Agostino De Rosa - docu.iuav.itdocu.iuav.it/30/1/LA_RISONANZA_ACUSTICA_DEL_DISEGNO.pdf · scenza...

12
Risale al 1885 un disegno (fig. 1) di Sigmund Freud in cui lo psicanalista tenta di gra- ficizzare il meccanismo neurologico che presiede alla rimozione dei ricordi indeside- rati; è innegabile che una simile illustrazione racchiuda una complessità di significati che va anzitutto riferita al non trascurabile peso che invece l’emersione mnemonica del trauma, secondo Freud, gioca nella soluzione del proprio handicap emotivo, della propria patologia psichica. Tuttavia una sua prima analisi suggerisce un’ulteriore duplice riflessione: anzitutto quella relativa al paradossale compito che qui il disegno assume all’interno della sua funzione didascalica, vale a dire che Freud fissa nella sua e nella nostra memoria - attraverso le linee tracciate dal suo lapis - l’atto della dimenticanza: in altri termini, disegna/ricorda come si dimentica. Inoltre è significativo - verrebbe da dire, è freu- diano - che lo psicanalista ricorra per fare ciò al disegno, in particolare impiegando uno stile grafico memore di certe incisioni preistoriche o di culture aborigene: con un gusto probabilmente inconsapevole per la l’archeologia del disegno, come la defini- rebbe Paul Virillo 1 , Freud illustra come il flusso di energia proveniente da un neurone attivo, raggiungendo un altro neurone, attivi il ricordo indesiderato, oppure venga deviato dall’Io, in virtù di un meccanismo inibitorio noto come ‘investimento laterale’, dando luogo alla dimenticanza. È qui, in questo ricordare come si rimuove il ricordo stesso, che riposa una parte non trascurabile e paradossale del significato simbolico dell’immagine, e per essa del disegno: essa non è solo luogo della memoria ma anche sede privilegiata dell’oblio, illustrazione della rimozione volontaria o indotta. C’è da osservare anzitutto che se da un lato l’azione del ricordare attinge ad un aspet- to qualitativo sublimato addirittura in una arte della memoria, simmetricamente com- pare in maniera più discreta nella storia del pensiero occidentale un’ars oblivionalis, 93 Agostino De Rosa LA RISONANZA ACUSTICA DEL DISEGNO

Transcript of Agostino De Rosa - docu.iuav.itdocu.iuav.it/30/1/LA_RISONANZA_ACUSTICA_DEL_DISEGNO.pdf · scenza...

Risale al 1885 un disegno (fig. 1) di Sigmund Freud in cui lo psicanalista tenta di gra-ficizzare il meccanismo neurologico che presiede alla rimozione dei ricordi indeside-rati; è innegabile che una simile illustrazione racchiuda una complessità di significatiche va anzitutto riferita al non trascurabile peso che invece l’emersione mnemonicadel trauma, secondo Freud, gioca nella soluzione del proprio handicap emotivo, dellapropria patologia psichica. Tuttavia una sua prima analisi suggerisce un’ulteriore duplice riflessione: anzituttoquella relativa al paradossale compito che qui il disegno assume all’interno della suafunzione didascalica, vale a dire che Freud fissa nella sua e nella nostra memoria -attraverso le linee tracciate dal suo lapis - l’atto della dimenticanza: in altri termini,disegna/ricorda come si dimentica. Inoltre è significativo - verrebbe da dire, è freu-diano - che lo psicanalista ricorra per fare ciò al disegno, in particolare impiegandouno stile grafico memore di certe incisioni preistoriche o di culture aborigene: con ungusto probabilmente inconsapevole per la l’archeologia del disegno, come la defini-rebbe Paul Virillo1, Freud illustra come il flusso di energia proveniente da un neuroneattivo, raggiungendo un altro neurone, attivi il ricordo indesiderato, oppure vengadeviato dall’Io, in virtù di un meccanismo inibitorio noto come ‘investimento laterale’,dando luogo alla dimenticanza. È qui, in questo ricordare come si rimuove il ricordostesso, che riposa una parte non trascurabile e paradossale del significato simbolicodell’immagine, e per essa del disegno: essa non è solo luogo della memoria ma anchesede privilegiata dell’oblio, illustrazione della rimozione volontaria o indotta. C’è da osservare anzitutto che se da un lato l’azione del ricordare attinge ad un aspet-to qualitativo sublimato addirittura in una arte della memoria, simmetricamente com-pare in maniera più discreta nella storia del pensiero occidentale un’ars oblivionalis,

