Insegnare il design della moda -...

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Insegnare il design della moda

Il progetto nella moda

Università Iuav di VeneziaDipartimento di Culture del Progetto

quaderni della ricerca

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Università Iuav di Venezia - Dipartimento di Culture del ProgettoQuaderni della ricerca

Copyright ©MMXIVARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133/A-B00173 Roma[06]93781065

ISBN 978-88-548-7132-8

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

Copyright © per i testi: Maria Bonifacic; Maria Cristina Cerulli; Patrizia Fiorenza; Samanta Fiorenza; Maria Luisa Frisa; Anthony Knight; Ethel Lotto; Mario Lupano; Amanda Montanari; Gabriele Monti; Desamparados Pardo Cuenca; Simone Sbarbati; Alessandra Vaccari

Copyright © per le immagini: p. 8 Niccolò Magrelli; p. 18 Francesco de Luca; p. 20 Maria Bonifacic; p. 26 Giacomo Frasson; p. 38 Amanda Montanari; da p. 46 a p. 75 Francesco de Luca e Laura Bolzan / Commesso fotografo; p. 78 Augusto Maurandi; p. 84 Simone Sbarbati; p. 88 Alma Ricci; p. 94 Francesco de Luca; p. 104 locandine Comesta; p. 110 Desamparado Pardo Cuenca; p. 118 Alessandra Vaccari; p. 144 Francesco de Luca

Progetto grafico di Luciano Comacchio - MeLa Media LabCoordinamento editoriale e impaginazione di Ethel Lotto e Andrea ChinellatoTrascrizione testi della tavola rotonda di Ilaria Cipriani e Marta FranceschiniAssistenza alla ricerca Susanna Battistutto e Martina Bernardi

I edizione: maggio 2014

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Insegnare il design della modaa cura di Mario Lupano e Alessandra Vaccari

Unità di ricerca: Il progetto nella modaresponsabile scientifico: Mario Lupano

membri: Maria Luisa Frisa, Amanda Montanari, Gabriele Monti, Fabio Quaranta, Alessandra Vaccari, Cristina Zamagni

dottorandi e assegnisti di ricerca afferenti: Susanna Battistutto, Martina Bernardi, Maria Cristina Cerulli, Anita Costanzo, Riccardo Dirindin, Ethel Lotto

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Indice

IntroduzioneImparare il design della moda: un processo relazionale / Mario Lupano

AnalessiInsegnare il design della moda: l’esperienza dello Iuav / Maria Luisa FrisaLearned in Italia / Maria BonifacicLost and Found in Translation / Patrizia Fiorenza e Samanta FiorenzaIl ruolo della modellistica nella formazione del designer / Anthony Knight e Ethel Lotto

AlbumBe My Guest: 2009-2014 / Foto di Francesco de Luca e Laura Bolzan

ProlessiL’uso della storia nel fashion design / Alessandra VaccariComunicare la moda: la ricerca sul sé / Simone SbarbatiNecessità della study collection / Gabriele MontiIndagine sugli scarti pre-consumo di aziende tessili e dell’abbigliamento / Maria Cristina CerulliL’approccio open source alla progettazione della moda / Amanda MontanariSperimentare il co-design: progettare la moda attraverso le comunità / Desamparados Pardo Cuenca

