Dalla nascita alla morte di Rocco Scotellaro

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FRANCESCA ARMENTO

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Il racconto della madre del poeta, che da anni mancava in libreria.

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Francesca armento

I S B N 8 8 - 96171 - 33 - 2

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... Va bene che le cose belle che gli hanno Fatto non le Vedrà più nessuno. Quando mi portarono a casa la bara con il mio tesoro dentro, il corteo non FiniVa mai, nelle case di tricarico non rimase nessuno, tutti ad accompagnare mio Figlio, gente da tutti i paesi, macchine, corone di lusso...

€ 5

Francesca armento, madre di rocco scotellaro, nata e vissuta a tricarico, era ed è ricordata come “la scrivana del paese”. insegnava a leggere e scrivere agli analfabeti, aiutava chi non sapeva.

Francesca armento è colei che ha donato a rocco scotellaro la lingua e ha fatto di tutto, insieme al marito, per farlo studiare. tutto il racconto di Francesca armento è un ritratto particolareggiato delle difficoltà e dei sacrifici, cui erano costretti quei pochi genitori “poveri” che decidevano di “appoggiare” fino in fondo le aspirazioni dei figli. perché è importante sapere che il talento di scotellaro non nasce per divina provvidenza, ma cresce e si consolida proprio per amor materno.

dalla nota di a. di consoli

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Le PodoLiche

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Sono pubblicazioni particolari: come quel tipo di muc-che, che vengono da lontano ma vivono e fanno vivere il Mezzogiorno; hanno una grande capacità d’adattamento che serve a loro stesse e restituisce alle popolazioni forti possibilità di sostentamento. Le vacche podoliche vengo-no dall’est e sono rimaste da mezz’Italia in giù, raccon-tando in modo indiretto insieme della povertà e delle po-tenzialità dei territori che abitano.

I piccoli volumi di questa collana saranno e sono rac-conti brevi o lunghi, piccole raccolte di racconti, roman-zi brevi, poesie, poemi, fino ai pamphlet, che sempre in maniera critica e originale hanno nel Sud (anzi nei Sud d’Italia e del Mondo) il principale punto di riferimento.

La collana riprendere elementi importanti della ‘sto-ria meridionale’ e della letteratura, cercando di trovare una nuova prospettiva, di denuncia ma anche di indivi-duare opportunità e chiavi di progresso possibili.

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La grande drammaturgia funebre di Francesca Armento

AndreA di consoLi

Era da molti anni che auspicavo una ripubblica-zione autonoma di questo commovente scritto di Francesca Armento, madre di Rocco Scotellaro, co-nosciuta come “la scrivana del vicinato”, e autri-ce di alcuni racconti sconosciuti pubblicati da Later-za, e, appunto, di questa verticale Lettera al figlio. È un testo che la madre scrisse in ricordo del figlio, morto prematuramente per infarto il 15 dicembre del 1953, a soli trent’anni (era nato il 19 aprile del 1923).

Francesca Armento è colei che ha donato a Roc-co Scotellaro la lingua, e ha fatto di tutto, insieme al marito, per farlo studiare, in un’epoca in cui stu-diare era molto difficile se non impossibile, soprat-tutto per i figli dei ceti popolari. Tutto il raccon-to di Francesca Armento è un ritratto particolareg-giato delle difficoltà e dei sacrifici, cui erano co-

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stretti quei pochi genitori “poveri” che decideva-no di “appoggiare” fino in fondo le aspirazioni dei figli. Perché è importante sapere che il talento di Scotellaro non nasce per divina provvidenza, ma cresce e si consolida proprio per amor materno, in un contesto familiare forte, e massimamente pre-muroso.

Ho sempre sospettato, lo confesso, che certe modulazioni del narrare scotellariano, in specie in prosa, fossero non poco in debito col narrar mater-no, ma questo andrebbe comprovato in sede filolo-gica, con strumenti di linguistica che io purtroppo non posseggo. Ma è indubbio che il rapporto tra Francesca Armento e il figlio fosse anche di natura “letteraria”, nel senso che entrambi si ponevano, in un modo che non saprei ora definire, dal pun-to di vista della posterità, tipico di chi sa di essere testimone cruciale di un dato tempo storico e delle sue cruciali vicende. Quando la Armento parla del figlio, certamente parla del figlio concreto, del suo povero figlio scomparso, ma è pienamente consa-pevole di parlare soprattutto di un simbolo, di un poeta e politico molto amato dalla comunità trica-ricese e lucana, finanche di una sorta di santo lai-co (questo testo, tra l’altro, comprova che Scotella-ro leggeva molte “vite di santi”, e questo è un dato affatto trascurabile).

