Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · scenza anche teorica dei processi...

128
1 SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero 32, 2012 Governo del territorio Pag. 03 Analisi delle politiche e teoria politica: rivisitando alcuni ‘classici’ dello studio della città nella scienza politica americana di Francesca Gelli Viaggiando tra le costellazioni del sapere Pag. 32 Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia di Roberto Maiocchi Pag. 50 I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche di Fabio Minazzi Pag. 63 Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato. Il principio di esecutorietà del provvedimento amministrativo di Giovanni Cofrancesco Pag. 73 Laicità di Dino Cofrancescoo tra le costellazioni del sapere Federalismo Pag. 84 Il federalismo di Alberto Mario di Mario Quaranta Pag. 99 La doppia linea di Umberto Bossi: verso il grado zero del federalismo? di Elio Franzin Pag. 104 Governo, ordine politico, soggettivazione. Su federalismo e partecipazione di Sandro Chignola Americana Pag. 111 Paul Bowles, scrittore e compositore americano di Piero Sanavio Pag. 113 Big Two-Hearted River di Hemingway di Piero Sanavio Amministrare Organizzare Partecipare Pag. 115 Il Federalismo fiscale dopo il decreto “salva Italia” di Giuseppe Bortolussi LibriLibriLibri Pag. 121 Recensioni

Transcript of Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · scenza anche teorica dei processi...

1

SOM

MAR

IO Culture Economie e Territori

Rivista QuadrimestraleNumero 32, 2012

Governo del territorio

Pag. 03 Analisi delle politiche e teoria politica: rivisitando alcuni ‘classici’ dello studio della cittànella scienza politica americana di Francesca Gelli

Viaggiando tra le costellazioni del sapere

Pag. 32 Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia di Roberto Maiocchi

Pag. 50 I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche di Fabio Minazzi

Pag. 63 Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato. Il principio di esecutorietàdel provvedimento amministrativo di Giovanni Cofrancesco

Pag. 73 Laicità di Dino Cofrancescoo tra le costellazioni del sapere

Federalismo

Pag. 84 Il federalismo di Alberto Mario di Mario Quaranta

Pag. 99 La doppia linea di Umberto Bossi: verso il grado zero del federalismo? di Elio Franzin

Pag. 104 Governo, ordine politico, soggettivazione. Su federalismo e partecipazionedi Sandro Chignola

Americana

Pag. 111 Paul Bowles, scrittore e compositore americano di Piero Sanavio

Pag. 113 Big Two-Hearted River di Hemingway di Piero Sanavio

Amministrare Organizzare Partecipare

Pag. 115 Il Federalismo fiscale dopo il decreto “salva Italia” di Giuseppe Bortolussi

LibriLibriLibri

Pag. 121 Recensioni

2

1. Introduzione

L’obiettivo di questo saggio è quello di fornire alcuni spunti di riflessione sullaconnessione tra due studi di caso paradigmatici nei policy studies, realizzati neglianni ’60 del secolo scorso da giovani scienziati della politica americani, chehanno contribuito alla definizione di due distinte linee di ricerca a partire dall’a-nalisi del processo politico urbano. Parafrasando Calise (su Lowi: 1999), questeopere hanno portato innovazioni nel mainstream, operando la decostruzioneradicale di paradigmi consolidati nell’analisi politica, ma sono anche rimaste sal-damente posizionate all’interno del nucleo centrale delle scienze politiche ame-ricane, misurandosi con i grandi temi del periodo.Le due opere sono: “At the Pleasure of the Mayor. Patronage and Power in NewYork City, 1898-1958”, una esplorazione di Theodore Lowi sulla politica urbanain una grande città nel periodo della rapida espansione delle politiche dell’am-ministrazione comunale e della sfera di influenza del sindaco, e “Leadership in aSmall Town”, un’analisi di Aaron Wildavsky sulle strutture urbane del potere e iprocessi di decisione pubblica nella piccola città universitaria di Oberlin, in Ohio. Entrambi pubblicati nel 1964, questi lavori hanno quale presupposto l’analisi diDahl su New Haven, “Who Governs? Democracy and Power in an American City”,edita nel 1961, un’esemplare ricerca sul governo urbano, le relazioni di poteredella comunità e la qualità della democrazia in una città americana di mediedimensioni2.In “At the Pleasure of the Mayor”, Lowi presenta la sua prima formulazione dellateoria delle “arene del potere”, basata sull’ipotesi di uno schema interpretativogenerale per la classificazione delle politiche pubbliche in categorie funzionali,che svilupperà successivamente in studi sulle politiche federali. Tuttavia, mentrequesti ultimi sono frequentemente citati nella letteratura italiana sulle politichepubbliche3 per l’ampia divulgazione di due articoli di Lowi, rispettivamente del1964 e del 1972, circolati su note riviste scientifiche del settore, assai raro risultain letteratura il riferimento al caso-studio sulla politica della città di New York,che per altro ha interessato principalmente per l’analisi dei poteri urbani (vedi:Della Porta, 1999; Calise, 1999). Da ciò discende una conseguenza per gli studisuccessivi di scienza politica in Italia e cioè che la teoria delle “arene del potere”,assieme con la tipologia delle politiche pubbliche contestualmente suggerita,hanno avuto quale terreno empirico di approfondimento e sviluppo l’analisi

3

1 Versioni precedenti di que-sto lavoro sono state discus-se in due seminari organiz-zati nel corso del 2008 nel-

l’ambito del Dottorato inPolitiche Pubbliche del

Territorio dell’UniversitàIUAV di Venezia, e ad un

Panel del ConvegnoAnnuale della Società di

Scienza Politica tenutosi aPavia nello stesso anno

(Chairmen: Rainer Eisfeld ePaul Godt; Discussants:Thedore Lowi e Mauro

Calise). Alcune parti sonostate pubblicate in uno

scritto successivo, in inglese(Gelli, 2009).

2 Lowi e Wildavsky hannoinfatti studiato

all’Università di Yale e lìhanno potuto conoscere in

profondità il lavoro diDahl. Mentre delle due

ricerche di Lowi eWildavsky, sopra citate,

non abbiamo traduzione initaliano, di quella di Dahlabbiamo quella di Sartori

(“Chi detiene il potere?”),per un estratto pubblicato

nell’Antologia di Scienzapolitica (1970).

3 In particolare, per la clas-sificazione delle politiche

ivi esposta (vedi, ad esem-pio: Capano e Giuliani,

1996).

Francesca Gelli

Analisi delle politiche e teoria politica: rivisi-tando alcuni ‘classici’ dello studio della cittànella scienza politica americana1

Governo del territorio

n.32 / 2012

delle politiche a livello nazionale (a partire appunto dall’esempio degli studi diLowi sulle politiche federali) e non della politica urbana che, come si è detto, neè stata invece il fondamento4.Venendo all’altro studio di caso proposto, “Leadership in a Small Town” contie-ne aspetti che annunciano la successiva concettualizzazione di Wildavsky (conPressman, 1973) sui problemi di implementazione delle politiche, come ambien-ti complessi di interazione sociale e di produzione di rappresentazioni (dei pro-blemi; delle domande sociali; dell’azione dei governi). L’analisi “micro” dellesituazioni e delle questioni, delle storie locali si accompagna alla ricerca degli ele-menti che possono essere astratti dai contesti particolari, costituendo una cono-scenza anche teorica dei processi decisionali, degli esiti più frequenti. Lo scopoè infatti, anche, di generalizzazione e comparazione: “to abstract elements whichwould facilitate comparisons among the case histories by classifying issue con-texts along various dimensions and examining their consequences for decisionmaking” (Wildavsky, 1962, 717). È, infine, uno studio che rivela in nuce l’inte-resse di Wildavsky per le dimensioni cognitiva e culturale dei processi di policy,visti come corsi di azione dal valore anche simbolico e connotati, più che darazionalità olimpica, da fertile ambiguità.In entrambi questi lavori, di cui si sottolinea lo spessore empirico e teorico, larilevanza della politica urbana come campo strategico di ricerca per la compren-sione della politica democratica è esplicitamente riconosciuto. In discussione èla realtà politica e sociale del pluralismo (e l’approccio pluralista, affermatosi incontrasto con le tesi elitiste), come rispondere dei suoi successi e fallimenti. Lacittà si offre come ambiente analitico ideale – in quanto contesto di pluralità ecomplessità dell’azione politica, che si può osservare nel micro dell’intreccio trapolitica e politiche e dove una componente essenziale ai fini della qualità demo-cratica è rappresentata dalla partecipazione attiva dei cittadini, sia spontanea siapromossa dai governi. Se, da un lato, lo studio della ‘macchina urbana’, metten-do in luce le prassi e i risultati concreti del governo democratico rappresentati-vo, disvela le contraddizioni interne e la idealità del credo democratico america-no (date le iniquità profonde e estese nella distribuzione di poteri, di risorse,nella capacità dei singoli cittadini di avere peso nelle decisioni pubbliche e pote-re di controllo sull’operato degli apparati del sistema politico-amministrativo),dall’altro, l’innovazione sociale che ha luogo negli ambienti urbani e nei proces-si di costruzione delle politiche propone la città come laboratorio di pratiche didemocrazia e di produzione di beni comuni.Gli studi americani sulla politica urbana che fioriscono tra gli anni ’50 e ’70 sono,in questa prospettiva, una miniera d’oro, terreno per lo sviluppo di importantiapprofondimenti che hanno contribuito alla formulazione di avanzamenti nellateoria politica, ancora oggi fondamentali negli studi di scienza politica5.Cumulativamente, essi hanno tracciato una tradizione di studi teorici ed empiri-ci che non si è avuta in Italia. Lo studio della città è in generale un campo sotto-stimato, con poche eccezioni (oltre a Della Porta, si veda Sola, 1996), prevalen-do in coerenza con l’approccio stato-centrico l’analisi delle forme del decentra-mento, quale processo gestito dall’alto per rafforzare il funzionamento delloStato, assicurando maggiore efficacia agli interventi dell’azione pubblica. E direche, storicamente, l’Italia è stata il laboratorio delle forme del governo urbano,

4

4 Più in generale, sul contri-buto delle scienze politicheamericane alla compren-sione del processo politicourbano, si veda il significa-tivo saggio di Wood (1963),tradotto dall’inglese in unaraccolta di saggi a cura diCrosta (1990a).

5 In aggiunta agli studi dicaso di Dahl, Wildavsky eLowi, si vedano, per citare iclassici, i precedenti lavoridi Sayre e Kaufman (1960)e le opere di Banfield suChicago (con Meyerson,1955; 1961; con Wilson,1963); Bachrach e Baratz,(sulle politiche di rigenera-zione urbana a Baltimora,1970); Pressman (conWildavsky, sull’attuazionedei programmi federali disostegno allo sviluppo esulla politica urbana aOakland, 1973; 1975);Jennings (sui processi deci-sionali nella città diAtlanta, 1964; contro leconclusioni di Hunter,1953); Ostrom, Tiebout eWarren (casi di studio suproblemi e pratiche digoverno nelle aree metropo-litane, come ramo di studisul federalismo, 1961). Mal’elenco è molto lungo.

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

della tradizione dell’autonomia municipalista, della produzione di un saperepolitico fondato sullo studio della città. Nel corso del Novecento, dopo il fasci-smo, la scienza politica italiana cresce nell’analisi empirica delle istituzioni delsistema democratico rappresentativo, delle organizzazioni dei partiti, dei gruppidi interesse, concentrandosi sulle forme della leadership politica e sulla compe-tizione tra leaders. Complessivamente, si sviluppa come scienza del buon gover-no e insieme di competenze tecniche al servizio della domanda, espressa dallostesso sistema politico, di soluzione di aspetti di ingegneria istituzionale, dimiglioramento dei meccanismi elettorali, di riforma dell’amministrazione pub-blica, etc. Lo studio della democrazia è “scienza dello Stato” e delle forme di rap-presentazione e realizzazione dell’interesse generale.In particolare, la dimensione politica della città come terreno per la formazionedelle politiche non trova spazio in agenda. Le analisi della politica urbana e delsistema politico locale sono state in gran parte incentrate sui partiti, sulle elezio-ni e sui modelli di voto, oppure su indagini statistiche atte a cogliere linee di ten-denza e trasformazioni delle caratteristiche socio-economiche, delle dinamichedemografiche delle popolazioni rurali/urbane, senza una seria considerazioneper le politiche6. La ricerca sulle analisi della politica locale, probabilmenteinfluenzata, in una certa misura, dalle stesse caratteristiche dei contesti urbaniitaliani del periodo, si è concentrata soprattutto sullo studio della città-come-fab-brica (vale a dire, il luogo in cui si concentrano gli effetti delle decisioni di svi-luppo economico, delle scelte localizzative) e del locale-come-periferia dell’ap-parato politico-amministrativo centrale, luogo di concentrazione delle clientele edel patronaggio, della corruzione guidata dal sistema dei partiti che controllanol’arena elettorale (operando così una riduttiva semplificazione della “sfera politi-ca urbana” nella politica elettorale dei partiti, e di conseguenza una diminuzionedella dimensione politica dell’azione locale e del suo potenziale generativo didemocrazia). Lo studio dei poteri urbani ha evidenziato il degrado delle istitu-zioni democratiche.Inoltre, se, da un lato, sul piano della speculazione teorica7, scarsa attenzione èstata posta nel dibattito scientifico all’ambiente urbano di formazione del pro-cesso politico dall’altro, la (relativa) produzione di analisi empirica, come studiodi casi di politiche, si è avvalsa di una logica e pratica d’indagine assai diversa daquella che caratterizza le ricerche che stiamo prendendo in considerazione8. Siaffermano le teorie di Sartori. In particolare, nei procedimenti di analisi compa-rativa adottati largamente nello studio dei fenomeni politici, l’applicazione dellanota scala di astrazione dei concetti ha ingenerato a volte un irrigidimento dellestesse premesse teoriche. Per Sartori, la scienza politica, vista nei termini di “unaconoscenza empirica della politica provvista di validità scientifica” (Sartori, 1979,10), deve sgravarsi dall’ipoteca delle filosofie della politica, che hanno trattato iproblemi politici su di un piano speculativo, e dalla prassi politica quotidiana,che esprime i saperi ordinari e il discorso comune sulla politica, imbevuti di tona-lità emotive e componenti ideologiche, quanto più le lotte politiche sono ali-mentate dalle passioni. L’azione politica è da precedere e orientare, è da inse-gnare: come egli esemplifica efficacemente “se, e come, una scienza della poli-tica sa progettare l’azione. Intendi: programmi di azione che riescono nelmodo previsto”(Sartori, 1979, 120).

5

6 Una significativa eccezio-ne è il lavoro teorico di PierLuigi Crosta, a partire daglianni ’70 (si veda, ad esem-pio: L’urbanistica di parte,

1973), e non stupisce che lasua ricerca non si sia svolta

nell’ambito disciplinaredella scienza politica,

anche se basata sull’analisidel processo di policy, con

particolare attenzione allepolitiche urbane. Come sin-

tesi del suo approccio, siveda il suo illuminante sag-gio sulla politica della pia-

nificazione urbanistica “Lapolitica urbanistica”

(Crosta, 1990, b), in cui ilsistema politico della città

viene assunto analitica-mente come una cornice

per spiegare i meccanismiche caratterizzano le deci-

sioni urbanistiche e per evi-denziare la dimensione

politica dei processi di pia-nificazione. Nelle sue paro-

le, la pianificazione èintrinsecamente politica, in

quanto le sue premessesono di natura politica, e/o

i suoi esiti sono politici.Come campo dell’attività

governativa, essa tratta discelte di interesse pubblico,

e coinvolge politici; è plura-le e conflittuale (dacché

diversi interessi, di parte,sono in competizione). Nei

processi di pianificazione, irapporti di potere determi-

nano tanto le politichequanto gli esiti (Crosta,

1995, 109-10).

7 La controversia tra plura-listi e elitisti appassiona e

impegna gli scienziati poli-tici italiani, sul solco della

grande tradizione checaratterizza la scuola ita-

liana, imperniata sumodelli teorici esplicativi enormativi del “potere delle

elites”.

n.32 / 2012

Nella ricerca sperimentale della scienza politica al metodo dello studio di casosono state preferite tecniche sistematiche di raccolta dati, di misurazione e valu-tazione di tipo quantitativo, con l’obiettivo di pervenire a generalizzazioni empi-riche, estraendo dall’analisi dei contesti selezionati conoscenze e principi esten-dibili ad un più ampio universo. Queste tecniche richiedono di definire in par-tenza i concetti; la ricerca è l’esecuzione di obiettivi già fissati e persegue model-lizzazioni. Coerentemente con quest’impostazione, lo studio di caso quando uti-lizzato in queste analisi è stato inteso come prova e verifica delle prospettive teo-riche del ricercatore, fondate su concetti ben definiti e formulati ex ante, chenecessitano di un passaggio di operazionalizzazione con la definizione di varia-bili, dispositivi di misurazione (indicatori, etc.). Il pensiero si converte in azione:“quando la teoria è adeguata e il passaggio è diretto”, “la teoria davvero si tra-sforma in pratica, nel senso che l’esito pratico riesce conforme al programmateoretico” (Sartori, 1979,120). L’evidenza empirica è, in quest’ottica, la confermadi concetti definiti a priori, tendenti all’oggettivazione dei processi sociali e poli-tici, più che il tentativo di comprendere i processi e di formulare ipotesi appren-dendo in corso d’azione ovvero dalla stessa pratica di ricerca. In generale, leforme di conoscenza ordinaria, pratica, interattiva sono state giudicate da Sartoridi scarsa utilità e prive di dignità scientifica; egli ha escluso che la pratica sia pro-duttiva di conoscenza, essendo questa piuttosto una sfera che dipende dalla teo-ria, nel senso dell’applicazione delle teorie empiriche, esecuzione di un insiemedi operazioni da effettuare e decise in partenza. L’implementazione non produ-ce valore aggiunto in termini di acquisizione della conoscenza (Sartori, 1979). Non è affatto sorprendente, pertanto, che la ricerca effettuata in Italia da studio-si americani, come quella di Banfield incentrata sulla comunità di “Montegrano”(1958) e quella di Putnam (1993) abbiano avuto una così grande importanza neldibattito nazionale. Più recentemente, gli studi sulla governance, sui regimi esulle coalizioni urbane, sull’onda della grande affermazione negli anni ’90 di unanuova concettualizzazione delle città come attori collettivi, capaci di una politicaautonoma, hanno operato il riorientamento degli interessi di ricerca, documen-tato da un nuova produzione di studi.

2. Lo studio pioniere su New Haven (Dahl, 1961)

I due studi di caso di Lowi e Wildavsky hanno quale presupposto l’indagine cheDahl aveva condotto su New Haven nella seconda metà degli anni ’50, comeparte di un più ampio progetto di ricerca. Si trattava di un’analisi particolarmen-te impegnativa in termini di tempo e di risorse umane, per il quale si era avvalsodella collaborazione di Nelson Polsby e Raymond Wolfinger. Polsby, attraversouno studio di comparazione condotto per la sua tesi di dottorato, era giunto allaconstatazione che la teoria dell’esistenza di un’unica elite socio-economicadominante la vita politica era infondata, se falsificata sui dati di New Haven; nel1961 aveva pubblicato un volume su questo tema, intitolato: “Community Powerand Political Theory”. Wolfinger aveva analizzato il comportamento dei leaderspolitici a New Haven in diverse importanti decisioni e per un anno aveva svoltoosservazione partecipante in due uffici strategici del governo cittadino.L’opportunità gli si era presentata con una internship presso il Dipartimento

6

8Lo studio di caso oltre cheessere un metodo di ricer-ca, che implica un’investi-gazione in profondità di uncontesto da parte del ricer-catore, è un’azione di ricer-ca. La strutturazione deldisegno della ricerca nonconsiste nella definizione diun programma che è unprotocollo da eseguire, neu-trale rispetto al contesto: losviluppo del percorso d’in-dagine è un’esperienzaconoscitiva dal carattereaperto, che si conduceattraverso pratiche interat-tive di indagine, sollecitan-do le capacità di apprendi-mento del ricercatore erichiedendo una certacapacità di improvvisazio-ne. Il contesto stesso giocaun’influenza. Riprendendola definizione di Lindblom(1990), che esprime il carat-tere dell’inquiry, si tratta disondare il campo e andarein profondità (“the field”,nei termini di CharlesGertz) piuttosto che provaredegli assunti con delle evi-denze (“probing” e non“proving”). Pertanto, ilricercatore impegnato inun’analisi di caso di politi-che oltre che avvalersi dicompetenze tecniche, matu-rate nella propria specializ-zazione disciplinare, attin-ge dai saperi ordinari,locali, pratici.

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

dello Sviluppo il cui direttore, in quel periodo, collaborava strettamente con l’uf-ficio del sindaco in qualità di suo braccio destro per l’attuazione di programmi diriqualificazione urbana e di progetti di risviluppo (redevelopment)9. In quel con-testo aveva avuto anche la possibilità di osservare, fin dal principio, la controver-sa elaborazione del nuovo statuto cittadino, poi rigettato dagli elettori con il refe-rendum popolare del 1958. Nella prefazione a “Leadership in a Small Town”, Wildavsky fa esplicito riferi-mento alla determinante influenza del lavoro di Dahl sul proprio progetto diricerca su Oberlin; sebbene non avesse partecipato al programma di ricerca diDahl quando era a Yale, ne aveva assorbito indirettamente i problemi, i risultatie le motivazioni sottostanti attraverso le descrizioni e le restituzioni informali diPolsby e Wolfinger. Lowi, a sua volta, rende omaggio alla ricerca pionieristica diDahl ma, se pur riconosce che il libro di Dahl costituisce indiscutibilmente lo stu-dio più esaustivo sulla “politics of policy” fino a quel momento svolto (Lowi,1964, 229), osserva il carattere troppo specifico e descrittivo delle categorie uti-lizzate e la mancanza di interesse teorico per una conoscenza più generalizzabi-le, con conseguenti limitazioni per la comparazione – aspetto, questo, su cui tor-neremo di seguito.Vi è, tuttavia, una ulteriore motivazione a rileggere il lavoro di Dahl su NewHaven, che è data dall’interpretazione prevalente di Dahl come teorico dellademocrazia; mentre, “Who Governs?” è in primo luogo un pezzo magistrale diricerca empirica sulla qualità della democrazia in relazione alla formazione eall’attuazione delle politiche pubbliche in un contesto urbano.Dahl, Lowi e Wildavsky erano tutti dell’opinione che l’attenzione riposta agliaspetti metodologici e alle pratiche di ricerca fosse determinante per il successodelle ricerche stesse.Ci troviamo di fronte a programmi di ricerca empirica, che, in generale, richie-devano anni di dedizione all’osservazione sul terreno.L’ipotesi di base di Dahl era di esaminare accuratamente un singolo contesto dipolitica locale e di democrazia, svolgendo uno studio di caso in profondità; lo ani-mava la convinzione che per prendere parte all’acceso dibattito tra pluralisti e eli-tisti sullo stato di salute della democrazia americana del tempo fosse indispensabi-le una seria analisi empirica dei sistemi di influenza, delle condizioni di leadershipe delle relazioni di potere a livello comunitario. Dahl aveva evidenziato infatti ilproblema della mancanza di dati empirici in grado di dimostrare l’esistenza e l’ef-ficacia di contesti di decisione pubblica e di governo plurali e democratici, perquanto le teorie pluraliste riscuotessero successo e prevalessero sulle tesi deglielitisti – i quali avevano denunciato la realtà di fatto di una democrazia di faccia-ta, nascosta dietro un abile apparato retorico, fortemente comunicativo e persua-sivo, che mascherava l’esistenza di un’unica elite socio-economica, che dominavala vita politica. Dahl aveva iniziato l’inchiesta sullo stato della democrazia a NewHaven con l’idea di verificare l’adeguatezza o meno delle teorie degli elitisti con idati su New Haven, sperimentando indicatori operazionali dei sistemi influenza.Quanto alla sua collocazione teorica, la tesi di una “polyarchal democracy” (1956)era già circolata e la sua posizione rispetto alle tesi pluraliste era chiara. New Haven costituiva un buon contesto per l’osservazione, per più ragioni: era“convenientemente a portata di mano”, si configurava come “una città raccolta,

7

9 Per quanto non elegante,traduciamo alla lettera iltermine “redevelopment”

(come: “risviluppo”), per ilquale non abbiamo un

equivalente nella linguaitaliana, a indicare proces-si di trattamento dei proble-mi e di rilancio di aree, un

tempo luoghi di attività disviluppo, poi dismesse,

abbandonate, in crisi, etc.

n.32 / 2012

a scala d’uomo” e, per molti aspetti, “una città media americana”, tipica di tantealtre aree urbane degli Stati Uniti per caratteristiche socio-economiche e ten-denze demografiche (Dahl, 1961, 329). Oltre a ciò, New Haven presentava unainteressante storia passata, un sistema partitico fortemente competitivo e graviproblemi di degrado urbano, con la formazione di slums, fenomeno comune amolte aree urbane in quegli anni.Ma, ancor più importante, a New Haven si riscontravano condizioni formali didemocrazia, secondo i parametri consolidati di valutazione del sistema politicodemocratico rappresentativo:“Secondo il linguaggio corrente, New Haven è una comunità politica democrati-ca. La maggior parte dei cittadini adulti ivi residenti gode per legge del diritto divoto e una percentuale relativamente elevata di persone vota. I voti sono, di mas-sima, correttamente contati – sebbene sui non votanti, una piccola frazione deltotale, vi possano essere talvolta manipolazioni. Le elezioni sono libere, non sog-gette a imposizioni, e, ai fini pratici, esenti da frodi. Due partiti politici si con-tendono le elezioni, offrono liste di candidati rivali, pertanto presentano agli elet-tori un minimo di alternative di scelta” (Dahl, 1961, 3).Tuttavia, quando si interrogasse la realtà di garanzie sostanziali di uguaglianzapolitica, allora emergevano problemi rispetto alla qualità democratica, nel sensoche carenze di democrazia erano evidenti di fatto come espressione dell’au-mento delle disuguaglianze sociali e dell’inefficacia del controllo popolare sulledecisioni politiche e sui responsabili politici. La progressiva differenziazionedelle capacità, delle risorse, dell’accesso alle conoscenze, etc,. si presentavacome l’altra faccia del pluralismo, la sua “patologia”.La ricerca doveva fornire le evidenze empiriche necessarie, da un lato, ad esclu-dere l’ipotesi di un’unica, potente leadership che di fatto controllava le decisionia New Haven e, dall’altro, chiarire in che misura fosse effettivamente il pluralismola modalità politica di organizzare la vita pubblica. In termini operativi, si trattavadi trovare il modo di indagare la distribuzione dell’influenza sulle decisioni inimportanti aree di politica pubblica connesse a questioni di interesse collettivo(“issue-areas”), che costituivano poste in gioco rilevanti per la politica locale.Dahl considerò ai fini dell’indagine solo alcune “issue-areas” – per essere reali-sti, New Haven era una città di 160.000 abitanti e estendere la ricerca a tutti gliambiti della politica urbana sarebbe stato realisticamente troppo complesso enon fattibile, sul piano pratico. Le tre aree selezionate che emergevano comequestioni pubbliche erano strategiche, perché sia materialmente sia simbolica-mente rappresentavano ambiti del policy-making urbano importanti e conflit-tuali, trasversali a una varietà di interessi e di partecipanti. In particolare si trat-tava di analizzare 1) i progetti di riqualificazione e di risviluppo urbano; 2) le poli-tiche locali per l’istruzione; 3) le nomine per le cariche pubbliche locali e i pro-cessi di selezione dei partiti dei candidati a sindaco.La città di New Haven era al centro di programmi e decisioni rilevanti di risvi-luppo urbano e la politica di riqualificazione urbana era vista come l’ambito dimaggiore innovazione locale. L’istruzione assorbiva una parte sostanziale delbilancio del governo locale; infatti, in una società iper-stratificata come quellaurbana americana del periodo, data l’alta concentrazione di diverse componentietniche, razziali, nazionali, il sistema scolastico e di educazione pubblica costi-

8

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

tuiva una base essenziale per il perseguimento di obiettivi di integrazione socia-le. Infine, l’area delle nomine politiche interessava le decisioni di nomina dei ver-tici degli esecutivi, della dirigenza pubblica, con attenzione specifica ai settori dipolitiche di cui sopra (risviluppo e riqualificazione urbana, educazione) e, in par-ticolare, ai poteri di nomina del sindaco, contro la letteratura che aveva enfatiz-zato la fragilità del sindaco a fronteggiare gli interessi economici e le pressionidei partiti.Per determinare il modello di influenza in azione, Dahl decise di adottare quelloche definì “un approccio eclettico” alla definizione delle misure operazionali diinfluenza, “in modo da sfruttare la disponibilità di un ampio assortimento di dati”(Dahl, 1961, 331). Nello studio vennero utilizzati diversi metodi per stimare l’in-fluenza relativa o i cambiamenti di influenza. Tra il 1957 e il 1958, con l’aiuto diPolsby, Dahl condusse quarantasei interviste – della durata anche di sei ore –con uomini d’affari, funzionari pubblici, leader di partiti politici, etc, che eranostati coinvolti in decisioni-chiave delle tre aree di policy sopra menzionate. Loscambio di informazioni con molti degli intervistati proseguì, nella richiesta dilettura di sezioni del rapporto finale e di commenti e osservazioni ai ricercatori.Tra le fonti di informazione (oltre alle interviste, ai documenti storici, alla rasse-gna stampa, all’osservazione diretta e partecipante, a indagini con questionari10:)si rivelarono particolarmente utili: 1) la ricostruzione dettagliata delle decisionipolitiche, di un certo rilievo, dell’ultimo decennio; 2) la chiarificazione della dis-tribuzione dell’influenza tra i partecipanti, nelle tre aree di policy selezionate,considerando ad esempio per ciascun partecipante, singolo individuo o gruppo,“le proposte di successo avviate” o “i fallimenti”, o “i veti”. L’aspettativa era diidentificare, in questo modo, le persone più influenti nelle questioni locali e diverificare se queste componevano un’elite, predominante, o vari gruppi di inte-ressi e espressioni di partecipazione attiva e di mobilitazione dei cittadini.Dall’interpretazione di Dahl delle politiche di riqualificazione e di risviluppourbano a New Haven emerge una nuova prospettiva alla città, come campo distudi politici. Nella sua analisi, infatti, la città è considerata come un ambientepolitico, vale a dire un contesto di decisioni locali, di formazione di politiche edi relazioni di potere; le città sono poi contesti di attuazione di politiche urbane,ovvero di programmi del governo e di interventi, di natura anche federale o sta-tale, mirati a risolvere specifici problemi sociali e a garantire migliori condizionidi vita urbana. A questo proposito, Wood (1963, in Crosta, 1990a) è particolar-mente perspicace quando osserva, con riferimento al processo politico urbano,l’inconsistenza dello schema input-output della domanda politica, ovvero delmodello secondo il quale le varie istanze sociali sono percepite, aggregate e tra-sformate in “domanda politica” (di servizi, di distribuzione di risorse, di regola-zione, etc.) e, quindi, in decisioni concrete di programmi di intervento e di atti-vità di governo. Diversamente, il processo politico urbano è meno “razionale” e,anche quando sia guidato da coalizioni che convergono intorno a progetti bendefiniti, il conseguimento degli obiettivi prestabiliti è molto esposto a fallimentie/o ad adattamenti, a cambiamenti considerevoli, che si verificano nel corso del-l’azione. Più credibilmente, dunque, sussiste una divergenza o si crea una sepa-razione tra i processi di mobilitazione sociale “in nome dei bisogni della gente”e le decisioni e le soluzioni adottate dal sistema politico, con la sola eccezione

9

10 Ad esempio, era stato som-ministrato un questionarioa membri di partiti politici,

di commissioni e organiamministrativi, di funzio-nari pubblici coinvolti in

azioni di risviluppo eriqualificazione, e nelle

politiche educative.

n.32 / 2012

delle questioni conflittuali, che sono quelle che fanno scattare l’interesse imme-diato e l’intervento diretto dei governi per il mantenimento del consenso, dellastabilità politica e sociale. Ad esempio, secondo Wood, le decisioni di risviluppoe di riqualificazione urbana in molte città erano dipese dall’attuazione di specifi-ci programmi federali, o dalla possibilità di utilizzare fondi federali, o ancora dal-l’attivazione di un imprenditore politico e dalla temporanea convergenza intor-no a questi di una coalizione di interessi, che promuoveva la realizzazione di unpiano di interventi. Raramente le decisioni che venivano prese costituivano larisposta diretta ai problemi esistenti o alle domande sociali di intervento.In tale contesto, il sindaco-imprenditore-politico divenne un soggetto ricorrentenella letteratura del periodo. La leadership politica urbana, di solito connessa alruolo del sindaco, veniva considerata una risorsa-chiave ai fini della “governabili-tà” della città.La ricostruzione di Dahl della politica di risviluppo a New Haven evidenziò comela nuova politica e leadership di un candidato dei Democratici alla carica di sinda-co (Richard Lee), eletto e riconfermato per due volte negli anni ’50, avesse pro-fondamente riorientato questo settore dell’attività governativa che, nella storia pas-sata della città, aveva costituito un’area di forti pressioni e iniziativa privata, influen-zata da poche figure-chiave. Le decisioni di risviluppo di aree urbane, che perdecenni avevano conosciuto un’opinione pubblica divisa, una storia di fallimenti eindecisioni – per lo più per problemi di consenso politico e sociale, per via deglielevati costi finanziari degli interventi pubblici e degli elevati costi sociali connessiallo spostamento degli abitanti – “acquisirono un’immagine non partigiana” (Dahl,1961, 118), forte del sostegno politico sia del partito repubblicano sia di quellodemocratico, che ne avevano fatto una questione di consenso popolare.Il sindaco Lee fece della riqualificazione e dello risviluppo urbano la politica cen-trale della sua amministrazione, legandola alla sua immagine e alla sua leaders-hip e ottenendo notorietà politica nazionale. L’amministrazione della città riac-quisì legittimità agli occhi dei cittadini e dei gruppi organizzati di interesse: nelgiro di pochi anni ottenne di gestire e spendere una quantità enorme di finan-ziamenti federali, data la congiuntura favorevole (il governo federale, proprio inquegli anni, aveva lanciato programmi mirati a sostenere finanziariamente le cittàimpegnate in progetti di riqualificazione). Sebbene, un paio di anni più tardi,Wood (1963) osservasse come la fiducia che la gente aveva nei sindaci, conside-rati come i nuovi leader sulla scena urbana, si fosse scontrata con le difficoltàimpreviste e gli impedimenti che le politiche e i progetti dei sindaci avevanoattraversato al momento dell’attuazione11.Il sindaco Lee aveva nominato una nuova squadra per occuparsi delle azioni diriqualificazione e risviluppo, composto da tre membri e parte della costituitaRedevelopment Agency , selezionati sulla base delle competenze tecniche e pro-fessionali ma anche della fiducia personale del sindaco12. Il personale dell’Agenziaera di sostegno all’attuazione di importanti decisioni, insieme con la Commissionedi Piano e altri uffici e dipartimenti dell’amministrazione comunale.Il sindaco Lee premeva per un approccio integrato e per il coordinamento delleazioni di trasformazione fisica della città, al fine di evitare la frammentazione deirelativi settori di attività amministrativa, che erano numerosi, la proliferazione dinuove agenzie, burocrazie e l’aumentare della conflittualità tra i numerosi attori

10

11 Tra gli esempi menzionatida Wood, il caso di Wagnera New York, Daley aChicago, Dilworth aFiladelfia e Lee a NewHaven.

12 Uno dei membri era ilDevelopmentAdministrator, un topmanager dal ruolo chiave,presso il cui ufficioWolfinger aveva svolto ilsuo anno di internship.

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

e portatori di interesse coinvolti. Ancora più importante, il sindaco intuì che lapolitica di riqualificazione e risviluppo doveva ergersi su basi democratiche permantenere il consenso popolare. Un’ampia partecipazione al processo decisio-nale veniva pertanto garantita attraverso la creazione di un nuovo organo, ilCitizens Action Commission, composto di diverse commissioni di lavoro su spe-cifici ambiti, con il coinvolgimento di quasi cinquecento cittadini (tra apparte-nenti alla comunità economica locale, a gruppi civici e di vicinato, ad associazio-ni professionali, all’Università, ai sindacati, etc.).In conclusione, la politica di risviluppo veniva ad essere concepita come uno spa-zio di aggregazione di interessi, di partecipazione democratica e di negoziazionedelle decisioni, attraverso la centralizzazione delle attività a livello del governourbano. Il sindaco e lo staff della Redevelopment Agency conducevano le nego-ziazioni, gli accordi tra la macchina politica-amministrativa e i gruppi di interes-se economici e sociali, le agenzie federali, gli ordini professionali, i partiti, i grup-pi etnici, etc.Al fine di valutare la reale consistenza e l’efficacia di questa comunità plurale,costituitasi attorno alla politica di riqualificazione, Dahl applicò gli indicatori ope-razionali previsti per la misurazione della distribuzione dell’influenza.Analizzando le principali decisioni in materia di risanamento e di riqualificazionetra il 1950 e il 1958 individuò quegli individui (o agenzie, o ambiti delle istituzio-ni) che avevano ottenuto di avviare proposte, che poi erano state adottate origettate, e coloro che avevano posto il veto sulle proposte di altri, con successoo meno. Emerse che la metà delle azioni di successo potevano essere attribuiteal sindaco o allo staff di sua fiducia della Redevelopment Agency, mentre lerestanti erano distribuite fra ventitre diverse persone o agenzie” (Dahl, 1961). Inaggiunta a questo, il numero di sconfitte subite dal vertice dell’esecutivo era diper sé significativo, dimostrando l’effettiva esistenza di altre fonti di influenza eun’organizzazione plurale degli interessi.In conclusione, l’analisi di Dahl mostrava la disponibilità di potere e l’esercizio diinfluenza del sindaco e dei funzionari pubblici, in contrapposizione a una lette-ratura che sosteneva la debolezza del sindaco e della pubblica amministrazionelocale, in generale, a fronteggiare gli interessi (socio)economici organizzati ecostituenti una elite dominante la vita politica delle città.Allo stesso tempo, era emerso con chiarezza che nel caso di New Haven non sitrattava di un eccesso di potere politico dei leaders, contro gli interessi socio-eco-nomici o professionali, ma di un caso di negoziazione complessa tra differentiportatori di interessi. La coesistenza di diverse visioni politiche e sociali, di variecredenze, volizioni e sistemi di valori appariva l’essenza stessa del pluralismo. Ilmantenimento di tale potenziale di differenziazione era importante per la qualitàdemocratica delle decisioni, e la questione si spostava piuttosto sui problemi dellagovernabilità, ovvero, sulle soluzioni di integrazione, di coordinamento.Secondo Gunnell (1995, 20) il pluralismo era effettivamente anche una descri-zione del funzionamento del sistema politico americano e si poteva pensare chelo studio di Dahl sulla politica di New Haven altro non fosse che una implicitaammissione del pluralismo come teoria normativa della democrazia.Secondo Pressman (1972, 511), l’analisi di Dahl, come quelle di Banfield (1961) eWildavsky (1964) in quegli anni, offriva uno sguardo in profondità alla “leadership

11

n.32 / 2012

del sindaco” e al modello di “imprenditorialità politica” che si andavano affer-mando nelle città americane. Il modello del sindaco come “intermediario eimprenditore (...) che media nelle controversie, funge da canale di comunicazio-ne e tenta una funzione integrativa” (Pressman, 1972, 511), aveva rappresentato ilmodello della leadership politica efficace: la dispersione pluralistica e la fram-mentazione del potere nelle città democratiche potevano essere utilizzate dal sin-daco, nelle vesti di imprenditore-politico, per aumentare la propria influenza.

3. Uno studio sulle decisioni di nomina a New York (Lowi, 1964)

Il tema della leadership del sindaco, di successo o meno, viene assunta comeunità di analisi per guardare da vicino il funzionamento dei sistemi politici urba-ni democratici da Lowi. In “At the pleasure of the Mayor”, uno studio di caso dalvalore esplicativo, Lowi cerca di mostrare la rete di relazioni politiche e socialiche caratterizzavano i processi di reclutamento del personale dell’amministra-zione pubblica e le decisioni di nomina in una grande città in espansione, NewYork. Lo studio delle condizioni, delle pratiche e delle logiche di reclutamentogli rende possibile una visione del sistema politico urbano con un focus specifi-co sull’intreccio tra apparati politici e governativi e mobilitazione sociale, inquanto “è particolarmente evidente nei sistemi politici urbani che le corporazio-ni, i gruppi di interesse, e molte altre unità sociali organizzate svolgono la dupli-ce funzione di definire i problemi che le politiche pubbliche devono trattare e direclutare e selezionare il personale politico” (Lowi, 1964a, VII).Da questo punto di vista, ne consegue che: 1) lo studio dei processi di recluta-mento non è diverso dallo studio delle decisioni politiche. Le decisioni di nomi-na (tra procedure di selezione dei candidati, negoziazioni, etc.) possono essereassimilate a processi di “problem-setting” e, nel loro implementarsi, ai processidi attuazione delle politiche; 2) se le politiche pubbliche sono decisioni deigoverni, è anche vero che partiti, gruppi non governativi e organizzazioni socia-li ed economiche possono influenzare i processi decisionali, attraverso varieforme di mobilitazione. Le organizzazioni della società civile, per esempio, pos-sono essere attive nella definizione degli standard di reclutamento del persona-le politico, o nel controllo dell’esecuzione delle procedure, diventando i “sorve-glianti” delle performance del governo. In questo modo, attraverso una mobili-tazione dal basso, che va in parallelo con il formale processo elettorale demo-cratico, possono dare voce alle aspettative e ai sistemi di valori di cui sono por-tatori, e anche esercitare pressioni affinché temi e questioni a loro cari entrinonell’agenda politica; 3) ai fini dell’analisi politica, studiare i processi di recluta-mento è strategico in quanto consente di osservare le relazioni di potere dellacomunità e il sistema democratico urbano “in azione”. Si tratta di una fonte pri-vilegiata di informazioni sulle dinamiche del pluralismo, che dice molto dellostato di salute della democrazia locale. L’identificazione delle strutture del pote-re aiuta a capire se vi sono le condizioni per un effettivo pluralismo, in una orga-nizzazione politica e sociale, o se prevale piuttosto uno statico sistema di privi-legi corporativi.Il sindaco della città è un attore-chiave dei processi decisionali relativi alle nomi-ne, ad esempio, nell’attribuzione e/o revoca dall’incarico di un numero rilevante

12

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

di funzionari pubblici, non eletti dal popolo; questo spiega anche il titolo dellibro: At the Pleasure of the Mayor (“A discrezione del Sindaco”), che si trovaquale espressione ricorrente nello statuto cittadino, ad indicare i poteri discre-zionali del sindaco nelle decisioni di nomina e in altre questioni (come ad esem-pio la condivisione di poteri relativamente al budget di spesa pubblica).Attraverso la raccolta di dati empirici, Lowi ricostruisce le dinamiche relative alledecisioni sulle nomine che avevano coinvolto i sindaci della città di New Yorkeletti nell’arco di tempo considerato nella sua analisi (dal 1898, cioè il primoanno di governo sotto il nuovo statuto cittadino, la creazione della “Greater City”con l’unificazione delle cinque contee, sino ai suoi giorni), nello scenario delleriforme amministrative e dei grandi cambiamenti sociali urbani che caratterizza-rono quel periodo storico. Negli anni, il numero di nomine a discrezione del sin-daco aumentò fino ad arrivare ad un massimo di 170. In quel tempo, il sindacodi New York era, secondo lo statuto vigente, al vertice dell’esecutivo e uno deipiù pagati e potenti amministratori pubblici degli Stati Uniti.A questo punto, dobbiamo fare una digressione per comprendere alcuni aspettidei processi di nomina, connessi a problemi del sistema elettorale della demo-crazia rappresentativa, nella storia statunitense. In un opuscolo pubblicato nel1915 dal The National Short Ballot Organisation (dal titolo: “The short ballotmovement to simplify politics”) si legge che “a New York il numero delle carichepubbliche dello Stato, della Città e della Contea elette attraverso il voto popola-re in un ciclo di quattro anni è di quasi cinquecento (...) A Chicago si sono avutiseimila candidature per le nomine alle recenti elezioni primarie; Philadelphia,sebbene sia una città di più piccole dimensioni, ha un numero perfino maggioredi cariche elettive”. Il riferimento è alla pratica del long ballot, vale a dire alla modalità utilizzata perl’elezione di molte cariche pubbliche con il ricorso al voto popolare, secondouna lunga e affollatissima lista di candidature. Questa pratica aveva avuto un’e-spansione incontrollata, così che la gente doveva votare per un enorme numerodi cariche pubbliche, eterogenee, nell’evidente mancanza di informazioni e diconsapevolezza circa le candidature, e la conseguente impossibilità di una ade-guata valutazione. Il metodo del long ballot, piuttosto che effetti di democratiz-zazione, aveva portato in realtà alla confusione e alla disaffezione da parte deglielettori, che non erano in grado di esprimere un parere ben informato, e all’i-nefficienza e all’alta politicizzazione dei servizi pubblici e delle istituzioni demo-cratiche. Il movimento detto Short Ballot Movement (che, tra l’altro, fu sostenu-to dal Presidente Woodrow Wilson, inizialmente uno studioso della buona ammi-nistrazione pubblica, che riteneva alla base dell’efficacia del governo pubblico) siimpegnò a favore di una riforma che modificasse le regole del processo eletto-rale, introducendo una drastica riduzione del numero delle cariche pubbliche dasottoporre a votazione popolare, operando la semplificazione sulla base di crite-ri di rilevanza per la selezione pubblica diretta. Per i riformatori, la pratica delloshort ballot avrebbe dovuto arginare sia il potere dei boss locali sia la corruzio-ne politica, che di fatto si alimentava con il controllo delle elezioni, attraverso lamanipolazione dell’elettorato, e con il dominio degli specialisti politici, che trop-po facilmente esercitavano il monopolio della conoscenza del processo politico.L’obiettivo era migliorare la qualità della democrazia attraverso la valorizzazione

13

n.32 / 2012

del voto di ciascun elettore, che doveva essere reso libero e consapevole, e lapromozione di procedure adeguate e chiare di selezione pubblica dei candidati(The New York Times, 14/12/1913). Questa riforma correva in parallelo allarichiesta di una più stretta regolamentazione delle elezioni primarie dirette. L’atteso miglioramento dell’efficienza del governo democratico era suppostoanche dipendere dall’attribuzione di maggiori competenze e responsabilità, inmateria di nomine e in generale nelle fondamentali decisioni politiche, ai verticidegli esecutivi, sia cittadini che statali. Da questa prospettiva, l’alto numero dinomine a discrezione del sindaco di New York poteva essere compreso in con-nessione a questi grandi movimenti di riforma, quale espressione di un nuovoorientamento democratico e di un graduale cambiamento nel funzionamentodelle istituzioni di governo e della pubblica amministrazione. Si comprende dun-que meglio la strategia di ricerca di Lowi, nel concentrare la sua analisi sulle deci-sioni relative alle nomine in una grande città come New York.Le cariche assegnate variavano per ruoli e collocazione: erano posti di direzione didipartimenti e servizi, posti in consigli di amministrazione e in organi deliberativi,in commissioni che facevano parte di settori di policy dell’amministrazione comu-nale e/o di Agenzie che si occupavano di determinate funzioni in delega., etc.“Il vertice degli esecutivi politici costituisce un importante segmento del perso-nale (...) la ‘classe teorica’ chiamata ‘élite dirigente’ determina lo stato di funzio-namento dell’amministrazione del Sindaco (...) E, l’amministrazione dei diparti-menti e delle agenzie, su cui il Sindaco ha influenza in città, ha un impatto diret-to praticamente su ogni cittadino della comunità” ( Lowi, 1964a, 5-6).Dal momento che la nomina dei vertici politici degli esecutivi investiva i piùimportanti settori di politiche e di attività del governo, lo studio delle decisionidi nomina era anche una buona strategia per una osservazione più ravvicinata delprocesso politico urbano e dei problemi della leadership democratica.Come è stato detto, Lowi svolge la sua inchiesta sulle strutture urbane di poterenel corso di sessanta anni (1898-1958) della storia del governo della città di NewYork e di cambiamenti nella leadership del sindaco. In questo senso, il suo è uno“studio storico-descrittivo” e i dati raccolti vanno interpretati in rapporto a “uncontesto istituzionale oltre che storico” (Lowi, 1964a, VII). Ed è proprio la“dimensione temporale” a costituire un fattore fondamentale per la compren-sione delle strutture di potere, per distinguere se un determinato momento oserie temporale si configura come un’anomalia rispetto alla norma o confermagli andamenti consolidati (Lowi, 1964, 231), ad esempio, per identificare i carat-teri principali e i cambiamenti significativi nella leadership politica urbana, nelsistema di valori e nei principi di allocazione dei valori, nel quadro giuridico, etc.In altre parole, la questione non è tanto capire “chi ottiene che cosa”, come sug-gerito da Lasswell (1958), ma “chi ha ottenuto che cosa per un periodo di tempoconsiderevole” (Lowi, 1964, 231). “Case history” e “time series” sono strumenti essenziali “per la scoperta di nuove‘leggi’ della politica e per il testaggio delle vecchie”. “È necessario avere unavisione molto chiara della sequenza degli eventi prima di riconoscere qualsiasirelazione tra di essi” (Lowi, 1964, p. 231). Questo approccio è funzionale anchead un altro obiettivo, e cioè alla maggiore conoscenza di “quali sono le condi-zioni per governare”13.

14

13 Negli intenti di Lowi vi erache i futuri studi di casoassumessero archi tempora-li più estesi per l’analisi.

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

Lowi ritrae la differenza tra la vecchia e la nuova amministrazione del governourbano di New York in un arco di tempo che segna il passaggio da una fase in cuile funzioni di governo sono relativamente semplici ad una fase di crescente com-plessificazione.Essere sindaco della città di New York significava avere a che fare con pressionisempre più forti, di gruppi sociali ed economici; il problema dell’ufficio del sin-daco e della sua tenuta era trovare un equilibrio tra i diversi e, talvolta, conflig-genti interessi, tenendo conto delle varie aspirazioni e poste in gioco ma, allostesso tempo, preservando l’autonomia di intervento del sindaco; il quale non è,insomma, “una pedina muta”, ma neppure “un soggetto libero di agire”. Inoltre,“non solo un sindaco deve vedere nelle nomine un mezzo per realizzare unaserie di operazioni con efficienza; le deve pensare anche come un modo per rea-lizzare degli aggiustamenti tra domande in competizione e aspettative che lo cir-condano” (Lowi, 1964, 3) .L’esercizio di una leadership democratica è influenzato dalla struttura politica egovernativa delle città, dalle forze sociali, ma, al tempo stesso, la qualità dell’a-zione del sindaco è determinata dalla sua personalità, dall’introduzione di inno-vazioni e dalla capacità di promuovere all’interno della sua constituency e nel piùvasto sistema politico “un processo di dialogo costruttivo tra i diversi gruppi, chepossa contribuire all’armonia nella città” (Pressman, 1972, 512).“I gruppi non governativi – gruppi allineati con, oppure ostili al, partito, gruppi‘che danno denaro’, gruppi ‘che richiedono servizi’, gruppi etnici e religiosi, e,non ultimo, i partiti come gruppi di interesse – vedono nelle nomine dei verticiun riconoscimento del loro peso e un modo per accrescere il loro potere reale”(Lowi, 1964a).Le risorse di regolazione e le risorse finanziarie dello staff sono importanti condi-zioni per la leadership14 dell’ufficio del sindaco. A parte questi vincoli, l’imprendi-torialità politica e la funzione di intermediazione del sindaco, la capacità di con-trollare partiti e dipartimenti importanti dell’amministrazione cittadina attraversoil gioco delle nomine, o la mobilitazione di gruppi non governativi della comuni-tà, costituiscono tutte condizioni importanti per l’esercizio di leadership e per lacostruzione di consenso su questioni specifiche e aree strategiche dell’attività dipolicy-making del governo locale. La leadership politica richiede improvvisazio-ne – un occhio al disegno strategico, al perseguimento degli obiettivi, e l’altro aglieffetti non voluti e inattesi – di pari passo con l’indeterminatezza della politicaurbana e la razionalità incrementale del processo politico.Se le nomine sono transazioni politiche, esse rappresentano anche un’occasionedi esercizio di virtù civica e un’espressione dei sistemi di valore e delle influenzeprevalenti nella comunità. Pertanto, lo studio delle importanti decisioni di nomi-ne dal 1898 al 1958 non è solo un ritratto della società urbana di New York: essomostra anche i grandi cambiamenti di condizione e ordine sociale, a mano amano che nuove idee e nuovi valori acquisivano consenso. In particolare, la storia del quartiere in cui si è vissuti, la composizione socio-eco-nomica, etnica e religiosa delle popolazioni sono aspetti da considerare, dalmomento che “la struttura della società si riflette nella rappresentanza politica(...) e nella macchina decisionale e della costruzione delle politiche del governo,che deve riflettere adeguatamente i diversi interessi della popolazione (…) con

15

14 Secondo l’analisi diPressman, pre-condizioni

importanti potrebbero esse-re ad esempio: poteri dellacittà e competenze del sin-daco all’interno del gover-

no urbano nelle aree diprogrammazione dello svi-luppo economico e sociale

(istruzione, edilizia abitati-va, riqualificazione, occu-

pazione etc.); risorse finan-ziarie, come stipendio spet-

tante al sindaco (per con-sentirgli di dedicarsi a

tempo pieno al lavoro, etc.)e come budget che il gover-

no cittadino gestisce; risorseumane, competenze dello

staff di supporto alle attivi-tà del sindaco (pianifica-

zione, relazioni intergover-native, etc.) (Pressman,

1972, 512).

n.32 / 2012

la massima efficacia e soddisfazione popolare” (Lowi, 1964a, 17).La stratificazione socio-economica della popolazione e la crescente diversifica-zione delle componenti etniche e religiose (in gran parte dipendente dai flussimigratori) aveva reso più complessa la gestione delle nomine: numerosi nuoviproblemi e conflitti erano sorti in relazione, da un lato, alla rappresentanzademocratica delle minoranze, e dall’altro, in relazione alle garanzie dei dirittidemocratici della maggioranza nelle decisioni sulla composizione degli organipolitici ed esecutivi di governo, e, più in generale, nel controllo dei processi discelta pubblici. La rappresentatività dei candidati divenne una questione centra-le, coinvolgendo il sindaco.A questo proposito è esemplare l’analisi di Lowi sul sistema di politiche per l’i-struzione a New York e sui cambiamenti intervenuti nel corso degli anni nellacomposizione del Direttivo per l’Educazione, o nell’organizzazione delDipartimento per l’Educazione. Vengono descritte le competenze del sindaconel settore, per come definite dallo statuto cittadino e per legge dello Stato, e lepressioni e mobilitazioni dal basso per cambiare le regole, come effetto della cre-scente consapevolezza dei gruppi etnici e del consolidamento di alcuni gruppinazionali nella società urbana locale.Come Lowi conclude, in sessanta anni di storia della città il grande cambiamen-to nella politica locale di New York era stato “il numero e il tipo di caratteristicheche i leader sentivano di dovere assecondare” (Lowi, 1964a, 34). E tuttavia, altricambiamenti di rilievo avevano riguardato la struttura e l’organizzazione delsistema partitico e l’influenza dei partiti politici sulla politica cittadina.Negli ultimi decenni del XIX secolo, le organizzazione di partito diventarono ilpiù forte canale di reclutamento, profondamente imbevuto di valori tendenti al“piano personale”, alle “regole interne al gruppo”, ossia “fedeltà al partito” e“essere al servizio”. La città era governata da una “molto diffusa ed eterogeneaelite che includeva elementi della vecchia aristocrazia (una elite di status e di ric-chezza mercantile) e politici di professione (Lowi, 1964a, 216). Quello fu il perio-do della cosiddetta (old) urban machine.Dopo la Prima Guerra Mondiale, con l’ascesa di grandi e ben organizzati gruppidi interesse, interessati a ottenere accesso al gioco politico e potere di control-lo, il sistema partitico divenne più debole. Nuovi ideali e valori andavano affer-mandosi, influenzando anche i criteri di selezione del personale politico e delladirigenza pubblica; la crescente complessificazione della società15 e della pubbli-ca amministrazione16 richiedevano più efficienza e conoscenze specialistiche. Ilprofilo tradizionalmente reputato idoneo al reclutamento nella pubblica ammi-nistrazione, quello di “un generalista” (che, per la maggior parte delle posizioni,era un uomo di legge), si mostrò inadeguato per molti dei nuovi compiti digoverno e di gestione. L’orientamento prevalente fu verso il reclutamento di pro-fili che possedevano conoscenze specialistiche adatte alle posizioni di lavorolibere, ovvero, “tecnici” che avevano una formazione e un curriculum effettiva-mente idoneo e all’altezza.Queste figure di competenza erano ritenute più in grado di mantenere la ‘neu-tralità’ del funzionario del servizio pubblico, che deve rispondere del possesso divirtù civiche e professionali. Tale orientamento corrispondeva anche ai deside-rata dei gruppi di interesse (civici, economici), la cui attenzione era incentrata

16

15 “Lo sviluppo industriale el’istruzione pubblica pertutti hanno creato unaampia classe media, perreddito e istruzione” (Lowi,1964a, 217).

16Il personale impiegatonella pubblica amministra-zione cittadina passò da33.000 a 246.000 unità. Ilgoverno della città estese lasua regolamentazione e isuoi interessi a molti ambitidella vita pubblica.

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

sulla definizione di standard e tipi di profili, secondo principi che sostenevano ilcarattere “impersonale o obiettivo”, corrispondente alle esigenze di “razionaliz-zazione” del lavoro politico e amministrativo. Di fatto, funzionari e amministra-tori pubblici avevano sempre più a che fare con le pressioni dei gruppi di inte-resse: “le burocrazie dipartimentali sono cresciute e sono divenute altamentepoliticizzate – ma non per via dei partiti politici. Eliminare i partiti non ‘depoliti-cizza’ o ‘deorganizza’ la politica, altera soltanto la sua configurazione verso lapolitica dei gruppi di interessi. L’eliminazione del partito dagli affari dei diparti-menti di solito getta l’amministratore nelle braccia della sua clientela” (Lowi,1964, 223).A questo proposito Lowi richiama alcune intuizioni cruciali del ben noto studiodi Woodrow Wilson su “l’amministrazione in azione” (1887), anche se con unadiversa prospettiva all’efficienza dell’azione di governo. Secondo WoodrowWilson era necessario sapere di più sulla politica urbana per migliorare le pre-stazioni del governo e dell’amministrazione locale. Il problema stava nel capire“ciò che il governo può fare appropriatamente e con successo, con la massimaefficienza possibile, e al minor costo di denaro o di energie” e, come per il pote-re: “A chi deve essere affidato?” (Wilson, 1887, 198).Secondo Lowi la questione dell’efficienza dell’azione di governo aveva a che farecon le questioni della sua responsività e trasparenza, equità, della conformità alleleggi, vale a dire, con la qualità del sistema politico democratico. La vera que-stione, in un periodo di espansione delle attività e delle responsabilità del gover-no urbano, così come dell’aumento delle domande sociali, era: “Quali sono lecose che devono essere di pertinenza dell’azione governativa?”.Woodrow Wilson aveva fortemente sostenuto il principio della separazione dellasfera amministrativa dalla sfera politica, e la natura non-partigiana del serviziopubblico. Nella sua visione, l’amministrazione era “il compito specifico del fun-zionario tecnico” (W. Wilson, 1887, 210); la promozione di una riforma del ser-vizio pubblico e della rettificazione dei metodi di reclutamento del personaleerano strumenti indispensabili per la “chiarificazione dell’atmosfera morale dellavita del dipendente pubblico”.L’analisi di Lowi sulla città di New York era stata condotta in anni successivi,quando molti degli effetti di tali riforme democratiche erano visibili. Il campo diricerca di Lowi aveva reso evidente il carattere plurale e frammentato della poli-tica urbana. Il pluralismo poteva essere utilizzato come una categoria descrittivaefficace per rappresentare la complessità e la ricchezza dell’ambiente politico esociale contemporaneo, ma non automaticamente come categoria normativa perla definizione delle caratteristiche del governo democratico. La diminuzionedella responsabilità elettiva e l’aumento della rappresentanza funzionale, unita-mente all’indebolimento del sistema dei partiti e al fiorire di gruppi di interesseeconomici e sociali, aveva portato a conseguenze significative sul piano dell’ac-countability “essendo la responsabilità non verso gli elettori ma verso l’eticaprofessionale e le clientele organizzate” (Lowi, 1964a, 226) e della responsive-ness: “la scomposizione delle responsabilità in aree funzionali riduce l’ambito diresponsabilità collettiva, che è la conditio sine qua non dell’auto-governo”(Lowi, 1964a, 226). Mentre, un “sistema di partiti vitale è integrativo” e può crea-re l’equilibrio tra le varie aree funzionali. Inoltre, il pluralismo non è democrazia

17

n.32 / 2012

partecipativa, dacché la gran parte dei cittadini sono spettatori del gioco dellapolitica, e le elezioni e i gruppi di interesse offrono canali di influenza popolarelimitati.Lowi pone l’accento sullo scarso interesse a considerare, negli studi sulla lea-dership comunitaria, la struttura e l’attività governativa; l’analisi di caso su NewYork era stato dunque concepito “per tagliare trasversalmente ogni aspetto del-l’attività governativa”, attraverso la finestra delle decisioni di nomina, analizzatedal punto di vista dei modelli decisionali, delle caratteristiche delle autorità aven-ti poteri di nomina e del personale reclutato, delle transazioni politiche e socialiche avevano luogo (Lowi, 1964a, 227). Attraverso questo studio Lowi perviene alla prima formulazione delle “arene dipotere”, che consiste nell’identificazione di specifici conflitti ricorrenti all’inter-no della politica urbana, e di ben definite constituency (formate da organizza-zioni di partiti, funzionari di specifici dipartimenti dell’amministrazione, dal sin-daco, etc.) intorno ad aree di attività del governo, aventi ciascuna una distintastruttura di potere. Queste aree sono, in altri termini, la funzione di governovista in un tentativo di astrazione da singole “issue-areas”, ma in base a una stra-tegia di analisi diversa da quella di Dahl (1961). Secondo Lowi, infatti, le “issue-areas” di Dahl sono di natura “transitorie e uniche”, “troppo specifiche”.La considerazione dei differenti effetti sul processo politico, conseguenti al tipodi decisioni prese in ciascuna arena, ci porta alla identificazione delle diversearee dell’attività del governo (e delle relative arene di potere): redistributiva,regolativa, distributiva e costituente. Appare il difficile compito del sindaco nelprendere le decisioni di nomina in tali aree di conflitto, dovendo egli conserva-re uno spirito bipartisan. Per questa ragione, una amministrazione neutrale eprofessionale poteva costituire una risorsa utile da giocare.La presentazione delle (quattro) arene del potere non è qui necessaria, in quan-to si tratta di uno schema noto.Soltanto a fini di esemplificazione, per riportare il filo del suo ragionamento,Lowi evidenzia come a New York vi fosse stato un persistente, quasi istituziona-lizzato, conflitto sulle politiche urbane, polarizzato tra due gruppi, coloro i qualiavevano disponibilità di denaro ed erano pertanto “i pagatori” (banchieri,costruttori, proprietari terrieri, e le altre persone che potevano mobilitare unagrande quantità di risorse finanziarie, oltre a prestigio personale, relazioniinfluenti, etc.) e coloro i quali esprimevano la “domanda di servizi” (consigli cit-tadini per la salute e il welfare, associazioni religiose, di volontariato e non gover-native, settori della burocrazia impiegati nelle politiche di welfare, in aree di ser-vizio sociale, assistenza, etc.). L’arena del conflitto era, infatti, quella della politi-ca sociale e di welfare (istruzione, parchi, salute, etc.), ovvero l’area di attività delgoverno caratterizzata da decisioni di natura redistributiva. I conflitti nel settoredel welfare erano altamente politicizzati, e essendo in gioco principi di giustiziaredistributiva e aspetti di disparità tra classi, sortivano un grande impatto sull’o-pinione pubblica, rappresentando un problema ai fini del consenso politico.I requisiti, cioè le competenze tecniche e di gestione del personale politicoavente responsabilità nell’area di policy relativa al welfare e ai servizi, erano con-siderati alla base del reclutamento, ma, allo stesso tempo, era importante bilan-ciare la competenza tecnica con gli aspetti religiosi ed etnici e prendere in con-

18

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

siderazione le richieste e le proposte dei gruppi di interesse.

