DIGITAL READERS 4: Anselmo Roveda, Periferie e immaginari narrativi

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DIGITAL READERS 4: l'intervento di Anselmo Roveda

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Periferie e immaginari narrativi Consuetudine e fruizione delle narrazioni nei contesti periferici:

le storie tra dispersione urbana e dispersione umana

traccia dell'intervento

di Anselmo Roveda [anselmoroveda.com]

Digital Readers 4 Rozzano, 17 ottobre 2013

______________________________________

Buongiorno, mi pare doveroso iniziare facendo

coming out: tifo carta, tifo libri.

Nonostante questo, e forse è una delle ragioni di

questo invito, mi sono trovato nel corso degli

ultimi tempi a difendere in alcuni “templi della

carta” - fiere del libro e convegni di letteratura - le

possibilità offerte dal digitale in relazione alla

narrazione, sottolineandone l’importanza nella

costruzione dell'immaginario contemporaneo.

L'ho fatto e lo continuo a fare perché non amo i

feticci, amo piuttosto le buone storie, ben vengano

quindi modalità di fruizione differenti della

narrazione. L'ho fatto in antipatia a chi sacralizza

il volume cartaceo dimenticandosi che il libro -

che pure, ripeto, tifo (ma forse non conta visto che

tifo anche Genoa, ultimo scudetto nel 1924) - è

solo una forma storica, un contenitore, della

narrazione. Prima del XV secolo le buone storie

camminavano nel mondo già da parecchio, se è

vero che ancora oggi ci facciamo rapire dalle

avventure di Ulisse e che quello stesso signor

Gutenberg si mise a stampare la Bibbia.

Sono qui però con la curiosità e con il bisogno di

comprensione, i molteplici bisogni, dell'educatore

“in congedo”, dell'intellettuale che si occupa in

modo militante di letteratura e cultura

dell'infanzia, dello scrittore che si interroga sul

narrare oggi chiedendomi “come e per chi?”

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Sono qui per condividere alcune riflessioni via via

portate avanti in questi anni, prima, durante la

pratica educativa e, dopo, dalle colonne dei

periodici ai quali collaboro; tentando di

organizzarle insieme a voi in relazione al contesto

più ampio dell'attualità sociale e dell'immaginario

contemporaneo dell'età evolutiva. Ma soprattutto

sono venuto qui per ascoltare con la speranza di

capire meglio e magari di tornare a casa avendo

destrutturato - o meglio strutturato - alcune

ipotesi intorno ai temi che dibattiamo. Ipotesi non

tutte particolarmente rassicuranti.

Come caporedattore di “Andersen” [andersen.it],

l'unico periodico europeo insieme al tedesco

“Eselsohr” a occuparsi di libri per ragazzi con

cadenza mensile, vedo - non diversamente da

molti di voi, ciascuno dalla propria postazione

(bibliotecari, librai, promotori della lettura) - la

maggior parte della produzione editoriale italiana

di libri per ragazzi: grossomodo 2000 novità

all'anno. Tra queste scelgo insieme alla redazione i

titoli da evidenziare ai lettori. Si tratta per lo più,

giocoforza, di una selezione a positivo. Con un

migliaio di titoli presi in esame, metà dei quali con

recensioni approfondite. Una metà ne resta fuori.

Sovente restano esclusi dall'analisi delle nostre

colonne i prodotti mass market, le serie più pop, i

volumi di varissima tipologia che più di altri

hanno attinenza con personaggi che con agio

sguazzano nella dimensione cross mediale, se non

nel consumo multiplo orientato ad un unico

brand. Già perché alcuni personaggi sono o si

prestano ad essere usati come brand con

penetrazioni significative in settori merceologici

anche molto distanti tra loro. Dai libri alle

patatine. Digitale compreso. Il denominatore sta

nel bambino consumatore o orientatore dei

consumi familiari. Ascoltavo qualche giorno fa, in

un bar poco distante dal Buzzi, l'OBM (l’ospedale

pediatrico milanese), la conversazione tra il

proprietario dell'esercizio e il rappresentante di

dolciumi e snack: stavano benedicendo Peppa Pig

che manda esaurite le scorte dei prodotti dove è

effigiata. Una benedizione alla quale penso si

possano unire senza difficoltà anche gli esercenti

di cartolibrerie. E più di un libraio, almeno in

camera caritatis.

Dando uno sguardo alle classifiche di oggi, non

solo delle vendite ma anche dei prestiti (si vedano

i recenti dati Liber e i top raking dei principali siti

di e-commerce librario), si può notare senza

difficoltà la tendenza. Del resto, in modo non

diverso da altri settori del mercato editoriale

ovvero le classifiche di letteratura e di varia sempre

più legate alle fortune televisive degli autori o dei

personaggi. Un fenomeno non nuovo, ma forse

non tenuto in conto fino in fondo da chi si occupa

di promozione della lettura e del libro di qualità, e

parlo da parte in causa. Si rischia talvolta di avere

uno strabismo, a positivo certo, ma pur sempre

uno strabismo. Si è portati insomma a vedere

quanto di buono produce il panorama dell'offerta

culturale per l'infanzia e quante buone pratiche

connesse a queste narrazioni nascono e si

alimentano.

