Dio e Il Divino in Seneca - Gianfranco Bertagni

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Dio e il divino in Seneca Seminario di Gianfranco Bertagni Prima di cominciare a parlare di Seneca, ricordiamo qualcosa relativo allo stoicismo, dato che Seneca appartiene a quello che è stato chiamato neo-stoicismo. Alcuni elementi centrali della dottrina stoica verranno ripresi – ovviamente – da Seneca, avendo anche nella sua filosofia un ruolo decisivo. Per prima cosa potremmo citare l’idea della necessità dell’ordine cosmico, con ciò che è legato a questa nozione, e cioè il concetto di destino e di provvidenza. Questa è la visione tipica della fisica stoica: c’è un ordine immutabile, razionale, perfetto e necessario che governa e sorregge infallibilmente tutte le cose e le fa essere e conservarsi quelle che sono. Quest’ordine stesso è identificato dagli stoici con Dio, per cui la dottrina stoica è perlopiù panteistica, con comunque differenze sensibili all’interno dei diversi autori. Secondo la dottrina stoica classica vi sono due principi: uno attivo e l’altro passivo, entrambi materiali e operanti in mutuo accordo, inseparabili l’uno dall’altro. Il principio passivo è la materia, puramente passiva, priva di qualsiasi qualità; il principio attivo è invece la ragione, cioè Dio, che è attivo, che agisce sulla materia e che, così facendo, produce gli esseri singoli. Quindi c’è una sostanza, passiva, e una forza, attiva. Ma attenzione: questa distinzione per gli stoici non vuole indicare che la materia sia corporea, mentre il principio attivo sia incorporeo. Entrambi i principi sono anzi corporei, non c’è nient’altro che corpo: solo il corpo esiste. Dunque gli stoici asseriscono un rigoroso materialismo. Cosa è che esiste? Solo ciò che agisce o che subisce un’azione. E dato che solo il corpo può agire o subire un’azione, allora esiste solo il corpo. L’anima produce delle azioni? Allora è corpo. La voce opera e agisce sull’anima? Allora è corpo. Le emozioni, i vizi operano, producono delle azioni, degli effetti? Allora sono corpi. Ecc. Dio stesso, in quanto ragione cosmica e causa di tutto, è corpo. Produce degli effetti? E allora è corpo. È una sorta di fuoco, non ovviamente il fuoco che l’uomo conosce e che usa, ma una specie di soffio caldo (pneuma) e vitale che tutto conserva, alimenta, accresce e sostiene. Un soffio – appunto – corporeo. Un soffio che contiene in unità tutte le cose che sono, che nascono. La vita delle cose, del mondo, del cosmo, i suoi cicli, il suo procedere è regolato dal destino (eimarméne), che è la legge che regge tutte le cose. Il destino costituisce l’ordine del mondo, è la concatenazione necessaria che tale ordine pone tra tutti gli esseri, e tra il passato e il futuro. Ogni fatto segue a un altro e questa concatenazione è necessariamente determinata dalla legge di causa ed effetto. Questa regola è alla base di ogni evento, di ogni accadimento, di ogni situazione, di ogni fatto, non si può spezzare, perché è essa che costituisce l’ordine razionale del mondo. Quest’ordine, dal punto di vista delle cose che concatena, si chiama ‘destino’; invece, dal punto di vista di Dio che ne è l’autore e il garante, si chiama ‘provvidenza’: provvidenza in quanto regge ogni cosa e la conduce al suo fine perfetto. Quindi destino, provvidenza e ragione si identificano e si identificano con Dio, che è considerato come la natura intrinseca, presente e operante in tutte le cose.

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Seminario su Dio in Seneca

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Dio e il divino in Seneca Seminario di Gianfranco Bertagni Prima di cominciare a parlare di Seneca, ricordiamo qualcosa relativo allo stoicismo, dato che Seneca appartiene a quello che è stato chiamato neo-stoicismo. Alcuni elementi centrali della dottrina stoica verranno ripresi – ovviamente – da Seneca, avendo anche nella sua filosofia un ruolo decisivo. Per prima cosa potremmo citare l’idea della necessità dell’ordine cosmico, con ciò che è legato a questa nozione, e cioè il concetto di destino e di provvidenza. Questa è la visione tipica della fisica stoica: c’è un ordine immutabile, razionale, perfetto e necessario che governa e sorregge infallibilmente tutte le cose e le fa essere e conservarsi quelle che sono. Quest’ordine stesso è identificato dagli stoici con Dio, per cui la dottrina stoica è perlopiù panteistica, con comunque differenze sensibili all’interno dei diversi autori. Secondo la dottrina stoica classica vi sono due principi: uno attivo e l’altro passivo, entrambi materiali e operanti in mutuo accordo, inseparabili l’uno dall’altro. Il principio passivo è la materia, puramente passiva, priva di qualsiasi qualità; il principio attivo è invece la ragione, cioè Dio, che è attivo, che agisce sulla materia e che, così facendo, produce gli esseri singoli. Quindi c’è una sostanza, passiva, e una forza, attiva. Ma attenzione: questa distinzione per gli stoici non vuole indicare che la materia sia corporea, mentre il principio attivo sia incorporeo. Entrambi i principi sono anzi corporei, non c’è nient’altro che corpo: solo il corpo esiste. Dunque gli stoici asseriscono un rigoroso materialismo. Cosa è che esiste? Solo ciò che agisce o che subisce un’azione. E dato che solo il corpo può agire o subire un’azione, allora esiste solo il corpo. L’anima produce delle azioni? Allora è corpo. La voce opera e agisce sull’anima? Allora è corpo. Le emozioni, i vizi operano, producono delle azioni, degli effetti? Allora sono corpi. Ecc. Dio stesso, in quanto ragione cosmica e causa di tutto, è corpo. Produce degli effetti? E allora è corpo. È una sorta di fuoco, non ovviamente il fuoco che l’uomo conosce e che usa, ma una specie di soffio caldo (pneuma) e vitale che tutto conserva, alimenta, accresce e sostiene. Un soffio – appunto – corporeo. Un soffio che contiene in unità tutte le cose che sono, che nascono. La vita delle cose, del mondo, del cosmo, i suoi cicli, il suo procedere è regolato dal destino (eimarméne), che è la legge che regge tutte le cose. Il destino costituisce l’ordine del mondo, è la concatenazione necessaria che tale ordine pone tra tutti gli esseri, e tra il passato e il futuro. Ogni fatto segue a un altro e questa concatenazione è necessariamente determinata dalla legge di causa ed effetto. Questa regola è alla base di ogni evento, di ogni accadimento, di ogni situazione, di ogni fatto, non si può spezzare, perché è essa che costituisce l’ordine razionale del mondo. Quest’ordine, dal punto di vista delle cose che concatena, si chiama ‘destino’; invece, dal punto di vista di Dio che ne è l’autore e il garante, si chiama ‘provvidenza’: provvidenza in quanto regge ogni cosa e la conduce al suo fine perfetto. Quindi destino, provvidenza e ragione si identificano e si identificano con Dio, che è considerato come la natura intrinseca, presente e operante in tutte le cose.