4. Il problema dell’analisi di caso negli studi di policy: verso una scien-za del governo

La concettualizzazione delle “arene di potere” in “At the Pleasure of the Mayor”è solo la prima versione di una tesi, che troverà ulteriori approfondimenti empi-rici e teorici.In un articolo del 1964, Lowi problematizzava l’inadeguatezza e la debolezza deicaso di studio effettuati sulla base degli approcci sia pluralista sia elitista al finedi produrre una conoscenza di tipo teorico e generalizzazioni, nella forma dimodelli capaci di comprendere e spiegare il potere politico, di formulare teoriedel potere e del policy-making (Lowi, 1964b). Era infatti disponibile una sor-prendente quantità di singoli casi di studio nel campo delle scienze politiche;tuttavia, mancavano programmi di ricerca e sforzi significativi di accumulazionedelle conoscenze e dei risultati delle ricerche.“Ciascun studio è, semmai, un punto di vista auto-convalidante; l’approccio plu-ralista suggerisce cosa cercare mentre il modello elitista forse suggerisce cosanon cercare” (Lowi, 1964b, 686). In particolare, anche i lavori empirici condottiseguendo interpretazioni pluraliste del sistema politico democratico cadevano inuna sorta di circolo vizioso in quanto i loro “risultati sono pre-determinati dal-l’approccio stesso” (Lowi, 1964b, 681); in altre parole, i risultati della ricerca veni-vano influenzati e viziati dall’ipotesi iniziale con il suo apparato di credenze, valo-ri e presupposti. I ricercatori si muovevano tra livelli descrittivi e normativi dianalisi e le loro conclusioni difettavano di validità esplicativa e di potenziale teo-rico. Tra gli studi di caso citati, troviamo “Who Governs?”, (di cui abbiamo dis-cusso), “American Business and Public Policy”, di Bauer, Pool, Dexter (1972), e“Dixon-Yates: A Study in Power Politics”, di Wildavsky (1962)17.In breve, i limiti delle analisi condotte attraverso un singolo caso-studio sonorelative a:- la capacità di produrre generalizzazioni valide. La conoscenza acquisita è con-testuale e specifica a un singolo campo di indagine; i risultati non sono cumula-bili e non possono essere assunti come base di teorizzazioni (sono “self-direc-ting” e “self-supporting”). La maggior parte di questi studi sono libri che raccol-gono e raccontano storie (Lowi, 1964, 686). Di conseguenza, su di un piano disci-plinare e teorico la conoscenza del processo di policy non avanza. La questioneche si pone allora è: “come migliorare i processi di policy-making in mancanza diconoscenze di carattere generale delle condizioni per governare e degli impattidelle decisioni di governo (vale a dire, degli esiti)?”;- il problema della unicità è “l’handicap di tutti i casi-studio” (Lowi, 1964b, 686),in quanto conduce a prodotti di ricerca piuttosto effimeri;- la maggior parte di questi studi sono analisi di comunità locali e non possonooffrire adeguate conoscenze teoriche sui processi politici nazionali, mentre, vi èla necessità di studi sistematici delle politiche nazionali.In “At the Pleasure of the Mayor”, abbiamo visto la prima formulazione di Lowidi uno schema interpretativo generale, sviluppato per l’analisi della politica urba-na, che propone la classificazione delle politiche pubbliche in categorie funzio-

19

17 Viene fatta eccezione perl’analisi condotta come sin-

golo caso di studio daSchattschneider (1935,

“Politics, Pressures and theTariff”). Per Lowi, essa pos-

sedeva un elevato potenzia-le teorico per sviluppare

un’ipotesi pluralista, sebbe-ne fosse stata oggetto di

interpretazioni fuorvianti,come studio che sposava

l’approccio pluralista nel-l’analisi politica. In questo

studio si ritrovava il mitodelle “coalizioni organizza-

te intorno a interessi e aposizioni condivise...ben

definite poste ingioco...come unica forma

di interazione politica”.“L’arena che descrive era

decentrata e multicentricama le relazioni tra i parte-cipanti erano basate sulla‘mutua non interferenza’tra interessi non comuni”

(Lowi, 1964b, 680). L’idea di“interessi non comuni” alla

base di accordi reciproci,richiama la nostra atten-zione agli sviluppi teoricisuccessivi di Lindblom –all’affermazione di “(un

coordinamento attraverso)il mutuo aggiustamento di

interessi partigiani” e lacontestazione del consenso

come premessa e fonda-mento del governo demo-

cratico.

n.32 / 2012

nali; tale quadro analitico introduce una distinzione tra classi di casi.Contro la rappresentazione prevalente della politica urbana come luogo di dis-persione e sovrapposizione di poteri, Lowi ha teorizzato che era possibile discer-nere, nelle forme di attività di governo, alcuni tipi di politiche pubbliche, alle qualisi poteva attribuire una specifica configurazione del potere e del processo politi-co. A partire da queste premesse era possibile anche ottenere conoscenze piùgenerali sul policy-making, individuare le principali categorie di politiche pubbli-che, arrivando alla formulazione di una tassonomia generale dell’azione di gover-no, un framework che costituisse “una base per cumulare, comparare e metterealla prova risultati differenti. Tale quadro o schema interpretativo potrebbe por-tare a tracciare relazioni tra i diversi casi e risultati, iniziando a suggerire genera-lizzazioni sufficientemente vicine ai dati quanto sufficientemente astratte e signi-ficative per essere oggetto di un più ampio trattamento teorico” (Lowi, 1964b,688). “Una delle virtù dello schema delle politiche è che converte i consueti studidi caso, da cronache e strumenti didattici, in dati” (Lowi, 1972, 300).Un’altra importante possibilità era definire i tipi di funzioni che i governi pote-vano effettivamente svolgere, in base al proprio potere coercitivo. Questa esi-genza andava letta in relazione all’espansione incontrollata del policy-makingche si produceva a livello locale, statale e federale, con una tendenza da un latoalla “europeizzazione della politica americana”, e cioè, alla statalizzazione dellasocietà, e, dall’altro, all’incremento di meccanismi di delega di funzioni e com-petenze di governo a agenzie di gestione, a organismi tecnici appositamentecostituiti. La frammentazione e settorializzazione dell’azione pubblica, tuttavia,rendeva lo stato di diritto sempre più incerto, minando il principio della respon-sabilità democratica del governo, con una diminuzione del rendimento e dellatrasparenza dell’operato. Le agenzie erano infatti strutture di potere, nel sensoche assumevano decisioni molto importanti, dovevano relazionarsi a gruppiorganizzati che avevano accesso alle decisioni politiche, e così via; ma la loro pro-liferazione sortiva l’effetto di disperdere l’azione pubblica in una miriade di cana-li, che non erano sotto il controllo di qualche autorità superiore e non dovevanorispondere al potere politico. Come Lowi sintetizza bene in The End of theLiberalism: “in the city there are many publics but no polity, therefore there islittle law” (Lowi, 1979, 185).

5. Studio sulla leadership nella città universitaria di Oberlin(Wildavsky, 1964)

Per quanto riguarda l’orientamento metodologico della ricerca, in “Leadership ina Small Town” Wildavsky compie una scelta molto diversa rispetto alla “dimen-sione temporale” di Lowi. Egli concentra infatti la sua analisi sulla politica dellacittà di Oberlin (Ohio) in un periodo di tre anni (la ricerca sul terreno viene con-dotta tra il 1958 e il 1961), sebbene alcune informazioni sulla storia locale e i datisulle caratteristiche socioeconomiche e sulle dinamiche demografiche fosserostati raccolti e considerati a partire dal 1833, anno di fondazione della città, rica-vandoli da fonti secondarie18. L’approccio è quello adottato da Dahl (1961), conuna differenza sostanziale, dovuta alla piccola dimensione della città (Oberlin altempo era una comunità di 8.000 abitanti, con una popolazione di 2.000 studen-

20

18 Oberlin, evidentemente,diversamente da New Yorkma anche da New Haven,non era un contesto oggettodi ampi studi; pertanto,Wildavsky aveva dovutoorganizzare soluzioni sullabase di limitate informazio-ni storiche, soprattuttorispetto alle politiche pub-bliche. Per quanto riguardail periodo compreso tra il1927 e il 1957 la fonte prin-cipale di informazione erastata la stampa locale; suglianni dal 1833 al 1927 vierano ancora meno infor-mazioni disponibili. Sui sin-daci della città si eranoinvece ricostruite le infor-mazioni essenziali, concen-trandosi sull’anno 1927,che aveva segnato il passag-gio da un modello di forteleadership del sindacoall’amministrazione delcity-manager e delConsiglio Comunale. Alloragli attori-chiave eranodiventati coloro che aveva-no potere esecutivo, cosìl’interesse per la raccoltadei dati si spostò su di quelli.

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

ti che frequentavano il College ivi situato), un fattore che aveva consentito di ana-lizzare la maggior parte delle “issue-areas” significative dell’attività di governo.Lo studio possedeva un carattere sperimentale anche per l’applicazione delmetodo della ricerca-azione all’osservazione delle relazioni tra città e università.In una certa misura, Oberlin veniva “adottata” da parte dei ricercatori: Wildavskyaveva infatti formato un ampio team, attivando collaborazioni con altri colleghi epiù giovani assistenti e coinvolgendo nella ricerca studenti del suo corso su“State and Local Government”. Anche la città, d’altro canto, aveva “adottato” iricercatori: centinaia di cittadini di Oberlin erano stati variamente coinvolti,come informatori-chiave, osservatori, erano stati intervistati, richiesti di compila-re un questionario o di leggere sezioni dei report di ricerca, anche più volte, etc. A questo proposito, nell’introduzione al volume (“Leadership in a Small Town”),Wildavsky riporta ironicamente l’auspicio espresso dai cittadini, per il futuro: “Illoro lamento scorato – ‘no, non di nuovo’ – l’ennesima volta che orde di studen-ti piombavano su di loro era comprensibile tanto quanto la loro inesauribile dis-ponibilità a cooperare e la loro cortesia era degna di nota” (Wildavsky, 1964, XIV). Questo aspetto del processo di produzione della ricerca va sottolineato per duemotivi: primo, il metodo qui adottato inaugura la prima applicazione di quellache diventerà un qualità peculiare del lavoro di ricerca di Wildavsky (si pensi alleesperienze seguenti, più strutturate, come “The Oakland Project”), innestata nelsolco di una tradizione di partnership “città-università”, relativa alla specificità diuna pratica di formazione, di una logica di indagine, ma anche di forme di inte-razione politica; secondo, Oberlin era una città universitaria, essendo l’OberlinCollege un grosso attore immobiliare e una fonte considerevole di occupazionee di sviluppo economico nella città. La comunità del College, fin dalla sua fon-dazione, aveva anche avuto una funzione essenziale nel promuovere principi epratiche di democrazia a Oberlin. Già nel 1860 infatti vi era una comunità di neri,che costituiva il 25% della popolazione totale della città, e i cui diritti civili, reli-giosi e politici erano rispettati, anche se la comunità tendeva a tenersi ai margi-ni e a delegare le decisioni politiche ai leader bianchi. Allo stesso tempo, la clas-se dirigente del College costituiva una potente elite di intellettuali, animati daposizioni molto idealistiche, che aveva influenza sulla politica locale e che orien-tava il sistema di valori della comunità. Per tutte queste ragioni, la presenza delCollege a Oberlin era un fattore peculiare quanto determinante, che nel tempoaveva influito sulle decisioni locali e sulla configurazione delle relazioni di pote-re della comunità19. Tornando all’indagine effettuata, gli studenti in particolare erano stati richiesti di “effettuare studi di caso sui principali eventi del periodo considerato per l’anali-si, osservare con sistematicità le attività dei principali attori della vita cittadina,somministrare e codificare questionari, condurre indagini storiche. In questomodo, veniva accumulata una notevole base di dati su Oberlin, incluse oltre unmigliaio di interviste” (Wildavsky, 1964, XII). Molti studi di caso erano stati scritti in forma di “case histories” (allo scopo dianalizzare da una prospettiva storica e su una serie di “issue-areas” le relazioni dipotere a livello della comunità e la struttura e i caratteri della leadership aOberlin, venivano effettuati casi di studio incentrati su rilevanti decisioni, cheavevano coinvolto il governo della città quanto la comunità locale) e “role stu-

21

19 I dati relativi alla parteci-pazione dei cittadini erano

chiari a questo proposito:emergeva una netta distin-

zione tra cittadini beneistruiti, intenzionati a dedi-care tempo agli affari loca-

li, e le classi medie, la cuidisponibilità doveva fare iconti con difficoltà e limiti

di natura economica,sociale e culturale.

n.32 / 2012

dies” (quando si trovava evidenza del ruolo determinante e dell’influenza di alcu-ni leaders, come nel caso di attivisti locali o del city-manager; per questo motivo,era risultata strategica l’attività di osservazione partecipante condotta presso gliuffici del sindaco e del city-manager, e in altri contesti). Wildavsky intervistò piùvolte osservatori-chiave e attori che erano stati individuati tra i principali parteci-panti e portatori di interesse, al fine di approfondire alcuni aspetti specifici e risol-vere versioni sugli eventi che erano in evidente contrasto tra loro, o interpreta-zioni contraddittorie. Ampie indagini con questionari strutturati erano state con-dotte parallelamente per raccogliere dati sul grado di partecipazione dei cittadiniagli affari locali, sulla loro disposizione rispetto alla democrazia e sui valori demo-cratici in cui credevano, nonché sulle aspettative che avevano rispetto al governolocale. Questi dati erano poi finalizzati a definire una strategia più generale di par-tecipazione dei cittadini ai processi di decisione pubblica, come viene spiegato inun capitolo dedicato del libro20. Altre indagini con questionario erano mirate adacquisire conoscenze sulle percezioni e opinioni di cittadini e di soggetti più coin-volti negli affari locali relativamente ai sistemi di potere, di leadership, e alla dis-tribuzione dell’influenza nella città di Oberlin. Questi dati venivano poi confron-tati con i risultati delle analisi di caso e tutto il materiale di ricerca prodotto veni-va fatto oggetto di discussione per definire un quadro conoscitivo che tenesseconto delle diverse visioni e rappresentazioni esistenti della politica urbana. Storicamente, il partito politico che aveva prevalso nelle elezioni locali era statoil partito repubblicano. Fino agli anni ’30, pochi leader avevano dominato la mag-gior parte delle decisioni importanti per la città. Nei due decenni successivi lacrescita economica, accompagnata dalla realizzazione di importanti opere pub-bliche nel quadro di progetti di modernizzazione, aveva facilitato sia l’ascesa dinuovi leader locali, come ad esempio uomini d’affari, sia il rafforzamento di alcu-ni dipartimenti dell’amministrazione cittadina (come la CommissioneUrbanistica, responsabile dello zoning). A seguito di decisioni relative allo svi-luppo economico erano sorte una serie di controversie, con la mobilitazione disegmenti della società civile, di associazioni locali, attivisti, che avevano dato vitaa movimenti e a proteste contro alcune decisioni, organizzando petizioni e coin-volgendo un’ampia parte dell’opinione pubblica. Questi gruppi avevano avanza-to la richiesta di referendum locali e di un più effettivo coinvolgimento dei citta-dini negli affari pubblici, e avevano lottato duramente per difendere i loro inte-ressi, per richiamare l’attenzione su specifiche questioni e avere voce nella for-mulazione dell’agenda politico-istituzionale del governo cittadino. Anche se erapossibile individuare tra i leader coloro che avevano più potere, le analisi di casosulla distribuzione di influenza nelle principali decisioni – per molti aspetti svol-te secondo la procedura di misurazione adottata da Dahl21 - avevano dimostratoche “un sistema politico pluralistico, frammentario, competitivo, aperto e flui-do”, che aumentava le opportunità per i singoli, aveva caratterizzato il processopolitico urbano di Oberlin (Wildavsky, 1964, 8). Gruppi d’affari, il College, lastampa locale, gruppi civici, singoli attivisti, associazioni, risultavano tutti varia-mente coinvolti nei conflitti e nelle decisioni, talvolta ottenendo di vincere, altrevolte perdendo. In alcuni casi l’osservazione metteva in luce interventi non coor-dinati e che tendevano a sovrapporsi, in altri, conflitti ostinati che polarizzavanol’opinione pubblica. Le evidenze empiriche erano state fatte oggetto di interpre-

22

20 Le categorie di Dahl eranostate utilizzate, da un lato,per esplorare la partecipa-zione dei cittadini e percapire chi erano i cittadiniattivi di Oberlin e in qualimodi, dall’altro, per svilup-pare un’ipotesi, di una stra-tegia dei cittadini permigliorare la partecipazio-ne.

21 Era stato configurato un“gruppo di leadership”,composto di “tutti quelli cheavevano partecipato aduna particolare decisione eche potevano essere consi-derati quali candidati perla leadership”. Quindi, “sierano tirati fuori coloroche avevano perso e chenon avevano ottenutonulla di quello che voleva-no. Fatto ciò era rimastouna gruppo di leadershipche era una elite, compostada coloro che in qualchemodo avevano contribuitoa garantire un risultato aloro favorevole. All’internodi questa ampia categoria,si era cercato di distingueretra coloro che avevanoavviato, posto il veto, o otte-nuto consenso su una pro-posta di policy” (Wildavsky,1964, 253-254).

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

tazione secondo teorie democratiche rivali (come riportato nel primo capitolodel libro, dove vengono esposte la teoria della democrazia di massa, le teorie eli-tiste, etc.). Il frame pluralista secondo cui “il potere è frammentato tra molti ediversi individui e gruppi, e piuttosto disperso (inegualmente, di certo) nellacomunità”, risultò quello in grado di spiegare il sistema politico di Oberlin.Furono condotti studi di caso in sette “issue-areas”, analiticamente definite –edilizia abitativa, servizi pubblici, politiche sociali, sviluppo industriale, zoning,istruzione, nomine ed elezioni. Alcune questioni oggetto di analisi, come “Lagrande controversia sull’acqua”, generarono “una notevole passione e parteci-pazione”, altre, come “Il piano di fornitura elettrica”, vennero trattate da specia-listi del settore, nominati o eletti per quell’incarico, altre ancora, come il casodelle “Co-decisioni in materia di politica abitativa”, sortirono un grosso impattoe furono sotto l’occhio di tutti, oggetto di giudizio pubblico.L’analisi di caso di Wildavsky si presenta straordinaria, sia dal punto di vista ana-litico sia da quello narrativo, in quanto è un’esplorazione in profondità e nelmicro delle interazioni politiche e sociali e produce una descrizione densa delledinamiche del processo politico. L’attenzione è volta alla costruzione delle poli-tiche, ovvero alla definizione del problema, alle motivazioni e percezioni dei par-tecipanti, alle culture degli attori, all’identificazione delle poste in gioco, ed inparticolare all’implementazione e all’insieme degli esiti che le politiche genera-no – quelli attesi e quelli non voluti, “positivi” e “negativi”. Dalla prospettiva di Wildavsky gli studi di caso come analisi e come narrativesono infatti strumenti essenziali per capire le politiche pubbliche e per impararesulle e dalle politiche22. Nell’analisi dei diversi contesti di policy e delle aree dipolicy-making, Wildavsky persegue due principali interessi di ricerca, in tensio-ne tra loro. Un obiettivo è esplorare una ampia casistica di situazioni di formula-zione e attuazione di decisioni pubbliche, in specifiche aree di domanda socialedi intervento e di attività del governo cittadino, per individuare modelli decisio-nali capaci di offrire quadri interpretativi generali sulle condizioni di contesto,sugli esiti. L’altro obiettivo è esplorare situazioni di decisione pubblica, per osser-vare i processi di formazione e trasformazione delle preferenze, delle credenze,degli interessi dei partecipanti nell’interazione con gli altri partecipanti e a segui-to di processi di produzione di significato, individuale e collettiva, su cambia-menti inattesi e non pianificati o su eventi che si sono verificati nella fase dimessa in opera delle decisioni; in altre parole, l’apprendimento sociale via-inte-razione, che ha luogo con diversi gradi di riflessione e di consapevolezza. Questaprospettiva è “pragmatista”, nel senso che riconosce il valore della pratica e del-l’azione congiunta, quali contesti di produzione di conoscenza, e la rilevanzadelle forme di conoscenza ordinaria, pratica, interattiva per la definizione e iltrattamento dei problemi di policy.Relativamente a quest’ultimo aspetto, Wildavsky condivide il dubbio teorico e laprospettiva analitica di Lindblom, per come di seguito enunciati: “Quale conse-guenza ha il processo stesso (di policy) nel formarsi e riformarsi – forse comeinvenzione o scoperta – di interessi o valori?” (Lindblom, 1965). Per entrambi, ilprocesso di policy è un processo sociale di risoluzione creativa dei problemi.Poste in gioco, problemi e obiettivi possono ridefinirsi attraverso l’interazione ocome conseguenza di cambiamenti inaspettati; nuove soluzioni possono essere

23

22 Nella sua carriera diricerca egli aveva sviluppa-to studi di caso di politiche

pubbliche solitamente incollaborazione, dal

momento che era stato con-vinto dei vantaggi derivanti

dal lavorare assieme conaltri ricercatori, anche con

un background diverso(Wildavsky, 1986). La for-

mazione di giovani scien-ziati politici era basata su

questo tipo di lavoro diricerca.

n.32 / 2012

individuate con la disponibilità di nuove informazioni e risorse, o per la mobili-tazione di nuovi attori. In altri termini, la formazione così come il cambiamentodi preferenze, credenze e volizioni possono essere un sottoprodotto del proces-so e, in ogni caso, sono da considerarsi endogeni al processo.In un articolo pubblicato nel 1970 (cfr: Public Administration Review), Lowi hafortemente attaccato l’approccio di policy di Lindblom in quanto “non definito”,“troppo permissivo, troppo inclusivo” (Lowi, 1970, p. 318). Diversi sono i punticontroversi:1) Lindblom assume che il policy-making è decision-making – “la policy è unoutput di un qualsiasi decisore...ed è un outcome di un qualsiasi processo”, che idecisori siano governi o gruppi non governativi, che il processo sia un compro-messo politico, o l’implementazione di un ben definito programma di interventi,o qualcosa che semplicemente può accadere, egli tende a operare “come se ilcarattere sostantivo o il livello di quell’output non abbia conseguenze sul proces-so mediante il quale l’output diventa un output” (Lowi , 1970, 317). Mentre, ilcarattere delle scelte effettuate è rilevante per la comprensione degli esiti attesi23.2) “Operare sul presupposto che la policy sul piano sostanziale – il livello istitu-zionale – è parte del ceteris che è paribus porta non soltanto alla posizione ideo-logica del tecnocrate (...) ma anche a impossibilità sul piano logico e empirico”(Lowi, 1970, 319).Lowi riconosce che i lavori teorici di Lindblom offrono una differente interpreta-zione di questo ultimo punto, sottolineando la profonda comprensione cheLindblom sviluppa del funzionamento del policy-making nei sistemi politicidemocratici, in particolare con riferimento alla strategia dell’incrementalismodisgiunto24; tuttavia, egli mette in evidenza anche l’ideologia accademica che èintrinseca al suo approccio e che rispecchia le tipiche idee liberali e democrati-che prevalenti tra gli scienziati sociali del tempo, fiduciosi della potenzialità chesia la policy analysis sia la cittadinanza attiva hanno di migliorare la costruzionedelle politiche, e con queste la qualità della democrazia e la qualità di vita.Fondamentalmente, la prospettiva di Wildavsky al policy-making è simile, dac-ché egli vede l’esperienza di attuazione e valutazione delle politiche pubblichedi per sé come un’occasione e una condizione per “imparare ad apprendere”, siaper i decisori che per i partecipanti che per gli analisti politici. Questo approcciolimita il senso di una definizione a priori delle caratteristiche e delle proprietà diciascun tipo di politica, e delle condizioni per formulare e attuare le politiche pub-bliche, rendendo priva di significato anche la determinazione delle conseguenzespecifiche, o degli impatti attesi delle politiche sul sistema politico. Lo studio diLowi dimostra invece che è possibile individuare le principali differenze tra tipi dipolitiche pubbliche, associate a distinti processi politici. In questo senso, peresempio, “dal momento che la maggior parte dei casi di studio di analisi delpolicy-making scritti da scienziati politici, in particolare tra gli anni ’30 e ’40,hanno riguardato la regolamentazione normativa, c’è poco da sorprendersi cheritenessero di essere in grado di fornire generalizzazioni dell’intero processo dipolicy-making. Così come non c’è da stupirsi che essi abbiano descritto il siste-ma nel suo complesso come in trasformazione, coalizionale, pragmatico, nego-ziale, ove l’outcome è prodotto e vettore di forze interagenti “(Lowi, 1970, 323).Quest’ultima annotazione critica di Lowi è gravida di conseguenze. Se guardia-

24

23 Lindblom concettualizzail policy-making come“social problem solving”.Nelle società complesse con-temporanee pluraliste e neisistemi politici democratici,i partecipanti al social pro-blem solving sono personecomuni: “molte persone –di diverse opinioni – cheesprimono posizioni infor-mate e ponderate su comemeglio fare”. Essi sono:“comuni cittadini, politici,amministratori e funziona-ri pubblici, capi di organiz-zazioni private, opinionleaders, esperti di variotipo, inclusi anche gli scien-ziati sociali” (Lindblom,1990, X; VIII). Il social pro-blem solving attiva processidi indagine e risorse diconoscenza, professionali enon professionali, aperte einterattive “per cui nonesploriamo prima e poiagiamo ma continuiamo aesplorare e apprendere inciascuna azione che intra-prendiamo” (Lindblon,1990, 30). In lavori prece-denti (1979; 1980) Lindblomaveva spiegato i concettialla base della sua teoriz-zazione del social problemsolving e della “intelligenzadella democrazia”.

24 La posizione anti-tecno-cratica di Lindblom, che siritrova nella sua originaleinterpretazione di Dewey(Torgerson, 1995), è ampia-mente riconosciuta. La suarappresentazione del pro-cesso di policy come“mutuo aggiustamento diparte” (con riferimento agliattori partecipanti) escludela fuorviante nozione dellepolitiche come “il prodottodi una mente che governa”(Lindlom, 1965, 4). “Eglicerca di ridurre le pretesedi un professionalismo che

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

mo agli studi di caso sviluppati da Wildavsky in “Leadership in a Small Town”, eseguiamo lo schema interpretativo di Lowi e la sua tassonomia delle politichepubbliche, ci rendiamo conto che si tratta di casi prevalentemente di politicheregolative e redistributive.Coerentemente con quello schema, ci aspettiamo che i casi di studio in questio-ne siano: la descrizione di contesti socio-politici plurali e frammentati, caratte-rizzati da elevata “clearance” e con numerosi “decision points” (utilizzando ledefinizioni di Wildavsky, introdotte in “Implementation”, 1973, per analizzarecomplessi processi di costruzione delle politiche), assai ambigui rispetto allamolteplicità degli effetti di policy; e/o la descrizione di ostinati conflitti, caratte-rizzati da una polarizzazione degli attori partecipanti attorno a una posta ingioco, in un contesto ricco di diversi tipi di mobilitazione e attivazione, dovenuovi imprenditori di policy, eventi o cambiamenti imprevisti, faticose contrat-tazioni e strategie di negoziazione possono eventualmente condurre ad una ride-finizione di posizioni quasi istituzionalizzate, e ad accordi.Gli studi di casi raccolti nel libro sono proprio di questa natura.Dovremmo concludere, dunque, che Lowi e Wildavky impiegando due approccidi analisi diversi avevano ottenuto risultati empirici simili, e che la differenza dibase consiste nella difficoltà di raggiungere generalizzazioni attraverso la viaadottata da Wildavsky. Inoltre, non sembra opportuno teorizzare il “potenzialedemocratico, in generale” delle politiche pubbliche guardando, fondamental-mente, agli effetti di decisioni di natura regolativa, in quanto essi sono nella real-tà altamente pluralizzati e differenziati. Tuttavia, l’argomentazione di Wildavskysi pone, a questo proposito, in coerenza con il suo approccio di policy: i parte-cipanti hanno percezioni differenti e opinioni plurali sui problemi e su comedefinirli, così come sulla posta in gioco, etc., e tali differenze sono costitutivedella pluralità sociale e, sul piano cognitivo, della mente dell’uomo. Pertanto, ciòche, per un partecipante, può essere inteso come un effetto redistributivo di unapolicy può, per un altro, essere inteso come un effetto regolativo. E, in base alleproprie diverse cornici interpretative e a ciò che apprendono, essi (i partecipan-ti) prendono delle decisioni, e agiscono, in accordo o in conflitto. L’attuazione ela valutazione delle politiche conducono a interpretazioni e rappresentazioniplurali: l’interazione è un presupposto necessario per l’apprendimento sociale eistituzionale. Questa è una buona ragione per indagare le politiche pubblichecome processi di interazione sociale. Inoltre, il potenziale di democratizzazionedelle politiche pubbliche dovrebbe essere considerato come un sottoprodotto(eventuale) del processo di policy; miglioramenti della qualità democratica nonpossono essere intesi esclusivamente come esiti attesi (pianificati) di soluzionidall’alto, troppo razionali e frutto di ingegneria sociale.

6. “Astrazione” versus “situazionale”

Riassumendo, la visione del processo di policy introdotta da Wildavsky e Lindblomsi discosta, su un piano epistemologico, dalla concettualizzazione avanzata da Lowi.In primo luogo, vi è una differenza nel modo di concepire lo studio di caso. PerWildavsky, l’analista di policy collega eventi e elementi rilevanti in un quadrointerpretativo e in una narrativa (dove le percezioni e le prospettive degli attori

25

invoca l’autorità di unaconoscenza specialistica e

astratta, programmata perinformare ‘il decisore’”(Torgerson, 1995, 243).

n.32 / 2012

trovano un posto importante), apprendendo da fonti di informazione eteroge-nee e da diversi tipi di conoscenze. Le politiche sono costrutti strategici e anali-tici. Mentre per Lowi, la raccolta sistematica dei dati e le “serie temporali” eranonecessarie al fine di chiarire una “sequenza di eventi prima di imputare loro qual-siasi nozione di relazione” (Lowi, 1964a, 231).In secondo luogo, e in connessione con il punto di cui sopra, l’interesse di ricer-ca di Lowi era definire categorie di politiche (come aree di attività del governo)astraendo (dai processi) quelli che erano gli attributi significativi – ovvero, leposte in gioco – delle diverse identificabili “issue-areas”: la tassonomia e lo sche-ma interpretativo delle politiche pubbliche proposti avevano questa funzione, didefinire le decisioni tipiche, rendendo possibile determinare, a monte, qualierano le poste in gioco che i partecipanti potevano aspettarsi di ottenere in ogniramo di operatività del governo (Lowi, 1964a, 229). Le prospettive o le aspettati-ve (come finalità di potere) dei partecipanti appaiono modellate da meccanismiistituzionali, disposizioni del governo e “strutture di potere”. Per questo motivo,“è di grande importanza distinguere se la decisione in questione è di natura rego-lativa o redistributiva (...) La determinazione di quali cose devono essere otte-nute dal governo va fatta prima di impegnarsi in uno studio complesso dimodelli informali di condotta” (Lowi, 1964a, 231).Sia Lowi sia Wildavsky, entrambi interessati alle dinamiche di potere e alle razio-nalità del potere, hanno sostenuto che studiando i processi di costruzione dellepolitiche si poteva sviluppare una comprensione del funzionamento del potere.Entrambi condividevano, inoltre, la convinzione che non era possibile esplorareil rapporto tra politica e politiche in modo de-storicizzato.La differenza principale, significativa sul piano della teoria politica, stava nel fattoche per Wildavsky lo studio delle politiche (la comprensione del policy-makinge l’indagine nelle politiche pubbliche), muove dal particolare e dal locale, sotto-lineando il carattere “situato” dei processi di policy (dalla formazione delle issuesalle decisioni, all’attuazione). Il problema di base in quest’orientamento è forni-re una conoscenza a carattere generale delle politiche pubbliche. In proposito,Wildavsky aveva indicato la via dell’approfondimento sistematico di questioni econtesti “per finalità esplicative e per essere di utilità agli amministratori”, evi-denziando come “differenze nei contesti di formazione delle issues incidono sulcomportamento dei decisori (...)” (Wildavsky, 1962, 718 ). Più in generale, la sua concezione delle politiche come azioni e come esiti, inten-zionali e inattesi, che da queste hanno luogo, insiste in una tradizione che valo-rizza le forme di conoscenza pratica, interattiva, e la capacità deliberativa, intesacome una competenza ad agire nelle situazioni concrete di decisione e di inter-vento, dunque in relazione ad un particolare contesto, secondo una razionalitàdi processo più che una razionalità tecnica-scientifica25. Il lavoro di ricerca di Lowiè invece orientato a dare fondamento scientifico allo studio delle politiche, all’in-terno della scienza politica. La formulazione di un modello per l’analisi delle poli-tiche era essenziale per posizionare solidamente gli studi di policy nella tradi-zione teorica e universalistica delle scienze politiche e sociali, per costruire unascienza delle politiche26. “In termini di potere, stiamo parlando di ‘strategico’contro ‘costituzionale’ pensando all’antitesi lotta-controllo, conflitto-consenso”(Flyvbjerg, 2001, 108).

26

25 Secondo Flyvbjerg questatradizione ha le sue radiciin Aristotele e si ritrova intempi moderni inMachiavelli e Nietzsche(2001). Per ulteriori chiari-menti su quest’argomento siveda Gangemi (1999), chesviluppa una articolatavisione delle connessionitra metodologia e teoriademocratica; sulle forme diconoscenza utili per l’azio-ne, Lindblom e Cohen(1979); Crosta (1998).

26 Questa tradizione derivavia Kant da Platone e intempi più recenti ha comeesponente di spiccoHabermas.

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

Le implicazioni per la teoria politica sono molteplici.Secondo Wildavsky, lo studio del processo di policy utilizzando la metodologiadello studio di caso implicava di concentrarsi su contenuto, contesto e strumen-ti della politica pubblica e sulle complesse interazioni tra questi elementi. Perquesta via era possibile accumulare esperienza e apprendimenti sui processi dipolicy; tuttavia, su di un piano epistemologico, l’astrazione di modelli e formulegenerali per l’elaborazione e costruzione delle politiche e per il trasferimento,agito dall’alto, di schemi di policy da un contesto ad un altro, appariva imprati-cabile e insensata, in quanto i processi di policy sono inestricabilmente intrec-ciati con i contesti di produzione e attuazione. Il trasferimento di una policy daun contesto di pratiche ad un altro era, se mai, connesso a forme adattive ovolontarie degli attori coinvolti, in processi di apprendimento sociale. Le differenze negli interessi di ricerca tra Wildavsky e Lowi possono essere spie-gate anche in relazione alla loro diversa visione del pluralismo, e dei suoi pro-blemi. Entrambi prendevano in considerazione la complessità del governo urba-no e del processo politico, in contesti caratterizzati dalla frammentazione degliinteressi, da reti, gruppi e coalizioni ‘a legami deboli’. Nella loro analisi, la rap-presentazione di un sistema multi-centrico di decisioni plurali e di una societàframmentata rimpiazzava l’immagine semplificata di una unica, pervasiva, elitesocio-economica dominante la vita pubblica, in una ideale e rassicurante coesio-ne. Pertanto, se la realtà della politica consisteva in continue, estenuanti con-trattazioni tra portatori di interessi, non coordinati in azioni comuni e di solitonon collaborativi, in un contesto di poteri frammentati e separati, nasceva lanecessità di coalizioni (stabili, integrate) e di azioni cooperative tra settori e atti-vità del crescente apparato del governo locale e nel processo di governo, più ingenerale. Wood era stato illuminante, a questo proposito, quando aveva affer-mato che, nei processi politici urbani, coloro che a partire dalle domande socia-li decidevano quello che era l’interesse generale costituivano diversi e separaticentri di potere, ciascuno operante senza una reale cognizione e conoscenzadegli altri. Come Sayre, Kaufman, Dahl, Banfield e gli scienziati politici che eranoseguiti avevano dimostrato, a causa della molteplicità degli attori di politiche edella pluralità degli interessi, delle idee e delle credenze, degli obiettivi e delleposte in gioco, il sistema politico urbano sembrava una“lista della lavanderia”,vale a dire, una lista casuale di elementi vari. Inoltre, la scena urbana era caratte-rizzata da un continuo cambiamento: le coalizioni continuamente costruivanoconvergenze, si scioglievano e si riorganizzavano (Wood, 1963, in Crosta, 1990,70-94). Ora, a partire da questi apprendimenti, comuni, Wildavsky (come Dahl),da un lato, aveva scelto di indagare le “issue-areas” attorno alle quali i gruppi siaggregavano in coalizioni (indipendentemente da loro carattere transitorio) e iconflitti che ne risultavano, cercando di sviluppare una conoscenza delle carat-teristiche proprie di situazioni interattive (“issue-contexts”). Egli aveva analizza-to il contesto d’azione e come differenti partecipanti ritraevano diversamente ilproblema in questione, come le loro proprie convinzioni così come le culture ei vincoli istituzionali influenzavano la definizione e la risoluzione dei problemi, ecome questi fattori nel loro assieme erano determinanti nella crescita e polariz-zazione dei conflitti tanto quanto nella loro risoluzione. Lowi, d’altro canto, erainteressato all’astrazione dai casi particolari di una conoscenza generalizzabile

27

n.32 / 2012

delle politiche pubbliche per definire una tipologia dell’azione coercitiva delgoverno e dell’influenza dei governi sulla vita dei cittadini, coerentemente allatesi secondo la quale le politiche determinano la politica.

7. Concettualizzando la politica e le politiche urbane

Ulteriori sviluppi nella concettualizzazione del processo politico urbano sonopresentati da Lowi in un capitolo dedicato della sua opera magistrale “The Endof the Liberalism” (1969, 1979) e da Wildavsky in un’opera, che ha fatto scuola,sull’implementazione delle politiche (con Pressman, 1973) e in una ricerca suc-cessiva, pubblicata (“Urban outcomes”, 1974). In “The End of the Liberalism” le città sono viste come parte di una più genera-le “tragedia americana” e in una fase negativa della storia urbana americana, quel-la della grande “crisi urbana”, vale a dire, dell’incapacità delle città di sostenerese stesse e i propri cittadini (Lowi, 1979, 167). In particolare, Lowi aveva focaliz-zato due aspetti: l’indebolimento della struttura del governo urbano, prodottoda vari fattori che aveva analizzato, che in molti casi avevano portato a inade-guatezze nella gestione dei nuovi problemi sociali, nella mancanza di una rifles-sione sistematica sulla stessa azione governativa. Tra i fattori della crisi urbana: lospostamento delle popolazioni urbane dalle aree centrali a quelle periferiche e,di conseguenza, la dispersione insediativa, con la formazione di regioni metro-politane di fatto e la proliferazione di molte giurisdizioni governative e zone sub-urbane, ciascuna delle quali definiva la propria tassazione, le decisioni di zoniz-zazione, provvedeva separatamente alla fornitura di servizi pubblici, indipenden-temente dalla concreta sostenibilità dei costi economici e della funzione inte-grativa sul piano sociale, che storicamente era stata una caratteristica distintivadelle città americane, al punto che “per molti decenni gli Stati Uniti sono statiuna nazione di città”. Durante gli anni ’60 i conflitti urbani esplosero nella formadi scontri, con il peggioramento delle condizioni di povertà urbana, dei fenome-ni di esclusione sociale; il deterioramento della coesione sociale e la crisi gene-rale prodotta dalla frammentazione dei governi urbani incontravano gruppi diprotesta, che chiedevano assistenza, servizi, con grossi problemi di consensopopolare. Nelle parole di Lowi, “le aree suburbane sono finzioni, finzioni giuridi-che ...parassiti”. I vari sforzi di inglobamento di queste aree causavano ulterioriproblemi di integrazione. In aggiunta a queste dinamiche, in quegli anni, un altroaspetto significativo era stata la definitiva frammentazione della “old machine”(con riferimento all’organizzazione e alle caratteristiche politico-amministrativedel governo urbano) sostituita a seguito di riforme nazionali dalla “new machi-ne”, altamente efficiente e capace di una buona gestione (la riforma del recluta-mento del personale dell’amministrazione pubblica aveva portato a una nuovaclasse di professionisti ‘neutrali’ e di amministratori e burocrati con competenzespecialistiche), ma politicamente irresponsabile e con effetti sulla capacità delleistituzioni di governo cittadino di fare leggi. Cioè a dire, “la crisi nelle città è statasul piano dell’inefficienza dell’azione del governo e sul piano della illegittimitàdei governi” (Lowi, 1979, 185).La crisi urbana provocò l’intervento del governo federale, consistente nella pia-nificazione e nel sostegno di programmi per le città, di intervento diretto o indi-

28

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

retto (il coinvolgimento federale nella vita urbana si produsse sistematicamentea partire dal 1957), che dovevano essere sufficientemente “vaghi, per quantoriguarda la giurisdizione, i metodi, lo scopo, gli oggetti, e qualsiasi altra dimen-sione, in cui un amministratore richieda orientamento ... cercando di consegui-re la loro generalità attraverso la delega piuttosto che attraverso definizioni ocategorizzazioni” (Lowi, 1979, 189). Di conseguenza, era necessaria una totalediscrezionalità nel trattare le situazioni locali, il che condusse a diverse soluzionie a differenti risultati.Con queste premesse, e in questo quadro, il lavoro di ricerca di Wildavsky pub-blicato nel 1973 fu indirizzato all’analisi e alla valutazione dell’attuazione di nuoviprogrammi federali, sperimentali, in uno specifico contesto urbano, la città diOakland in California. La storia della difficile e, alla fine, altamente fallimentareattuazione di un programma di sviluppo e rigenerazione urbana, nelle aspettati-ve atteso come virtuoso e di successo, e apparentemente semplice a realizzarsi,condusse alla dimostrazione e spiegazione della rilevanza di alcuni fattori propridel processo di implementazione, e in particolare delle conseguenze impreviste,di aspetti sottovalutati e di effetti indesiderati, e della straordinaria molteplicitàdi decisioni e di interdipendenze che un programma atteso come “semplice”poteva comportare. Da questo punto di vista, l’apprendimento in corso d’azioneemerse come la risorsa chiave per le organizzazioni così come per i singoli indi-vidui coinvolti nei processi di attuazione delle politiche. Inoltre, l’analisi dellapolitica urbana aveva evidenziato le conseguenze della separazione della politicadalla gestione amministrativa (in passato teorizzata da Woodrow Wilson). La cittàdi Oakland era amministrata secondo il modello di governo del “Council-Manager”, e non secondo il modello del “Mayor-Council”27, in base al quale: “Inteoria, il sindaco guida l’opinione pubblica, il Consiglio formula le politiche, e ilcity manager le attua. Ma in pratica, il rapporto tra politica e amministrazione aOakland è fortemente influenzato dalla personalità degli uomini che guidano gliuffici dell’amministrazione cittadina e dalla grande disparità di risorse disponibi-li per i politici da un lato, e per l’amministrazione dall’altro (...) Armato dei suoicospicui privilegi, il city manager definisce “le politiche” e “l’amministrazione”in modo che “l’amministrazione” aumenta di molto il proprio fulcro e “le politi-che” lo riducono”28 (Pressman, 1972, 514-5).

Riferimenti bibliografici

Ball, T.(1995), “An Ambivalent Alliance: Political Science and AmericanDemocracy”, Political Science in Theory (Farr J., Dryzek J.S., Leonard S.T. eds.),Cambridge University Press, pp. 41-66Banfield, E. C. (1958), Moral Basis of a Backward Society, New York, Free Press Banfield, E. C. (1961), The Political Influence, New York, The Free Press of GlencoeBanfield, E. C., Meyerson M.(1955), Politics, Planning, & the Public Interest,New York, The Free Press of GlencoeBanfield, E. C., Q. Wilson (1963), City Politics, Cambridge, MA, HarvardUniversity Press.Bachrach, P., Baratz M. S. (1970), Power and Poverty, Theory and Practice, NewYork, Oxford University Press

29

27 Per le città che rientrava-no nella classe di popola-

zione di Oakland (250.000-500.000), il sistema del

“council-manager” era lapiù popolare forma di

governo.

.28 Lo stipendio annuo delcity manager era quattro

volte superiore a quello delsindaco (che, di conseguen-za, non poteva dedicarsi a

tempo pieno a quel lavoro);lo staff del city-manager eracomposto da numerosi fun-

zionari, mentre quello delsindaco da un numero

ridotto.

n.32 / 2012

Bauer, R. A., Pool F., Dexter, L.A. (1972), American business & public policy: thepolitics of foreign trade, Chicago, Aldine AthertonCalise, M.(1999), Theodore J. Lowi. La Scienza delle politiche, il Mulino, BolognaCapano, G., Giuliani M.(1996), Dizionario di Politiche Pubbliche, La Nuova ItaliaScientificaCrosta, P.L.(1973, a cura di), L’urbanista di parte. Ruolo sociale del tecnico epartecipazione popolare nei processi di pianificazione urbana, Milano,Franco AngeliCrosta, P.L. (1990a, a cura di), La produzione sociale del piano, Milano, Franco AngeliCrosta, P.L. (1990b), “La politica urbanistica”, in B. Dente (a cura di) Le politichepubbliche in Italia, Bologna, il Mulino, pp. 259-279Crosta, P.L. (1995), La politica del piano, Milano, Franco Angeli Crosta, P. L. (1998), Politiche. Quale conoscenza per l’azione territoriale,Milano, Franco AngeliDahl, R. A. (1956), A Preface to Democratic Theory, Chicago, University ofChicago PressDahl, R. A. (1961), Who Governs? Democracy and Power in an American City,New Haven, Yale University Press Della Porta, D. (1999), La politica locale, Bologna, il MulinoHunter, F. (1953) Community Power Structure. A study of decision makers,Chapel Hill, University of North Carolina PressJennings, K.M. (1964), Community Influentials: The Elites of Atlanta, Glencoe,The Free PressFlyvbjerg, B. (2001), Making Social Science Matter, Cambridge University PressGangemi, G. (1999), Metodologia e Democrazia, Milano, GiuffrèGunnel, J.G. (1995), “The Declination of the ‘State’ and the Origins of theAmerican Pluralism”, Political Science in Theory (Farr J., Dryzek J.S., LeonardS.T. eds.), Cambridge University Press, pp. 19-40Lasswell, H. D. (1958), Politics: Who Gets What, When, How, Cleveland, TheWorld Publishing CompanyLindblom, C. E. (1965), The Intelligence of Democracy, New York, Free PressLindblom, C. E., Cohen D. H. (1979), Usable Knowledge, New Haven andLondon, Yale University PressLindblom, C. E.(1980), The Policy-Making Process, Englewood Cliffs, NJ,Prentice-HallLindblom, C. E. (1990), Inquiry and Change, New Haven, CT, Yale University PressLowi, T. J. (1964a), At The Pleasure of The Mayor, Glencoe, Free PressLowi, T.J. (1964b), “American Business, Public Policy, Case Studies, and PoliticalTheory”, Word Politics, Vol. 16, No. 4, pp. 677-715 Lowi, T. J. (1970), “Review: Decision Making vs. Policy Making: Toward an Antidotefor Technocracy”, Public Administration Review, Vo. 30, No.3, pp.314-325Lowi, T. J. (1972), “Four Systems of Policy, Politics, and Choice”, PublicAdministration Review, Vol. 32, No 4, pp. 298-310 Lowi, T. J. (1979), The End of Liberalism. The Second Republic of the UnitedStates, New York, WW: Norton, II EditionOstrom V., Tiebout C. M., Warren R. (1961), “The Organisation of Governmentin Metropolitan Areas: A Theoretical Inquiry”, The American Political Science

30

Francesca Gelli Analisi delle politiche e teoria politica:

Review, Vol. 55, No. 4, pp. 831-842Polsby, N. (1963), Community Power and Political Theory, New Haven, YaleUniversity PressPressman, J. L. (1972), “Preconditions of Mayoral Leadership”, The AmericanPolitical Science Review, Vol. 66, No. 2., pp. 511-524Pressman, J. L. (1975), Federal Programs and City Politics. The Dynamics of theAid Process in Oakland, Berkeley, University of California PressPutnam R. D., Leonardi, R., Nanetti, Y. (1993), Making Democracy Work. CivicTradition in Modern Italy, Princeton, Princeton University Press Sartori, G. (1970, a cura di), Antologia di scienza politica, Bologna, il MulinoSartori, G. (1979), La Politica, logica e metodo in scienze sociali, Milano, SugarCOSayre, W. S., Kaufman H. (1960), Governing New York City. Politics in theMetropoli, Schattschneider, E.E. (1935), Politics, Pressures and the Tariff, New York,Prentice-HallSola, G. (1996), Storia della scienza politica, Roma, Nuova Italia Scientifica“Short Ballot needed to simplify American politics”, The New York Times,14/12/1913“The Short Ballot Movement to Simplify politics”, The National Short BallotOrganisation, 1915Torgerson, D. (1995), “Policy Analysis and Public Life”, Political Science in Theory(Farr J., Dryzek J.S., Leonard S.T. eds.), Cambridge University Press, pp. 225-52Wildavsky A. (1962), “The Analysis of Issue-Contexts in the Study of Decision-Making”, The Journal of Politics, Vol. 24, No. 4, pp.717-732Wildavsky, A. (1962b), Dixon-Yates: A Study in Power Politics, New HavenWildavsky, A. (1964), Leadership in a Small Town, Totowa, N. J., Bedminster PressWildavsky, A., Pressman J.L. (1973), Implementation, University of California PressWildavsky, A., Levy, F.S., Meltsner, A.J. (1974), Urban Outcomes, University ofCalifornia PressWildavsky, A. (1986), “On Collaboration”, Policy Sciences, Vol. 19, No. 2, pp. 237-248Wildavsky, A. (1987), Speaking Truth to Power. The Art and Craft of PolicyAnalysis, Boston, Little BrownWilson, W. (1887) “The Study of Administration”, Political Science Quaterly, 2, JuneWood, R.C. (1963), “The Contributions of Political Science to Urban Form”,Urban Life and Form (W.Z. Hirsch ed.), New York, Holt, Rinehart and Winston,in Crosta (1990a)

31

1. Scienziati propagandisti.

Nel suo discorso tenuto l’8 marzo 1934 all’Assemblea plenaria del Cnr il presi-dente Guglielmo Marconi chiamava la scienza italiana alla mobilitazione per lacostruzione di un impero (Maiocchi, Roma 2003, 39). A quella data i preparativiper la guerra di invasione dell’Etiopia erano ormai avviati da tempo e per il fasci-smo era giunto il momento di passare alla chiamata alle armi del popolo italiano,scienziati compresi. Gli scienziati cominciarono a rispondere, pur con una certaflemma: nell’autunno seguente si tenne a Napoli il secondo congresso italiano distudi coloniali, ma l’attesa di una adesione entusiasta dei ricercatori andò delu-sa: “Parecchi – scriveva il Senatore Camillo Manfroni, ordinario di Storia e politi-ca coloniale all’università di Roma- e tra essi alcuni dei più autorevoli cultori distudi coloniali, hanno promesso la loro collaborazione, hanno indicato l’argo-mento delle loro comunicazioni o relazioni e poi non si son fatti più vivi”(Manfroni, 1935, 912). Gli scarsi partecipanti, poi, non avevano dimostrato ungrande interesse per l’Etiopia, alla quale non era stata dedicata nessuna relazione. I più sensibili all’appello del regime furono quegli studiosi che già avevano avutoesperienze in campo coloniale e che vedevano nel nuovo clima che si andavacreando una ghiotta occasione di far accrescere il riconoscimento pubblico delproprio lavoro. Ad esempio Edoardo Zavattari, cattedratico a Roma, esperto dibiologia delle colonie che aveva al proprio attivo varie missioni compiute nei ter-ritori libici, futuro firmatario del Manifesto della razza, inaugurava l’anno 1935della “Rivista delle colonie”, nel momento in cui la rivista assumeva “un’impron-ta di combattimento” (Zavattari, 1935, 13), affermando l’importanza primariadello studio scientifico nella realizzazione della conquista coloniale: “La conqui-sta coloniale è, a occupazione compiuta e a operazioni militari ultimate, un pro-blema esclusivamente scientifico, e prevalentemente biologico” (Ivi, 14). Il paeseconquistato - proseguiva Zavattari - va conosciuto in tutti i suoi molteplici aspet-ti mediante una attenta e meditata attività di ricerca, in assenza della quale lasemplice occupazione militare può risolversi in un fallimento: “La storia delleimprese coloniali di tutti i paesi è dolorosamente ricca di esempi tragici, in cui lamancata valutazione di un fattore biologico, apparentemente secondario, hacondotto a disastri veramente colossali” (Ivi, 16). Zavattari non nutriva dubbi inproposito: “La conquista coloniale è un problema squisitamente, esclusivamen-te scientifico e come tale quindi deve essere affidato alla esperienza e alla com-petenza dei tecnici e degli scienziati” (Ibidem).La volontà di dare una veste “scientifica” alla politica coloniale si scontrava con laquasi assoluta ignoranza circa le risorse e le genti del paese che ci apprestavamo

32

Roberto Maiocchi

Gli scienziati italiani e la guerra d’EtiopiaViaggiando tra le costellazioni del sapere

Roberto Maiocchi Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia

a conquistare. In attesa di poter esercitare la propria opera sul terreno, gli stu-diosi si dovettero accontentare di accompagnare la propaganda del governo conquel poco che già si sapeva (o si pensava di sapere) sul futuro possedimento. Adesempio Carlo Conti-Rossini, il nostro maggior esperto di letteratura etiope, nelsettembre del 1935, pochi giorni prima dell’inizio delle ostilità, pubblicava unarticolo nel quale sosteneva, con argomentazioni che si adattavano a qualsiasipaese africano, che l’Abissinia è incapace di evoluzione e di progresso civile, dun-que risulta giustificata la sua conquista (Conti-Rossini, 1935, 171-177).Molti corsero il rischio di avventurarsi in previsioni radiose pur basandosi su datiincertissimi. Ad esempio Ettore Cesari e Angelo Testa dell’Ufficio studi idraulicidell’UNIFIEL, l’associazione delle imprese elettriche, basandosi solo sulleapprossimative carte geografiche e geologiche esistenti, studiarono come pro-durre energia idroelettrica sfruttando il lago Tana. Si azzardarono a dire che ilcosto per kwh non sarebbe risultato certamente superiore a quello relativo ai piùfavorevoli impianti idroelettrici costruiti in Italia (Cesari-Testa, 1936, 725-810).Non appena furono inviati tecnici sul posto, costoro dissero che occorreva ras-segnarsi al termoelettrico, in quanto i costi dell’idroelettrico sarebbero statienormi (“Energia elettrica, 1937, 244). A guerra iniziata questa applicazione del metodo scientifico a dati inesistentidivenne una pratica diffusa in ambienti accademici. É notevole il fatto che a que-sta tendenza non si sottrassero neppure coloro che avrebbero dovuto articolarei propri ragionamenti su basi statistiche, cioè i demografi. Anzi, proprio tra i cul-tori di statistica iniziò un movimento di pensiero che volle dimostrare l’utilitàdell’Etiopia colonizzata senza avere informazioni specifiche. Molti dei nostrimigliori studiosi di scienze socio-economiche si impegnarono a convincere il let-tore che le colonie si sarebbero dovute necessariamente rivelare un fattore disviluppo per l’economia italiana. Se Rodolfo Benini, il decano degli scienziatisociali italiani, aveva benedetto l’impresa etiopica quale soluzione dei nostri pro-blemi (“Occupare la terra per vivere è un diritto naturale delle genti. Occuparnetanta quanta può servire, non solo ai bisogni attuali, ma a quelli ragionevolmen-te prevedibili della stirpe in via di sviluppo, è ancora un diritto”, R. Benini, 1936,2), molti altri nomi di prestigio si impegnarono in una lunga polemica contro “ilacchè dei grandi imperi” (Mortara, 1937, 173), in genere inglesi, che si sforzava-no di dimostrare la scarsa utilità economica delle colonie per quegli stati che nepossedevano. Da Giorgio Mortara a Giovanni Demaria, da Giovanni Balella aRiccardo Bachi, da Francesco Vito a Corrado Gini con i suoi allievi PaoloFortunati e Nora Federici1, e tanti altri2, fu ovunque un fiorire di studi statistici,politici, storici, teorici, per mettere in risalto i grandi vantaggi materiali e demo-grafici che dai paesi coloniali sarebbero derivati alla Madrepatria e convincereche la tesi dell’inutilità delle colonie “deve far sorridere – a tu per tu con se stes-so - ogni suo avvocato che non sia un perfetto cretino” (Mortara, 1937, 173).Questi scritti erano in larga misura apriorici, in quanto ricorrevano a dati relativiai rapporti tra le potenze coloniali affermate (Inghilterra, Francia, Olanda,Germania) e le rispettive colonie, e riuscivano ad argomentare che in questi casii possedimenti erano stati di vantaggio per quelle nazioni. Cosa ben diversa erariuscire a dimostrare che anche nel caso specifico dell’Italia e delle sue colonieciò si sarebbe ripetuto.

33

1 Balella (1936, pp.788-811);Demaria (1936, pp. 768-87);

Mortara (1936, pp.175-8);Mortara (1938, pp.531-5);

Gini (1938, pp.1073-9); Gini(1936); Bachi (1937);

Demaria (1937, pp. 381-400); Vito (1938); Fortunati(1940, pp.151-72); Federici

(1938, pp.37-51).

2 Cfr. ad es. Garino Canina(1937, pp. 261-9);

Bellincioni (1936);Giordano (1936, pp. 450-4);

Cioni (1940, pp. 122-32).

n.32 / 2012

Ma per dare una vernice di scientificità al programma coloniale non era necessa-rio per uno scienziato scrivere saggi ponderati sulla prospettiva aperta dalla guer-ra, bastava partecipare alle iniziative propagandistiche del regime. Per tutto ilperiodo della guerra d’Africa il regime fascista si preoccupò di esercitare un’a-zione propagandistica intensa, capillare, martellante, utilizzando i mezzi e leoccasioni più svariate. Gli scienziati ebbero un ruolo di primo piano in questolavoro, fornendo, con la loro adesione pubblica ai programmi, alle iniziative, allecelebrazioni del governo, del partito, delle corporazioni, delle istituzioni unapotente copertura di razionalità scientifica. Vi fu una saldatura pubblica senzaincrinature tra le parole d’ordine della guerra e dell’autarchia, da una parte, e leragioni della scienza e della tecnica, dall’altra, saldatura che rappresentò nell’im-maginario collettivo le imprese che appaiono le più irragionevoli alla stregua didettati della scienza e della tecnica più avanzate. L’ideologia del nazionalismoscientifico-tecnico, mirante a mettere la scienza al servizio della patria, sortadurante la Grande Guerra3, si trasformò con l’inizio delle attività belliche in Africain un atteggiamento bellicoso ed arrogante che si esprimeva in discorsi e scritticon i quali i nostri maggiori scienziati divennero tribuni, garanti entusiasti dellescelte politiche di fondo del governo e ufficiali di un disciplinato esercito di ricer-catori. Gli esempi sarebbero moltiplicabili a piacere, ma basterà qualche cennoper dare una idea generale del clima di consenso che la guerra generò in moltiesponenti della comunità scientifica.Luigi Rolla, chimico di statura internazionale, in precedenza sempre moderatonelle sue esternazioni, in periodo sanzionistico così si esprimeva: “Mentre infu-ria la folle bufera scatenata contro l’Italia in nome di principii che sono nel piùstridente contrasto cogli inconfessati moventi che ispirano atti e parole di colo-ro che rappresentano quell’impero che esercita l’egemonia più vessatoria sulmondo, la propaganda per il prodotto italiano è rivolta soprattutto alle industriechimiche. I nostri chimici, inquadrati nelle loro corporazioni, si prefiggono direagire nel modo più efficace liberando il Paese dall’asservimento straniero, uti-lizzando tutte le risorse della nostra terra; e l’università italiana, che vanta le piùgloriose tradizioni del mondo, guida e disciplina i nobili sforzi dei tecnici, for-mando le menti e temprando i caratteri” (Rolla, 1936, 5). Domenico Meneghini,esperto dell’industria zuccheriera e alcooligena: “I biliosi censori ginevrini nullapotranno, con le loro inique sanzioni, contro questa industria fiorente che traela sua origine dai campi bonificati, dal sole e dal paziente e sapiente lavoroumano, e dà alla Patria in mille rivoli: energia di carboidrati, di carburanti e diesplodenti, e nulla ha da chiedere all’estero, ma ad esso forse avrà qualche cosada insegnare” (Meneghini, 1936, 177). Giovanni Morselli, personalità eminentenel campo delle ricerche e delle realizzazioni farmaceutiche, celebrava la procla-mazione dell’Impero senza risparmiarsi: “I chimici italiani fascisti, ferventi patrio-ti per nobilissima tradizione, salutano coll’animo gonfio di commozione e diorgoglio l’aurora dell’Impero. Innalzano il loro pensiero al Re vittorioso impera-tore di Etiopia, simbolo glorioso della Patria immortale, gridano il loro sconfina-to amore al Duce fondatore dell’Impero, genio purissimo, espresso fatidicamen-te dalle profonde, arcane virtù creatrici della razza. I chimici italiani consapevolidella potenza costruttiva della loro scienza, nelle sue proteiformi possibilitàapplicative, fieramente aspirano di partecipare alla nuova fatica che attende il

34

3 Cfr. Maiocchi (2004, p.21 ess.)

Roberto Maiocchi Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia

popolo italiano, per fecondare l’Impero” (Morselli, 1936, 221).Trattando dellametallurgia Livio Cambi traeva spunto per attaccare “le pingui borghesie stranie-re, i superati ideologi delle nazioni che tentano di sabotare le nostre vittorie, [iquali] questo non potevano prevedere: contavano sulla modestia del nostropotenziale industriale! Non possedevano però, e non posseggono il metro permisurare questa passione e questa coscienza, questa nostra mistica dedizionealla Patria, che il Duce ha suscitata, traendola dall’anima millenaria della nostrarazza” (Cambi, 1936, 242). Chiaro, chiarissimo, in particolare era il nesso che eravenuto ad instaurarsi definitivamente tra sviluppo dell’economia autarchica epreparazione ad una nuova guerra. Parravano assicurava che “gli italiani consi-derano l’attrezzatura autarchica della Nazione come un necessario completa-mento dell’attrezzatura militare, e daranno tutte le loro energie per completarlae mantenerla in piena efficienza” (Parravano, 1936, 338).

2. Gli istituti di ricerca al lavoro

Oltre agli scritti d’occasione, scienziati e tecnici si impegnarono nella stesura disaggi di varie dimensioni sulle risorse (peraltro ignote) della nuova colonia, dicui si darà cenno più avanti. Pur con tutta la migliore buona volontà, il singoloricercatore non poteva certo pensare di dare un serio contributo conoscitivodell’Etiopia, ed era evidente la necessità di passare attraverso iniziative collettivedi esplorazione. I vari istituti desiderosi di acquisire benemerenze cominciaronoa mettere a punto iniziative di vario genere non appena le nostre truppe intra-presero l’avanzata.Alcuni istituti erano strutturalmente destinati ad occuparsi di problemi coloniali.Su tutti4 spicca il Centro Studi Coloniali di Firenze, discendente dall’IstitutoAgricolo Coloniale Italiano fondato nel 1904, ribattezzato nel 1938 IstitutoAgronomico per l’Africa Italiana5. Su incarico del Ministero dell’Africa Italiana,sotto la guida del suo direttore “storico” Armando Maugini, questo istitutocominciò a svolgere una intensa attività di ricerca, oltre che di formazione, asostegno delle sperimentazioni in campo agrario che si facevano in colonia,inviando in Africa tecnici, organizzando spedizioni e tentando di risolvere queiproblemi che via via erano segnalati da coloro che operavano Oltremare. Nellasua attività il centro era coadiuvato dal Centro sperimentale agrario e zootecni-co dell’A.O.I6.Altre istituzioni scientifiche nulla avevano a che fare con i problemi coloniali, mavollero comunque farsi partecipi dell’entusiasmo che accompagnò l’impresaetiopica. Chiunque fosse rimasto ai margini dell’attività celebrativa sarebbe statovisto con sospetto dalle autorità. In alcuni casi questi interventi di istituti neofitiin campo coloniale diedero buoni risultati, in altri casi l’esito fu meno felice.Tra i tentativi riusciti si segnala quello dell’Accademia d’Italia. L’Accademia, fon-data da Mussolini nel 1926 ma inaugurata ufficialmente nel 1929, riuniva i mag-giori esponenti della cultura italiana e aveva sostanzialmente funzioni di rappre-sentanza. Nel gennaio del 1936, quando la guerra in Etiopia poteva considerarsiancora agli inizi, all’interno dell’Accademia venne fondato il Centro Studi perl’A.O.I., dovuto sopra tutto all’iniziativa di Alberto De Stefani, grande nome del-l’economia e della politica italiane, il quale riuscì ad ottenere finanziamenti da Iri,

35

4 Ad esempio: l’Istituto fasci-sta dell’Africa italiana,L’Istituto per l’Oriente,

l’Istituto Orientale dellaRegia Università di Roma,

l’Istituto Orientale diNapoli, la napoletana

Società Africana d’Italia,l’Istituto Geografico Militare

di Firenze, le Scuole diClinica delle Malattie

Tropicali e Sub-tropicalidelle università di Roma,Torino, Milano, Padova,

Modena, Messina, Bologna,il Giardino Coloniale di

Palermo, L’ErbarioColoniale di Firenze.

5 Nel 1959 divenne IstitutoAgronomico per

l’Oltremare.

6 Il centro pubblicava larivista “Agricoltura colo-

niale”, che consente unprimo orientamento circale attività svolte. L’attuale

Istituto Agronomico perl’Oltremare conserva unvastissimo archivio delle

attività svolte negli anni delfascismo. Il relativo indice,ricchissimo di informazio-

ni, è disponibile nel sitointernet. Sulla storia dell’i-

stituzione cfr. AA. VV.(2007). Sul direttore

Maugini cfr. AA.VV. (1989);Maugini e Fabbri (1998, pp.

195-234).

n.32 / 2012

Banco di Roma, Banca d’Italia, Previdenza sociale, e altri. La presidenza fu assun-ta dallo stesso De Stefani e la direzione dal geografo e paleontologo GiottoDainelli (Vedovato, 2009, 381-421). Il programma del Centro prevedeva di stu-diare ogni anno una regione dell’Impero, di volta in volta indicata dal ministrodelle colonie, intendendo così affermare che il proprio scopo era quello di “pro-muovere ricerche direttamente e unicamente al servizio del governo e dellostato” (Dainelli, 1938, 5). Coerentemente con questo progetto, nel novembre1936 fu decisa di comune accordo con il ministero la realizzazione di quella chesarebbe rimasta la più celebre delle spedizioni esplorative in Etiopia, quella diret-ta da Dainelli nella regione del lago Tana. Le notizie, sia pur vaghe, che si posse-devano indicavano questa regione (pur di difficile accesso) come quella più adat-ta a una colonizzazione ad opera di agricoltori bianchi. La partenza avvenne nelgennaio del 1937 e la spedizione durò sette mesi. Tra i nomi dei partecipantispicca quello di Lidio Cipriani, portatore di una cultura razzista estremista, maindubbio conoscitore dell’antropologia e dell’etnologia africane per le numero-sissime esplorazioni compiute nel Continente nero7. I materiali riportati, riguar-danti i molteplici aspetti geografici, biologici e antropologici della regione,cominciarono ad essere resi pubblici nel maggio 1938 e furono poi alla base diuna monumentale pubblicazione8. Dopo questa missione, gli aspetti etnograficie antropologici dell’Etiopia continuarono ad essere studiati con missioni di pro-porzioni assai più modeste, che iniziarono a tracciare i contorni di quell’intrica-tissimo mosaico antropologico formato dalle popolazioni etiopi9.Specularmente a enti che, come l’Accademia, si seppero improvvisare africanisticon qualche successo, ve ne furono altri che non riuscirono a tener fede al pro-prio passato di azione coloniale. Sopra tutti spicca la gloriosa Reale SocietàGeografica Italiana di Napoli. Questa associazione era stata per decenni la massi-ma tribuna della cultura e della politica del colonialismo e nella fondazione del-l’impero essa vedeva l’avverarsi di un sogno10. Subito dopo la proclamazione del-l’impero fu votato un ordine del giorno in cui la Società rivendicava a sé “il dove-re e il diritto morale di continuare l’opera degli antichi suoi dirigenti e pionieri”(Surdich, 1938, 447). Venne quindi con prontezza elaborato un programma diesplorazioni, cui affiancare una azione di divulgazione delle conoscenze dispo-nibili sui territori conquistati.Il piano di esplorazione fu trasmesso alle massime autorità coloniali, ma rimasesenza risposta. Nella riunione societaria del 23 dicembre 1938 (nel corso dellaquale vennero espulsi senza discussione i soci ebrei) si dava notizia che per i pro-getti di esplorazione in Etiopia si era ancora in attesa di una risposta del Viceré.Nel frattempo le proposte fatte, relative alla Dancalia meridionale e all’Aussa,erano divenute obsolete per via dei viaggi intrapresi da altri: “si propone perciòa S.A. il Viceré di voler additare altra meta di più utile esplorazione.” (BollettinoSocietà Geografica Italiana, 1938, 350). Nel consiglio direttivo del 22 marzo 1939 era annunciato che in una riunione traCorrado Zoli (presidente della Società) e il Viceré era stato stabilito un piano dimissioni per le quali il Governo Generale dell’Etiopia avrebbe fornito mezzi euomini (Ivi, 1939, 462). Anche questo progetto finì nel nulla e il 6 novembre 1939il consiglio, dopo aver ricordato l’ennesimo invio alle autorità di progetti diesplorazione rimasti senza risposta, concludeva amaramente che le “vicende

36

7 Su Cipriani rinvio a quan-to ho scritto in Maiocchi(1999).

8

Cfr. Reale Accademiad’Italia. Centro studi perl’Africa Orientale Italiana,Missione di studio al lagoTana, vol. I. A questo volu-me ne seguirono poi altri 7.