Su tutto il resto invece cade un velo che ha nuances

che vanno dalla censura al pregiudizio,

dall'indifferenza all'ignoranza. Ma "tutto il resto" -

volenti o nolenti - incide sull'immaginario

infantile e quindi sui futuri immaginari

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generazionali (esattamente come la mia

generazione è quella di Goldrake e Heidi, pure

quest’ultima in salsa wasabi) ben più dei buoni

libri. Non c'è giudizio in questa affermazione.

Resta il fatto che noi che ci beiamo delle qualità di

scrittura - prendo tre nomi che ritengo

indiscutibili: Quarenghi, Tognolini e Nanetti -

dovremmo però sempre ricordarci che l'autore più

letto dai bambini italiani nel 2013 sarà - non uno

dei tre sopra menzionati – ma Silvia D'Achille con

i suoi testi per i libri italiani di Peppa Pig; la quale,

a torto o a ragione, qui non importa ancora, ben

difficilmente vedrà sprecarsi una riga sulla sua

scrittura da parte delle riviste o dei blog

specializzati.

Un fenomeno, il prevalere nell'immaginario di

prodotti di mass market, non nuovo, dicevo, ma

che rischia per il domani di non avere alternative.

Così come non è nuovo il fenomeno della

migrazione dei personaggi tra i vari media. Due

dei primi articoli che scrissi per Andersen, correva

l'anno 2000, erano dedicati proprio ai personaggi

in transito da un medium ad un altro e alla

componente narrativa nei videogiochi: In principio

fu Lara Croft. Personaggi e crossover nei media (n.

157, marzo 2000) e Piccoli mostri evolvono: il

fenomeno Pokémon (n. 160, giugno 2000). Temi sui

quali sono tornato più volte, anche recentemente

dalle pagine di “Scuola e Didattica” e de “L'école

valdôtaine”. Un interesse che nasceva proprio dal

lavoro educativo con minori in condizione di forte

svantaggio sociale e culturale.

Per dieci anni, infatti, ho lavorato come educatore

nei servizi di prevenzione del disagio giovanile,

prevalentemente in centri di prevenzione

secondaria o già trattanti. Per me che stavo

affacciandomi anche al mondo della letteratura per

l'infanzia è stato un opportuno banco di raffronto

e bagno di realtà; mi ha costretto a pensare e

proporre percorsi di promozione del libro e della

lettura a bambini e famiglie che non solo non

avevano consuetudine con i libri, ma che nella

stragrande maggioranza non attribuivano loro

nessun valore o li stigmatizzavano includendoli

nella sfera dell’inutile o del noioso. Si trattava di

famiglie e bambini che però, pur a fronte di gravi

ristrettezze economiche, non si facevano mancare

l'ultima console videoludica. E da lì, dai Pokemon

ad esempio, siamo partiti: dal potere delle storie,

della narrazione, anche quando si trova dentro ai

videogames. Non sai nulla del drago e di san

Giorgio? Non ti verrebbe mai da leggere della

fatica di diventare draghi in Carlo alla scuola per

draghi di Alex Cousseau? Perfetto, partiamo allora

dal fatto che sai bene chi è Charizard e che si

evolve dal ben più mansueto Charmander,

rispettivamente i Pokemon 6 e 4 di quell'universo

narrativo che festeggia i diciotto anni e che è noto

ai bambini di larga parte del pianeta e soprattutto

di tutte le classi sociali.

Ancora oggi quando mi trovo a ragionare con i

ragazzi delle scuole - pure con i più grandicelli o

con quelli potenzialmente più colti come i liceali -

sulle caratteristiche e sulla costruzione dei

personaggi in sede di laboratorio di scrittura o di

analisi dei testi li faccio riflettere a partire da Ezio

Auditore (il protagonista della saga video ludica di

Assassin’s Creed) prima di portarli a Martin Eden.

Ma dove voglio portarvi?

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Vorrei portarvi al limite del dominio degli

interessi di chi si occupa tradizionalmente di libri,

vorrei andare con voi in periferia e ragionare sulle

opportunità - e i rischi - che questa offre

nell’accostare oggi narrazione. Vorrei vedere se si

possono conquistare lettori attraverso le nuove

tecnologie, senza scorciatoie, senza fare mass

market.

Vorrei portarvi dove «Il cielo sopra il porto aveva

il colore della televisione sintonizzata su un canale

morto».