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Identificando il cosmo con Dio, la dottrina stoica – come già detto – è un panteismo rigoroso ed è anche una giustificazione del politeismo tradizionale. In che senso? Nel senso che lo stoicismo vedeva negli dèi tradizionali aspetti diversi dell’azione divina sul cosmo: Zeus è la causa del vivere, Atena governa sull’etere, Era governa sull’aria, ecc. Inoltre, essendo il mondo identificato con la ragione divina, esso non può che essere divino e quindi perfetto. I mali esistono, ma sono necessari per l’esistenza del bene. Il bene non esiste senza il suo opposto: la giustizia non sarebbe tale se non ci fosse l’ingiustizia, perché la giustizia è proprio la liberazione dall’ingiustizia. Dio ha armonizzato tutto nel mondo, beni e mali, perché ne nasca la ragione eterna di tutto. A livello etico, lo stoicismo ritiene che l’ordine cosmico sia tale e mantenga la sua perfezione nel mondo degli esseri viventi grazie a due forze infallibili che agiscono in questo mondo: l’istinto e la ragione. L’istinto fa sì che l’animale tenda a conservarsi, a nutrirsi, a riprodursi, a prendersi insomma cura di sé. La ragione invece garantisce all’uomo l’accordo con se stesso e con la natura. L’etica stoica quindi si prefigge un uso pratico della ragione volto a stabilire un accordo tra la natura e l’uomo. L’uomo deve essere in accordo con se stesso, cioè vivere secondo la ragione, quella ragione che è unica e universale per tutti. E dato che questa ragione si dispiega nella natura (natura intesa come natura umana e anche come natura cosmica), una delle massime ripetute spesso tra gli stoici a questo proposito è “vivere secondo natura”. La natura è l’ordine razionale, perfetto e necessario; coincide con il destino ed è Dio stesso. L’azione umana dovrà allora essere conforme all’ordine razionale delle cose, della natura. L’etica stoica è un’etica del dovere. Cioè l’azione dello stoico deve essere in riferimento all’ordine razionale del tutto. Doverosa è quell’azione che la ragione ordina di compiere. Una volta che la scelta consigliata dalla ragione viene messa in atto, ripetuta e consolidata, mantenendosi quindi lo stoico sempre in conformità alla natura, questa diventa una disposizione costante nell’uomo, e cioè una virtù. È la virtù il vero e unico bene. E la virtù è propria solo del sapiente, perché solo lui è capace di compiere il retto dovere, solo lui si identifica con la sapienza stessa, perché solo lui conosce l’ordine cosmico e quindi vi si può adeguare. Dunque, ripetiamolo, la virtù è il solo bene in senso assoluto, perché grazie ad essa si realizza nell’uomo l’ordine razionale del mondo. Un’altra idea centrale dello stoicismo è quella della condanna delle emozioni. All’interno della vita virtuosa del vero sapiente ogni riferimento all’emozione viene negato. L’emozione non ha alcuna funzione all’interno dell’ordine razionale del cosmo: questo ordine è mantenuto in modo perfetto negli esseri viventi attraverso l’istinto per l’animale e la ragione per l’uomo. Le emozioni invece esulano da tutto ciò, non sono prodotte da situazioni naturali, ma sono errori di valutazione, opinioni e giudizi errati, causati dall’ignoranza, da una non corretta conoscenza delle cose. Alle emozioni sconsiderate, alle emozioni che secondo gli stoici sono elementi disturbanti rispetto a una vita saggia, vengono sostituite la gioia equanime, la precauzione, la calma, l’equilibrio razionale. Le emozioni sono delle malattie da cui bisogna curarsi. L’ideale del saggio stoico è invece l’indifferenza a ogni emozione, l’apatia.

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Le emozioni sono elementi disturbanti rispetto all’indipendenza dell’uomo e, a questa idea è connesso il concetto – altrettanto importante nello stoicismo - di autosufficienza dello stoico, della libertà del sapiente da tutto ciò che possa farlo deflettere. Era un concetto già difeso da Platone e Aristotele: la libertà consiste nell’essere ‘causa di sè’ o dei propri atti e movimenti. Quindi la libertà è autodeterminazione; solo il sapiente è libero perché solo lui si determina da sé. E questo determinarsi in cosa consiste? Nel conformarsi all’ordine del cosmo, cioè al destino e alla sua legge indefettibile. Negli stoici quindi, per la prima volta, troviamo la dottrina che identifica la libertà con la necessità. Ma ci furono anche pensatori stoici che vollero riconoscere un certo ambito di libertà da parte dell’iniziativa del sapiente rispetto l’ordine cosmico, distinguendo quindi delle cause perfette, le quali agiscono con necessità assoluta, da cause concomitanti, che possono subire la nostra influenza. L’ordine razionale del cosmo guida la vita di ogni individuo, ma anche – ovviamente – quella dell’intera comunità umana. Le leggi quindi si dovrebbero incaricare di essere le trascrizioni di quella che è l’azione della ragione divina nella comunità. E queste leggi dovrebbero essere uguali e sempre le stesse in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, essendo la ragione divina sempre identica a se stessa. Se è unica la legge che governa tutti gli uomini, altrettanto unica è la comunità umana. Lo stoicismo ha un’idea molto forte dell’uomo in quanto cittadino del mondo, cosmopolita: il sapiente non appartiene a questa o a quella comunità, ma alla città universale, dove tutti sono liberi. La sola schiavitù è quella di chi non determina se stesso in conformità alla legge universale della ragione cosmica, dell’ordine razionale dell’universo, quella legge insita sia nella natura esterna che in quella di ogni singolo uomo.