Tavola rotondaModa, progetto e responsabilità

Ambiti d’indagine dell’unità di ricercaBibliografiaAutori

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Introduzione

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IMPARARE IL DESIGN DELLA MODA: UN PROCESSO RELAZIONALE

Mario Lupano

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Il quaderno raccoglie gli esiti di una giornata di riflessioni sulla didattica del design della moda in ambito universitario e le relative interazioni con la dimensione della ricer-ca. Al centro dell’attenzione è la cangiante e peculiare esperienza d’insegnamento della moda svolta nell’arco di otto anni all’Università Iuav di Venezia. La giornata si è svolta a Venezia il 18 febbraio 2014 nella sede del Dipartimento di Culture del Progetto che ha promosso e sostenuto l’iniziativa e questa pubblicazione. Trovarsi in una sede diversa da quella di Treviso, in cui si svolge quotidianamente la didattica della moda dello Iuav, ha conferito una certa oggettività alla conversazione collettiva. Docenti e studenti dei curricula in moda dei corsi di laurea triennale e magistrale sono una comunità molto salda; si frequentano e riflettono giorno per giorno su ciò che stanno facendo. Ma tali riflessioni rimangono spesso a un livello implicito mentre restano poche le occasioni come questa per dialogare e avere un confronto strutturato sui temi della ricerca e della didattica del design della moda. Didattica e ricerca sono le due parole chiave che sostanziano l’attività dell’università, l’una si intreccia con l’altra, l’una non esclude l’altra. Nell’ambito dell’insegnamento della moda a volte queste due componenti appaiono disgiunte. Ancora oggi il design della moda fatica a porsi in relazione con la dimensione della ricerca universitaria e questo è forse il riflesso di una mancanza di consuetudine accademica, dato che raramente la moda è stata insegnata all’università. Come espediente per accorciare i tempi e favorire l’affermazione della ricerca nell’ambito del design della moda abbiamo deciso di eleggere come tema di ricerca di questo seminario ciò su cui più spesso ci troviamo a ragionare, vale a dire la didattica. La ricerca è importante per diversi motivi. È attraverso di essa che si misura la parte-cipazione alla dimensione universitaria, sia dal punto di vista culturale, sia da quello delle logiche istituzionali. Una istituzione universitaria viene infatti valutata attraverso la produttività sul fronte della ricerca, oltre che su quello della didattica. Una componente dei docenti che insegnano nei nostri corsi di studio dello Iuav sono naturalmente impe-gnati nella ricerca, con variegati indirizzi personali che più o meno direttamente entrano in contatto con l’attività didattica alimentando riflessioni, portando materiali nuovi, ridiscutendo vecchie convinzioni, lavorando infine per l’affermazione di una dimensione culturale della moda – in sintonia con contesti internazionali dove gli studi di moda

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sono più consolidati, mentre le scuole di progettazione della moda godono di una lunga tradizione e sono molto strutturate metodologicamente. Nell’ambito delle ricerche personali, posso ricordare il lavoro curatoriale di Maria Luisa Frisa, che ha prodotto mostre e libri con il fine di riconsiderare criticamente la moda italiana e comprenderne nel posto in un quadro internazionale (Frisa 2005; Frisa e Tonchi, 2010). E l’azione culturale di Frisa si sposa ed entra in rapporto stretto con la mission del corso di laurea, che appunto cerca un posizionamento della moda a livello italiano e a livello internazionale. Posso ricordare le ricerche, di taglio più storiografico, condotte da Alessandra Vaccari su moda e modernismo, (Lupano e Vaccari 2009), e altre ricerche attente alle fenomenologie della creatività nell’ambito del fashion design, fino a considerare la condizione dei designer indipendenti nella moda contemporanea (Vaccari 2012). Ci sono gli studi di Gabriele Monti sulla costruzione dei discorsi espositivi nella moda, con metodologie variegate, che partono da approcci semiotici per poi confrontarsi con aspetti più vicini ai fashion studies (Monti 2008; Monti 2013). Ci sono poi i miei interessi, che sono tesi a inda-gare le relazioni tra le diverse discipline del progetto, a diversa scala, e non solo. E voglio ricordare anche i contributi di Elda Danese (Fortunati e Danese 2005; Danese 2008), o di Paola Colaiacomo (Colaiacomo 2007), per citare solo alcuni dei docenti che con il loro lavoro hanno aiutato a costruire l’identità dei corsi di laurea in moda allo Iuav. Tali ricerche indi-viduali si sono tradotte in una rinnovata attenzione per le fonti bibliografiche primarie della moda che hanno stimolato la nascita di una biblioteca specializzata che arricchisce una prestigiosa biblioteca di ateneo dedicate alle varie espressioni della cultura progettuale. Oltre alla dimensione della ricerca individuale, vanno ricordate molte altre azioni intraprese che sono testimonianza pure di un’attitudine alla ricerca, intrecciata sempre con la didatti-ca, per esempio penso all’esperienza del workshop e della mostra Under The Cover (Lupano e Vaccari 2012) e al lavorio sugli archivi, alle mostre che ogni anno produciamo in occasione di Fashion at Iuav, l’open day di fine anno, ai numerosi casi di collaborazioni con aziende e di partecipazione attiva a progetti di ricerca finanziati dall’esterno.Nella moda la questione della ricerca si pone anche in modo diverso – non prettamente interno al quadro accademico – quando ci si concentra sugli aspetti creativi e progettuali. I designer coinvolti nell’attività didattica esplicano il loro ricercare tra le pieghe della attività professiona-le e sono più difficilmente misurabili con i parametri accademici della produttività scientifica.