Ricordate? È l’inizio di Neuromante il romanzo di

William Gibson che nel 1984 sembrava visionario

fino all’inverosimile – internet inizierà a entrare

nelle nostre case più di dieci anni dopo - ma che

oggi, in relazione ai processi di presenza

individuale nelle reti, diventa una narrazione

d’anticipazione fin troppo puntuale. Non parlo,

ovvio, dei flussi e delle smaterializzazioni in

ambienti virtuali ma concretissimi, anche se pure

questi annoverano per il prossimo futuro tentativi

di replicazione. Parlo piuttosto dell’ambiente del

romanzo e della tensione che muove Case, il

personaggio principale.

La vicenda di Case si muove tra uno sprawl - una

periferia diffusa che abbraccia pressoché l’intera

costa orientale degli Stati Uniti - e il bisogno di

riconnettersi al cyberspazio: quella che lui stesso

definisce “l’allucinazione consensuale”.

Sprawl o città diffusa o dispersione urbana, è un

elemento non solo della narrativa visionaria di

Gibson, è anche una delle condizioni reali che

stiamo vivendo in relazione all’utilizzo degli spazi.

Gli architetti e i sociologi che hanno studiato il

fenomeno sottolineano che uno dei caratteri che

emergono per primi è, con parole di Fabrizio

Bottini [mall.lampnet.org], che «questa città

diffusa non è affatto una città, ma solo un

amalgama di edifici, privo di identità riconoscibile,

e in cui infatti nessuno si riconosce. Sparisce

progressivamente lo spazio pubblico (della piazza,

della strada pedonale, della città percorsa e

utilizzata in ogni sua parte da tutti i cittadini),

sostituito da ambiti specializzati, quasi sempre di

natura privata o privatistica: la casa, l’ufficio,

l’ospedale, il centro commerciale, lo stadio. A

unire questi spazi specializzati e in comunicanti,

solo la rete dei trasporti, che nell’insediamento

diffuso è dominata dall’auto, e da strade di

scorrimento veloce che attraversano

indifferentemente i territori». Anche qui

marginalizzando la dimensione di pubblico a

favore del privato. Non è solo la cultura della

villetta a schiera è anche quella degli insediamenti

di edilizia popolare a bassa volumetria e delle aree

commerciali identiche nelle insegne, negli

assortimenti e nelle disposizioni ai margini de – o

meglio, nei tratti di collegamento tra – i centri

abitativi tradizionali sempre più svuotati delle loro

funzioni.

L’altro elemento chiave è l’allucinazione

consensuale rappresentata dalla rete. Sempre più,

dalle diverse posizioni culturali e varie opzioni

politiche, da ogni professione e fin dalla più tenera

età, ci affidiamo alla rete, a internet e a i servizi – e

alle narrazioni! – offerte sui social network e sugli

strumenti digitali. Ci affidiamo in forma

consensuale – volendo, fortemente volendo - ma

troppo spesso (e parlo degli adulti, della stragrande

maggioranza degli adulti, anche quelli colti

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dell’editoria) senza una reale conoscenza, pure

tecnica, di ciò di cui stiamo parlando. Ancora

confusi, tra il rifiuto dei molti e l’entusiasmo dei

pochi (o forse viceversa), e la messa in critica dei

rarissimi.

Non vi starò a tediare con cifre e dati che

conoscete; basterà riguardare quanto emerso nella

ricerca “Infanzia e vita quotidiana” (ed. 2011) e

incrociarlo con i dati di lettura e con quelli di

mercato editoriale puntualmente offerti da vari e

autorevoli osservatori (ancora Istat e poi Nielsen

per AIE, ad esempio) per rendersi conto di come

le forme tradizionali di fruizione della narrazione,

libri in primis, siano in crisi a favore di una buona

vitalità delle fruizioni videoludiche (sebbene non

tutto il videoludico sia immediatamente

narrativo).

Il rischio, sono di ritorno dalla Buchmesse di

Francoforte, è che questa crisi della narrazioni su

libro non favorisca, anzi intralci, lo sviluppo di

contenuti digital. In Fiera, nel fischio di vento del

vuoto di molti corridoi, era del tutto evidente

come l’editoria e i suoi professionisti, troppo presi

dalla crisi del presente, preferiscano dare battute

d’arresto allo sviluppo di contenuti e narrazioni

digitali. Se in altri recenti anni c’era fermento, non

sempre giustificato dalla resa e dalla qualità

espressa dai prodotti presentati, quest’anno era

chiara, anche nei discorsi dei grandi gruppi,

l’intenzione di aspettare, di non “sprecare risorse”;

forse una dichiarazione implicita del non saper

ancora cosa fare, talvolta giustificata dietro ad un

problema serio e reale: la non sostenibilità

economica di produzioni ad alto costo e basso

ricavo unitario che si portano però dietro i costi di

strutture pesanti quali quelle dell’editoria

tradizionale, costi fatti di competenze sovente non

più spendibili.