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Dunque: possiamo avere già capito che l’interesse dello stoicismo non è tanto rivolto alla scienza come fine ultimo, ma alla felicità, una felicità che si ottiene per mezzo della virtù: anzi, la virtù stessa è felicità. A tal punto che l’idea stoica di filosofia è proprio quella di una scienza e una pratica delle virtù. Seneca stesso dice: “La filosofia è esercizio di virtù” (Ep. 89). Quindi il concetto di filosofia viene a coincidere con quello di virtù e il suo fine è il raggiungimento della sapienza, una sapienza ovviamente intesa come sapienza del buon vivere, del vivere felice, del vivere virtuoso (cose che evidentemente coincidono in un’ottica stoica, ma non solo). A questa sapienza quindi non si perviene tanto attraverso lo studio, ma attraverso – come già detto – l’esercizio della virtù. Questa ricerca della felicità nel neostoicismo del periodo romano si dipinge con tratti spiccatamente religiosi o comunque spirituali. Questo perché gli stoici romani danno una particolare rilevanza al tema dell’interiorità spirituale dell’uomo. Nello stoicismo romano c’è soprattutto questa idea secondo la quale per giungere a Dio, per conformarsi alla sua legge, il saggio stoico non deve uscire fuori da sé, ma guardare in se stesso, attraverso quella che oggi potremmo chiamare introspezione, indagine della propria coscienza. Gli stoici romani fanno del ritorno a se stessi uno dei loro temi preferiti, tema che diventerà centrale nell’ultimo periodo della filosofia antica, cioè nel neoplatonismo. Vivere felice è conoscere il vero bene. Qual è il vero bene, secondo Seneca? Scrive: “Il bene dell’uomo non è nell’uomo se non quando la ragione è perfetta. Ma qual è questo bene? Te lo dirò: un’anima libera, nobile, che sottomette le altre cose a sé, senza lasciarsi sottomettere da nessuna” (Lettere, 124, 11-12). In un altro luogo risponde dicendo: “Qual è? Un animo irreprensibile e puro, emulo di Dio, capace di elevarsi al di sopra delle cose umane, e di riporre ogni suo bene in se stesso. Sei un animale razionale. Qual è, dunque, il bene in te? La ragione perfetta. Richiamala al suo fine, fa’ che progredisca il più possibile. Ritieni di essere felice quando ogni gioia nascerà nel tuo intimo, quando, vedendo le cose che gli uomini rubano, bramano, custodiscono, non troverai nulla che non dico preferisci, ma neppure vuoi” (Lett., 124, 23-24). Questo ultimo riferimento è motivato dal fatto che quello che la maggior parte degli uomini ritiene costituire la loro felicità in realtà è il loro male. Quindi bisogna stabilire con esattezza in cosa consista il vero bene, capire che la sua radice sta nell’interiorità dell’uomo, comprendere in cosa consista il fine dell’uomo e il rendersi conto del ruolo di Dio e del Destino nei rapporti che intercorrono tra l’uomo e il destino stesso, cioè tra l’uomo e Dio. Lo scopo che si pone Seneca nel suo fare filosofia non è quindi una conoscenza intellettuale, ma la realizzazione di quegli effetti che la conoscenza produce sull’uomo. Questa conoscenza cosa dovrà produrre? Un cambiamento nelle valutazioni da parte dell’uomo delle cose, degli eventi, dei fatti che gli accadono, della sua vita. La convinzione di fondo è che i mali non stanno tanto nelle cose in quanto tali, ma nella valutazione sbagliata che noi diamo ad esse. Ciò che va modificato non è ciò che ci circonda, ma la propria interiorità. Il vero saggio è colui che riesce a mantenere il suo equilibrio là dove gli altri, scossi dagli eventi che ritengono negativi, cadono: “Non è straordinario non essere scossi

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quando tutto è tranquillo: meraviglio che qualcuno si sollevi là dove tutti si lasciano abbattere, che qualcuno stia in piedi là dove tutti giacciono a terra. Che cosa c’è di male nei tormenti e nelle altre cose che chiamiamo avversità? A mio parere questo: il venire meno, il piegarsi e il lasciarsi sopraffare dall’animo. Niente di tutto ciò può accadere all’uomo saggio: sta diritto sotto qualsiasi peso. Niente lo abbassa; nessuna contrarietà da sopportare gli riesce sgradita. Infatti egli non si lamenta che gli sia capitato tutto quanto può capitare ad un uomo” (Lett., 71, 21-26). Dunque il fine della filosofia di Seneca è eliminare quei mali presenti nell’anima che non permettono all’uomo una vita virtuosa, cioè felice, cioè giusta, cioè buona. La filosofia si presenta quindi come una terapia. Seneca stesso scrive: “Mi occupo degli affari dei posteri. Scrivo cose che possano loro giovare; affido agli scritti consigli salutari, come se fossero ricette di medicine utili; ne ho sperimentato l’efficacia sulle mie ferite” (Lett., 8, 2). E quindi l’esito ultimo della filosofia, il suo scopo primo per Seneca non è una conoscenza puramente culturale, un sapere intellettuale e difficile, ma – come già detto – la felicità, qualcosa da realizzare, una disciplina pratica e non puramente speculativa: “I filosofi si devono ascoltare e leggere con il proposito di raggiungere la felicità, non per cercare di cogliere degli arcaismi o i neologismi, le metafore troppo ardite o le figure retoriche, ma i precetti utili, le massime nobili e coraggiose da mettere subito in pratica” (Lett., 108, 29-35). Seneca stesso dirà anche che “la filosofia [...] non consiste in parole, ma in fatti” (Lett., 16, 3). C’è un brano di una lettera a Lucilio in cui è molto chiaro ed evidente lo scopo della filosofia secondo Seneca. Si sta parlando dell’essere saggio, di come lo si diventa. Leggiamolo: “Cerca piuttosto di indicarmi la via da seguire per raggiungere questa meta. Dimmi che cosa devo evitare, a che cosa devo tendere, con quali esercizi posso rafforzare il mio animo vacillante, come respingere da me gli accidenti che mi colpiscono all’improvviso e mi incalzano, come posso resistere a tanti mali, come respingere queste disgrazie che mi hanno assalito e quelle in cui io stesso mi sono cacciato. Insegnami come posso sopportare le tribolazioni senza lamentarmi e la felicità senza che altri si lamentino [...]. Di questi argomenti occupiamoci, Lucilio mio, con questi educhiamo il nostro animo. In questo consiste la saggezza, in questo consiste l’essere saggi, non nell’esercitare un’inutile sottigliezza intellettuale in vuote discussioncelle. [...] Dimmi come posso far sì che la tristezza e la paura non turbino il mio animo, come possa scaricarmi il peso di queste passioni. Si faccia qualcosa” (Lett., 117, 19-26). Per quanto riguarda i principi fondamentali che sono a fondamento della realtà, abbiamo detto che per la dottrina stoica ci sono questi due principi primi, l’uno attivo e l’altro passivo, entrambi comunque materiali. Per cui anche Dio è corpo. Seneca si discosta da questa impostazione, o meglio: mantiene l’idea della duplicità di questi principi, ma nega il materialismo radicale nel quale si trova inserito lo stoicismo classico. E uno dei concetti nei quali troviamo le maggiori oscillazioni nell’opera di Seneca e aspetti nei quali Seneca si discosta dalla teoria stoica comune è quello relativo a Dio. Non è facile riuscire a cogliere una nozione unitaria e definitiva di Dio in Seneca: spesso ci troviamo di fronte a idee, a definizioni, ad affermazioni che non sempre sono compatibili tra loro. Ci sono spunti che ovviamente rimandano allo