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Inoltre, in questi casi la ricerca si avvale spesso della complicità di situazioni esterne e tradi-zionalmente ritenute antagoniste del mondo accademico, come ad esempio le realtà aziendali. Dobbiamo ricordare che le discipline del progetto, nel loro vasto dispiegarsi, dalla moda alle arti e all’architettura, sono difficilmente declinabili con le dimensioni della ricerca accademica tradizionale. Sono discipline a statuto scientifico debole, per le quali è difficile individuare e sostenere uno o più sistemi di certezze deterministiche. Al contrario di altri campi di studio, i cui principi basilari mantengono una costanza affidabile e trasmissibile, la moda – ma anche l’architettura – è condannata a un processo di revisione permanente, che produce verità inevi-tabilmente parziali e provvisorie. Questo produce anche difficoltà e differenze in tema di me-todologie didattiche. L’università si fonda, originariamente e primariamente, sull’affermazione di discipline che siano chiaramente trasmissibili. Le discipline artistiche e progettuali, invece, sono venate di saperi aleatori e sfuggenti; sono caratterizzate da procedimenti analogici, dove confluiscono le azioni di molti attori e pronunciamenti diversi che producono equilibri precari, o comunque sempre negoziati. In questo quadro, la ricerca e la didattica diventano difficili da misurare: insegnare il proget-to, insegnare l’arte, insegnare l’esercizio dei processi creativi è tanto pericoloso quanto necessario. Spesso è un procedimento individuale, spesso è un processo multiforme e re-lazionale. Più che indagare come si insegna l’arte, la moda e l’architettura, forse dovremmo cercare di capire come si apprendono l’arte, la moda e l’architettura. Questa consapevolezza non deve svalutare l’intento didattico: forse non si può insegnare l’arte, eppure bisogna farlo. Ne erano consapevoli anche i docenti del Bauhaus, impegnati a spazzare via una tradizione accademica, puntando a cercare nuove referenze nella fabbrica (il sistema dei laboratori vs gli atelier). Forse occorre concentrarsi intorno alla costruzione di un ambiente in cui si impara. Forse questo è il modo più opportuno di insegnare. Concepire un corso di studi dedicato a una disciplina del progetto equivale, dunque, a costruire un ambiente per lo studio, e tale costruzione è, di fatto, un’orchestrazione di elementi eterogenei (cose, persone, fatti, azioni) che dovrà essere molto calibrata e aperta ad aggiustamenti e discussioni continue. Un’orchestrazione e un utilizzo anche di diversi formati didattici: lezioni frontali, studio individuale e seminariale, workshop istantanei o di lunga durata, brainstorming, progetti, testi, mostre, installazioni dentro e fuori il recinto della scuola, conferenze, dibattiti, con-

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vegni. E in questo ambiente gli studenti possono partecipare, cercare di emergere, fare da soli oppure condividere con gli altri; possono – devono magari – amare la moda o praticare l’antimoda; esercitarsi nel fare pratica, essere abili a spostare il punto di vista; selezionare e affinare ma anche aggiungere e inquinare; lavorare a partire da qualsiasi cosa. Lavorare e rischiare; allargare ed essere inclusivi, e poi ridurre: queste sono tutte operazioni necessarie per la formazione. Cosa si fa in un laboratorio di progettazione? Si predispongono esercizi e questo significa instaurare rapporti con testi scritti e riflessioni teoriche; significa praticare la discussione e anche l’espressione; porre attenzione all’apprendimento di discipline che sono fatte di rituali, credenze ed epifanie. Bisogna salvaguardare delle utili indeterminatezze; e per fare questo, paradossalmente, bisogna essere molto esatti e determinati nel progettare una situazione didattica che è anche cangiante, ma estremamente precisa dal punto di vista dei tempi e dei ruoli dei soggetti: studente, docente e interlocutore esterno. E infine, riflettendo sul desiderio di entrare in relazione con il pubblico, nasce l’urgenza delle mostre, intese non solo come atto finale, ma come momento in cui si inizia una nuova esperienza didattica. (Corbellini 2010; Lupano 2012).

Vorrei dedicare la seconda parte di questo intervento introduttivo ad alcune considerazioni che aiutino a comprendere il posto della moda nella cultura del progetto.Siamo allo IUAV, o più correttamente all’Università Iuav di Venezia, nel tempio della cultura del progetto. Siamo in una istituzione universitaria che fonda la propria identità sull’affermazione intellettuale della progettazione – da pochi anni non più esclusivamente architettonica – ed è giusto ricordare in questa occasione i motivi di un rapporto controverso tra cultura del progetto e moda. Una storia di argomenti culturali che si sono manifestati con il modernismo, quando l’architettura e il design hanno condotto una battaglia per la liberazione dalla moda, coltivando la convinzione che la moda riguardasse la dimensione del superfluo, del capriccioso e dell’irrazionale.Per alludere alla storia di questo rapporto controverso fra design e moda possiamo ricordare la posizione espressa di Bernard Rudofsky nel suo libro Are clothes modern? del 1947, nel quale esalta un’idea di design dell’abito “antimoda”, come sviluppo novecentesco di un più antico discorso dress reform, per affermare la liberazione del corpo dalle costrizioni