9 Oltre a Cipriani, che conti-nuò a viaggiare in Etiopia,e a Emilio Scarin, vannoricordati i nomi di M. DeGaslini, M.M. Moreno, S.Nava, T. Piccirilli, A.Pollera, N. Puccioni, A.Vandone, F. Zanon, R.Bellotti, R. Biasutti, R.Corso, A. Mizzi, G. Villari, E.Cerulli, R. Trevisani. B.Francolini. V. Grottanelli.

10 “Non è senza commozionee senza legittimo orgoglioche la Reale SocietàGeografica Italiana, vedeoggi compiersi, per sagaciadi dirigenti, per vittoriad’armi, per virtù di popolo,il sogno più ardito, il piùardente vaticinio de’ suoimaggiori. Di qui partironogli studiosi, i ricercatoripazienti, i pionieri votati alsuccesso o al sacrifizio, iviaggiatori inquieti, imagnifici esploratori peradditare all’Italia sulContinente Nero questa viamaestra della prosperità,della potenza e della gloria.[...] Qui, in questa modestafucina, fu tenuto vivo ilfuoco sacro della appassio-nata ricerca scientifica, delgeneroso spirito d’avventu-ra, anche nei tempi grigidella sventura immeritata edella codarda rinunzia.Qui si conservò la fede, quisi nutrì la speranza, qui siforgiò la nuova coscienzacoloniale degli Italiani, quimaturò il proposito delle

Roberto Maiocchi Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia

politiche” avevano “sospeso ogni invio in A.O. di missioni esplorative di qualsia-si genere” (Ivi, 1940, 159).Nei loro tentativi di mettersi in evidenza, le varie associazioni scientifiche simostrarono spesso gelose del proprio operato, rifiutando, fin dove possibile, lacollaborazione di istituzioni che erano ritenute rivali. Il caso più clamoroso fuquello in cui il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) dovette subire le sgar-berie del Ministero delle Colonie e dell’Accademia d’Italia. Il CNR, fondato nel1923 e poi “fascistizzato” nel 1929, era il maggior centro di ricerca italiano11.Aveva una struttura complessa, entro la quale tuttavia non trovavano spazio atti-vità con qualche interesse per gli studi coloniali. Nonostante questo il CNR nonvolle essere escluso dal fiorire di attività miranti a contribuire alla conoscenzadelle nuove terre dell’Impero. Il Direttorio aveva preso per tempo una iniziativa in merito, e nel febbraio 1935

aveva proposto al Ministero delle colonie la costituzione di una commissione perle prospezioni minerarie nei territori d’Oltremare, ma dal ministero non era arri-vato alcun cenno di risposta e nel mese di dicembre fu avanzata direttamente aMussolini la proposta di organizzare una missione che, seguendo dappresso leavanzate dei nostri “eroici soldati”, eseguisse prospezioni sulle terre conquistatee “saggi di sabbie aurifere nel Tigrai”12. Il Duce non rispose, in compenso nel feb-braio rispose, finalmente, il Ministero delle colonie, dicendo che la proposta delCnr non interessava per il momento e che si preferiva “differirla ad epoca piùfavorevole”. Nel frattempo, il 19 gennaio l’Accademia d’Italia aveva deliberato,come si è visto sopra, l’invio di missioni scientifiche in Etiopia, e il Direttoriodecise allora di prendere contatti con l’Accademia per poter mandare i propriemissari a sondare le ricchezze etiopiche. Neppure l’Accademia d’Italia mostròdi apprezzare l’offerta di collaborazione del Cnr, anche se, val la pena di ricor-darlo, le due istituzioni erano presiedute dalla stessa persona, GuglielmoMarconi, e non rispose fino al termine della guerra d’Africa, quando fece sapereche non era sua intenzione fare ricerche minerarie nelle colonie (cosa non vera).Il Direttorio non si scoraggiò e l’8 maggio, il giorno prima della proclamazionedell’Impero, visto il momento propizio e l’euforia circolante, rilanciò la propostadi una commissione mineraria al Ministero delle colonie, questa volta, però, ten-tando di ottenere l’appoggio di Mussolini. La risposta non fu totalmente negati-va, ma neanche positiva, visto che alla fine di giugno il Cnr aveva pronto un pianodi ricerche da effettuarsi nelle Colonie “da sottoporre al momento opportunoall’approvazione del Ministero delle colonie”. In particolare, sembrava fosse pos-sibile avviare un lavoro di rilievo fotogrammetrico dell’Etiopia. Marconi, da partesua, aveva disposto, in qualità di presidente dell’Accademia d’Italia, che allesedute presso l’Accademia della commissione costituitasi (ormai da cinquemesi!) per missioni scientifiche in A.O.I. fosse presente anche una rappresen-tanza del Cnr. Improvvisamente, l’1 luglio, fu pronta a partire una commissionedi chimici, che poco aveva a che fare con la preventivata fotogrammetria, sottola direzione di Henry Molinari.Le proposte di valorizzazione dell’Etiopia che la missione esplorativa fece al suoritorno, avvenuto nell’agosto, furono a dir poco sconsolanti. Si segnalava la pre-senza di grani duri di buona qualità, ma occorreva creare dal nulla un’industriapanificatrice che li sfruttasse; vi era una fabbrica di alcool capace di produrre solo

37

gesta d’Oltremare” (Zoli1936, p. 484). Corrado Zoli,

presidente della Società, erastato governatore

dell’Eritrea dal 1928 al 1930e aveva scritto nel 1935 un

libro sull’Etiopia: Etiopiad’oggi, Roma, Soc. Arti

Grafiche,1935.

11 Sulla storia del CNR rinvioa Maiocchi (2004).

12

Su questa vicenda rinvioal lavoro appena citato.

n.32 / 2012

spiriti per liquori ed era necessario riorganizzarla per metterla in grado di forni-re anche alcool combustibile; la disponibilità di pelli suggeriva l’opportunità diavviare una produzione di pelli per calzature, ma sarebbe stato indispensabileintrodurre tecniche di concia differenti da quelle primitive in uso; le stentatepiantagioni di cotone potevano essere affiancate da un’industria tessile che sifondasse sui macchinari italiani e sull’impiego di filati indiani per integrare quan-to veniva ricavato dal territorio etiopico (le cui risorse si riducevano dunque allamano d’opera); l’uso locale, infine, di lasciar marcire i cascami della macellazio-ne andava combattuto con misure che incentivassero la loro utilizzazione. Ma piùche sugli esiti deludenti di questa missione, val la pensa di spendere qualcheparola su Molinari13. Questi era persona ben nota alla polizia per le sue attivitàispirate all’anarchia. Aveva rifiutato di giurare fedeltà al regime fascista e per que-sto aveva dovuto abbandonare l’insegnamento universitario. Visto i suoi trascor-si, la polizia gli negò il passaporto per recarsi in Etiopia e dovette intervenireMussolini per fargli avere il permesso di espatrio Anche negli anni seguentiMolinari ebbe incarichi governativi molto importanti, partecipando anche ai lavo-ri di commissioni di interesse strategico, la cui attività era mantenuta segreta.Evidentemente il Duce era disposto a chiudere un occhio sulle simpatie politi-che di tecnici di vaglia e, d’altro canto, tecnici antifascisti si lasciarono attrarre dalfascino dell’impresa africana.

3. L’organizzazione in colonia

Tutte le attività provenienti dalla madrepatria furono affiancate dall’opera dinuove strutture costituite nei territori conquistati. Era un nuovo apparato statalequello che occorreva organizzare. La legge per l’ordinamento e l’amministrazionedell’AOI approvata nel Consiglio dei ministri del 2 giugno 1936, nota come “leggeorganica”, stabilì un quadro normativo generale entro il quale andavano inseritinumerosissimi provvedimenti diretti a regolamentare nei dettagli la vita in colo-nia. É ben moto che la “legge organica” si basava sul principio di non concederealcun potere ai ras abissini, escludendoli completamente dall’amministrazione; èaltresì noto che questa impostazione si rivelò rapidamente un errore, responsa-bile di enormi difficoltà nella gestione della società etiope, errore dettato da unascarsissima conoscenza della struttura sociale e della mentalità abissine. In questasede è interessante notare che a suggerire questa impostazione fallimentare aMussolini e al neo-ministro delle Colonie Alessandro Lessona, fu Enrico Cerulli(Dominioni, 2008, 71). Cerulli fu un funzionario del ministero degli esteri che rag-giunse posti di grande responsabilità nell’amministrazione coloniale, ma fu ancheuno studioso di letteratura e storia del Corno d’Africa riconosciuto in tutto ilmondo come grande autorità in materia, dunque sembrerebbe la persona piùadatta a consigliare Mussolini sul modo migliore di trattare con le popolazionietiopi. La sua ricchissima produzione accademica14, tuttavia, non gli impedì di for-nire al Duce indicazioni assai discutibili, segno questo di una conoscenza inade-guata delle genti del costituendo Impero a tutti i livelli.Nella seconda metà del 1936 il lavoro di organizzazione dei nuovi territori colo-niali fu, dal punto di vista normativo, assai intenso. Per noi è di particolare inte-resse il decreto-legge 14 dicembre 1936 n.2374, con il quale vennero istituiti i ser-

38

13 Su questa figura cfr.Galbani (1988, vol. 1, pp.255-8).

14 Per citare solo i maggiorititoli: Folk-literature of theGalla of Southern Abyssinia,Cambridge, (Mass.), 1922.;Etiopia Occidentale (dalloScioa alla frontiera delSudan). Note del viaggio,1927-28, 2 Vol. Roma, 1930-1933; Documenti arabi perla storia dell'Etiopia, Roma:G. Bardi, 1931; Studi etiopi-ci. Vol. I: La lingua e la sto-ria di Harar, Roma: IstitutoPer L'oriente, 1936; Studietiopici. Vol. II: La lingue ela storia dei Sidamo, Roma:Istituto Per L'oriente, 1936;Studi etiopici. Vol. III: Il lin-guaggio dei Giangerò edalcune lingue Sidamadell'Omo (Basket, Ciara,Zaissè). Roma; Istituto PerL'oriente, 1938.

Roberto Maiocchi Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia

vizi tecnici del Ministero delle Colonie. Oltre al corpo di polizia coloniale e a quel-lo degli interpreti coloniali, furono avviati ruoli destinati a ingegneri, tecnici agra-ri, medici e chimici: corpo sanitario, genio civile, minerario, agrario, postelegra-fonico. Non fu previsto un corpo coloniale dedicato all’attività industriale, cosache la dice lunga sulle speranze di poter avviare una qualche attività industriale.L’organico previsto per questi servizi, corpo di polizia a parte, era estremamen-te ridotto e a un gruppo complessivo di una decina di ingegneri furono affidaticompiti relativi ad un paese grande 4 volte l’Italia! Generalmente i nuovi tecnicicoloniali non erano nuovi, poiché si preferì spostare in Etiopia persone che giàoperavano in Libia.Gli uffici che ricevettero le maggiori attenzioni furono quelli relativi alle ricercheminerarie, che sembravano offrire le migliori prospettive economiche. Nelmarzo 1937 fu decisa la costituzione di un Ispettorato Generale Minerario conuna dipendente Sezione Geologico-Geofisica presso il Governo Generaledell’AOI, ad Addis Abeba, e di uffici minerari presso gli altri governi. L’ufficio cen-trale iniziò a lavorare nel giugno 1937. I cinque uffici periferici (Asmara,Mogadiscio, Gimma, Gondar, Harar) cominciarono nei primi mesi del 1938,quando fu stabilito con decreto 21 febbraio 1938 n.1422 l’ordinamento minera-rio dell’AOI, completato con decreto 3 giugno 1938 n.1412. Tutti questi ufficiebbero un organico ridicolmente sottodimensionato rispetto alle necessità. Trai compiti di questi uffici coloniali, probabilmente il più importante15 era quello dipreparare e accompagnare le iniziative economiche pubbliche e private fornen-do informazioni circa una realtà della quale nessuno sapeva quasi nulla.Tutte le attività di studio e di propaganda coloniale erano nominalmente guida-te dall’Ufficio Studi del ministero delle colonie. I compiti di questo organismoerano molteplici: raccolta e aggiornamento di dati e notizie, fornitura di questeinformazioni agli studiosi, agli enti e alle amministrazioni dello stato, disciplinadelle istituzioni di cultura e propaganda coloniale, coordinamento delle attività,cura dei rapporti con istituti coloniali internazionali, organizzazione di missionidi studio, ricerche scientifiche e esplorazioni, pubblicazione di studi e monogra-fie coloniali, cura delle traduzioni, del servizio cartografico, del servizio statistico,dell’archivio storico, nonché del Regio Museo Coloniale. Non esiste uno studiocirca la reale attività di questo ufficio. Se ne può soltanto valutare l’attività pub-blicistica, che fu copiosa, alternando manuali di formazione dei tecnici destinatiin colonia, con corpose monografie. L’impresa di maggior respiro è costituitadalla serie di volumi “Annali dell’Africa Italiana”16, ricchi di notizie, di dati e di ana-lisi, lontani dall’ansia propagandistica e celebrativa che caratterizza la maggiorparte della pubblicistica coloniale di quegli anni.

4. Alla scoperta dei tesori del sottosuolo

Quello che in Italia si sapeva delle ricchezze minerarie d’Etiopia alla fine dellaguerra si riduceva al contenuto di due articoli di autori tedeschi17, già comparsiin Germania, tradotti e pubblicati nel primo numero (del luglio 1936) di unanuova rivista, “Materie prime d’Italia e dell’Impero”. Uno dei due autori, RobertHesse, aveva diretto le aurorali attività di ricerca mineraria volute dal Negus, dun-que, almeno lui, parlava con cognizione di causa. Le indicazioni fornite in questi

39

15 Gli uffici dovevano istrui-re le pratiche delle richiestedi concessione, controllare

che venisse rispettata lalegge, che le tecniche adot-

tate fossero razionali, effet-tuare esplorazioni in pro-

prio.

16 Gli “Annali”, curatidall’Ufficio Studi, furono

pubblicati da Mondadori.Essi rappresentano la fonteprincipale di informazionisull’attività dell’Ufficio stes-

so.

17 Geier (1936, pp.4-12);Hesse ( pp.13-26).

n.32 / 2012

articoli confermavano la presenza di giacimenti auriferi, senza aggiungere altro.Gli studi italiani del 1936 non facevano che ripetere questa tesi: si sa che c’è del-l’oro, non si sa altro18. Peraltro nella letteratura internazionale circolavano studiche affermavano positivamente che le possibilità minerarie abissine non eranoincognite, bensì nulle19.La rivista ora citata, che veniva alla luce nel 1936, era quasi esclusivamente dedi-cata alle risorse minerarie dei territori africani, segno evidente del grande inte-resse che suscitava la questione. Promotore e anima della rivista fu FrancescoSavelli, direttore e proprietario di miniere. Savelli rappresentò una delle pochis-sime voci critiche che si levarono pubblicamente in quegli anni contro la politi-ca del governo nelle colonie. Partendo da una iniziale piena adesione20 Savelli siorientò su posizioni sempre più lontane dal fascismo. Aderì al Partito d’Azione edurante l’occupazione nazista di Roma, mise a disposizione del partito la suatipografia per la stampa della propaganda antifascista e del giornale “ItaliaLibera”. Il 5 gennaio 1944, in seguito a una delazione, venne arrestato e portatoa via Tasso, dove fu ripetutamente torturato. Il 24 Marzo venne prelevato dal car-cere di Regina Coeli e trucidato alle Fosse Ardeatine.Nel valutare la politica mineraria del fascismo in AOI Savelli partiva della convin-zione che prima dell’intervento dei grandi enti di sfruttamento delle risorse eranecessario un lavoro di studio scientifico minuzioso. Il governo aveva invecefatto immediatamente grandi concessioni a gruppi privati21, riducendo la possi-bilità di esplorazioni scientifiche disinteressate ai territori più impervi e con piùscarse prospettive. Tra i gruppi privati, poi, due avevano avuto un trattamentopreferenziale che configurava una condizione di quasi monopolio: la SocietàAnonima Mineraria AOI presieduta dal Piero Puricelli, monopolista dei lavoristradali in Italia, con capitale 51% italiano 49% tedesco, e la Compagnia MinerariaEtiopica, tutta italiana con presidente Guido Donegani, monopolista del merca-to chimico. Vale la pena di notare che la spedizione Puricelli partita nel marzo1937 era composta da undici studiosi tedeschi e solo quattro italiani. La presen-za affatto simbolica di tecnici tedeschi è riscontrabile in molte altre missioni. Il grande spazio concesso alle iniziative private, a parere di Savelli lasciava adito aldubbio che non rimanesse nulla da fare per la compagnia mineraria statale, l’AMAO(Azienda Mineraria Africa Orientale), che pure aveva dimensioni ragguardevoli22. Ildubbio era rafforzato dalle prime missioni dell’AMAO, che furono diretteall’Eritrea, non all’Etiopia (missione Bonarelli-Riboni e missione Bartoli-Bulano-Sevieri). Questa preoccupazione che all’AMAO non fosse rimasto più nulla da farein Etiopia era forse eccessiva, poiché, se è vero che i gruppi privati ebbero i boc-coni migliori, è anche vero che il territorio da esplorare era immenso.Già le conoscenze topografiche si erano rivelate lacunose o errate nel corso dellaguerra e spesso i nostri ufficiali avevano incontrato più difficoltà ad orientarsiche a combattere il nemico. Nel giugno 1936 furono predisposti da enti vari deiprogetti per la redazione di una carta geografica dell’AOI su basi scientifiche. Ilministero delle Colonie e quello della Guerra si litigarono la direzione dei lavori.Alla fine, il compito di realizzare una carta 1:400.000 in quattro anni venne affi-dato all’Istituto Geografico Militare di Firenze, il quale dovette sopportare nonsolo le critiche di Lessona, ministro delle colonie rimasto insoddisfatto, maanche quelle dei colleghi militari dell’aeronautica, il cui capo di stato maggiore,

40

18 Cfr., tra i tanti: Ravizza(1936); Penta (1936, pp.128-175).

19 Cfr. Lamare (1935, pp.147-9).

20 Si veda il primo editorialedella rivista, intitolato Noisaremo degni.

21 Le aziende che ebberoconcessioni minerarie furo-no effettivamente molte. Adesempio, oltre alle due cita-te nel testo, operarono inAfrica: ACCAI, MAESIA,TORAT, Prasso, Tamanti,SAPIE, AMMI, SMIT (italotedesca), COMINA,SAMAOI(italo tedesca),ACAI, Società Mica.

22 Nel febbraio 1938 l’AMAOaveva un personale dipen-dente composto da 90nazionali e 1500 indigeni,con 2 trattori, 20 autocarrie 900 bestie da soma. Cfr.rivista “Materie primed’Italia e dell’Impero” 1938,p.57.

Roberto Maiocchi Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia

nonché sottosegretario all’aeronautica Giuseppe Valle, più volte dichiarò il lavorodell’Istituto Geografico carente dal punto di vista scientifico (Dominioni, 2008,39-42)23. Questa situazione tesa provocò ritardi e i rilevamenti topografici inizia-rono solo nei primi mesi del 1938. Le carte 1:400.000 rimasero una chimera.Le conoscenze geologiche pregresse si limitavano sostanzialmente all’Eritrea, allaDancalia e alla parte nord della Somalia ed erano frutto delle ricerche di GiuseppeStefanini e Paolo Vinassa de Regny24. Del resto, nel 1936 cominciavano appena adarrivare informazioni affidabili dai territori libici (Desio,1936, 273-281)25. Varie mis-sioni geologiche e minerarie, private e pubbliche, cominciarono nel 1937 a pene-trare nelle regioni etiopi. Lo sforzo di maggior rilievo fu quello compiutodall’AGIP, l’ente pubblico fondato nel 1926 destinato alla ricerca petrolifera. Nel1937 e nel 1938 l’AGIP, in collaborazione con l’Accademia d’Italia, organizzò variemissioni geologiche e minerarie, tra le quali spiccano le due missioni fatte daMichele Gortani (dell’università di Bologna) e Angelo Bianchi (dell’università diPadova) in Somalia, Dancalia, Ongaden e Harar. I due realizzarono una carta dellaDancalia e dell’Hararino di fondamentale importanza26. Dal punto di vista mine-ralogico le missioni AGIP non fornirono indicazioni entusiasmanti. I risultatimigliori l’AGIP li ottenne con i giacimenti petroliferi delle isole Dahalac, di frontea Massaua, dunque in territori che già possedevamo prima della guerra.Fu tutto il complesso di ricerche a dare risultati deludenti27. Nel gennaio 1937l’ingegner Luigi Usoni, che era a capo dell’ufficio minerario di Addis Abeba, dopoaver ricoperto posizione analoga in Eritrea, sottolineava la quasi totale ignoran-za vigente circa le risorse minerarie etiopi, comprese quelle relative al fantoma-tico oro (Usoni, gennaio 1953)28. Un anno dopo l’ignoranza aveva lasciato il postoalla delusa consapevolezza di un territorio privo di interesse minerario.Intervenendo al Senato nel marzo del 1938 Paolo Vinassa de Regny, già ordina-rio di Geologia nonché rettore dell’università di Pavia, registrava la caduta deifacili entusiasmi di un anno prima e indicava la necessità di un maggior realismo(Vinassa de Regny, 1938, 139). Anche la produzione dell’oro appariva ben lonta-na dalle aspettative. Già nel settembre 1937 Davide Fossa, ispettore del lavoroper l’AO, scriveva al Ministro Lessona che nella produzione dell’oro (ma non soloin quella) “abbiamo perduto terreno rispetto alla situazione del governo negus-sita” e Lessona rispondeva che quanto detto da Fossa era “esattissimo”29. E’ bennoto che l’effetto complessivo dell’impresa coloniale sulle riserve auree italianefu catastrofico: nel 1934 le riserve erano 5.811 milioni, nel 1938 erano calate a3.074 milioni (Tuccimei, 1999, 169).

5. Ricchezze agricole

Di fronte alle delusioni generate dalle ricerche nel sottosuolo, poteva esservi lasperanza di consolarsi con buoni risultati nelle attività agricole. Circa le condi-zioni e le possibilità dell’agricoltura in Etiopia non si sapeva molto più di quantonon si sapesse dei minerali. La propaganda del governo aveva però dato grandespazio alle prospettive che la guerra avrebbe aperto agli agricoltori, prometten-do magnifiche occasioni di vita per i nostri contadini poveri, mentre i mineraliavevano un fascino molto debole sulle masse rurali. Ecco il motivo per cui ven-nero prodotti molti scritti sull’agricoltura etiopica con finalità propagandistiche30.

41

23 Cfr. Dominioni (2008, pp.39-42).

24

Stefanini (1933), aggior-nato e edito dal CNR edall’Istituto Geografico

Militare nel 1938; Vinassade Regny (1923); Vinassa de

Regny (1924).

25 Desio (1936, pp.273-281).

26 Gortani e Bianchi (1938,vol. 1, pp. 235-51); Gortani

e Bianchi (1939, pp. 113-23). Altri resoconti del solo

Gortani in “Rendicontidella R. Accademia

Scientifica dell’Istituto diBologna” 1939.

27 Cfr., tra i tanti possibili,Ministero dell’AO, Azienda

Miniere A.O., AMAO (1938);Società anonima per le

imprese etiopiche (1938);Sestini (1938, pp.34-6);

Viezzer (1938, pp. 396-403);Villaminar (1938); VolpiBassani (1937, pp.39-49).

28 L. Usoni, nota in“Rassegna economica delle

colonie”, gennaio 1937.

29 Lo scambio epistolare èparzialmente pubblicato inMartelli e Procino (2007, p.

31).

30 Cfr. ad es. Livius (1936);Manetti (1936); Rivera

(1936).

n.32 / 2012

Ma il lavoro di propaganda fu affiancato da una attività di studio e sperimenta-zione notevole.Le coltivazioni e l’allevamento dipendevano strettamente dalle condizionimeteorologiche, che in Etiopia erano molto variabili da una regione all’altra epassavano dal clima desertico a quello delle montagne innevate31. Per organizza-re dal nulla un servizio meteorologico in Abissinia venne scelto Amilcare Fantoli,che aveva organizzato un servizio analogo per Eritrea e Somalia (Fantoli,1936,514-521). Fantoli viaggiò instancabilmente per tutto il territorio conquistato,impiantando stazioni meteo, anche quando la guerra ruppe i collegamenti conl’Italia32. Strettamente connesse con le conoscenze meteorologiche, e altrettanto impor-tanti per l’agricoltura, erano le conoscenze idrografiche. La missione Dainelli allago Tana, di cui si è detto, fornì informazioni sul regime idrico della regione deigrandi laghi, che si riteneva molto adatta ad insediamenti agricoli. Per il resto delpaese, nel 1937 venne organizzata una missione diretta da Aristocle Vatova. Vatovaera allora direttore dell’Istituto di biologia marina di Rovigno. Grande esperto delleacque dell’Alto Adriatico, non era mai stato in Africa (né mai vi tornerà una voltaespletata la missione), ma disciplinatamente si impegnò in una massacrante mar-cia di 6.000 chilometri, dalla quale riportò una grande messe di informazioni33.Le ricerche sull’agricoltura e l’allevamento in colonia investirono un ampio spettrodi problemi, dando origine a una pubblicistica talmente ampia da non poter esse-re trattata qui con qualche pretesa di completezza34. Molte furono le iniziative, pub-bliche e private, che coinvolsero un gran numero di personale scientifico-tecnico.Buona parte dell’attività di ricerca fu fatta con l’assistenza del già ricordato IstitutoAgronomico per l’Africa Italiana diretto da Maugini. Un ruolo importante svolseanche la Stazione sperimentale per la carta e le fibre tessili di Milano, diretta daCamillo Levi, per quanto concerne l’utilizzo delle fibre di piante etiopiche.Nonostante l’ottimismo ostentato dagli scritti propagandistici, non occorrevasforzarsi molto a leggere tra le righe per accorgersi che i concreti obiettivi che siponevano erano assai modesti. La coltivazione dei cereali, lo si sapeva già35, nonera particolarmente adatta alle condizioni climatiche e ai terreni delle colonie(tranne che in Libia36), e infatti la farina rimase la voce più importante dell'importcoloniale. Furono studiati i cereali poveri di quelle zone, e il Cnr si occupò delloro contenuto nutritivo37, ma fu chiarissimo che le difficoltà di rendere autono-me le colonie per i cereali erano pressoché insuperabili; tantomeno ci si potevasognare un futuro in cui i possedimenti avrebbero potuto sostenere un movi-mento di merci alimentari in esportazione: il problema in discussione non era sele colonie sarebbero state in grado di contribuire all’autarchia alimentaredell’Italia, ma se le colonie sarebbero prima o poi riuscite a raggiungere la pro-pria autarchia alimentare38. Poiché infatti non erano solo i cereali a scarseggiare,anche la carne doveva essere importata. Il patrimonio zootecnico, che pur sivagheggiava abbondantissimo, ma sul quale non si avevano dati certi, aveva carat-teristiche di bassa qualità e, soprattutto, i bovini erano falcidiati dalla peste, cherendeva le loro carni immangiabili39. Con una mossa disperata, il Cnr studiò lapossibilità di rendere commestibile agli italiani la carne bovina infetta con pro-cedimenti di essicazione, visto che gli indigeni procedevano in questo modo40.Analogamente, studiosi autorevoli sostennero la necessità di sostituire il vino, cui

42

31 Cfr. Sala (1938); Eredia(1937).

32 Cfr. Fantoli (1938 e 1939).

33 Cfr. Vatov (1938, pp.172-175); Vatov (1940, pp.1-25);Vatov (1941); Vatov (1942,pp.146-154 e pp. 257-265).

34 Un’idea generale si puòavere consultando le biblio-grafie sugli scritti di interes-se geografico relativiall’AOI redatte da ElioMigliorini e pubblicate sulBollettino della R. SocietàGeografica Italiana.

35 Cfr. Baldrati (1936,pp.314-87); Rivera (1936).

36 La Libia era in grado dialimentare una piccolaesportazione di frumento,che era la quasi totalità delfrumento esportato da tuttele nostre colonie e i nostripossedimenti (9.238.000 liresu 9.395.000 lire nel 1938).Peraltro l’Africa settentrio-nale importava 45 milionidi lire di farine.

37 Cfr. Ciferri (1939); Massi(1938, pp.12-5); SabatoVisco si occupò per contodel Cnr del valore biologicosia dei cereali tipicidell'A.O.I. che delle legumi-nose africane, arrivandocon molta soddisfazione astabilire che il "Cicer arieti-num" dell'Eritrea ha "unvalore considerevolmentepiù elevato di quello del"Cicer arietinum" naziona-le. Cfr. Alcune iniziative delConsiglio nazionale dellericerche ai fini dell'autar-chia, Roma, Cnr, gennaio1938, p.23.

38 La rivista “l’autarchia ali-mentare”, che iniziò aduscire nel giugno del 1938,

Roberto Maiocchi Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia

i nostri coloni erano molto affezionati, con il locale idromele (Chigi, 1938, 11-13).Nelle ricchezze zootecniche di cui si parlava rientravano anche le pecore da lana.L’industriale laniero Gaetano Marzotto nel febbraio del 1937 promosse laCompagnia italiana di studi e allevamenti zootecnici, la quale subito inviò i pro-pri tecnici per valutare il patrimonio ovino in funzione della produzione di lana.I responsi delle indagini fatte furono deludenti: le pecore della Libia risultaronoda carne, non da lana, mentre il patrimonio dell’Africa Orientale era quasi inesi-stente. Dopo alcuni poco soddisfacenti esperimenti di allevamento con oviniindigeni, fu decisa l’importazione di alcuni capi di razze pregiate per la lana dalKenia, ma all’inizio del 1940 erano state importate solo 250 pecore e 25 arieti41.La sola merce che il patrimonio zoologico africano fu in grado di offrire all’au-tarchia italiana furono le pelli crude, le quali erano la seconda voce di esporta-zione complessivamente e la prima per la sola Etiopia. La decisione del governoitaliano di esportare le pelli in Italia per favorire l’autarchia, oltre a privare l’A.O.I.di uno dei suoi pochi introiti valutari, ebbe come conseguenza l’aumento deiprezzi all’origine, che raggiunsero livelli al di fuori del mercato internazionale,con susseguenti gravi speculazioni (Bottazzi, b. 264, f. 2).Le speranze maggiori di ottenere dalla lavorazione della terra delle colonie uncontributo alla battaglia autarchica si concentrarono su cotone e altre fibre tessi-li, i semi oleosi, il caffè e il cacao, il legname, le banane, oltre alle pelli. L’Enteper il cotone d’Etiopia, statale, e la Compagnia nazionale per il cotone d’Etiopia,dei privati, avviarono vari esperimenti di coltivazione dall’esito insoddisfacente.Solo dalla Somalia venne una esportazione di circa 10 milioni di lire (si tenga pre-sente che prima delle sanzioni l’Italia importava cotone greggio per oltre 500milioni di lire). Per utilizzare le fibre tessili della flora etiopica nacque laCompagnia delle fibre tessili d’Etiopia, che prese in considerazione l’hibiscus,come sostituto della iuta (e non poteva non essere istituita una Compagnia dellaiuta e fibre similari di Etiopia), la foglia di palma Dum per la saccheria più ordi-naria, la fibra di noce di cocco e di agave, entrambe in Somalia42. Tutte iniziativeche finirono in nulla e nel 1940 l’ufficio studi del ministero dell’Africa Italianadoveva ammettere che “allo stato attuale solo poche fibre sono praticamente uti-lizzabili”43. La Compagnia italiana semi e frutti oleosi, nata in seno al Consorzionazionale fra produttori di semi oleosi, costruì due oleifici a Dessiè ed Harar, ovesi trattavano i semi di sesamo e di lino prodotti dagli indigeni, ma che non eranoassolutamente in grado di alimentare alcuna esportazione. La Compagnia impe-riale per l’utilizzazione delle essenze legnose d’Etiopia si propose di sfruttare laforesta di Uadarà, nel territorio del Galla Sidama44, ma dopo un paio d’anni rinun-ciò al progetto, rivolgendosi a comprensori boschivi nella regione dell’Harar, ovela scoperta più rilevante fu quella della canna di bambù da cui ricavare cellulosache suscitò entusiasmo nei nostri scienziati, ma non ebbe alcuna pratica appli-cazione. Nel 1940 questa compagnia era arrivata soltanto ad avviare i lavori dicostruzione della prima segheria moderna in colonia45. Un successo maggioreebbe la Compagnia tannini d’Etiopia nella sua ricerca di piante da utilizzare pergli estratti tannici, indispensabili per l’industria conciaria e tintoria, da sostituirealle essenze importate, fondamentalmente il quebracho dell’Argentina46. Lebanane, coltivate e commercializzate da tempo dalla Regia Azienda MonopolioBanane, erano di gran lunga la principale voce di esportazione, ma la loro pro-

43

promossa dall’Aziendamonopolio banane, era

dedicata alla “rassegna deicontributi alimentari del-

l’impero”: ebbene, dalla sualettura risulta chiarissimo

che l’obiettivo cui si punta-va era di rendere le colonieautosufficienti, non certo di

fare delle terre africaneuna riserva di cibo per

l’Italia.

39 Lombardi (1936, pp.383-6); Valori (1938, pp.1035-

60); Saitta (1939, pp.771-5);Giovine (1938).

40 Cfr. Alcune iniziative delConsiglio nazionale delle

ricerche ai fini dell'autar-chia, Roma, Cnr, gennaio

1938, p. 21.

41 Cfr. Associazione Italianadi Studi e Allevamenti

Zootecnici (1939), vol.4,p.1130.

42

Sulle attività alla ricercadi fibre tessili cfr. Bravo

(1936, pp. 527-32); Carbone(1936, pp.257-9); Mangano(1936, pp. 543-52); CarocciBuzi (1938, pp.1097-1122);Calvino (1937, pp. 249-54);

Caradonna (1939); CarocciBuzi (1937, pp.1312-23).

43 Cfr. Associazione Italianadi Studi e Allevamenti

Zootecnici (1939), Roma,vol.4, p.1126.

44 Sul patrimonio forestaledi questa regione cfr. Dei

Gaslini (1940)

45 Cfr. Associazione Italianadi Studi e Allevamenti

Zootecnici (1939), vol.4,p.1129.

46 Il problema dell’autarchianell’industria conciaria futra i più sentiti, anche per-

n.32 / 2012

duzione rimase confinata esclusivamente in Somalia47. Dalla flora e dalla faunadell’Etiopia conquistata l’Italia riuscì ad ottenere solo due cose: le già citate pellicrude e il caffè. Il caffè etiopico, studiato da vari ricercatori (così come il cacao)48,si rivelò di ottima qualità e il governo decise di utilizzarlo per l’esportazione con-tro valuta, lasciando agli italiani il caffé d’orzo. Le industrie italiane chimico-far-maceutiche tramite la Compagnia italiana per la valorizzazione della flora etiopi-ca, promossa da Morselli, diedero vita a svariate ricerche, tutte di scarso costrut-to, limitate alla flora spontanea e coltivata già nota, per possibili utilizzi per resi-ne e vernici, gomme, essenze, farmaci, riaccendendo nuove speranze nei cuoridi quegli studiosi che da anni predicavano questo indirizzo nelle colonie49. All’“oro verde” etiope si affidò anche il compito improbo di fornire il carburantenecessario per i mezzi operanti in colonia Già da tempo l’amministrazione colo-niale aveva avviato ricerche sulle possibili fonti di carburanti alternativi al petrolio.Il Governo della Libia nel 1935 aveva nominato una speciale commissione per lostudio dell’impiego dell’alcool carburante, la quale aveva esaminato con particola-re attenzione l’alcool ricavabile dall’asfodelo, giungendo però a conclusioni nega-tive50. La costituzione dell’Impero rinnovò l’interesse per il problema e da varieparti si discusse sulle possibilità di sfruttare la flora africana per ottenere alcool, olicombustibili, carbonella, partendo dall’euforbio etiopico per arrivare all’arachide,passando per i cereali poveri. Nei fatti non si andò oltre un impiego limitato delgassogeno, e benzina e nafta importate rimasero il propellente principale51.Come si vede da questi pochi cenni e dalla relativa bibliografia citata in nota,furono molti gli scienziati e i tecnici impegnati nelle questioni dell’agricoltura edell’allevamento coloniale. Se quasi tutte le iniziative si rivelarono deficitarie, ciònon può essere ascritto al mancato impegno dei ricercatori. Noi andammo inEtiopia senza sapere quasi nulla e le prime indagini non potevano far altro cheevidenziare i problemi che prima di allora ci erano sconosciuti. Una volta noti iproblemi, mancò il tempo per cercarne con successo la soluzione, ammesso chequesta esistesse.

6. Conclusioni

La conquista dell’Etiopia fu un evento che coinvolse, con varie modalità, buonaparte della comunità scientifico-tecnica italiana. Basti pensare (oltreché alle indi-cazioni fornite sopra), che in occasione della riunione annuale della Società ita-liana per il progresso delle scienze, tenutasi a Tripoli nel novembre del 1936 ededicata al tema Il problema imperiale italiano, ben 500 scienziati si sobbarca-rono la fatica e le spese del trasferimento nelle terre africane. Naturalmente è difficilissimo valutare in termini qualitativi e quantitativi il con-senso degli ambienti scientifici e tecnici ottenuto dall’impresa etiopica. Vi furo-no esecutori obbedienti, fiancheggiatori, propagandisti, organizzatori, innovato-ri, opportunisti e sinceri entusiasti. Tutti coloro che parteciparono a vario titolo,però, mostrarono di rendersi conto che fare ricerca su questioni coloniali nonera fare una attività scientifica “qualsiasi”, ma richiedeva un coinvolgimento per-sonale nel progetto imperiale complessivo del fascismo, chiedeva di sentirsiparte di un esercito che, prima con le armi, poi con la scienza, stava costruendoun impero. Lo scienziato non poteva più dedicarsi alla ricerca pura e disinteres-

44

ché alla trattazione dellepelli erano fortemente inte-ressate le forze armate,e numerosi scienziati (ilpiù importante fu VittorioCasaburi, direttore dellaStazione sperimentale perla concia) si occuparonodell’argomento. Cfr. AgenoValla (1936, pp. 298-304);Bravo (1936, pp.527-32);Casaburi (1936, pp. 229-31);Sarcoli (1936, pp.137-9);Casaburi (1937); Casaburi(1937, pp. 219-30); DePilippis (1937, pp.313-22);Giglioli (1937, pp. 401-21);Schiaparelli (1940, pp.379-81).

47 Delle 62.328.000 lireesportate dalle colonie nel1938 in ananas e banane,ben 62.249.000 venivanodalla Somalia.

48 Weigelsperg di Caneva(1937, pp.1731-42); Cortesi(1938, pp.981-91); Ciferri,Barbensi e Scaramella(1940, pp. 153-65); Ciferri,Barbensi e Scaramella(1938, pp.1035-60) (si trattadella relazione sugli esiti diuna missione guidata daFelice Venezian per contodella Compagnia italianaimportatori caffè); Sabadinidi Rovetino (1937, n. 2, pp.15-16).

49 Afferni (1937, pp. 373-81);Trost (1937, pp.178-188);Ubaldini (1938, pp.191-99);Rovesti (1939, pp.474-9); P.Rovesti, direttore di indu-strie profumiere, era proba-bilmente il maggior espertoitaliano dell’utilizzo indu-striale di erbe e da tempososteneva la necessità divalorizzare la flora dellecolonie, cfr. Rovesti (1927,pp. 553-70); Rovesti (1935,pp. 67-101); Alberti (1939,pp. 392-402); Ubaldini, Bissi

Roberto Maiocchi Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia

sata della verità, ma doveva rispondere alla chiamata della Patria in armi, diveni-re scienziato militante per il benessere e la gloria della nazione. Le parole con cuiGiotto Dainelli descriveva il suo stato d’animo durante la missione esplorativadella regione del lago Tana, credo fotografino, sia pure con un’enfasi un po’eccessiva, un sentire condiviso da molti: “Quando, in testa alla nostra lunga epesante colonna - che aveva un qualche cosa di guerresco, nelle canne di fuciliirte sulle vetture e sulle macchine, e nelle rombanti scorte dei moto-mitraglieri -avanzavo sobbalzando sulle piste […] sentivo che quella – la nostra – era vera-mente Scienza militante, al servizio del paese: come ho sempre creduto ch’essaabbia da essere, ed ho anche sempre cercato di esercitare.” (Dainalli, 1938, 17).

Riferimenti bibliografici

AA.VV. (1989), Armando Maugini nel centenario della nascita, FirenzeAA.VV. (2007), L'Istituto Agronomico per l'Oltremare: la sua storia, FirenzeAfferni, E. (1937), Sulla composizione dell’incenso Majdi della Somalia, “Annalidi chimica applicata”, pp.373-81 Ageno Valla, E. (1936), Lo stato attuale della chimica e della tecnica nell’indu-stria della concia, “La chimica e l’industria”, pp.298-304 Alberti, C. (1939), Ricerche sul Capsico della Somalia italiana, “Annali di chi-mica applicata”, pp.392-402 Associazione Italiana di Studi e Allevamenti Zootecnici (1939), La costruzionedell’Impero italiano d’Etiopia, Roma, vol. 4, p. 1130Bachi, R. (1937), Politica doganale fra madrepatria e colonie, Roma,Accademia dei Lincei Baldrati, I. (1936), La colonizzazione bianca sull’altopiano etiopico, “AttiGeorgofili”, pp.314-87 Balella, G. (1936), L’Impero e il problema italiano delle materie prime,“Giornale degli economisti”, pp.788-811 Bellincioni, G. (1936), L’accaparramento inglese delle materie prime, Roma,PincianaBenini, R. (1936), Le ragioni dell’Italia, “Giornale degli economisti”, p. 2Bolcato, V. (1936), L’alcool carburante da alcuni cereali dell’Africa OrientaleItaliana, “Industria saccarifera italiana”, pp. 365-8 Bottazzi, U. (1938), Dati circa l’attuale situazione dell’Africa Italiana (fine1938), Archivio Centrale dello Stato, Fondo CNR, b. 264, f. 2Bravo, G.A. (1936), Il mangrovie della Somalia Italiana, “Annali di chimicaapplicata”, pp. 527-32 Bruno, A. (1937), La flora etiopica e i surrogati della guttaperca, “Rassegna eco-nomica dell’Africa Italiana”, pp.1324-32Calvino, M. (1937), L’oro verde dell’Oltre Giuba. Una Sansevieria gigantesca dafibra tessile, “Italia agricola”, pp. 249-54 Cambi, L. (1936), La chimica metallurgica di fronte alle sanzioni, discorso tenu-to alla Fiera Campionaria di Milano il 19/4/36, in “La chimica e l’industria”, p. 32Caradonna, G. (1939), Utilizzazione dell’alfa e dello sparto libico, estratto da“Rassegna economica dell’Africa Italiana”, ottobre, stampato come volume a se stanteCarbone, D. (1936), Sulla macerazione microbiologica di alcune piante afri-cane, “Tinctoria”, pp.257-9 Carocci Buzi, V. (1937), Le piante da cellulosa nella Libia, “Rassegna economi-

45

e Bissi-Turco, cit., pp.731-40; Ciferri (1939); Bruno

(1937, pp. 1324-32).

50 Cfr. ACNR, b. 352, f.1.

51 De Capitani (1937, pp.711-9); Castelli (1938, pp.15-6); Trolli (1938, pp.165-171);

Bolcato (1936, pp. 365-8);Coppa-Zuccari (1936, n. 33,

pp. 6-8; n. 36, pp. 5-8);Merendi (1936, pp. 81-97);

De Capitani (1937, pp. 711-9); Ubaldini (1938, pp.191-

99). Non mancò neppurel’interesse per l’energia eoli-ca, cfr. Panunzio (1937, pp.

133-73).

n.32 / 2012

ca dell’Africa Italiana”, pp.1312-23Carocci Buzi, V. (1938), Il cotone e le possibilità dell'Impero, “Rassegna econo-mica dell’Africa Italiana”, pp.1097-22 Casaburi, V. (1936), Concia al ferro, “La chimica e l’industria”, pp.229-31Casaburi, V. (1937a), L’autarchia nell’industria del cuoio, “Bollettino dellaRegia Stazione sperimentale per l’industria delle pelli e delle materie concianti”,pp. 219-30 Casaburi, V. (1937b), Valorizzazione di pelli vive e morte, Napoli, Tip. CescaCastelli, G. (1938), Un nuovo carburante nazionale, “Materie prime d’Italia edell’Impero”, pp. 15-6Cesari, E. e A. Testa (1936), Notizie sulle possibilità di utilizzazioni idroelettri-che nell’AOI, “Energia elettrica”, pp. 725-810Chigi, A. (1938), I prodotti dell’apicoltura nell’alimentazione dell’Impero,“L’autarchia alimentare”, n.2, pp.11-3Ciferri, R. (1939a), I cereali dell’Africa italiana, Firenze, Istituto agronomicoper l’Africa italiana Ciferri, R. (1939b), L’Africa Orientale Italiana centro d’evoluzione di piantecoltivate, estratto da “Rassegna economica dell’Africa Italiana”, luglio, stampatocome volume a se stanteCiferri, R., G. Barbensi e G. Scaramella (1938), Il caffè dell'Impero, "Annalidell'Africa Italiana", pp.1035-60Ciferri, R., G. Barbensi e G. Scaramella (1940), Analisi biometrica del caffè ingrani dell’Africa Orientale Italiana, “Rivista di biologia coloniale”, pp. 153-65 Cioni, M. (1940), Corporativismo coloniale, “Economia”, pp.122-32Conti-Rossini, C. (1935), L’Etiopia è incapace di progresso civile, “Nuova anto-logia”, 16 settembre, pp. 342-56Coppa-Zuccari, G. (1936), Carburanti nell’Africa Orientale, “Rivista italiana delpetrolio”, n.33, pp.6-8; n.36, pp.5-8 Cortesi, F. (1938), Il caffè etiopico, "Annali dell'Africa Italiana" 1938, pp.981-91 Dainelli, G. (1938), La missione di studio al lago Tana, in Reale Accademiad’Italia. Centro studi per l’Africa Orientale Italiana, Missione di studio al lagoTana, vol.I, Relazioni preliminari, Roma, Reale Acc. d’ItaliaDainelli, G. (1939), La regione del lago Tana, Milano, MondadoriDe Capitani, S. (1937), Possibilità di produzione e di impiego dei carburantisussidiari nell’Africa Italiana, “Materie prime d’Italia e dell’Impero”, pp.711-9 De Pilippis, A. (1937), La corteccia di acacie come materia tannante; suaimportanza per l’Italia e per l’Impero, “Alpe”, pp. 313-22 Dei Gaslini, M. (1940), Le ricchezze del Galla-Sidama: foreste, boscaglie, sava-ne, riserve d’autarchia, Milano, Tip. del Popolo d’ItaliaDemaria, G. (1936), La distribuzione internazionale delle materie prime colo-niali, “Giornale degli economisti”, pp. 768-87 Demaria, G. (1937), Aspetti probabili della capitalizzazione coloniale,“Giornale degli economisti”, pp.381-400 Desio, A. (1936), Relazione preliminare sulla missione geologico-morfologicadella Reale Società Geografica italiana nel Fezzàn, “Materie prime dell’Italia edell’Impero”, pp.273-281Dominioni, M. (2008), Lo sfascio dell’impero, Roma-Bari, LaterzaEredia, F. (1937), Stato attuale delle conoscenze sul clima dell’A.O.I., in Atti delIII Congresso di Studi Coloniali, vol. V, FirenzeFantoli, A. (1936), Bibliografia meteorologica e geofisica dell’Impero etiopico,

46

Roberto Maiocchi Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia

Eritrea e Somalia, “Rassegna economica delle Colonie”, vol. 24, pp.514-21Fantoli, A. (1938), Una recente missione in A.O.I., “Bollettino della Regia SocietàGeografica Italiana”, pp. 28-39Federici, N. (1938), Le correnti migratorie e le correnti commerciali tra colo-nie e madre-patria, “Annali dell’Africa Italiana”, pp.37-51Fortunati, P. (1940), L’importanza delle colonie per la scienza e la politicadella popolazione, “Annali dell’Africa Italiana”, pp.151-72 Galbani, A. (1988), Antifascismo e resistenza nel Politecnico di Milano, in E.Decleva, Il Politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963), “Quadernidella Rivista Milanese di Economia” Bari, Laterza, vol. 1, pp. 255-8Garino Canina, A. (1937), Colonie e materie prime, “Nuova Antologia”, pp. 261-9Geier, B. (1936), Giacimenti di oro e di platino nella provincia abissinadell’Uollega, “Materie prime d’Italia e dell’Impero”, pp.4-12 Giglioli, G.R. (1937), Le acacie e le altre piante tannifere nel Sud-Africa,“L’agricoltura coloniale”, pp.401-21Gini, C. (1936), Colonie e materie prime, estratto da “La vita economica italia-na”, stampato come volume a se stanteGini, C. (1938), Sovranità politica e correnti commerciali, “Rivista di politicaeconomica”, pp.1073-9Giordano, A. (1936), Colonie e autarchia economica, “Economia italiana”,pp.450-4 Giovine, D. (1938), Igiene e malattie del bestiame: con cenni sulle malattie piùcomuni nell’Africa italiana, Torino, UTET Gortani, M. e A. Bianchi (1938), Osservazioni geologiche e petrografiche nellaregione di Harar, “Atti XXVI riunione SIPS”, Roma, vol.1, pp. 235-51 Gortani, M. e A. Bianchi (1939), Note illustrative sulla carta geologica degli alti-piani e della Dancalia meridionale, “Rendiconti della Reale AccademiaScientifica dell’Istituto di Bologna”Gortani, M. e A. Bianchi (1939), Nella Dancalia meridionale, “Bollettino dellaSocietà Geografica Italiana”, ser. 7, vol. 4, pp. 113-23Hesse, R. (1936), L’oro nella provincia di Beni Sciangul, “Materie prime d’Italiae dell’Impero”, pp.13-26Lamare, P. (1935), Le haut plateau du Harrar et les richesses minérales au Sudde l’Abyssinie, “Bulletin de l’Association de géographes français”, vol. 12, pp.147-9Livius, Le immense possibilità dell’agricoltura in Africa Orientale, Roma, PincianaLombardi, U. (1936), Per l’utilizzazione razionale del patrimonio zootecnicoetiopico, “Ingegnere”, pp.383-6 Maiocchi, R. (1999), Scienza italiana e razzismo fascista, Firenze, La Nuova ItaliaMaiocchi, R. (2004), Gli scienziati del Duce, Roma, CarocciMaiocchi, R. (2004), Scienza e fascismo, Roma, CarocciManetti, C. (1936), Etiopia economica, Firenze, Bemporad Manfroni, C. (1935), Il secondo congresso di studi coloniali, “Rivista delle colo-nie”, pp. 312-27Mangano, G. (1936), Il problema cotoniero nell’AOI, “Bollettino della cotonie-ra”, pp. 543-52 Martelli, M. e M. Procino (2007), Enrico Cuccia in Africa Orientale Italiana(1936-1937), Milano, AngeliMassi, E. (1938), La funzione dei cereali minori nell’AOI, “L’autarchia alimenta-re”, n.3, pp.12-5 Maugini, E. e L. Fabbri (1998), a cura di, Storia di una vita. Note biografiche di

47

n.32 / 2012

e su Armando Maugini, “Bolletino della Società Geografica Italiana”, pp. 195-234Meneghini, D. (1936), L’industria italiana dello zucchero e dell’alcool e le san-zioni, “La chimica e l’industria”, pp. 174-7Merendi, A. (1936), Alcuni aspetti del problema della produzione e dell’impie-go dei carburanti di origine vegetale nelle Colonie italiane, “Atti Georgofili”,ser. IV, vol.2, pp.81-97 Ministero dell’AO (1938), Azienda Miniere A.O.(AMAO), Rapporto sull’attivitàdell’AMAO, Roma, Tuminelli Morselli, G. (1936), Aurora imperiale, “La chimica e l’industria”, pp. 178-82Mortara, G. (1936), Via delle Indie e vie dell’Italia, “Giornale degli economisti”,pp.175-8 Mortara, G. (1937), Sull’inutilità delle colonie, “Giornale degli economisti”, p. 173Mortara, G. (1938), Tendenze autarchiche negli spostamenti internazionalidella produzione delle materie prime, “Giornale degli economisti”, pp.531-5 Panunzio, S. (1937), Utilizzazione dell’energia del vento in Tripolitania, AttiSips. XXV riunione. Tripoli 1936, vol.5, Roma, pp.133-73Parravano, N. (1936), La chimica e l’autarchia economica della Nazione, dis-corso tenuto l’8 giugno al raduno del Sindacato nazionale fascista dei chimici, “Lachimica e l’industria”, pp. 183-7Penta, F. (1936), Saggio di un quadro delle possibilità e delle risorse minerariedell’Africa Orientale, “Materie prime d’Italia e dell’Impero”, pp.128-175Ravizza, V. (1936), L’Abissinia nel campo geominerario, Ed. Arti Grafiche, Milano Regia Società geografica italiana (1936), L’Africa orientale, Bologna, ZanichelliRivera, V. (1936), Prospettive agricole dell’Impero etiopico, Roma, BardiRolla, L. (1936), La chimica nella scienza e nella tecnica, “La chimica e l’indu-stria”, p. 5Rovesti, P. (1927), Studio sugli olii eterei estratti dalle principali piante aromati-che spontanee della Colonia Eritrea, “Annali di chimica applicata”, pp.553-70 Rovesti, P. (1935), L’industria italiana dei profumi sintetici e dei costituenti diessenze, “Rivista italiana delle essenze e profumi”, pp.67-101 Rovesti, P. (1939), Le materie prime aromatiche ed essenziere dell’Impero inrapporto al piano autarchico nazionale, “Materie prime d’Italia e dell’Impero”,pp. 474-9 Sabadini di Rovetino, B. (1937), Autarchia agricola. Il cacao nelle terredell’Impero, “La nuova scuola italiana”, 17 ottobre, n.2, pp.15-16Saitta, A. (1939), Il patrimonio zootecnico dell’Africa Orientale Italiana,“Rassegna Economica dell’Africa Italiana”, pp.771-5 Sala, G. (1938), Il clima dell’Africa orientale italiana, Bergamo SESASarcoli, L. (1936), Il cuoio artificiale (cuoio rigenerato “S.A.L.P.A.”), “Il chimicoitaliano”, pp.137-9 Schiaparelli, C. (1940), La chimica del cuoio in tempo di autarchia, “La chimi-ca e l’industria”, pp.379-81Sestini, A. (1938), Studi geologici nell’AOI, “Bollettino Società GeograficaItaliana”, ser. 7, vol. 3, pp.34-6 Società anonima per le imprese etiopiche (1938), Giacimenti auriferinell’Uollega e nel Beni Sciangul, Roma Stefanini, G. (1933), Saggio di una carta geologica dell’Eritrea, della Somalia edell’Etiopia, aggiornato e edito dal CNR e dall’Istituto Geografico Militare nel 1938Surdich, Francesco (1991), Le spedizioni scientifiche italiane in Africa orienta-

48

Roberto Maiocchi Gli scienziati italiani e la guerra d’Etiopia

le e in Libia durante il periodo fascista, pp. 443-468, in A. Del Boca, a cura di,Le guerre coloniali del fascismo, Roma-Bari, Laterza Trolli, G. (1938), Autarchia imperiale. Olii e petroli vegetali, “Materie primed’Italia e dell’Impero”, pp.165-171Trost, F. (1937), Sugli ossiacidi triterpenici dell’incenso somalo, “Annali diChimica applicata”, pp.178-188 Tuccimei, E. (1999), La banca d’Italia in Africa, Roma-Bari, LaterzaUbaldini, I, L. Bissi e G. Bissi-Turco (1939), La palma Dum dell’Eritrea comefonte di materie prime per industrie chimiche, in Atti del X congresso interna-zionale di chimica, cit., vol.5, pp.731-40Ubaldini, I. (1938), Caratteristiche chimiche e fisiche principali del grasso ori-ginario e d'idrolisi della noce di Palma Dum, “Annali di chimica applicata",pp.191-99 Usoni, L. (1937), Nota, “Rassegna economica delle colonie”, gennaio, p. 12Valori, F. (1938), Il problema zootecnico in A.O.I., "Annali dell'Africa Italiana",pp.1035-60 Vatova, A. (1938), Notizie idrografiche sui laghi dell'Africa Orientale Italiana.Nota preliminare. Rendiconto Regia Accademia Nazionale dei Lincei, ser. VI, 28(5-6), pp.172-175Vatova, A. (1940),Notizie idrografiche e biologiche sui laghi dell'A.O.I.“Thalassia” IV , 9, pp.1-25Vatova, A. (1941), Itinerario e diario generale della missione ittiologica inA.O.I.,"Esplorazione dei laghi della Fossa Galla”. Vol. I., pp. 1-127, a cura delMinistero dell'Africa ItalianaVatova, A. (1942), I laghi della Fossa Galla,”Boll. R. Soc. Geogr. It.” Serie VII, 7,pp.146-154 e 257-265 Vedovato, G. (2009), Giotto Dainelli tra scienza e politica, “Rivista di studi dipolitica internazionale”, 76, pp.381-421Viezzer, C. (1938), Itinerari geologici nel territorio dei Galla e Sidama daGimma al confine sudanese, “Materie prime d’Italia e dell’Impero”, pp.396-403Villaminar, A. (1938), Il massiccio ferrifero Mai-Gudo nel problema autarchicodell’Impero, Roma, Ministero dell’Africa Italiana Vinassa de Regny, P. (1923), L’Eritrea geologica e mineraria, Firenze Vinassa de Regny, P. (1924), Dancalia, Roma Vinassa de Regny, P. (1938), Poche parole sul bilancio dell’AOI, ““Materie primed’Italia e dell’Impero”, p. 324Visco (1938), Alcune iniziative del Consiglio nazionale delle ricerche ai finidell'autarchia, Roma, Cnr, gennaioVito, F. (1938), L’economia coloniale nel quadro dell’autarchia, estratto da“Rassegna economica dell'Africa Italiana”, giugno, n.6, p. 4Volpi Bassani, P. (1937), Note sullo sfruttamento dei giacimenti auriferi del ter-ritorio etiopico, “L’industria mineraria” vol. 9, pp.39-49Weigelsperg, F. (1937), di Caneva, La valorizzazione del caffè etiopico,“Rassegna economica dell’Africa Italiana”, pp.1731-42 Zavattari, E. (1935), Scienze biologiche e conquista coloniale, “Rivista delle colo-nie”, p. 22Zoli, C. (1935), Etiopia d’oggi, Roma, Soc. Arti GraficheZoli, C. (1936), L’’Impero italiano dell’Africa Orientale, “Bollettino della RegiaSocietà Geografica Italiana”, serie 7, vol. 1

49

50

1. Infomazione e comunicazione

«Negli esseri umani il linguaggio è la base della cul-tura, ed è dunque la più importante innovazione,che ha permesso all’uomo moderno di moltiplicarele possibilità di vita e di diventare padrone dellaTerra in tempi abbastanza brevi. Il linguaggio èun’innovazione a un tempo biologica e culturale,poiché le basi anatomiche e fisiologiche che lo ren-dono possibile si sono evolute geneticamente, perselezione naturale» (Luigi Luca Cavalli Sforza, 1996,251). Così scrive Luigi Luca Cavalli-Sforza nel suopregevole volume Geni, popoli e lingue, mettendoin evidenza non solo come per cultura si debbaintendere «l’insieme di quello che si apprende daglialtri, contrapposto a quello che si impara da soli, inisolamento» (Ivi, 249), ma anche come nella tra-smissione culturale si innesti un’autentica «muta-zione culturale» la quale ultima possiede una suaspecifica peculiarità: «una distinzione fondamentaletra la mutazione biologica e la “mutazione culturale”è che per la gran parte le mutazioni culturali sonoinnovazioni volute e dirette a qualche fine, mentrela mutazione biologica non è diretta al migliora-mento del risultato, ma è determinata dal caso. Allivello della mutazione, l’evoluzione culturale puòdunque essere mirata, quella biologica non lo è. Direcente qualche biologo ha cercato di cambiare ildogma classico dell’evoluzione biologica, ma leprove addotte non sono sufficienti» (Ivi, 254).Proprio questo specifico carattere “teleologico”della comunicazione, il suo essere diretta a qual-che fine peculiare, ci consente, allora, di compren-dere come la comunicazione umana, dalla qualeè scaturito, nel corso del tempo, dal Paleolitico adoggi, il dominio dell’uomo sulla Terra, non può e

non deve mai essere confuso con la mera infor-mazione. Quest’ultima può infatti configurarsicome uno scambio di messaggi tra un trasmettito-re e un ricevente che non prevede affatto il coin-volgimento diretto dei due poli della trasmissione,né presenta una finalità specifica. Entro questosemplice “contatto” di trasmissione il trasmettitoree il ricevente continuano infatti a conservarsi nellaloro autonoma ed irrelata alterità, che non implicaalcun cambiamento di rilievo. Al contrario, lacomunicazione, essendo per sua natura intrinseca-mente teleologica, implica, invece, un diretto coin-volgimento, sia della fonte – che si sente appuntoimpegnata a trasmettere un determinato messag-gio al proprio interlocutore e che nel porre in esse-re tale iter comunicativo si espone ad un processodialogico in virtù del quale mette in gioco, in ulti-ma analisi e perlomeno sul piano potenziale, la suastessa natura originaria – sia del ricevente, il qualeultimo, per trasformare effettivamente l’informa-zione ricevuta in autentica comunicazione, devenecessariamente rielaborarla criticamente dal pro-prio particolare e specifico punto di vista. Se sivuole si può anche rilevare come nella comunica-zione colui che riceve il messaggio debba necessa-riamente riconquistarlo proprio per farlo suo, permetabolizzarlo e rielaborarlo, trrasformandolo incarne della sua carne e in sangue del suo sangue.Naturalmente all’interno di questo rapporto dicomunicazione le direzioni dei flussi di dialogopossono poi variare profondamente, dando luogoa situazioni ed esiti profondamente diversificati epersino antinomici, configurando svariate soluzio-ni. Per comprendere la diversità esistente tra infor-mazione e comunicazione ci si potrebbe riferireanche al mondo eterogeneo e spesso caotico

Fabio Minazzi

I contesti della comunicazione. Alcune rifles-sioni criticheViaggiando tra le costellazioni del sapere

Fabio Minazzi I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche

51

generato da internet: i vari motori di ricerca cimettono infatti a disposizione una notevolissimamassa di dati eterogenei e molteplici indicazioniprofondamente diversificate e persino incon-gruenti o anche prive di senso plausibile. Tuttavia,l’insieme di questi elementi risultano essere siste-maticamente appiattiti su una medesima dimen-sione indifferenziata ed omologante, un’autenticanotte in cui tutte le vacche sono nere, senza pos-sibilità (da parte di internet) di distinguere l’indi-cazione rilevante da quella assolutamente priva disenso e di qualsiasi validità. Solo la capacità criticadel singolo ricercatore nel muoversi in questoautentico mare magnum indistinto e caotico con-sente di scegliere tra i vari dati, trasformandoli inelementi interessanti e rilevanti per un determina-to programma di ricerca. Proprio tale rielaborazio-ne critica, questa capacità del singolo di rileggereautonomamente i vari input presenti in rete li tra-sforma in autentica conoscenza (o in validi ele-menti di conoscenza), facendo sì che la mera infor-mazione si trasformi in un reale processo conosci-tivo e di effettiva comunicazione. Del resto, seguendo una persuasiva tassonomiaconcettuale delineata da Cavalli-Sforza si puòanche rilevare come possano esistere differenti tipidi comunicazione a partire da una comunicazionesostanzialmente verticale, dall’alto verso il basso(come quella che si attua, per esempio, tra genito-re e figlio o tra un maestro e un allievo), oppure vipuò essere uno scambio comunicativo orizzonta-le, tra individui che non sono legati da nessun par-ticolare legame gerarchico, ma si pongono tutti,perlomeno tendenzialmente, sul medesimo ecomune piano dialogico. Oppure vi può essere ouna comunicazione magistrale che vede un par-lante comunicare contemporaneamente con piùindividui, configurabili come i recettori sottoposti(da insegnanti ad allievi, da capi a dipendenti, daipresidenti ai loro sottoposti, etc.), oppure, ancora,un singolo individuo può essere sottoposto ad unaforte pressione comunicativa concentrica e con-certata, posta in essere, contemporaneamente, dadifferenti persone che vogliono appunto esercita-re su di lui una determinata influenza. In tutte queste differenziate prassi comunicative,la comunicazione presuppone sempre una specifi-

ca teleologia strategica, mediante la quale unadeterminata informazione viene trasmessa al pro-prio interlocutore il quale ultimo risulta essere indialogo effettivo col primo solo nella misura in cuinon si limita affatto ad essere un mero recettorepassivo di un particolare flusso informativo, matrasforma e rielabora autonomamente, in formapiù o meno critica, quello specifico messaggio. Daquesto particolare punto di vista si può quindisostenere come un’autentica e vera comunicazio-ne si realizzi solo ed esclusivamente quando tradue interlocutori si pone in essere un reale dialo-go, mediante il quale ogni partecipante alla discus-sione è sempre in grado di rielaborare, dal proprioparticolare, specifico ed autonomo punto di vista,quanto gli viene trasmesso. Di contro, la mera tra-smissione, priva di autentica comunicazione, puòinvece essere assimilata ad un flusso acefalo diinformazioni che non viene sostanzialmente modi-ficato dal recettore e che, pertanto, viene trasmes-so in modo prevalentemente passivo, decisamenteacritico. Naturalmente da questo specifico puntodi vista la contrapposizione, formale e di principio,tra mera “informazione” (neutra ed acritica) edautentica “comunicazione” (umana e dialogica,sempre soggettiva, critica e personale) è, in verità,abbastanza astratta e fuorviante, giacché, nel con-creto mondo della prassi, esistono poi sempremolteplici sfumature, in virtù delle quali il dialogoche si attua tra le differenti individualità umanenon si riduce affatto ed univocamente, né a mera“informazione acritica”, né ad autentica “comuni-cazione critica”, oscillando, piuttosto, continua-mente, tra questi due opposti ed astratti poli idea-li. Non per nulla ogni dialogo favorisce comunica-zioni profondamente diversificate. Non solo: è bennoto che una medesima lezione può naturalmen-te produrre, nei differenti ascoltatori, esiti profon-damente differenziati e persino divergenti.In ogni caso questa precisazione e la possibilitàstessa di individuare una gamma assai vasta e dif-ferenziata di ipotetiche possibilità comunicativeentro la duplice polarità della comunicazione-informazione testé richiamata, ci consente di sot-tolineare come il vero confronto comunicativoimplichi sempre la presenza di una determinatateleologia comunicativa la quale ultima rinvia, a

n.32 / 2012

52

sua volta, alle differenti axiologie che possono edevono svolgere un loro ruolo specifico all’inter-no della prassi della comunicazione umana. Sibadi: il ruolo euristico affatto specifico di questeaxiologie si ricollega direttamente proprio al ruoloirrinunciabile della “mutazione culturale” e ne con-figura il suo spazio epistemico peculiare. Non esi-ste infatti comunicazione umana che sia esente daquesta irrinunciabile componente teleologica laquale, a sua volta, si configura e si dipana semprenel quadro dell’argomentazione dialogica, pren-dendo le mosse da una particolare axiologia che ècostantemente presente (e coinvolta) nel discorsoumano. Anche in quello che vorrebbe inveceesserne radicalmente immune: per esempio lacomunicazione scientifica che, per sua natura, inqualche caso, ha anche cercato di configurarsicome assolutamente e irrimediabilmente wertfrei.