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stoicismo, al suo monismo, al suo panteismo, al suo materialismo anche; ma ci sono pure altri spunti che sono più spiccatamente spiritualistico, che risultano più vicini a una sensibilità platonica e anche a un certo approccio cristianeggiante. Non è un caso, ovviamente, che Seneca sia, tra i filosofi pagani, quello che forse più di altri sia stato stimato dai pensatori cristiani dei primi secoli (e non solo): lo si è sentito molto vicino su tanti temi, tanto da far nascere la leggenda (ovviamente del tutto priva di fondamenta) di un epistolario tra Seneca stesso e San Paolo. La nozione che ha Seneca di Dio naturalmente, quale filosofo egli è, si discosta notevolmente dall’idea popolare di divino, che spesso viene criticata nelle sue opere. Per esempio, quando parla della credenza secondo la quale Giove scaglierebbe i fulmini dalle nubi o che gli dèi siano chiamati a consiglio da Giove stesso per deliberare su questo o quest’altro, critica queste idee, queste nozioni del divino, ritenendole erronee. D’altro canto ritiene che questo stesso modo di vivere la religiosità, di concepire dio e i suoi rapporti con il mondo superiore e con il mondo inferiore, abbia comunque una sua funzione pedagogica rispetto al volgo ignorante, con il quale è necessario ricorrere al sentimento della paura, paura che instilla nell’uomo ignorante il giusto timore rispetto a qualcosa che è sopra di noi. Se vi sono persone che si attengono all’onestà solo se spinte dalla paura, è giusto che si presenti loro un’idea di dio vendicatore, armato di fulmine, ecc., per far sì che queste persone si attengono alla morale (Quest. nat., II, 42, p. 733). Oppure, altrove, in una lettera a Lucilio, nella ventiquattresima, dice di non credere in tante tradizioni mitologiche tramandate dall’antichità: non crede che una ruota faccia girare Issione (Issione era stato invitato a mensa nell’Olimpo e tentò di violentare Era: allora Zeus, per punizione, lo fece precipitare nel Tartaro e lo fece legare, usando dei serpenti, a una ruota in fiamme e in perenne movimento. E poi Seneca continua riferendosi ad altre vicende mitiche cui solo gli sciocchi credono: “... Né un masso è spinto con le spalle su per una salita da Sisifo [Sisifo era stato appunto punito da Zeus a spingere all’infinito un macigno per un pendio e, appena giunto alla vetta, questo macigno rotolava a valle e si ripeteva la solita situazione], né i visceri di alcuno possono ricrescere ed essere divorati ogni giorno [il riferimento è a Tizio, il gigante che fu condannato da Zeus ad essere legato nell’Ade e ad avere il fegato perennemente roso da due avvoltoi e perennemente ricrescente]: nessuno è così infantile da temere Cerbero [il cane a più testa guardiano dell’Ade], le tenebre e gli scheletri sotto forma di spettri” (Lett. 24, 18, p. 972). Naturalmente il dio di Seneca è il dio dei filosofi, il dio della religio naturalis e in questa ottica egli rintraccia un duplice tempio di Dio: il cosmo e l’uomo. Naturalmente questa è una ripresa della nozione stoica del divino. Il mundus, il cosmos è dio e tempio di dio. Ovviamente è una diretta conseguenza del monismo e del panteismo stoici. In un’altra lettera a Lucilio, la novantesima, dice che il vasto tempio degli déi non è un santuario di una città, bensì il cosmo stesso (Lett. 90, 28, p. 1190). Altrove dice: “Il cosmo intero è il tempio degli déi immortali, l’unico degno della loro grandezza e della loro magnificenza” (Ben. VII, 7, 3, p. 632). Il cosmo è il tempio degli déi, ma, come si diceva, è divino esso stesso. Il cosmo è dio. Nelle Questioni Naturali (II, 45, 3) si dice – il riferimento è a dio – che “se vuoi chiamarlo

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natura, non sbaglierai [...] Se vuoi chiamarlo cosmo, non ti ingannerai: proprio lui, infatti, è la totalità di ciò che vedi, inseparabilmente connesso con le sue parti”. E poi, sempre in una delle lettere a Lucilio, Seneca scrive: “Tutto ciò che vedi, che racchiude il divino e l’umano, è un tutt’uno: siamo le membra di un immenso organismo” (Lett. 95, 52, p. 1234). Abbiamo detto dio nel cosmo, ma anche dio nell’uomo. Seneca è lontano da un’idea di dio da implorare, da considerare lontano dall’uomo, da un’idea insomma devozionistica e anche, potremmo dire, da un approccio liturgico al divino stesso. Scrive: “Persisti nel tendere alla saggezza, che è stolto chiedere agli dèi, dato che puoi ottenerla da te stesso. Non occorre levare le mani al cielo né implorare il custode del tempio di lasciarti avvicinare all’orecchio della statua, quasi che così potessimo trovare più ascolto: Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. Voglio dire, Lucilio, in noi dimora uno spirito sacro, che osserva e controlla le nostre azioni buone e cattive; a seconda di come noi lo trattiamo, così lui stesso ci tratta. In verità, nessun uomo può essere virtuoso senza Dio” (Lett. 40, 1-2, pp. 1002-1003). Qui tra l’altro Seneca si discosta dall’idea classica di dio dello stoicismo. In questo brano sembra farsi strada un’idea di dio con tratti spirituali e personali, un dio che aiuta l’uomo, che gli è vicino, senza il quale l’uomo non può nulla e che ci osserva nel nostro operare. Ma i tratti con cui Seneca dipinge dio non sono così univoci. Questa caratterizzazione che abbiamo appena visto e che ci risulta vicina, ad esempio, a una certa sensibilità cristianeggiante, non converge con altre caratterizzazioni del divino che troviamo nelle opere di Seneca. Ad esempio nella lettera 124 (e anche altrove) si dice che la natura divina e quella umana hanno la stessa essenza, solo che “differiscono perché una è immortale, l’altra mortale. Dunque, il bene dell’uno, quello di Dio ovviamente, proviene dalla sua natura, quello dell’altro, cioè dell’uomo, dal suo impegno” (lett. 124, 14, p. 1346). In un’altra lettera a Lucilio, la 73, Seneca si chiede in cosa Giove è superiore all’uomo virtuoso. E risponde: “È virtuoso più a lungo, ma il saggio non ritiene di valere meno perché la sua virtù è circoscritta in un arco di tempo minore. Come tra due saggi chi è morto più vecchio non è più felice dell’altro, la cui virtù è durata un numero inferiore di anni, così Dio non supera l’uomo per felicità, anche se lo supera per età; non è più grande una virtù che dura più a lungo” (lett. 73, 13, p. 1096). Comunque resta il fatto che il dio di Seneca si presenta con tali caratteristiche che non riusciamo a farlo coincidere perfettamente con l’idea stoica classica di divino. Possiamo fare un excursus tra le opere di Seneca e tentare di fare una panoramica delle definizioni che dà di Dio. Dunque: nelle Questioni Naturali dice: “Che cos’è Dio? La totalità di ciò che vedi e di ciò che non vedi. Così finalmente si riconosce alla divinità la sua grandezza, della quale non si può pensare nulla di più grande, se è vero che Dio solo è tutto” (Quest. nat., I, pref., 13, p. 682). Nelle lettera 92 si dice: “Questo tutto in cui siamo racchiusi è un’unità ed è Dio; e noi ne siamo parti e membra” (Lett. 92, 30, pp. 1204-1205). Quindi qui Dio è tutto ciò che vediamo e che non vediamo; è cioè la totalità delle cose, dei fenomeni, ma è anche ciò che sta a monte dei fenomeni: è ciò – come si dice – di cui non si può pensare nulla di più grande.

