forza dei Trattati istitutivi della CE, e più in generale “a coloro
che, nell'ambito di altri Stati membri dell'Unione europea, svolgono funzioni o attività corrispondenti a quelle dei
pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio.”46.
3.3. La nozione vigente di Esercente un Servizio di Pubblica Utilità (art. 359 c.p.)
Vengono definiti soggetti esercenti un servizio di pubblica utilità, ai sensi del comma 1 dell’art. 359
c.p. “i privati che esercitano professioni forensi o sanitarie, o altre professioni il cui esercizio sia
per legge vietato senza una speciale abilitazione dello Stato, quando dell'opera di essi il pubblico
sia per legge obbligato a valersi”. Si richiede quindi la sussistenza di tre requisiti: che la
professione svolta sia privata, che l’esercizio di una tale professione sia vietato in assenza di
apposita abilitazione dello Stato e che sussista un obbligo legale del pubblico di avvalersi dell’opera
del soggetto. Quest’ultimo requisito fa riferimento all’obbligo di qualsiasi soggetto, che intenda
compiere una certa attività, di farsi assistere da un professionista. Ad esempio chi voglia far valere
un proprio diritto di fronte ad un giudice, non potrà farlo personalmente ma dovrà
obbligatoriamente farsi assistere da un rappresentante legale.
Più complesso il discorso inerente al secondo comma dell’art. 359 c.p.: “i privati che, non
esercitando una pubblica funzione, né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio
43 Cfr. B. GARDELLA, La qualifica soggettiva del dipendente di poste italiane S.p.a. addetto allo “smistamento” della corrispondenza, Nota a Cass. Pen, sez.VI, ud. 20.11.2012, n. 46245, in Diritto penale contemporaneo, p. 5. 44 Cfr. Cass. Pen., sez. VI, ud. 20.11.2012, n.46245, tratta da Diritto Penale Contemporaneo. 45 In tale senso A. PAGLIARO- M. PARODI GIUSINO, op. cit., p. 17, come riportato da A. VALLINI, op. cit., p. 800. 46 Ibidem.
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dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione”. Tale norma
pone, infatti, problemi di coordinamento con gli artt. 357 e 358 c.p.
3.3.1. Il problema di coordinamento tra l’art. 359 c.p. e gli artt. 357-358 c.p.
Ciò che bisogna chiarire è se il secondo comma dell’art. 359 c.p. abbia carattere residuale rispetto ai sopra menzionati
articoli, volto cioè ad attribuire una qualifica pubblicistica penalmente rilevante a chi, pur essendo un privato
professionista, eserciti occasionalmente delle mansioni “pubbliche”; oppure abbia carattere speciale rispetto ai
medesimi, volto cioè ad escludere che, privati professionisti che esercitino occasionalmente delle mansioni “pubbliche”,
vengano qualificati come “pubblici ufficiali” o “incaricati di pubblico servizio”47. Tuttavia, poiché vi è una differenza di
disciplina tra le figure delineate negli articoli in questione, in quanto l’esercente un servizio di pubblica utilità è
sottoposto ad una disciplina privatistica, mentre al contrario il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio sono
sottoposti ad una disciplina pubblicistica, la delineazione di tali rapporti assume rilevanza soltanto quando si presenta
un’interferenza di funzioni, ovvero quando il privato professionista nell’offrire un servizio di cui il pubblico è obbligato
a valersi, assume i poteri che sono tipici di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio ex artt. 357 e 358
c.p., i quali vengono disciplinati da norme di diritto pubblico48. Tuttavia, onde evitare di generare confusione tra le
presenti figure, i rapporti sono stati regolati da una clausola di riserva, la quale sancisce il carattere speciale al primo
comma dell’art. 359 c.p. ed il carattere residuale al secondo comma del medesimo articolo49.
In conclusione, è lecito affermare che le attività prese in considerazione dal secondo comma dell’art. 359 c.p., sono per
la maggior parte estranee al campo applicativo di cui i sopra menzionati articoli, in quanto non basta che “un servizio
possa genericamente definirsi di interesse pubblico per ravvisare senz’altro la qualifica pubblicistica ai sensi degli artt.
357 e 358 c.p.”50; pertanto i relativi ambiti di applicazione sarebbero privi di interferenze. Laddove, invece, un privato
professionista eserciti mansioni che eccezionalmente (cioè a differenza di quelle normalmente attinenti alla sua
professione) risultino disciplinate dal diritto pubblico e dagli atti autoritativi o che implichino lo svolgimento di una
funzione giudiziaria, il soggetto verrà qualificato come pubblico ufficiale o soggetto incaricato di pubblico servizio.
Si pensi, ancora una volta, alla figura del notaio il quale, pur essendo un libero professionista, assume la connotazione
di “pubblico ufficiale” allorquando eserciti poteri certificativi tipicamente riconducibili a quest’ultima categoria di
soggetti ex art. 357 c.p..