93

Agostino De Rosa

LA RISONANZA ACUSTICA DEL DISEGNO

le sue caratteristiche riguardando più l’aspetto clinico e patologico di un soggetto chenon l’esercizio di una vera e propria tecnica. Ma anche in questo senso, la separazio-ne non sembra così netta: l’ars memorativa classica, a cominciare dal primo testo chese ne occupa, vale a dire dall’anonimo Ad Herrenium (86-82 d. C.), fornendo precet-ti pratici per fissare il ricordo di un discorso o di una sequenza di parole, individua neiluoghi e nelle immagini gli strumenti per costruire la catena di reazioni mnemonicheauspicata; contemporaneamente, selezionando il desiderato dall’indesiderato, eserci-ta anche un’azione obnubilatrice sul superfluo, su ciò che è lecito o concesso dimenticare. Le immagini, per lo più scelte all’interno di un repertorio che conservi un forte impat-to emotivo, sono sostanzialmente corrispondenti a simboli che individuano e ramme-morano con precisione un’azione o un pensiero, meglio se sostenute da una sequen-za nota di spazi che le ospitano. Ed è significativo che ancora il disegno assurga a vei-colo privilegiato di esposizione di questa ars notoria, in particolare nello splendidoLiber Memoriae Artificialis (Padova [?], 1429) del frate minore Bartolomeo daMantova, ove una selva di immagini dipinte (100) a piena pagina su pergamena risul-ta apparentemente un’incomprensibile raccolta di rebus se non ne è fornita la chiavedi accesso, leggibile nella premessa: solo allora si squaderna la magia di una cono-scenza iniziatica.L’idea che un pittogramma potesse sintetizzare tutto lo scibile umano compare già neiFlores aurei sive Sacratissima ars notoria, opera attribuita ad Apollonio di Tiana e dicui esiste un prezioso manoscritto miniato risalente al XIV secolo; ognuno degli sche-mi grafici (38) presenti nel testo, se osservati e memorizzati seguendo un preciso per-corso rituale, sarebbe capace di restituire la complessità di discipline come la geome-tria, la fisica, la musica etc. Concentrare la propria attenzione su un disegno, sul tes-suto di linee ordito da un esperto disegnatore/calligrafo o miniaturista, nel tentativonon solo di illustrare, ma di trascendere la mera comunicazione formale, risale ad unatradizione antica e diffusa in tutto il mondo: forse con la stessa attenzione gnosticaverso i simboli della scienza proposti da Apollonio, anche i monaci buddhisti osser-vavano i loro mandala per attingere ad una conoscenza più profonda e in definitivaultima dell’essere, travalicando il divenire. Ma se un disegno può raccogliere in sé così tanti significati, anche a dispetto dell’es-senzialità grafica che lo dissimula, lo stesso disegno può essere indizio di dimenti-canza, di sottrazione - volontaria o meno - di prove della propria colpevolezza semantica. Nell’Inghilterra elisabettiana un brillante prospettivo e paesaggista, incaricato da talemrs. Herbert di redigere una serie di dodici vedute della tenuta di Compton House2,alla fine del suo lavoro è barbaramente accecato dai suoi stessi committenti, noncerto perché scontenti dei suoi eleganti e precisi disegni prospettici, dacché ognuno