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Poi Dio è anche definito in quanto coincidente con la Natura: “Che cos’altro è la natura, se non Dio e la divina ragione che permea l’universo nel suo insieme e nelle sue parti?” (I benefici, IV, 7, 1, p. 538). Poi, sempre ne I benefici, poco dopo si dice: “Dovunque ti volterai, lì vedrai lui che ti viene incontro; niente è privo di lui, egli riempie con la sua presenza la sua opera [qui sembra una concezione immanentistica di Dio: Dio coincide con la sua opera, come insegna la dottrina stoica]. Dunque, non guadagni nulla tu, il più ingrato dei mortali, dicendo che non sei debitore a Dio, ma alla natura, perché la natura non c’è senza Dio e Dio non c’è senza la natura, ma sono una medesima cosa, differiscono per funzione” (I benefici, IV, 8, 2, p. 539). Quindi – appunto – qui Dio è la natura. Come avviamo già detto è una concezione del divino – in questo caso – pienamente in linea con la dottrina stoica. In altri casi Dio è definito come la ragione che regola l’intero cosmo, l’intero universo, la mens univers, la Ragione che produce e regge il tutto. E infatti Seneca dice ne I benefici che Dio lo si può chiamare con diversi nomi di dèi: Giove Ottimo Massimo, Tonante, Statore, e riguardo a quest’ultimo nome, dice: “nome che non deriva, come hanno tramandato gli storici, dal fatto che, dopo una preghiera innalzatagli, fece fermare l’esercito dei Romani in fuga [Riferimento alla preghiera che Romolo rivolse a Giove per chiedergli di ridare coraggio ai suoi soldati che fuggivano di fronte ai Sabini e di farli fermare. Giove esaudì il suo desiderio e Romolo gli eresse un tempio sul Palatino], ma dal fatto che tutte le cose stanno grazie a lui, che ne è lo statore, colui che dà stabilità” (I benefici, IV, 7, 1, pp. 538-539). Poi, nelle Questioni Naturali, si dice: “Che cos’è Dio? La mente dell’universo” (Quest. Nat., I, Pref. 13, p. 682). Nel passo successivo si dice: “Che differenza c’è [...] tra la natura di Dio e la nostra? La parte migliore di noi è l’anima: in Lui non c’è nessuna parte all’infuori dell’anima; Egli è tutto ragione, mentre invece così grande è l’errore che domina i mortali che gli uomini guardano a questo universo, di cui non esiste niente di più bello o meglio ordinato o più costante nel conformarsi ai fini che gli sono stati assegnati, come a qualcosa di fortuito e mutevole a caso” (Quest. Nat., I, Pref., 14, p. 682). Un’idea questa molto platonico-aristotelica: dio è la mens universi, dio è totus ratio, la materia è del tutto assente in lui, è pura intelligenza immateriale, intelligenza ordinatrice del cosmo e che produce un cosmo – come ci dice l’ultimo brano letto – ordinato, perfetto, costante, bello e non casuale come può apparire alle nostre menti mortali. Leggiamo un altro brano in cui è presente lo stesso concetto di dio come produttore e ordinatore delle cose: “Egli stesso, che governa queste cose, che le ha costituite, che le ha rese stabili e se ne è circondato, ed è la parte maggiore e migliore della sua opera, sfugge al nostro sguardo: bisogna vederlo con gli occhi della mente” (Quest. Nat., VII, 30, 3, p. 869). Anche qui il dio che ci presenta Seneca non sembra il dio-materia dello stoicismo, ma un dio che si può cogliere solo con il pensiero, un dio che si comunica nella sua opera, ma che è al di là di essa, un dio che si pone nella dimensione dell’intelligibile, del trascendente, che non è pienamente identificato con il mondo visibile, un dio insomma dai connotati molto più platonici che stoici. Sempre riguardo alla non identificabilità tra dio e materia, troviamo un altro passo in una lettera in cui Seneca riprende esplicitamente in questo caso la teoria dei due