E il rischio, un rischio, sta allora proprio

nell’intreccio tra accettazione acritica dell’utilizzo

di spazi assimilabili all’idea di diffusione urbana e

dell’adesione consensuale all’allucinazione. Rischio

non corso, se non indirettamente, da parte dei

nativi digitali ma da parte degli adulti decisori. Gli

amici di Ippolita [ippolita.net], con le loro ricerche

(Open non è free, Luci e ombre di Google,

Nell’acquario di Facebook e il prossimo lavoro su riti

e nuove tecnologie) e i loro programmi di

formazione sull’autodifesa digitale, evidenziano

con forza l’idea che i “minori” su questi territori

sono proprio gli adulti. E l’esigenza è quella di una

nuova critica. Da applicare senza sconti, senza il

timore di apparire antitecnologici. Da applicare

pure alla Scuola 2.0 se promuove un uso

omologante e “proprietario” di hardware e

software. Il rischio – che è quello che fa incontrare

a Francoforte, fiera della letteratura oltre che del

libro, sul lato digital più proposte educational che

narrative – sta nel rendere ancora più eclatante il

fenomeno della periferia diffusa come grande

territorio dei consumi culturali ammansiti

dall’allucinazione consensuale: in un continuum

verso il basso, il mass market, che investe proprio

la fascia più povera e meno dotata di strumenti

culturali (via via più larga in questo momento

disgraziato) lasciando i bei libri, le buone storie, le

belle pratiche ai figli dei più fortunati. Rimettendo

ancora una volta il libro in una inutile e pericolosa

posizione elitaria, spesso pure inconsapevole;

consegnandolo di fatto alla morte. Ma, si diceva in

ogni modo, i libri sono contenitori di narrazioni e

il digitale deve farsene interprete; il rischio, lo

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ripeto, è quello della caduta nel brand, anche

quando narrativo, nell’appiattimento delle

esperienze possibili. Badate: non sono pessimista e

non sono antitecnologico, anzi. Sono però conscio

della distanza sempre più grande tra produttori del

racconto, i narratori e la loro filiera, e i

fruitori/lettori. Una dinamica che se già presente

nell’editoria tradizionale non mi pare si plachi,

anzi, nell’ambito delle produzioni digitali.

Trovo imprescindibile pertanto raccogliere la sfida

che già voi avete raccolto con Digital Readers e

cioè creare occasioni di confronto e critica, di

diffusione di modelli alternativi e positivi, dal

basso, di fruizione culturale. Ragioni che mi

hanno portato, ci hanno portato, a volere dal

numero di Andersen di novembre uno spazio di

recensione critica e approfondita di narrazioni su

supporti digitali, proprio come già avviene, dal

1982, per i libri.

Un’occasione per conoscere realtà indipendenti,

buone pratiche per l’oggi anche senza carta, e

soprattutto per riflettere sulla competenze e sulle

responsabilità del mondo del libro: scrittori,

illustratori, editori, critici, promotori. Manca

forse, o si sta palesando solo ora con autori come il

francese David Cage di Quantic Dream o lo

svedese-libanese Josef Fares, una generazione di

narratori capaci di interpretare il medium – il

videogioco, ad esempio - come opportunità

narrativa. Siamo pertanto testimoni, ancora

confusi, di un cambio di paradigma che per non

schiacciarci sull’appiattimento omologante, più di

quanto non stiano già facendo i contenuti mass

market su carta, esige sforzo critico e militante.

Solo così potremmo inventare percorsi capaci di

proiettare i bambini, anche quelli delle periferie

più profonde, quelli dei centri di prevenzione del

disagio, verso quella piena godibilità delle

narrazioni che ci fa amare i libri di carta e che

possiamo trasporre senza difficoltà all’esperienza

digitale.

L'incontro con le narrazioni consente di ampliare

l'esperienza e la conoscenza del mondo, favorisce

la crescita personale e interiore, facilita

l'apprendimento della lingua, intrattiene

piacevolmente, favorisce lo sviluppo emotivo,

insegna regole, sviluppa immaginazione, sfida le

nostre convinzioni e ci cambia in profondità,

consente di entrare in contatto empatico con altre

esperienze umane senza patirne le conseguenze,

consente di sperimentare le più diverse soluzioni ai

problemi della vita per verificarne gli esiti prima di

affrontarli nella realtà. Tutto vero (lo andiamo

ripetendo in molti e da molto, da Rodari a

Chambers). Ammesso però che sui monitor, così

come sulle pagine, ci siano storie e non brand.

Non vorrei insomma che al risveglio da questa

sbornia digitale ci si ritrovasse tutti più invischiati

in uno sprawl allucinante e consensuale, in una

dispersione ormai più umana che urbana.