94 Agostino De Rosa

La risonanza acustica del disegno 95

di essi registra, nel modo più obbiettivo - e ottico - possibile e secondo i dettami sti-listici dell’epoca, un suggestivo angolo dei giardini che circondano la residenza; tut-tavia, queste perfette rappresentazioni ricordano evidentemente qualcosa che, all’in-saputa del loro stesso autore, disturba i committenti: sono le prove di un omicidio, chedistrattamente - ma non poi tanto - lasciate in giro, sono state raffigurate dal dise-gnatore componendo una silenziosa arringa accusatoria, tutta grafica, contro gliassassini. Questo il plot narrativo de The Draughtman’s contract, il film che il registainglese Peter Greenaway ha realizzato nel 1988, e che sintetizza mirabilmente - fra glialtri - anche il tema del disegno quale luogo in cui si insinua l’ombra della memoriainvolontaria, di quel ricordo/segno grafico che è sul limite dell’oblio per il suo stessoesecutore, ma che per altri attinge ad una complessità di sensi difficilmente immagi-nabile. Forse mr. Neville, il disegnatore del film di Greenaway, voleva in fin dei contiessere accecato, voleva cioè non ricordare più; la straordinaria potenzialità di memo-ria selettiva che egli esercitava con la sua arte - il disegno appunto -, la sua divina illi-mitatezza e incontrollabilità, può rappresentare un peso spesso insopportabile, cherasenta le patologie neurologiche analizzate da Oliver Sacks nel suo studio su casi cli-nici di pazienti iper- e a-mnesici.Uno degli indizi di memoria semanticamente più complessi in un disegno è fornitodal tema della citazione, che spesso sconfina nel dolo del plagio. Ciò è particolar-mente vero nel caso dell’arte figurativa ove il ricordo degli exempla - classici o meno- fornisce spesso un blasone stilistico, ma talvolta è segno di una sincera comunanzadi intenti estetici con il passato. Si pensi ad esempio all’opera pittorica di un archi-tetto come Fabrizio Clerici, ed in particolare a due suoi cicli, uno ispirato dalla cele-bre opera di Böcklin L’isola dei morti, e l’altro memore degli affreschi nel Duomo diOrvieto di Luca Signorelli: in entrambi la memoria dell’autore vaga tra i propri leit-motiv pittorici e l’ossessiva presenza ora di una spettrale isola cimiteriale, ora dell’im-magine di alcune figure umane o dell’Anticristo orvietani, dimostrando che “la memo-ria non è una lastra passiva, ma è, in realtà, una facoltà creativa, che seleziona e tra-sceglie le esperienze, e quindi non solo ‘ri-presentifica’ il passato ma lo reinventa”3.Partendo da questa osservazione, allora come giudicare Guidobaldo del Monte chenel suo Perspectiva libri Sex (Pesaro, 1600) replica l’impostazione grafica delle costru-zioni düreriane allorché deve determinare l’ombra di un cubo in prospettiva; oppure J.Ozanam che, nel suo Récréations mathématique (1694), ricorda in modo letterale l’a-namorfosi dell’occhio di Dio già realizzata da Mario Bettini in Apiaria universae phi-losophiae mathematicae (Bologna 1642)? Siamo qui in presenza di un ricordo fisio-logicamente e culturalmente inquadrabile in un atto di devozione e omaggio da partedi epigoni letterari, o al contrario di fronte a un’azione di plagio?

Agostino De Rosa96

Il corpus di studi sulla prospettiva, fra il Quattrocento e il Settecento, spesso offre ildestro a simili considerazioni, dal momento che ogni testo si stratifica rispetto e gra-zie al precedente in una forma sempre più prossima ad una visione globale della pro-blematica della rappresentazione piana: si perverrà così paradossalmente alla formu-lazione del più generale metodo delle proiezioni centrali solo allorché la memoriadelle sue innumerevoli applicazioni - comprese le più fantasiose e bizzarre - si iposta-tizzerà in una sorta di canone perpetuo, quello pervenutoci dalla lezione di J. V.Poncelet4. Una simile analisi confermerebbe quanto osserva Platone sulla vera cono-scenza che è reminiscenza, “memoria dell’origine divina. Conservando questa memo-ria, le anime sanno di non appartenere a questo mondo, e guardano alla loro immor-talità come alla loro verità.”5

Ma quale sguardo conosce e ricorda? E come conosce lo sguardo?L’uomo ci volta le spalle e, appoggiato a un esile bastone, osserva dall’alto di un pro-montorio roccioso il paesaggio sterminato di cime montuose e nebbie che si srotolaai suoi piedi; così Caspar David Friedrich (1774-1840) (fig. 2) rappresenta un vian-dante “su di un mare di nebbia”6 nel 1818. Lo sguardo del wanderer ci è precluso, mastrategicamente la sua testa occupa il punto di dolce incontro dei monti lontani e divirtuale fuga sia dei vapori atmosferici che delle linee di profondità; nell’immaginepittorica è inevitabile pensare, per noi osservatori oculocentrici, che l’uomo stia fis-sando - e già la perentorietà di questo verbo ne tradisce i limiti fisiologici - l’infinito.Fissare l’infinito: sembra già presente una contraddizione semantica, un’impossibilitàfenomenica di questo accadimento aggirata da un’ellisse linguistica. La sovrapposi-zione dell’attesa logica che trascina con sé la posizione fisica della figura umana, alloschema prospettico-geometrico dell’infinito (l’orizzonte su cui si allineano i punti difuga di rette orizzontali) sancisce per via figurativa la necessità di ricorrere alla rap-presentazione come veicolo di traduzione di una attività così romanticamente smisu-rata da essere intelligibile solo se decantata dallo sguardo dell’artista. Nelle paroledello stesso Friedrich:

l’arte si afferma come mediatrice fra la natura e l’uomo. L’originale è troppo grande edelevato perché la massa possa coglierlo. La copia, opera dell’uomo, è più vicina allasua debolezza.7

Quest’ultimo inciso mi sembra celi qualche segreto e squaderni, come vedremo, unruolo molto pietistico - nell’originale accezione latina - nei confronti dell’idea stessadi rappresentazione. Se la raffigurazione di una realtà effettiva o solo immaginata - forse come nel caso

La risonanza acustica del disegno 97

dei dipinti di Friedrich - si muove lungo il limite che separa terra e cielo, cioè a direl’oggetto e la sua stessa immagine, essa appare anche come uno di quei funamboliorientali che sulla corda tesa sembrano stare per precipitare ma, con uno scattoimprovviso di reni e una piroetta scomposta continuano il loro percorso in equilibriosu una linea retta quasi invisibile per il pubblico: offrendosi come elementi indistintiimmersi in un àpeiron, gli oggetti fenomenici possono acquistare un loro ‘volto’,secondo Lévinas, soltanto per il tramite dell’arte, di un’azione rappresentatrice che cene consegna una sembianza,

una facciata, grazie alla quale gli oggetti (...) fanno mostra di sé.8

Pur tuttavia, per quanto l’immagine possa attrarre l’osservatore in virtù di apparentie implicite qualità estetiche, essa è pur sempre un sostituto della realtà, un’icona cheriduce l’Infinito a una “immagine finita”: secondo Giampiero Comolli, tale rapportosussiste in quanto basato proprio sulla somiglianza della cosa con la sua immaginesilenziosa, quest’ultima compresente nella realtà insieme all’oggetto stesso. Dunque, “la realtà non è soltanto ciò che è, ma anche il suo doppio: l’essere è rivestito da unasorta di ‘veste’ che lo duplica, lo raddoppia come una ‘natura morta’”9; così, questocarapace senza anima, quest’ombra è l’immagine: in ogni rappresentazione, l’imma-gine dell’oggetto è il testimone silenzioso dell’assenza dell’oggetto stesso, “come sel’oggetto rappresentato morisse, si degradasse, si disincarnasse nel suo riflesso”10. Ma allora quale senso può avere rappresentare l’Infinito attraverso uno strumentodestinato, come per sortilegio, a sottrarre infinitezza? Naturalmente l’interrogativo vaqui esteso e ampliato rispetto ai limiti meramente fenomenici; e dunque, a qualesilenzio, svuotamento o estremizzazione di senso è costretto l’infinito, ad esempio, nelsuo raggrumarsi sull’orizzonte prospettico di una rappresentazione geometricamenteconcepita? A questo punto è necessario spostare la soglia rispetto alla quale si dis-crimina il finito dall’infinito spingendola dall’esterno dell’osservatore al suo interno.Ancora Friedrich scrive: “Il pittore non deve dipingere solo quello che ha davanti a sé.E se in questo sé non vede nulla, smetta di dipingere anche quello che vede dinanzi a sé”11. Uno sguardo che, reclino su se stesso sonda le indefinite lande dell’interiorità, in cuilo sguardo - fisiologico e geometrico - contempla ed è contemplato allo stesso tempo,sperimentando in quell’istante due modalità gnoseologiche a confronto: quella razio-nale che riposa sull’esperienza che abbiamo degli oggetti e degli eventi del nostroecosistema; lo strumento di questa modalità conoscitiva è evidentemente l’astrazio-ne, una sorta di “mappa intellettuale della realtà nella quale le cose sono ridotte ailoro contorni”12, proprio per la necessità di analizzare l’immensa mole di dati che la