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sartoriali. Il libro era stato preceduto nel 1944 da una mostra, deliberatamente progettata per il MoMA in quanto istituzione che celebra l’arte delle avanguardie, che definisce lo stile moderno dell’architettura e del prodotto industriale, e che in questo caso indirizza moderna-mente anche l’argomento del vestire. L’obiettivo non sottaciuto era quello di inculcare una diffidenza contro il richiamo seducente della moda ai continui cambiamenti. Una battaglia per la liberazione dalla moda che Rudofsky – personalità sibaritica, e al di sopra di ogni sospetto in quanto amante dell’arte del vestire che sperimentava su se stesso – aveva iniziato in Italia nel corso degli anni trenta e con la complicità di Gio Ponti sulle pagine di Domus, nella convinzione che il nostro corpo non si meriti di essere imprigionato da un fenomeno irrazionale e capriccioso. In questa visione la moda stessa è superflua, come l’ornamento nelle invettive di Adolf Loos. Una battaglia esplicita anche contro la dittatura della sartorialità e contro una cultura del progetto basata sul taglio – gesto insensibile e moralmente esecrabile che profana l’integrità del tessuto – e per l’affermazione di un’idea costruttiva semplice, che riconsidera la tradizione orientale del drappeggio e della modula-rità geometrica. I vestiti possono essere moderni? possono entrare nel tempio del design modernista? Alcuni capi di abbigliamento forse sì, i prodotti dalla moda no. E con il senno di poi possiamo dire che questa è la sentenza, visto che la moda non rientra nelle collezioni di design, né nella programmazione espositiva del MoMA. Comunque sia, l’episodio ci serve per ricordare che per lungo tempo marcare la differenza con la moda è stato un segno costitutivo per la cultura del design, una differenza sostan-ziata anche da un implicito giudizio morale.Eppure, progettare e costruire un abito equivale a confrontarsi con il tema dell’architet-tura più prossima al corpo, ed è il luogo in cui si possono misurare molte relazioni con le altre culture progetto. Al di là degli aspetti legati alle logiche della costruzione/decostruzione dei manufatti che compongono l’abbigliamento, e degli aspetti concettuali del progetto, il design della moda però non può eludere altre questioni più aleatorie ma assolutamente costitutive la moda medesima: le questioni identitarie, le dimensioni dello spettacolo, il desiderio, il sesso, gli immaginari. Infatti anche questi aspetti sono aggrediti con procedimenti e riflessioni metodologiche specifi-che, che rendono il design della moda molto significativo per il design tutto.

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Le pratiche design della moda hanno elaborato una serie di strumenti per lavorare alla definizione degli immaginari. Per esempio attraverso una declinazione della forma atlante iconografico – il mood board –, che comporta una grande e disinibita voracità nei confronti della cultura visuale (Smith 2001). Le metodologie del mood board sono simultaneamente capaci di orientare un percorso creativo personale e collettivo, oppure sono importanti nella definizione di un prodotto e nel controllo del processo di produzione industriale di una collezione. Inoltre, il progetto della moda non si riferisce quasi mai a un solo oggetto, ma all’insieme di oggetti di una collezione che necessariamente si struttura intorno a una narrazione. Il design della moda riesamina le convenzioni e le ridiscute con operazioni concettua-li – come tutte le discipline del progetto. D’altro canto, il confronto con le procedure artistiche avviene in modo molto diretto: i termini “creazione”, “ispirazione”, “musa”, che nel mondo dell’arte sono stati aboliti da molto tempo, qui sono vivi e utilizzati in modo assolutamente laico e prammatico per designare tecniche e momenti della pratica progettuale e produttiva con semplicità pop e molta efficacia.Nel sistema della moda, che è inclusivo e non leggibile con una sola logica, convivono attitudini diversissime: dimensione artigianale e industriale, alta e bassa tecnologia, alta e bassa definizione. Infatti il fashion design talvolta ostenta una artigianalità anacro-nistica, che spesso è una maschera assolutamente necessaria per confrontarsi con l’industria e le nuove esigenze di esattezza. La moda pratica un’idea d’innovazione che non scaturisce necessariamente dal confronto con le nuove tecnologie, ma che implica degli scarti, dei rapporti con un’idea di heritage da progettare; la moda intrattiene una relazione complessa e circolare con il tempo e la memoria.La moda, come anche l’architettura, lavora sui temi dell’identità: identità collettive e di comuni-tà transitorie, identità individuali nella società globale. Affronta esplicitamente anche il design dell’identità di genere, senza eludere il confronto con il simbolico e la dimensione del sesso.La moda ostenta la capacità di intercettare un pubblico e di essere effettivamente penetran-te e diramata a livello di consumo, anche perché il progetto della moda è legato a un’idea di coinvolgimento intimo e simultaneamente spettacolare. Questi sono temi ineludibili per le culture del progetto, ma la moda li affronta con maggiore evidenza e dispiegando sofisticate tecniche.