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principi dello stoicismo, ma ponendo uno dei due – dio – sopra all’altro: “Tutto è composto di materia e di dio. Dio regola le cose che, stando attorno a lui, lo seguono come un sovrano e come guida. Ma chi agisce, cioè dio, è più potente della materia, ce subisce l’azione di dio” (Lett. 65, 23, p. 1062). Poi fa questo paragone tra dio e l’anima dell’uomo: “Il posto che dio occupa in questo mondo, l’anima lo occupa nell’uomo: ciò che là è la materia, in noi è il corpo. Serva, dunque, ciò che è peggiore a ciò che è migliore” Altrove dio è definito come quell’artefice, quel demiurgo, quel signore di tutto che sta alla base e al fondamento di ogni cosa. Cioè non solo, come abbiamo visto, è la Ragione che produce il tutto e lo ordina, ma è anche la base sulla quale questo tutto si “appoggia” continuamente, il fondamento sul quale il tutto mantiene la sua esistenza nel tempo. In una lettera a Lucilio, Seneca scrive: “Tutti gli esseri permangono in vita non perché siano eterni, ma perché sono protetti dalla sollecitudine di chi li governa: se fossero immortali, non avrebbero bisogno di un protettore. L’artefice li conserva, vincendo con la sua potenza la caducità della materia” (Lett. 58, 28, p. 1044). Dio non solo è causa delle cose, ma anche di se stesso: è la potenza produttrice di se stesso, è causa sui. In un frammento senecano si dice: “Dio ha fatto se medesimo” (deus ipse se fecit) e in questo Seneca anticipa un concetto che diverrà uno dei temi metafisici più originali in Plotino. Cosa vuol dire che Dio ha fatto se medesimo? Questo paradosso si spiega così: le cause che provengono da dio non hanno in se stesse il motivo della loro esistenza, cioè non sono necessarie di per se stesse, ma in quanto provenienti da dio. La loro necessità è in dio, nella loro causa. Dio invece ha in sé la ragione assoluta della propria necessità. In lui libertà e necessità coincidono. Come del resto – l’avevamo visto nella prima lezione – nel saggio stoico: il saggio è causa di sé perché è autosufficiente, perché si determina da sé, non avendo bisogno di altro che se stesso. In questo sta la sua libertà. Dio è anche, secondo Seneca, coincidente con il fato. Avevamo già visto che questo elemento è proprio della dottrina stoica in quanto tale. Seneca, a questo riguardo e riferendosi a Dio, scrive: “Se poi lo chiamerai anche Fato, non mentirai, poiché il fato non è nient’altro che una serie concatenata di cause, ed egli è la prima causa di tutte, dalla quale dipendono tutte le altre” (I benefici IV, 7, 2, p. 539). Quindi, essendo il fato una successione di cause, effetti, che sono a loro volta cause di altri effetti, eccetera, ed essendo dio la causa prima delle cause, il fato stesso è coincidente con dio, in quanto nella prima causa – in dio – sono presenti in potenza tutti gli eventi che si dipaneranno in questa rete di causa ed effetto. Ma anche in ogni singola causa (quindi non solo nella prima e non solo nell’intero fato) è presente dio – vi è la coincidenza con lui – perché in ogni causa c’è l’effetto della causa prima. Ora, però bisogna stare attenti quando si parla di una coincidenza tra il pensiero di Seneca e quello dello stoicismo in generale su questi temi. Cioè: abbiamo già visto che anche in Seneca, ovviamente, Dio coincide con la natura, così come per lo stoicismo classico. E qui vediamo che la stessa vicinanza con la dottrina stoica è riguardo alla coincidenza tra dio e fato. Del resto Seneca è uno stoico. Ma con le differenze. Per capirci meglio, leggiamo un brano che troviamo all’inizio della sua

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opera sulle “Questioni naturali”: “Da parte mia, rendo grazie alla natura quando la osservo non da quella parte che è accessibile a tutti, ma quando sono entrato in ciò che essa ha di più segreto, quando apprendo quale sia la materia dell’universo, chi ne sia l’autore o il custode, che cosa sia Dio, ...” (Quest. nat., I, pref., 3, p. 679). Quindi qui Seneca introduce una distinzione all’interno della fisica tra ciò che è accessibile a tutti e ciò che è accessibile ad alcuni. La prima parte è quella dei fenomeni naturali; la seconda concerne essenzialmente la divinità. Ecco, questa bipartizione ci fa capire che la coincidenza tra dio e natura, così come era pensata dallo stoicismo classico, non è un elemento totalmente scontato nell’opera di Seneca. Cioè: si fa strada, in Seneca, un’idea di divino che appartiene alla sfera dell’intelligibile, del metafisico, non totalmente riconducibile all’elemento naturale e nemmeno al concatenarsi delle cause e degli effetti. Dio è anche colui al quale nulla sfugge, che tutto vede, che tutto sa. In una lettera Seneca risponde evidentemente a una richiesta di Lucilio in cui egli gli chiedeva di parlargli di una sua giornata tipo. E scrive: “Vuoi che ti descriva le mie giornate e dettagliatamente: hai una buona opinione di me, se ritieni che in esse non ci sia niente da nascondere. Certo, dobbiamo vivere come se vivessimo alla presenza di altri, e dobbiamo pensare come se qualcuno potesse guardare nel profondo del nostro cuore: ed è possibile. Infatti, a che giova che qualcosa rimanga segreto agli uomini? Niente rimane segreto a Dio; Egli è nella nostra anima e interviene nei nostri pensieri – dico ‘interviene’ come se talvolta se ne allontanasse” (Lett., 83, 1, p. 1142). Qui, come si vede, il riferimento è alla dirittura morale da tenersi: agire come se fossimo sempre sotto un occhio che ci osserva, agire come se non vi fosse nulla da mantenere segreto. Del resto a Dio nulla resta segreto, è in noi e interviene continuamente nei nostri pensieri. Dio contiene anche nella sua mente il mondo platonico delle Idee: cioè in dio ci sono tutti i modelli delle cose, quelle che furono, che sono e che saranno. A proposito di questo punto c’è un passo di una lettera in cui si fa esplicito riferimento a Platone e alla sua teoria. Sta parlando appunto dell’”idea” secondo Platone: “Questa è ciò a cui l’artista tenne rivolto lo sguardo per realizzare ciò che si prefiggeva. E non ha nessuna importanza se egli abbia fuori di sé l’esemplare cui rivolge lo sguardo, oppure se lo abbia dentro di sé, da lui stesso immaginato e innalzato. Questi esemplari di tutte le cose, Dio li ha dentro di sé e ha abbracciato con la mente i rapporti numerici [cioè le proporzioni] e le misure dell’universo che doveva creare; Egli è pieno di queste figure che Platone chiama «Idee», immortali, immutabili, infaticabili. Perciò gli uomini periscono, ma l’idea di umanità secondo la quale l’uomo viene modellato rimane, e, mentre gli uomini si affannano e scompaiono, essa non patisce alcun danno” (Lettere, 65, 7, p. 1059). Questo tra l’altro è un passo abbastanza importante, perché Seneca è il primo che trasporta il mondo delle idee platonico nella mente di dio, una novità assoluta che poi troveremo, qualche secolo dopo, in Agostino. Sempre nella stessa lettera, una delle lettere più importanti teoreticamente, la 65, Seneca si rifà sempre a Platone per spiegare quale sia il fine per Dio? “Mi chiedi quale sia il fine per Dio? La bontà. Così certo ci dice Platone: «Quale motivo ebbe