2. Differenti criteri epistemici

In realtà ogni comunicazione umana non può mailiberarsi veramente da questa dimensione axiologi-ca, giacché quest’ultima svolge sempre una suaspecifica ed autonoma funzione euristico-costituti-va all’interno del discorso umano e della stessascelta dei differenti criteri epistemici con i quali, divolta in volta, e, disciplina per disciplina, stabilia-mo, variamente, il “rigore” autonomo di ciascundiscorso (anche di quelli conoscitivi e scientifici). Èben vero come proprio la riflessione epistemicasulla conoscenza umana abbia spesso inseguitouna strada ben diversa e persino opposta. Tuttavia,proprio lo sviluppo complessivo di questi purfecondi tentativi epistemici ci aiuta oggi a megliointendere la complessa natura, ad un tempo cono-scitiva ed axiologica, della conoscenza umana. Népotrebbe essere differentemente, soprattutto seteniamo presente la storia specifica dei vari criteriepistemici che, soprattutto nel corso delNovecento, sono stati proposti onde poter indivi-duare, infine, un criterio metodologico in grado didirimere, autonomamente, la questione stessadella conoscenza umana e della sua validità critica.

2.1. Il criterio verificazionista neopositivistaSi pensi, per esempio, a tutte le vicende connesse

con le varie e assai differenziate formulazioni delprincipio neopositivistico di verificazione. Comeè ben noto nella prima e più rigida formulazionedel principio verificazionista, avanzata dal neoposi-tivismo nella fase della fondazione del WienerKreis, l’empirismo logico inseguiva il sogno dipoter mettere capo, una volta per tutte, ad un cri-terio in virtù del quale il significato di un enuncia-to avrebbe dovuto senz’altro coincidere con ilmetodo della sua verificazione. Tuttavia, comeebbe modo di rilevare, a metà degli anni Trenta,nel 1934-35, anche un nemico dichiarato del neo-positivismo come Karl Raimund Popper (nella suaLogik der Forschung, ospitata proprio in queltorno di tempo nella prestigiosa collana editorialedel Wiener Kreis), questo criterio empiristico risul-ta essere troppo forte ed eccessivamente tiranni-co. Se infatti il significato di un enunciato si deveridurre, invariabilmente, al metodo della sua verifi-ca, verrebbe allora meno non solo l’odiata metafi-sica (sempre combattuta aspramente da tutti gliesponenti del neopositivismo quale pseudo-con-soscenza), ma finirebbe per sgretolarsi anche l’a-matissima scienza (cui i differenti esponenti del-l’empirismo logico non hanno mai smesso di tri-butare il loro interesse più profondo e privilegia-to). In ultima analisi il primo criterio verificazioni-sta neopositivista viennese risulta essere troppopotente perché pretende di poter sistematicamen-te ridurre il significato di un determinato enuncia-to al metodo della sua verificazione sperimenta-le. Ma tale sogno empiristico si rivelò essere, inrealtà, alquanto utopico e fuorviante, come delresto ha ben mostrato di comprendere lo stessoempirismo logico che, non a caso, ha ben prestoiniziato ad arrovellarsi proprio intorno a questoproblema, nello sforzo più che apprezzabile dipoter infine riformulare il principio di verificazionesecondo una innovativa configurazione epistemi-ca, capace di salvare capra e cavoli, vale a dire ingrado di salvare la dimensione prettamente forma-le, astratta ed universale del procedere scientifico,senza tuttavia rinunciare all’esigenza, parallela, dipoter verificare puntualmente i nostri discorsi con-cernenti il mondo. Ma a ben considerare tutte le varie e successiveriformulazioni epistemiche del principio di verifi-

Fabio Minazzi I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche

53

cazione neopositivista (da quella configurata versola metà degli anni Trenta fino a quella delineatauna volta che l’empirismo logico è entrato in con-tatto diretto con il pragmatismo americano),occorre tuttavia riconoscere come il suo sforzoabbia finito per attestarsi, perlomeno negli inter-preti più avveduti criticamente, entro una posizio-ne che ha dovuto riconoscere la compresenza,entro lo stesso discorso conoscitivo posto in esse-re dalla scienza, di una duplice livello epistemico:quello eminentemente empirico-fattuale, radicatosoprattutto nella dimensione sperimentale e quel-lo, opposto, astratto-formale, a sua volta radicatonella dimensione universale ed ideale-congettura-le delle differenti teorie scientifiche. Certamente inquesto progressivo sforzo di approfondimento cri-tico del suo principio di verificazione il neopositi-vismo non ha affatto ammainato la storica bandie-ra dell’empirismo, vale a dire la necessità di riferi-re, in ultima analisi, i nostri discorsi concernenti ilmondo al piano empirico-sperimentale entro ilquale si effettuano, appunto, le differenti “verifi-che” sperimentali. Tuttavia, questa determinatavolontà di non ammainare la pur gloriosa bandieradell’empirismo si è progressivamente saldata conla sempre più lucida consapevolezza critica che idiscorsi scientifici concernenti il mondo fanno alcontempo ricorso anche ad una dimensione for-male costitutiva che, di per sé, è impossibile ridur-re, senza residui, al piano empirico. Semmai, perdirla galileianamente, il continuo approfondimen-to del principio neopositivistico della verificazioneha indotto i suoi migliori esponenti dell’empiri-smo logico – come, per esempio, Gustav Hempel,per fare un solo nome, peraltro davvero emblema-tico – a rendersi conto che il gioco conoscitivoposto in essere dall’impresa scientifica risulta esse-re molto più plastico, articolato, libero e comples-so di quanto potessero mai sospettare originaria-mente gli esponenti viennesi. La scienza e il dis-corso scientifico vivono, infatti, di un continuo eassai fecondo interscambio critico tra la dimensio-ne fattuale-sperimentale e quella propriamenteformale ed astratta, con la conseguenza che le dif-ferenti teorie scientifiche si situano epistemica-mente in una dimensione intermedia e, per usarela felice immagine hempeliana, possono allora

essere considerate come delle autentiche “reti”,mediante le quali possiamo pescare differenti“pesci” (idest, differenti “oggetti”, studiando diver-si ambiti empirico-sperimentali e fattuali).Certamente questo gioco risulta essere semprevario, mobile e continuamente arricchito e modifi-cato da molteplici interazioni critiche frutto di con-tinue e assai differenziate contaminazioni criticheche si instaurano variamente tra la dimensione for-male e quella sperimentale. Tuttavia, non si puòneppure negare come proprio questo gioco epi-stemico posto in essere dalla scienza nel suo con-tinuo e molteplice sforzo finalizzato ad elaboraredelle feconde teorie scientifiche, dotate di autenti-ca portata conoscitiva, costituisce l’asse epistemi-co privilegiato lungo il quale, galileianamente, lecerte dimostrazioni si intrecciano costantementecon le sensate esperienze, configurando un patri-monio tecnico-conoscitivo in virtù del quale nonsolo il nostro sapere, ma anche la nostra stessavita quotidiana, è sempre più modificata e resa più“libera”, più “responsabile” e assai più complessa.

2.2 Il criterio falsificazionista popperianoMa proprio la riscoperta di questa specifica “com-plessità” della conoscenza posta in essere dall’im-presa scientifica non può che aiutarci a megliointendere il ruolo diversificato e costitutivo che lastessa axiologia svolge entro la scienza, la tecnica ela stessa vita umana, condizionando nuovamenteanche la comunicazione scientifica. Né costituisceuna smentita critica di questo risultato l’approcciofalsificazionista alla scienza sviluppato da Poppere dai vari, diversi e vivaci esponenti dell’epistemo-logia popperiana e post-neopositivista. Il falsifica-zionismo ha infatti avuto il merito indubbio di sot-tolineare come la scientificità di una teoria scienti-fica si radichi proprio nella sua capacità di vietarealcuni precisi ambiti sperimentali. Tuttavia, ancheil pur interessante criterio epistemico escogitatoda Popper (peraltro in feconda connessione criticacon una ben precisa tradizione di pensiero, quelladel convenzionalismo congetturalista, non priva diprecise venature scettiche) ha tuttavia finito percostituire, paradossalmente, una sorta di versionespeculare del principio verificazionista neopositivi-sta. Infatti, come alcuni dei più acuti interpreti del

n.32 / 2012

54

falsificazionismo popperiano non hanno tardato amettere in evidenza, anche il gioco della scienzaconfigurato dal criterio falsificazionista finisce perpeccare di eccessiva astrattezza: da un lato risultaessere troppo stretto per spiegare tutte le differen-ti e complesse fasi di sviluppo della storia del pen-siero scientifico, mentre, dall’altro lato, risultaanche essere troppo lasco, perché fornisce unaricostruzione incapace di spiegare l’effettiva speci-ficità della crescita della conoscenza scientifica. Inultima analisi si può così rilevare come anche il cri-terio falsificazionista popperiano finisca per perde-re di vista la specificità intrinseca della criticità insi-ta nella crescita della conoscenza scientifica nonsolo perché non percepisce affatto il ruolo e la por-tata della dimensione tecnica dell’impresa scienti-fica, ma anche perché non è in grado di spiegare laspecifica e complessa plasticità dello stesso saperescientifico. E non è in grado di spiegare euristica-mente la plasticità della scienza proprio perché haperso di vista il complesso intreccio mediante ilquale anche le comunità scientifiche sono conti-nuamente contaminate e turbate nella pretesapurezza epistemica dei loro criteri scientifici. Delresto Popper stesso si era reso conto come l’im-presa scientifica si appoggiasse non sulla salda roc-cia dei fatti, bensì sulle “palafitte” delle differenticonvenzioni congetturaliste. Tuttavia l’epistemolo-go tedesco ha poi finito per trascurare proprio ilruolo euristico che alcune dimensioni “sociali” (senon direttamente sociologiche) svolgono ancheall’interno della prassi scientifica, soprattutto nellefasi “rivoluzionarie”, mediante le quali l’impresascientifica introduce un autentico ribaltamentoepistemico paradigmatico del proprio tradizionalepunto di vista scientifico. Né si può poi trascurarecome la prospettiva falsificazionista abbia finito pernon riuscire a fare più i conti con l’intrinseca stori-cità della scienza, con la flessibilità delle sue cate-gorie concettuali, finendo, appunto, per appiattirel’impresa scientifica in un gioco falsificazionistache paradossalmente rischia di farci perdere divista, sistematicamente, il ruolo, complesso eaggrovigliato, mediante il quale il sapere scientificosi delinea sempre entro un orizzonte axiologicostoricamente determinato. Non per nulla per il fal-sificazionismo popperiano la storia della scienza o

si riduce, paradossalmente, ad una concezionecimiteriale (ad un cumulo di teorie morte e confu-tate), oppure non possiede alcun effettivo e signi-ficativo ruolo epistemico (semmai serve solo adoffrire alcuni esempi per suffragare ed illustrare lediverse immagini epistemologiche della scienza,ma non svolge entro la riflessione epistemologicaalcun significativo ed autonomo ruolo euristico).

3. Il problema del metodo scientifico nellariflessione galileiana

In realtà la ricerca stessa di un unico criterio epi-stemico in grado di spiegare, una volta per tutte, lanatura, vera e profonda, del procedere scientificonasce, in ultima analisi, da un sogno utopico: quel-lo di poter ridurre unilateralmente la scienza alsuo metodo. Effettivamente se si guarda al dibatti-to epistemologico e filosofico sviluppatosi daDescartes fino a Feyerabend incluso, è difficile sot-trarsi all’impressione complessiva che i vari prota-gonisti di questa ricerca siano rimasti tutti vittimadella sindrome cartesiana (l’espressione è stataconiata, qualche anno fa, dall’attuale Presidentedel Senato, Marcello Pera, quando ancora si occu-pava più direttamente del dibattito filosofico in unsuo pregevole volume laterziano significativamen-te intitolato Scienza e retorica), Questa sindromeconsiste proprio nel ritenere che la scienza sipossa risolvere, unilateralmente e senza residui,nel suo metodo. Naturalmente i vari partecipanti aquesta storica discussione ideale, sviluppatasi nelcorso di tre secoli, hanno poi variamente argo-mentato il loro reciproco dissenso teorico nell’in-dividuare il presunto metodo della scienza in que-sto o quel particolare (ed assai circoscritto) crivel-lo metodologico, in questo o quel determinatoapproccio euristico-ermeneutico specifico, tipicodi questa o quella disciplina. In ogni caso, puravendo variamente alimentato tale dissenso teori-co, tutti questi filosofi hanno infine condiviso unacomune idea di fondo: quella in virtù della qualeritenevano, appunto, che la scienza si potessesistematicamente ridurre al suo metodo, con laconnessa convinzione che solo l’applicazionesistematica di questo metodo fosse poi in grado diprodurre vera ed autentica conoscenza, effettiva-

Fabio Minazzi I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche

55

mente degna di questo nome. In realtà, se si guarda invece al concreto e com-plesso sviluppo storico effettivo della scienza, nellasua reale configurazione storica e teorica, è inveromolto difficile sottrarsi ad un’impressione moltodiversa, quella in base alla quale occorre invecericonoscere che la scienza non possiede affatto unsuo unico e specifico metodo di intervento perstudiare e indagare il mondo reale. Non per nullail padre riconosciuto della scienza moderna,Galileo Galilei, ha sempre rifiutato di codificare, inmodo rigido e schematico, la vera natura del meto-do scientifico. Al contrario, Galileo si è invece limi-tato ad avanzare un’indicazione di massima, invirtù della quale, perlomeno a suo avviso, l’appro-fondimento della conoscenza scientifica può esse-re realizzato solo muovendosi liberamente entrouna duplice polarità di riferimento: le certe dimo-strazioni e le sensate esperienze. Tuttavia, propriograzie a questa indicazione di massima, Galileo havoluto indicare unicamente l’universo complessivodi riferimento epistemico entro il quale l’impresascientifica può delineare un suo autonomo modoper procedere e approfondire le conoscenzeumane. Del resto proprio la diretta esperienzascientifica, sviluppata da Galileo in differenti setto-ri di indagine e di ricerca, deve averlo indotto aritenere che un unico metodo scientifico, codifica-to e riproducibile automanticamente per tutti i dif-ferenti settori della ricerca, non solo non esisteva,ma non era neppure auspicabile. Perché non esisteva e non era auspicabile? Perchél’indagine scientifica si può rivolgere a campi moltodifferenziati che richiedono tutti l’istituzione di unproprio e specifico apparato metodologico, permezzo del quale sia effettivamente possibile appro-fondire le conoscenze che si possono eventual-mente conseguire in quel particolare settore disci-plinare. Non per nulla Galileo, in prima persona, èpassato dallo studio astronomico del cielo, alla con-siderazione sulla resistenza dei materiali, dall’inda-gine delle leggi della dinamica, alla considerazionedel comportamento fisico dei corpi che galleggianoin un liquido, dallo studio dell’isocronia delle oscil-lazioni di un pendolo, all’approfondimento dellanozione matematica dell’infinitamente piccolo,dalla costruzione e dall’uso del “cannone della

lunga vista” alla valutazione di decine di minuti pro-blemi tecnologici (balistici, tecnologici, etc., etc.).Proprio la varietà e la grande vastità di tutti questisuoi diversificati interessi scientifici deve aver indot-to Galileo a ritenere che il “metodo” scientifico,dovendo affrontare ambiti così differenziati ed assaieterogenei, non poteva affatto essere codificato,una volta per tutte, entro un solo modello episte-mico, univoco ed astratto. Per questa ragione difondo l’indicazione galileiana, programmatica e dimassima, di un sapere scientifico che si costruisce esi delinea via via mettendo continuamente in rela-zione, peraltro secondo differenti e sempre liberecurvature scientifiche ed epistemiche, il momentosperimentale delle sensate esperienze con quelloteorico delle certe dimostrazioni voleva probabil-mente costituire una feconda indicazione metodo-logica di fondo, in grado di salvaguardare adeguata-mente l’originalità, la libertà e l’intriseca flessibilitàdell’approccio scientifico, evitando ogni pregiudi-ziale chiusura dogmatica. Galileianamente parlandola scienza non possiede dunque un suo metodo,perché, semmai, può solo delineare un suo autono-mo e specifico universo complessivo di riferimento,entro il quale ogni singola indagine deve poicostruire i propri criteri di protocollarità, il propriometodo di indagine, il proprio universo epistemico,i propri “oggetti” e persino le proprie inferenze.Non per nulla Galileo, nel Saggiatore, aveva intro-dotto la sua celebre distinzione tra le qualità pri-marie e le qualità secondarie su di un pianomeramente operativo. Semmai, la indebita ontolo-gizzazione sostantivizzante di queste due differen-ti qualità fu invece operata proprio dal pensierofilosofico post-galileiano che trasformò indebita-mente l’indicazione operativa dello scienziato pisa-no in un’indicazione decisamente metafisica, invirtù della quale esisterebbero, appunto, dellesostanze primarie matematizzabili, accanto adelle differenti sostanze secondarie non matema-tizzabili. Il che costituisce, evidentemente, un’in-debita ontologizzazione dell’indicazione galileia-na, proprio nella misura in cui induce a rimuovereil problema di fondo cui si era invece trovato difronte Galileo. Quest’ultimo si era infatti reso benconto che non tutti gli aspetti morfologici delmondo potevano essere affrontati con lo strumen-

n.32 / 2012

56

to matematico di cui l’uomo disponeva nelSeicento. Per questo motivo aveva introdotto, sem-pre e solo sul piano meramente operativo (e noncertamente sostanziale e metafisico), una distinzio-ne pratica ed operativa che doveva aiutare la scien-za a non impantanarsi in un problema morfologico(quello attinente, appunto, le forme del mondo e laloro intrinseca e complessa mutevolezza) peraffrontare il quale, nel Seicento, non esistevanoancora adeguati strumenti euristico-matematici suf-ficientemente potenti. Tuttavia, proprio questadistinzione operativa - che nasceva, dunque, inGaileo da una profonda consapevolezza critica con-cernente i limiti oggettivi della matematica del suotempo – finì, invece, per essere letta ed interpreta-ta come un limite ontologico invalicabile e costitu-tivo dello stesso sapere scientifico moderno. Questa indebita ontologizzazione della distinzionegalileiana fu del resto compiuta anche in strettaconnessione con la progressiva affermazione diun’autentica egemonia culturale esercitata dallafisica-matematica nei confronti di tutte le altrediscipline scientifiche. Con la conseguenza cheassumendo infine il modello della fisica-matemati-ca come punto di riferimento privilegiato per tuttele indagini scientifiche, ben presto si finì per con-trapporre alla scientificità delle teorie fisiche laminore affidabilità scientifica delle altre teorie –come quelle biologiche, per esempio, direttamen-te attinenti alle scienze della vita – nate su altri ter-reni di indagine. Da questo punto di vista la stessaidea kantiana in virtù della quale la “scientificità” diuna specifica teoria scientifica potrebbe esseremisurata dalla quantità di matematica presenteall’interno di una determinata teoria, costituiscel’espressione emblematica dell’incredibile egemo-nia culturale (ed epistemica) che la fisica-matema-tica ha effettivamente esercitato nel corso deisecoli. Egemonia culturale che certamente puòessere ben compresa e giustificata, soprattutto allaluce degli strepitosi ed innegabili successi conosci-tivi conseguiti dalla fisica newtoniana nell’indagarela natura del mondo fisico. Tuttavia, proprio que-sta indebita egemonia culturale ha poi finito percondizionare pesantemente anche lo sviluppocomplessivo di tutte le altre scienze, non solo sulpiano epistemologico, ma anche su quello stretta-

mente scientifico. In primo luogo, relegando suun piano di interesse scientifico e culturale secon-dario le cosiddette “scienze molli” (attinenti piùdirettamente lo studio del problema della vita)rispetto alle cosiddette “scienze dure” (appunto, lafisica e la matematica). Inoltre, in secondo luogo,questa egemonia culturale indusse molti scienziatia ritenere, erratamente, che una disciplina potevadiventare scientificamente matura solo nella misu-ra in cui era in grado di duplicare, all’interno delproprio specifico settore disciplinare, il modelloeuristico posto in essere dalla fisica-matematica. Intal modo la matematizzazione forzata di moltediscipline finiva per costituire, inevitabilmente, ilsegno stesso della loro palese inferiorità discipli-nare ed epistemica, il loro vero e proprio “marchiodi infamia” scientifico. Inoltre, in terzo luogo, l’e-gemonia incontrastata del modello fisico-matema-tico finì anche per marginalizzare molti altri setto-ri di indagine, nel mentre contribuì anche a dog-matizzare, indebitamente, lo stesso modello fisico-matematico che, spesso e volentieri, si è irrigiditoin taluni tenaci modelli epistemici che hanno rap-presentato un ostacolo all’evoluzione della stessafisica-matematica.

4. La natura epistemica della conoscenzascientifica

D’altra parte non può neppure essere taciutocome nell’opera stessa di Gaileo si possano anchereperire taluni assunti che hanno variamente con-tribuito a diffondere un’immagine che ha diretta-mente contribuito ad assolutizzare la conoscenzascientifica. Si prenda in considerazione, per esem-pio, la celebre distinzione galilaiana, avanzata nelDialogo sopra i due massimi sistemi, in cui loscienziato pisano distingue nettamente tra il sape-re intensive e il sapere extensive. Come è bennoto per Galileo il sapere extensive indica la quan-tità delle conoscenze che possono essere conse-guite. Da questo punto di vista, perlomeno a suoavviso, la distanza e la differenza tra l’uomo e diosarebbe veramente abissale: dio, infatti, per defini-zione, risulta essere onnipotente e onnisciente epuò quindi conoscere infinite verità. Di control’uomo, essendo un essere finito, dotato di un

Fabio Minazzi I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche

57

intelletto finito, ed essendo nato per morire,potrebbe conoscere solo un numero finito(comunque infinitamente inferiore) alle veritàconosciute da dio. Galileo ribadisce, dunque, l’infi-nita ed abissale distanza che separa l’uomo da dio.Tuttavia, sempre secondo Galileo, questa distanzainfinita tra dio ed uomo risulta poi essere alquantoattenuata e persino annullata se si prende invecein considerazione la specifica modalità conosciti-va in virtù della quale l’uomo, proprio grazie allascienza, può conoscere il mondo. Infatti, perlome-no dal punto di vista del sapere intensive, non esi-sterebbe alcuna differenza qualitativa tra la cono-scenza umana e quella divina: quando infatti l’uo-mo conosce qualche verità in modo scientifico, laconoscerebbe esattamente nella stessa modalitàassoluta che contraddistingue, per definizione, ilsapere divino. Non per nulla Galileo condividevaanche una immagine sostanzialmente cumulativi-stica della conoscenza scientifica ed era sincera-mente convinto come ogni conoscenza scientificarappresentasse, sempre e comunque, una sorta di“vero” immodificabile che poteva essere sempreaffiancato e, appunto, sovrapposto, ad altre veritàgià conseguite una volta per sempre.In altre parole per Galileo il sapere scientifico nonpoteva non essere un sapere assoluto e immodifi-cabile. Per questa ragione di fondo a suo avvisoquando l’uomo conosce il mondo sarebbe allora ingrado di conoscerlo da dio, vale a dire in modoassoluto e immodificabile. Ma, a ben considerarequesto problema, proprio questa specifica modali-tà epistemica con la quale Galileo pensava di poterattribuire alla conoscenza umana il carattere (divi-no) dell’assolutezza e dell’immodificabilità, nonfaceva altro che trasferire – in modo decisamente“blasfemo” (“blasfemo” perlomeno dal tradiziona-le punto di vista del religioso ortodosso e del cre-dente tradizionale) – alla conoscenza umana unclassico attributo metafisico che aveva da semprecontraddistinto non solo la nozione della veritàoccidentale, ma anche la tradizionale immagine didio (che, per definizione, è sempre stato concepi-to, perlomeno nella tradizione cristiana, come“assoluto” - sciolto, appunto, da ogni eventualecondizionamento empirico – e sempre come eter-no, immodificabile e imperituro). Nel compiere

questa sua operazione Galileo non solo rischiava diassolutizzare indebitamente i risultati conoscitividella scienza, ma finiva anche per compiere un’o-perazione teologica assai discutibile (perlomenodal punto di vista dell’ortodossia del credente),poiché, innegabilmente, lo scienziato pisano, pro-prio con la sua distinzione tra sapere extensivo esapere intensivo, finiva proprio per porre sullostesso piano dio e l’uomo, accomunandoli, appun-to, nella modalità del loro effettivo conoscere. Se questro aspetto “blasfemo” ha certamente svol-to anche un suo preciso ruolo nel corso della rea-lizzazione del celebre processo intentato alloscienziato pisano dall’Inquisizione cattolica, tutta-via non è stato neppure privo di conseguenzeanche sul piano concernente, più direttamente, latradizionale immagine epistemica della conoscen-za scientifica. Infatti anche molti secoli dopoGalileo non pochi scienziati e filosofi, per non par-lare, poi, del senso comune, hanno sostanzialmen-te condiviso e fatta propria, (spesso in modo deltutto acritico), l’idea che le conoscenze scientifi-che consentissero effettivamente all’uomo diconoscere, in modo assoluto e immodificabile, ilmondo. Proprio per questa ragione la conoscenzascientifica è stata spesso concepita come unaconoscenza autenticamente assoluta, in grado difarci conoscere, una volta per tutte, la vera e pro-fonda natura effettiva del mondo. Secondo questaprospettiva epistemica le teorie scientifiche sonostate allora interpretate come “l’occhio di dio sulmondo”, come se le differenti verità scientifichepotessero infine consentirci di guardare il mondoda una distanza siderale ed infinita, da una sorta dinon-luogo epistemico, per mezzo del quale l’uo-mo poteva, appunto, conseguire un sapere vera-mente “assoluto” e wertfrei, finalmente in grado diliberarlo da ogni contingenza e da ogni, inevitabi-le, parzialità empirica e storica. Sempre per questo motivo si è anche iniziato aritenere che una verità scientifica non potesse maimodificarsi nel corso del tempo, poiché una veritàscientifica relativa e storica sembrava costituireuna vera e propria contraddizione in adjecto, uninconcepibile assurdo epistemico. Tuttavia, pro-prio lo studio della storia della scienza ci poneinvece di fronte all’imbarazzante constatazione che

n.32 / 2012

58

la verità scientifica non solo non è affatto assoluta,ma si modifica incessantemente, giacché qualsiasirisultato conoscitivo può sempre essere approfon-dito criticamente da differenti punti di vista scien-tifici. Non solo: qualsiasi risultato scientifico puòanche essere ribaltato in modo decisamente rivo-luzionario, dando spesso origine ad una diversa eassai più profonda e paradossale visione conosciti-va della realtà. Di fronte alla constatazione storico-empirica di questo aspetto, incessantemente evo-lutivo, storico e rivoluzionario del sapere scientifi-co, si è allora diffuso o un atteggiamento di sostan-ziale scetticismo nei confronti della conoscenzaumana, oppure un’opposta valutazione, decisa-mente antistorica, della crescita del sapere scienti-fico, tendende ad assolutizzare, positivisticamen-te, l’ultimo e più recente risultato conoscitivo. Lasoluzione scettica era evidentemente alimentatadalla consapevolezza che la scienza non sarebbemai stata in grado di conseguire un risultato cono-scitivo stabile e definitivo, proprio perché ognirisultato può sempre essere rimesso costantemen-te in discussione. Di conseguenza lo scetticismotrovava proprio in questa relatività storica del sape-re scientifico la documentazione più inoppugnabi-le della propria tesi dogmatica, quella in virtù dellaquale si negava alla scienza ogni effettiva portataconoscitiva e all’uomo stesso la possibilità di cono-scere alcunché. Di contro, l’assolutizzazione posi-tivistica dell’ultimo e più recente risultato scientifi-co nasceva, invece, dal desiderio, del tutto antisto-rico, di contrapporre l’ultima verità (ultima in ordi-ne cronologico) a tutte le precedenti “verità”scientifiche, ormai considerate come del tuttoobsolete e ampiamente superate. In entrambi i casi veniva sostanzialmente liquidataproprio la reale complessità storico-epistemica delsapere scientifico che non coincide né con il tradi-zionale relativismo scettico, né, tanto meno, conun’indebita assolutizzazione dei singoli risultatidella conoscenza scientifica. Semmai, perlomenoda un differente e più fecondo punto di vista epi-stemico, proprio questi diversi problemi e la lorodogmatica ed assai unilaterale soluzione, avrebbe-ro invece dovuto indurre ad elaborare un’innovati-va e più rigorosa immagine della conoscenza scien-tifica la quale ultima, pur vivendo della possibilità

di un suo continuo approfondimento critico, tut-tavia è anche in grado di mettere capo a delleconoscenze autenticamente oggettive. Per coniu-gare coraggiosamente e in modo fecondo il carat-tere oggettivo e storico-relativo della conoscenzaoccorre rielaborare un nuovo punto di vista cultu-rale, filosofico ed epistemico complessivo, capacedi tener conto, al contempo, l’indubbia complessi-tà del sapere scientifico, nonché la sua intrinsecaflessibilità critico-epistemica.

5. Scienza e valori: un nuovo paradigma epi-stemico

Ma per sviluppare questo nuovo approccio episte-mico occorre anche saper riprendere in considera-zione critica la stessa drastica e dogmatica con-trapposizione tra la dimensione conoscitiva dellascienza e la dimensione axiologico-valoriale. Seinfatti la conoscenza scientifica risulta essere, alcontempo, storica ed oggettiva, relativa e capace,tuttavia, di farci conoscere il mondo, si deve alloratener presente come questa stessa verità relativanon possa non connettersi anche al complessivoquadro storico-valoriale ed axiologico entro ilquale l’uomo svolge la sua vita, partecipando aduna determinata epoca storica, schierandosi peralcuni valori contro altri, parteggiando, appunto,per una società civile che si contrappone ad altripossibili modelli. Tuttavia, per meglio procederein queste considerazioni, occorre, in primo luogo,chiarire debitamente questo apparente paradossodi una verità relativa.Quando si parla di “verità relativa” non si intendeaffatto sostenere che le verità scientifiche sianoassimilabili ad una dimensione in cui tutto scorrein modo eracliteo, senza avere mai alcuna possibi-lità di individuare delle conoscenze effettive ereali. Semmai, con questa espressione si vuole solomettere in evidenza come la conoscenza umana,proprio perché non è mai configurabile come unaconoscenza assoluta ed irrelata, si configura comeuna conoscenza che risulta essere “oggettiva” pro-prio perché la sua “assolutezza” non è irrelata, manasce, invece, sempre all’interno di un determi-nato e specifico ambito di indagine, di un determi-nato universo di discorso. D’altra parte, proprio

Fabio Minazzi I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche

59

per questo suo essere una verità “assoluta” realti-vamente ad un determinato ambito di indagine,la verità relativa, lungi dall’essere assimilabile aduna soluzione scettica, presenta un carattere affat-to singolare: quello appunto di costituire unaconoscenza umana, pienamente umana, che si rea-lizza sempre in un contesto relativo, ben circo-scritto, parziale e finito. Se infatti modifichiamo ilsuo ambito di riferimento l’oggettività stessa diquesta conoscenza non può che essere profonda-mente trasformata. In tal modo le verità oggettive,che valgono unicamente all’interno di un bendeterminato universo di discorso – per esempioentro l’ambito, definito e ben circoscritto dellageometria euclidea – assumono un ben differentesignificato se vengono invece riferite ad un altroambito teorico – per esempio, a quello delle geo-metrie non euclidee. In tal modo si può così com-prendere come nell’ambito delle geometrie eucli-dee la somma interna degli angoli di un triangoloqualunque sia è sempre pari ad un angolo piatto,mentre questo stesso assunto non risulta esserepiù vero in relazione ad un qualunque triangolodelle geometrie non-euclidee. In tal modo il riferimento alle verità relative, cuimettono capo le differenti teorie scientifiche, sot-tolinea il carattere peculiare della conoscenzascientifica umana: il suo essere, al contempo,“assoluta” relativamente al proprio universo didiscorso, ma, al contempo, il suo essere “relativa”e “storica”, proprio perché il suo universo di rife-rimento non è mai determinato una volta pertutte, non è mai un universo assoluto ed irrelato.Gli universi di discorso possono infatti cambiare aseconda dei differenti ambiti di indagine e anchein relazione alle esigenze di un coerente approfon-dimento critico della stessa conoscenza umana. Matali approfondimenti critici e tali cambiamenti di“universo di discorso” non configurano mai unarelatività assoluta del sapere scientifico, un suoindebito slittare in un orizzonte scettico, giacchè ilsapere umano vive sempre all’interno di un bendeterminato contesto. La sua “assolutezza”, idest lasua “oggettività” si costituisce proprio entro undeterminato ambito di indagine, mentre, d’altraparte, la sua intrinseca apertura concettuale nascesempre dalla possibilità di mettere in discussione

critica (anche radicale) proprio quel particolareambito prospettico, quel particolare universo didiscorso, onde analizzare il problema affrontato daun differente punto di vista. Il che ci permette poidi meglio intendere la specifica dialettica di cre-scita critica del sapere umano il quale ultimo,perlomeno nel corso stesso della storia della scien-za, è sempre finalizzato ad approfondire critica-mente i risultati che ha via via raggiunti, ondemeglio intenderli secondo altre prospettive pro-spettiche e secondo nuove ed alternative prospet-tive ermeneutiche.Questa considerazione deve pertanto indurci aconsiderare, in modo del tutto pacifico, come leconoscenze cui l’uomo può mettere capo, proprioperché costituiscono sempre delle verità relative,non possono mai pretendere di possedere una lorovalidità assoluta, indipentendemente dall’uomo,dal contesto in cui l’uomo vive e dalla stessa socie-tà entro le quali sono state variamente elaborate. Leverità conosciute dall’uomo sono sempre veritàumane e dobbiamo pertanto accettare pacifica-mente la constatazione che queste conoscenzevivono e avranno senso unicamente finchè vivràl’uomo. Ma poiché l’uomo è, per sua natura, unessere assolutamente contingente, nato per mori-re, di conseguenza anche le nostre stesse cono-scenze vivranno unicamente finchè vivrà l’uomo.

Lungi dall’essere conoscenze assolute, eterne edirrelate, situate in un mitico iperuraneo platonico,queste conoscenze avranno invece un senso, pro-fondamente umano (quindi storico e relativo), solofinchè continuerà ad esistere la cultura e la societàumana. Per questa ragione di fondo queste cono-scenze scientifiche, intese come autentiche “veritàrelative”, non possono neppure essere più consi-derate come assolutamente indipendenti dalladimensione axiologica e valoriale propria e specifi-ca dell’uomo. Anche all’interno delle conoscenzescientifiche sono infatti presenti dei valori umaniche svolgono una loro precisa funzione euristica edepistemica. Non per nulla molte teorie scientifichevengono preferite ad altre per la loro eleganza, perla loro semplicità, oppure ancora per la loro capa-cità di meglio integrarsi con altri saperi consolidati,per la loro sintonia con una determinata credenzaetico-religiosa, con una determinata società politi-

n.32 / 2012

60

ca, etc. Proprio tutti questi (ed altri) differenti cri-teri rinviano, in ultima analisi, ad un ben precisouniverso axiologico in nome del quale anche le teo-rie scientifiche sono infine valutate e giudicatecomplessivamente dalle differenti comunità scien-tifiche e dalle stesse società umane che finanzianoe sostengono le stesse comunità scientifiche.Del resto per riscoprire la presenza della dimen-sione axiologica all’interno della scienza bastereb-be anche porsi la seguente domanda: le differenticomunità scientifiche come possono scegliere einfine deliberare in relazione alle differenti teoriescientifiche? In altre parole: come si determina il“superamento” di una determinata teoria scientifi-ca? In virtù di quale criterio epistemico una teoriafinisce per prevalere sulle teorie concorrenti? Se siinterroga la storia della scienza ponendosi doman-de come queste – o altre analoghe – è allora age-vole scoprire come molti fattori extra-scientifici –non tutti intrinsecamente epistemici – svolganoanch’essi, costantemente, un loro ben precisoruolo nel determinare il successo o l’insuccesso dideterminate teorie o di particolari programmi diricerca scientifici. Il che non vuol affatto dire chel’affermazione di una verità scientifica si realizziper alzata di mano, come invece avviene nell’ambi-to delle deliberazioni politiche. Tuttavia, ancheall’interno dello sviluppo della conoscenza scienti-fica, non è affatto difficile scorgere la compresenzadi molteplici fattori che condizionano variamente,ma in modo sempre assai rilevante, la storia dellascienza e il suo stesso sviluppo concettuale. Nonper nulla molti scienziati condividono anche losconsolante rilievo di Plank secondo il quale, spes-so e volentieri, una determinata teoria scientificadeclina e viene infine abbandonata e sostituita daun'altra teoria scientifica unicamente perché unadeterminata generazione di scienziati viene sosti-tuita, per meri motivi entropici naturali, connessiall’invecchiamento e alla morte, da una nuovagenerazione di studiosi. Senza ora voler necessa-riamente aderire a tale assai pessimistica visionedella storia del sapere, tuttavia non si può comun-que negare come la storia del sapere umano ciponga spesso di fronte ad alcune svolte rivoluzio-narie per l’affermazione delle quali hanno svoltoun loro preciso ruolo euristico anche molteplici

fattori decisamente extra-scientifici, tra i qualiquelli axiologici non sono affatto secondari.

6. Teleologia della conoscenza ed escatolo-gia della speranza

Per questa ragione di fondo occorre allora reinseri-re lo stesso problema della comunicazione (anchedi quella scientifica) in una diversa prospettiva epi-stemica, in un diverso, più articolato e assai più fles-sibile, orizzonte filosofico, in una nuova e proget-tuale “architettonica” culturale e civile, adeguataalla complessità del problema che stiamo trattando.La valutazione epistemica della plasticità dellaconoscenza scientifica, della sua natura intrinseca-mente storico-relativa ed oggettiva, ci deve infattiindurre a riconsiderare gli stessi nessi tra la cono-scenza scientifica e la dimensione storico-civiledella modernità. Per avviare una tale riflessionepenso che un autore, in particolare, ci aiuti ameglio definire i termini complessivi del problema:Immanuel Kant. Perché Kant? Perché Kant, megliodi molti altri autori, ha colto non solo il precisovalore epistemico della conoscenza scientifica, maè risuscito anche ad individuare il profondo efecondo nesso che costituisce l’autentico motoresegreto dello sviluppo della modernità, vale a direil nesso irrinunciabile tra conoscenza e libertà. Conoscenza e libertà rappresentano le due diver-se facce della medesima medaglia della modernità:la modernità è infatti cresciuta grazie al profondointreccio che si è storicamente determinato tra laconoscenza e il suo continuo aprrofondimento cri-tico e il parallelo sviluppo storico-civile delle liber-tà. Meglio ancora, da un punto di vista criticista sipotrebbe anche sostenere come per Kant libertà econoscenza si rinviano continuamente giacchè lalibertà non può che ampliarsi grazie all’approfon-dirsi della conoscenza umana, mentre, di contro,quest’ultima, per svilupparsi in tutte le direzioniconnesse al suo approfondimento, intrinsecamen-te mercuriale, non può che richiedere e giovarsicontinuamente di una sempre maggiore libertà. Inquesta prospettiva conoscenza e libertà costitui-scono veramente il motore segreto della moderni-tà, l’autentico binomio in virtù del quale il mondomoderno è riuscito progressivamente – e in qual-

Fabio Minazzi I contesti della comunicazione. Alcune riflessioni critiche

61

che caso, rivoluzionariamente – a scardinare ilprecedente mondo feudale e medievale, configu-rando, infine, un nuovo mondo e una nuova pos-sibilità per la vita umana e le stesse società civili.Kant stesso indicava questo nuovo orizzonte stori-co-civile e culturale ponendosi tre domande inve-ro decisive. Apparentemente sono tre domandemolto semplici, dietro le quali è tuttavia celato ilriferimento ad un binomio rivoluzionario comequello delineato dal fecondo intreccio tra libertà econoscenza. In ogni caso le domande che Kantponeva (che si poneva e che ci pone) erano le treseguenti:che cosa possiamo conoscere?che cosa dobbiamo fare?che cosa ci è lecito sperare?Queste tre domande delineano una precisa edinnovativa architettonica concettuale, filosofica,culturale e civile, mediante la quale si può megliointendere la natura dell’uomo stesso (non pernulla Kant nelle sue lezioni di logica sostenevaanche come le tre domande testè riferite potesse-ro infine ridursi ad una sola domanda decisiva: checos’è l’uomo?). Mediante questa triplice interroga-zione è possibile indagare non solo la natura, ilvalore e i limiti della conoscenza umana, ma si può(e si deve) anche collegare la dimensione conosci-tiva con quella etico-civile, ponendo in piena evi-denza il problema, irrinunciabile, della responsabi-lità umana e, quindi, quello della libertà umana.Ma non basta, perchè l’uomo non è solo cono-scenza e libertà, ma è anche escatologia, è utopia,è desiderio di poter effettivamente incidere sullastoria secondo alcune insorgenze liberanti e auten-ticamente rivoluzionarie. In questa prospettiva, che configura una vera epropria “architettonica” della modernità, il sapereumano (in primis quello scientifico) non viene piùseparato dalla dimensione morale (dall’ambitodella libertà), ma viene invece concepito come unmomento decisamente irrinunciabile, in virtù delquale l’uomo stesso, rafforzando la sua libertà e lasua conoscenza del mondo, è meglio in grado diporre in essere le proprie utopie. Il che configuraun’azione – ad un tempo intellettuale e civile –mediante la quale si deve essere in grado di rom-pere criticamente il chiasmo reificante della cultu-

ra contemporanea, in virtù del quale, invece, ladimensione della conoscenza è sistematicamentescissa e sempre più contrapposta a quella dellalibertà. Con il risultato, alienante, che l’approfon-dimento conoscitivo non è più messo illuminsiti-camente al servizio di una progressiva dilatazionedella libertà civile umana, ma viene invece trasfor-mato in uno strumento coercitivo e reificante, gra-zie al quale la conoscenza diventa schiava di altrelogiche economiche, nel mentre l’uomo stesso èsempre più “cosalizzato” e la sua esistenza si ridu-ce ad un vivere alienato e frammentario, orbato diogni possibile escatologia. In tal modo l’alienazio-ne sociale, culturale e civile cui l’individuo umanoè sempre più ridotto e costretto dalla sistematicacontrapposizione, reificante ed astratta, tra cono-scenza e libertà, si trasforma in un’autentica gabbiaentro la quale non si innesta più nessun processodi autentica liberazione umana. Al contrario, laconoscenza, da strumento di dominio e possessoconcettuale del mondo, in grado di farci conosce-re nuovi mondi e nuovi orizzonti, si trasforma,sistematicamente, in uno strumento, reificato edeificante, di dominio, mentre l’uomo stesso, pri-vato di ogni responsabilità etico-civile, viene sem-pre più asservito ad un sistema che tende, inevita-bilmente, a trasformarlo in una mera “rotella” ace-fala di un ingranaggio più grande di lui (per esem-pio la globalizzazione contemporanea di fronte allaquale l’individuo si sente del tutto impotente ecome radicalmente schiacciato, in una tragica soli-tudine esistenziale). Contro questo processo, che finisce inevitabilmen-te per impoverire sia l’uomo, sia la conoscenza, siala libertà dell’individuo, sia la stessa società civile,sia le sue più profonde potenzialità critiche, l’ar-chitettonica delineata da Kant – filosofo che rap-presentò l’autentica punta di diamante dell’illumi-nismo rivoluzionario e critico - ci offre, invece, lapossibilità di rimettere al centro della nostra azio-ne umana il fecondo nesso tra l’approfondimentodella conoscenza e lo sviluppo di una più ampia eresponsabile libertà civile. Naturalmente rispettoall’originaria architettonica filosofica kantianaoccorre oggi sottolineare il carattere intrinseca-mente storico della conoscenza umana. Il che nondeve affatto indurci a rinunciare anche all’utilizza-

n.32 / 2012

62

zione euristica ed epistemica del criticismo kantia-no. Alla filosofia kantiana va infatti riconosciuto ilmerito storico-culturale di aver individuato il pianospecifico della trascendentalità, mediante il qualela stessa conoscenza scientifica umana può essereconsiderata ed indagata secondo una prospettivaepistemica molto più seria e rigorosa. Quella che ciinduce costantemente a valutare l’oggettività dellanostra conoscenza sul piano decisamente fenome-nico, in virtù del quale l’oggettività della cono-scenza non rinvia più ad alcuna ontologia metafisi-ca soggiacente. Meglio ancora: proprio la scopertakantiana della trascendentalità e la sua conseguen-te affermazione dell’intrinseca ed irrinunciabiletrascendentalità di ogni conoscenza umana ciconsente di meglio intendere la natura profonda-mente epistemica della conoscenza umana. Unaconoscenza che non può più pretendere di svelar-ci le strutture nascoste e silenti dell’essere, ondepor capo ad un disvelamento ontologico-metafisi-co del reale. Al contrario, la scoperta kantiana dellatrascendentalità ci ricorda, costantemente, comeogni nostra consocenza, istituendo un propriospecifico e peculiare universo di discorso trascen-dentale, un proprio orizzonte epistemico, non puòpiù indurci a scaricare il contenuto conoscitivo diquesto nostro universo sul mondo reale, inteso

nella sua immediatezza più acritica perché, sem-mai, abbiamo invece a che fare, dal nostro punto divista umano (assai flebile e assai claudicante), conun mondo reale che costruiamo continuamenteproprio grazie a quella insopprimibile tensione tral’ambito della conoscenza e l’ambito della libertà.Il che, anche contro lo stesso trascendentalismokantiano configurato nelle tre celebri Critiche delfilosofo di Königsberg, ci consente di ribadire ilcarattere eminentemente storico della stessa tra-scendentalità, proprio perché la nostra conoscenzadel mondo non è mai una conoscenza assoluta edesaustiva, bensì costituisce una conoscenza ogget-tiva e integralmente umana di un mondo entro ilquale, con la forza della nostra volontà e con l’ausi-lio del nostro intelletto, cerchiamo sistematicamen-te di introdurre qualche flebile fuoco critico, ondemeglio illuminare lo spazio del nostro precario iti-nerario esistenziale. Ma in questo preciso quadrol’intelligenza e il cuore, la ragione e la libertà mora-le, la comprensione umana del reale e l’azione cheesplichiamo nel mondo della prassi, costituiscono,appunto, gli unici supporti, reali, storici ed effettivi,che ci aiutano a meglio orientarci in un mondovasto, oscuro e terribile, come quello in cui siamostati, inaspettatamente, catapultati.

1. Autotutela ed esecutorietà: il poteresostanzialmente giudiziario della P.A.

L’esecutorietà dell’atto amministrativo costituisceuno degli esempi di come la cultura giuridica ine-rente al rapporto tra potere pubblico e cittadini,non solo influisce sulle norme giuridiche in sensostretto, ma ne rappresenta il vero fondamento ine-spresso. L’istituto riguarda gli atti della P.A., nellaquale comprendiamo gli enti pubblici in sensostretto riportati al D.Lg. n.165 del 2001 (Stato edaltri enti territoriali, ASL, Agenzie fiscali, Autoritàindipendenti, enti previdenziali ecc.), gli enti pub-blici economici, e le società (formalmente) priva-tizzate ma controllate da soggetti pubblici (quelleche svolgono il servizio ferroviario, postale, inoltrele numerose società create dagli enti locali): questisoggetti godono delle prerogative connesse all’e-secutorietà degli atti nei confronti dei privati ovve-ro dell’“autotutela”, che si divide in autotutela“decisoria” ed autotutela “esecutiva” comprensivadel potere di esecutorietà. L’autotutela consistenella possibilità di farsi giustizia da sé nei confron-ti dei privati, salva la possibilità di contestarli alivello giudiziario Il farsi giustizia da sé nascondel’imperfetta e inespressa separazione dei tre pote-ri dello Stato. Nel nostro ordinamento alcune fun-zioni rientranti ontologicamente in uno dei poteri(legislativo, esecutivo-amministrativo e giudizia-rio) dello Stato possono essere attribuite in modovariegato. Tralasciando gli esempi del diritto costi-tuzionale, dell’attività giudiziaria e amministrativadel Parlamento o della volontaria giurisdizione, l’e-sempio più importante di questa commistione dipoteri è rappresentata proprio dall’autotutela

(nella quale rientra l’esecutorietà) della P.A., istitu-to che comporta l’attribuzione di un potere “giudi-ziario” pur non previsto in alcuna norma, e sfuma-to in dottrina come un’eccezione alla divisione deipoteri, e che determina il rapporto, non di radovessatorio, tra cittadini e potere amministrativo.La funzione giudiziaria consiste nel verificare laspettanza o meno di un diritto e/o di un obbligo acarico di un soggetto, in base a quanto previstodalla legge che, nei limiti della Costituzione, rap-presenta la fonte di entrambi (sentenze di “meroaccertamento”); nel determinare la realizzazione diun effetto giuridico (sentenze “costitutive”); nel-l’imporre l’adempimento di un obbligo (sentenze“di condanna”. Oltre a queste tre forme del proces-so di cognizione del contenzioso civile, nel poteregiudiziario rientra infine la potestà di attuare coatti-vamente gli obblighi previsti da una pronuncia dicondanna tramite il processo di esecuzione.Le potestà rientrano nel concetto di autotutelaamministrativa e vengono attribuite alla P.A. mainvano si cercherebbe nella Costituzione una rego-la generale:la carta fondamentale tace in materia dimodo che un’interpretazione letterale farebbepropendere per soluzioni più garantiste e rispetto-se della separazione dei poteri. La legge ordinaria(emanata solo di recente: L. n.15 del 2005 chemodifica la L.n.241 del 1990) sembra in effetti con-figurare i poteri in argomento come eccezioni adun principio generale ma culturalmente nelnostro Paese non vi sono regole più certe e diapplicazione generale di quelle basate su ecce-zioni. Quando la P.A. si avvale del “diritto ammini-strativo” l’autotutela decisoria corrisponde al pro-cesso di cognizione ovvero al potere di accertare e

63

Giovanni Cofrancesco

Convergenza collaborativa tra i poteri delloStato. Il principio di esecutorietà del provvedi-mento amministrativo

Viaggiando tra le costellazioni del sapere

n.32 / 2012

64

conformare i diritti e gli obblighi reciproci nei rap-porti con i privati (ad esempio i diritti di un con-cessionario o i limiti alla facoltà di edificare su unfondo); di costituire nuovi diritti ed obblighi (revo-care una concessione, rilasciare un permesso dicostruire, autorizzare lo svolgimento di un’attivi-tà); infine quello di condannare ad adempiere alleproprie determinazioni (sanzioni pecuniarie,demolizione dell’edificio abusivo). L’autotutelaesecutiva consiste invece nella potestà di portare acompimento mediante azioni coattive le decisionidi condanna (demolizione dell’edificio abusivo,esecuzione coattiva per l’introito delle somme rite-nute dovute ecc.). Si dirà, l’Amministrazione non èun giudice terzo, ma un soggetto “parte” in rap-porto con altre parti private: in effetti la deroga alprincipio di separazione dei poteri e la posizionedi privilegio vengono in luce se si confronta laposizione con quella spettante ad un privato che difronte alla P.A. dispone di posizioni giuridichecostituite da diritti soggettivi (nella minoranza deicasi) ed interessi legittimi (la parte più rilevantedei rapporti): pretese e non poteri, in quanto illoro contenuto consiste nella loro soddisfazione(rilascio del permesso di costruire, presentazionedella DIA o SCIA ecc.). Se la P.A. non ritiene diaccettare le richieste, l’unica possibilità per il pri-vato è quella di ricorrere al giudice, ordinarioriguardo ai diritti soggettivi, o amministrativoriguardo agli interessi legittimi, cioè di percorrerela via tortuosa del contenzioso giudiziario attraver-so il processo di cognizione e quello di esecuzione(o del giudizio di ottemperanza nel processoamministrativo): il privato non ha il potere di farsigiustizia da sé. Peraltro l’Amministrazione è avvan-taggiata anche in sede di contenzioso non solo nelgiudizio amministrativo relativo (salvi i casi di giu-risdizione esclusiva) agli interessi legittimi, maanche in quello civile relativo ai diritti soggettivi.

2. Convergenza “collaborativa” tra P.A. e pri-vati: la giurisprudenza “antigarantista” vienerecepita dal legislatore. Il potere giudiziariocome revisore della legalità

In uno stato come il nostro che deriva i suoi prin-cipi dall’ordinamento amministrativo francese, la

Costituzione definisce le regole fondamentali del-l’azione pubblica ed i diritti che spettano ai privati,cui segue la legge ordinaria che stabilisce i poterispettanti alla P.A. con compiti predefiniti ed unpotere giudiziario che (composto o meno di giudi-ci “specializzati”) si pone come arbitro tral’Amministrazione ed i cittadini, stabilendo dove ipoteri della prima vengono bloccati dai dirittiintangibili dei secondi.La nostra Costituzione, nell’interpretazione dellaCorte Costituzionale, non pone alcuna regola“forte” che riguardi il rapporto tra P.A. e cittadini,limitandosi a prendere atto che il nostro è un ordi-namento “infinitamente” flessibile tra la posizionedi potere o di Autorità e la posizione di “libertà”dei soggetti privati, a cui unisce un disegno inde-terminato che comprende l’obbligo della P.A. diprestare i pubblici servizi (che ormai fanno capo inbuona parte alle società privatizzate) e la pretesadei singoli allo svolgimento dei servizi: il cosiddet-to “buon andamento” dell’Amministrazione (art.97Cost.). Il primo settore viene assoggettato ad uncomplesso di norme (di legge ordinaria) che stabi-liscono l’attribuzione del potere alla P.A. ed i suoilimiti, e tutto ciò che ne residua a favore dei priva-ti costituisce l’ambito delle libertà, cioè dei lorodiritti ed interessi protetti dalla normativa, mentreil secondo viene assoggettato a regole solo in partegiuridiche, in base alle quali l’Amministrazione ètenuta a soddisfare le pretese dei privati. I diritti ele posizioni hanno carattere “residuale” di fronte alcarattere dominante dell’attività amministrativa eal ruolo del potere pubblico. In questo quadro, l’e-secutorietà non viene in luce: da un lato è data perpresupposta, dall’altro nel disegno costituzionalesi basa su un concetto di amministrazione dotatadi poteri autoritativi. L’esecutorietà non è peròregolata nei suoi principi fondamentali, ed è rimes-sa alla dialettica, affidata alla legge ordinaria, traautorità e libertà.A sua volta il potere legislativo “vede”l’Amministrazione come il protagonista principaledel potere pubblico, al quale la legge deve fornirenon i vincoli, ma piuttosto la legittimazione, cioècome uno strumento, a livelli alti, dell’indirizzopolitico di governo (centrale, ma anche locale) e alivelli bassi (ordinaria amministrazione) come un

Giovanni Cofrancesco Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato.

soggetto che svolge attività comunque ritenute diinteresse generale e quindi di per sé anch’essesovraordinate rispetto agli interessi “particolari”dei singoli, i quali possono certamente condizio-nare “a monte” l’azione amministrativa e in manie-ra legale (ma occulta) a valle dell’emanazione delprovvedimento, o della decisione sullo svolgimen-to di un pubblico servizio, in posizione “recessiva”rispetto alla decisione della P.A. centrale o locale.La legge italiana, culturalmente, ha in odio le rego-le generali e “forti”, ed evita di decidere quali sianoin una determinata materia le posizioni reciprochedi P.A. e privati; di norma decide l’assetto di unamateria individuando un concessionario pubblico,stabilendo la realizzazione e le modalità di finan-ziamento di un’opera (leggi-provvedimento),oppure prevede le procedure attraverso le quali ilprovvedimento amministrativo debba venire inessere, come le leggi urbanistiche, di conferenzedi servizi, e quelle relative agli altri istituti facenticapo alla legge fondamentale in materia di proce-dimento, la L. n. 241 del 1990 (leggi-procedimen-to). Le (poche) leggi a portata generale utilizzanotermini vaghi: si pensi al principio, costituzionaliz-zato con L. cost. n. 3 del 2001 di “sussidiarietà”,che può giocare a favore del potere centrale o diquello locale, a danno degli amministrati. Il risulta-to è che l’Amministrazione, “strumento” del pote-re politico, ma sua volta ispiratrice di quello, vededefinite dalla legge i suoi poteri, in relazione al cit-tadino, in quello che abbiamo chiamato il versantedella “legittimità”, caso per caso, con una inversio-ne del rapporto tra legislativo ed esecutivo. Non èil primo a determinare a monte le regole cui ilsecondo debba attenersi, ma è quest’ultimo arichiedere e ad ottenere le norme di cui necessitaper il suo agire: in questo modo il legislativo assu-me in fatto un ruolo “collaborativo” rispettoall’Amministrazione. Il legame è in parte fisiologi-co in uno stato come il nostro a forma di governoparlamentare: ciò che caratterizza il sistema ita-liano è che la legge “segua” caso per caso le esi-genze dell’Amministrazione. Al di là del colorepolitico del legislativo centrale e di quelli locali, sinota una crescente importanza del fenomenodescritto, che se in larga parte ha sempre caratte-rizzato il rapporto tra legge ed Amministrazione, in

questi ultimi anni sta assumendo connotati quasi“totalitari”, nel senso che leggi ad hoc rincorrono ibisogni (pecuniari) della P.A. rinviando ad essa laconformazione dei diritti in gioco. L’esecutorietàin questo contesto viene definita dalla legge in col-laborazione rispetto alle esigenze della P.A.: ad unprincipio generale ambiguo, contenuto nell’art. 21ter c. 1 della L. n. 241 del 1990 (inserito dalla L. n.15 del 2005), che rimanda alle altre norme di leggela possibilità di portare ad esecuzione i propriprovvedimenti, segue una legislazione che stabili-sce, talora implicitamente, che gli atti previsti, oancora a monte i poteri attribuiti alla P.A. possonodare luogo all’esecuzione coattiva. I singoli prov-vedimenti legislativi assumono anche in questocaso una funzione collaborativa rispetto alle esi-genze dell’Amministrazione: il principio culturalefondamentale nel nostro ordinamento è quellosecondo cui la composizione degli interessi ingioco e delle relative posizioni di potere e di dirit-to della P.A. e dei privati sono disciplinati in manie-ra “casuistica” dalle scelte dell’Amministrazione, acui è affidato il compito di mediare tra la posizionedi autorità e le libertà piccole o grandi dei singoli.Che questo potere di mediazione sia enormemen-te aumentato negli ultimi due decenni è un dato difatto che ha comportato come conseguenza unaltrettanto vistoso aumento delle situazioni nellequali l’esecutorietà degli atti viene prevista dallalegge. A questo aumento di autoritarietà corri-sponde una diminuzione del potere di sindacare il“merito” dell’azione amministrativa, il che si è rea-lizzato soprattutto attraverso la privatizzazione for-male (in quanto le società privatizzate sono pursempre controllate dai soggetti pubblici) delle P.A.fornitrici di pubblici servizi, le quali, pur mante-nendo anch’esse poteri esecutori (e non solo intema di incameramento di somme di denaro, maanche di prescrizioni riguardanti un fare: distanzestradali, ferroviarie ecc.), dal versante del merito,in quanto soggetti privati, sfuggono al sindacato daparte dei singoli cittadini sul “buon andamento,anche a quei deboli controlli che pure sono pre-senti riguardo all’attività degli enti pubblici insenso stretto.Venendo al rapporto tra potere giudiziario edamministrativo la posizione istituzionale dei giudi-

65

n.32 / 2012

66

ci, essendo anch’essi (come nei sistemi europeicontinentali e a differenza di quelli anglosassoni)costituiti da pubblici funzionari, e non per nulla siparla si parla di “Amministrazione giudiziaria”, nonsolo non si contrappone a quella della P.A., ma cul-turalmente il potere giudiziario non vede sé stessocome terzo e super partes, tra privato e P.A., mapiuttosto come “revisore” dell’operato di quest’ul-tima. A ciò si aggiunge che il potere giudiziario ita-liano, salva la possibilità di sollevare conflitto dicostituzionalità, è istituzionalmente vincolato aduna legislazione “collaborativa” rispetto alle esi-genze della P.A., di modo che il giudizio quanto alsuo oggetto è costituito dall’attività amministrati-va, e solo mediatamente va a toccare le posizionidei privati. Con questo non si vuol dire che il pote-re giudiziario sposi sempre le tesi della P.A., mache il suo punto di vista è concentrato in generesull’operato dell’Amministrazione e solo in base adesso riconosce o meno le pretese ed i diritti deiprivati. In tutto ciò quella funzione paragiurisdizio-nale di cui abbiamo parlato in precedenza cheviene attribuita all’Amministrazione gioca un ruolofondamentale: in un certo senso è come se l’attoamministrativo e quindi la decisione della P.A. rap-presentasse un sorta di giudizio ante litteram diprimo grado, al quale la vera e propria azione giu-diziaria si accosta come una sorta di appello, o senon vogliamo usare un termine fuorviante comeuna sorta di revisione. L’autotutela amministrativa,e quindi l’esecutorietà completa questa posizioneparagiudiziaria spettante al potere amministrativo:la qualcosa comporta il potere di decidere unilate-ralmente la sua posizione giuridica nei confrontidel privato e di eseguire coattivamente le decisio-ni, quasi fossero una sorta di pronunce paragiudi-ziarie di prima istanza: a carico del privato si deter-mina l’inversione dell’onere della prova, dato chel’atto amministrativo si presume legittimo sinoalla dimostrazione contraria, ma anche l’inver-sione dell’onere dell’azione in giudizio (non è laP.A. a dover agire ma è il privato a dover difenderele proprie posizioni, sia che voglia opporsi ad unatto amministrativo sia che avanzi delle preteseverso l’azione lesiva della P.A.). Questo vale per ilgiudice amministrativo, chiamato a pronunciarsisulle posizioni di interesse legittimo, la cui funzio-

ne di revisione rimane culturalmente dominante,nonostante che si affermi in giurisprudenza che ilgiudizio amministrativo si basa sul rapporto e nonsulla valutazione dell’atto emanato: così il mante-nimento della “pregiudiziale amministrativa”, cioèdella necessità di impugnare l’atto amministrativolesivo di interessi legittimi per ottenere il risarci-mento dei danni conseguenti, pregiudiziale ammi-nistrativa solo attenuata e di fatto non eliminatadalla recente legislazione (v. art. 30 del cod. proc.amm. d. lgs. n. 104/2010); idem, per il giudice ordi-nario competente per tutto l’ambito del ricorsocontro le sanzioni amministrative pecuniarie(soprattutto quelle relative a violazioni del codicedella strada, che costituiscono la fonte di entratamaggiore per gli enti locali) collocato in un quadrogiuridico culturale che lo vede come un revisoredella correttezza dell’azione amministrativa, cioèdella validità della pretesa sanzionatoria. Più ingenerale il giudizio civile prevede agevolazioni ederoghe alle regole generali a favore della P.A.: adesempio in tema di azione esecutiva esercitata dalprivato (v. art. 14 D.L. n. 669 del 1996 conv. in L. n.30 del 1997 sui termini relativi alla notifica del tito-lo esecutivo e del precetto, in attuazione di unasentenza favorevole al privato). La normativa inve-ce penalizza il privato imponendo bolli ed altre tas-sazioni sui ricorsi verso gli atti dell’Amministrazio-ne (sempre in tema di sanzioni amministrative) icui costi non sono di norma ripetibili nemmeno incaso di vittoria della causa. Peraltro, in conclusionedi questa disamina dei principi giuridico culturaliimpliciti che stanno alla base dei rapporti con glialtri due poteri statali, possiamo notare un para-dosso, ovvero l’inversione del rapporto tra poterelegislativo e potere giudiziario nel dar corpo adistituti che si pongono in maniera collaborativarispetto all’azione amministrativa, nel senso chel’applicazione giurisprudenziale non è determinatadalla legge ma è la giurisprudenza consolidatache viene recepita dalla legge. E’ il caso tipico delprincipio generale dell’esecutorietà degli attiamministrativi, mai codificato in una norma espli-cita prima della L. n. 15 del 2005, che ha inseritol’art. 21 ter nella L. n. 241 del 1990, ma che ha rap-presentato l’applicazione di un pluridecennaleorientamento giurisprudenziale, avallato peraltro

Giovanni Cofrancesco Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato.

dalla dottrina giuridica salvo poche voci contrarie(BENVENUTI). La giurisprudenza e la legislazionehanno fatto a gara nell’attribuire questo potere allaP.A. anche nelle ipotesi in cui non fosse esplicita-mente previsto, il che è indice, proprio in relazio-ne all’argomento del nostro discorso di quei pre-supposti giuridico culturali comuni che vedononella P.A. un potere che comprende potestà para-giurisdizionali, e che fa delle Amministrazioni pub-bliche (e di tutte le società privatizzate dotate dipoteri pubblici) una sorta, almeno in prima istanzae salvo ricorso degli interessati, di giudice in causapropria, il che rappresenta il fondamento ine-spresso, ma non per questo meno determinantedell’istituto dell’autotutela, di cui l’esecutorietàdegli atti non è che un’applicazione specifica.Incredibile anomalia italiana: anche negli statiassoluti il potere giudiziario esercita quando puòun minimo di garantismo a favore del suddito, neiconfronti del legislativo e dell’esecutivo. Da noi ilmondo è alla rovescia.