4. I problemi definitori delle qualifiche soggettive
4.1. Nel sistema della concessioni pubbliche
47 Secondo il principio espresso dall’art. 15 c.p., per cui “lex specialis derogat generali”. 48 A sostegno del carattere speciale della disposizione 359 c.p., sono intervenute una serie di pronunce della Corte di Cassazione, la quale ha più volte attribuito natura “assorbente” alla qualifica di esercente un servizio di pubblica utilità “qualunque tipo di attività egli compia”. V. Cass., sez. VI, ud. 29.5.1986, Piersanti, Ced 173985; in precedenza v. Cass., sez. VI, ud. 24.3.1972, Zanzarri, Ced 122012, tratte da A. VALLINI, op. cit., p. 807. 49 Tale clausola venne introdotta al fine di evitare che, nelle indicazioni di origine ministeriale riguardo alle attività da considerarsi servizio di pubblica necessità, venissero inseriti servizi che in realtà erano meritevoli di essere considerati pubblici uffici e pubblici servizi ex artt. 357 e 358 c.p.: cfr. S. VINCIGUERRA, Delitti contro la pubblica amministrazione, Padova, 2008, p. 29, come riportato da A. VALLINI, op. cit., p. 808. 50 Cfr. A. FIORELLA, Reato in generale, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1987, p. 569, come riportata da A. VALLINI, op. cit., p. 809.
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Come precedentemente anticipato, in seguito alle grandi trasformazioni economiche che hanno
alterato il normale modo di operare dello Stato nell’economia, ai fini di una corretta applicazione
delle norme di cui trattasi ai “nuovi” soggetti della scena economica, si è reso necessario un grande
lavoro di cesello interpretativo da parte della giurisprudenza.
Nel corso degli anni ’80, viene ampiamente utilizzato il sistema delle concessioni pubbliche. In
quest’ultimo, tramite un atto di concessione emanato da una pubblica amministrazione, si viene a
costituire, in capo ad un soggetto privato, la legittimazione all’esercizio di un pubblico servizio.
Se, tuttavia, si affermasse che la sola presenza di tale atto di concessione amministrativo sia di per
sé sufficiente per considerare l’attività sottesa al medesimo, quale attività di pubblico servizio, ci
troveremo di fronte delle consolidate obiezioni. Infatti, come sostenuto in dottrina, ai fini della
definizione di un’attività come pubblico servizio non pare sufficiente un mero atto d’investitura
della pubblica amministrazione, richiedendosi in aggiunta che le singole attività concesse siano
regolate dal diritto pubblico51. Secondo quanto precedentemente enunciato riguardo alla necessaria
compresenza della disciplina pubblica e degli atti autoritativi al fine di poter qualificare un’attività
quale pubblica funzione, non può essere considerata sufficiente la sola presenza di un atto
concessorio di investitura di un pubblico servizio emanato da una pubblica amministrazione, ma si
richiede in aggiunta che le singole attività concesse siano regolate dalla disciplina pubblicistica e
aventi, dunque, pubbliche finalità. Come rilevato da autorevole dottrina, il criterio di disciplina
degli artt. 357 e 358 c.p. “richiede una verifica volta per volta del regime dell’attività
concretamente esercitata dal soggetto, persona fisica o giuridica, pubblica o privata: e mai potrà
accertarsi (pubblica funzione o) pubblico servizio, appunto, là dove l’attività sia svolta secondo
norme e schemi privatistici”52.
In accordo con il percorso argomentativo ivi presentato, appare estremamente condivisibile tale
posizione prospettata in dottrina e ripresa numerose volte dalla giurisprudenza, in quanto, per
realizzare compiutamente il passaggio ad una concezione oggettivo dei pubblici funzionari (come
prospettato dalla già citata novella del 199053), si richiede una effettiva rilevanza della natura delle
mansioni svolte da un soggetto e, in aggiunta, un definitivo abbandono di quelle posizioni
soggettive che hanno, per lungo tempo, generato problemi di indeterminatezza. Pertanto, affermare
la pubblicità di un servizio sulla sola base di un atto emanato da un pubblico soggetto,
significherebbe tornare a dare rilievo ad un qualsiasi contatto che dovesse generarsi tra un soggetto
51 V. in particolare G. FIANDACA- E. MUSCO, op. cit., ult. cit., come riportato da P. S. DI BENEDETTO, op. cit., p. 518. 52 Cfr. M. ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati. Le qualifiche soggettive pubblicistiche, III ed., Milano, 2008, p. 303., come riportato da B. GARDELLA, op. cit., p. 3. 53 Vedi supra par. 2.1. e ss.
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privato ed un soggetto pubblico, e soprattutto, significherebbe sminuire quel percorso evolutivo che
il concetto di pubblico funzionario ha subito a partire dagli anni’90.
In conclusione, un soggetto che esercita un’attività devoluta da una pubblica amministrazione e
disciplinata dalle norme pubblicistiche, verrà qualificato come pubblico ufficiale o come soggetto
incaricato di pubblico servizio a seconda che l’attività posta da lui in essere rientri nei poteri tipici
del primo ex art. 357 c.p., oppure rientri nelle mansioni svolte tipicamente dal secondo ex art. 358
c.p..