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Il quaderno è diviso in quattro parti. Nella prima sezione, quella che abbiamo definito dell’analessi, vale a dire del flashback, consideriamo alcune esperienze didattiche conso-lidate e che consideriamo parte della nostra scuola, sia a livello di patrimonio identitario che di metodologie. Confluiscono in questa sezione i contributi di Maria Luisa Frisa, Maria Bonifacic, Patrizia e Samanta Fiorenza, Anthony Knight ed Ethel Lotto. Abbiamo intitolato la seconda sezione prolessi con l’obiettivo di rivolgerci al futuro e discutere nuovi atteg-giamenti di ricerca, nuove esigenze conoscitive di docenti, ricercatori e studenti. Questa sezione raccoglie i contributi di Alessandra Vaccari, Simone Sbarbati, Gabriele Monti, Maria Cristina Cerulli, Amanda Montanari, e Desamparados Pardo Cuenca. Le due sezioni principali sono separate dall’album fotografico Be My Guest di Francesco de Luca e Laura Bolzan, racconto per immagini della vita della scuola dal 2008 a oggi. Il volume si chiude con la trascrizione della tavola rotonda, momento finale del seminario in cui sono raccolte le riflessioni conclusive di tutti i partecipanti e gli interventi di alcuni studenti, che hanno preso parte alla discussione.

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Analessi

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INSEGNARE IL DESIGN DELLA MODA:L’ESPERIENZA DELLO IUAV

Maria Luisa Frisa

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Desiderio, disciplina, produttività. Tre parole, prese a prestito dall’artista Matthew Barney (Spector 2006), per inquadrare il progetto formativo nell’ambito della moda che all’Università Iuav di Venezia è iniziato nel 2005, quando sono stata chiamata da Marco De Michelis a fondare e a dirigere il corso di laurea in Design della moda.Oggi il corso di laurea si è intenzionalmente trasformato in un percorso che mette a con-fronto la moda e l’arte contemporanea, due discipline che possiamo considerare ugualmente progettuali, soprattutto se le inquadriamo nel comune orizzonte rappresentato dalla cultura visuale contemporanea. Nella quotidianità del nostro lavoro nel percorso in design della moda riflettiamo sulla continua messa a punto di un progetto formativo in grado di costruire – nel nostro paese una vera e propria sfida – una scuola italiana di moda, che attraverso la combinazione simultanea di riflessione concettuale e progettazione si impegni a ricercare un’identità italiana della moda, le peculiarità della moda italiana.All’Università Iuav di Venezia un gruppo internazionale di docenti, fra i quali spiccano i nuovi rappresentanti della moda italiana, riflette sulla progettazione della moda, ma anche sugli strumenti immateriali e visionari che servono per la messa a punto di un percorso di ricerca (Frisa 2008; Frisa 2011). Un percorso consapevole del fatto che la creatività si radica nel conflitto e che agisce per disciplinare e canalizzare tensioni e desideri. Creatività e ricerca interdisciplinare. Creatività e attivismo. In una dimen-sione dinamica che vede l’intera comunità formata da docenti e allievi mettersi in discussione ogni giorno.Allo Iuav insistiamo sulla forza del progetto formativo nel suo insieme: siamo contro l’idea di veloci, immediati, facili corsi brevi con etichette appealing che occhieggiano le tendenze del momento (oggi lo stylist e il blogger come ieri il cool hunter). Le nuove direzioni del fashion sono invece trattate come elementi che inseriamo immediatamente nel percorso formativo inteso come piattaforma mobile e articolata, dove i laboratori di progettazione sono contenitori vivi nei quali gli studenti sperimentano il fare e il pensare, con un approccio vicino al critical design (Dieffenbacher 2013; Dunne e Raby 2010). Puntiamo sul fornire ai nostri studenti strumenti precisi e nello stesso tempo aperti, perché la realtà della moda lo esige; puntiamo su una cultura progettuale fatta di conoscenze transdisciplinari, che non si pone limiti, si mette in discussione, agisce in modo complesso e con attitudini curatoriali.