3. I principi normativi in tema di esecutorie-tà nella Costituzione e nelle leggi ordinarie

Nella carta fondamentale, in tema di esecutorietà,non sono presenti neppure quelle affermazionigeneriche e quei principi indeterminati che carat-terizzano altri settori, e che hanno un qualcheeffetto nel connotare le caratteristiche precettive.Una delle poche affermazioni sul rapporto tra P.A.e cittadini è rappresentato dall’art. 28, che con unaformula generica, sancisce la responsabilità deipubblici funzionari e di conseguenza dell’Ammini-strazione per i danni cagionati ai privati. Si tratta diuna norma ovvia in uno stato di diritto, la cuiimportanza non va certo sottovalutata, ma il cuicontenuto come si può comprendere, rimane permolti versi indeterminato e soggetto ad essere“riempito” in maniera variabile a seconda degliindirizzi del legislatore o della giurisprudenza, i cuipresupposti culturali sono indirizzati in maniera“orientata” al favore collaborativo verso la P.A. piùche non verso la tutela del cittadino in sé e per séconsiderata. Da questa norma non si ricava alcunaindicazione a favore dell’esecutorietà degli attiamministrativi come istituto generale del nostro

diritto; per contro se interpretata con occhio rivol-to alla tutela dei diritti individuali, ben potrebberoindividuarsi dei limiti impliciti all’accumulo dipoteri derogatori rispetto al diritto privato in capoalla P.A.. Qui sta la differenza tra la nuda norma ela norma vivente la quale si è sempre “conformata”ad un rinvio alla legge (e alla giurisprudenza) perindividuare i casi di effettiva responsabilitàdell’Amministrazione: si pensi al risarcimento deidanni derivanti dalla lesione di interessi legittimi,che dopo contrastanti orientamenti tra Corte diCassazione e Consiglio di Stato viene, infine rico-nosciuto, ma ridotto in ambiti molto ristretti dallalegislazione.Possiamo distinguere il diritto in tema di esecuto-rietà a seconda che abbia la funzione di attuare lepretese dell’Amministrazione relative ad un fare,ad un non fare, o alla consegna di un bene deter-minato. Nel primo settore rientrano i casi in cuil’attività dell’Amministrazione va ad impattare sulleposizioni dei privati (vedi la disciplina urbanisticaspecifica di un bene immobile, con relativa impo-sizione delle caratteristiche architettoniche dellacostruzione), quelli nei quali provvede a sanziona-re le violazione di un non fare imposto ai privati, equelli in cui la P.A. procede all’impossessamento diun bene determinato (espropriazioni, requisizio-ni). Il principio fondamentale è contenuto nell’art.21 ter c. 1 della L. n. 241 del 1990, inserito dalla L.n. 15 del 2005: non rappresenta un novità partori-ta dal legislatore del 2005 innovativa del dirittovivente, ma piuttosto una puntuale messa periscritto dei conformi indirizzi giurisprudenziali(soprattutto dei giudici amministrativi) in materia,a conferma di quella convergente collaborazionetra potere legislativo e potere giudiziario rispettoall’interesse pubblico la cui cura è affidataall’Amministrazione. Inoltre, e questo rappresentaun’altra espressione dei presupposti giuridico cul-turali inespressi che dominano il diritto vivente, seanalizziamo la formulazione della norma troviamoun testo non troppo sbilanciato nell’attribuire ilpotere di esecutorietà all’Amministrazione, dalmomento che il suddetto art. 21 ter c. 1 stabilisceche le P.A. possono imporre coattivamente l’a-dempimento degli obblighi nei loro confronti “neicasi e con le modalità stabilite dalla legge”. Una for-

67

n.32 / 2012

68

mulazione dunque apparentemente restrittiva, chea livello letterale potrebbe ben stare a fondamentodi un sistema che prevede l’esecutorietà in casieccezionali, magari motivati dall’urgenza o dallaimpossibilità concreta di ricorrere al giudice. Nonè così, perché il possibile scenario è vanificato dalfatto che quasi la generalità delle leggi prevede o siritiene in via interpretativa (sia dalla P.A. sia dallagiurisprudenza) che implicitamente tali poteri visiano. La disposizione di legge, rappresenta unprincipio indeterminato e per molti versi “vuoto”,certamente molto “leggero” nel suo contenutonormativo, soprattutto perché ancora prima dellasua formulazione generica (che rinvia alle altreleggi) si inserisce in quel contesto giuridico cultu-rale che conforma l’autotutela spettanteall’Amministrazione comprensiva della coazioneunilaterale delle pretese, come un potere attribui-to in via generale, salvo eccezioni. Il che rappre-senta l’altra faccia dell’art. 21 ter c. 1, che può esse-re letto come una norma che attribuisce in gene-rale l’esecutorietà agli atti che la P.A. ritiene neces-sari per attuare i precetti che le attribuiscono com-piti pubblici, salvo contraria previsione. La diffe-renza (e in questo caso non è una differenza dapoco) tra una possibile lettura restrittiva ed unaeffettiva concezione generalizzante dell’attribuzio-ne del potere di esecutorietà agli atti amministrati-vi la fa ovviamente il contesto giuridico culturale incui la norma “vive” e che per così dire la trasformada disposizione cartacea ad effettiva regola giuridi-ca. Che poi esista una discrasia, o meglio un gapmolto ampio tra la portata letterale delle norme ela loro applicazione pratica, costituisce una carat-teristica tipica dell’ordinamento italiano, caratte-rizzato da una cultura giuridica (e prima ancora dauna cultura civica) nella quale le regole generalisono rappresentate dalle eccezioni. Insomma, laP.A. può attuare coattivamente le proprie pretese:basta che una norma le attribuisca il potere di agirein una determinata materia, ciò comporta la possi-bilità di modificare unilateralmente le posizioni deiprivati con tutto ciò che questo comporta: inver-sione dell’onere dell’iniziativa in giudizio, dell’one-re della prova ecc., per il soggetto che vogliaopporsi al provvedimento esecutorio. Segnaliamol’ampio settore nel quale l’Amministrazione gode

di poteri discrezionali, nel quale l’esecutorietà èdata per implicita proprio per la presenza di talipoteri. Così per l’ambito dei poteri di ordinanzaattribuiti ai sindaci dall’art. 54 del D. Lg. n. 247 del2000, potere in parte limitato a seguito della sen-tenza n. 115 del 2011 della Corte Costituzionaleche lo ha ristretto ai casi di urgenza, ma già utiliz-zato non solo per scopi di necessità pubblica e diurgenza, ma per motivi se non futili, certamentenon di importanza fondamentale: il divieto di sostaalle “passeggiatrici”; il comportamento dei bambi-ni e dei fidanzatini nei parchi comunali e tutto il“bestiario” delle ordinanze sindacali. In questo set-tore l’esecutorietà dei provvedimenti dominasovrana, con la possibilità per i funzionari comu-nali di imporre il divieto (oltre che di applicare lesanzioni). Tradizionale invece in tema di esecuto-rietà, è il campo degli espropri, delle occupazionid’urgenza, dell’imposizione di servitù e dellerequisizioni, nonché le limitazioni alle attività pri-vate che necessitano di provvedimenti autorizzati-vi, ad esempio quelle edilizie, con la possibilità diimporre, ancora prima dell’applicazione di unasanzione la sospensione dei lavori. Naturalmentel’attività sanzionatoria relativa a violazione di obbli-ghi di fare o di non fare da parte del privato, dallademolizione dei manufatti abusivi, all’esecuzione aspese del privato delle opere di urbanizzazionenon conformi, è assistita dalla esecutorietà. Ormainon è più prevista la necessità ad esempio di otte-nere il decreto dell’Autorità giudiziaria per lademolizione di opere ritenute abusive, in quanto ilComune provvede d’ufficio, con il diritto di acqui-sire inoltre l’immobile oggetto dell’abuso (art. 30c. 3 del D.P.R. n. 380 del 2001). Ogni qualvolta chel’attività di interesse pubblico consiste in un fare ocomporta la pretesa di ottenere il possesso di unbene determinato, la possibilità di provvedere uni-lateralmente, previa diffida al privato ai sensi del-l’art.21 ter c.1 più volte citato è generalizzata, equesta generalizzazione è il frutto soprattutto deiquei presupposti giuridico culturali che determi-nano la formulazione e l’applicazione delle norme.Passando al settore relativo ai rapporti di debi-to–credito tra P.A. e privati aventi per oggettosomme di denaro, dobbiamo partire da un altropresupposto giuridico culturale non scritto, anzi

Giovanni Cofrancesco Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato.

formalmente abolito in quanto norma positiva findal 1961 da una dichiarazione di incostituzionalitàdella Corte Costituzionale (sentenza n. 21 del1961), quello del solve et repete. Per solve et repe-te si intende quella disciplina delle obbligazioniaventi per oggetto una somma di denaro tra priva-ti e P.A. in base alla quale i primi sono tenuti inogni caso a soddisfare le pretese della seconda esolo successivamente hanno la possibilità di farevalere le loro ragioni in relazione ad un’eventualeripetizione del pagamento non dovuto. In questoistituto se guardiamo bene, l’esecutorietà del pote-re amministrativo raggiunge il suo livello massimo.Infatti non solo si ha un’inversione dell’onere dellaprova e dell’iniziativa in giudizio rispetto al giudi-zio di cognizione, come si verifica a fronte di unordine di demolizione o di un decreto di espro-prio, che può essere impugnato chiedendone lasospensiva, ed evitando, grazie all’iniziativa in giu-dizio, l’esecuzione coattiva; nel caso del solve etrepete anche la stessa fase di esecuzione del prov-vedimento che impone il pagamento di unasomma di denaro (sia essa a titolo di tributo o disanzione amministrativa) non può essere contra-stata dall’impugnazione, che può essere solo suc-cessiva rispetto al pagamento, di modo che si haun impedimento anche rispetto alla possibilità diinstaurare un giudizio che comporti almeno lasospensione dell’esecuzione, la quale viene opera-ta in via amministrativa unilateralmente da partedella P.A.. A ben guardare, però, la legislazione suc-cessiva pur senza ripristinare il principio in gene-rale, ha previsto una serie di istituti che conferma-no la vigenza nel diritto vivente se non del solve erepete certamente qualcosa di molto simile, il cherende fortemente squilibrato il rapporto tra citta-dini e P.A., tenendo soprattutto conto del diversotrattamento riservato ai crediti in denaro dellaprima verso i secondi rispetto ai crediti di questiultimi verso le Amministrazioni. Anche nel casoche un soggetto al tempo stesso vanti crediti edebba rispondere di debiti verso la P.A. la suasituazione è penalizzata, dal momento che le rego-le civilistiche sulla compensazione (artt. 1241 esegg. cod. civ.) sono derogate con un regime cheprivilegia il credito del soggetto pubblico nei con-fronti dei privati. Sia il solve et repete che la com-

pensazione a senso unico si basano su un presup-posto giuridico culturale che fa del credito spet-tante al soggetto pubblico un diritto certo ad unasomma dovuta per il fatto della sua unilateraleaffermazione da parte di tale soggetto, mentre alcredito del privato viene riservato il normale statusdi pretesa puramente affermata e soggetta a con-trollo giudiziale: insomma un’altra faccia dell’ese-cutorietà, ma in un certo senso rafforzata.Per quanto riguarda la riscossione dei crediti spet-tati alle P.A., compresa la società concessionariadell’esazione dei tributi Equitalia s.p.a., e le societànazionali e locali che gestiscono i servizi pubblichi(postale, ferroviario, servizi comunali ecc.) lariscossione non avviene tramite la via giudiziaria,ma attraverso l’esecuzione in via amministrativa,cui rimanda il c. 2 dell’art. 21 ter, e che è discipli-nata da varie disposizioni normative, che vanno dalR.D. n. 639 del 1910, al D.P.R. n. 602 del 1973, alD.L. n. 78 conv. in L. n. 122 del 2010. In assenza diprincipi generali in materia, le leggi delineano unquadro giuridico nel quale la “normale” situazionedell’esecutorietà degli atti che impongono paga-menti (a titolo fiscale, contributivo o sanzionato-rio) in base alla quale l’onere dell’iniziativa in giu-dizio e quello della prova sono a carico del privato,viene in molti casi addirittura superata, ripropo-nendo istituti e meccanismi giuridici che in largaparte si avvicinano al solve et repete, limitandoulteriormente la tutela del cittadino. Innanzi tuttoin tema di accertamento tributario e di imposizio-ne coattiva del pagamento, ricordiamo che la pos-sibilità di chiedere in giudizio (di fronte alleCommissioni tributarie) la sospensiva dell’attoimpositivo è subordinata, ai sensi dell’art. 47 delD.Lg. n. 546 del 1992, alla possibilità di un “dannograve e irreparabile” a carico del ricorrente, il chetrattandosi di somme di denaro, rappresenta un’i-potesi che rende molto difficile la concessionenella maggioranza dei casi. A ciò si aggiunge inol-tre il fatto che, in base all’art. 29 del D.L. n. 78conv. in L. n. 122 del 2010, i termini per la riscos-sione coattiva, da effettuarsi tramite espropriazio-ne immobiliare, con relativa eventuale iscrizione diipoteca sui beni del contribuente (ad es. la casa) evendita all’asta ai sensi degli artt. 76 e segg. delD.P.R. n. 602 del 1973 o tramite fermo dei beni

69

n.32 / 2012

70

mobili registrati (l’automobile) ai sensi del succes-sivo art. 86, decorrono dall’avviso di accertamento,nel quale si “concentra” in un unico provvedimen-to l’atto che impone la riscossione; ancora piùimprobabile diventa la tempistica per ottenere unasospensiva.Quanto alle sanzioni amministrative, tra le qualiassumono particolare rilievo quelle relative allaviolazione del codice della strada, notiamo che esi-stono principi generali, stabiliti dalla L. n. 689 del1981, che in parte ricalcano quelli penalistici mache essendo una legge ordinaria possono venirederogati dalle singole disposizioni che prevedonole sanzioni in una determinata materia, ad esempionei già citati casi in cui le sanzioni si riferiscono aipoteri di ordinanza dei sindaci. Inoltre, non essen-do definito l’elemento soggettivo (colpa o dolo)dell’illecito amministrativo, può capitare che il sin-golo si trovi colpito dalla sanzione pur essendo inperfetta buona fede. Ciò si può riferire non soloalla commissione della violazione, ma soprattuttoalla procedura di notificazione che a volte per dis-guidi di vario genere il destinatario non riceve, enon essendo a conoscenza di avere commesso laviolazione (ad es. del codice della strada non con-testata immediatamente) si ritrova penalizzato daulteriori sanzioni nonché dagli interessi per il man-cato pagamento, tenendo conto che, contro ildestinatario, fa sempre fede la dichiarazione dell’addetto alla consegna (dipendente delle Postes.p.a., o anche collaboratore precario), il quale,come incaricato di pubblico servizio, secondo lacostante giurisprudenza della Cassazione attestafatti (la consegna) che possono essere messi in dis-cussione solo con querela di falso: la probatio èdavvero diabolica giacché i documenti sono nellemani della P.A. e non si comprende davvero il per-ché dell’inversione dell’onere della prova quandola P.A., se in regola, può facilmente dimostrare lesue pretese al contrario del cittadino che deveesperire il diritto di accesso agli atti ed ai docu-menti (ma di fronte ad una P.A. inerte può soloesperire un ulteriore processo defatigante controil silenzio inadempimento davanti al giudice ammi-nistrativo). Se a ciò si aggiunge la possibilità perl’Amministrazione di sottoporre a fermo ammini-strativo il veicolo strumento della violazione (ai

sensi dell’art. 86 del D.P.R. n. 602 del 1973 applica-bile anche in tale materia), è tutt’altro che ipotesiteorica quella in cui l’ignaro cittadino si vedasequestrato il veicolo senza sapere nemmeno diavere commesso una violazione, magari risalentenel tempo. Inoltre, dal punto di vista processuale,se è vero che alle sanzioni amministrative, a diffe-renza degli accertamenti tributari non si applica ilmeccanismo che abbiamo descritto, in quantol’impugnazione sospende l’esecuzione, è anchevero che il prevalente orientamento giurispruden-ziale, a fronte di un verbale basato su dati elettro-nici, e tenendo conto che in sostanza non rileval’elemento soggettivo della violazione, ben rara-mente si discosta dalle conclusioni dell’Ammini-strazione e capita che il cittadino rimanga vittimadi adempimenti burocratici (ad esempio il paga-mento ad un ufficio di polizia municipale incom-petente) che ricadono, nonostante la buona fede,a suo danno. Per quanto concerne la distinzionequasi filosofica tra concorso formale dei reati econtinuazione previsti dal codice penale (artt. 73,74, 75) essa dovrebbe applicarsi alle sanzioniamministrative: ma se violo con una sola azione illimite di velocità e vengo “fotografato” per 30 voltepagherò 30 contravvenzioni? In giurisprudenza c’èuna magna confusio. Per non dire dell’importodella tassazione sull’atto di ricorso (v. da ultimo lemodifiche apportate dall’art. 37 del D.L. n. 98conv. in L. n. 111 del 2011) che, anche in caso divittoria non viene addebitato all’Amministrazionesoccombente, ma resta a carico del cittadino: purnon trattandosi di importi elevati, la tassazionefinisce per scoraggiare i ricorsi in materia soprat-tutto quelli relativi ad importi bassi: de minimis ...ma il principio rimane. Infine qualche cenno all’i-stituto della compensazione, o meglio delle “riten-zione” delle somme dovute dalle Amministrazioni(comprese le società privatizzate, ferroviarie,postali, gestori dei servizi locali ecc.), soprattuttorelative a contratti di appalti pubblici, a fronte diun debito, anche e solo affermato unilateralmente,e anche se contestato in giudizio, da partedell’Amministrazione fiscale o da parte degli entiprevidenziali. In base all’art. 48 bis del D.P.R. n. 602del 1973 infatti, ogni pagamento superiore a10.000 �, relativo ad appalti o ad altre fattispecie

Giovanni Cofrancesco Convergenza collaborativa tra i poteri dello Stato.

(ad es. indennità espropriative) a privati è sogget-to al controllo sulla non esistenza di pretese ese-cutive da parte dell’Amministrazione fiscale. Inquesta forma di blocco dei pagamenti, troviamoun istituto difficile da inquadrare teoricamente,simile in un certo senso ad una compensazioneunilaterale e salvo prova contraria, che costringeovviamente il privato ad esperire tutti i gradi di giu-dizio per vedere accertata la sua eventuale ragionesul debito contestato, e per ottenere non solo l’ac-certamento giudiziale negativo di quest’ultimo, maanche il pagamento del credito “bloccato”. Siamoanche in questo caso in una fattispecie molto vici-na al solve et repete: prima il privato deve saldarele pretese (anche se unilateralmente affermate)dell’Amministrazione e solo dopo può riscuoterequanto dovuto peraltro da un soggetto diverso daquello che vanta il credito (ad es. le Poste possonobloccare un pagamento per un appalto ad unaditta per un presunto debito tributario ecc.). Ildebito della P.A. funge in questo modo da garanziarispetto al presunto credito tributario, e gli effettisono molto simili a quelli di una sorta di pignora-mento automatico delle somme in contestazione.Quanto alla notifica, per evitare la decadenza dei150 gg., si ritiene che essa sia valida nel momentoin cui la polizia postale passa al Centro di Latina ilverbale della contravvenzione. Tutte queste ineffi-cienze invece di essere sanzionate dalla CorteCostituzionale sono avallate (per tutti C. Cost. n.477 del 2002) che pure in materia potrebbe eserci-tare un’educativa funzione garantista proprio alloscopo di “mettere alle corde” Stato ed enti pubbli-ci per realizzare gli obiettivi costituzionali dell’im-parzialità e del buon andamento della pubblicaamministrazione.E last but not least: l’occupazione acquisitiva senzaneppure un procedimento né un provvedimentoamministrativo sanata per l’interesse pubblicodalla stessa P.A. che ha compiuto l’illecito (ma perla par condicio l’Amministrazione sana anche leoccupazioni dei privati su proprietà pubbliche inviolazione del principio democratico e della legali-tà). L’istituto bocciato dalla Corte di Strasburgo econ motivazione sia pure formale (eccesso di dele-ga) dalla Corte Costituzionale è di nuovo ripropo-sto dalle recenti leggi finanziarie... per non mette-

re in difficoltà i dissestati bilanci statali e degli entiterritoriali. Si sfiora lo stato assoluto.In conclusione possiamo delineare un panoramanel quale la P.A. dispone di una serie di poteri chele consentono di portare ad esecuzione unilateral-mente le pretese, sia che abbiano per oggetto unfare, relativo ad un’attività amministrativa in séconsiderata o relativo all’applicazione di una san-zione (es. demolizione di un edificio abusivo), siache abbiano per oggetto la riscossione di unasomma di denaro, anch’essa relativa ad un’obbli-gazione primaria (accertamento tributario) oppurein relazione ad una sanzione (tributaria, per viola-zione del codice della strada ecc.). Questa situa-zione, basata sui principi fondamentali giuridicoculturali, non si fonda su una norma generale chepreveda e definisca nel suo contenuto (ma anchenei suoi limiti) tale potere. Nella Costituzione nonesistono norme in materia; le leggi ordinarie con-tengono solo principi astratti, in teoria applicabiliin ogni direzione. L’espressione strettamente giu-ridica è dunque costituita dalle norme che preve-dono caso per caso i privilegi dell’Amministra-zione, nonché le decisioni giurisprudenziali chequelle norme vanno ad interpretare e ad applicaresecondo i principi giuridico culturali delineati. Unpanorama variegato, composto di una congerienon coordinata di disposizioni e di interpretazioniche creano un insieme nel quale l’esecutorietà, lapossibilità dell’Amministrazione di farsi giustizia dasé, più che come un principio granitico, ma defi-nito, si pone come una selva di poteri capace diapplicazioni capillari (come anche di eccezioniperaltro) che rendono i cittadini ancora piùdeboli che se fosse previsto un principio generalefortemente strutturato: il principio dell’applicazio-ne casuistica del diritto. Anche per quanto riguar-da l’esecutorietà degli atti amministrativi infatti lapossibilità di ricorrere va vista in relazione all’in-tensità dei poteri e all’inversione degli oneri pro-batori e dell’iniziativa in giudizio, e viene definitacaso per caso, e con valore limitato alla fattispeciespecifica. Solo una ricostruzione generale, che,tenendo conto dei presupposti giuridico culturaliche stanno a fondamento del sistema, individui lesingole ipotesi e ne fornisca la sommatoria puòcogliere il fenomeno dell’esecutorietà in tutta la

71

n.32 / 2012

72

sua portata. Naturalmente non ci sfugge l’obiezio-ne: ma la P.A., a differenza del cittadino, non puòaspettare i tempi “biblici” della giurisdizione(sic!). Che qualcuno rimpianga l’amministrazioneborbonica nel regno (pardon nella repubblica) delparadosso, non è poi così paradossale.

4. Cenni comparativi con il sistema francesee tedesco

Una veloce considerazione sull’interazione fra ipoteri dello Stato francese che pur essendo a “dirit-to amministrativo” funziona con principi culturalidiversi dal nostro. Anche in Francia esiste l’esecu-torietà ma la normazione è generale ed astratta e laP.A. persegue gli interessi pubblici e/o privati indi-viduati dalla legge a monte senza eccessivi poteridiscrezionali ed esecutori: la giurisprudenza (inparticolare amministrativa) offre in genere criteriinterpretativi uniformi. Non quindi convergenzacollaborativa ma, piuttosto, “non ingerenza”: l’ordi-ne giudiziario sembra inerte nei confronti della P.A.

ed in particolare del Capo dell’Esecutivo (che è ilPresidente della Repubblica) anche quando è noto-rio un comportamento di rilievo penale. Il quartopotere (la stampa governativa e di opposizione) “siautolimita”. D’altro canto l’Amministrazione è dota-ta di un forte spirito di indipendenza sicuramentepiù forte della magistratura: ad ogni tentativo diuna sua “politicizzazione” more italico si è sempreopposta con successo.Ancora diverso il sistema tedesco: il compromessotra gli interessi, elemento comune con l’Italia,avviene però a monte con le istituzioni sociali e nona valle. La legge ne recepisce le istanze e per li ramila P.A. esegue. Come nel sistema francese la “dis-crezionalità” è minore rispetto a quella italiana mal’Amministrazione non sembra dotata di un forte“spirito di corpo” (anche perché non è così unitariapresentando solide organizzazioni amministrativerisalenti al periodo pre-unitario); la magistratura,compresa la Corte federale, sembra godere di unamaggiore indipendenza rispetto a quella francesenei confronti del legislativo e dell’esecutivo.

73

I. Da diversi decenni ormai continuano a pubbli-carsi, in Italia, articoli e saggi che rievocano le gran-di e nobili figure della tradizione laica. Storia deilaici, Maestri e Compagni, I miei maggiori: si trat-ta di una fabbrica delle idee che non raggiunge maiil grosso pubblico ma che è sempre in attività epuò contare, sui quotidiani più diffusi, su sicurispazi pubblicitari (gratuiti). Nulla di male, beninte-so. Il genere agiografico ha sempre avuto i suoicultori-scrittori e lettori. Durante il regime fascista,potevano vedersi collane come le “Centurie diferro” e altre simili, dedicate agli eroi, a i “Martiri”e ai precursori della Marcia su Roma. Ed è forsesuperfluo ricordare l’importanza dell’agiografia neisecoli della fede e dell’egemonia cattolica sull’edu-cazione dei popoli. Insomma ogni epoca avuto lesue “vite dei Santi” e questa, per i credenti, è lariprova che di una qualche forma di religiosità(della trascendenza o dell’immanenza) gli uominihanno sempre avuto bisogno.Nel nostro paese, però, la fenomenologia assumetratti specifici e, sotto il profilo democratico, taloraregressivi. Innanzitutto la laicità che starebbe afondamento della civic culture e dellaCostituzione repubblicana non viene mai definitacon precisione. A volte si identifica con lo spiritostesso della filosofia moderna - dall’empirismoscettico di David Hume al fallibilismo di Karl R.Popper -, a volte con l’etica kantiana e con l’impe-rativo categorico: “Agisci in modo da trattare l'uo-mo così in te come negli altri sempre anche comefine, non mai solo come mezzo”; a volte con l’au-tonoma delle dimensioni vitali in cui è inseritol’uomo moderno - dai ‘distinti’ di Benedetto Crocealle ‘sfere di giustizia’ e all’arte della separazione diMichael Walzer. In ciascuna di queste accezioni, lacategoria ha l’estesa denotazione di cui godono leopinioni scontate. Chi potrebbe mai pensare, infat-

ti, che la ragione sia in grado di farci scoprire laVerità? Chi non è d’accordo sul rispetto che si devea ogni essere umano? Chi è disposto a subordina-re l’etica alla politica o viceversa? Ma se la denota-zione è ampia, la connotazione è incerta, sul pianoconoscitivo, nel senso che soddisfa assai poco laregola aristotelica della definizione per genus pro-ximum et differentiam specificam. E, quel che èpeggio, finisce per assumere solo un significato“polemico”: non mette a fuoco una diversità ogget-tiva ma identifica una qualità alta dello spirito, unasuperiorità morale.L’opposto di laico, in tale contesto, è ‘dogmatico’:il laico è Filippo Salviati (Galileo), il dogmatico è ilperipatetico Simplicio del Dialogo dei massimisistemi. Se mi qualifico come ‘socialista’ è perdistinguermi da un altro che può essere un demo-cristiano, un liberale etc. Posso ritenere di avereidee migliori e più moderne di lui ma, etichettan-domi come ‘socialista’, non lo pongo certo su unpiano inferiore al mio. La mia autopresentazioneideologica non è molto diversa, sotto questo aspet-to, da una autopresentazione geografica: se, in unoscompartimento ferroviario, il mio vicino sidichiara ‘siciliano’, non lo metto in imbarazzo se glidico di essere marchigiano. Nel caso del ‘laico’,invece, le cose cambiano radicalmente. Nello ‘stiledi pensiero’ in esame, davanti a me non sta sem-plicemente uno che ha idee differenti dalle mie mauno che le ha sbagliate e che, se andasse al potere,si comporterebbe come gli Inquisitori spagnoli ogli ingegneri bolscevichi delle anime. Sennonchése ‘laico’ è il cittadino della ‘società aperta’ e il non-laico è il suddito della ‘società chiusa’, il sano dub-bio scettico non dovrebbe metterci in guardia dallatentazione di collocarci d’ufficio nella categoria‘buona’? Dirsi laico equivale a dirsi ‘intellettual-mente onesto’, disinteressato, disponibile all’as-

Dino Cofrancesco

LaicitàViaggiando tra le costellazioni del sapere

n.32 / 2012

74

colto degli altri, insomma un Garrone di deami-cisiana memoria. Che si possa ritenere di far partedella ‘santa schiera’ senza essere sfiorati dall’ombradel ridicolo desta qualche preoccupazione. Inrealtà, il termine ‘laico’ - come gli anti del dibattitoideologico - a cominciare dall’antifascismo,dovrebbe essere usato come aggettivo e banditocome sostantivo, se davvero si vuole instaurare unaconvivenza civile tra ‘diversi’. Si danno comporta-menti e discorsi laici, nel senso che non sono deter-minati da ‘partito preso’ o da militanza ideologica odalla fede religiosa ma si avvalgono dell’uso criticodella ragione e si richiamano a principi universali,che dovrebbero trovare tutti concordi, ma non èdato incontrare “laici” tout court, come invece s’in-contrano cattolici e protestanti, agnostici e atei.Nel fascicolo di “MicroMega” dedicato al tema“Berlusconi e fascismo2”, si riporta un significativodibattito tra il cattolico ortodosso FrancescoD’Agostino e la “laica” Roberta de Monticelli. Nelcorso del match, il giurista cattolico fa valere i prin-cipi della ‘civiltà del diritto’, mentre la filosofa illu-minista sposa le tesi del giustizialismo oltranzista.Il primo ricorda che “uno dei principi fondamen-tali di uno Stato di diritto, e cioè la presunzione diinnocenza” viene calpestato quando un processo“viene celebrato da e sui giornali”, la seconda con-danna “la totale mancanza di sensibilità nei con-fronti dell’ingiustizia, una insensibilità spacciataper distacco razionale, per capacità di distingueree mantenere separati il campo dell’etica da quellodella politica”. Chi dei due è il laico e chi restaancorato alla visione premoderna del diritto e dellapolitica che vuole diritto e politica al servizio del-l’etica (quella della de Monticelli, ovviamente, nonquella della massa damnationis che vota per ilCavaliere)?Forse sarebbe meglio dire, nei singoli casi, cheTizio è laico e Caio non lo è ma che entrambi adot-tano, a volte, uno stile laico e, altre volte, uno stileopposto; a volte ragionano molto su quel chefanno e dicono e si sforzano di giustificare pen-siero e azione con argomenti sottoscrivibili datutte le persone sensate e ragionevoli, altre volte silasciano trasportare dalla passione e dal risenti-mento. Nel dibattito di “MicroMega”, D’Agostino siè comportato in modo laico ma non posso dare lo

stesso giudizio quando si occupa di temi bioetici.Forse il contrario potrei dire della de Monticellima, sempre con beneficio d’inventario e col sanodubbio humeano che potrei sbagliarmi e con ladisposizione ‘laica’ a cambiare opinione.Ribadisco, la laicità mi sembra una possibile qualitàdell’azione non la natura fissa e immota dell’a-gente: è un metro di misura dei comportamentiindividuali e sociali, non la maglia indossata da unadelle due squadre in campo. Nelle società secolar-izzate, infatti, le squadre competono in posizionedi parità mentre una formazione coi colori laici,cresimata dall’imperativo kantiano, potrebbe, tut-t’al più, tollerare la formazione rivale ma non trat-tarla alla pari e rispettarla. Nessun scienziatopotrebbe stimare un chimico che giuri sulla for-mazione del flogisto.Ci sono due modi per salvare il ‘laico’ come sostan-tivo: il primo è quello di intenderlo nel senso delmembro del ‘laicato’ in quanto distinto dal ‘clero’:qui la connotazione è tanto precisa quanto irrile-vante, come irrilevanti sono tutte le cose ovvie. Ilsecondo è quello di riproporre la storica contrap-posizione tra ‘laici’ e ‘cattolici’, dove laico non è chinon veste l’abito talare ma chi non fa parte del“gregge del Signore”. Tale contrapposizione, però,risulta sempre più vuota. A livello universitario,sono anni che i concorsi a cattedre non prevedonopiù, in virtù di una tacita ‘costituzione materiale’,una ripartizione dei vincitori tra cattolici e laicimentre a livello politico, il va sans dire ben più ril-evante, la fine della DC, e la diaspora dei cattolici intutti i partiti hanno reso l’antica frattura un ricordodel passato. Quando sono in discussione leggi chetoccano il campo minato della bioetica, sembraricomporsi un ‘fronte cattolico’ trasversale ai parti-ti presenti in Parlamento ma, in realtà, si ha la sen-sazione di una chiamata a raccolta di reduci, dovenon tutti i reduci, peraltro, si ritrovano d’accordosu certe misure e su certe leggi per l’appunto‘laiche’. In ogni caso, nella ‘contrapposizione stori-ca’, si sa bene cosa siano i cattolici - identificati dariti, credenze e obbedienze specifiche - ma, quantoai laici, sono identificabili solo negativamente come“non credenti” o seguaci di altre religioni (cristianeo non). Si tratta di una ‘caratterizzazione’ che,almeno in teoria, non genera conflitti o complessi

Dino Cofrancesco Laicità

75

di superiorità ma neppure quell’orgoglio dell’ap-partenenza che vorrebbero suscitare i cantori dellalaicità, nelle loro allocuzioni massoniche fuori sta-gione. Se la divisione, infatti, è tra chi crede e chinon crede, si può esaltare il valore dell’ateismo soloall’interno di una visione a suo modo religiosa edogmatica che mal si concilia, tuttavia, con lafilosofia moderna, scettica e prudente, iscritta neldna della laicità. E, comunque, va anche fatto rile-vare che non solo la categoria dei “non credenti”non è unita dall’“essere qualcosa” bensì dal “nonessere qualcosa”, ma, al suo interno, è composta dauna grande maggioranza di ‘agnostici’ e solo da unaesigua minoranza di atei. Per molti agnostici lacompagnia degli atei è ancora più insopportabile diquella dei ‘credenti’, avvertendo confusamente nel-l’ateismo militante una forma di fondamentalismo‘a rovescio’ insopportabile e indigesta.Comunque, e per fortuna, le divisioni che gli ‘ateirazionalisti’ e la Società Giordano Bruno vorreb-bero aggiungere alle tante che già lacerano il tes-suto sociale e culturale del nostro paese, interes-sano solo un’esigua minoranza. Sul terreno delbuonsenso e della quotidianità, l’uso del termine‘laico’ come sostantivo è fuor di dubbio legittimoma si riferisce a un dato ‘oggettivo’ neutro, deser-to di simboli e di valori forti. Se i ‘laici’ sono quelliche non vanno a messa e non fanno la comunione,scriverne la storia sarebbe come scrivere la storiadi quelli che hanno i capelli rossi o di quelli chehanno la voce intonata.Non nascondiamoci dietro un dito, mi si potrebbedire. C’è un’accezione diffusa e scontata di ‘laico’che ne fa l’antitesi non del ‘credente’ ma del ‘cler-icale’, definito, quest’ultimo, come l’uomo di fedeche, in tutto e per tutto, si uniforma alle direttivedella Chiesa. Capisco l’obiezione ma ritengo chealla sua base ci sia un equivoco: la ‘dipendenza’che si stigmatizza è negativa in sé o è tale a secon-da delle direttive alle quali ci si uniforma? Se l’or-dine dall’alto è buono ma il destinatario si rifiuta diobbedire, la sua “indipendenza” è ancora un val-ore? Si ha l’impressione che i talebani della laicitànon apprezzino tanto l’“autonomia del volere”quanto la ‘disobbedienza civile’ a imperativi (sec-ondo loro) destituiti di senso e lesivi della dignitàumana. Se, però, le cose stanno così, si fuoriesce

dalla logica ‘moderna’, che rimane tutta sul pianodel ‘metodo’, in virtù della consapevolezza della‘relatività dei valori’ e della scissione dell’etica dallaverità - è la grande lezione dei Libertini e diMontaigne - e si ricade in una concezione sostanti-va del bene che, come tutte le teorie forti, si tra-ducono in doveri vincolanti per tutti e nellatrascrizione sulla lavagna pubblica dei nomi deibuoni e dei cattivi. ‘Laico’, allora, non è più chicerca di ragionare con la sua testa, di dare un votoo di sostenere un referendum, dopo aver vagliatoil pro e il contro dei vari programmi, ma chi “hascelto bene”.Ma esistono, poi, i ‘clericali’ come se li immagina illaicista? Non nego, per carità, che vi siano individuiche “in tutto e per tutto si uniformano alle diret-tive della Chiesa” (la Binetti UDC e la Roccella PDLne sono un esempio da manuale) ma, a benguardare, sono una minoranza. Gli uomini ches’incontrano tutti i giorni per strada, a volteseguono e a volte non seguono la Parola che vienedal pulpito: sono ‘clericali’ nel primo caso e ‘laici’nell’altro? Se, ad esempio, per dimostrare la loroliberté d’esprit, non ritenessero di dover rispettareun’eventuale enciclica papale che (finalmente!)condannasse il mattatoio pasquale dei candidiagnellini, darebbero per questo prova di laicità? Eun ateo, che fosse d’accordo col papa nel nonriconoscere alle coppie gay il diritto di adozione,diventerebbe per questo ‘clericale’?La laicità, nella sua accezione filosofica in sensolato, non sta nella disobbedienza o nell’obbedien-za alle norme buone di condotta (buone per chi? Operché?) ma nel modo della disobbedienza e del-l’obbedienza, nello sforzo fatto su di sé per farprevalere la ragionevolezza pacata sulle pulsioniirrazionali. Si può obbedire al papa da ‘laici’ e dis-obbedire da ‘clericali’, cioè lasciandosi con-dizionare da interessi o da prospettive di guadag-no che vengono fatti baluginare “dall’esterno”. Pertutte queste ‘buone ragioni’, sarebbe meglio nondefinirsi ‘laici’, e cominciare ad avvertire il ridicolodi una qualifica, che ove non richiami la messa dimezzanotte del 24 dicembre o i precetti pasquali,non ha più un significato descrittivo e neutro maun significato valutativo e positivo. Come nessunosi autoetichetta come ‘buono’ ma semplicemente

n.32 / 2012

76

si propone di comportarsi ‘bene’, così nessunodovrebbe appuntarsi all’occhiello della giacca undistintivo che ha senso rispetto all’“agire” ma nonrispetto a un “modo d’essere”, che richiama ilfondo oscuro della nostra anima dove solo Diopuò ficcare lo sguardo (posto che esista).Tirando le fila del discorso, la laicità è un’armapolitica e culturale solo in virtù dell’appropri-azione indebita che continuano a farne i ‘laicisti’.In sé, non è affatto divisiva, essendo diventata ilsenso comune dell’Occidente liberale e democra-tico, che non può venir monopolizzato da nessuna‘famille spirituelle’. È non poco significativo, delresto, che cattolici come Dario Antiseri abbianocontribuito più dei ‘laici’ come Norberto Bobbio adiffondere in Italia il pensiero e le opere di Karl R.Popper, sicuramente uno dei momenti più altidella filosofia moderna.

II. Nella prima parte del discorso sui laici e sulsignificato della ‘laicità’ oggi, ho avanzato forti riser-ve sull’uso di un sostantivo, il ‘laico’ per l’appunto,che secondo uno stile retorico (purtroppo ampia-mente) diffuso nella ‘ideologia italiana’, promuovesul campo gli “aggettivi” elevandoli a sostantivi. Ècapitato all’antifascista che, da attributo inseparabi-le dalla democrazia liberale, è divenuto il servopadrone sicché non è l’antifascista (aggettivo) aesporre le sue credenziali al democratico liberale(sostantivo) ma è questo a sottoporsi al giudizio diquello. In questo stravolgimento semantico, c’èuna logica ed è quella di svuotare, rendendola privadi senso, l’osservazione scontata che “tutti i demo-cratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascistisono democratici”. Se ‘antifascista’ non è più unattributo inseparabile dal sostantivo ‘democratico’,se diventa un valore in sé, anzi il fondamento dellastessa costituzione di un popolo, ne deriva che“tutti gli antifascisti sono, in quanto tali, democrati-ci”, e se qualcuno nutre dei dubbi sulla democrati-cità di chi si professi insieme antifascista e comuni-sta fuoriesce dall’antifascismo, nelle cui fila vuolmettere zizzania, e, in tal modo, diventa un ‘nemi-co oggettivo’ della democrazia.A un destino analogo si espone il laico, nella suaaccezione filosofica, quando si contrappone al cre-dente e al dogmatico, che pur mostra talora di

rispettare. Se si hanno le stimmate della laicità, icodici di condotta che si seguono, i modelli di vitabuona che si raccomandano, i progetti di legge chesi caldeggiano non hanno più bisogno di venirmessi in discussione: è laico tutto quello che vieneda una ‘tradizione’ che, tra alti e bassi, va daErnesto Rossi a Massimo Teodori, passando per ilcompianto Alessandro Galante-Garrone. L’interpretazione che questa ‘scuola di pensiero’dà dei compiti e delle funzioni dello Stato non è, inuna logica di pratica umile della democrazia, un’in-terpretazione tra diverse altre possibili, ma è,come la sentenza del giudice, “bocca della verità”,dictamen rectae rationis. Così, per fare un esem-pio significativo, se si ritiene che ‘dare soldi’ allescuole private significhi violare l’articolo 33 dellaCostituzione – “L'arte e la scienza sono libere elibero ne è l'insegnamento. / La Repubblica dettale norme generali sull'istruzione ed istituisce scuo-le statali per tutti gli ordini e gradi./ Enti e privatihanno il diritto di istituire scuole ed istituti di edu-cazione, senza oneri per lo Stato. /La legge, nel fis-sare i diritti e gli obblighi delle scuole non stataliche chiedono la parità, deve assicurare ad essepiena libertà e ai loro alunni un trattamento scola-stico equipollente a quello degli alunni di scuolestatali”, non c’è discorso che tenga: sarebberoparole al vento quelle di chi facesse rilevare che lescuole private non possono rivendicare un ‘dirittocostituzionale’ al sostegno pubblico ma nullaimpedisce, sul piano delle leggi ordinarie (per loronatura sempre revocabili), a un governo di venireincontro ai bisogni di istituti scolastici, cattolici olaici, ritenuti di particolare rilevanza educativa, aquel modo in cui viene incontro ad altre associa-zioni culturali, come ad es. il vecchio IstitutoGramsci, o a industrie come quella editoriale ecinematografica. Che un film come Noi credeva-mo di Mario Martone sia stato finanziato coi soldidei contribuenti, per uno storico come me che neha dato un giudizio negativo (confortato, peraltro,da una recensione stroncatoria di Mario Di Napolisull’“Azione Mazziniana’), è un pensiero insoppor-tabile ma non pertanto quel finanziamento diventaillegittimo in base al principio che le attività cultu-rali ed educative, intraprese dai privati, non deb-bano comportare “oneri per lo Stato”. Martone,

Dino Cofrancesco Laicità

77

infatti, non ha rivendicato alcun ‘diritto soggettivo’all’aiuto statale, non si è appellato a nessunanorma costituzionale e, pertanto, quell’aiuto puòessere discutibile (sulla base dei miei parametriestetici e culturali) ma non è illegittimo, né antico-stituzionale. E questo per non parlare delle que-stioni bioetiche, in cui già il farsi domande su certequestioni vale la messa alla gogna con un cartelloinfamante che reca la scritta “oscurantista!” (ovvia-mente non entro nel merito dei problemi: la miaetica, nel caso del problema finis vitae mi porta,con Hume e con gli antichi Stoici, a legittimare il‘suicidio’ ma, da buon liberale, non intendo impor-la a tutti anche perché capisco le ragioni di chi è inprofondo disaccordo con la mia ‘tolleranza’).Accanto all’accezione per così dire ‘filosofica’ dellalaicità, però, c’è n’è una più scopertamente etico-politica, i cui contenuti sono tanto complessi quan-to subdoli. In quest’accezione ideologica, la laicità èun lago culturale (poco limpido) in cui confluisconodue fiumi provenienti da diverse sorgenti: il primoè l’antitotalitarismo; il secondo è la ‘terza via’. Si trat-ta di fiumi senza rapporti di parentela ma che dopoaver travasato le loro acque nel lago, diventano, gra-zie al gioco delle tre carte, indistinguibili.Il primo, definito dall’antitotalitarismo, è una posi-zione concettuale che ha soltanto un difetto mairreparabile: esso, facendo del laico il “civis”coerente che si oppone sia al fascismo che alcomunismo, si ritrova, a meno di non alterare oedulcorare la storia, con un paniere concettualesemivuoto. Tra i protagonisti delle nostre guerrecivili - in un senso lato che ricomprende anche lebattaglie ideali, quelle sulla carta o nelle tribunepolitiche - quanti erano davvero disposti a metterecomunismo e fascismo sullo stesso piano? Se pen-siamo ai liberali conservatori degli anni venti, essidissero “no!” al comunismo ma, almeno in unprimo tempo - emblematico il caso di BenedettoCroce - al fascismo dissero “ni!”: et pour cause dalmomento che il fascismo si presentò alle classiborghesi e benestanti come il salvatore dellacomunità politica, dissanguata, materialmente espiritualmente, dalla guerra mondiale e minacciatada fratture insanabili e tali da rimettere in gioco lostesso stato unitario. Se pensiamo, invece, ai libe-rali progressisti - categoria vaga ed evanescente

che adopero solo per compiacere i retori della lai-cità -, essi dissero “no!” al fascismo ma “ni!” alcomunismo: e anche qui pour cause. I regimiautoritari e totalitari di destra, infatti, in Spagnacome nel resto dell’Europa, potevano essereabbattuti solo alleandosi con l’Unione Sovietica e,all’interno degli stati nazionali piegati dal fascismoe dal suo alleato nazionalsocialista, era impensabi-le la guerriglia resistenziale senza la mobilitazionedelle masse operaie e contadine comuniste.Queste circostanze, da valutare al di fuori di qual-siasi attitudine moralistica, spiegano perché, aguerra conclusa, un liberale di destra come AlbertoGiovannini potesse dirigere per qualche tempo “IlSecolo d’Italia” e un liberale di sinistra, comeFranco Antonicelli, potesse lasciare la sua bibliote-ca ai portuali della CGIL livornese.Tanto antifascisti quanto anticomunisti? Sono mito-logie che vanno lasciate ai pretoriani dellaCostituzione e della laicità come Corrado Ocone oMassimo Teodori, che rischiano di diventare i nuoviMario Appelius della political culture egemone inItalia (nonostante, o forse anche per questo, i tantianni di governo del centro-destra). Lo studio serio edisinteressato dei documenti, degli atti di convegnodei partiti, degli scritti teorici dei leader, ci mostrasolo come l’equidistanza fosse una pia illusione.Non si trovava neppure in Politica e cultura diNorberto Bobbio che pure voleva essere una criticaserrata e circostanziata del comunismo italiano rap-presentato da Palmiro Togliatti e da Galvano DellaVolpe ma che finiva per essere un discorso internoa uno schieramento. Come ha ricordato qualchegiorno fa Giuseppe Bedeschi sul “Corriere dellaSera”, il ‘liberale’(!) Bobbio non esitava ad afferma-re: “Se non avessimo imparato dal marxismo a vede-re la storia dal punto di vista degli oppressi, guada-gnando una nuova, immensa prospettiva sul mondoumano, non ci saremmo salvati. O avremmo cerca-to riparo nell’isola dell’interiorità o ci saremmomessi al servizio dei vecchi padroni”.A ben riflettere, la ragione filosofica che impedivaagli azionisti - che per agiografi alla Teodori rap-presentano la quintessenza della laicità - era unaconcezione assai poco ‘laica’ della democrazia libe-rale riguardata come la locomotiva della Storiasenza marcia indietro e senza freni. In base alla

n.32 / 2012

78

loro Weltanschauung, la democrazia non era regi-strazione dell’esistente, annotazione di quanto gliuomini in carne ed ossa, col loro passato, con leloro aspirazioni, con i loro legami familiari, socialie ambientali, coi loro pregiudizi, certamente, siaspettano dalla convivenza sociale e dallo Statocustode bensì redenzione, riforma morale e intel-lettuale degli Italiani, riscatto sociale, distribuzionedi benessere materiale e di ‘diritti sociali’. Ne deri-vava l’assoluta riluttanza a riconoscere sia i valoridella destra che i vincoli della Tradizione e percerti aspetti la tentazione di scavalcare a sinistra lostesso ‘comunismo nazionalpopolare’ con le suepretese di “venire da lontano”. (Non è casuale ildeciso antistoricismo dei filosofi del diritto e dellapolitica, che, formatisi alle scuole degli epigonidell’azionismo, si sono convertiti alla filosofia ana-litica usandola come strumento nichilistico di dis-solvimento di tutti i valori comunitari ancorasopravvissuti e non come regola di prudenza e atti-tudine realistica, qual’era nell’antenato nobiledegli analitici, David Hume). Per i laici-azionisti ilcomunismo era la degenerazione di una cosabuona (la giustizia sociale) mentre il fascismo era ilconcentrato du tutto ciò che la storia ci aveva tra-smesso di brutto, sporco e cattivo: dallaControriforma al sanfedismo alla reazione agraria.Quando cadde il Muro di Berlino non pochi di loro- sinceramente avversi all’Unione Sovietica - sichiesero: ‘e ora chi difenderà i ‘dannati dellaTerra?’. È del tutto escluso che sia siano chiesti,alla morte di Francisco Franco: “e ora chi difende-rà la Spagna di Ferdinando il Cattolico e di SantaTeresa d’Avila?”. Questo ‘doppiopesismo’ ha seriee innegabili giustificazioni storiche e ideali - e inparte le condivido - ma sempre di doppiopesismosi tratta. In realtà, se si vogliono trovare nemici giu-rati tanto dei comunisti quanto dei fascisti, si deveandare nella Germania del primo dopoguerra dovei socialdemocratici di Weimar al potere, queisocialdemocratici che attendono ancora che sirenda loro giustizia, ma in Italia quell’ora è assailontana, reprimevano, a suon di cariche della poli-zia, tanto i sovversivi nazisti quanto gli spartachisti.In realtà agli aedi della ‘laicità’ è poco congeniale ilvolto bifronte di Giano, che con una faccia guardain cagnesco i comunisti e con l’altra i fascisti: se si

tratta, sic et simpliciter, di due negazioni vienemeno la ragione del loro apprezzamento. A Gianooccorre un cervello e questo cervello viene portatodalle onde dell’altro fiume che confluisce nel granlago laico, la “terza via”. Quest’ultima, si badi bene,non vede più nel comunismo un Satanasso in cami-cia rossa contrapposto a un Belzebù in camicianera; l’illusione, appunto, dell’equidistanza, ma,come s’è accennato, un “eccesso”, un valore positi-vo - l’eguaglianza - che viene assolutizzato e messoin condizione di prevalere e di soffocare gli altri. Ilcomunismo rappresenta una ‘unilateralità’ analogae opposta a quella ‘occidentale’ che, privilegiandola libertà e dando briglia sciolta a quella d’impresa -il ‘mercato selvaggio’ - porta a un eccesso diverso:là l’eguaglianza umilia e calpesta la libertà, qua lalibertà vive e prospera grazie allo sfruttamento del-l’uomo sull’uomo. Tra queste due divinità litigiose,nel paese uscito dalla dittatura, il laico-azionista “fésilenzio e arbitro s’assise in mezzo a lor”.S’è parlato del ‘gioco delle tre carte’ e, in effetti, diquesto si tratta giacché a Giano viene messa unadivisa ideologica ben precisa: fuor di metafora, si fapassare l’idea che la guerra su due fronti - i due‘anti’: comunismo e fascismo - appartenga allostesso ordine di idee della ‘terza via’. C’è, tuttavia,da rilevare che gli obiettivi polemici coincidonosolo nel caso del comunismo, che una volta com-pare come male assoluto (l’anticomunismo nellateoria dell’equidistanza) e una seconda volta comemale relativo (l’enfasi posta sulla giustizia sociale,sull’eguaglianza, a scapito della libertà, nella teoriadella ‘terza via’). Il fascismo, invece, compare solonella teoria dell’equidistanza, e il liberalismo eco-nomico (o, se si preferisce, il capitalismo occiden-tale) compare solo nell’ideologia della terza via, evi compare anch’esso come male relativo (l’enfasiposta sulla libertà di mercato a scapito dei ‘dirittisociali’). Male relativo, però, è lo stesso che ‘benerelativo’ ovvero bene incompleto, unilaterale e,pertanto, insoddisfacente. E qui si nota che ilcomunismo, male assoluto nella battaglia antitota-litaria, passando nel registro della ‘terza via’, perdele sue connotazioni diaboliche e si ritrova trasfigu-rato in un valore ‘incontinente’ e debordante pro-prio come incontinente e debordante è il suonuovo avversario ideologico, il liberalismo. In tal

Dino Cofrancesco Laicità

79

modo, se sul piano del doppio antitotalitarismo, èinammissibile essere comunisti o fascisti, sul pianodella terza via, diventa comprensibile e tollerabilesia che si possa essere comunisti sia che si possaessere liberali, giacché ora il conflitto politico nonè più una ‘guerra di liberazione’, uno ‘scontro diciviltà’, ma diventa il confronto tra due diversefacce del prisma sociale, entrambe fornite dibuone ragioni, anche se entrambe portate a farlevalere calpestando i diritti altrui.Con questa strategia intellettuale (forse non sem-pre consapevole), si ottiene, oltretutto, la oggetti-va diminutio etico-politica del liberalismo. Neldoppio antitotalitarismo - almeno nei paesi in cuiriuscì maggiormente a permeare le istituzioni poli-tiche e il diritto - il liberalismo era l’autenticoSignore della Storia e dell’Etica pubblica occiden-tale: solo la libertà liberale, infatti, era in grado diopporsi, decisamente e coerentemente, sia al fasci-smo che al comunismo—v. la political culturedominante negli Stati Uniti, con la sua intransigen-za nei confronti dei cittadini aderenti ai movimen-ti totalitari, di destra e di sinistra, non immunetalora da un certo spirito persecutorio. Nella teori-ca della terza via, l’ammazzacattivi liberale, invece,diventa, da medico, paziente :è un malato come ilsuo avversario ideologico ma non c’è nulla di com-promesso giacché il laico terzista sarà, alla fine, ingrado di mettere a frutto quanto l’uno e l’altrohanno espresso di buono. Anche sotto questo pro-filo, quindi, sarebbe meglio relegare in soffitta ilsostantivo ‘laico’ e fare della laicità un valore‘astratto’ come la Bontà, la Virtù, la Responsabilitàche non “s’incarnano” in nessun individuo singoloe in nessun partito ma ai quali tutti dovremmoconformare le nostre azioni. Riassumendo, i pataccari del ‘laicismo’, in Italia, alivello filosofico, hanno identificato il ‘laico’(sostantivo) col non credente, con chi segue illume della ragione e non si lascia sedurre dallesuperstizioni e dalle etiche eteronome, a differen-za dell’uomo di fede, dogmatico e reazionario.Come si è detto, questo equivale a dare di sé unadefinizione non neutrale come sono neutrali, inve-ce, almeno in teoria, le appartenenze geografiche,religiose culturali che non ostentano superioritàintellettuali o morali ma dichiarano una mera

‘diversità’: professarsi ‘laici’ nel senso di CarloAugusto Viano o di Stefano Rodotà ha una diversavalenza che dirsi di Savona o di Frosinone, giacché,nel primo caso, l’autorappresentazione è ‘valutati-va’, nel secondo, meramente descrittiva. A livello etico-politico, i laicisti hanno fatto peggio:hanno sovrapposto antitotalitarismo e terza vianell’intento di fare della seconda il vero, coerentee completo, garante del primo. Per loro, se il ‘maleassoluto’ del mondo contemporaneo è il totalitari-smo, le armi più efficaci per combatterlo sono for-nite dal ‘terzismo’. Resta, nondimeno, qualchedomanda: perché ,accanto alla degenerazionetotalitaria del comunismo, non si è avuta la dege-nerazione totalitaria del liberalismo? E come lamettiamo con la pretesa del totalitarismo fascistadi essere lui la ‘terza via’? In realtà, il laicismo stadiventando la bandiera sgualcita utile solo per rida-re dignità e cittadinanza agli sconfitti del secondoOttantanove.

III. Leggendo i due interventi sulla laicità, pubbli-cati sul ‘Corriere della Sera’ il 15 maggio—quello diTullio Gregory, Perché è difficile discutere di lai-cità--, il 16 maggio—quello di GaetanoQuagliariello e di Maurizio Sacconi, Laici senzarinunciare alla nostra identità—il lettore da unavita di Locke, di Constant, di Tocqueville, diMinghetti ha la sensazione (penosa) di trovarsidinanzi a due diverse forme di integralismo, laici-sta l’uno, antilaicista l’altro. A nessuno degli inter-venuti sono venute in mente le ragioni per le qualisi dice che “la matematica non è un’opinione”. Avolerle riassumere in breve, la matematica non èun’opinione perché se un nazista, un comunista,un liberale affermassero che “due più due fa cin-que”, il primo verrebbe confinato in un Lager conaltri alienati mentali (insieme a ebrei, zingari, omo-sessuali etc.), il secondo verrebbe spedito in unmanicomio (possibilmente in Siberia) e il terzoverrebbe affidato alle cure di specialisti, rispettosidella persona umana anche quando, è proprio ilcaso di dire, “dà i numeri”. Purtroppo—ma iopenso, per fortuna—l’etica e la politica sonoimmerse nell’opinione: Platone la chiamava doxae la contrapponeva all’aletheia, la verità, e motiva-va la sua avversione alla democrazia con l’argo-

n.32 / 2012

80

mento che “i più” seguono le “opinioni” mentresolo i filosofi hanno il filo diretto con la Verità e,pertanto, solo a loro incombe il dovere di gover-nare saggiamente la città. La modernità nasceall’insegna del riconoscimento (malinconico) del‘quot capita tot sententiae’: gli interessi e i valorisono tanti e l’arte del governo consiste nel far sìche il loro conflitto non eroda gli spazi di libertà ei diritti degli individui. L’incertezza è divenuta l’o-rizzonte insuperabile della società degli uomini eogni volta che si sono volute ristabilire credenzeforti condivise si è riaperta la stagione dei massacri.Quando si parla d’incertezza non s’introducenecessariamente il relativismo etico: il relativistapone tutti gli ideali e le aspirazioni umane sullostesso piano; lo scettico—v. David Hume il veropadre nobile del ‘liberalismo dei moderni’—si limi-ta a far rilevare che il ‘dover essere’ non può venirfondato sull’’essere’, che nessuna scienza può sta-bilire che i nostri ‘gusti morali’, i nostri modelli divita buona, i nostri progetti politici, sono più ‘veri’di quelli dei nostri avversari. Leggi e norme, sia inetica che in diritto, sono valide “per noi”, il cheequivale a dire che non si trovano appese nellesale dell’Iperuranio platonico. Questa consapevo-lezza, beninteso, non toglie nulla all’assolutezza deldovere: si ama la propria madre non perché piùbella, più intelligente, più colta delle altre madri maperché è la nostra e noi nutriamo affetti e sentiamoper lei doveri e ai quali pensiamo di non potercisottrarre. Come insegnava un altro grande espo-nente del liberalismo, Georg Simmel, appartenia-mo a diversi mondi, con diversi codici, non sempreconciliabili. Abbiamo le nostre gerarchie di valore(per il liberale, ad esempio, la libertà viene primadell’eguaglianza), i nostri dubbi, le nostre strategieper indurre gli altri a convenire con noi. Per questol’invenzione della democrazia (liberale) ha segnatouna svolta epocale: per la prima volta, gli uominisono stati costretti a fare i conti con le ‘opinioni’degli altri e a rassegnarsi se, in questo o in quelcampo, si sono ritrovati in minoranza. Se ogni dise-gno o proposta di legge fosse espressione delGiusto, del Vero (!), del Retto o, al contrario, fossefarina macinata dal mulino di Satana,”contare leteste” sarebbe una gran brutta cosa e avrebbe ragio-ne il vecchio Auguste Comte nella sua condanna

irriducibile dei ludi cartacei: il timone del governodovrebbe venire affidato ai Sapienti perché soloessi sanno come raggiungere il porto della felicità edel benessere per tutti.Riferendosi a temi come la fecondazione assistita,il testamento biologico, la scuola pubblica,Gregory scrive che:” si tratta di problemi di fondoche investono vita e morte, ove lo Stato, se demo-crazia laica, non può e non deve accettare scelteche derivino da una particolare ideologia religiosatrasformando posizioni teologiche in leggi ordina-rie, premessa questa di ogni fondamentalismo”.Premesso che su certe questioni bioetiche mi ritro-vo più dalla sua parte che da quella del ministroSacconi, mi chiedo se sia legittimo, invece di dis-cutere delle idee e degli argomenti degli avversari,squalificarli a priori come servi (non disinteressati)del Vaticano. E’ lo stesso disagio provato, tanti annifa, quando sentivo accusare i comunisti di esserevenduti a Mosca: magari sarà stato anche vero maspesso era manifesto l’intento di non voler affron-tare i temi politici posti sul tappeto dal PCI dichia-rando l’interlocutore impresentabile. Oggi bastasollevare il problema dell’aborto—rilevando, ades., che è divenuto, per molte donne, un anticon-cezionale o sollevando dubbi sull’eccessiva duratadelle settimane entro le quali è lecito praticarlo—per venire accusati di oscurantismo clericale, dicieca e gesuitica fedeltà agli ukase di BenedettoXVI o del suo predecessore, Giovanni Paolo II.Sono posizioni di chi ha la verità in tasca, di chinon avendo il minimo dubbio su cosa debba inten-dersi per ‘libertà’ e ‘dignità’ della persona umana,ha la tetragona certezza che quanti concordanocon le posizioni della Santa Sede siano spregevoliipocriti, atei devoti, individui mossi solo dal ‘parti-culare’.E se uno, pur non essendo credente, aves-se un senso così forte della sacralità della vita daritenere illecito ‘staccare la spina’?Dovrebbe perquesto venir assimilato allo ‘spirito totalitario’?Gregory & C. fingono di ignorare che i totalitarismidi tutti i colori non facevano alcun conto della vita(non solo dei nemici dichiarati ma, altresì, deiseguaci in odore di eresia) mentre il biofilismo,cattolico o laico, si caratterizza per l’eccesso divalore conferito all’esistenza umana. I totalitarivogliono spegnere le vite nocive alla causa, gli

Dino Cofrancesco Laicità

81

estremisti del biofilismo vorrebbero conservare icorpi “che respirano ancora”, indipendentementeda ogni considerazione di umana pietas e daglistati accertati di irreversibilità. Gregory, come me,è contrario a ogni accanimento terapeutico e,come me, fa rientrare l’alimentazione e l’idratazio-ne artificiale in questa fattispecie ma sembra nonsospettare neppure che la sua (la nostra) è un’opi-nione ‘ragionevole’ accanto ad altre opinioni, chepure pretendono di esserlo e che, in democrazia, adecidere, in presenza di prospettive inconciliabili,non resta che l’appello ai cittadini elettori o,meglio, ai loro rappresentanti. Il discredito e la dif-famazione degli avversari, giusta la tentazione tipi-ca degli ‘intellettuali’ italiani, portati a definire‘interessi’ i valori degli altri e valori gli interessipropri, con buona pace del filosofo de ‘La Sapinza’,non fanno parte della laicità ma solo di un laicismoda Società Giordano Bruno, da MicroMega, daCritica Liberale.L’articolo di Quagliariello e di Sacconi, però, nonmi sembra, sinceramente, rientrare in un diversostile di pensiero. Gli autori non sono tenuti a (con-tinuare ad) essere liberali, almeno nell’accezionetradizionale del termine ,ma non possono inven-tarsi continuità ideali sempre più problematiche.Le parole hanno un peso che non è lieve quandosi scrive che “la libertà è cosa vaga ed effimerasenza l'appartenenza. E solo se si accetta di appar-tenere a una tradizione, a una famiglia, a unacomunità si ha la forza per aprirsi senza timore alnuovo: per intraprendere quel dialogo che integraquanti giungono da noi provenienti da altri mondie portatori di diverse culture; per collocare lamodernizzazione tecnica e scientifica in quell'alveodi valori che la esaltano perché la pongono incomunicazione con la ricchezza della persona edelle sue relazioni comunitarie. Se, di contro, siritiene che la libertà possa fondarsi solo su dirittipositivi in grado di generare sempre nuovi diritti,nell'illusione di liberare l'individuo da ogni vinco-lo, si finisce per cadere in un relativismo per ilquale tutto si equivale e anche la politica si riducea mera gestione del potere”. Da tempo anch’io, sulla scorta di quel gran libro

che è In difesa della nazione di Pierre Manent(Ed. Rubbettino), sostengo che l’aver ignorato la

‘comunità politica’, da parte di filosofi del diritto edella politica divenuti legione nelle nostreUniversità e sui nostri giornali, porta all’imperiali-smo giudiziario, alla cancellazione della politica ealla tragica illusione che il liberalismo sia la “teori-ca dei diritti” (come credeva il compiantoNorberto Bobbio) laddove è la “teorica delle liber-tà”(come ha ricordato tante volte Piero Ostellino).Ciò chiarito, tuttavia, mi sembra non poco scon-certante, in una visione liberale, l’affermazione che“la libertà è cosa vaga ed effimera senza l’apparte-nenza”. La libertà è proprio libertà dall’apparte-nenza e il fatto che senza appartenenza—ovverosenza ‘comunità politica’nel senso di Manent--essasi eserciti nel vuoto (come, del resto, si esercitanonel vuoto i diritti) non significa certo che bisognaripensare radicalmente la libertà negativa, la liber-tà come non-impedimento in cui Isaiah Berlinvedeva la quintessenza del liberalismo. Se è veroche “senza i denari”—cioè senza le risorse delloStato moderno con le sue istituzioni e con le suetradizioni culturali oggi balzate in primo piano—“non si cantano messe” ovvero, fuor di metafora,non si crea una convivenza civile per noi degna diquesto nome, è altrettanto vero che denari emesse rimangono cose diverse.“Appartenere a una tradizione, a una famiglia, auna comunità” è importante per un liberale nondisposto a ripetere le solite stanche tiritere sullo‘storicismo’—quello autentico, di Burke e diCuoco, non la ‘filosofia della storia’ stigmatizzatagiustamente da Popper ne La miseria dello stori-cismo—ma purché non si smarrisca che l’indivi-duo, nell’ottica dei Benjamin Constant, viene“prima” della tradizione, della famiglia, della comu-nità e se queste vengono apprezzate—e tutelatedalle leggi ordinarie - è perché danno sostegnoconcreto al suo stare al mondo. Si diceva unavolta: lo Stato al servizio dei cittadini non i cittadi-ni al servizio dello Stato. Si dovrebbe dire oggi: tra-dizione, famiglia e comunità al servizio dei cittadi-ni e non viceversa. Un povero sardo, catapultato aGenova o a Torino dalla Barbagia, si sentirà menosolo se accolto dalla ‘Sarda Tellus’ e, in cambio delcalore comunitario, che questa gli assicura, accon-sentirà a sentirsi “meno libero” (non potrà, infatti,sottrarsi agli incontri, cene, scampagnate, rimpa-

n.32 / 2012

82

triate varie organizzate dai suoi corregionari).Quando Quagliariello e Sacconi ammoniscono che“ la sacrosanta libertà di cura non può produrre undeterminismo antropologico fondato sull'illusioneche l'uomo possa governare la propria vita in ogniistante, anche a costo di degradare il medico a fun-zionario pubblico e lo Stato a dispensatore di sui-cidi assistiti a richiesta” non rendono giustizia all’e-tica laica e liberale, che non obbliga nessun medi-co a spegnere una vita né lo Stato a garantire unreparto ospedaliero per quanti non vogliono piùvedere ‘lo dolce lome’. Qui è questione di stabili-re, né più né meno, se ho la libertà, nel caso mitrovassi nelle condizioni di Eluana Englaro, di nonvenir alimentato e idratato artificialmente. Se larisposta è negativa, in virtù del “ riconoscimentolaico del valore della vita”--che “è il necessario pre-supposto per quel vitalismo economico e socialeche solo può sottrarre al declino le società di vec-chio benessere”--,non si vede come si possa resta-re ancora sul piano del liberalismo. E si aggiungache il rigetto della mia ‘pretesa’ con un discorsosulla “crisi della civiltà”, che in Europa circola daqualche tempo (a dir poco, da tre secoli) rende ilmancato riconoscimento ancora più preoccupan-te, legandolo non a motivi di opportunità o ad unaqualche etica della responsabilità (se si concede“a”, negli ospedali potrà derivarne “b”..) ma ad unadiagnosi ambiziosa sullo stato di salute del mondoe dell’Occidente. E non si dimentichi che dalle dia-gnosi ambiziose nascono le religioni politiche!Nel massimo rispetto per tutte le opinioni, dalmomento che tutte fanno riferimento a concezio-ni etiche impegnative e fortemente vissute (tirarein ballo la malafede e l’opportunismo, pur presen-ti, in qualsiasi agire umano e in qualsiasi schiera-mento significa si traduce nel sostituire agli argo-menti l’arma bianca), mi si conceda ancora unadomanda: nella vexata quaestio che oppone, inbioetica, i sostenitori della indisponibilità della vitaai sostenitori della qualità della vita perchédovremmo aspettarci (e da parte di chi?) una sen-tenza infallibile che risolva una volta per sempre lacontroversia? Diceva il vecchio Hegel (già per que-sto inassimilabile a qualsivoglia ideologia totalitariadi destra o di sinistra) che la tragedia della storiaumana non sta nel fatto si confrontano di continuo

non il ‘bene’ e il ‘male’ ma nel fatto che ci si trovadinanzi a due ‘verità’. Se fosse stato presente alloscontro (anche parlamentare) sul caso Englarodove da una parte si gridava ‘assassini e, dall’altra,‘fascisti’(chissà perché poi) si sarebbe ritratto inor-ridito da un paese in cui una buona parte della cul-tura lo accusa ancora oggi di illiberalismo (e, vadetto, con qualche buona ragione). “La libertà è unrischio” dice un antico aforisma: quando si entranelle regioni del mistero e dell’indecifrabile cia-scuno faccia le sue scelte senza la pretesa di ‘costi-tuzionalizzare’ le leggi che da quelle scelte deriva-no—che è poi quanto pretendono, a sinistra, i filo-sofi del diritto come Luigi Ferrajoli e dei loro col-leghi e a ‘destra’ certi giuristi cattolici come l’ami-co Francesco D’Agostino, che, potendo, gli uni egli altri, iscriverebbero nella carta costituzionale iloro diritti e i loro divieti.Quagliariello e Sacconi appartengono a un’areapolitico-culturale che spesso si richiama alla ‘socie-tà aperta’ e non a caso citano Benedetto Croce. Ilfilosofo, però, votò—a ragione o a torto— nel 1929contro il Concordato e meno di vent’anni dopocontro l’articolo 7. Forse, tenuto conto delle circo-stanze storiche, avrei votato, la seconda volta, inmaniera diversa ma, in ogni caso, un liberale ètenuto a ricordare la sua indipendenza spirituale,la stessa manifestata da Norberto Bobbio con lesue riserve nei confronti dell’aborto. Dovremmoimparare tutti a rispettare quanti non la pensanocome noi—e non sul piano della retorica scolasticama nella vita di tutti i giorni—e a intendere il rispet-to non come l’intendeva Trilussa (quella ch’è ideala rispetto, “quello ch’è omo lo cazzotto”) ma nelsenso humeano del dubbio salutare che anche inostri avversari potrebbero avere nella loro faretraqualche buona freccia.E’ vero, tuttavia, che ad accendere i fuochi dellaguerra civile in Italia sono, soprattutto, i ‘chierici(traditori) della sinistra radical chic che imperver-sano nelle aule universitarie, nelle redazioni, nelletrasmissioni radiofoniche e televisive. Ne è espres-sione idealtipica Chiara Saraceno—una studiosache proviene da una prestigiosa dinastia cattolica,come Paolo Flores d’Arcais, del resto—che scaglia isuoi fulmini laicisti dalle colonne di ‘Repubblica’.Nell’articolo, Un paese alla rovescia, intervenen-

Dino Cofrancesco Laicità

83

do sulla legge contro l’omofobia, la sociologa tori-nese non esita a scrivere che “anche senza ricatti escambi, l'atteggiamento della Chiesa trova terrenofertile nella grettezza morale e nella incultura diuna classe politica che sembra ricordarsi dell'eticasolo quando sono in gioco le scelte dei cittadinicirca le proprie relazioni e vita personale – dallasessualità alla procreazione alle decisioni su comeaffrontare la fine della vita” e a denunciare “il rigo-rismo” dei “moralisti d'accatto”. Nelle sagrestiedella mia adolescenza, i comunisti erano il ‘buconero’ della solare società italiana: nelle riflessionidi Chiara Saraceno il posto è stato preso da quan-ti, in tema di omosessualità e di ‘normalità’, noncondividono le sue idee (come non le condividevaFreud…). Il tanfo è sempre quello delle candelespente e dei locali non aerati. Non meraviglia, per-tanto, che nessuna considerazione venga riservata,nell’articolo, a quanti, ad esempio, si chiedonoperché l’aggressione a una coppia gay debba com-portare conseguenze penali assai più pesanti diun’aggressione a una coppia eterosessuale e per-ché quanti hanno gravemente leso i diritti e lelibertà altrui non debbano essere giudicati ( e seve-ramente) per i loro atti. Per l’indignata articolista,queste domande svelerebbero un “universalismostrumentale” nato dalla “negazione che esistanoviolenze motivate specificamente dall’odio e dis-prezzo per particolari gruppi sociali”, un “univer-salismo negativo, non positivo”. E se invece fossi-mo in presenza di un universalismo liberale decisoa rendere irrilevanti le ‘appartenenze’ (di genere,di religione, di militanza ideologica, di etnia, dinazionalità etc.) per mettere al centro del dibatti-

to pubblico l’individuo e l’uso fatto della sua liber-tà e responsabilità? Se in una lite un naso viene fra-cassato perché il proprietario è un interista e unaltro naso subisce lo stesso danno perché il pro-prietario è un gay, per qualche vetero liberalecome il sottoscritto, dovrebbero contare solo lagravità della ferita e l’aggressione fisica a un essereumano. E’ un discorso ‘astratto’ questo? Sono dis-posto a concederlo ma quale autorità riveste unaqualsiasi Chiara Saraceno per tacciarmi di ‘grettez-za morale’ e di ‘incultura’? Non potrebbe limitarsia manifestare un ‘disaccordo civile’?Purtroppo qualche frase infelicissima di Berlusconie il disegno perseguito da non pochi ‘intellettualiorganici’ del PDL di “ridare un’anima” (cristiana)all’Italia e all’Occidente sono benzina sul fuoco pergran parte dell’intellighentzia scalfariana. E quelche è peggio rischiano di compattare, da un lato,‘laicità’ e, dall’altro, antagonismo sociale, politicoed economico. Col risultato che quanti erano dive-nuti oggettivamente impresentabili, avendo sepol-to il loro cuore all’Avana, in virtù del loro impegnolaicista, sono rientrati nel gioco, come la buonani-ma di José Saramago, oggi celebrato dai radicaliper il suo sostegno alla Fondazione Coscioni. ASaramago sono state condonate tutte le battaglietardomarcusiane contro la ‘società aperta’: se, invia d’ipotesi, avesse esaltato Stalin, il lavacro laicol’avrebbe redento e rigenerato. E’ la stessa fortunacapitata a Margherita Hack, l’astronoma rifonda-zionista, che invita gli Italiani a sbattezzarsi e che,forse per questo è stata proposta ‘senatrice a vita’.Nel nostro paese, è proprio il caso di dire, se nevedono tante….