4.2. Nelle società partecipate
Un ulteriore modo di operare dello Stato nell’economia è rappresentato dal crescente impiego di
strumenti di gestione privatistici, con speciale riguardo per il fenomeno delle cc.dd.
Privatizzazioni54 .
Nel corso degli anni ‘80, sull’enorme spinta proveniente dal processo di integrazione europea,
numerosi settori economici un tempo interamente sottoposti al monopolio dello Stato, sono stati
liberalizzati55, ciò comportando la trasformazione di un grande numero di enti pubblici in società
per azioni. Tuttavia, inizialmente vennero operate solo delle privatizzazioni formali, consistenti nel
mutamento della veste formale degli enti senza un’effettiva dismissione del controllo pubblico, vuoi
in ragione della mancata cessione delle partecipazioni statali di maggioranza, vuoi a cagione
dell’attribuzione ex lege al socio pubblico di poteri speciali (c.d. golden share).
Successivamente si giunse ad operare privatizzazioni tendenzialmente più sostanziali, le quali
portarono anche a un mutamento dell’assetto proprietario del soggetto collettivo, consentendo
l’acquisizione di quote azionarie anche a soggetti privati. Tuttavia, nonostante l’ingente spinta
proveniente dal processo di liberalizzazione di matrice europea, nel nostro ordinamento queste
privatizzazioni non sono mai state effettivamente “sostanziali”, in quanto tali processi non sono
stati seguiti da una completa dismissione del controllo pubblico dei vecchi enti pubblici economici.
Ciò ha creato il problema di verificare la rilevanza della veste giuridica formale assegnata all’ente,
rispetto alla qualifica pubblico o privata agli effetti della legge penale.
Al riguardo risulta necessario premettere che la trasformazione di un soggetto pubblico in un
soggetto privato non è stata di per sé sufficiente a qualificare questi ultimi in termini privatistici.
54 Con il termine “privatizzazioni” si descrive una vicenda comportante la sostituzione del regime di diritto pubblico con un regime di diritto privato. Essa può riguardare i soggetti, le attività e i beni pubblici. La privatizzazione dei soggetti implica la trasformazione dell’ente pubblico in una persona giuridica privata e può essere formale o sostanziale. La privatizzazione dell’attività si può riferire ad ogni tipo di attività pubblica anche se maggiormente, (nell’uso corrente) si fa riferimento all’attività pubbliche aventi natura economica. La privatizzazione dei beni pubblici implica la sottoposizione dei medesimi alle regole privatistiche in ordine ai beni giuridici. Cfr. S. CASSESE, La nuova costituzione economica, cap. VII “le privatizzazioni”, IV edizione, Roma, p. 239- 240- 241. 55 Vedi supra par. 2.2 .
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Come sottolineato dalla Suprema Corte di Cassazione “la trasformazione degli enti pubblici in
s.p.a. e la successiva alienazione a privati di azioni della s.p.a. non comportano in sé il venir meno
della qualifica di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio dei suoi dipendenti, dato che
l’ente rimane comunque disciplinato da una normativa pubblicistica e persegue finalità pubbliche,
anche se con strumenti privatistici propri della s.p.a.”56.
Si prenda come riferimento, ad esempio, il caso dell’agente della riscossione di Equitalia S.p.a.. Tale soggetto verrà
qualificato come “pubblico ufficiale” in virtù delle mansioni da lui svolte, mentre sarà irrilevante la forma giuridica del
soggetto presso il quale tale attività viene svolta.
Pertanto, al fine di qualificare in maniera specifica un soggetto dipende da una S.p.a. di
partecipazione pubblica, si avrà riguardo della natura delle mansioni effettivamente svolte dal
soggetto: sarà pubblico ufficiale se esercita poteri autoritativi o certificativi, ovvero partecipa alla
formazione o manifestazione della volontà della pubblica amministrazione; sarà incaricato di
pubblico servizio se l’attività del soggetto non presenta tali connotazioni autoritative; sarà, infine,
un comune impiegato se esercita delle mansioni meramente ausiliarie e materiali.
In conclusione, le specifiche qualifiche da attribuirsi ai soggetti operanti in tali società a
composizione mista pubblica-privata, non potranno desumersi dalla natura dell’ente al quale sono
subordinati, ma si avrà riguardo caso per caso delle mansioni concretamente svolte dal singolo
soggetto.
56 Cass. Pen., VI,12.11.1996, cit., tratta da B. GARDELLA, La qualifica soggettiva del dipendente di poste italiane S.p.a. addetto allo “smistamento” della corrispondenza, Nota a Cass. Pen, sez.VI, ud. 20.11.2012, , n. 46245, in Diritto penale contemporaneo.
18
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“smistamento” della corrispondenza, Nota a Cass. Pen, sez.VI, ud. 20.11.2012, , n. 46245, in
Diritto penale contemporaneo;
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dell’economia, Milano, 1970:
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