natura ci offre secondo criteri scientifici. La conoscenza razionale è dunque caratte-rizzata da una struttura lineare e sequenziale che, a ben guardare, poco si adatta allacomplessità del mondo naturale, sostituendo in sua vece un modello molto semplificato. “Cercando di comprendere il mondo, ci troviamo di fronte alle stesse difficoltà cheincontra un cartografo che cerchi di rappresentare la superficie a doppia curvaturadella terra con una serie di mappe piane. Da un procedimento di questo tipo possia-mo attenderci solo una rappresentazione approssimata della realtà, e di conseguen-za tutta la conoscenza razionale è necessariamente limitata”13.In questa accezione, la rappresentazione della realtà - che di quest’ultima apparecome una versione sintetica e inevitabilmente ‘angolata’ - nel nostro emisfero geo-cul-turale tende a sostituire la realtà stessa, laddove la conoscenza mistica ed interioreinvece ne ricerca un’esperienza diretta, scevra dagli influssi del pensiero razionale edella pura percezione sensoria. “I buddhisti Zen dicono che serve un dito per indicare la luna: ma non ci si deve piùpreoccupare del dito quando si è individuata la luna”14.Una simile modalità di conoscenza, che i buddhisti definiscono assoluta, prescindedalle astrazioni intellettuali e mira alla pratica diretta dell’essenza assoluta, che sfug-ge a qualunque tentativo classificatorio o meramente descrittivo, mercé l’ausilio deilimitati strumenti razionali. A essa hanno accesso coloro che attingono a uno stato dicoscienza non ordinario tipico del mistico o di chi esperisce la meditazione. Come reci-tano le Upanisad, sacra raccolta di testi vedici:

Ivi non giunge la vista, né la parola, e neppure la mente. Non sappiamo né conoscia-mo in quale modo la si possa insegnare...15

La realtà che si svela alla conoscenza mistica è dunque completamente indifferenzia-ta e indeterminata, e per giunta non si invera attraverso i classici canali sensoriali.Nonostante sia stato spesso osservato che l’atto gnoseologico nel misticismo orien-tale si fonda sull’esperienza personale - come nel caso del buddhismo ove esso risul-ta” radicalmente empirico o sperimentale, indipendentemente dalla dialettica utiliz-zata in un secondo momento per approfondire il significato dell’esperienza di illumi-nazione”16 -, ed in particolare sull’esercizio della visione17, è indispensabile precisareche quest’ultima va intesa in senso metaforico, cioè una percezione che trascende lequalità immanenti dell’azione fisiologica dell’osservare, pur caratterizzata da unapproccio intuitivo diretto nella natura della realtà. Si pensi al dipinto di KuwayamaGyokoshû (1746-1799) ritraente il poeta Matsuo Bashô (1644-1694) (fig. 3): anch’e-gli è rappresentato con uno sguardo estaticamente rivolto verso l’infinito - e questa

Agostino De Rosa98

La risonanza acustica del disegno 99

Fig. 1. Sigmund Freud, Il meccanismo della rimozione, disegno a penna, in “Progetto per una psicologia”,

Vienna 1895.

Fig. 2. C. D. Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, olio su tela, 1818. Kunsthalle, Amburgo.

Fig. 3. Kuwayama Gyokoshû, Ritratto di Matsuo Bashô, XVIII sec. Museum Rietberg, Zurigo.

Agostino De Rosa100

volta visibile a differenza del protagonista del quadro di Friedrich -, proprio nell’attodi ricevere l’ispirazione istantanea e improvvisa per uno dei suoi celebri haiku18; masignificativo è notare che l’ispirazione poetica di Bashô sia sostenuta dallo sguardo,sia condotta a compimento mercé l’azione del Vedere. I leggeri segni calligrafici checompaiono in un angolo della tela, materializzano così l’epifania del poema attraver-so la sua immagine scritturale scaturita dallo scandagliamento - interiore ed esterio-re - dello spazio circostante.