Siamo ovviamente tutti ampiamente consape-voli della deriva agiografica che la figura di Scotel-

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laro può comportare, ma io non sarei così convinto nel ridurre tutta la vicenda di Scotellaro a una vi-cenda tra le tante, senza risvolti simbolici.

Un ragazzo così precoce, di così sicuro talen-to poetico, sindaco socialista a soli ventitré anni, amato da intellettuali quali Carlo Levi e Manlio Rossi Doria, morto d’infarto a soli trent’anni nel pieno di una esaltante attività sociologica e poeti-ca, beh, non è qualcosa che possa essere valutato come un fenomeno tra i tanti. Possiamo scagliarci quanto vogliamo contro la deriva agiografica an-cora diffusa (sempre meno, a dire il vero), ma ri-mane il fatto che la vita e l’opera di Scotellaro rap-presentano davvero un momento speciale della storia lucana, un momento simbolico e unificante, forse irripetibile.

Il guaio è che oggi Scotellaro è totalmente igno-rato dai ceti popolari (da tutti quei ceti che si offen-derebbero addirittura a essere definiti popolari), ed è invece guardato con diffidenza dagli intellet-tuali piccolo-borghesi, sempre in affannosa ricerca del moderno, e sempre diffidenti con il passato, in specie con quello di matrice contadina o paesana, perché considerato superstizioso e populista, “pro-duttore” di germi passatisti quali il piagnisteo, il miserabilismo, la retorica poverista, l’egalitarismo dei diritti di matrice socialista, la poesia neoreali-sta, ecc. Peccato che la miseria del mondo conta-dino di Scotellaro fosse vera, e che la sua azione

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politica e sociale (culturale) si configurasse come un coraggioso e faticoso “anno zero” del riscatto dei ceti storicamente subalterni. Forse la nostra è l’epoca della demitizzazione totale, ma se parlia-mo di Lucania, e finché si parlerà ancora di Luca-nia, Rocco Scotellaro rappresenterà ancora a lungo un mito fondativo, un simbolo unificante.

Questo lamento e ricordo di Francesca Armento contribuiscono non poco a rendere speciale e me-morabile la breve avventura esistenziale di Roc-co Scotellaro; e questa è, probabilmente, la miglio-re biografia che si possa ancora leggere (almeno a mo’ di viatico) del poeta tricaricese, sia pure ad alta intensità emozionale, e con qualche picco me-lodrammatico di troppo, epperò ampiamente com-prensibile, visto lo strazio di una perdita così pre-matura.

Una cosa che però mi ha sempre colpito di que-sto bellissimo ricordo della vita e della morte di Scotellaro è il fatto che l’autrice dimostra di avere doti narrative non proprio comuni; anzi, sono nu-merosi gli espedienti retorici, i dialoghi suggestivi e le torsioni liriche che permettono al testo dell’Ar-mento di occupare un piccolo posto nella storia let-teraria lucana del ‘900.

Certo, è solo una testimonianza umana, ma è una testimonianza di alto valore letterario, oltre che documentale. Questo talento lo aveva ben col-to Carlo Levi, altro bersaglio dei piccolo-borghe-

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si modernisti, che in uno scritto aveva affermato: «Francesca Armento, vedova Scotellaro, è la madre di Rocco, il poeta lucano che ci è caro, il poeta della libertà contadina. Ha passato gli anni nella sua Tri-carico (ora non ha più neppure quella), aiutando il marito e i figli, lavorando, piangendo i mali della vita. È stata la “scrivana” del paese per le donne e gli uomini analfabeti. Quando Rocco mi mostrò i racconti delle storie del vicinato che la madre, da lui sollecitata, gli scriveva, sentii, e gli dissi, che da lei gli veniva il senso poetico del mondo».

Io condivido in pieno questo pensiero di Carlo Levi, e sono contento che dopo tanti anni questo la-mento torni autonomamente in libreria, così da of-frire ai lettori lucani, ma non solo lucani, un mo-mento imprescindibile di drammaturgia funebre e di spontanea poesia popolare; ma, soprattutto, un racconto-topos dell’identità lucana che io penso ancora vivo, ovvero il racconto delle gesta e della morte di Rocco Scotellaro, giovane padre della pic-cola patria lucana.