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Dio per fare il mondo? Egli è buono; il buono non ha alcuna invidia di qualsiasi bene; lo fece, pertanto, quanto migliore poté»” (Lettere, 65, 10, p. 1059). È un passo platonico, quest’ultimo, che Seneca riprende dal Timeo. Gli dèi sono buoni, fa parte della loro natura. Anche nella lettera 95 Seneca riprende questo concetto: la differenza tra gli dèi e gli uomini è che gli dèi sono buoni per loro natura, gli uomini invece si devono sforzare. Sempre in questa lettera si dice: “[Dio] tutto possiede, tutto dona e fa il bene senza pretendere nulla in cambio. Qual è la ragione per cui gli dèi fanno il bene? La loro natura. Si sbaglia chi crede che essi non vogliano fare il male: non possono farlo. E non possono né subire né arrecare offese, dato che fare il male e subirlo sono cose fra loro strettamente connesse. La loro natura, la più alta e la più bella, rendendoli immuni dal pericolo, li ha resi anche non pericolosi” (Lett., 95, 48-49, pp. 1233-1234). Quindi qui c’è una concezione di divinità come bene assoluto, al quale il male è completamente estraneo. Inoltre Dio è provvidenza. La provvidenza è concepita stoicamente e da Seneca stesso come la razionalità finalizzata e immanente nell’insieme del cosmo: tutto è ordine nel mondo, perché ragione vuole che tutto sia ordine. Seneca scrisse un’opera dedicata proprio a questo tema. In realtà il titolo dell’opera è “Perché accadono disgrazie agli uomini buoni, nonostante ci sia la provvidenza”, ma la tradizione ce lo tramanda con un titolo più breve: appunto “La provvidenza”. Il problema che si pone Seneca è come giustificare la dottrina stoica della provvidenza davanti all’esistenza del male. A noi questo problema non interessa, perché il nostro argomento è un altro, Ma all’inizio dell’opera dà anche un’idea della provvidenza, che possiamo riprendere anche noi. Dice: “È superfluo, al momento, spiegare che una costruzione tanto imponente [si riferisce all’universo] non si regge senza chi la custodisca e che non deriva da impulso fortuito l’armonioso ruotare delle stelle. Ciò che si muove a caso, finisce di regola nel disordine e ben presto arriva a cozzare, mentre queste rapide rotazioni proseguono senza inciampi, sotto l’impero di una legge eterna, trascinando tanti esseri in terra ed in mare e tante fulgide stelle che splendono in bell’ordine. E questo non è un ordine che si possa attribuire a materia vagante: elementi che si sono uniti per caso, non possono librarsi in un sistema così organico” (La provvidenza, 1, 2, p. 7). Quindi la provvidenza è questa forza, questa legge, questo principio che fa sì che tutto si concatenato con tutto, che ogni cosa abbia il suo principio, il suo ordine, il suo termine e che tutto proceda verso un preciso fine, che è un fine buono perché su tutto governa il principio divino. Dio è quindi questa provvidenza. Dio abbiamo visto che è padre di tutto. Ed è padre anche di noi uomini. È vicino a loro e li aiuta. In una lettera Seneca scrive a Lucilio: “Ti meravigli che gli uomini salgano verso gli dèi? Dio scende verso gli uomini, anzi, negli uomini, vincolo ancor più stretto: non c’è anima virtuosa senza l’aiuto di Dio. Semi divini sono stati sparsi nel corpo degli uomini, e se li riceve un buon coltivatore, vengono fuori simili ai loro principi originari e crescono uguali a quelli da cui sono derivati; se il coltivatore è incapace, come un terreno sterile e paludoso, li fa morire e poi fa spuntare erbacce invece di buone messi” (Lett., 73, 16, p. 1096). Quindi qui c’è l’immagine di un dio vicino all’uomo, che lo aiuta, che gli tende la mano, che discende in lui. Un uomo, tra l’altro – e questo elemento è in un certo senso presente in tante correnti greche: il

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platonismo, il neoplatonismo, lo stoicismo ovviamente, ma anche in un certo cristianesimo – che contiene semi divini e che deve lavorare per farli crescere, cioè per divenire virtuoso. Sempre riguardo all’idea di Dio come protettore degli uomini, c’è un altro brano in una lettera, nella quale si definisce addirittura dio ‘nostro padre’, in cui si dice: “Tutto ciò che poteva esserci utile, Dio nostro padre ce lo ha posto vicino: non ha aspettato che lo cercassimo, ce lo ha dato di propria iniziativa: ciò che poteva nuocerci, invece, lo ha nascosto nelle profondità della terra. Possiamo lamentarci solo di noi stessi: abbiamo tirato fuori ciò che avrebbe condotto alla nostra rovina, contro il volere della natura che ce lo nascondeva. Abbiamo asservito l’animo al piacere, e il cedere ad esso è l’inizio di tutti i mali, l’abbiamo consegnato all’ambizione e alla sete di gloria e alle altre aspirazioni ugualmente inutili e vane” (Lett., 110, 10, p. 1291).

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[Il fato. Bisogna accettarlo. Anche gli dei lo seguono] “Io non mi sento costretto, non soffro contro volontà, non sono schiavo di Dio, ma mi sento d’accordo con lui; tanto più perché so che tutto si svolge secondo una ben precisa legge, promulgata per l’eternità. Il destino ci conduce e la prima ora del nostro nascere ha designato per ciascuno il tempo a sua disposizione. Ogni situazione dipende da un’altra situazione; le vicende private e pubbliche sono trascinate da una lunga concatenazione d’eventi. Bisogna dunque sopportare tutto con fortezza, perché i fatti singoli non sono, come crediamo, degli incidenti, ma degli avvenimenti. [...] E che cosa compete all’uomo buono? L’offrirsi al destino. È grande consolazione sentirsi ghermiti insieme con l’universo: qualunque sia la forza che ha stabilito che vivessimo e morissimo così, essa vincola, con altrettanta ineluttabilità, anche gli dèi. Una corsa inarrestabile trascina parimenti l’umano e il divino. Il creatore e governatore del tutto ha scritto i fati di suo pugno, ma li segue; ubbidisce sempre, dopo aver comandato una volta per tutte” (La provv., 5, 6-8, pp. 18-19) [gli dèi miei governanti e giudici] “Saprò che la mia patria è il mondo ed i miei governanti sono gli dèi, e che essi stanno attorno a me e sopra di me con funzione di censori di quanto faccio e dico” (La vita felice, 20, 5, p. 231) [Dio, formatore dell’universo, mente incorporea, diffuso ovunque, fato] “Ciò è stato fatto [la natura comune a tutti e la virtù personale], credimi, da colui che ha formato l’universo, chiunque egli sia, o il Dio che ha potere su tutto, o la mente incorporea, artefice di grandi opere, o lo spirito divino diffuso con ugual tensione in tutti gli esseri, dal più grande al più piccolo, o il fato, inteso come immutabile serie di cause tra loro connesse” (Alla madre, 8, 3, p. 347) [Dio=Natura. Dio ha molteplici nomi. Dio=Fato=Fortuna=Natura] “Che cos’altro è la natura, se non Dio e la divina ragione che permea l’universo nel suo insieme e nelle sue parti? Puoi chiamare quanto volte vuoi con un altro nome questo autore di tutte le nostre cose: lo potrai chiamare sia, secondo il rito, Giove Ottimo Massimo, sia Tonante, sia Statore, nome che non deriva, come hanno tramandato gli storici, dal fatto che, dopo una preghiera innalzatagli, fece fermare l’esercito dei Romani in fuga [Riferimento alla preghiera che Romolo rivolse a Giove per chiedergli di ridare coraggio ai suoi soldati che fuggivano di fronte ai Sabini e di farli fermare. Giove esaudì il suo desiderio e Romolo gli eresse un tempio sul Palatino], ma dal fatto che tutte le cose stanno grazie a lui, che ne è lo statore, colui che dà stabilità. Se poi lo chiamerai anche Fato, non mentirai, poiché il fato non è nient’altro che una serie concatenata di cause, ed egli è la prima causa di tutte, dalla quale dipendono