Le parole della poesia si dànno quindi come un’apparizione da contemplare, nello stes-so momento in cui appare, e si offre alla contemplazione, anche l’immagine della cosadi cui la poesia parla: la figura di Bashô, dipinto nel Genjû-an, ‘l’Eremo della Visione’,la sorgente da cui nasce la poesia.19

Ma chi o cosa conduce Bashô, il viandante sui monti immersi nelle nebbie, ma al con-tempo Gyokoshû e lo stesso Friedrich a osservare e rappresentare inutilmentel’Infinito? Sicuramente un sentimento, quello necessario ma al contempo sconsolantedi restituire, narrare qualcosa che sfugge al nostro dominio fisico e percettivo, forsepiù in generale cognitivo. Rappresentare dunque nell’accezione di re-praesentare, di“stare per altro”, ma anche nel senso di strumento teso a misurare lo scacco dellavisione, il suo limitato orizzonte gnoseologico a fronte dell’estensione infinita delconoscibile. Ma ecco che si manifesta anche un sentimento di sconcerto nell’accor-gerci non solo che l’insondabile fenomenico nasconde, in ombra, “le dimensioni diprofondità della nostra interiorità”20, ma anche che l’immagine da noi o da altri ese-guita, e dunque da altri vista prima di noi, ci guarda, ci re-interroga sui perché delnostro agire. Fra immagine e oggetto l’osservatore misura questa distanza invisibile,sentendo lacerante - oggi ancor più che nel passato - la contemporanea attrazione erepulsione verso la rappresentazione. “L’opera, il racconto, l’opera d’arte, nascono anche da una forma di commozione cheè pietà, amore per ogni cosa del mondo, presa nella solitudine della sua vita”21.Il desiderio e la volontà di confrontarci con l’Altro rispetto a noi, presente sia puresotto forma di icona, è in definitiva il desiderio di riattingere a una condizione arche-tipica scevra dagli ingombranti dualismi appena descritti, ove è difficile “tenere sepa-rati il volto dell’uomo dal volto delle cose... Questo Altro lontanissimo, infinitamentelontano, che è e non è un Medesimo, è la soggettività al di là di ogni soggettività: ècome un sorriso leggero in cui, esuli, alberghiamo”22.L’idea di visione e conseguentemente di rappresentazione - grafica o pittorica - chestoricamente si è andata formando, s’innerva dunque di una serie di indicatori cultu-

La risonanza acustica del disegno 101

rali, filosofici e più in generale antropologici relativi ad una particolare etnia, in undato spazio dunque, ma anche in quel dato tempo che l’ha prodotta. Ma questa spe-cificità semantica, questa pluralità linguistica, questa multi-etnicità espressiva sembraoggi scomparire, se non per emergere carsicamente, grazie al - o forse a causa del -ricorso alla dominante elettronica. Il tentativo di imporre un esperanto grafico-espres-sivo, attraverso le procedure standardizzate dettate da princìpi informatici, apparecome un tentativo di ‘investimento laterale’ al corpus disciplinare del disegno, colquale talvolta si vogliono rimuovere le conoscenze poste alla base della rappresenta-zione geometrica della realtà - vale a dire la geometria proiettiva e naturalmente quel-la descrittiva -, giustificando nella natura autarchica del programma la loro assenza e,tutto sommato, la loro inutilità.Ma quale senso ha sottrarre la comprensione dei processi rappresentativi, conservan-done solo il risultato finale, il vuoto carapace memore dell’Altro? Vi è infatti da osservare che il rapido sviluppo, in poco meno di un ventennio, di unaestesa produzione di tecniche di computer graphic ha determinato la repentina ricon-figurazione dei rapporti intercorrenti tra il soggetto osservante e le modalità di rap-presentazione che effettivamente nullificano la maggior parte dei significati attribui-ti in ambito culturale ai termini osservatore e rappresentazione. La formalizzazione ela diffusione delle immagini generate dal computer annunciano l’elaborazione di‘spazi’ visivi costruiti in maniera radicalmente diversa rispetto alle capacità mimetichedel cinema, della fotografia e della televisione. Queste ultime tre, almeno fino allametà degli anni settanta, erano generalmente forme di comunicazione omologhe cheancora corrispondevano alle lunghezze d’onda dello spettro visivo e al punto di vista,statico o mobile, collocato nello spazio reale. La progettazione assistita, l’olografia sin-tetica, i simulatori di volo, le animazioni computerizzate, la visione robotica, il ray tra-cing, il texture mapping, il motion control, gli strumenti per la percezione di ambien-ti virtuali, le immagini prodotte attraverso risonanza magnetica, e i sensori multispet-trali sono solo alcune delle tecniche che stanno ricollocando la visione su di un pianodistinto rispetto all’osservatore umano. Ovviamente altri e più antichi e più familiarimodi di “vedere” non senza difficoltà persisteranno e coesisteranno a lungo accantoa queste nuove forme. Ma queste tecnologie emergenti della produzione di immagi-ni stanno diventando vieppiù i modelli dominanti di visualizzazione, in sintonia con iprincipali processi sociali e con i correlati ruoli istituzionali attribuiti alla visione. E,naturalmente, esse sono intrecciate con le aspettative delle industrie di informazioneglobale e con le richieste crescenti delle gerarchie mediche, militari e investigative. Lamaggior parte delle funzioni storicamente rilevanti dell’occhio umano hanno iniziatoad essere sostituite da pratiche in cui le immagini visive non hanno più alcun riferi-