84

1. L’“esplosione” del dibattito sul federali-smo in Italia

Il dibattito sul federalismo è esploso improvvisa-mente in Italia all'indomani della disintegrazione‘etico-politica’ della “prima Repubblica” nel 1996, enella transizione a una cosiddetta “secondaRepubblica”. D’altra parte, non si può dire di esse-re già passati alla realtà di uno Stato nazionale uni-tario nuovo nella forma politico-istituzionalerispetto all’antecedente, le cui linee essenzialisono delineate dalla Costituzione del 1947.L'odierno assetto è storicamente il prodotto del-l’unificazione nazionale compiuta nel 1860 con laproclamazione del Regno d'Italia, e della sua cen-tralizzazione politico-territoriale e amministrativa,secondo un modello francese-napoleonico impo-sto dal Parlamento nel 1865 che dovette approvaresei leggi incorporate in una sola. Questo modello èrimasto sostanzialmente tale fino alla formazionedella prima Repubblica in età post-fascista, attra-verso cui lo schema centralista dello Stato nazio-nale unitario si è tramandato, sia pure con alcunevarianti. Infatti, nel secondo dopoguerra si istitui-rono delle regioni a statuto speciale (Sicilia,Sardegna, Val d'Aosta, Trento-Bolzano), che confi-gurarono delle eccezioni periferiche al modellodello Stato-Nazione che continuava dal Regnod'Italia. In seguito, si istituirono le regioni in tuttala penisola, che nelle intenzioni dei governantiavrebbero voluto essere anche una concessione aun principio di decentramento amministrativo, mache di fatto ebbero piuttosto la funzione politica diconsolidare tacitamente un “compromesso stori-co” fra le due forze politiche fondamentali, diviseper aree regionali “bianche” e aree “rosse”, dove

già le influenze politiche elettorali preesistevano,come, esemplarmente, agli opposti estremi: ilVeneto centrale (Vandea d'Italia, con Bergamo), el’Emilia-Romagna comunista. Ma con tale intesacompromissoria, il modello centralista dello Stato-Nazione non fu superato.In breve: ci sono sì, oggi, modelli e progetti didiverse forze politiche, i quali convergono in unpunto, nel rifiuto parziale o totale del vecchio,mentre si stanno ora via via approvando ledisposizioni per realizzare il federalismo presentatodall’ultimo governo Berlusconi. Questa è lasituazione in cui è esploso in Italia, nell’ultimodecennio del Novecento, il dibattito sul federalismo,in rapporto al centralismo politico-territoriale eamministrativo dello Stato-Nazione unitario diorigine risorgimentale e monarchica piemontese.L’opportunità (o la necessità) di una trasformazionedello Stato nazionale unitario e centralista, in unaltro ordinamento a sfondo federale, è statoaccettata o subita da una pluralità di forze politichediscordanti nei rispettivi campi (di centro-destra e dicentro-sinistra), e si riflette ovviamente anche nellaretrospettiva storica, che da esso scaturisce.Così assistiamo alla ricerca di antecedenti ideali e diparadigmi diversi e alternativi, che precorseronell'età risorgimentale l'unità nazionale, realizzataistituzionalmente sulla base del modellomonarchico-centralista, e che continuarono anchenell'età post-risorgimentale, sia pure cometendenze prive di peso politico, nella criticaall'ordinamento statale esistente. È pertantocomprensibile la confusione, anche nellaretrospettiva storica, che induce a sovrapporretematiche e categorie ideologiche attuali, propriedella fine del ‘secolo breve’ (1914-1991) a quelle

Mario Quaranta

Il federalismo di Alberto Mario

Federalismo

Mario Quaranta Il federalismo di Alberto Mario

dell’Ottocento, risorgimentali e post-risorgimentali,alla riscoperta di una continuità sommersa dal 1860fino ad oggi, e che ora sembra riemergere.In particolare, si tende a contrapporre in modoindifferenziato, allo schema centralista dello Stato-Nazione realizzato nel Regno d'Italia, una pluralitàdi modelli diversi ma irrealizzati. Essi hanno incomune solo l’elemento negativo dell’opposizionee della critica al progetto e alla realtà storicaeffettuale dello Stato nazionale unitario, ossial'organizzazione secondo uno schema di rigidocentralismo politico-territoriale. Anzi, esso siaccentuò nella transizione dalla Destra storicaliberal-moderata (1861-1876) ai governi dellaSinistra liberale, in particolare dal 1888 conFrancesco Crispi, irrigidendosi al massimo con ilregime dittatoriale fascista, al quale lo schemacentralista di un modello cesarista-napoleonico gliè stato particolarmente congeniale. Centralismo e federalismo sono, dal punto di vistastorico-istituzionale, due variabili nella formazionedello Stato-Nazione moderno; questo si basa inentrambi i casi sul principio di sovranità popolare,che sostituisce il principio di sovranità per dirittodivino delle monarchie assolute dell'antico regimepre-modeno. Storicamente, il centralismo politico-territoriale e amministrativo è stato, in Europaoccidentale, anzitutto il risultato della formazionedegli Stati nazionali, conseguente allacentralizzazione militare e burocratica impostadalle monarchie assolute tra i secoli XVI e XVIII,contro l'anarchia dei particolarismi territorialidell'ordine feudale. Il suo schema modernizzato èstato continuato dalla Rivoluzione franceseattraverso la democrazia giacobina degli anni 1792-1794, contro le tendenze federaliste girondine, e igoverni del Direttorio che sono seguiti allareazione termidoriana anti-giacobina fino alcesarismo napoleonico, dal Consolato all'Impero.È perciò la Francia che per prima ha offerto (ancheal Regno d'Italia nel 1861-1865) il paradigmastorico-istituzionale di centralismo politico-territoriale e amministrativo di Stato-Nazionemoderno nell’Ottocento; il modello storico-istituzionale federale di Stato-Nazione modernoderiva invece dalla rivoluzione anti-coloniale dacui, con la nuova nazione degli “Inglesi d'America”,

nascono gli Stati Uniti.

2. Il modello federalista americano e quelloeuropeo

Nelle diverse tipologie di formazioni storico-istituzionali e dei rispettivi modelli è evidente ilfatto originario che connota la nascita dello Stato-nazione moderno di forma federale con gli StatiUniti d'America. Lo Stato-nazione moderno nascecome una realtà nuova, sia come nazionalità (degli“Inglesi d'America”, come poi degli “Spagnolid'America”), sia come formazione statale, dallarivoluzione anti-coloniale contro la metropolieuropea. Nei territori coloniali, non sussisteva lanozione di ‘stato’, mentre vigeva una realtàistituzionale di self-governement locale nelle extredici colonie anglosassoni, e di autonomiemunicipali nelle colonie ispano-americane.Il federalismo prodotto dalla rivoluzione anti-coloniale, nelle sue varianti, ha origine anzitutto dauna reazione al centralismo militare-burocraticodella metropoli europea esterna. La continuità di unordine istituzionale, nel crollo di quello coloniale, siattuò nel self-governement locale e nelle autonomiemunicipali. Questi due fatti determinarono lanascita di una pluralità di stati federati di ambitoregionale (maggiore o minore), la cuidifferenziazione si definì fondamentalmente in basea quelle economiche, già esistenti nell'età coloniale.Nessuna delle ex regioni storiche coloniali potevafar valere la propria egemonia sulle altre; ilmodello dell'Unione federale, alle origini delloStato-nazione moderno, nascente in America dallarivoluzione anti-coloniale, doveva perciò risultareil più congeniale a una realtà sociale, politica eterritoriale pluralistica, di fatto già preesistentecome ‘costituzione materiale’. Tale equilibriopluralistico, intrinseco alla formazione storico-istituzionale di tipo federale, fu inoltre favorito dalfatto che nell'America anglosassone la rivoluzioneanti-coloniale non fu caratterizzata alle origini enon fu poi seguita da violenti conflitti sociali diclasse, come avvenne in Europa nel corso dellaRivoluzione francese ma anche in alcune areedell'America ispanica, in cui perciò s'imposerodittature e centralismi.

85

n.32 / 2012

86

Una volta crollato il dominio coloniale dellametropoli, gli Stati Uniti godettero del vantaggio diuna frontiera continentale aperta dall'Atlantico alPacifico (dal 1803, in seguito alla cessione dellaLuisiana o dei territori che si trovavano lungo ilMissisipi fino al Golfo del Messico, da parte diNapoleone), in continua espansione, con latrasformazione di territori colonizzati in nuovi Statifederati, senza più la minaccia di conflitti congrandi potenze esterne confinanti. Il caso dellaformazione storico-istituzionale degli Stati-nazionemoderni in Europa è l'opposto.In Europa iI modello confederale è pre-moderno;storicamente ha origine da Stati (o principati, ocittà-stato) o altre formazioni politico-territorialipreesistenti, che si aggregano in un patto dicooperazione, ma senza rinunciare alla propriasovranità in quella superiore di una unione, comenel caso esemplare della Svizzera (che soltantodopo il 1848 evolve verso il modello di unionefederale). Ma la Svizzera costituì un'isola in Europa,per il fatto che il gioco d'equilibrio tra grandipotenze le garantì una neutralità permanente. Imodelli del federalismo nordamericano econfederale elvetico furono presenti in tendenzepolitiche risorgimentali italiane. Il paradigmaconfederale, come vedremo, fu proprio delprogetto dei monarchici, cattolici-liberalmoderatipiemontesi, dell’abate Gioberti, di Balbo, D’Azeglio,e dei loro associati, trovando una breve fortunaideologica tra il 1844 e i primi 4 mesi del 1848.

3. Ragioni nella scelta del centralismo

Per una penisola italiana (‘espressione geografica’,secondo il principe di Metternich) divisa da secoli inuna pluralità di principati, tra cui lo Stato pontificio alCentro, e da profonde differenziazioni economico-sociali tra Sud e Nord mai superate, una formulaconfederale poteva sembrare la più idonea a una sua“costituzione materiale”. E di questa, infatti, fuespressione storica il programma neo-guelfo, rimastoun'ideologia politica irrealizzata e tuttavia significativadell'età risorgimentale. Il centralismo adottato neglianni 1861-1865 per l'organizzazione politico-territoriale e amministrativa fu la conseguenza diun’unificazione della penisola maturata

improvvisamente e imprevedibilmente dal 1859 al1860, per il concorso dell'iniziativa garibaldina diliberare il Regno delle Due Sicilie con la spedizionedei Mille, e, come conseguenza immediata, per laconquista militare piemontese attraverso i territoripontifici dell'Italia centrale, cui seguirono i plebiscitiche sanzionarono con grandissime maggioranze leannessioni. In questo modo, il nuovo Stato-nazioneunificatore di una pluralità molto eterogenea diregioni storiche della penisola, nacqueindipendentemente da una Assemblea costituente,come continuità del Regno di Sardegna, ossia, inpratica, come il risultato di una sua improvvisaespansione politico-militare. Dopo un periodo diincertezza del Parlamento e del Governo, il rigidocentralismo del modello francese-napoleonico fu,quindi, uno strumento adottato per consolidareautoritariamente l'espansione monarchicapiemontese, contro le resistenze al nuovo ordinestatale che potevano provenire dall'alto, ossialegittimismi monarchici, soprattutto borbonico elorenese, e sia anche da ondate di sovversivismopopolare spontaneo insorgente dal basso, come simanifestò dal 1866 con le proteste diffuse contro latassa sul macinato, a causa della quale, nel 1876,cadde il governo della Destra storica liberalmoderata.Il centralismo nell'organizzazione politico-territoriale e amministrativa definita negli anni 1861-1865 appare dunque, in Italia, la risultantefondamentalmente di una necessità politicasuperiore di difesa dell'ordine pubblico che, nellevalutazioni dei governi delle oligarchie liberal-moderate, poteva essere minacciato, con l'unitànazionale, non solo da un ordinamento federale, maanche da un semplice decentramento ammini-strativo. Su tali valutazioni dovette pesare, inparticolare, la paura esercitata dalla reazione di unlegittimismo borbonico che nei territori meridionalisi associò, strumentalizzandolo, a un sovversivismopopolare spontaneo, intrecciatosi con ilbrigantaggio, contro cui fu condotta per alcuni anniuna violenta campagna di repressione militare.

4. Il progetto neo-guelfo e la sua eclissi

La soluzione unitaria rispetto a quella federalista,scelta nel periodo risorgimentale dalla monarchia

Mario Quaranta Il federalismo di Alberto Mario

sabauda e dalle élite moderate italiane, non erainscritta come fatale nella storia del nostro Paese:“Nel 1815, gli assetti dell'Italia e della Germaniapresentavano molti tratti paralleli. In entrambi icasi, la disunione politica si accompagnava a unarelativa unità generata dalla lingua, dalla letteratu-ra, dall'arte, che univano gran parte degli abitantidi ciascuno dei due paesi (o almeno le loro élitecolte). Questa situazione di frammentazione politi-ca e di relativa unità culturale rendeva possibili sce-nari profondamente differenti e divergenti. Sisarebbe imposto un modello di unificazione dal-l'alto o dal basso? La forza unificatrice sarebbe statauna delle numerose dinastie che si dividevano ipaesi, oppure un patto confederale fra le unitàpolitiche locali? In entrambi i casi (in Italia e inGermania), vi erano forti ragioni che rendevanoplausibile un modello di unificazione del secondotipo” (Bocchi et alii 1991, 59). Il programma neoguelfo dei cattolici liberal-mode-rati piemontesi (Gioberti, Balbo, D’Azeglio) hacostituito, nella breve stagione in cui consumò lasua parabola, un progetto di notevole rilievo poli-tico e istituzionale, ancora oggi ciclicamente rivistoe studiato da storici e costituzionalisti. Nel recenteintervento del rettore dell’università cattolica diMilano, prof. Francesco Ornaghi nel X Forum del“Progetto cultura” sui 150 anni dell’Unità d’Italia(Roma 2010) è stata proposta una rivalutazione eattualizzazione del guelfismo, successivamenteripresa dal cardinale Camillo Ruini. È noto che ilPrimato morale e civile degli italiani (1843) diVincenzo Gioberti è considerato il manifesto delneoguelfismo; in quest’opera egli propone unaconfederazione degli Stati italiani sotto la presi-denza del papa. Questo orientamento ha avutouna interessante ‘incubazione’ storica su cui ci sof-fermiamo brevemente.Nelle discussioni sull’assetto costituzionaledell’Italia si presentò subito, fin nel periodo pre-risorgimentale, il problema se la formazione costi-tuzionale moderna più adeguata alla penisola italicafosse stata quella confederale o federale. Ciò fu pen-sato dagli inizi della modernizzazione politico-giuri-dica della penisola, dopo la Rivoluzione francese el’invasione napoleonica, che determinò la nascitadelle cosiddette “Repubbliche giacobine” italiane

del triennio 1797-1799, che in realtà non erano unmodello giacobino propriemante detto, rovesciatoprima di tutto in Francia dalla reazione termidoria-na del 1794, che diede vita alla nuova costituzionerepubblicana del 1795 (o dell’Anno III).Le cosiddette repubbliche italiane ‘sorelle’ patroci-nate da Napoleone, seguirono piuttosto il modellocostituzionale francese dell’Anno III o dei repub-blicani moderati aggregati dalla reazione termido-riana, che della breve parentesi della democraziagiacobina aveva continuato però lo schema centra-lista della Repubblica “una e indivisibile” contro letendenze girondine federaliste. Ma tale schemasarebbe stato delle singole Repubbliche, nessunadelle quali si sarebbe estesa a tutta la penisola. Perquesta, l’ipotesi di Napoleone III sarebbe statainvece di tre grandi formazioni statuali, del Nord,del Centro e del Sud, la cui aggregazione naziona-le nella penisola sarebbe stata quindi di tipo piùconfederale che federale. (Tale ipotesi sussistettefino agli accordi di Plombières stabiliti nel 1858 daCavour con Napoleone III). Il progetto confedera-le dei neoguelfi, monarchici, cattolici liberal-mode-rati piemontesi, dell’abate Gioberti, del marcheseMassimo D’Azeglio, di Felice Balbo, Cesare Cantù,Gino Capponi e altri ancora, simpatizzanti di altreregioni, si inserì con un rapido e notevole succes-so ideologico tra il 1844 e i primi mesi del 1848,quando crollò definitivamente. Esso rispondevabene a una tendenza compromissoria generale chemirava a contemperare la conservazione della plu-ralità dei principati pre-moderni esistenti nellapenisola, con una loro moderata modernizzazionecostituzionale, in una aggregazione nazionale itali-ca di tipo confederale, il cui equilibrio conservati-vo sarebbe stato garantito dal primato politico-militare della monarchia sabauda e dal primatocivile del Papato. Ciò che determinò il rigetto inte-grale dell’ipotesi neoguelfa non fu originariamentee fondamentalmente l’irrigidimento di Papa Pio IX(Giovanni Maria Mastai Ferretti), che di quel movi-mento sembrava aver accettato di buon grado diporsi alla testa dal momento che esso, pur com-portando qualche sacrificio alla sua tradizione pre-modema, esaltava il ruolo etico-politico del Papatoin Italia e in Europa, bensì della Francia edell’Impero austro-ungarico per diverse ma con-

87

n.32 / 2012

88

vergenti ragioni di stato e di potenza. Infatti, unqualsiasi progetto di indipendenza e unificazionepolitica nazionale nella penisola italica non potevaprescindere, per la sua realizzazione, da una intesacon le potenze europee interessate alla conserva-zione dello statu quo, come l’Austria, o anche auna sua revisione, ma controllata, come fu anzitut-to la Francia da Napoleone I a Napoleone III equindi la Gran Bretagna. (Come è noto, guadagna-re Francia e Gran Bretagna alla causa dell’indipen-denza italiana e dell’espansione piemontese nellavalle padana fu il grande disegno diplomatico per-seguito da Cavour con la partecipazione, nel 1853,alla guerra di Crimea, e coronato dagli accordi diPlombières nel 1958, che prelusero alla secondaguerra del Risorgimento e alla liberazione dellaLombardia). Ma nessuno aveva previsto e volutoallora una unificazione dell’intera penisola in unsolo Stato-Nazione unitario, se si escludono idemocratici rivoluzionari mazziniani e garibaldiniche avrebbero voluto la Repubblica. In conclusio-ne, non era stato previsto e voluto né lo Statonazionale unitario e monarchico, che si avviò dopola liberazione della Lombardia nel 1859, né erastato progettato lo schema di un forte centralismopolitico-territoriale e amministrativo che saràattuato dal 1861 al 1865 dai governi della Destrastorica liberal-moderata. E d’altra parte, è noto cheCavour e i cavourriani non erano assertori di uncentralismo secondo il modello cesarista napoleo-nico, ma seguivano piuttosto i modelli liberal-moderati francesi tra l’età della Restaurazione equella della Monarchia liberale Orléans, espressi inmodo particolare da Benjamin Constant e aFrançois Guizot, autore della formula del “justemilieu” fatta propria in Italia da Cavour.Si può dire, dunque, che il progetto confederalesuscitò un ampio consenso, essenzialmente per-ché tale programma tendeva a conciliare la conti-nuità dei Principati con l’indipendenza, il primatodel Papato e la conservazione dell’ordine sociale,sotto la tutela politico-militare della monarchiapiemontese. Il neoguelfismo ha rappresentato,dunque, un modello (irrealizzato) di modernizza-zione cattolica verso la rivoluzione liberale, cheprecedette e seguì la rivoluzione politico-istituzio-nale del Piemonte; esso si contrappose alla fase ari-

stocratica reazionaria classica, ossia al cattolicesi-mo reazionario, e accettando la rivoluzione istitu-zionale borghese tentò di integrare il nuovo neltradizionale, e viceversa, sempre dal punto di vistacattolico-chiesastico. Ma come ha sottolineatoAntonio Gramsci, il neoguelfismo fu sconfitto nel‘48: “Dopo il 1848 una critica dei metodi prece-denti al fallimento fu fatta solo dai moderati e infat-ti tutto il movimento moderato si rinnova, il neo-guelfismo fu liquidato, uomini nuovi occuparono iprimi posti di direzione” (Gramsci 1975, 1769). Ecome l’emergere del neoguelfismo aveva esautora-to le ali estreme (la destra reazionaria e l’estremasinistra democratica), la sua eclissi determinò uninasprimento fra clericali e liberali (fra tendenzereazionarie e democratiche), come risultò dal ten-tativo di costituire la Repubblica romana nel 1849,sconfitta dall’intervento francese. In altri termini,nel momento in cui nel 1860 risulta vincente lasoluzione liberal-moderata piemontese, vienemeno la mediazione cattolica neoguelfa, pertanto icattolici sono sospinti all’opposizione reazionaria,con conseguenti ripercussioni nella dislocazionedelle forze interne al mondo cattolico, ove ora pre-valgono le posizioni integralistiche.Sul contributo teorico e politico di Rosmini nel-l’ambito di un progetto neoguelfo ci sono recentistudi da cui emerge l’importanza della sua attivitàin questa direzione (L. Malusa e G. Ottonello,2011). Ora, le posizioni politiche di Rosmini furo-no senz'altro quelle di un patriota che aderì ai valo-ri di indipendenza e di unità dell'Italia, tanto che fucostretto ad allontanarsi da Rovereto, allora sottol'impero austro-ungarico, a causa dei sospettisuscitati dalla sua azione pastorale. Nell'anno cru-ciale 1848, il governo piemontese affidò a Rosminiuna delicata iniziativa politico-diplomatica presso ilpapa Pio IX, coincidente nella proposta di un con-cordato e nella preparazione del progetto di unaconfederazione di Stati italiani con a capo lo stessoPontefice. Mentre si accingeva a dare attuazionealla missione stessa, il Ministro degli affari esteripiemontese comunicò a Rosmini che il governodel Regno aveva modificato la sua posizione. Inluogo di negoziati volti a costituire unaConfederazione degli Stati italiani, era preferibileprogettare una Lega italiana, ossia un'alleanza

Mario Quaranta Il federalismo di Alberto Mario

difensiva e offensiva; di fronte a questo mutamen-to di prospettiva, Rosmini rinuncia alla missione.Nell’opera pubblicata nello stesso anno, La costi-tuzione secondo la giustizia sociale, Rosmini deli-nea il progetto di una monarchia costituzionale,con un'appendice Sull'unità d'Italia, in cui difen-de il programma neoguelfo teorizzato da Giobertiper quanto egli non possa essere annoverato fra gliesponenti del neoguelfismo.

5. L’alternativa centralismo-federalismo e laposizione di Alberto Mario

Si è invece imposto, per ragioni diverse, inGermania e in Italia, un modello di unità dall'alto,ossia la soluzione che era più radicalmente contra-ria alle caratteristiche di un universo politico con-traddistinto, in entrambi i casi, da economie, socie-tà, culture regionali (e locali) fortemente differen-ziate fra loro. Così, l’imposizione di un centralismo“forte”, confermato in successivi momenti crucialidella storia italiana, come il periodo costituentedopo la fine della seconda guerra mondiale, lepotenzialità e diversità regionali e municipalihanno alimentato diffidenze, conflitti, opposizioni,che in quest'ultimo ventennio hanno addiritturaprovocato la nascita, per la prima volta nel dopo-guerra, di un movimento politico contro il centra-lismo statale, rappresentativo di vasti strati socialinelle regioni più avanzate del Nord Italia: la LegaNord, entrata in Parlamento nel 1987.Per comprendere le ragioni storiche che sono allaradice della nostra struttura statuale e della sceltaunitaria e centralista dall'alto compiuta in primoluogo dalla monarchia, occorre ricordare chel'Italia è il Paese europeo che non ha conosciutoun processo rivoluzionario a base nazionale epopolare, come gli altri Paesi europei; processofrantumato dal particolarismo comunale e signori-le, prima, e poi bloccato dalla presenza nel nostroPaese di eserciti stranieri. Alberto Mario, facendoun confronto fra la storia d'Italia e quella dellaFrancia sottolinea acutamente che “lo Stato rap-presenta l'elemento dell'unione federale.Elemento che manca alla Francia, fusa da varie cen-tinaia d'anni: epperò in lei la tradizione è unitaria,e l'aspirazione nazionale monarchica come conse-

guenza” (Mario 1984, 91). A ciò va aggiunto, secon-do Cattaneo e lo stesso Mario, la presenza dellaChiesa cattolica, la quale sarebbe stata un elemen-to di instabilità politica e di ostacolo al processorisorgimentale. A tale proposito va ricordato checon il “non expedit” del 1870 la Chiesa ha rifiutatol'unità d'Italia e ha scelto la strada dell'astensionedei cattolici dalla vita politica nazionale, rendendoestremamente difficile il processo di unificazioneculturale del Paese, con le masse contadine di fattoestranee allo Stato, perché dirette dalla Chiesa.Questo mancato processo rivoluzionario, sia poli-tico sia religioso, si è espresso, sul terreno cultura-le, come impossibilità oggettiva di compiere unarivoluzione borghese, con la conseguente incapa-cità a intenderne la logica (storica e politica). Cosìla cultura italiana non è riuscita a elaborare pro-gettazioni ideologiche rivoluzionarie, confonden-do o addirittura equiparando il processo evolutivocon quello, appunto, rivoluzionario. Alberto Mario,riflettendo sulle vicende del movimento mazzinia-no, in una lettera ad Agostino Bertani dell'estate1863 afferma: “La dottrina della rivoluzione è lasola che manchi alla democrazia italiana, la qualenon sa fare che schioppettate” (Mario 1901, 211).Così, la scelta unitaria e centralista è stata elevatadai suoi ideologi a dogma, rintracciando nellenostre caratteristiche storiche (comunali e signori-li) un motivo permanente di disgregazione politicadel Paese, al limite del secessionismo (ad esempio,per la Sicilia). Invece da parte dei federalisti si èinsistito per considerare le stesse caratteristichedella storia italiana un motivo che legittima l'unitàpolitica nell'ambito di una soluzione federalista.“La base storica del federalismo, afferma Mario,dee ravvisarsi nella individualità delle repubblicheall'epoca del risorgimento italiano dopo il Mille,diventata più complessa nella posteriore formazio-ne degli Stati i quali conservaronsi a un dipressoper molti secoli sino al 1859”. E più oltre: “Da duefatti emerse il concetto dell'unità nazionale: dallageografia d'Italia che il mar circonda e l'alpe; edalla letteratura, vincolo intellettuale che per seisecoli ha collegate quelle genti le quali diventaro-no il popolo d'Italia, la nazione italiana, secondo ilpensiero moderno; unità morale che involve la piùprofonda varietà reale; non unità di materia, unità

89

n.32 / 2012

90

che confonde, irrigidisce e offresi instrumentoegregio ad un governo personale. Alla varietà deisangui, dei climi, dei luoghi, delle tradizioni, delleconsuetudini sociali, delle legislazioni, degli affetti,dei costumi, corrispondono la varietà dell'incivili-mento nei popoli d'Italia. [...] E tale divario impor-ta distanze e differenze. Ora come asserire che unalegge unica o di finanza, o d'istruzione pubblica, odi diritto penale o d'altro, sia pure essa teorica-mente ottima, abbia ad adattarsi egualmente aquesto e a quel paese?” (Mario, 1984, 91 e 94).Data la forza dello schieramento unitario e centrali-sta, i federalisti italiani sono stati indotti a elaborareun’interpretazione storica della nostra tradizione,alternativa a quella di stampo sabaudo, insieme auna filosofia che legittimasse le distinzioni, il plura-lismo, la coesistenza di esperienze, costumi, istitu-zioni diverse. Da Romagnosi a Cattaneo fino adAlberto Mario, l'empirismo (e il positivismo comesuo erede e continuatore) è stato indicato comel'orientamento filosofico più adeguato per dare unfondamento al federalismo (politico e culturale):un empirismo in cui è fortemente accentuata laconnotazione antimetafisica. “Il pensiero diCattaneo”, afferma Paolo Bagnoli, “non è il fruttoseparato o separabile dall'insieme della sua elabo-razione intellettuale ma, ad essa, è strettamente edorganicamente connesso” (Bagnoli 1993, 14).(Mario si rifà esplicitamente al pensiero di Ardigò, ilquale è, tra le ‘varianti’ del positivismo italiano, ilpiù conseguentemente antimetafisico).Quest'ultimo aspetto è direttamente collegato allalotta contro l'ideologia della Chiesa, ritenuta unostacolo fondamentale per una soluzione unitariadel processo risorgimentale, prima, e di un assettonon centralista, poi. Il federalismo italiano è per-tanto sempre in bilico tra filosofia e politica, trauna progettazione ideologica e l'individuazionedegli aspetti federalistici introducibili nella struttu-ra statuale. In altri termini, da noi è prevalso unfederalismo ‘antropologico’ (il termine è statoadottato da Giuseppe Gangemi, Torino 1994) nelladuplice versione: cattolica, con Rosmini; laica, conAndrea Zambelli e la sua scuola (fra cui ricordiamoGiuseppe Zanardelli e Angelo Messedaglia), equello storico-filosofico di Cattaneo. Si tratta di unmodello che affida la sua efficacia prima ancora che

a un ben determinato edificio costituzionale, all'af-fermazione di una rete di valori, credenze, espe-rienze, che emergono dalla nostra storia e chehanno differenziato gli Stati italiani pre-unitari, iloro costumi e le loro istituzioni.

6. La tradizione federalista nel Veneto

Nel momento in cui il federalismo rimane in primopiano nella politica italiana, è opportuno riesami-nare la nostra tradizione federalista, i dibattiti, iconfronti e i conflitti che vi sono all’origine, quan-do si è posto il problema dell’unità d’Italia e si èdelineato l’assetto istituzionale che doveva essererealizzato. Diamo un rilievo particolare al Veneto,una regione di frontiera, dove le posizioni neo-guelfe e quelle repubblicane sono rappresentateda teorici e uomini politici di spicco (da Albèri adAlberto Mario). In particolare ci soffermiamo sullabattaglia condotta da Alberto Mario il quale, dopol’eclissi della soluzione neoguelfa, andò via via pre-cisando la sua posizione, passando da una inizialeadesione al mazzinianesimo a una aperta adesioneal federalismo di Cattaneo, che portò a una ulte-riore e più rigorosa formulazione.È noto che il programma unitario-centralista fuprecorso da quello della confederazione dei catto-lici monarchici liberal-moderato (o neoguelfi) cheebbe una forte eco nella regione veneta, ove ci ful’epicentro dell’insurrezione anti-austriaca nellacittà di Vicenza. In suo aiuto accorsero i più nume-rosi reparti militari dell’esercito pontificio inviatidal papa Pio IX al comando del generale GiovanniDurando, e altri corpi di volontari dell’Italia cen-trale e del Cadore; dal Piemonte arrivò il marcheseMassimo D’Azeglio.Nel Veneto la tradizione federalista ha espressoalcune figure centrali, nel doppio versante cattoli-co e laico. Nel corso dei moti del '48, istanze fede-raliste sono state espresse da Niccolò Tommaseo(1802-1874) e Daniele Manin (1804-1857). Il primoè stato nominato ministro del culto e dell'istruzio-ne pubblica dal Governo di Venezia dopo l'insur-rezione del 17 marzo 1848. Il 4 luglio egli tenne undiscorso che rimase famoso, in cui espose le ragio-ni del rifiuto della fusione del Veneto con il Regnodel Piemonte: una posizione peraltro minoritaria

Mario Quaranta Il federalismo di Alberto Mario

che lo indusse a ritirarsi dal governo. La posizionedi Manin è controversa; c’è chi lo colloca all’inter-no del federalismo per alcune posizioni assuntenel corso del ’48 e oltre, e chi invece considera taliposizioni solo di ordine tattico e non strategico,ossia assunte in un momento di lotta per non per-dere il contatto con le forze sociali e politiche cheesprimevano istanze federaliste. Infatti, in alcuneconversazioni a Parigi con Nessau Senior (13 mag-gio 1854 e 17 maggio 1856), poi trasformate inun’intervista, dichiara quali sono state, a suo giudi-zio, le ‘vere’ ragioni dell'insurrezione venezianadel 1848: “Preferivamo essere una Repubblica indi-pendente confederata con gli altri Stati italiani. Eavremmo accettato di entrar a far parte di un unicogrande Regno comprendente tutta l'Italia. Se CarloAlberto si fosse presentato come un uomo disinte-ressato; se non avesse fatto una guerra egoisticaper l'ingrandimento del Piemonte; se non avesseproposto altro che la cacciata dei barbari fuoridell'Italia, lasciando agli italiani il compito di deci-dere dei propri affari, penso ancor oggi che avrem-mo potuto riuscire. Ma le mie speranze svanirononon appena propose di annettersi Milano; cambia-va tutto il carattere della guerra” (Beggiato 1994,15). D'altra parte, in una lettera a Tommaseo del 5settembre 1848, Manin dava precise disposizioni einformazioni sulla posizione del Governo venezia-no: “Noi accetteremmo, anzi tutto, che fosse costi-tuito uno Stato delle sole provincie della Venezia;poi, che le provincie lombardo-venete costituisse-ro un unico Stato, salvo in questi due casi di lascia-re alla deliberazione dell'Assemblea costituente,eletta con suffragio universale, la forma di gover-no; in fine, e per caso estremo, non ci rifiuterem-mo a formar parte del già ideato Regno subalpino”(Beggiato 1994, 23).Un valido contributo al federalismo neoguelfo loha dato lo storico padovano Eugenio Albèri (1807-1878) con l'opera Del Papato e dell'Italia (1847),in cui dichiara di essere contrario all'unificazionesabauda e favorevole ad una unità nella federazio-ne: a suo giudizio essa è la risposta più corrispon-dente alle caratteristiche della storia d'Italia, garan-te della libertà dei popoli e anche dei sovrani. Ma ilcontributo più organico lo ha espresso AntonioRosmini nel già citato scritto Sull'unità d'Italia

(1848), ove sostiene un federalismo come antido-to al giacobinismo (inteso come forma di autorita-rismo) entro un contesto unitario, e garante deidiritti dei cittadini. La personalità veneta più dispicco del federalismo laico risorgimentale è quel-la di Alberto Mario, sia per le sue esperienze politi-che, culturali e militari, sia per il ruolo svolto nelgiornalismo, oltre che per l'attività di organizzato-re e di dirigente politico.

7. Alberto Mario. Nota biografica

Alberto Mario (Lendinara, Rovigo, 4 giugno 1825 -Lendinara 2 giugno 1883) fa parte della secondagenerazione risorgimentale, quella che è vissutadopo il periodo della Restaurazione, e si trovaancor giovane impegnata direttamente nella lottapolitica e militare. Alcuni dati biografici essenzialici consentiranno di comprendere il percorso poli-tico e culturale di Mario, in cui l'attivismo politicoe militare è sempre sorretto da una seria riflessio-ne culturale. La singolarità e specificità della suaposizione risiede nel fatto che dopo il 1860 egli sidistacca progressivamente da Mazzini, nel cui uni-tarismo vedeva sia una tendenza giacobina, nellarivendicazione della ‘Repubblica una e indivisibile’,sia una subordinazione all’unificazione monarchi-ca sabauda fondata sui plebisciti. In altri termini,Alberto Mario si rifà esplicitamente al modellogirondino, assumendo una posizione repubblicanamoderata, la quale, dal momento che si opponealla soluzione dell’unità statuale monarchica pie-montese, assume nei confronti di questa una carat-terizzazione liberale radicale.Nato a Lendinara dai nobili Francesco e AngelaBaccelli, Alberto Mario frequenta le scuole degliScolopi e poi nel 1846 si iscrive alla Facoltà di giu-risprudenza dell'Università di Padova. Entra subitonell'Associazione filarmonica, nome di coperturadi un'associazione di studenti polesani (e qualchemantovano) in cui si leggono e discutono libri poli-tici ‘proibiti’. È protagonista degli scontri con gliaustriaci l'8 febbraio 1848 a Padova (ora giorno difesta degli studenti universitari patavini); da alloravivrà da protagonista e poi cronista degli eventimilitari e politici del Risorgimento. Per evitare l'ar-resto fugge a Bologna, dove continua l'attività poli-

91

n.32 / 2012

92

tica: legge Gioberti e accoglie con speranza leaperture liberaleggianti di Pio IX, come “i novedecimi degli italiani” (Carducci 1901, 11).Mario partecipa alla prima spedizione di volontariuniversitari diretta da Livio Zambeccari, per aiutareModena in lotta contro il duca asburgico, ma nonc'è scontro armato. Si avvia a liberare Ferrara quan-do viene a sapere che Milano è insorta; combattenel Veneto: a Cornuda, poi in difesa di Treviso e diVicenza. Dopo la sconfitta va a Milano, dove vedeGaribaldi e Mazzini. Dopo la capitolazione dellacittà va nel giugno 1849 a Genova, città ove “gliuomini si incontravano, s'illuminavano, si maledi-cevano, si ricordavano, si mutavano” (Carducci1901, 223). Rivede Bixio, conosce Mameli e i fratel-li Fusinato. Scrive su vari giornali quotidiani (alcu-ni di breve durata): “Il Tribuno” (gennaio-marzo1850), “L'Italia” (marzo-agosto 1850), “L'ItaliaLibera” (agosto 1850-maggio 1851), “Italia ePopolo” (maggio 1851-maggio 1857), “L'Italia delPopolo” (1857-1858). Jessie tratteggerà il Mario diquesto periodo in questi termini: “Divorava gliscritti politici di Mazzini e il Primato civile diGioberti: era inebriato dell'Italia la sopranazione,il capo popolo, la sintesi e lo specchio d'Europa, lacreatrice e redentrice per eccellenza; innamoratodella Roma del popolo di Mazzini, della terza mis-sione d'incivilimento europeo” (Mario 1984, 410). Nel maggio 1857 conosce a Genova Jessie White,corri spondente del “Daily News”: in realtà emissa-ria di Mazzini. Dopo avere subito a Genova il car-cere (insieme a Jessie) nell'estate di quell'anno, inseguito al fallimento della sollevazione, fu espulsodagli Stati Sardi. Il quinquennio dalla fine del '57 aquella del '62 “fu tra i più intensi della vita e deter-minante per il raggiungimento delle forme maturedel suo pensiero” (Bagatin 1984, XVIII). I duevanno in Inghilterra; a Portsmouth si sposano il 17dicembre 1857; Mario collabora alla rivista mazzi-niana “Pensiero ed Azione” fondata a Londra nelsettembre 1858; nell'ottobre di quell'anno vannoin America, per sostenere la causa dell'indipen-denza italiana. Di lì partono quando vengono asapere che sta per scoppiare la seconda guerrad'indipendenza; ritornano in Italia ma è già statafirmata la pace di Villafranca (12 luglio 1859). Mariosi reca a Pontelagoscuro (in provincia di Ferrara)

per avere notizie del padre ammalato, ma è arre-stato con la moglie dal governatore di BolognaLeonetto Cipriani. Dopo alcune settimane di pri-gione a Bologna i due vanno a vivere a Lugano inSvizzera, dove Mazzini affida a Mario la direzionedel periodico “Pensiero e Azione”, stampato clan-destinamente in una tipografia svizzera.Mario partecipa poi alla spedizione dei Mille, cheparte secondo l'indicazione “Italia e VittorioEmanuele”; a Messina dirige “L'Indipendente” (8agosto 1960), dove esprime la sua posizione anti-cavourriana. Il giudizio sull'impresa è critico; affer-ma che Garibaldi ha ceduto il potere del Sud allamonarchia, avallato da Mazzini; occorre ora spin-gere Garibaldi a intervenire per completare il pro-cesso unitario. È la linea che sostiene nel Comitatodirettivo dell'Associazione unitaria di Genova sortanel settembre 1861. Ma sull'Aspromonte, nell'ago-sto 1862, si infrange il suo disegno politico: da quila scelta di una lotta per la trasformazione politicainterna, in alternativa all'insurrezionalismo adoltranza di Mazzini. Dopo la campagna in Sicilia sistabilì in una villa dei colli di Firenze, collaborandoalla “Nuova Europa” di Firenze e al “Dovere” diGenova. Nel corso dell'VIII Legislatura il collegio diModica in Sicilia elesse nel 1862, a sua insaputa,Alberto Mario rappresentante alla Camera deideputati, ma per la pregiudiziale antimonarchicarifiutò. Liberata Venezia, poté rientrare in patria,dove si dedicò in modo particolare ai suoi studi.

8. Il federalismo di Alberto Mario

Gli storici sono pressoché unanimi nel sostenereche Carlo Cattaneo è “l'espressione più significati-va di consapevolezza dell'idea federalista” (PaoloBagnoli 1993, 14); l'esperienza del 1848, trasformaCattaneo, il riformista nell'ambito dell'imperoasburgico (e per tale motivo visto con diffidenza,prima, e poi aspramente e costantemente critica-to), nel capo militare e politico dei moti di Milano,dove si combatte la prima, decisiva battaglia (mili-tare ma anche politica) del Risorgimento, da cuiemergerà la direttrice fondamentale, ossia la presadella direzione da parte della monarchia sabauda.L'opera di Cattaneo Dell'insurrezzione di Milanonel 1848 e della successiva guerra (1849), consi-

Mario Quaranta Il federalismo di Alberto Mario

derata dallo storico Giuseppe Armani “un manife-sto di federalismo” (Armani 1997, 130), costituisceun bilancio di eccezionale valore storico-critico: èuna critica e condanna della posizione dell'Austriae del Piemonte, entrambe interessate al controllodella Lombardia, insieme a quella dei moderati, iquali, di fronte all'intervento delle masse, alla pro-clamazione della libertà preferiscono accettare ildominio del Piemonte. Dunque, al fondo del falli-mento di quel moto popolare c'è una mancanza dipreparazione politica, ossia l'assenza di uno spiritofederale.Il federalismo di Cattano sarà reso più rigoroso neisaggi apparsi nell'“Archivio triennale delle cosed'Italia” (1849-1851), integrato da una radicale cri-tica di Mazzini, il quale secondo Cattaneo ha sacri-ficato la libertà all'obiettivo dell'unificazionedell'Italia, appoggiando di fatto l'espansionismopiemontese, ossia la logica egemonica di CasaSavoia. “La sola possibile forma d'unità tra liberipopoli è un patto federale. Il potere debb'esserelimitato; e non può essere limitato se non dal pote-re”, dichiara nel 1860 (Cattaneo 1965, 86). La sin-tesi più compiuta del pensiero storico-critico diCattaneo è l'opera La città considerata come prin-cipio ideale delle istorie italiane (1858); nascedopo la spedizione di Sapri del 1857, durante laquale muore Carlo Pisacane, la mente teorica emilitare più notevole espressa dal movimento maz-ziniano, moto che sancisce il fallimento della lineadi Mazzini fondata sull'idea di una insurrezioneessenzialmente dei ceti popolari. Cattaneo in que-st'opera si contrappone a questa idea, facendo l'a-pologia della città come centro propulsore dellosviluppo dell'Italia e della borghesia come la classe-guida, sviluppo che è progresso della civiltà italiana.Secondo Cattaneo, le caratteristiche peculiari dellastoria d'Italia sono sostanzialmente due: una confi-gurazione fisico-geografica del territorio priva dicentro, ossia disseminata in zone fra loro netta-mente distinte (e spesso separate), e un pluralismopolitico espresso, nel punto più alto, dai Comuni(dalla civiltà comunale); due caratteristiche checonfigurano l'Italia come un paese naturaliterfederalista. Il federalismo è, dunque, per Cattaneol'unica, autentica soluzione del problema dell'Italia,e all'unitarismo di Mazzini che sacrifica la libertà

egli contrappone il modello degli Stati Uniti d'Italia.La posizione di Cattaneo ha un solido fondamentostorico-critico e filosofico in una teoria del federali-smo come espressione e realizzazione di libertà. “Ilfederalismo è la teorica della libertà, l'unica possi-bile teorica della libertà”, afferma nella lettera aLodovico Frapolli del 29 dicembre 1851 (Cattaneo1901, 362-363), in ciò continuando il pensiero delsuo maestro Gian Domenico Romagnosi, pensieroche egli difende, fra l'altro, dagli attacchi di AntonioRosmini. Questi pochi cenni ci permettono di pre-cisare i caratteri del cattaneismo di Alberto Mario, edi indicare il contributo specifico che il repubblica-no polesano ha dato alla battaglia federalista.Alberto Mario, partito ‘albertista’ (il termine èsuo), ossia convinto dell’efficacia della linea diCarlo Alberto, e come giobertiano, è passato poi aMazzini, giungendo al federalismo di Cattaneoattraverso una rigorosa analisi critica autonomadelle sue esperienze politiche, militari, culturali,compiute dal 1848 in poi, insieme a una costanteriflessione sulla storia e sulla cultura dell'Italia (inparticolare quella artistica e filosofica). Egli stabili-sce uno stretto rapporto con Cattaneo a Luganodal settembre 1859 al maggio 1860, ossia nel perio-do in cui si sta per concludere la sua parabola maz-ziniana. L'incontro con Cattaneo avviene, dunque,in un momento in cui si sta staccando da Mazzini,in cerca di una nuova prospettiva politica, chetrova appunto nel federalismo di Cattaneo.D'altra parte, anche Cattaneo è vivamente interes-sato a stabilire un rapporto stretto con Mario, uncombattente di tutte le battaglie risorgimentali,che mantiene buoni rapporti con Garibaldi eMazzini; inoltre, è un eccellente giornalista, cono-scitore profondo di tutti gli uomini più rappresen-tativi dell'area composita e variegata del repubbli-canesimo. Attraverso Mario diventa possibile perlui riprendere, su un nuovo terreno, la lotta anti-centralistica mantenendo vivo l’ideale federalista.E infatti attorno a Mario si coagula una serie diuomini capaci e decisi a portare avanti la linea poli-tica cattaneana: Ferrari, Cernuschi, Bertani,Ricciotti, Menotti Garibaldi e altri ancora.Mario fa i conti con il pensiero politico e filosoficodi Cattaneo in alcuni impegnativi scritti, apparsiper la prima volta nella “Rivista Europea”: Carlo

93

n.32 / 2012

94

Cattaneo. Il filosofo. Il patriota e l'uomo;Cattaneo. Appendice (Mario 1901, 181-308): que-st'ultimo saggio è la sistemazione storica e teoricapiù organica del suo federalismo di ispirazione cat-taneana. Il libro Carlo Cattaneo. Cenni e remini-scenze, scritto in collaborazione con Jessie (Mario1884) contiene: La commemorazione diCattaneo, Della vita di Carlo Cattaneo, scrittainsieme a Jessie, e Perle sparse di Cattaneo: unaserie di aforismi, frasi, dichiarazioni tratte dagliscritti cattaneani. Si tratta di un insieme di scrittiabbastanza corposo, a cui vanno aggiunti alcuniimportanti articoli: La nostra via in “La Provinciadi Mantova” dell’1 giugno 1872; Mazzini eCattaneo, nella “Lega della Democrazia” del 4marzo 1880. In tutti questi scritti Mario si rifà espli-citamente alle posizioni di Cattaneo con l’obiettivodi intervenire, nella nuova situazione italiana, perportare avanti il progetto di un'Italia federalista.Alcuni sono propagandistici, altri di messa a puntodel suo rapporto con il Maestro, altri di analisi delpensiero di Cattaneo, in cui indica la complessitàdegli elementi che vi confluiscono, insieme all'ori-ginalità delle conclusioni. La loro lettura ci consen-te di stabilire i motivi di continuità fra i due fede-ralisti, e prima ancora le ragioni di questo incon-tro, oltre che vedere quali aspetti del pensiero diCattaneo Mario ha ritenuto essenziali per conti-nuarne la linea politica e culturale.In breve: la ragione di questa sostanziale conver-genza ideologica fra i due è comprensibile se si esa-minano alcuni scritti di Mario: l'analisi della nostratradizione culturale, l'indagine sulle cinque giorna-te di Milano, l'individuazione dei limiti del pensieropolitico di Mazzini, che egli enuncia sulla base dellasua esperienza militare e di militante politico. Leconclusioni cui giunge sono sostanzialmente analo-ghe a quelle cui era pervenuto Cattaneo; inoltre, èfondamentale il comune giudizio sulla funzione delPiemonte (di Casa Savoia) nella vita politica italiana.In conclusione, Cattaneo fornisce a Mario gli stru-menti conoscitivi per dare una sistemazione piùrigorosa alle conclusioni cui era autonomamentegiunto in ordine ai problemi indicati. Mario indivi-dua con matura consapevolezza le ragioni profon-de del federalismo; egli tenta di farne il punto diraccordo dell'universo composito dei democratici,

divisi in diverse correnti, e di unificazione politicacon le esperienze della più giovane generazione.Egli comprende con anticipo su molti altri, cherispetto a Mazzini e Garibaldi occorre voltare pagi-na: i due grandi protagonisti del Risorgimento,nella situazione nuova che si è creata dopo l'unitàd’Italia, continuano a usare gli stessi metodi cospi-rativi e di direzione militare di un tempo. Su que-sto punto Mario è esplicito; nel maggio 1862 anno-ta: Garibaldi “fa viaggiare venti rappresentanti dellaDemocrazia quasi fossero dei postiglioni” (Ciccuti1985, 69). A Jessie scrive il 16 maggio dello stessoanno: “Noi siamo un ente collettivo, la sola, l'unicarappresentanza della Democrazia; egli è indivi-duo.[...] Deve capire il signorino [Mazzini] che itempi della dittatura sono finiti, perché l'abbiamofatto capire anche a Garibaldi che nel campo del-l'azione è un'individualità che vale più della suaper lo meno 23 mila volte” (Ciccuti 1985, 69).Rispetto a Cattaneo, Mario individua con esattezzai limiti dell'azione dei moderati e del Partito d'a-zione, singolarmente convergenti, in un articolo dinotevole impegno analitico che segna il suo dis-tacco definitivo dal pensiero di Mazzini:L'inversione della formula, pubblicato nella“Nuova Europa” di Firenze il 16 aprile 1863. La tesicentrale è che la formula mazziniana “Unità e liber-tà” è risultata un ostacolo al processo unitario: essadoveva essere sostituita da quella ‘inversa’, la cat-taneana “Libertà e unità”. Egli indica in modomolto acuto “un'analogia grande e paurosa tra lasituazione del Quarantotto e quella delSessantatré”: allora sull'altare dell'indipendenzanon si prese in considerazione “la forma e lasostanza politica” e si andò incontro alla sconfitta;ora si deve evitare un esito analogo: “Unità vuolsianzi tutto, sovra tutto, dai moderati e dal partitod'azione; vuolsi Roma e Venezia, da quelli quandoche sia, da questo senza indugio, però da entram-bi. [...] Ma a Roma non ci si va che colla rivoluzio-ne, e a Venezia che con tutte le forze della nazio-ne”. Obiettivi irrealistici, praticamente impossibileda raggiungere, la cui difesa giustifica di fatto ilpermanere della situazione esistente. Oppure, equesta è la soluzione più negativa per il processounitario e federalista: si sceglie l’opzione militare,che ha come unico risultato il rafforzamento della

Mario Quaranta Il federalismo di Alberto Mario

scelta centralistica sabauda. Così conclude: “Seavessimo coltivato il campo della libertà, a quest'o-ra, passati tre anni, saremmo più vicini a Roma e aVenezia che non siamo” (Mario 1984, 67-70).Anche su questa posizione Mario è ritornato altrevolte, come nell'articolo in cui riespone le sue tesipolitiche fondamentali, La nostra via pubblicatonella “Provincia di Mantova” l'1 giugno 1872:Cattaneo, afferma Mario, “fino dalla vigilia delleCinque Giornate suggeriva che l'Italia col mezzodella libertà, vale a dire col conseguimento deidiritti locali, col magisterio della stampa, colleassemblee di stato, cogli ordinamenti militari pres-so ogni gente italica, si preparasse alla indipen-denza; voleva differita la guerra per organizzare lavittoria: ma il concetto della indipendenza preval-se sul concetto della rivoluzione; la fusione prepo-té sull'unione. [...] La foga unitaria doveva trar secola mutilazione della patria” (Mario 1901, 92).