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LEARNED IN ITALIA

Maria Bonifacic

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Cosa significa insegnare moda in Italia oggi? Proverò a raccontare quella che è stata la mia esperienza e riflettere su questa domanda. Sono sei anni che insegno, inizialmente agli studenti del primo, poi a quelli del secondo anno della laurea triennale in Design della Moda all’Università Iuav di Venezia. Durante questo tempo la struttura base dei miei corsi è rimasta essenzialmente la stessa – essendo l’obiettivo principale quello di dare agli studenti la possibilità di sperimentare varie tecniche provando poi a metterle in pratica nella progettazione. Lezioni e workshop collettivi sono combinati con un progetto individuale; e la presentazione finale su modelli, le installazioni e la mostra di fine anno sono una parte integrante del processo d’apprendimento. Ogni corso è stato un’esperien-za d’insegnamento unica, e ogni volta la sorpresa che aspetti sta in ciò che gli studenti portano all’interno di questo viaggio. I cambiamenti che ho apportato ogni anno, ricali-brando ed evolvendo il mio approccio, sono stati una risposta a quanto gli studenti mi hanno insegnato. Ogni anno sono meravigliata dalle strade che essi percorrono, di quanto lontano possano andare se entrano nel flusso delle cose.

Nei laboratori del primo anno, il progetto era creare un abito, una scarpa, un ornamento e una borsa fino al livello di un prototipo in tela. Nei laboratori del secondo anno, il proget-to è una collezione di abiti composta da tre silhouette incluso un elemento per la testa, uno per i piedi e uno per portare cose, tutto realizzato in tessuti e materiali definitivi. Anche se il programma del corso di laurea specifica che il focus dei laboratori che inse-gno è il vestito, ho sempre integrato anche gli accessori perché trovo che quando prendi in considerazione l’intero corpo, influisci sullo sviluppo progettuale degli abiti stessi. Il territorio primario della moda è il corpo, quello che indossiamo e come appariamo, il che incide su come ci muoviamo e cosa facciamo. Le pratiche legate al nostro apparire materiale sono una parte importante di come definiamo e comunichiamo le nostre identi-tà nello spazio e nel tempo. La moda racconta storie attraverso abiti e oggetti, attraverso i numerosi elementi che compongono il vocabolario vestimentario e l’espressione corpo-rea. Costruisce ponti di ogni genere.

Quindi esattamente cosa facciamo? Passiamo ogni lunedì e martedì insieme per tre mesi. Cuciamo. Disegniamo. Lavoriamo all’uncinetto. Fotografiamo. Costruiamo cartamodelli.

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Collezioniamo cose e le connettiamo. Progettiamo abiti e altre cose. Guardiamo quel-lo che la gente indossa oggi e quello che portava una volta. Parliamo. Drappeggiamo, tagliamo e interveniamo sui tessuti. Lavoriamo a mano per stabilire una connessione viscerale con quello che facciamo, per portare le cose a scala umana. Prendiamo una vacanza dalle riviste di moda e dagli stili-sti. Guardiamo altrove. Da dove veniamo. Alle cose che ci ispirano.

Qual è il mio approccio all’insegnamento della moda? Credo che impariamo tramite l’imitazione, la ripetizione e la sperimentazione. Come i bambini e gli animali. Ma l’at-teggiamento spontaneo e giocoso che accompagna l’apprendimento nei primi anni di vita è spesso, in gradi diversi, represso o deviato verso altri fini mentre le persone crescono. Quindi, nel contesto universitario, direi che sono occupata meno nel provare ad aggiun-gere qualcosa e piuttosto concentrata sul togliere e disfare. Qualcosa del tipo: meno analisi razionale, più fare tramite il sentire. Spesso è una questione di cercare di rimuo-vere ostacoli che ci impediscono di essere pienamente nel mondo, e di godere di quello che stiamo facendo. Si tratta di recuperare il nostro istinto per poter entrare in contatto con ciò che veramente ci tocca. Nel laboratorio cerco di coltivare una connessione vita-le fra mano, occhio e cuore, perché credo che il buon design nella moda è radicato nel trittico manualità, visione e sensibilità. Allora cerco di condividere delle cose in classe che permettono agli studenti di osservare in modo nuovo ciò che li circonda, e di trovare il “loro”modo di parlare la lingua della moda. Il mio lavoro è incentrato sul dare a ognuno la possibilità di trovare o di raffinare la propria voce unica. Le loro collezioni, alla fine del corso, sono molto diverse le une dalle altre. In questo senso, chiamerei il mio stile d’insegnamento “sartoriale”.