Agostino De Rosa102

mento con la posizione di un osservatore collocato in un mondo ‘reale’, percepito otti-camente. Se queste immagini si può dire che siano riferibili a qualcosa, questo qual-cosa sono i milioni di bits dei dati matematico-elettronici che le costituiscono. Semprepiù, la visualità è destinata a collocarsi su di un terreno cibernetico e elettromagneti-co in cui gli elementi linguistici e astratto-visivi coincideranno e saranno consumati,fatti circolare e scambiati in forma globale. Per comprendere questa inesorabile astrazione del visuale e evitare di fraintenderlaricorrendo a spiegazioni meramente tecnologiche, sarebbe necessario porsi moltedomande e dare conseguentemente molte risposte. Fra queste domande alcune dellepiù cruciali sono di natura storica. Ma se in effetti c’è un progressivo mutamento nellanatura della visualità, che forme o che modi ci siamo lasciati alle spalle? Di che tipodi cesura si tratta? Ma allo stesso tempo, quali sono gli elementi di continuità chelegano l’immaginario contemporaneo alle precedenti organizzazioni del visuale? Finoa che punto, se non completamente, la grafica computerizzata e i contenuti di unavideata rappresentano un’ulteriore elaborazione e un perfezionamento di ciò che GuyDebord ha definito come la “società dello spettacolo”? Qual è la relazione fra l’im-maginario digitale dematerializzato tipico dell’era presente e la cosiddetta epocadella riproduzione meccanizzata? Le domande più impellenti, tuttavia sono di piùampio respiro. In che modo il corpo, compreso il corpo osservante, sta diventando unacomponente delle nuove macchine, economie, apparati, sia sociali, libidinali che infi-ne tecnologici? Secondo quali percorsi la soggettività sta diventando una precariacondizione di interfaccia tra i sistemi razionalizzati di scambio e i networks d’infor-mazione? Non esiste ancora una risposta a questa serie di domande, ma ricorrerò,concludendo, alle parole di un amico, W.A. Mathieu, musicista e docente di teoriaarmonica presso il Mills College di San Francisco (CA), che in uno dei suoi libri più sti-molanti, non solo per gli addetti ai lavori, intitolato The Listening book. Discoveringyour own music23, interrogandosi sulla natura e sulla qualità espressiva degli stru-menti elettronici, osservava: “Non sono un appassionato degli strumenti elettronici,intendendo con essi sia i sintetizzatori che i campionatori. Non è che non mi piaccia-no… È solo che quando ti disponi ad ascoltare profondamente uno strumento acusti-co riesci ad udire il legno, il respiro, le fibre di una canna. Quando invece ti disponiad ascoltare profondamente della musica elettronica, riesci ad udire solo elettroni. Mipiacciono gli elettroni. Ma amo il legno, il respiro, la pelle e i capelli. So di essere fattodi elettroni… Ma si tratta di infrastrutture, non di oggetti del desiderio. Essi sono ciòche mi permettono di ascoltare, non ciò che voglio ascoltare”24.Credo che nel passo citato vi siano parecchi temi di riflessione, ma preferirei sottoli-nearne solo alcuni connessi al tema di questa riflessione: anzitutto il carattere cogni-