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tutte le altre. Qualunque nome tu scelga, si adatterà perfettamente a lui, purché contenga l’idea di qualche potenza produttrice delle realtà celesti: i suoi nomi potrebbero essere tanti quanti sono i suoi doni. I nostri ritengono che egli sia anche il padre Libero ed Ercole e Mercurio: il padre Libero, perché è padre di tutto, colui che per primo trovò il potere seminale destinato a perpetuare attraverso la voluttà la vita; Ercole, perché la sua forza è invincibile e, quando si sarà stancata per le opere prodotte, si ritrasformerà in fuoco; Mercurio, perché a lui appartengono la ragione, il numero, l’ordine e la scienza. Dovunque ti volterai, lì vedrai lui che ti viene incontro; niente è privo di lui, egli riempie con la sua presenza la sua opera [qui sembra una concezione immanentistica di Dio: Dio coincide con la sua opera, come insegna la dottrina stoica]. Dunque, non guadagni nulla tu, il più ingrato dei mortali, dicendo che non sei debitore a Dio, ma alla natura, perché la natura non c’è senza Dio e Dio non c’è senza la natura, ma sono una medesima cosa, differiscono per funzione. Se tu dicessi che ciò che hai ricevuto da Seneca, lo devi ad Anneo o a Lucio, non cambieresti creditore, ma nome, perché, chiamandolo col prenome o col cognome, quello rimarrebbe sempre la stessa persona; così ora parla pure di natura, di fato, di fortuna: sono tutti nomi del medesimo Dio che si serve in vario modo del suo potere” (I benefici, IV, 7-8, pp. 538-539) [gli dèi non vanno temuti; dio va onorato] “Nessun uomo che abbia senno teme gli dèi: è follia, infatti, temere le cose che ci fanno del bene e nessuno ama coloro che teme. [...] C’è qualcosa che è desiderabile di per sé, il cui stesso valore ti attira, e questo è il bene. Ora, che cosa c’è di maggiormente conforme al bene che la riconoscenza?” (I benefici, 19, 1 e 4, p. 548) [gli dèi giovano anche ai malvagi] “«Anche gli dèi», si dice, «fanno molti benefici agli ingrati». Ma gli dèi li hanno preparati per gli uomini buoni; toccano, però, anche ai malvagi, perché non è possibile separarli. È meglio, infatti, giovare anche ai malvagi a causa dei buoni che trascurare i buoni a causa dei malvagi. Perciò, i beni che tu menzioni, il giorno, il sole, l’avvicendarsi di inverno ed estate, le stagioni intermedie e più miti della primavera e dell’autunno, le piogge e le sorgenti dalle quali attingiamo l’acqua, i venti che soffiano in periodi fissi, gli dèi li hanno inventati per tutti gli uomini, e non avrebbero potuto scegliere per ciascun singolo uomo” (I benefici, IV, 28, 1, p. 555) [preghiere agli dèi] “Agli dèi, alla cui conoscenza non sfugge nulla, indirizziamo delle richieste, e queste nostre preghiere non servono a convincerli, ma a far sì che si ricordino di noi” (I benefici, V, 25, 4, p. 591) [gli dèi non deviamo dalla loro volontà, anche noi siamo parte della loro opera, siamo in debito con loro per i benefici che ci fanno] “Non è qualcosa di esterno che costringe gli dèi, ma è la loro stessa volontà eterna che diventa legge per loro. Hanno

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stabilito un ordine immutabile; perciò, non possiamo pensare che facciano qualcosa contro la loro volontà, perché essi hanno voluto continuamente fare tutto ciò che non possono smettere di fare, e gli dèi non si pentono mai delle loro decisioni precedenti. È fuori di dubbio che è loro impossibile fermarsi e passare al partito opposto, ma esclusivamente perché la loro forza li mantiene saldi nel loro proposito; non vi rimangono per debolezza, ma perché a loro non piace deviare dalla strada migliore e perché è stato stabilito di percorrere quella. Ora, in quella prima organizzazione, quando sistemarono tutto, presero in considerazione anche le nostre cose e tennero conto dell’uomo; perciò, non possiamo avere la sensazione che essi vadano per la loro strada e svolgano la loro attività per se stessi, perché anche noi siamo parte della loro opera. Dunque, anche al sole e alla luna e agli altri corpi celesti siamo debitori di benefici, perché, anche se essi hanno dei motivi più importanti per sorgere, anche se mirano a fini superiori, tuttavia giovano anche a noi. [...] Quanto agli dèi, non si può pensare che non sapessero che cosa avrebbero prodotto, dato che procurarono per tutti subito il nutrimento e in seguito il resto, né che abbiano generato per distrazione coloro per i quali hanno prodotto tante cose. La natura pensò a noi, prima di crearci, e noi non siamo un’opera così di poco conto da poter essere usciti dalle sua mani per caso. Guarda quanto ci ha permesso, quanto poco i limiti dell’uomo condizionano il suo dominio; guarda quanto lontano possano avventurarsi i corpi che la natura non ha rinchiuso entro i confini delle terre, ma ha posto in ogni sua parte; guarda quanto possa osare l’animo, come esso solo possa conoscere, o cercare di conoscere, gli dèi, e come la mente possa arrivare in alto ad accompagnare le cose divine: ti renderai conto che l’uomo non è un’opera improvvisata e non meditata. Tre le sue opere più grandi, la natura non ha niente di gloriarsi maggiormente o, per lo meno, niente di cui si glori maggiormente; che follia è mettersi a contestare con gli dèi i doni che ci hanno fatto! Come farà a dimostrarsi riconoscente verso coloro ai quali non può manifestare la propria riconoscenza senza sacrificio colui che dichiara di non aver ricevuto nulla da coloro dai quali, invece, ha ricevuto moltissimo e che continueranno sempre a dare senza ricevere mai niente in cambio? Che malvagità è quella di non sentirsi in debito verso qualcuno perché costui è benevolo anche con chi nega di aver ricevuto, e così pure quella di considerare l’ininterrotta serie di benefici come una prova della necessità di donare del donatore! «Non lo voglio! Se lo tenga per sé! Chi glielo chiede?»; aggiungi a queste tutte le altre frasi di uno sfacciato: non per questo, però, cessa di essere tuo benefattore colui la cui generosità giunge fino a te, anche mentre tu la neghi, e il cui beneficio è il più grande di tutti, proprio perché te lo concede anche se tu te ne lamenti” (I benefici, VI, 23, pp. 609-610)