Il che mi porta all’Italia. Un tema centrale. Io penso che le coordinate biografiche, il chi sei e da dove vieni, siano il punto di partenza per qualunque storia. Questo rimane valido se stiamo parlando del lavoro degli studenti oppure di quello che insegniamo nei nostri corsi. Chiedo sempre ai miei studenti di cominciare dai loro con-testi personali quando iniziano a lavorare sul progetto principale. Perché le tue radici ti tengono saldo, ti orientano. Ti insegnano che il valore non è qualcosa di oggettivo ma

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soggettivo. Ha senso iniziare dal tuo contesto perché è ciò che conosci meglio, e che dà il contrappunto necessario ai temi più ampi. Si tratta di connettere. Locale e globale. Specifico e generale. Personale e universale. Vanno insieme, si bilanciano.Anche se non sono italiana, è qui che insegno ed è da qui che la maggior parte dei miei studenti provengono. Poi l’Italia è uno dei paesi chiave nel sistema globale della moda. Mi sembra naturale e necessario comprendere cosa vuol dire studiare design della moda in questo paese, cercare di capire e definire cos’è la moda italiana, di aiutare a dare dire-zione al suo futuro. Cosa vuol dire “learned in Italia”? È una domanda che il nostro corso di laurea sta ponendo e alla quale sta dando risposte.

Quando penso all’Italia, penso a calore, sensualità, lentezza, famiglia, storia. Il tutto a colori. Molte delle cose che mi vengono in mente sono associate alla lavorazione e al piacere della vita quotidiana e della cultura materiale. È l’intramontabile ritornello del “buon cibo, buon vino e buona compagnia” in un luogo bellissimo. Sta come un invito aperto che chiama tutti noi. Quando penso alla moda italiana, penso a sartoria, design, tessuti, artigianato, eleganza rilassata. E alla tradizione che è di casa nel mondo contem-poraneo. Sono generalizzazioni, certo. Ma credo sia importante individuarle e analizzarle con attenzione. Il passo successivo è saturarle con i dettagli discordanti e rinfrescanti delle mille realtà che hanno a loro dato vita.

Gli italiani non solo fanno abiti, accessori e tessuti ma amano vestirsi e assegnano un’im-mensa importanza e piacere al linguaggio della moda. Sono molto consapevoli del suo pote-re e lo utilizzano. E questo vale per tutti. Non è limitato a una singola classe sociale oppure a pochi gruppi o professioni. I risultati di questo esercizio collettivo si possono vedere ogni giorno nelle strade e nelle case di questo paese. A me questo sembra un importante aspetto distintivo, visibile anche nella tipologia di moda che gli stilisti e le aziende italiane propongono. Creano cose di stile che puoi portare anche ogni giorno. Potremmo anche rovesciare questo e dire che gli italiani sanno come portare “qualunque” cosa con stile. L’etichetta del made in Italy è la condensazione di tutto questo in tre parole e continua a sedurre il mondo. È il racconto della “dolce vita” in scarpe, calze, giacche, abiti, ombrelli, occhiali, camicie e borse.

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Racconti e ponti. Vorrei distillare il discorso fino a questo livello. Tutte le cose sono in essenza racconti. In una forma o in un’altra. Un buon racconto è un piacere a cui uno torna e ritorna. Un racconto funziona, riesce a essere sentito e ricordato, perché crea ponti. Fra passato, presente e futuro. Fra una persona e il prossimo. Fra qui e là. Se nessuno comprende quello che stai dicendo, chi vorrà ascoltarti e soprattutto perché dovrebbe? Saper raccontare bene riguarda anche rendere il misterioso comprensibi-le mentre si restituisce il mistero alla collettività. Qui il gioco entra in scena. È un equilibrio vitale. Uno stato di grazia che tutti possiamo raggiungere – premesso che siamo aperti a esso, disponibili a divertirci, a rischiare. Da dove sto io, chiunque può raccontare una storia nel linguaggio della moda, se lo vuole. Il talento non è qualcosa che hai o non hai – è una questione di atteggiamento.

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LOST AND FOUND IN TRANSLATION

Patrizia Fiorenza e Samanta Fiorenza

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Disegnare-insegnare

Cessare di pensare in modo creativo differisce di poco dal cessare di vivere. Benjamin Franklin

Insegnare la moda significa trovarsi contemporaneamente all’interno e all’esterno del progetto stesso. Definire le metodologie e un programma che possono essere utili nel trasmettere il processo creativo è come trovarsi in un permanente stato di dualismo, tra l’essere un designer di professione che traduce attraverso il segno che lascia su superfici, una sua visione, im-pressione o interpretazione, e l’essere docente; insegnare a studenti metodologie, processi e capacità che forniscono una base di conoscenza specifica che può essere utile nella definizione di un proprio linguaggio.