tivo - nel senso più profondo del termine - che si rinviene nell’aspetto iletico25 deldisegno (tradizionale), il fatto cioè che esso si innervi di materia - china, carta, mati-ta, linee dotate di spessore, strappi e ripensamenti - e dunque anche di memoria. Mr.Neville esegue le sue prospettive, non totalmente consapevole della straordinariarisorsa cognitiva e mnesica - il disegno, appunto - posta nelle sue mani, rappresen-tando anche ciò che non dovrebbe. Sempre muovendoci in ambito musicale, ToruTakemitsu, il compositore giapponese recentemente scomparso, affermava che nellamusica tradizionale nipponica esiste un’espressione, sawari, che indica un suono -emesso da strumenti acustici, come lo shakuachi - fatto di altri suoni, un suono stra-tificato, nel quale riconoscere o ricordare musiche già udite o che si udranno. Credoche anche nel disegno tradizionale riposi l’eco di altri segni e di memorie grafiche chemai nessun computer aided design potrà mai campionare: l’errore nel tracciamento diuna linea, gli equilibri tra pieni e vuoti in un tratteggio, il raccordo tra linee faticosa-mente tracciato per ricomporre l’andamento di una curva, sono tutti documenti cheregistrano ‘ad alta definizione’ i processi di apprendimento e visualizzazione, da partedel disegnatore, della complessità spaziale, rinunciando - almeno per un po’ - all’u-niformità ‘democraticamente dittatoriale’ imposta da plotter e stampanti, alla moder-na perdita di senso dettata da un gesto antico: quello del disegno.

La risonanza acustica del disegno 103

Agostino De Rosa104

Note1 “Il campo della visione mi è sempre parso simile ad uno scavo archeologico”. Cfr. DE ROSA A.,

Proiezioni dello spazio etereo, in DELL’AQUILA M., DE ROSA A. (a cura di), Proiezione e immagine. La

logica della rappresentazione, Arte Tipografica, Napoli 2000. 2 In realtà il nome di Compton House è un’invenzione di P. Greenaway: il film è infatti ambientato

in una villa settecentesca presso Groombridge, nel Kent. Cfr. BENCIVENNI A., SAMUELI A., Peter

Greenaway. Il cinema delle idee, Le Mani, Recco 1996; WOODS A., Being naked playng dead. The art

of Peter Greenaway, Reaktion Books ltd., Manchster 1996; ELLIOT B., PURDY A., Peter Greenaway.

Architecture and allegory, Academy Editions, Londra 1997.3 F. FERRAROTTI, Al setaccio della storia, “Sfera”, n. 41, Sigma-Tau ed., Roma, agosto-ottobre 1994, p. 8.4 Cfr. PONCELET J. V., Traité des propriétés projectives des figures, Bachelier, Parigi 1822. 5 GALIMBERTI U., Gli equivoci dell’anima, Feltrinelli, Milano 1988, p. 23.6 Amburgo, Kunsthalle.7 FRIEDRICH C. D., Scritti sull’arte, Società Editoriale, Milano 1989, p. 21.8 LÉVINAS E., Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1980, p. 141.9 COMOLLI G., Risonanze/Saggi sulla scrittura, il mito, l’Oriente, Theoria, Roma-Milano 1993, p. 49.10 LÉVINAS E., La realtà e la sua ombra, in “Nomi Propri”, Marietti , Casale Monferrato 1984, p. 181.11 FRIEDRICH C. D., op. cit., p. 81.12 CAPRA F., Il Tao della Fisica, Adelphi, Milano 1993, p. 31.13 Ivi.14 Ibidem, p. 32.15 Kena-upanisad, I, 3.16 SUZUKI D. T., On Indian Mahãyãna Buddhism, a cura di CONZE E., Schocken, New York 1968, p. 237.17 Il primo precetto dell’Ottuplice Sentiero - raccolta di prescrizioni buddhiste - è appunto il “retto

vedere”. Cfr. SUZUKI D. T., Outlines of Mahãyãna Buddhism, Schocken, New York 1963.18 Forma poetica giapponese consistente di diciassette sillabe.19 COMOLLI G., op. cit., p. 83.20 RILKE R. M., Lettera a Muzot, 11 Agosto 1924.21 COMOLLI G., ivi, p. 64.22 Ivi, p. 68.23 MATHIEU W. A., The Listening book. Discovering your own music, Shambala, Boston 1991.24 Ivi, p. 98.25 Dal greco hylê, materia.