9. Carlo Cattaneo e Alberto Mario: motivi dicontinuità e innovazione

Tutti i temi politici e federalisti fondamentali diCattaneo sono presenti negli scritti di Mario e ulte-riormente elaborati, ossia in alcuni casi aggiornatisecondo le nuove situazioni in cui si è trovato adoperare. Egli insiste spesso sui danni che provocal'accentramento: “Accentramento significa assorbi-mento della vitalità delle parti, estinzione gradualedelle spontaneità locali, paralisi delle individualitàmunicipali [...] accentramento significa condensa-zione di tutte le forze nazionali in un punto, in unente collettivo o in un uomo; è pendolo che oscil-la tra il dispotismo e la dittatura. [...] Noi vogliamola libertà come unico mezzo a raggiungere ed affer-mare la unità nazionale: libertà di coscienza e dipensiero, di parola e di stampa: libertà individuale,di associazione, d'insegnamento” (Mario 1984, 65). Inoltre, ribadisce il nesso esistente tra libertà esovranità e tra federazione e unità; nel saggioCattaneo. Appendice afferma: “Se la libertà nons'integra nella sovranità, a noi sembra dirittoincompleto. La libertà di parola, di associazione, diriunione, di stampa, di coscienza, di circolazione,ecc. costituisce gli antecedenti della sovranità.Sovranità forma equazione con governo. Se non si

governa non si è sovrano; sovranità significapadronanza; e la padronanza, diceva Cattaneo,esclude il padrone: da cui il concetto di repubbli-ca. Alla sovranità, provvedono i sistemi rappresen-tativi. Ma quanto imperfettamente vi provegga l'u-nitario, apparisce dal fatto che la rappresentanza diuna camera o di due non potrà superare di moltoil numero di seicento fra deputati e senatori”(Mario 1984, 96). E sul secondo rapporto dichiara:“Temesi che federazione importi disgregazione;donde il dissidio. Ma quando sia palese che fede-razione suona unità nazionale e politica snodata inautonomie legislative regionali, la più poderosa eindissolubile delle unità, molti animi oggi divisi piùch'altro da un dubbio d'origine nobilissima si uni-ranno in un concorde pensiero” (Mario 1901, 67).Infine il valore che Mario attribuisce all'individuali-smo come cardine della vita è espresso nel limpi-do articolo pubblicato nella “Provincia di Mantova”il 15 maggio 1873 quando morì John Stuart Mill, incui pone l'accento sulle tre opere politiche piùimportanti del filosofo inglese. A proposito dellibro Soggezione della donna, afferma: “In opinio-ne nostra il problema agitato da tanti secoli eglisolo risolse col semplice emendamento dei codicidel senso della parità dei diritti. La donna rimanedonna, ma la metà del genere umano, fin qui col-pita d'interdetto, viene associata all'altra metà nellavoro del progresso”. E sugli altri due scrittidichiara: “Mill politico scrisse due opere magistra-li, La libertà, e Il Governo rappresentativo.Questa seconda opera costituisce un sistema com-piuto del meccanismo, delle funzioni dinamiche edei fini dell'ordinamento rappresentativo.Concetto colossale, esecuzione sorprendente. [...]Almanco, per quanto ne sappiamo noi, Mill svolsela più accettabile delle proposte intorno alla rap-presentanza delle minoranze. Il libro intorno allalibertà è in parer nostro la peregrina fra le perleche brilla sul diadema glorioso delle opere delpubblicista inglese. Egli scruta il rapporto fra l'indi-viduo e lo Stato, e lo determina facendo caposaldonell'individuo. Investigando la radice, chiarendo laragione, e definendo il confine del diritto indivi-duale; inferisce l'armonia della convivenza, la reci-procità della tolleranza, la resultante dell'ordinedal carattere costitutivo del vero, che modifican-

95

n.32 / 2012

96

dosi continuamente e appartenendo in varia misu-ra a tutti gl'individui, a tutte le sètte, rende impos-sibili il dogmatismo, l'intolleranza, e il privilegio diuno o di alcuni su tutti. E ravvisando il progressonella vicenda perpetua dell'azione e della reazionemostra la necessità della sussistenza di tutte leidee, di tutti i frammenti di vero, di tutte le indivi-dualità” (Mario 1984, 187-188). Ma il momento in cui l’adesione di Mario al pen-siero di Cattaneo si è espressa più compiutamenteè dopo la scomparsa di Cattaneo, ossia dopo il1869. Fra i suoi scritti degli anni Settanta, ricordia-mo il fondamentale Manifesto agli elettori diLendinara pubblicato nel “Bacchiglione” il 5novembre 1874; costituisce la più rigorosa disami-na della sua esperienza politica complessiva, einsieme una critica precisa di un quindicennio digoverno moderato, con un conclusivo ribadimen-to delle ragioni del suo federalismo: “L'Italia è fattaper la federazione: unità di vita e varietà di funzio-ni. A ciò non provvedono le sciolte funzioni ammi-nistrative che può dare la sinistra e che darebbel'unitarismo mazziniano. Le funzioni amministrati-ve sono articolazioni secondarie; le principali sonole funzioni regionali e di stato, funzioni legislativeed esecutive; e ad ogni regione corrispondono lefunzioni amministrative: le regionali o di stato sicoordinano alle federali o di nazione; da cui la vera-ce e poderosa unità d'Italia, la quale non può con-cepirsi se non con la repubblica” (Mario 1901, 150).Recentemente, uno dei maggiori studiosi del fede-ralismo, Giuseppe Gangemi, in una relazione sulpensiero di Cattaneo in corso di stampa, ha rileva-to che Alberto Mario non si rifa solo, come altrifederalisti, all’esperienza della rivoluzione francesenel richiamarsi ad esperienze storiche moderne.“L’unità centralizzata, ribadisce Mario, è giacobina,l’unità decentrata, cioè l’armonia del molteplice el’uno, è girondina” (Mario 1984, 77), ma ancheall’esperienza americana. È vero che in Cattaneo èpresente non solo l’esperienza svizzera comemodello, ma anche il riferimento agli Stati Unitid’America quando elabora la sua idea di Stati Unitid’Europa e Stati Uniti d’Italia, ma Mario, sottolineaGangemi, “usa un linguaggio statunitense che èestraneo a Cattaneo”, là dove afferma che “a toglie-re di mezzo ogni equivoco dobbiamo stabilire net-

tamente che cosa sia in mente nostra la federazio-ne. Non è la federazione dei governi, come la vec-chia germanica e la recente, e come lo era l’elveti-ca prima del 1847, e lo fu per poco l’americana,perché in tal caso potrebbe essere anche la monar-chica. È la federazione dei popoli, ossia la compe-netrazione delle due sovranità distinte e corri-spondenti: la federale, ossia del centro, e la localeo di stato; e questa federazione non può concepir-si che repubblicana. Il nostro ragionamento acqui-sta più valore, e riuscirà, speriamo, più persuasivoaggirandosi sulla realtà, sul fatto vivo, anziché sullaspeculazione pura, sull’ipotesi. E vi ha un fatto vivoe glorioso e meraviglioso. l’Unione americana.L’analisi della sua costituzione, in quanto esso con-tiene di sostanziale e di generale, di vagliato e disancito dall’esperienza, ci condurrà alla composi-zione del nostro concetto politico – gli Stati Unitid’Italia” (Mario 1984, 87-88). In conclusione, il rife-rimento all’esperienza americana non è usatotanto come un “rinforzo” del suo federalismo macome un modello che può fornire un valido aiutonell’affrontare problemi cruciali come il rapportotra individuo, territorio e poteri locali, la formazio-ne di istituzioni e dei loro rappresentanti eletti. Atale proposito Mario dichiara: “E d’onde mai deri-va la incontestabile superiorità degli americani eper numero e per esperienza di statisti, come legis-latori, come amministratori, se non dal fatto delletrentasette legislature invece di una? E d’onde laloro superiorità come sovrani, uno per uno, se nonnell’esercizio frequente e duplice del diritto divoto – uno per le lezioni federali e di Stato – e nelpassaggio perenne da elettore ad eletto, da ammi-nistrato ad amministratore, da rappresentato a rap-presentare?” (Mario 1984, 98).L'ultimo impegno politico di Mario è nella costru-zione di uno schieramento democratico in cuidebbono essere presenti le diverse componentidell'universo politico radical-repubblicano, perrealizzare le riforme disattese dalla sinistra algoverno. Il periodo precedente era stato caratte-rizzato, sul piano politico, dal tentativo dei federa-listi di introdurre degli elementi quanto meno didecentramento amministrativo nell'armatura cen-tralistica, tentativi falliti: il governo Ricasoli chiusedi fatto nel 1865 il dibattito sulla struttura ammini-

Mario Quaranta Il federalismo di Alberto Mario

strativa dello Stato, confermando la scelta iniziale,ossia l'estensione del modello centralista piemon-tese a tutto il territorio. Ora però, con la sinistra algoverno, la situazione è completamente cambiata.Mario si impegna a fondo nella costruzione delmovimento “Lega della democrazia” (non un parti-to), ottenendo l'attiva presenza dello stessoGaribaldi, il quale il 26 aprile 1879 ne diramò il pro-gramma, precisando in termini inequivoci che laLega intendeva “circoscrivere il proprio lavoroentro i termini del diritto e con mezzi pacifici”(Garibaldi 1937, 288). La Lega divenne così “ilpunto d'incontro, nel 1880, di radicali e repubbli-cani con un programma sostanzialmente radicale”(Verucci 1996, 309). Mario diresse il giornale del-l'associazione, con il titolo omonimo, che si pub-blicò dal 5 gennaio 1880 al 5 luglio 1883, impe-gnandosi in modo particolare nella lotta per il suf-fragio universale, mentre sullo sfondo permanevail problema della costituente, ritenuto essenzialeda Mario perché la sola in grado di elaborare unanuova costituzione laica, in cui fossero riconosciu-ti tutti i diritti dei cittadini.Dopo l’andata al potere della sinistra nel 1877,Mario ne individua subito i limiti programmatici epolitici. Nell'articolo del 31 marzo 1877 nel“Preludio” di Cremona, L'impotenza della sinistrae la repubblica federale denuncia le conseguenzenefaste del trasformismo. Egli si chiede a tale pro-posito perché il governo si trovi come paralizzatonella sua attività: “Or dunque, perché la paralisi?Perché, una volta al governo, la riduzione delladestra e della sinistra al medesimo denominato-re?”, una domanda a cui dà questa risposta:“Perché, se l'unità politica d'Italia rappresenta unaevoluzione di lunga mano elaborata e necessaria, eperò naturale, della sua esistenza, l'unità legislativaè un fatto artificiale, forzato o ripugnante; da cuil'impotenza della destra e della sinistra, dei mode-rati, dei progressisti e dei radicali. L'unità legislati-va rende impossibile la soluzione dei massimi pro-blemi: della giustizia nella imposta e della sua per-cezione; della responsabilità e della pena, e peròdella pena di morte; dell'istruzione laica e dellauniversità, del suffragio universale, della sicurezzapubblica, del proporzionale sviluppo dei lavoripubblici”. La via d'uscita? “Che ogni regione faccia

le sue leggi civili, criminali, municipali e finanzia-rie, d'istruzione, di sicurezza e d'igiene, e le ese-guisca; che si creino coteste autonomie veraci enon menzognere” (Mario 1901, 163-165). E nell'al-tro, rilevante articolo programmatico, Il nostroideale. Manifesto della Rivista Repubblicana del9 aprile 1878, ribadirà le stesse posizioni, nella per-suasione che “l'Italia proseguirà la sua via secondola propria legge storica. La storia d'Italia vennesvolgendosi dal comune sovrano alla regionesovrana alla nazione sovrana. Ella deve ordinarsisenza la soppressione di nessuno dei tre terminicostitutivi” (Mario 1901, 175).Durante il periodo di vita della Lega e del suo gior-nale, Alberto Mario ha espresso il meglio del suoriformismo democratico di ispirazione cattaneana;per condurre la battaglia in favore del suffragiouniversale promosse sessantasette comizi in tuttele città italiane, i quali hanno riscosso un eccezio-nale successo, conclusi da lui stesso con il Comiziodei Comizi dell'11 febbraio 1881. L’ampliamentodel suffragio è stato l’obiettivo fondamentale di unampio blocco che va dai liberal-democratici ai radi-cal-repubblicani. Il governo approvava nel 1882 due leggi sul dirittodi voto: una sui requisiti di età, le capacità e il censodegli elettori, l'altra sul sistema di elezione a scruti-nio di lista. È stato considerato dai repubblicani unsuccesso, sia pure parziale, della Lega, che propriodopo questa vittoria decise la partecipazione alleelezioni politiche, e anche Alberto Mario, che pre-cedentemente aveva rifiutato il mandato parlamen-tare, abbandona tale posizione: la sua linea di lottademocratica e riformista iniziava ora a dare i primifrutti. Questo sia pure parziale allargamento delsuffragio (nel periodo della destra storica era circo-scritto al 2%), creò un consenso in quei ceti medipiccolo-borghesi, soprattutto urbani, espressionedi quel blocco sociale e politico di cui Alberto Marioera uno dei più lucidi interpreti.Si può affermare, in termini conclusivi, sia purprovvisori, che le tendenze repubblicane federali-ste e confederali nell’età post-risorgimentale otto-centesca, riprodussero in modo diverso e forse piùgrave la sconfitta storica del repubblicanesimodemocratico, mazziniano e garibaldino, continua-tore dell’idea-forza che era stata della democrazia

97

n.32 / 2012

98

giacobina della rivoluzione francese, della“Repubblica una e indivisibile”, contro le tendenzerepubblicane girondine, moderate e federaliste. Ilrepubblicanesimo democratico unitario subordi-nato ed emarginato dall’egemonia monarchicaliberal-moderata restava in ogni caso una tenden-za, sia pure minoritaria, di una certa coerenza econ un rilievo storico di un certo rilievo nelladimensione nazionale. La sua esaltazione dell’idea-forza dello Stato-Nazione moderno e unitario (concui si identificò l’idea-forza di Roma capitaled’Italia, anch’essa sua originariamente e non deiliberali liberal-moderati, che se ne appropriaronodal 1860 al 1870, faceva mediatamente, anche diesso, una componente storica di quella egemoniamonarchica, aristocratica, grande-borghese, libe-ral-moderata e trasformista, costituendone l’estre-ma propaggine nazionale popolare e democraticaborghese risorgimentale.Per quanto riguarda Alberto Mario, le idee diCattaneo, integrate dalla sua inserzione del model-lo federale americano, hanno acquistato le gambeper camminare; sono diventate la piattaforma diun orientamento trasversale fra gruppi e movi-menti dell’area laico-repubblicana. Si dirà chel’empirismo di Cattaneo è rimasto minoritarionella cultura italiana anche successivamente, macomunque è riemerso in momenti cruciali dellastoria culturale del Novecento. All'insegna diCattaneo è stato da alcuni contrastato il fascismo(Gobetti, Salvemini), e durante il ventennio l'in-contro con Cattaneo è stato significativo per alcuniintellettuali come Giansiro Ferrata e NorbertoBobbio; inoltre sempre all'insegna di Cattaneo èstato avviato, con la rivista diretta da Vittorini, “IlPolitecnico”, un nuovo corso della cultura italiana.E infine a Cattaneo ha fatto riferimento da ultimoanche Ludovico Geymnat, nell'esprimere la speran-za di un rinnovamento profondo della società ita-liana (Geymonat 1989).

La prima parte di questo scritto è stata discussa, asuo tempo, con gli amici Antonio Borio e MarioSabbatini. A quest’ultimo, in memoria, dedico ilsaggio.

Riferimenti bibliografici

Armani, Giuseppe [1997], Carlo Cattaneo unabiografia, Garzanti, Milano.Bagatin, Pier Luigi [1984], Introduzione a: AlbertoMario, La repubblica e l'ideale, Lendinara.Bagnoli, Paolo [1993], Sul federalismo di C.Cattaneo, “Il pensiero politico”, XXVI, 1. Beggiato, Ettore [1994], L'idea federalista nelVeneto, Consiglio Regionale Veneto, Venezia.Bocchi, Gianluca - Ceruti Mauro - Morin, Edgar[1991], L'Europa nell'era planetaria, Sperling &Kupfer, Milano.Carducci, Giosué [1901]: Proemio agli Scritti lette-rari e artistici di Alberto Mario, Zanichelli,Bologna. Cattaneo, Carlo [1965], A un amico Siciliano,Scritti politici, a cura di M. Boneschi, Le Monnier,Firenze, vol. IV, 1965.Cattaneo, Carlo [1892-1901], Scritti politici edEpistolario, a cura di Gabriele Rosa e Jessie WhiteMario, vol. II.Ceccuti, Cosimo [1985], Cultura e democraziafra Mario e Carducci, con prefazione di GiovanniSpadolini e documenti inediti, Le Monnier,Firenze.Gangemi, Giuseppe [1994], La questione federali-sta. Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani,Liviana, Torino.Garibaldi, Giuseppe [1937], Edizione Nazionaledegli Scritti e discorsi politici e militari, vol. III(1868-1882), Cappelli, Bologna 1937.Geymonat, Ludovico [1989[, La società come mi-lizia, a cura di Fabio Minazzi, Marcos y Marcos,Milano.Gramsci, Antonio [1975], Quaderni del carcere,vol. III, Einaudi, Torino.Malusa, Luciano Antonio Rosmini per l’unitàd’Italia. Tra aspirazione nazionale e fede cristia-na, Franco Angeli, Milano 2011. Mario, Alberto [1984], Cattaneo. Appendice, in:Teste e figure, Selmin, Padova 1877, 486-558; orain: La repubblica e l'ideale. Antologia degli scrittidi Alberto Mario, a cura di Pier Luigi Bagatin,Lendinara 1984.Verucci, Guido [1996], L'Italia laica prima edopo l'unità 1848-1876, Laterza, Bari.

Il 5 dicembre 2011 a Vicenza l’on. Umberto Bossinell’intervento che ha pronunciato alla riunionedel cosiddetto “Parlamento della Padania” ha espo-sto la motivazione della nuova strategia del movi-mento che si riassume in due parole d’ordine: laprima è “indipendenza unica via” e la seconda è“ma sia consensuale” (“La Padania”, 5 dicembre2011, n. 288). Nello stesso numero del quotidianosono riportate le seguenti affermazioni dell’on.Bossi: “Occorre ragionare su una possibile indi-pendenza condivisa. Occorre pensare a una tratta-tiva tra le aree del Paese, perchè è ormai evidentecome così non si possa proseguire”.Bossi ha riconfermato una strategia che esclude ilricorso a qualsiasi forma di violenza individuale oorganizzata. Qualche dubbio a tale proposito, mal-grado le ripetute affermazioni in senso contrario,era sorto nel momento della nascita delle cosid-dette “camicie verdi” poiché l’adozione di qualsia-si divisa richiama inevitabilmente i simboli militari.È da supporre ragionevolmente che Bossi si siariferito alle tre aree del paese nelle quali secondoil vecchio progetto di Gianfranco Miglio si dovreb-be o si potrebbe dare vita in Italia a tre repubblichefederali.Nel corso della riunione del “Parlamento dellaPadania” svoltasi a Vicenza, Stefano Bruno Gallidocente di Storia delle dottrine politicheall’Università degli Studi di Milano, ha ricordatoalcuni aspetti del pensiero politico di GianfrancoMiglio che, nell’ambito delle varie e ben differentidottrine federaliste, ha assunto dei caratteri moltoparticolari spesso ignorati (Romano, 2010;Quaranta 2010). La diversità del pensiero di Bossida quello di Miglio non è stata rilevata dagli osser-vatori politici ma la loro collaborazione, non senza

ragioni anche di carattere teorico, è finita in modomolto aspro.In breve: Bossi e Miglio concordavano sul “deci-sionismo” ma divergevano sul fondamento dellemacroregioni. Per Bossi già nel 1993 “l’unità dibase del nostro federalismo non era etnica e quin-di separatista ma socio-economica e quindi federa-lista su base macro-regionale” (Bossi, 1994, 4). Ildecisionismo di Bossi è evidente nei metodi diorganizzazione e di direzione che egli ha impostopersonalmente e familisticamente alla Lega Nord.Il metodo di risolvere le divergenze fra gli aderen-ti alla Lega Nord con le espulsioni deriva diretta-mente dal suo decisionismoPer Miglio nella nozione di etnia è compreso ancheil sangue (razzismo), e quindi la riabilitazione diMiglio alla riunione di Vicenza, decisa da Bossi, èfrutto di una precisa scelta strategica che va ben aldi là dei suoi rapporti personali molto contraddit-tori con il docente universitario.Alla riunione di Vicenza Bossi o l’onorevoleRoberto Calderoli avrebbero potuto illustrare lalegge-delega sul federalismo fiscale (legge 5 mag-gio 2009, n. 42) e gli otto decreti legislativi che essaha previsto poiché indubbiamente all’approvazio-ne della legge-delega e degli otto decreti legislativila Lega Nord ha dato un notevole contributo; essisegnano una tappa importante nella possibile, pre-vedibile ed auspicabile transizione dall’attualestato centralista a quello federalista. Il confrontofra la legge fondativa dello stato centralista italianodel 20 marzo 1865, n. 2248 con la recente legge-delega (5 maggio 2009, n. 42) sul federalismo fisca-le dà tutta la misura del cambiamento previsto daquest’ultima.Questo confronto fra le due leggi è reso difficile sul

99

Elio Franzin

La doppia linea di Umberto Bossi: verso ilgrado zero del federalismo?

Federalismo

n.32 / 2012

100

piano politico anche da un grave ritardo di carat-tere storiografico poiché gli studi sul momento,sulle ragioni, sulle modalità e sugli ispiratori dellalegge che è il fondamento del centralismo dellostato italiano sono tuttora molto rari. L’unica ecce-zione è costituita dallo splendido volume diClaudio Pavone (Pavone, 1964) pubblicato quandola questione del federalismo non era affatto perce-pita nel suo aspetto politico. Senza dubbio quelladel confronto fra le due leggi del marzo 1865 e delmaggio 2009 non è stata la strategia seguita aVicenza da Bossi che pure avrebbe potuto esaltarei risultati, parziali, raggiunti dalla Lega Nord.Alla riunione del “Parlamento della Padania” del 5dicembre 2011 è veramente iniziata la svolta o unasvolta, come afferma “La Padania” del 6 dicembre2011. Cercare di dare una risposta a questa doman-da può essere interessante anche agli effetti dellaprevisione sugli sviluppi della situazione politicaitaliana. Per poter rispondere a questa domanda èutile ricostruire i caratteri fondamentali del pre-sunto “federalismo” di Bossi e le varie e diverse fasiattraverso le quali esso è passato durante gli annitrascorsi dal 1982 ad oggi con notevoli cambia-menti spesso non rilevati dagli analisti e dagliosservatori.Bossi stesso ha raccontato, descritto e documenta-to l’evoluzione del suo rapporto piuttosto debolesul piano teorico, sostanzialmente tutto politico,tattico e non strategico, con il federalismo, nei cin-que volumi che egli ha pubblicato dal 1992 al 1998ai quali è stata dedicata finora, a mio avviso, unaattenzione inadeguata. Ben diverso è il suo rappor-to con la rivendicazione, implicita o esplicita, deldiritto alla secessione da parte dell’area geograficao meglio socio-economica chiamata Padania. La nozione storica di Padania è precedente all’usopolitico fattone da Bossi. È noto che i teorici delfederalismo hanno assunto posizioni diverse neiconfronti della rivendicazione del diritto alla seces-sione (Franzin, 1997). Nel caso dell’URSS la pro-clamazione del riconoscimento del diritto dellesingole repubbliche alla secessione è stato usatosul piano propagandistico da Stalin per nasconde-re la sua opposizione frontale rispetto alle posizio-ni assunte da Lenin in materia di federalismo e perla sua adozione del più feroce centralismo ( Lewin,

1967). La rivoluzione russa è stata sostanzialmenteuna rivoluzione federalista fallita, come avevaosservato giustamente Silvio Trentin benché nonavesse certo le informazioni adeguate sulla materiadello scontro molto aspro, su questo problema, fraLenin e il georgiano Stalin, trasformatosi nel difen-sore più accanito del nazionalismo grande-russo edel conseguente centralismo. Grazie all’incontro casuale avvenuto a Milano nel1980 con Bruno Salvadori, dirigente dell’UnionValdotaine, Bossi è stato stimolato a leggere nell’e-state del 1980 “i classici del federalismo: Cattaneo,Gioberti, gli americani come Hamilton” (Bossi,1992, 34). È ben noto che fra il federalismo diCattaneo e quello di Gioberti le differenze sononotevoli; Bossi non pare rilevarlo nel suo raccontoautobiografico.Nel marzo 1982 su “Lombardia Autonomista” Bossilancia la parola d’ordine “Lombardia ai lombardi,Padania ai padani”; inizia così quella che lo stessoBossi ha definito “la fase etnica” (Bossi, 1996).L’articolo viene ripubblicato come se fosse il primoarticolo lombardista-padanista pubblicato daBossi; non contiene nessuna definizione di etniama nel programma della Lega lombarda del 1983,articolato in dodici punti, si chiede la “precedenzaai lombardi nella assegnazione di lavoro, abitazio-ni, assistenza, contributi finanziari. Perchè ogni tas-sazione sia uguale per tutte le regioni e non si veri-fichino ancora truffe come quella del “Condono” edel “Ticket” sui medicinali che al Sud costano lametà che in Lombardia (sic!).”Il 12 aprile 1984 Bossi fonda la Lega autonomistalombarda e contemporaneamente sceglie il “mitopiù adatto” che “era senza dubbio la lega dei ventiComuni lombardi, ma anche piemontesi, veneti edemiliani” (Bossi, 1992, 41). Nel dicembre 1989, alprimo congresso nazionale della Lega lombarda,Bossi ha presentato una relazione sul “Federalismoper l’integrità etnica” ma anche in questo docu-mento, curiosamente, manca del tutto una defini-zione precisa di etnia che viene tuttavia individua-ta come base dell’affettività umana.Nell’agosto 1990 Bossi, con l’avallo di Miglio, enun-cia in una intervista a “Il giornale”, un programmache era “un concentrato del federalismo integrale,una nuova sintesi storica che si propone di rifon-

Elio Franzin La doppia linea di Umberto Bossi: verso il grado zero del federalismo?

dare lo Stato, superando le vecchie logiche degliautonomisti classici” (Bossi, 1992, 72). Gli autono-misti classici sono i sostenitori delle regioni a sta-tuto speciale. Secondo Bossi, “le tre Repubblichesono l’applicazione concreta di un federalismotutt’altro che razzista o anche semplicemente etni-co; di un federalismo basato invece sull’elementosocioeconomico” ( Bossi, 1993, 101). Il rifiuto delfederalismo etnico è esplicito.Nel febbraio del 1991 al congresso di PieveEmanuele i vari movimenti autonomistici del Norddiedero vita alla Lega Nord e Bossi fu eletto segre-tario federale. Il 16 maggio 1991 sul prato diPontida Bossi, davanti a migliaia di leghisti, riaffer-ma la necessità di articolare lo Stato italiano in treRepubbliche. Secondo Bossi “il federalismo non èuna bacchetta magica e neppure un sistema perdividere un popolo unitario. Serve invece a tenereinsieme popoli non del tutto omogenei”. E piùavanti. “Serve un progetto diverso, che non siasolo il rifacimento delle teorie cattaneane. La Legaha proposto qualche cosa di più: la ristrutturazio-ne in senso federale dello Stato con la nascita di tremacroregioni: del Nord, del Centro e del Sud(Bossi, 1992, 159). È una presa di distanza definiti-va dal pensiero di Carlo Cattaneo. Un abbandono?Non si direbbe. Bossi non ha mai comunicato aquale fra i numerosi teorici del federalismo italianio europei si sente più affine.Non ha mai dimostrato un particolare interesse,per esempio, per il pensiero di Silvio Trentin, il piùgrande teorico federalista del Novecento italiano,malgrado vi siano state numerose affermazioni deltutto immotivate da parte di coloro che hannovisto perfino nella fondazione del Centro studi suifederalismi Silvio Trentin (Padova) un tentativodella Lega Nord di legittimarsi, di trovare dei pre-decessori con il riferimento al pensiero di SilvioTrentin. È evidente che il federalismo di Trentinnon ha nulla in comune con quello teorizzato daMiglio.In pratica si è trattato da parte di tutti coloro chehanno attaccato la costituzione del Centro studisui federalismi Silvio Trentin (Padova) di unarisposta alla critica avanzata da Giuseppe Gangemie anche dal sottoscritto, alla mancata pubblicazio-ne integrale della traduzione dell’opera principale

di Trentin La crisi dello stato e del diritto.Trentin ha posto a fondamento del suo federali-smo consiliare o della partecipazione il giusnatura-lismo di ispirazione vichiana. Anche nel caso dellatardiva e ritardata pubblicazione della traduzionedi quest’opera si è trattato di un ritardo certo noncasuale della storiografia. La riscoperta iniziale diTrentin è stata merito di due studiosi non italiani,uno svizzero e uno americano (Hans WernerTobler, Frank Rosengarten)Nel 1993 Bossi afferma che la Lega Nord ha accet-tato i capisaldi teorici delle tesi dei federalisti inte-grali, dei sostenitori del “federalismo come sistemadi pensiero complesso, filosofico, antropologico,economico, non limitato alla soluzione dei proble-mi istituzionali”. Dichiara che la “discussione sulnumero di macroregioni è aperta”, e aggiunge chela Lega Nord “si è sempre schierata per una solu-zione di tipo federale e non confederale, riaffer-mando la volontà di evitare, nei limiti del possibi-le, gli effetti centrifughi prodotti dall’apertura dellagabbia centralista in cui l’Italia è stata costretta daitempi dell’unificazione”.La strada maestra è l’elezione di una nuova assem-blea costituente “un organismo agile, venti o tren-ta costituzionalisti eletti in collegi unici regionalicon il compito di elaborare in sei mesi un testo dasottoporre a referendum”. Uno degli elementirivoluzionari dello Stato federale sarà l’autonomiafinanziaria concessa alle macroregioni.Connaturato al sistema federale è il principio disussidiarietà. (Bossi, 1993, 146-152).Bossi apparentemente ha come obbiettivo nel 1993la elezione dell’Assemblea costituente. Ma la richie-sta dell’assemblea costituente da parte di Bossi hasubito molte oscillazioni nel corso degli anni; essa èin evidente relazione al tema di federalismo.La richiesta dell’Assemblea costituente da parte divarie forze della sinistra (Partito d’azione,Confederazione italiana del lavoro, Partito comuni-sta d’Italia) ha subito delle vicende molto com-plesse nella storia italiana. Non è stata osteggiatasoltanto dalla Destra; è stata rifiutata o criticataanche da parte della maggioranza massimalista delPSI e poi dagli oppositori di Antonio Gramsci all’in-terno del Partito comunista d’Italia (Franzin, 1970)Nell’ottobre 1996 Bossi pubblica Il mio progetto.

101

n.32 / 2012

102

Discorsi su federalismo e Padania. Nelle conclu-sioni del volume egli dichiara di aver trovato nel-l’autunno 1994 un alleato prezioso in MassimoD’Alema per abbattere il governo Berlusconi edeleggere Lamberto Dini. Dichiara che D’Alema èun uomo di cuore e di principi. Da parte suaMassimo D’Alema ha dichiarato nel marzo 2002che egli riteneva un errore della sinistra l”avermollato il marcamento della Lega”, “l’accantona-mento del dialogo con essa nel tentativo di tener-la separata dal Polo”.Nel dicembre 1993 nel corso del precongressodella Lega Nord-Lega Lombarda di Assago Bossiafferma che già nel 1989 essa aveva sancito che“l’unità di base del nostro federalismo non eraetnica e quindi separatista ma socio-economica equindi federalista su base macro-regionale”. Al congresso di Assago del 1993 della Lega lombar-da viene presentata, ma non votata, unaCostituzione federale provvisoria di dieci articoli.(Bossi, 1993, 4) elaborata da Miglio con la collabo-razione di Giulio Tremonti per la stesura dell’arti-colo 9 relativo al sistema fiscale (Tremonti, 1994).La bozza consiste di dieci articoli e prevede trerepubbliche, Padana, Etruria, del Sud. Nel suo terzo volume Tutta la verità (Bossi, 1994)Bossi dichiara ancora che l’alternativa è fra federa-lismo o restaurazione e pubblica in appendice unabozza di proposta di riforma federalista dellaCostituzione consistente di 143 articoli che ripetesostanzialmente la struttura della Costituzionevigente. La repubblica federale è costituita daComuni, Province, Regioni, Stati e Federazione.Egli ha scritto che soltanto nel corso del 1995”vennero a maturazione i frutti della semina indi-pendentista attivata, con le sortite talvolta avventa-te, ma efficaci, di Boso e Borghezio, cominciate giànella seconda metà del 1994. Un folto gruppo diparlamentari era ormai manifestamente indipen-dentista, il che facilitò le mie scelte successive.Creai nel movimento uno spazio sempre maggioreagli indipendentisti, sapendo che era provvisorioperchè ben presto avrei trasportato tutta la Lega suquella riva” (Bossi, 1996, 99). Gli onorevoli Boso eBorghezio non si sono certo dimostrati dei diri-genti politici particolarmente preparati ed autore-voli. Borghezio ha una biografia politica che è

molto difficile definire legata all’autonomismo o alfederalismo.Il 21 dicembre 1995 nel suo discorso alla Cameradei deputati Bossi chiede “l’apertura immediata diun’Assemblea costituente” e conclude con questaaffermazione: ”La scelta fondamentale, a questopunto, è tra Stato federalista o secessione delNord: ora, subito!” (Bossi, 1996, 128-129). Egli creauna alternativa fra la convocazione dell’Assembleacostituente e la secessione. Ma non può esserviun’alternativa alla Assemblea costituente che è l’i-stituzione fondativa del regime democratico e delfederalismo. Qualsiasi alternativa alla Assembleacostituente assume un carattere regressivo e rea-zionario. L’esperienza dello scioglimento dell’as-semblea costituente da parte di Lenin durante laRivoluzione russa ne è stata la prova più evidente.Bossi mostra di ignorarlo.Il 10 gennaio 1996 Bossi presenta in Parlamentouna risoluzione in cui si sottolinea “che il federali-smo si può fare solo con l’Assemblea Costituente”e si ribadisce che “se non si vuole la secessionedella Padania, occorre avviare subito la Costituentefederalista”. Le elezioni politiche del 21 aprile 1996danno un risultato molto favorevole alla Lega Nord.Il 4 maggio 1996, alla dodicesima riunione delParlamento della Padania, Bossi non propone laformazione del Comitato per la convocazionedell’Assemblea costituente bensì la nascita delComitato di liberazione padano, ed afferma che lascelta del Comitato di Liberazione nazionale “per-mette di rivendicare, assieme al diritto alla resi-stenza, anche il diritto alla secessione. È questo undiritto che in alcune Costituzioni è direttamentescritto nell’articolato [...] è evidentemente un dirit-to che sta alla base di qualsiasi Costituzione, cosìcome il diritto naturale sta all’origine del dirittopositivo. Resistenza e secessione sono quindi duediritti che stanno alla base di tutte le Costituzioni.Io ritengo che sia giunto il momento di rivendica-re questi diritti, pur senza sapere esattamente ache cosa porterà la loro rivendicazione, al federali-smo o alla secessione vera; ciò che conta è cancel-lare i tabù sacri del regime centralista. la rivendica-zione del diritto di secessione potrebbe avere sem-plicemente un valore strategico, cioè di stimolo,nei confronti dell’evoluzione federalista”. E più

Elio Franzin La doppia linea di Umberto Bossi: verso il grado zero del federalismo?

avanti: “Esiste un diritto morale alla secessione,allorché lo Stato non è in grado di far cessare legravi ingiustizie, e di gravi ingiustizie nella Padaniace ne sono a iosa.” (Bossi, 1996, 140-144). Larichiesta dell’assemblea costituente è dunqueabbandonata.Nel 1996, nel corso della manifestazione di massalungo le rive del Po’ del 15 settembre, Bossi leggela “Dichiarazione di indipendenza e sovranità dellaPadania”, e “In nome e con l’autorità che ci derivadal Diritto naturale di Autodeterminazione e dallanostra libera coscienza” proclama: ”La Padania èuna repubblica federale indipendente e sovrana”.Le oscillazioni apparenti di Bossi fra la richiesta diuna nuova Costituzione federalista e quella dell’e-sercizio del diritto di secessione per la creazionedella Padania sono state frequenti a seconda dellediverse situazioni politiche e parlamentari nellequali la Lega Nord si è trovata ad agire. Nulla fa rite-nere che nella riunione di Vicenza del 5 dicembre2011 la Lega Nord abbia deciso, in modo definitivo,di seguire la strategia della secessione non violen-ta ma consensuale.L’indicazione della secessione non violenta, con-sensuale, come obbiettivo principale della LegaNord non accompagnata da una descrizione preci-sa delle modalità giuridiche e procedurali dell’e-sercizio di essa, anche alla riunione di Vicenza èrimasta inevitabilmente nell’ambito dell’agitazionee della propaganda politica come si è già verificatoaltre volte nella storia di Bossi e della Lega Nord.Essa sembra essere collegata alla previsione diBossi che nel corso del 2012 avranno luogo le ele-zioni politiche. Tuttavia è evidente che il passaggioconsensuale dallo stato centralista a quello federa-le richiede necessariamente e obbligatoriamentel’elezione mediante una legge proporzionaledell’Assemblea costituente.

La doppia linea strategica, la “doppiezza” di Bossi,l’apparente oscillazione fra le due richiestedell’Assemblea costituente e della secessione senon sarà sciolta al più presto da un movimento dimassa per la Assemblea costituente avrà sicura-mente delle conseguenze molto negative nella vitapolitica italiana.

Riferimenti bibliografici

Bossi U., Intervento del segretario federale on. U.Bossi, Precongresso della Lega Nord – Assago –12.12.1993, s.d.Bossi U., Vento del Nord. La mia Lega La mia vita,Sperling & Kupfer editori, Torino 1992.Vimercati D. e U. Bossi, La rivoluzione La Lega:storia e idee, Sperling & Kupfer, Torino 1993.Bossi U.,Tutta la verità, Sperling & Kupfer,Torino1994. Bossi U., Il mio progetto. Discorsi su federalismo ePadania, Sperling & Kupfer, Torino 1996.Franzin E., Longo contro Togliatti nel 1927, SBLAgenzia ’70.Franzin E. (a cura di), Pierre-Joseph Proudhon,Sovranità popolare e diritto di secessione,Edizioni Sapere, Padova 1997.Lewin M., L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari1967.Pavone C., Amministrazione centrale e ammini-strazione periferica. Da Rattazzi a Ricasoli(1859-1866), Giuffré, Milano 1964.Quaranta M., recensione a L. Romano, Il pensierofederalista di Gianfranco Miglio: una lezione daricordare, “Foedus”, n. 28, 2010.Tremonti G. - Vitaletti G., Il federalismo fiscale,Laterza, Bari-Roma 1994.Vimercati D. - Bossi U., Processo alla Lega,Sperling & Kupfer, Torino 1998.

103

104

* Questo testo è stato preparato per: A propositodi federalismo. Seminario di studi in occasionedella pubblicazione del volume, Come pensare ilfederalismo?, a cura di Giuseppe Duso eAntonino Scalone, Dipartimento di Filosofia,Università di Padova, 20-21 maggio 2011.

Questo breve intervento è stimolato dall’uscita dellibro recentemente curato da Giuseppe Duso eAntonino Scalone, nel quale vengono raccolti unaserie di contributi sul tema del federalismo e delletrasformazioni costituzionali (Duso – Scalone,2010). Un volume, la cui importanza viene accredi-tata non solo dal mio, ovviamente opinabile, pare-re, ma anche dalla lunga nota che gli viene dedica-ta da Sandro Mezzadra nell’ultimo numero di«Quaderni fiorentini» (Mezzadra, 2011) . Al di làdella forma di miscellanea, il libro rappresentaun’autentica operazione culturale. Per questo neparlo come se si trattasse di un’opera unitaria. Miscuseranno perciò gli autori dei singoli saggi, chetendo a schiacciare sul dispositivo argomentativoche li fa ruotare attorno a sé. Dei due piani che il libro di Duso e Scalone intendeincrociare e mettere in relazione, e cioè (a) il recu-pero, la riattivazione – perché di questo si tratta –di un modello, di un «altro modo di pensare la poli-tica» che Duso, con un certo pudore, chiama «fede-ralismo» a partire dalla riscoperta della Politicamethodice digesta di Johannes Althusius (1603); e(b) un recupero, quello del modello federalista, chesi vorrebbe immediatamente funzionale ai fini di«intendere la realtà politica contemporanea», miinteressa, qui, soprattutto il secondo. Del modo nel quale il «federalismo» viene usatonel dibattito politico-costituzionale contempora-

neo – una modalità affine, per molti versi, ad altrifortunati recuperi (anche se spesso di breve respi-ro…): penso al «repubblicanesimo» ad esempio -,mi interessa più che altro (e forse solo), in questasede, il lato sintomatico. Da un lato, e ciò è evidente nell’operazione diDuso e Scalone, la nostalgia per la «costituzione»;l’incapacità, una volta assunta l’irreversibilità deiprocessi che hanno rimesso in moto quanto la sto-ria costituzionale occidentale aveva saputo produr-re con la Forma dello stato moderno (e cioè unparticolare «assemblaggio» di potere, territorio ediritti, secondo la formula di Saskia Sassen (Sassen,2006)), di passare oltre la linea d’ombra che quellavicenda costituzionale continua a proiettare.Pensare il governo come una delle componenti del«federalismo» (al quale Duso affianca: responsabili-tà, sussidarietà, interessi organizzati…) significa, èquesta la mia provocazione, farlo consonare conuna serie di istanze la cui politicità viene assuntacome indicizzata sul - e dunque «oggettivata» nel -quadro della costituzione, anche se la «costituzio-ne», se intesa nei termini generali impiegati nellibro, e cioè come «Verfassung», costituzione mate-riale, risulta di fatto attraversata, ecceduta e desta-bilizzata, nella contemporaneità globale, da flussidi informazioni, uomini e cose, che in essa nonsono evidentemente allocabili. Dall’altro, tuttavia, il valore nuovamente sintoma-tico che il tema federalista assume in relazione allacentratura del politico – lo ricordava LucianoFerrari Bravo – sul processo e non sulla struttura(Ferrari Bravo, 2001); il fatto cioè, che, pur attra-verso quelli che mi sembrano i limiti della riduzio-ne «federalista», si provi tuttavia a mettere a fuocoun passaggio oltre lo Stato.

Sandro Chignola

Governo, ordine politico, soggettivazione.Su federalismo e partecipazione*

Federalismo

Sandro Chignola Governo, ordine politico, soggettivazione.

105

Si provi cioè ad eccedere il cono d’ombra proietta-to dal declino dello Stato e l’effetto-tenebra dellasua sopravvivenza spettrale: quando esso vienecioè adoperato, ad esempio, come leva per impor-re politiche imperiali di aggiustamento strutturale(FMI), per erigere dighe armate alla mobilità deimigranti, per innescare processi di State-buildingfunzionali alle logiche speculative di impresa(come è avvenuto e continua ad avvenire nell’eu-ropa dell’Est o nei territori candidati all’«allarga-mento» dell’UE, in Indonesia, nelle zone speciali diesportazione in Asia o nel Guandong in Cina).Il «disassemblaggio», lo unbundling lo chiamaSassen, di autorità territorio e diritti, rimette inmoto processi che tendono a disegnare altremodalità, poststatuali e posrappresentative, dellapolitica. Esso obbliga, con un effetto evidentemen-te liberatorio, a rimettere in moto l’immaginazionein risposta a materiali processi di decostituziona-lizzazione del Politico che degerarchizzano il dirit-to, dislocano la decisione, innescano altri agence-ments tra soggettivazione ed interessi. La mia tesi è che è difficile com-prendere questiprocessi - e cioè: pensarli nella loro effettualità ecavalcarli, organizzandoli politicamente, nell’alea-torietà della contingenza – con l’impiego, perquanto raffinato, della categoria di «federalismo».Pensare il contemporaneo richiede, io credo, uncontrotempo; mettere in moto un presente controun altro. Tracciare la tendenza e piegarne la curvaevolutiva… un pò come la figura, strana, ma nonimpensabile, della «misteriosa curva della retta diLenin» di cui ha parlato una volta IsaakEmmanuilovič Babel’ (Babel’, 1969).C’è un implicito criterio selettivo messo al lavoroper leggere la storia costituzionale inclinandola indirezione di ciò che emerge come fuggevole bari-centro del dibattito contemporaneo (ormai, tral’altro, risalente a qualche anno fa…), e cioè diquella nozione di «federalismo» rivitalizzata in rap-porto ai processi di unificazione europea. La crisiche quest’ultimi attraversano sarebbe di per sémotivo sufficiente per accantonarla. Concordo però con Duso sulla crucialità dellanozione di «governo» come matrice della politicaoccidentale. Anche se non vedo la necessità diconiugarla ad una nozione di «federalismo» che mi

sembra non solo filosoficamente incapace di fissa-re i problemi di soglia della soggettivazione politi-ca (chi o che cosa sia abilitato ad essere federato;quali siano i fattori materiali del processo costitu-zionale; che cosa marchi l’esistenza o l’inesistenzadi un territorio; se, come nell’ideologia neolibera-le, gli interessi siano in qualche modo destinati arealizzare un’armonica massimizzazione degli utilioppure, se essi, specie nell’asimmetria che necaratterizza la composizione, non siano invecevolti ad una pura, e spesso parassitaria, captazionedelle risorse della cooperazione), ma anche perife-rica rispetto al processo della storia costituzionaleeuropea e ai suoi più estremi sviluppi nella con-temporaneità.In un saggio importante dei primi anni ’50 uscitosulla «Historische Zeitschrift» (Die Frühformen desmodernene Staates in Spätmittelalter) e merito-riamente tradotto a cura di Schiera (Schiera-Rotelli, 1971, 51-78), Werner Näf (non di soloBrunner vive l’uomo..., nonostante sia, appunto, ilgrande storico austriaco l’autore forse più evocatoda Duso negli ultimi lustri, assieme ad Althusius edHegel) antedata al secolo XIII (un’idea che proprioSchiera assume in tutti i suoi lavori sulla storiacostituzionale e sulla politica occidentale) la nasci-ta dello Stato moderno. Ciò che determina quellagenesi, oltre la «privatizzazione» del potere monar-chico medioevale nella crisi del feudalesimo, èl’«acquisizione di forza» dei ceti come «correlativialla monarchia». «L’organizzazione per ceti presup-pone la monarchia» (più avanti e altrove Näf lochiarirà: la monarchia, il potere del principe, l’i-stanza di governo, in altri termini, resta un fattoreindipendente, extracontrattuale, perché il princi-pe mantiene un diritto originario di signoria iden-tificato alle funzioni statuali dell’esercizio giurisdi-zionale e amministrativo del diritto territoriale),ma «il diritto dei ceti costituisce una risposta alpotere del principe», stratificandosi su quelle stes-se competenze di auxilium et consilium dellequali parla Otto Brunner (Brunner, 1983). I due elementi si rafforzano nell’interazione reci-proca e dunque, cosi Näf, un «dualismo» è fonda-mentale per la forma iniziale dello «Stato moder-no». Era un dualismo necessario, dato che il prin-cipe non era riuscito ad attrarre a sé tutti i diritti

.

n.32 / 2012

106

statuali disseminati e «privatizzati» nei centri dipotere (mi si passi il termine…) della société feo-dale e non era riuscito a statizzare i sempre piùnumerosi e mutevoli compiti pubblici. Assembleedi ceti (Etats, Cortes, Landtage) compaiono, a par-tire dal XIII secolo, come correlato necessario aquello stesso processo di statizzazione. Gli«Herrschaftsverträge» che principi e ceti stringonoallora, non sono la sanzione di un dualismo che sirealizza nello Stato, ma, al contrario, di uno Statoche si realizza nel dualismo e - così Näf - «soloattraverso di esso».Da un lato un potere del principe che si incre-menta per mezzo delle competenze tecniche del-l’amministrazione e del peso delle armi (compe-tenze burocratico-militari); dall’altro l’iniziativa deiceti per la stipulazione dei contratti di signoria, illoro lavorare all’assicurazione e al rafforzamentodel diritto a favore del paese che per mezzo di lorosi rappresenta, come nodo di libertates singolari ecollettive, di fronte al principe. Sono queste leforme di quello che Näf chiama il dualismo costi-tutivo all’origine dello Stato moderno. Di questo dualismo sono due le cose che mi inte-ressano, oltre all’effetto di depotenziamento cheesso rende possibile (a meno che non si scelga dipensare l’armonia alla greca, secondo il virileaccordo dorico evocato da Platone nel Lachete, ecioè come tensione dei contrari (Loraux, 2006))rispetto all’armonizzazione tra gli interessi e igruppi sui quali insiste l’apologia federalista diDuso e Scalone. Il primo è la figura dell’«ellisse dualistica» - così lachiama Näf – dentro la quale si mossero le formeiniziali dello Stato moderno, cristallizzandosi, e nonsempre in forma contrattuale, ma talvolta in formapiù radicalmente antagonistica, ci dice Näf, nel rap-porto «politico-esistenziale» tra signore monarchicoe ceti del popolo, tra governanti e governati. Il secondo la «capacità di creazione del diritto»(immagino Näf riprenda l’espressione da EugenEhrlich) che ascrive ai ceti, e cioè alle libertates ealla resistenza, l’elemento innovativo-progressivodella sintesi costituzionale. Che lo Stato moderno sia da considerarsi solo una«peripezia del fatto di governo», secondo la notaespressione di Michel Foucault (Foucault, 2004,

253), mi sembra un’ipotesi quantomeno degna diconsiderazione in questa prospettiva. Ciò che loStato riesce a realizzare, potrebbe forse dirsi, è unincantamento strutturale che realizza una cristalliz-zazione dello spazio e una retroversione del tempo.Da un lato, attraverso la fictio del contratto socialee dell’autorizzazione, l’idea che sia il sovrano a farela società, rappresentandola e dunque re-incorpo-randola, dopo averla dissolta nell’anonimato direlazioni incapaci di politica. La retroversione tem-porale, cioè, per cui il potere istituisce la societànella sua durata, ne segna la genesi, ne struttura ene innerva la possibilità, per così dire…Dall’altro, la cristallizzazione dello spazio per cuiil movimento dell’ellisse dualistica, incitato dall’ir-riducibile autonomia delle libertates, viene immo-bilizzato scindendone i due poli: Pubblico e priva-to, Stato e società, Bene comune (e-laborato e trat-tato dall’amministrazione) e interessi privati (tra-scritti in termini di egoismo impolitico o prepoliti-co). Che il risultato dell’appropriazione statualedel Politico sia la desertificazione di ciò su cui insi-ste la sua azione, lo aveva detto il lucido disincan-to di Tocqueville ben prima della scienza politicanovecentesca, e precisamente in quella scintillantetemperie ottocentesca in cui si rovesciano il cieloe il tempo della politica, per citare, con un improv-viso flash forward, il libro che uscirà in autunno…(Chignola, 2011).Assumere come costante del processo costituzio-nale occidentale l’«ellisse dualistica» della qualeparla Näf, e cioè il fatto di governo, mi sembra utileper almeno tre ordini di motivi.(1) il primo motivo è il più immediatamene com-prensibile. La vicenda dello Stato moderno, quellache sembra ormai avviata alla conclusione, puòessere «epocalizzata» non solo, come abbiamosempre collettivamente fatto (Duso, 1987; Duso,1999), all’indietro, rilevando in Hobbes il punto diirruzione delle categorie politiche moderne (la dis-soluzione del dominium: «dominus non est indefinitione patris», come nel De Cive, con quel chene consegue…); una nozione di uguaglianza chesarà usata per incorporare una società di privatiassoggettata allo «sguardo dei re» e livellata dallaconcentricità degli apparati amministrativi (dinuovo Tocqueville, ovviamente); un meccanismo

Sandro Chignola Governo, ordine politico, soggettivazione.

107

di autorizzazione rappresentativa che permette dirisolvere con un grande incantamento il problemadi un’integrale, irresistibile – e piuttosto parados-sale - sottomissione che libera canalizzando lapotenza di autoconservazione e che la «traduce» inautodisposizione accumulativa (MacPherson,1967; Deleuze, 2007, 83), non solo all’indietro,dicevo, come genesi del grande dispositivo statua-le moderno, ma anche in avanti, intuendo il puntoin cui questa macchina non tiene più, si inceppa elavora a vuoto: l’«Entzauberung» della rappresen-tanza e la crisi di consenso della democrazia matu-ra (Crouch, 2003); l’impossibilità di ridurre ad Unoi processi cooperativi del lavoro vivo a matricecognitiva (Negri-Hardt, 2009); lo sfumare delladistinzione tra pubblico e privato (Mattei-Nader,2008); la produzione non statuale e non sovrana didiritto vincolante e capace di coazione (dal dirittocommerciale a quello dei brevetti; dal diritto inter-nazionale privato al diritto internazionale pubbli-co…), che consegue anche da quella impossibilità,ad esempio (Teubner, 1997; Ferrarese, 2000;Bussani, 2010). L’epoca dello Stato, de-terminata(terminus: pietra confinaria e dio del limite) daiconcetti della politica moderna, ha un inizio e unafine: in essa il problema del «governo» riceve, percosì dire, una potente torsione formalistica. E tut-tavia questo stesso problema ora ritorna, ecceden-do i «termini», appunto, della soluzione statuale.Che tanto si parli di governance è un sintomo piut-tosto evidente di ciò, concordo con quello cheSchiera scrive nel libro…(2) il secondo motivo è il seguente. L’ellisse duali-stica della quale parla Näf, mette a tema un con-fronto e un ritardo. Il confronto irriducibile – perFoucault, ovviamente, non solo premoderno, ed èquesto che mi interessa – tra chi governa e chi ègovernato. Un «fuori» rispetto a questo rapportonon c’è. Se una matrice c’è, del discorso politicooccidentale, questa matrice è la matrice di unapolarizzazione. Non un’armonia, non la mortiferaunità del sovrano. Nemmeno quella in cui esitereb-be, dopo essere stato per breve tempo invocato,come in tutte le retoriche rivoluzionarie, il poterecostituente della Nazione. Su questo, io credo,Foucault ha detto parole decisive (Foucault, 1997).«Tagliare la testa al re» nello spazio della teoria (e

della pratica) politica, significa non soltanto con-gratularsi per averlo qualche volta fatto nel corsodella storia, ma sbarazzarsi del fantasma del sovra-no che ancora aleggia ogniqualvolta si pensi di averfatto la Rivoluzione e di poter recuperare l’istantedell’insorgenza nella durata dell’istituzione.Non mi interessa, in questa sede, decidere se iltentativo foucaultiano di fuoriuscita dall’ossessio-ne del sovrano (con quello che ne consegue ovvia-mente: lessico dei diritti, forme partitico-rappre-sentative di traduzione e di organizzazione delleistanze, sogni di «presa del potere» e fantasie di«estinzione» dello Stato) inclinino in direzioneliberale. Ciò che mi interessa, è invece la focalizza-zione che l’analitica del potere foucaultiana rendepossibile sul fatto di governo come linea di espres-sione tendenziale della politica occidentale e, que-sto il secondo elemento di cui dicevo, sul costitu-tivo ritardo che la funzione di governo sperimen-ta rispetto ai processi che essa si sforza di gover-nare. Non soltanto, cioè, il confronto tra gover-nante e governato è matriciale, innesta l’ellisse suun antagonismo irriducibile dentro il quale la fun-zione di soggettivazione non viene esorcizzata,ma incitata, poiché ciò che è governato è la liber-tà, sono le traiettorie di emersione di soggetti,interessi, istanze che attraversano e ritracciano,nella materialità di una presa di parola, la sogliadella politicità offrendo risposta al rompicapo diSchiera («capire chi sono gli interessati», quando siparla di interessi…, scrive Schiera nel libro (Duso- Scalone, 2010, 182)), ma in quel confronto emer-ge con forza come la funzione di governo debbasempre inseguire qualcosa che si esprime in ter-mini tendenzialmente ingovernabili, spezzandoquella che Carl Schmitt chiamava «la crosta irrigidi-ta della ripetizione». Se il sovrano anticipa, per-mettendone l’attuazione, il corpo politico, ilgoverno arriva invece sempre dopo, rispetto a ciòche deve essere governato (Chignola, 2006). Lapolitica sta dentro questo circuito, che non ha unfuori, dicevo. Ma all’interno del quale il rapportotra governante e governato si esprime in terminimarcatamente dinamici. (3) Di qui il terzo motivo rilevante, almeno a mioavviso. Ciò che l’«ellisse dualistica» di Näf fa emer-gere è, di nuovo, quanto l’incantamento dello

n.32 / 2012

108

Stato aveva offuscato. I ceti, nella loro organizza-zione politico-costituzionale, esprimono una capa-cità giuridica. Sono loro, e non la macchina diassoggettamento della monarchia, a spingere perla costituzionalizzazione delle libertates per mezzodi «Herrschaftsverträge». Lo Stato – specie nellasua vicenda conclusiva – non è l’unica fonte deldiritto. Se parliamo di «pluralismo» (e Duso, in par-ticolare, molto lo fa, anche se trattiene questa plu-ralità, almeno così mi sembra, nella fissità di grup-pi, identità e interessi in grado di riconoscersi e diarmonizzarsi secondo una logica dell’intero cheforse funziona nel cielo speculativo di Althusius edHegel, ma molto meno nei circuiti della valorizza-zione capitalistica, nella rigida stratificazione ditempi della metropoli, nei conflitti che si accendo-no incrementalmente sulla scia della decostituzio-nalizzazione del comando…), se parliamo di «plu-ralismo», dicevo, è di un pluralismo giuridico (eistituzionale) che dobbiamo parlare. Non soltantoin termini di fonti, quando si assuma la degerar-chizzazione che segna i processi di produzionecontemporanea del diritto, la perdita di monopo-lio dello Stato a favore di autorità amministrativeindipendenti, agenzie non governative, comitati diesperti, secondo la linea di un’amministrativizza-zione della decisione che è la sola da assumersiquando si parla di governance (Chignola, 2008). Ma anche, e soprattutto, in termini di soggetti e digruppi, la cui «potenza giuridica» (il termine è diRudolph von Jehring, non di Toni Negri) rilancia lalotta per il diritto. Non come appello retorico oistanza universalistico-formale, ma come autono-ma capacità istituzionale e giuridica. Lo fanno igrandi gruppi transnazionali, non si vede perchénon possano farlo dal basso i cittadini imponendoagende e soluzioni, anche direttamente normati-ve, in merito a questioni che paiano loro partico-larmente rilevanti. Di rapporti di questo tipo, che potremmo forseidentificare come esperimenti di governance vir-tuosa, ci parlano alcune grandi realtà metropolita-ne in America latina e in India (si vedano il libro diLinera, 2008 o quello curato da Samaddar, 2005).Di un «societal constitutionalism» parla ad esem-pio, ed esattamente in questo senso, GüntherTeubner (Teubner, 2004), con il quale ho recente-

mente avuto modo di confrontarmi e che scriverà,assieme a molti altri, nel libro sul diritto del comu-ne che sono stato incaricato di curare dopo il semi-nario torinese di UniNomade (Il diritto del comu-ne. Globalizzazione, proprietà e nuovi orizzontidi liberazione, International University College diTorino - UniNomade 2.0, 10 marzo 2011. Alcuni deimateriali di discussione sono reperibili qui:http://uninomade.org/tag/diritto/). In America Latina e in India, le rivendicazioni diautonomia, giusto per chiarire l’esempio citatopoco sopra, disegnano «una storia di aspirazioni,lotte, embrionali rivendicazioni di giustizia, nonchédi emergenti nuove configurazioni di potere, cherifiutano di essere confinate e limitate dalle regolegovernamentali di una forma politica stabile». Essetendono a stabilizzare un conflitto, una resistenza -se costituzionalizzabile davvero non saprei - chedefinisce un’autentica, incomprimibile sfida per lesinistre al potere (e Alvaro Garcia Linera, qualcosane sa, visto il suo ruolo di vicepresidente bolivia-no). L’ellisse di governo di cui parla Näf è costan-temente riaperta e tenuta in tensione dal lato delgovernato, per così dire (Chignola, 2010).Foucault, negli ultimi suoi anni di vita, riapre ilconfronto con la grecia, per cercare di sondare unagenealogia della soggettivazione in grado di stabi-lizzare «forme di vita», proprio perché impegnatodall’analisi dei meccanismi di «governamentalizza-zione» della politica contemporanea. Deleuze, dicontro, riteneva che dovessimo abbandonare laGrecia (e il primato della filosofia che vi si conse-gna), per diventare romani. Che cosa intendevadirci con questo? In quale direzione viene attivatal’opposizione tra logos e nomos? A differenza del logos, il nomos è un’avventura, cidice Deleuze. Le società che esso «governa» sononello stesso tempo degli insiemi composti (nonpluralità in cui risuoni l’accordo della differenza ol’armonia del riconoscimento, ma agglomeratisegnati da linee di frattura, incroci di piani, preca-rie e sempre rivedibili emersioni di soggettività) ela ripetuta, continua frammentazione, dispersione,di quella stessa composizione. In altri termini ilnomos – inteso in termini istituzionali e non comelegge – traccia il processo dinamico di una ricom-posizione che trattiene l’insieme di linee di fuga

Sandro Chignola Governo, ordine politico, soggettivazione.

109

che disegna il piano sociale. Quando Deleuze legge Hume valorizzando la dif-ferenza tra «convenzione» e «contratto» (Deleuze,2000, 46-57) spinge esattamente in direzione dellapotenza giuridica che richiamavo poco sopra eche, almeno a mio avviso, non ha bisogno di esse-re compressa nello schema federalista. La proprie-tà non ha a che fare col contratto, ma con la con-venzione, per Hume. E questo significa che il pro-cesso sociale non viene fatto dipendere dal con-sensualismo della legge, ma da una pratica (la «pra-tique axiomatique du droit», la chiama Deleuze)che valorizza il sistema di azioni attraverso le qualiil soggetto socializza il proprio interesse compo-nendolo ad altri secondo lo schema filosofico-morale scozzese della simpatia (da Adam Smith, aFerguson, a Huthcheson, a Hume…). La società viene coattivamente ricomposta, nellafitta rete degli illegalismi che la caratterizza, dallalegge. Oppure, viceversa, essa può essere pensataattraverso lo schema composizionista del nomos;dell’assiomatica del diritto inteso come pratica isti-tuzionale indicizzata sull’agire libero dei singoli esulla sua (immanente) capacità di totalizzazione(De Sutter, 2009). Ma nemmeno questa è l’ultima parola. Tornare adessere romani, nell’intenzione di Deleuze significacompiere un ulteriore passo in avanti e spostareancora più in là il senso della riflessione sul diritto.Significa, così Deleuze, assumere il dato che la giu-risprudenza è l’avvenire, il futuro, della filosofia. Lagiurisprudenza abbandona la logica assiomaticadel diritto e procede come topica di casi (il riferi-mento va ovviamente alla jurisprudence univer-selle di Leibniz) (Deleuze, 1988). La giurispruden-za traccia la mappa delle operazioni per mezzodelle quali il diritto diviene. Non sulla base dell’an-ticipazione di principi, ma sulla base delle opera-zioni concrete che esso realizza e permette di rea-lizzare. Se i principi verranno definiti – ecco un’al-tra versione del rovesciamento di cui sopra – essiverranno dopo: sono comunque i casi concreti, iproblemi e le soluzioni che vengono inventate peressi, ad assegnare ad essi il loro significato. Quelladella giurisprudenza dei casi è un’operazione dis-giuntiva (la sua caratteristica: stabilire rapportiinnovativi sulla base dell’autonomia dei soggetti e

del loro agire pratico) che smonta la logica con-giuntiva della legge (il trascendentale al qualevanno in anticipo riferite e ricondotte le azioni). Ciò che del diritto affascina Deleuze non è la reto-rica dei diritti o l’ortopedia che il sistema dei prin-cipi (compreso quello di giustizia) rende possibilerispetto alla società (tantomeno intesa come inte-ro, pluralità, sistema di rapporti definiti e determi-nati), ma il modo attraverso il quale gli individui –in un contesto che depotenzia radicalmente que-sta espressione e che assume invece la policonte-sturalità delle pratiche (il termine è di Teubner,1999); un orizzonte a stretta desinenza transindivi-duale – si organizzano per elaborare relazioniautonome, per irrobustire e condensare forme dirapporto tra di loro, per comporre società. Ciò che abbiamo davanti, se davvero vogliamoposizionarci nella croce dell’attualità, ed è da que-st’ambizione che muovono Duso e Scalone, sonodinamiche di rete (nel libro lo dicono bene Ortinoe Schiera), flussi, processi, dentro i quali l’autono-mia della cooperazione aggrega nodi politicamen-te rilevanti quanto più capaci di potenziarsi nelrapporto con altri e di determinare istanze di sog-gettivazione che resistano - e che non si risolvano– di fronte ad un azione di governo capace di ali-mentare dal confronto con essi l’innovazione e lasintesi giuridica e istituzionale. Non si tratta di contropotere, ma nemmeno difederalismo. Di autonomia sì. Della capacità ditenere in tensione l’ellisse dualistica sulla quale“gira” l’azione di governo. Questa capacità pertie-ne al polo del governato. E alla sua capacità di faresocietà dando una dimensione istituzionale allapropria libertà: libertà compositiva, potenza, capa-cità di relazione.Non so se questo abbia a che fare col federalismo(probabilmente: no). Certo, non con una nozionedi politica che tenda, come esplicitamente faDuso, a sussumere l’autonomia nel gioco del rico-noscimento. Il quale, come noto, ha che fare con il conflitto. Main una forma che non è esattamente quella cheinteressa a me, né ai troppi dannati della terra aiquali non è dato fendere la soglia che dal circolomagico del riconoscimento li tiene accuratamentefuori. O in indefinita attesa.

n.32 / 2012

110

Riferimenti

Babel I., 1969, L’armata a cavallo ed altri rac-conti, Torino, Einaudi.Brunner O., 1983, Terra e potere. Strutture pre-statuali e pre-moderne nella storia costituziona-le dell’Austria medievale, Milano, Giuffrè.Bussani M., 2010, Il diritto d’Occidente.Geopolitica delle regole globali, Torino, Einaudi.Chignola S., 2006, L’impossibile del sovrano.Governamentalità e liberalismo in MichelFoucault, in Governare la vita. Un seminario suiCorsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-79), a c. di S. Chignola, Verona, ombre corte, 37-70.Chignola S., 2008, In the Shadow of the State.Governance, governamentalità, governo, in G.Fiaschi (a c. di), Governance: oltre lo Stato?,Soveria Mannelli, Rubbettino, 117-141.Chignola S., 2010, Michel Foucault y la política delos gobernados. Gubernamentalidad, formas devida, subjetivación, «Deus Mortalis», Cuaderno deFilosofía Política, Número 9, 223-260.Chignola S., 2011, Il tempo rovesciato. LaRestaurazione e il governo della democrazia,Bologna, Il Mulino.Crouch C., 2003, Postdemocrazia, Roma-Bari,Laterza.De Sutter L., 2009, Deleuze: la pratique du droit,Paris, Michalon.Deleuze G., 1988, Le pli. Leibniz et le Baroque,Paris, Minuit.Deleuze G., 2000, Empirismo e soggettività. Saggiosulla natura umana secondo Hume, Napoli,Cronopio.Deleuze G., 2007, Cosa può un corpo? Lezioni suSpinoza, Prefazione e cura di A. Pardi, Verona,ombre corte.Duso G., 1987, (a c. di), Il contratto sociale nellafilosofia politica moderna, Bologna, Il Mulino.Duso G., 1999, (a c. di), Il potere. Per la storiadella filosofia politica moderna, Roma, Carocci.Duso G. – Scalone A., 2010, (a c. di), Come pensa-re il federalismo? Nuove categorie e trasforma-zioni costituzionali, Monza, Polimetrica.Ferrarese M. R., 2000, Le istituzioni della globaliz-zazione. Diritto e diritti nella società transnazio-nale, Bologna, Il Mulino.

Ferrari Bravo L., 2001, Costituzione e movimentisociali, in Dal fordismo alla globalizzazione: cri-stalli di tempo politco, Roma, manifestolibri, 243-260.Foucault M., 1997, «Il faut défendre la société».Cours au Collège de France, 1976, Édition établie,dans le cadre de l’Association pour le CentreMichel Foucault, sous la direction de FrançoisEwald et Alessandro Fontana par Mauro Bertani etAlessandro Fontana, Paris, Gallimard-Seuil.Foucault M., 2004, Sécurité, territoire, population,Cours au Collège de France 1977-1978, Édition éta-blie sous la direction de François Ewald etAlessandro Fontana par Michel Senellart, Paris,Gallimard-Seuil.Linera A. G., 2008, La potencia plebeya. Accióncolectiva e identidades indígenas, obreras ypopulares en Bolivia, Buenos Aires, Prometeo.Loraux N., 2006, La città divisa. L’oblio nellamemoria di Atene, Venezia, Neri Pozza.MacPherson C. B., 1967, The Political Theory ofPossessive Individualism: Hobbes to Locke,Oxford, Oxford University Press.Mattei U. - Nader L., 2008, Plunder. When the Ruleof Law is Illegal, London, Blackwell.Mezzadra S., 2011, Recensione a: Duso G. –Scalone A. (2010), Come pensare il federalismo?Nuove categorie e trasformazioni costituzionali,«Quaderni Fiorentini per la Storia della cultura giu-ridica», 2011.Negri A. – Hardt M., 2009, Commonwealth,Cambridge Mass., Harvard University Press.Samaddar R., 2005, (Ed.), The Politics of Autonomy.Indian Experiences, London-Kolkata, Sage.Sassen S., 2006, Territory, Authority and Rights.From Medieval to Global Assemblages, Princeton,Princeton University Press.Schiera P. – Rotelli E., 1971, Lo Stato moderno. I.Dal Medioevo all’età moderna, Bologna, Il Mulino.Teubner G., 1997 (Ed.), Global Law Without aState, Aldershot, Dartmouth.Teubner G., 1999, Diritto policontesturale: pro-spettive giuridiche della pluralizzazione deimondi sociali, Napoli, Città del Sole.Teubner G., 2004, Societal Constitutionalism:Alternatives to State-Centred ConstitutionalTheory, Storr Lectures 2003-2004, Yale Law School.

Lungo e smilzo, gli occhi pallidi color ghiaccio, loscrittore e compositore americano Paul Bowles,nato a New York il 30 dicembre di cent’anni orsono, avrebbe sviluppato in vecchiaia un volto ari-stocratico, impassibile, bruciato dal sole – ed eraun deciso miglioramento dall’aria di impiegato diconcetto dell’epoca della maturità. Si era stabilito aTangeri, trascorsi a New York gli anni di guerra,“perché la vita era meno cara e con il mio lavoronon è che facessi grandi guadagni.” Non era la solaragione anche se, in effetti, le composizioni che glierano commissionate (raffinate, eleganti, elogiate)non permettevano larghezze e più consistentisarebbero stati gli introiti da riviste come“Holiday”, “Mademoiselle”, molto tempo dopo: aseguito del primo romanzo, The Sheltering Sky(1950, Tè nel deserto), tradotto da BernardoBertolucci in un film che lo scrittore non avevaapprezzato. Tardivi (1966) anche i 25.000 dollariincassati per la vendita a Hollywood dei diritti diUp Above the World, In alto, sopra il mondo, cheBowles ancora non aveva scritto.Figlio di un dentista di consuetudini teutoniche euna madre molto affettuosa che lo voleva musici-sta, e nell’infanzia gli leggeva, per ninnananna, iracconti di Nathaniel Hawthorne e Edgar AllanPoe, Paul Bowles passò la vita a fuggire dal suoPaese. Il primo tentativo fu a 19 anni, a Parigi, “…una città piena di mistero” avrebbe ricordato.Aveva trovato impiego come telefonista alloHerald Tribune, rue du Louvre, “e a volte la notteandavo a piedi da Denfert-Rochereau aMontmartre, le strade luccicanti perché erano con-tinuamente lavate. Ancora non c’erano carrettate dituristi, le persone viaggiavano individualmente.” Diritorno in America, allievo di Aaron Copland chelo vorrà con sé a Berlino, precederà il musicistaritornando a Parigi dove conoscerà un altro com-positore, Virgil Thomson, e poi Gide, Pound,Cocteau, Gertrude Stein (“un’apparenza molto ben

calcolata”) che fingeva di crederlo pittore e ne sba-gliava il nome. Il primo viaggio a Tangeri, alla con-clusione di un zigzag tra Parigi, Berlino, la BassaBaviera, l’Austria e l’Olanda, sarà con Copland l’e-state 1931. L’innamoramento fu immediato, questala vera ragione della scelta, la città “un luogo magi-co sognato da sempre: ero certo che, rivelandomi isuoi segreti, mi farebbe conoscere la saggezza e l’e-stasi e forse mi darebbe la morte.”La residenza a Tangeri, 2117 Socco, l’indirizzo, nonavrebbe impedito continui viaggi, in Europa, inAsia, in Sud America, come già dal suo Paese –memorabile quello in Messico da New York City enel quale s’era infilata Jane Auer, non richiesta e nonancora sua moglie, le valigie zeppe di volantini con-tro Trockij che il Messico aveva accettato d’ospitare.Bowles preferiva definirsi “viaggiatore”, piuttostoche musicista o scrittore, spiegando che, contra-riamente al turista, il viaggiatore “va e non saquando torna” sicché si sposta con un numeroimprecisato di bauli e valigie; aggiungeva di dete-stare per questo gli aerei, i soli viaggi possibili,anche a causa delle valigie, erano per mare.Sarebbe morto all’ospedale italiano di Tangeri il18 novembre dell’ultimo anno del secolo, le cene-ri seppellite a Glenora, N. Y., il nome della moglieaccanto al suo, sulla pietra tombale. Era stato unrapporto molto profondo, pure se ognuno dei duecercava l’eros in personaggi del proprio sesso,Paul sempre pronto a offrire aiuto a Jane: che simondasse dei suoi improvvidi masochismi, cerca-ti con la voluttà di un assetato che cercasse l’acqua.Una presenza simbolica, comunque, a Glenora,quella di Jane Auer Bowles, il cui corpo giace aMalaga dove morì – avvelenata dall’amante,Cherifa, una marocchina di Tangeri che vendevagranaglie al mercato.Quando Paul Bowles vi si stabilì, Tangeri era anco-ra territorio internazionale; lo sarebbe rimasto finoal 1952, garanti Spagna, Francia e Gran Bretagna

111

Piero Sanavio

Paul Bowles, scrittore e compositore americanoAmericana

n.32 / 2012

112

che aveva l’avamposto di Gibilterra sull’altro latodello stretto. Il cambio favorevole, la tolleranzadelle autorità nei riguardi degli stranieri, purchénon si occupassero di politica, la possibilità dicomportamenti pubblici che in Occidente davanoancora scandalo, dalle consuetudini sessuali all’uso di droghe ( marijuana, hashish, kif, majoun)aiutarono, nell’euforia del secondo dopoguerra, afare della cittadina un luogo d’incontro per perso-naggi che, anche quando si trattava di artisti, nonvi cercavano necessariamente stimoli culturali.Francis Bacon, Allen Ginzberg, Gregory Corso,William Burroughs, Tennessee Williams, GoreVidal… Non mancava Truman Capote, fresco delsuccesso di Altre voci altre stanze e, ricordavaBowles, “era venuto a Tangeri esclusivamente perfarsi fotografare da Cecil Beaton.” Fotografo deireali britannici, anche Beaton, come l’anoressicamiliardaria Barbara Hutton, frequentava quei luo-ghi. Capote parlava soltanto di se stesso, “spiegavadi aver deciso tutto ciò che avrebbe scritto nelprossimo futuro: per ora la storia di alcune perso-ne su un albero, poi un libro di viaggio, poi unaltro su un fatto di cronaca raccontato come unromanzo…” Ciò che ancora ignorava di quei libri,proseguiva, erano i titoli (si sarebbe trattato,viavia, di Un albero di notte, Ascoltate le muse, A san-gue freddo) e le trame.Partecipasse o no alla generale euforia, PaulBowles, diversamente da Jane, passava il temposoprattutto al lavoro: anche quando era in viaggio.“Cominciai come compositore ma mi accorsi chec’erano cose che in musica non riuscivo a esprime-re, serviva la scrittura.” Si trattava di racconti, reso-conti di viaggio, romanzi di cui uno politico, TheSpider’s House, La casa del ragno, in favore del-l’indipendenza del Paese di cui era ospite.Trascriveva anche, e pubblicava, senza peraltro maiaddebitarsene la paternità, i racconti tradizionali,infarciti di magie, che estraeva dalla memoria di unpaio di amici marocchini, “sconfinamenti” antropo-logici che scatenarono le invidie del molto france-sizzato Tahar Ben Jallun. Avrebbe sostenuto su “LeMonde” che le storie erano falsificazioni e Bowlesaveva inventato il nome di uno dei suoi informato-ri – accuse infondate, l’informatore “inesistente”era il quanto mai reale Mohammed Mrabet, dome-stico in una famiglia di espatriati americani.

Ciò che colpisce nella narrativa di Bowles è il con-tinuo senso di disagio che affiora sotto l’apparenteconvenzionalità della forma e ci trascina nella schi-zofrenia di un popolo che non sa più quali siano ipunti di riferimento: se il Corano, le memorie tri-bali o le contrastanti culture (francese, inglese,spagnola) degli occupanti occidentali. Ne risultal’indifferenziato coesistere, nel medesimo indivi-duo, di sentimentalismi, recriminazioni, dolcezze,violenze, fedeltà, tradimenti, sadismi, spesso diret-ti verso una stessa persona, non di rado un bene-fattore. Gli occidentali, dal canto loro, fatta ecce-zione per la polizia il cui approccio al reale è,come per i nomadi, attraverso l’esercizio della cru-deltà, sono tutti votati alla distruzione: per erroridi comportamento, arroganze, stupidità, viltà,masochismi, destino.Paul Bowles non diventò mai uno scrittore popo-lare e anche il suo libro più celebre, The ShelteringSky, restò essenzialmente “di culto” – lui stessodiventato tale, a partire dagli anni della beat gene-ration. Avrebbe scritto Norman Mailer, sempreaffannato di restare à la page, “Bowles ha inaugu-rato il mondo hip.” Commentava l’interessato, conqualche fastidio, “Studenti e turisti passano perTangeri e si chiedono, ‘Perché non andiamo avedere Paul Bowles?’ Mi vengono a vedere comefossi un monumento.” Cercava il silenzio, affascinato, come tanti “vitto-riani” prima di lui (l’aggettivo è da leggersi nellasua connotazione caratteriale piuttosto che stori-ca: T. E. Lawrence, Freya Stark, Gertrude Bell, l’in-comparabile Charles M. Doughty di ArabiaDeserta) dall’allucinata cecità del deserto, paesag-gi di sabbia e pietre dove è possibile l’illusione dimisteriose presenze – l’Ombra che Shakleton ecompagni, nella loro esplorazione di altri deserti,quelli dell’Antartide, percepivano al loro fianco.“Who is that on the other side of you?”, “Chi ti staall’altro lato?” [Nessun sentimentalismo all’Antoinede Saint-Exupéry, in questo, e semmai consonanzacon una frase del filosofo F. H. Bradley inAppearence and Reality . “Le mie sensazioni ester-ne non sono meno private a me stesso dei mieipensieri o i miei sentimenti […], la mia esperienzavive all’interno del mio proprio cerchio. […] Ognisfera è opaca agli elementi che la circondano.”]

Il racconto “Grande fiume dai due cuori” (“Big Two-Hearted River”) prende il titolo dal nome dato daglialgonchini a uno dei fiumi della Upper Peninsula delMichigan, una lingua di terra che si insinua nel LagoSuperiore. Gli avvenimenti descritti da Hemingwaynon si erano svolti, però, lungo il fiume dai due cuorima lungo il Fox; che non si getta direttamente nellago Superiore ma nel contiguo e però comunicantelago Michigan. La scelta del titolo era stata dettata dalmaggiore potere evocativo del nome.La regione è dove il confine tra Stati Uniti e Canadaè costituito da grandi estese d’acqua, quasi un sus-seguirsi di mari interni, ingannevoli nel rifrangersidella luce. Paradiso di fatali epifanie, aveva già stu-pito e impaurito l’avventuriero francese EtienneBrulé, primo europeo a mettervi piede nell’annodi grazia 1620, alla ricerca di un passaggio a nord-ovest. Trecento anni dopo, sul più settentrionaledi quei laghi, il Superiore, anche uno dei perso-naggi ormai mitici della letteratura del Novecentoavrà un suo incontro fatale – il vagabondo JayGatsby cederà al fascino del suo corruttore e futu-ro modello, il miliardario Dan Cody.Avventurandosi lungo il fiume, il giovane NickAdams, alter ego di molti racconti di Hemingway,non arriverà mai alla fata morgana dei laghi, nessu-na Circe per lui, del tutto conscio che ciò che cercapotrà trovarlo soltanto dentro di sè. Ciò non signi-fica che non sia nella concretezza del mondo fisicoche ha luogo il viaggio e piuttosto che il Wild (acitare Jack London), quella dimensione selvaggiadel reale, è anche e anzitutto, per Nick perlomeno,un’estensione della coscienzaA un primo livello, l’esperienza di Nick nell’UpperPeninsula può essere letta come resoconto di unabattuta di pesca; e tuttavia, troppi sono gli indiziseminati dall’Autore perché tale lettura non risul-ti inadeguata. Il fatto sportivo cela in effetti tutt’al-tre considerazioni e non diversamente dal piùtardo Death in the Afternoon, Morte nel pomerig-

gio, che la critica seguita a classificare come unpretenzioso manuale di tauromachia, il racconto èuna meditazione sulla morte. Come il Jake Barnes di Fiesta , Nick Adams ha allespalle le esperienze traumatiche della Grandeguerre, pure se è immune da umilianti mutilazio-ni. Scendendo dal treno a Seney, zaino in spalla eappesi allo zaino gli impedimenta per la pesca e ilcampeggio, non troverà la città ma il suo scheletro– le case, l’albergo, i saloon che fiancheggiavano ilcorso distrutti da un incendio. Anche gli insettiportano i segni del disastro, per il grande fuoco leloro carapace sono tutte annerite.Sui sentimenti di Nick, confrontato a tanta desola-zione, l’Autore non offre commenti. Segue il per-sonaggio che si addentra nel bosco costeggiando ilfiume fino al luogo dove pianterà la tenda; ci istrui-sce sulle tecniche dell’operazione, la difficoltà dientrare in quello spazio angusto, il modo miglioredi accedere un fuoco; descrive il paesaggio e ilsenso di pace e felicità che nella solitudine delbosco via via si impossessa del viaggiatore. E’tardo pomeriggio, presto notte. Dopo una rapidacena e un caffé e mentre la nebbia si alza dalfiume, Nick si infila nella sua tenda e a letto, lapesca sarà per il giorno dopo. Il racconto, di cui s’è qui riassunta la prima parte,apparve nell’edizione 1925 di In Our Time, titoloche ripete quello del precedente in our time inminuscolo, stampato a Parigi in edizione numerata,nel 1924. Il titolo si rifà al Book of Common Prayers,primo libro di preghiere in lingua inglese dellaChiesa anglicana, pubblicato sotto Edoardo VI, ametà Cinquecento. La citazione intera, un’invoca-zione contro la guerra, “Dacci la pace nel nostrotempo, o Signore”, fu suggerita da Ezra Pound.In our time consisteva di quindici vignette e dueracconti molto brevi. Nell’edizione In Our Time,le quindici vignette furono stampate alternate aquindici corposi racconti – tecnica che, alternan-

113

Piero Sanavio

Big Two-Hearted River di HemingwayAmericana

n.32 / 2012

114

do i capitoli di due diversi romanzi, sarebbe stataripresa da William Faulkner in ciò che, in italiano,è conosciuto come Palme Selvagge. Intitolate via via Capitolo I, Capitolo II eccetera,ogni vignetta in corsivo costituisce un commentoe\o contrappunto al racconto che la segue. Il cor-sivo che introduce “Big Two-Hearted River”descrive la morte per cogida del torero Maera ecostituisce un’ anticipazione emotiva della deso-lazione di Seney distrutta dal fuoco. E’ possibileche le sensazioni di Maera morente (il reale che siingigantisce, rimpicciolisce, le immagini che siaccelerano, decelerano), siano state costruite suricordi personali dell’ Autore: quando, colpito dafuoco austriaco sul fronte italiano, il 1918, avevasentito l’anima o cos’era uscirgli dal corpo “comequando si sfila di tasca un fazzoletto di seta.” Con la morte di Maera il passato si prolunga nelpresente facendogli assumere significati che vannoaldilà delle possibili angosce del personaggio inve-stendo la generale condizione dell’uomo. Ce loconferma il corsivo che introduce la seconda partedel racconto dove il sinistro, tragico burocratismodell’impiccagione di alcuni criminali o presunti talisi infrange nel grottesco e l’oscenità – a uno deicondannati, Sam Cardinella, cedono gli sfinteri.Che non c’è eroismo in nessuna morte, fosse quel-la di Maera, e che ogni morte è oscena il giovaneHemingway lo aveva imparato molto presto.Appena diciottenne, arrivato a Milano come volon-tario della Croce rossa, era stato comandato di par-tecipare alla raccolta dei frammenti di donne euomini uccisi nello scoppio di una fabbrica d’armi edispersi nei campi. Aveva conosciuto nell’operazio-ne (“A Natural History of the Dead”, già in Death inthe Afternoon, 1932, poi ristampato nella raccoltaWinner Take Nothing, 1933) il deformarsi e cor-rompersi dei cadaveri e il loro immondo fetore. “Big Two-Hearted River”, parte seconda. La descri-zione di Nick che raccoglie le cavallette intorpiditedalla rugiada e userà come esche, i diversimomenti in cui è “armata” la canna e così la vera epropria azione del pescare sono una lezione chedovrebbe essere imparata a memoria da chiunqueabbia una qualche velleità piscatoria. Ombre delCompleat Angler, Il completo pescatore conl’amo, dell’elisabettiano Izaak Walton, dove si dis-taccano per la loro eccellenza i paragrafi sull’uso

come esche delle cavallette e i vermi! Invece che con un dialogo, come l’autore cinque-centesco, Hemingway articola il discorso attraver-so la mimesi scritturale dell’azione. La perfezioneformale della prosa assume presto significati che,per il loro stesso valore estetico, puntano alla defi-nizione dei diversi momenti di un rito. Come nellaprima parte del racconto le descrizioni su comealzare una tenda e accendere un fuoco, così l’ insi-stenza qui sull’uscita di Nick dalla tenda a piediscalzi nella rugiada e l’impatto con il gelo delfiume, l’offerta al fiume del primo pesce che, appe-na pescato, è liberato e rimesso in acqua, non sonodettagli casuali. Pur se meno cruenti, hanno lostesso significato del gesto di Sam Fathers in “TheOld People” di William Faulkner quando bagna ilviso del giovane Isaak McCaslin con il sangue delprimo animale che il ragazzo ha ucciso. Nessunsentimento pànico della natura alla Pavese in ciò esi tratta semmai di due iniziazioni. Nel caso diFaulkner l’obbiettivo è, pagato l’obolo del sangue,l’ingresso del ragazzo nella magìa primordiale dellacaccia— Sam Father è metà africano e metà pelle-rossa; per Nick, che ha una guerra e una cittàdistrutta alle spalle, si tratta di un tentativo di puri-ficazione dal passato e al tempo stesso una prepa-razione alla morte. La gioia nel mondo rinnovatodella giornata di pesca tra acque fredde e limpidenon cancella la presenza, aldilà del fiume, di unapalude ricca di pesci ma gli alberi bassi, scarsa laluce, e dove la pesca richiede di lasciarsi affondarenell’acqua fino alle ascelle mentre è misero lo spa-zio per lanciare la lenza. In quella palude, ci assi-cura Hemingway, Nick andrà nei prossimi giorni –conclusa cioè la ritualità purificatoria, al sole. Nella morale non-metafisica dello scrittore è ineffetti soltanto il rito, ed è questo il senso di tuttala sua opera, non soltanto del presente racconto,che permette all’uomo di confrontarsi con lamorte conservando intatte la propria arroganzad’uomo e la sua dignità. La pesca, la corrida, la cac-cia sono prove generali per come andare incontroall’ inevitabile, ultima sconfitta e non recibiendo,restando in attesa dell’assalto, ma muovendosipiuttosto nel territorio del nemico. Il dio osceno, che come in un mito arcaico si manife-stò a Maera con le corna di un toro, si può affronta-re anche infilandosi in bocca le canne di un fucile.

L’effetto delle manovre finanziarie del 2011

Nel corso del 2011 il federalismo fiscale ha mosso iprimi passi: nel mese di luglio è stato approvato invia definitiva l’ultimo degli otto decreti attuativi pre-figurati dal Governo, vale a dire il provvedimentoche riguarda i meccanismi premiali e sanzionatoriper gli amministratori locali. Inoltre, ha debuttato ilFondo sperimentale di riequilibrio per i Comuni,anche se non ha riservato particolari novità nelladistribuzione delle risorse per singolo ente. Sulla fase di avvio di una riforma così vasta e artico-lata, pesa il crescente disorientamento degli ammi-nistratori locali a seguito delle recenti misure cor-rettive dei conti pubblici (Dl 98/2011, Dl 138/2011 e,in particolare, il Dl 201/2011). Gli effetti sull’impian-to complessivo di alcuni importanti decreti attuativiapprovati solo pochi mesi fa sono importanti: ci siriferisce, nello specifico, all’anticipo dell’IMU, allarivalutazione delle rendite catastali, alla reintrodu-zione dell’imposta sull’abitazione principale, all’in-cremento delle addizionali locali, alla futura riorga-nizzazione delle Province. Inoltre, Regioni ed entilocali si troveranno ad affrontare questa delicata fasedi passaggio con a carico un inasprimento notevoledei vincoli del Patto di stabilità interno e una ridu-zione delle risorse trasferite, che finirà per incideresensibilmente sul perimetro futuro del federalismofiscale. Alla luce di queste considerazioni, il presen-te contributo intende non tanto delineare il quadroattuale dello stato di avanzamento della riformafederale, bensì analizzare i principali effetti dellerecenti manovre correttive sull’impianto complessi-vo del federalismo fiscale. È opportuno fare presente che il federalismo fisca-le non può essere introdotto dall’oggi al domani:esso è piuttosto un processo continuo di adegua-mento dell’attuale sistema di finanziamento della

spesa storica verso quello futuro basato su unamaggiore autonomia e responsabilità da parte diRegioni ed enti locali. Gli anni che ci separano dal-l’entrata a regime del nuovo assetto federale sicaratterizzeranno molto probabilmente per conti-nui aggiustamenti alle modalità di finanziamentodi Regioni ed enti locali. Non a caso, la legge dele-ga ha previsto un arco temporale di tre anni perl’emanazione di eventuali disposizioni integrativee correttive ai decreti già approvati. Gli effetti dellariforma federale non saranno apprezzabili imme-diatamente ma assumeranno una maggiore con-cretezza e incidenza nella vita di tutti i giorni inmaniera progressiva, a seconda del grado di attua-zione degli specifici provvedimenti.

Le modifiche al federalismo municipale

L’IMU uscita dalla recente manovra di dicembre èmolto diversa da quella prevista dal decreto attua-tivo nel marzo 2011. La principale novità riguardal’anticipo al 2012 dell’applicazione dell’IMU cheverrà altresì estesa anche alle abitazioni principali(esenti dal 2008). In sintesi, le innovazioni princi-pali introdotte dal decreto “salva Italia” possonoessere così schematizzate:- reintroduzione dell’imposizione sul possesso del-l’abitazione principale (erano esenti ad eccezionedegli immobili di pregio);- revisione dei moltiplicatori da applicare alla ren-dita catastale per il calcolo della base imponibile aifini IMU;- attribuzione allo Stato del 50% del gettito IMU rela-tivo a seconde case, capannoni, negozi e terreni. L’aliquota sull’IMU diversa dalle prime case e daifabbricati rurali viene confermata allo 0,76%, cosìcome i margini di manovra dello 0,3% concessi aiComuni. Diversamente, l’ultimo decreto correttivo

115

Giuseppe Bortolussi

Il Federalismo fiscale dopo il decreto“salva Italia”

Amministrare Organizzare Partecipare

n.32 / 2012

116

stravolge completamente la destinazione del getti-to, per certi versi andando contro il principio di ter-ritorialità dei tributi stabilito dalla legge delega sulfederalismo fiscale. La manovra dispone che vengaassegnato allo Stato la metà del gettito IMU diversodalle abitazioni principali e fabbricati rurali (secon-de case, negozi, capannoni, ecc…). La norma pre-vede che tale quota debba essere calcolata appli-cando sempre e comunque l’aliquota base dello0,76%; pertanto, anche se i Comuni decidessero diabbassare l’aliquota, la quota riservata allo Statosarà sempre la stessa in quanto agganciata alla baseimponibile (e non al gettito effettivo).Anche la reintroduzione dell’imposta sull’abitazio-ne principale costituisce un elemento di rotturarispetto all’assetto federale così come era uscitodall’esame del Parlamento. Infatti, l’ICI (o IMU)sulla prima casa era esplicitamente esclusa sia daldecreto attuativo sul federalismo municipale siadalla stessa legge-delega (legge n. 42/2009). D’orain poi, nel calcolare la nuova IMU sulla prima casabisognerà fare i conti con una base imponibile piùampia a seguito dell’aumento del moltiplicatore(che per le abitazioni passa da 100 a 160) da appli-care alla rendita catastale. L’aliquota base sarà pariallo 0,4% (contro la “tradizionale” banda di oscilla-zione dal 4 al 7 per mille) e potrà essere variata daiComuni di 0,2 punti percentuali (da un minimodello 0,2% ad un massimo dello 0,6%). L’impattosulle famiglie sarà attenuato da una detrazionefissa di 200 euro (nella versione “tradizionale”dell’ICI era di 103,29 euro) con la possibilità diincrementarla ulteriormente di 50 euro per ognifiglio residente con età non superiore ai 26 anni.I proprietari degli immobili subiranno una maggio-re tassazione valutabile in 10.660 milioni di euronel 2012, 10.930 milioni nel 2013 e 11.330 milioninel 2014. Un ruolo determinante nell’incrementodel gettito ICI/IMU rispetto al quadro originario èattribuibile all’aumento delle base imponibili sullequali applicare l’imposta. La futura IMU verrà cal-colata in modo analogo alla vecchia ICI, ovveroconsiderando come base imponibile la renditacatastale rivalutata del 5% e successivamenteampliata attraverso opportuni moltiplicatori.Tuttavia, rispetto alla vecchia ICI e alla originariaformulazione dell’IMU, l’imposta municipale nellaversione “salva Italia” verrà ampliata da un incre-mento dei moltiplicatori che, nei casi delle abita-

zioni, potrà raggiungere anche il 60%.L’incremento delle tasse locali deliberato dallamanovra di Natale in realtà non apporterà maggio-ri risorse ai Comuni. Tutte le risorse che si ricave-ranno dalle maggiori imposte locali rispetto al qua-dro attuale dovranno essere indirizzate al risana-mento dei conti pubblici nazionali. In altre parole,se i Sindaci vorranno più risorse dovranno mette-re mano alle leve tributarie e innalzare le aliquote.L’articolo 13 (al comma 17) è molto chiaro ariguardo: dispone, infatti, una riduzione del Fondosperimentale di riequilibrio dei Comuni delleRegioni ordinarie e dei trasferimenti statali aiComuni di Sicilia e Sardegna per un importo parialle maggiori risorse che dovrebbero arrivare aiComuni a seguito della rivalutazione delle renditecatastali (al netto di quelle già “girate” allo Stato).Il taglio compensativo dei Fondi ai Comuni saràpari a 1,6 miliardi di euro nel 2012, 1,8 miliardi nel2013 e 2,2 miliardi nel 2014.La manovra finanziaria del dicembre 2011 ha riser-vato ancora amare sorprese ai Comuni italiani, dis-ponendo un taglio alle risorse trasferite dallo Statoai Comuni delle Regioni a statuto ordinario e diSicilia e Sardegna pari a 1.450 milioni di euro a par-tire dal 2012. Complessivamente, tra tagli ai trasferi-menti e inasprimenti vari del Patto, le innumerevolimanovre correttive degli ultimi due anni si traduco-no sui Comuni italiani in una stretta di 5 miliardi nel2012 e di quasi 6 miliardi nel 2013-2014 (TAB 1).Il decreto sul federalismo municipale ha assegnatoai Comuni appartenenti alle Regioni a statuto ordi-nario una compartecipazione al gettito dell’IVA; laquota attribuita a ciascuna Amministrazione comu-nale è pari al gettito IVA procapite relativa alla pro-pria Regione. Il Legislatore, con questa disposizio-ne, intendeva legare in maniera più stretta l’impo-sta al territorio, favorendo la responsabilizzazionea scapito della perequazione. La compartecipazio-ne comunale all’IVA doveva, pertanto, garantireuna crescita progressiva del gettito e una forte con-notazione territoriale. Tuttavia, nell’arco di pochimesi queste buone intenzioni sono state in parteannacquate. La manovra di Natale, infatti, svuota lalogica della territorialità dell’imposta: a partire dal2012 il gettito della compartecipazione IVA nonverrà più assegnato sulla base del gettito effettiva-mente prodotto nel territorio ma confluirà diretta-mente nel Fondo sperimentale di riequilibrio e di,

Ash Amin e Nigel Thrift Riflessioni sulla competitività della città

fatto, verrà ripartita a ciascun Comune con criteriancora non definiti.Uno dei principali obiettivi della riforma federaleuscita dalla legge delega del 2009 riguarda il supe-ramento dell’attuale assetto basato sulla finanzaderivata a favore di meccanismi maggiormenteimprontati sui principi dell’autonomia e dellaresponsabilità. A tale proposito, il decreto sul fede-ralismo municipale ha disposto la trasformazionedi 11,3 miliardi di euro di trasferimenti statali aiComuni delle Regioni a statuto ordinario e la lorointegrale sostituzione con il gettito della compar-tecipazione all’IVA (2,9 miliardi di euro) e delFondo sperimentale di riequilibrio (8,4 miliardi).Tale Fondo viene alimentato dall’intero gettitodell’IRPEF sui redditi fondiari, delle imposte dibollo e registro sui contratti di locazione, nonchéda una quota del 30% delle imposte sui trasferi-menti immobiliari e dal 21,7% del gettito dellacedolare secca sulle locazioni (TAB 2). Per il 2011, al fine di non creare problemi ai Comunialle prese con la redazione dei bilanci di previsione,il Fondo è stato ripartito seguendo un approccio“morbido”, in modo tale che non vi fossero sostan-ziali variazioni di risorse rispetto all’anno preceden-te; per il 2012, invece, non vi sono attualmente indi-cazioni da parte del Ministero. Di sicuro l’ammonta-re del Fondo verrà sensibilmente decurtato a segui-to delle misure varate dalla recente manovra diNatale. Oltre ad un taglio “secco” di 1,33 miliardi di

euro (1,45 se si considerano anche i Comuni diSicilia e Sardegna), il Fondo dovrà subire altri tagliper compensare il maggior gettito derivante dal pas-saggio dalla vecchia ICI alla nuova IMU.Negli ultimi anni i Comuni hanno costantementelamentato i notevoli limiti alla loro autonomiaimposti dal Governo centrale: ci si riferisce sia aivincoli sottostanti il Patto di stabilità interno (checondizionano pesantemente la capacità di spesadegli enti) e soprattutto il blocco agli incrementidelle aliquote dei tributi locali che vige ormai dal2008. Tale provvedimento ha avuto notevoli rifles-si in particolare nei due principali tributi a disposi-zioni delle Amministrazioni municipali, vale a direl’ICI e l’addizionale comunale IRPEF. Anche aseguito dell’impossibilità di agire sulla leva tributa-ria, il gettito dell’ICI e dell’addizionale IRPEF tra il2008 e il 2010 è diminuito rispettivamente del 5,1%e del 5,5%. I margini di manovra sulle aliquotedell’IMU previste dal decreto attuativo sul federali-smo municipale vengono sostanzialmente confer-mati dalle ultime manovre finanziarie. L’aliquotabase dello 0,76% potrà variare, in aumento o indiminuzione dello 0,3%, ai quali bisogna aggiunge-re però la variazione dello 0,2% sulla neo-introdot-ta IMU relativa all’abitazione principale. Se i margi-ni di manovra vengono confermati, non si può direlo stesso dell’entrata in vigore del nuovo tributo. Ildecreto attuativo stabiliva il debutto dell’IMU nel2014, in corrispondenza con l’avvio della cosiddet-

117

2012 2013 2014

Taglio ai trasferimenti Dl 78/2010 2.500 2.500 2.500 Dl 201/2011 1.450 1.450 1.450 Totale taglio ai trasferimenti 3.950 3.950 3.950

Inasprimento Patto di stabilità

Dl 98/2011 0 1.000 2.000 Dl 138/2011 1.700 1.000 0 Legge stabilità 2012 -585 0 0 Totale inasprimento Patto di stabilità 1.115 2.000 2.000

Totale effetto manovre sui Comuni 5.065 5.950 5.950

TAB 1 - Gli effetti delle ultime manovre finanziarie sui Comuni (milioni di euro)

Elaborazioni Ufficio Studi CGIA Mestre

n.32 / 2012

118

ta “fase a regime”; tuttavia, anche in ragione di con-cedere ai Comuni una sorta di “valvola di sfogo” alfine di sopperire ai recenti tagli, la data di avviodell’IMU è stata anticipata al 2013 dalla manovra diferragosto e poi al 2012 dal decreto 201. Per quanto riguarda l’addizionale comunale Irpef,dal 2012 i Sindaci potranno liberamente aumenta-re l’aliquota sino al tetto massimo dello 0,8%, met-tendo fine ad un blocco che durava sostanzialmen-te dal 2008. Tale concessione è arrivata a seguitodella manovra di ferragosto (Dl 138/2011) che ha difatto “liberalizzato” la possibilità di azione sulle ali-quote. Il decreto sul federalismo municipale limita-va la possibilità di aumento solo per i Comuni conaliquota inferiore allo 0,4% e con incrementi annua-li non superiori allo 0,2% e, in ogni caso, non oltre-passando il tetto dello 0,4%. La manovra di ferrago-sto ha invece stoppato ogni possibilità di incre-mento per i rimanenti mesi del 2011, togliendoperò ogni vincolo a partire dal 2012. Nell’ipotesi incui tutti i Comuni decidessero di portare l’aliquota

al livello massimo dello 0,8%, il gettito dell’impostaaumenterebbe di 2,6 miliardi di euro (in media+86%). Ovviamente si tratta di una situazione limi-te in quanto non è detto che i Comuni decidano diutilizzare totalmente il margine di manovra conces-so dalle nuove norme. Tuttavia, non è realisticoipotizzare un sensibile ritocco delle aliquote del-l’addizionale IRPEF così come quelle dell’IMU,quanto meno per compensare le minori entrate aseguito dei tagli di risorse operati dalla manovra didicembre (1.450 miliardi di euro).

Le modifiche al federalismo regionale

Il decreto sul federalismo regionale, insieme alprovvedimento sul fisco municipale, costituisceuno dei pilastri della riforma delineata dalla legge n.42 del 2009. Il decreto dispone il progressivo pas-saggio dall’attuale criterio di riparto della spesa sto-rica a quello basato sui costi standard nel finanzia-mento delle funzioni “essenziali”: queste materie,

gettito assegnato

(miliardi di euro)

percentuale di gettito attribuito

ai Comuni

Compartecipazione IVA 2,9 2,58%

Fondo sperimentale di riequilibrio (FSR) 8,4

gettito IRPEF redditi fondiari 5,8 100,0%

imposte di bollo e registro sui contratti di locazione 0,7 100,0%

imposte sui tras ferimenti immobiliari (1) 1,3 30,0%

cedolare secca sulle locazioni (2) 0,5 21,7%

Nuove entrate attribuite ai Comuni (IVA+FSR) 11,3

Trasferimenti statali soppressi 11,3

Differenza tra nuove entrate e trasferimenti 0

TAB 2 - La prima applicazione del federalismo municipale - Comuni delle Regioni ordinarie (2011)

(1) imposte di registro ed imposta di bollo; imposta ipotecaria e catastale; tributi speciali catastali; tasseipotecarie(2) aliquota al 21% per i contratti a canone libero, 19% a canone concordato

Elaborazioni Ufficio Studi CGIA Mestre

Ash Amin e Nigel Thrift Riflessioni sulla competitività della città

vale a dire sanità, istruzione, assistenza e trasportopubblico locale per la parte relativa agli investimen-ti, rappresentano un ammontare di spesa che nellequindici Regioni a statuto ordinario vale circa 100miliardi di euro. Da queste cifre emerge la grandeportata della riforma in questione. La spesa perqueste funzioni, valutata a costi standard, verràintegralmente finanziata attraverso una batteria ditributi propri (in primis, Irap e addizionale regiona-le Irpef), una compartecipazione all’IVA su baseregionale e le quote del Fondo perequativo. Ognieuro di spesa aggiuntivo rispetto all’asticella fissatadai costi standard dovrà essere necessariamentecoperto da un aumento della tassazione locale ocon una riduzione di altre voci di spesa: in questomodo, viene spazzato via il meccanismo dei rim-borsi a piè di lista che ha caratterizzato per diversidecenni la finanza locale italiana e che ancora con-diziona sensibilmente la distribuzione delle risorsepubbliche a livello territoriale. La concessione diuna maggiore autonomia tributaria a livello locale èlo strumento per arrivare ad una riqualificazionecomplessiva della spesa pubblica regionale,mediante una maggiore responsabilizzazione da

parte degli Amministra-zioni locali.Anche il decreto sul federalismo regionale non èimmune dagli interventi apportati dalle ultime duemanovre finanziarie. Il disegno originario mettevafine al blocco degli incrementi delle aliquote dell’ad-dizionale regionale Irpef a partire dal 2013 e conce-deva alle Regioni la possibilità di innalzarle oltre ilivelli massimi attualmente consentiti dalla legge apartire dal 2014 (tutelando, però, i contribuenti conredditi fino a 15.000 euro). La ragione risiedeva nel-l’opportunità di offrire alle Regioni la possibilità direperire risorse aggiuntive al fine di garantire unaeffettiva autonomia, sia dal lato delle entrate sia sulversante delle politiche di spesa. Si tratta, dunque,solo di una facoltà concessa e che non si traduceautomaticamente in una maggiore tassazione.Su questo disegno si inseriscono le ultime duemanovre correttive. La manovra di ferragosto (Dl138/2011) ha anticipato al 2012 la possibilità per leRegioni di incrementare le aliquote dell’addiziona-le regionale Irpef. La manovra di Natale (Dl201/2011), infine, ha completato l’opera aumen-tando l’aliquota base di 0,33 punti percentuali, pas-sando dall’attuale 0,9% all’1,23% (TAB 3). Tale dis-

119

come da decreto attuativo

originario (marzo 2011) dopo le manovre

di ferragosto e di Natale

Aliquota base 0,9% 1,23%

Aliquota massima nel 2012 aliquote bloccate 1,23% + 0,5% = 1,73%

Aliquota massima nel 2013 0,9% + 0,5% = 1,4% 1,23% + 0,5% = 1,73%

Aliquota massima nel 2014 0,9% + 1,1% = 2% 1,23% + 1,1% = 2,33%

Aliquota massima nel 2015 0,9% + 2,1% = 3% 1,23% + 2,1% = 3,33%

Aliquota massima per i redditi fino a 15.000 euro

0,9% + 0,5% = 1,4% 1,23% + 0,5% = 1,73%

Aliquota 2012 nelle Regioni in extradeficit sanitario

0,9% + 0,5% + 0,3 = 1,7% 1,23% + 0,5% + 0,3% = 2,03%

TAB 3 - L'addizionale regionale Irpef dopo le manovre del 2011 come da decreto attuativooriginario (marzo 2011) dopo le manovre di ferragosto e di Natale

Elaborazioni Ufficio Studi CGIA Mestre

n.32 / 2012

120

posizione produrrà un gettito aggiuntivo di 2.085miliardi di euro: tuttavia, le Regioni ordinarie nonvedranno un solo euro dall’innalzamento dell’Irpefin quanto lo Stato ha disposto una riduzione equi-valente della compartecipazione IVA (che finanziala sanità). Pertanto, lo Stato risparmierà oltre 2miliardi a titolo di minori finanziamenti sanitari,mentre le Regioni non avranno alcun beneficiofinanziario con la beffa di dover “metterci la faccia”di fronte ai cittadini.

Quale destino per le Province?

La manovra dello scorso dicembre non ha rispar-miato neppure le Province. Anzi, per certi versi sitratta del livello di governo più colpito. Da un latoil decreto 201 sancisce la riduzione di 415 milioni dieuro al nascente Fondo sperimentale di riequilibrioprovinciale che nel 2012 debutterà con un plafonddi risorse quasi dimezzato rispetto a quanto previ-sto dal decreto attuativo sul federalismo regionale(788 milioni di euro). Questi tagli si aggiungonoalla riduzione di 500 milioni di euro dei trasferi-menti già prevista dal decreto legge n. 78/2010 e aduna stretta sul Patto di stabilità di 530 milioni dieuro risultante dalle disposizioni della manovra diferragosto e dalla recente Legge di stabilità. Il decreto “salva Italia”, invece, prevede una limita-zione delle competenze delle Province, che riguar-deranno esclusivamente le funzioni di indirizzo edi coordinamento delle attività dei Comuni. Entroil 31 dicembre 2012, le rimanenti funzioni provin-ciali dovranno essere trasferite presso le Regioni e,compatibilmente con l’esigenza di assicurare l’e-sercizio unitario delle funzioni stesse, ai Comuni.Contestualmente alle funzioni, verranno riallocatepresso altri livelli di governo le rispettive risorseumane, finanziarie e strumentali.In conseguenza di tale riordino di competenze,vengono ridefiniti gli organi della provincia: ven-gono così cancellate le giunte, mentre i consigliprovinciali saranno composti da membri dei consi-gli comunali degli enti ricadenti all’interno del ter-ritorio provinciale. Il presidente della Provincianon verrà più eletto a suffragio universale bensì trai componenti nei nuovi consigli provinciali.Considerato che l’abolizione delle Province è possi-bile solamente con una legge costituzionale (chenecessita tempi lunghi e ampie maggioranze), il

recente decreto 201/2011 ha posto le basi per undepotenziamento di questo livello di governo dalpunto di vista finanziario, istituzionale e politico.Rimane il fatto che nel 2011 sono iniziate le procedu-re di definizione dei fabbisogni standard per leProvince relative (mercato del lavoro e servizi gene-rali) e che entro il 2013 dovrà essere completata laricognizione per le rimanenti funzioni fondamentali(istruzione, trasporti, gestione del territorio, ambien-te). Nei fatti, emerge una contraddizione significativatra il ruolo finanziario e istituzionale assegnato alleProvince dalla riforma federale e il declino inevitabileprospettato dal decreto “salva Italia”.

Concludendo, le ultime manovre correttive deiconti pubblici nazionali hanno senza dubbio incisosull’assetto del federalismo fiscale approvato appe-na qualche mese fa. Tali interventi hanno contri-buito a rendere più incerto il quadro finanziario eistituzionale di Regioni ed enti locali; inoltre, aseguito delle recenti manovre (soprattutto quelledi ferragosto e di Natale) è verosimile attendersiun forte incremento della tassazione locale per cit-tadini e imprese che, tuttavia, non verrà destinataa maggiori servizi pubblici sul territorio bensì arisanare il deficit pubblico nazionale e a coprire itagli effettuati dallo Stato centrale sui bilanci diRegioni ed enti locali.

Bibliografia

- COMMISSIONE BICAMERALE: “Relazione seme-strale sull’attuazione della legge delega n. 42/2009sul federalismo fiscale”, approvata il 21 luglio 2011- COMMISSIONE TECNICA PARITETICA PER L’AT-TUAZIONE DEL FEDERALISMO FISCALE:“Ricognizione sullo stato di attuazione della delegacontenuta nella legge n. 42/2009”, documento del6 luglio 2011- IFEL: “Sintesi della disciplina IMU e del calcolodelle variazioni delle risorse 2011-2012”, gennaio2012- SERVIZIO STUDI - DIPARTIMENO DEL BILAN-CIO: “Le modifiche alla disciplina sul federalismofiscale recate dal DL 6 dicembre 2011, n. 201, con-vertito in legge con modificazioni dalla legge 22dicembre 2011, n. 214”, Documentazione e ricer-che n. 304/1 del 12/01/2012

121

ROBERTA DE MONTICELLI, La questione morale,Raffaello Cortina editore, Milano 2010.

All’origine di questo audace saggio di Roberta DeMonticelli c’è l’esigenza di misurarsi con il dato difatto incontestabile di un’illegalità diffusa nelnostro paese, di una «pratica endemica degli scam-bi di favori, a tutti i livelli: cariche pubbliche a figlie amanti, lo scambio di carriere politiche controfavori privati, i concorsi pubblici (quelli universita-ri, per esempio) decisi sulla base di accordi fragruppi di pressione o cordate – quando non addi-rittura di parentele – e non su quella del merito, losfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio diinteressi privati, il familismo, il clientelismo, lecaste, la diffusa mafiosità dei comportamenti, lavera e propria penetrazione delle mafie in tutto iltessuto economico e nelle istituzioni, la perditastessa del senso delle istituzioni da parte dei gover-nanti» (pp. 11-12). Coraggiosamente impietosa è ladiagnosi che l’autrice, docente universitario, fa delmondo delle istituzioni e della politica, dove daanni la legislazione è una macchina per produrredecreti a favore di interessi di singoli politici o alloscopo di assicurare l’impunità dei prepotenti. Eche dire di una maggioranza di italiani che sostie-ne questa permanente negazione di ogni senso digiustizia, del bene collettivo, del senso dello stato,del valore dell’onestà e del merito? Non possiamocredere, tuttavia, che la carriera di Roberta deMonticelli in ambito accademico sia progreditacon le modalità e le strategie mafiose che lei stes-sa lamenta, quindi abbiamo almeno un’eccezionedella regola perversa da lei denunciata. Si sa che lageneralizzazione è un artificio retorico per renderepiù incisiva la protesta nei confronti dell’indegnità.All’origine della disinvolta e sistematica illegalitàpresente nella società italiana De Monticelli vede ilgenerale scetticismo etico diffuso nel pensiero filo-sofico del Novecento: la convinzione che non esi-sta verità alcuna, che vi siano solo interpretazioni enon fatti, che il giudizio di valore non sia né vero

né falso, a differenza del giudizio fattuale.Aggiungiamo una certa psicologia morale preoccu-pata più di spiegare i comportamenti che di raffor-zare il senso di responsabilità dell’agente morale.L’indifferenza per i valori morali avrebbe le sueradici nella stessa filosofia, che con le ermeneuti-che di vario conio rifugge da ogni nozione di veri-tà oggettiva e di presupposto comune e ineludibi-le. L’indulgenza di ciascuno verso tutti è ricambia-ta e sostenuta da una complicità così spudorata einsensata, che fa perdere il senso della vita colletti-va, inabissando il paese in uno sfrenato, cinico ebeffardo individualismo. L’arroganza estrema simanifesta nell’esibizione dell’immoralità e il disgu-sto estremo è provocato da manigoldi istituzionaliche si vantano pubblicamente dei loro crimini,soprusi e indecenze, nel circuito perverso e suici-da di una demagogica chiamata di correità in ognisettore della vita civile. De Monticelli vede neiRicordi del Guicciardini il paradigma del giustifica-zionismo e dell’immoralismo programmatico cheda secoli regnano nel nostro paese. In una prosaleggiadra e posata, nitida e imperturbabile,Guicciardini snocciola precetti di immoralità comefossero perle di suprema saggezza, mentre «sonola feccia precettistica della meschinità, del servili-smo, della doppiezza, del familismo, della diffiden-za e della furbizia, belle virtù ostentate con un pia-cere che sta fra il sarcasmo e la superiore albagiadell’esprit fort, del disincantato conoscitore dell’u-mano e del politico» (p. 34). Lo scetticismo metafi-sico, logico e pratico è volto a giustificare la divi-nizzazione del tornaconto e del disprezzo del pros-simo: sospetto, paura e vendetta sono i solimoventi dell’azione individuale? Francesco DeSanctis nella sua Storia della letteratura italianaaveva definito i Ricordi «la corruttela italiana codi-ficata e innalzata a regola di vita» (p. 35). GiacomoLeopardi nel suo famoso Discorso sopra lo statopresente dei costumi degl’Italiani (1824) avevaindividuato nel disincanto, nel “disprezzo e l’inti-mo sentimento della vanità della vita” l’origine

LibriLibriLibriRecensioni

n.32 / 2012

122

della corruzione dei costumi degli italiani. Dalladisperazione e dall’indifferenza morale deriva ladisposizione di «un pieno e continuo cinismo d’a-nimo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opi-nione, di parole e d’azioni […dove] il più saviopartito è quello di ridere indistintamente d’ognicosa e di ognuno, incominciando da se medesimo»(p. 40). Da tale disposizione non deriva che deni-grazione e derisione per il prossimo, unite alla dis-istima di se stessi. Infatti, scrive Leopardi, «unuomo senza amor proprio, al contrario di quel chevolgarmente si dice, è impossibile che sia giusto,onesto e virtuoso di carattere, d’inclinazioni,costumi e pensieri, se non d’azioni» (p. 41). Un abisso separa l’analisi di Leopardi dalla precet-tistica di Guicciardini. Lapidariamente DeMonticelli osserva che l’interesse egoistico convivebenissimo col servilismo e la sudditanza, non l’au-tonomia individuale e il senso di dignità personale:«Il “particulare” è l’individuo senza amor proprio»(p. 43). Leopardi vede il nesso oggettivo tra amorproprio e coscienza morale; senza rispetto di sestessi non può esservi rispetto del prossimo, dellacomunità di appartenenza, dell’intera umanità. InItalia manca una classe dirigente responsabile ecapace di progetti ambiziosi, in grado di alimenta-re negli individui l’emulazione e il giusto orgogliodi appartenere alla nazione italiana; e manca ingenerale un’etica pubblica. Nulla possono eroicimartiri isolati, affogati nella melma dell’opportuni-stica rassegnazione al malcostume, a riscattare ocompensare la totale mancanza di mores naziona-li. Fabrizio Corona, il fotografo ricattatore, è l’e-semplare paradigmatico dell’immoralismo diffusoe approvato dalla grande massa di italici. La parolad’ordine assunta a norma del cinismo trionfante eautocompiaciuto è una dichiarazione dello stessofotografo: «Vedo l’affare, non la persona…prendoal popolo per dare a me stesso….una nuova formadi Robin Hood» (pp. 45-46). Indifferenza al criminee ostentazione del crimine, senza più neppure l’i-pocrisia che raccomanda il Guicciardini: c’è qual-cosa di più osceno? La prassi consolidata di impie-gare risorse pubbliche a vantaggio di interessi par-ticolari non ha bisogno di nascondersi, ma puòtranquillamente apparire alla luce del sole, puòdivenire del tutto trasparente, ma «oggi, avverte

l’autrice, non è il nascondersi ma proprio l’appari-re, come la lettera rubata di Poe, che non si vedeperché si vede troppo», così che «la manifestazioneuniversale è il modo nuovo della non-trasparenza»(p. 50). A forza di apparire, con la ripetizione, matu-ra l’indifferenza a ogni prova del contrario. «Sebasta apparire, tutto appare invano: l’apparire nonha niente a che vedere con l’essere, non lo vela nélo svela, non lo manifesta né lo cela. Non c’è alcunessere dietro l’apparire, alcuna realtà, alcun modoin cui le cose stanno in verità» (p. 51).Quale prova del cinismo istituzionale della classepolitica italiana l’autrice cita l’affermazione sprez-zante con cui Giulio Andreotti liquidò l’assassiniodi Giorgio Ambrosoli, ad opera della mafia, del ban-carottiere Michele Sindona: «Se l’è andata cercan-do» (p. 52), le stesse parole usate dal mafioso cheper telefono aveva minacciato Ambrosoli. Il doveremorale, ciò che ciascuno deve a tutti, è espressionedi una personalità matura e adulta. Ma come sot-trarsi alla diffusa tendenza ad assecondare il privile-gio, ad avvalersi dell’eccezione e del favoritismo, dauna parte e dall’altra? Non v’è regola o criterio digiustezza morale dell’azione individuale, trannel’interesse privato o della propria parentela. Il can-tante Vasco Rossi, dimettendosi con furbizia da starper allungare una carriera ormai pluridecennale, siè rivolto ai fan con una regola di vita: “Fate quel chevolete, ma fatelo bene” (intervista televisiva, agosto2011). Come dire: non importa che cosa fate ecome, l’importante è che vi giovi sul piano delvostro piacere, interesse, inclinazione, carriera.Vasco Rossi: il guru immoralista, che consiglia gliitaliani di fare quel che già fanno, di credere in ciòin cui credono già da secoli.Il dilagare delle mafie è solo la conseguenza dellamancanza di etica pubblica; infatti, se il merito nonpuò essere fatto valere come argomento sufficien-te, le persone che non accettano di buttare alvento anni di formazione e di sacrifici per raggiun-gere una certa meta professionale dovranno cer-carsi una consorteria, se escludono l’ipotesi diemigrare. Se il merito non ha peso decisivo, conta-no l’appartenenza e la fedeltà a un uomo o a un’as-sociazione di potere. Per questo la pretesa di colo-ro che ostentano il loro “essersi fatti da sé” suonasempre insincera, provocatoria, depistante.

LibriLibriLibri

123

L’autrice porta come esempio di mafiosità conge-nita le corporazioni accademiche. Non è l’autoce-falia dell’Università – la sua autonomia assoluta diistituzione cha fa capo solo a se stessa − che giu-stifica queste pratiche con i conseguenti conflitti diinteresse, giacché l’autocefalia ha senso solo se icomportamenti dell’istituzione sono rigorosamen-te ispirati a norme inderogabili la cui applicazioneriflette la volontà di prescindere dall’interesse pri-vato per dare al merito la dignità di unico argo-mento e valore decisivo nei risultati concorsuali.Tuttavia, chi si richiama al merito, alla giustizia,all’interesse collettivo, è tacciato di moralismo e digiustizialismo. Si getta fango su tutti, con la prete-sa che la chiamata universale di correità giustifichie assolva il reo. Omertà, servilismo, viltà e prepo-tenza vanno a braccetto nel sudiciume imbelletta-to della società italiana. Nessuno vuole la verità,nessuno chiede di dimostrare una qualsiasi asser-zione; secondo l’immoralismo dominante, si pre-tende solo che giovi a qualcuno: a chi giova?, è ladomanda, espressione inequivocabile di una«mancata relazione alla verità» (p. 62). Alcuni esponenti di spicco della Chiesa cattolica sidimostrano tolleranti verso l’immoralismo coralli-fero, la diffusa convinzione che ciascun individuo èresponsabile da ultimo per ciò che fa. Le parole delcardinale Angelo Scola, riportate da De Monticelli,espressione della crociata di CL contro i moralisti– «diventa allora necessario liberare la categoriadella testimonianza dalla pesante ipoteca moralistache la opprime, riducendola, per lo più, allacoerenza di un soggetto ultimamente autoreferen-ziale» – sono un chiaro segno dell’appiattimento eadeguazione alla generale richiesta di impunità peri crimini che accompagnano l’esercizio del poterepolitico. “Moralismo” e “individualismo” sonodivenuti, anche per certi esponenti del clero, insul-ti che nascondono il sostanziale «rifiuto di onorarela solitudine della coscienza personale e la respon-sabilità ultima che ciascuno porta di se stesso» (p.66). Che cos’è il “soggetto ultimamente autorefe-renziale” se non l’individuo dotato di libero arbi-trio? Del resto, la tesi della creaturalità dell’uomo eil peccato originale non vanno felicemente d’ac-cordo con le nozioni di coscienza critica e dicoerenza morale. La libertà di coscienza peraltro è

stata riconosciuta dal Concilio Vaticano II(Dignitatis humanae), ricorda l’autrice, ma l’affer-mazione della maturità morale dell’uomo, dellasua capacità di autodeterminazione non può certa-mente spingersi troppo oltre, senza rendere l’uo-mo così autosufficiente da non aver più bisognodella salvezza ad opera del Cristo. L’opposizionetra una scelta fondata sull’autorità e una maturatanell’intimità della propria coscienza – avanzatacome argomento da De Monticelli – rischia dirisultare schematica e di non tenere conto dellaposizione intermedia degli esseri umani, che sonocapaci di libertà non originariamente e a priori, masolo a certe condizioni e in seguito a un processodi maturazione che, dal punto di vista teologicodella Chiesa, non può prescindere dal percorsosacramentale, dalla grazia e dalla continua rinascitasul piano morale. La libertà insomma non puòessere né si può concepire come una condizioneperfetta e originaria, come un presupposto assolu-to. Tuttavia non può essere messa in discussione onegata da quanti potrebbero trarre vantaggi dipotere dal suo misconoscimento. Quindi la pre-sunzione di libertà, come la presunzione di inno-cenza, è un postulato indispensabile a difesa dellafragilità delle persone e a contenimento della cupi-digia di asservimento. Si dovrà consentire con DeMonticelli su questo punto: la capacità di autode-terminazione degli individui è fuori discussione,giacché potrebbe essere negata solo da quantihanno qualche interesse a contestarla. Chi negal’autonomia morale degli esseri umani la negaanche a se stesso e delegittima quindi la propriaposizione, togliendo ogni giustificazione al privile-gio istituzionale di cui eventualmente gode. Il cardinale Ratzinger in un discorso del 2005 sug-gerisce di capovolgere l’assioma degli illuministi ericonoscere che «anche chi non riesce a trovare lavia dell’accettazione di Dio dovrebbe comunquecercare di vivere e indirizzare la sua vita “veluti sideus daretur”». È un passo che, secondo DeMonticelli, illustra il nichilismo morale che hainfettato anche la Chiesa, la quale proclama i noncredenti incompetenti morali e chiede allo stato diistituire norme che tutelino questa incompetenza.Norme dettate dalla Chiesa, perché se Dio non c’è,Dio è la stessa Chiesa. Di qui il nichilismo metafisi-

n.32 / 2012

124

co: «Quella stessa auto-deificazione che venivaimputata all’uomo moderno (per via dell’autode-terminazione morale) ora la si rivendica sottoban-co, tentando di subordinare lo Stato e le sue leggia una confessione religiosa» (p. 77). Questo è ilsenso dell’invito, raccolto da certi devoti sostan-zialmente atei: bisogna fare come se Dio ci fosse.La dignità e la libertà degli esseri umani sono pos-sibili solo in virtù dell’autodeterminazione, checonsiste essenzialmente nell’esercizio della ragio-ne, di una facoltà razionale che è appannaggio uni-versale di tutti gli esseri umani. L’etica razionale sifonda su valori condivisi. Senza logica non puòesserci etica, per questo è riprovevole chi fa asser-zioni senza renderne conto o fa affermazioni privedi fondamento o riscontro. De Monticelli illustraefficacemente la circolarità di logica ed etica.L’esercizio della filosofia non è che un rendereragione, socraticamente, di ogni cosa, prescinden-do completamente e inesorabilmente da ogni prin-cipio di autorità e da qualsiasi soggezione a fattoriextra-logici o extra-cognitivi. La ricerca socraticadella verità non risparmia nulla e nessuno. La filo-sofia è pedagogia, educazione della persona a ren-dere conto delle proprie asserzioni con l’eserciziorigoroso del pensiero. Violento e antisociale è siachi agisce ingiustamente violando le leggi, sia chifa asserzioni eludendo ogni dovere di chiarezza egiustificazione di quanto è asserito. Si sa, il nichili-smo etico è stato anche la conseguenza del rifiutodi riconoscere l’esistenza di una verità oggettiva:quanta ermeneutica nella seconda metà delNovecento ha sottilmente disquisito per convince-re (senza realmente dimostrare) che la verità nonesiste, che non ci sono fatti o evidenze di sorta, masolo interpretazioni e punti di vista, aprendo cosìla strada al più rassegnato e passivo scetticismo,alla giustificazione perfetta di ogni manifestazionedi immoralità, al sociologismo giustificazionista?Chi identifica la verità con un insieme di credenzepecca di idolatria; all’opposto chi nega l’esistenzadella verità spiana la strada a una pratica sofisticadella filosofia, toglie ogni legittimità al giudizio divalore e apre il varco al relativismo qualunquista.«Chi usa senza spiegazioni parole che hanno millesignificati o nessuno, chi afferma: “la verità non esi-ste” (e non si accorge di fare un’asserzione che

pretende di essere vera)» manca all’impegno inde-rogabile di onorare la verità, «cercando e offrendoevidenza per quello che si afferma» (p. 99).L’impegno a rendere conto delle nostre convinzio-ni e azioni è un dovere che discende dalla stessaragione. La conoscenza di ciò che è giusto non èsufficiente per attuarlo, ma è certamente necessa-ria. Rimane aperto il problema della fondazionedei giudizi di valore. Non sempre è possibile arti-colare una giustificazione completa e inappuntabi-le dei giudizi formulati nelle più diverse circostan-ze. La distinzione apparentemente razionale fattavalere dalla filosofia del linguaggio del Novecentotra giudizi di valore e giudizi di fatto può essereinterpretata come una manifestazione della derivarelativista subita dalla teoria della conoscenza edall’etica, distinzione contestata da Putnam, cheDe Monticelli cita opportunamente riportando l’e-sempio di giudizio “Nerone era crudele”: è questoun giudizio di fatto o di valore? De Monticelli prende posizione contro quella chelei chiama “coscienza sprezzante”, una figura dellafilosofia del Novecento fondata sulla prassi delsospetto per ciò che appare e del disprezzo per ciòche è, quasi che l’atteggiamento scientifico impli-casse la negazione dei valori e la realtà in se stessafosse priva di valore. L’avalutatività della scienzacome garanzia di oggettività ha messo al bando ivalori relegandoli nella sfera soggettiva. «L’idea chela realtà in sé è priva di valori, che i valori li proiet-tiamo noi nelle cose, è diventata una specie diovvietà: ma è una falsa ovvietà» (p. 113). La pre-valenza del più forte, che gli antichi avvertivanocome ingiusta sostenendo la verità di quel giudi-zio, è messa fuori questione dai moderni i quali,avendo escluso che i giudizi di valore possanoessere veri o falsi, si illudono di poter formularegiudizi realistici avalutativi come se fossero asetticie oggettivi, mentre al contrario riflettono il deprez-zamento e il disprezzo per la realtà sottoposta agiudizio. Il relativismo ermeneutico, a differenzadel positivismo scientista, nega l’esistenza di unaverità in se stessa, si mostra pluralista e tollerante,nell’intento di misurarsi in modo indolore con ilpluralismo culturale e valoriale delle società occi-dentali. La dottrina della verità che la Chiesa visibi-le rappresenta, condivide con questo relativismo

LibriLibriLibri

125

pluralista l’idea che «in materia di valore non ci siaun modo in cui le cose stanno, indipendente-mente da quello che noi crediamo o sappiamo» (p.119). Il vero e il certo sono fatti coincidere e sinega che possa esistere una verità che ancora nes-suno conosce. Il papa negherà che ci siano ragionicui l’individuo razionale può accedere, a prescin-dere dalla sua fede. Negando che esista una veritàin sé, il relativista giustifica l’affermazione violenta espregiudicata del più forte e ne proclama la vittoria.A sua volta il fondamentalista, non riconoscendoalcuna competenza morale al non credente, attri-buirà a se stesso la facoltà di valutare e decidere perconto di tutti. L’esercizio autonomo della ragionenon conduce al relativismo e allo scetticismo, mapreserva da queste derive; e la soggezione all’auto-rità in materia di valore nega la dignità degli esseriumani, senza offrire loro alcuna garanzia di posse-dere la verità. Negare a vario titolo che sia possibi-le una ragion pratica in un mondo plurale, significain ogni caso estromettere l’ambito dei valori dallasfera della ricerca razionale e della scienza, ridu-cendolo a un campo di battaglia dove si fronteggia-no volontà contrapposte e divergenti. La domandanon è più: che cosa vale in se stesso?, bensì: qualevolontà prevarrà? È dunque una mera questione diforza, “in uno qualunque dei suoi modi – la violen-za, l’astuzia, l’opportunismo, le consorterie, leclientele, la menzogna, oppure invece il tatticismopoliticante, il piccolo machiavellismo endemico eservile della politica italiana” (p. 120).La necessità di un accordo tra il pluralismo degliorientamenti in una società democratica e aperta, eil presupposto razionale dell’esistenza di una veritàche bisogna cercare con un percorso argomentati-vo, evitando sia il relativismo disfattista sia il fonda-mentalismo autoritario (entrambi propensi adaccettare soluzioni decisioniste dei problemi),impone il riconoscimento dell’esistenza oggettivadei valori e della loro gerarchizzazione interna. DeMonticelli chiama valori «una varietà infinita di qua-lità caratterizzate da due tratti: la polarità (positivao negativa) e il grado comparativo (inferiore-supe-riore)» (p. 137). Senza valori non ci chiederemmoragione di cose vere, reali, che non sono il risultatodella distorsione proiettiva del soggetto: l’ingiusti-zia, l’ignoranza, l’errore. Se il male non fosse una

realtà indubitabile, etica e diritto avrebbero ragiond’essere? I valori sono qualcosa di oggettivo, tali cheessi costituiscono la persona, non il contrario. L’ideache i valori siano gusti personali, che ciascuno èlibero di preferire nella massima libertà, non assicu-ra alcuna civile convivenza, alcun rispetto delladignità umana; dietro un’apparente tolleranzabenevola, il relativismo nasconde la negazione diogni valore che non sia sostenuto da una forza suf-ficiente e prepara l’irruzione dell’arbitrio assolutonei rapporti umani e tra stati, insinua una generaliz-zazione della logica della guerra, si lascia facilmentericondurre «all’idea già sofistica che giusta è perdefinizione la volontà del più forte» (p. 150). Una ragion pratica in un mondo plurale deve esse-re possibile. Secondo De Monticelli se per eticanon si intende la disciplina del dovuto da ciascu-no a tutti, non è possibile sfuggire alle due derivedel fondamentalismo e dello scetticismo. La primaformula stabilisce che ciò che è dovuto da ciascu-no a tutti «è lo stesso diritto a vivere e fioriresecondo il proprio ethos, che si chiede per sé» (p.153). Tale formula contiene il riconoscimentodella libertà e della pari dignità di tutti gli esseriumani. Ma il principio universalistico dell’etica èstato concepito e si è affermato all’interno di unethos, quello occidentale, lo stesso in cui la filoso-fia compara i diversi ethe del pianeta.L’universalità, il riferimento a tutti gli individuiumani, sconta il paradosso di provenire da unethos particolare che si propone quale punto divista esterno e superiore a tutti gli ethe reali e pos-sibili. Si può (e forse si deve) presupporre un cri-terio trascendentale per giustificare il principiouniversalistico, ma in linea di principio è semprepossibile contestare il riferimento a tutti gli uomi-ni come a soggetti “eguali in dignità e diritti”. Unprincipio universale dovrebbe essere accettato daciascuno e da tutti in virtù di un argomento fattua-le o logico, ma nel nostro caso non sembra esservialcuna via, né logica, né fattuale, che possa con-durre all’accettazione incondizionata di tale princi-pio, talché è possibile sostenere, sulla base dellarealtà concretamente visibile, che gli esseri umaninon sono e non possono essere soggetti “eguali indignità e diritti”. Se dobbiamo fare esercizio diragione in misura radicale, allora anche il principio

n.32 / 2012

126

universalistico ha bisogno di essere fondato. E suche cosa si fonda la concezione degli esseri umanicome soggetti “eguali in dignità e diritti”? Se, adesempio, si fondasse tale universalità sull’aspira-zione di ogni ethos a valere universalmente, sicoglierebbe alla radice il conflitto che oppone gliethe del nostro pianeta. Si dovrà distinguere traprescrizioni specifiche che sono compatibili con ilprincipio universalistico e direttive che non losono: che cosa si farà delle seconde? Si potrà per-suadere a revocarle semplicemente in base adargomenti razionali? Infatti riconoscere a ciascuno“il diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos,che si chiede per sé”, dovrebbe impegnare alrispetto integrale dell’ethos altrui, con le molteriserve del caso. Qui De Monticelli avverte che ciòche si riconosce a ciascuno, l’ethos di ciascuno, ilsuum, ciò che si deve a ciascuno, va inteso entro ilimiti di un altro principio universalistico, quellodella pari dignità e dunque dei pari diritti. Devo aciascuno ciò che chiedo per me, ma con limiti pre-cisi: ad esempio, non posso pretendere che unaltro diventi mio complice in un crimine promet-tendogli di restituirgli il favore, dal momento chein tal modo nego il principio di parità di diritti ditutti coloro che il crimine calpesta direttamente oindirettamente (p. 155). Politica ed etica ritornanocosì a ricongiungersi. La ragion pratica è un anti-doto al servilismo, alla passività, all’autoritarismo,al dilagare della prepotenza e prevaricazione diogni principio, compreso quello della libertà e paridignità degli esseri umani, che devono essere rico-nosciuti eguali perché liberi e liberi perché eguali.Il riconoscimento dell’eguaglianza non limita, maesalta la libertà di ciascuno. Se togliamo il valoredella persona umana come tale, togliamo la ragiond’essere delle democrazie, che potrebbero presta-

re il fianco ad accuse di inefficienza, conflittualitàpermanente, immobilismo. Ma le giustifica la pro-tezione di spazi di argomentazione e discussione,in cui ciascuno è chiamato a rendere conto delleproprie azioni e asserzioni. L’autonomia moraleconsiste nel fatto che l’individuo ha la competenzamorale ultima ed è quindi autorizzato a decidere«riguardo all’uso della libertà che lo costituisce(quella libertà riconosciuta come caratteristicadella nostra specie ben prima che fosse ricono-sciuto e giuridicamente protetto il diritto di usar-la)» (p. 175). Alcuni polemicamente mescolanol’autonomia con l’arbitrio, ma sbagliando grossola-namente, perché l’autonomia non è l’invenzionearbitraria delle proprie leggi, bensì la capacità diesercitare la ragione per riconoscerne la giustezza.La Chiesa è così ostile all’individualismo etico darevocare il principio di libertà di coscienza e nega-re il diritto di autodeterminazione degli individuiriguardo alla chiusura della vita, ma al tempo stes-so ribadisce senza sosta il principio della dignitàdella persona. Quale dignità della persona, si chie-de De Monticelli, che non implichi il riconosci-mento che l’individuo esiste prima dello stato e diogni altra comunità, mentre deve la propria digni-tà esattamente alla capacità di autodeterminazionerazionale, che consiste nel non obbedire a nessunalegge esterna tranne che a quelle alle quali si èdato il proprio assenso? Riconoscendo senza equi-voci il valore auto-sussistente della persona, lostesso Antonio Rosmini non insegnava che allepersone deve essere garantita la libertà di viveresecondo il loro proprio principio eudemologico,realizzando la felicità e la perfezione cui ciascunoaspira?

Claudio Tugnoli

127

128