Disegnare v. tr. [lat. desîgnare, der. di signum«segno», col pref. de-] (io diségno, ecc.: v. segnare)Designer ‹di∫àinë› s. ingl. [der. di (to) design «disegnare, progettare»; v. design] (pl. designers ‹di∫àinë∫›), usato in ital. al masch. e al femm. Docènte agg. e s. m. e f. [dal lat. docens-entis, part. pres. di docere «insegnare»]Insegnare v. tr. [lat.*insîgnare, propr. «imprimere segni (nella mente)», der. disignum «segno», col pref. in-1]. (Treccani.it)

Design noun. A plan or drawing produced to show the look and function or workings of a building, garment, or other object before it is made. Origin. late Middle English (as a verb in the sense ‘to designate’): from Latin designare ‘to designate’, reinforced by French désigner. The noun is via French from Italian. (Oxford-dictionaries.com)

Nell’individuare le radici comuni delle definizioni latine di disegnare-insegnare (Ottonello 2001) si evince che il designer che impartisce la propria conoscenza ed esperienza sia consapevole che, nella sovrapposizione dei ruoli, si crea un’area di transizione indefinita, dove i segni da “imprime-re”, attraverso il laboratorio, sono gli stessi o simili a quelli che sono impressi sulla carta dal desi-gner. È quasi come se il trasferimento dei processi metodologici associati alle capacità artistiche e tecniche si delineasse in forma lineare e facile, sia da insegnare, sia da apprendere. Nell’ambiguità tra insegnare e apprendere metodologie e capacità tecniche e artistiche, c’è un’area d’incontro tra studente e docente, tutor o professore, che diventa in sé parte integrante del processo creativo.

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Nel creare e definire tale area d’incontro all’interno dei laboratori di design e progettazione della moda, abbiamo l’opportunità di creare un dialogo continuo tra il sapere e l’imparare, tra quello che è già stato espresso e quello che deve ancora essere esplicitato. Nel capire come trasmettiamo queste idee e con quali difficoltà, si crea una fucina non solo di idee progettuali, ma anche di “domande” sull’insegnamento. Ci si chiede, allora, se il segno impresso deve essere sempre lo stesso, standardizzato, seguendo modelli anche forniti dall’industria o se è più importante che ogni studente sviluppi un chiaro segno personale, con un proprio tratto e un inconfondibile approccio progettuale. Analizzare l’insegnamento della moda ci pone davanti a una serie di domande che innescano la curiosità di chi disegna per professione o per formazione (designer, artista e studente) e chi insegna per professione (designer, professori, tutor, docenti).

Chi insegna oggi il design della moda e degli accessori e con quali difficoltà? Che tipo di studente si iscrive alle prove d’ingresso? L’istruzione di base (scuola elementare, media e superiore) è efficace nel preparare lo studente che intende iscriversi a un corso triennale in Design della moda e Arti multimediali? Quanto conta il talento e l’attitudine naturale per il disegno e/o per il design? È un equilibrio tra capacità naturali e capacità acquisite? Quali strumenti e metodologie possiamo usare per velocizzare l’assimilazione e l’apprendimento di capacità artistiche/tecniche nel design della moda/accessori? La natura breve (tre mesi) del sistema di laboratori è di beneficio allo studente? L’introduzione di tecniche di modelli usati all’estero funziona in un contesto italiano? Quanto è gestibile un modello che focalizzi l’attenzione sulle capacità individuali dello studente? Quali metodologie artistiche e tecniche sono più adatte ai tempi e alla struttura del laboratorio? In un’era in cui la figura del ricercatore e il designer sono spesso la stessa persona e dove la conoscenza acqui-sita attraverso la pratica equivale alla ricerca e in un futuro dove design led projects and research saranno in aumento, si può pensare a modelli e strutture che portano lo studente alla sperimentazione creativa e al contempo alla sperimentazione scientifica? Insegnare il design della moda è insegnare anche a fare ricerca?

A nostro avviso la curiosità del designer non è molto diversa dalla curiosità del ricercato-re universitario o del docente. C’è una analoga esigenza di ricerca in entrambi i casi. C’è bisogno di conoscenza e di ricercarsi nel progetto, una ricerca che si basa su parole e

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immagini, per uno scopo teorico oppure per un progetto artistico. Limitare la definizione di “ricerca” a un’unica interpretazione risulterebbe sminuente sia nel campo della ri-cerca progettuale, sia nel campo della ricerca teorica. Inoltre un costante richiamo alla definizione della parola ricerca all’interno di una sfera puramente accademica rischia di allontanare lo studente e il designer dal perfezionare una ricerca visiva condotta in prima persona, per scoprire il suo punto di vista, la sua interpretazione, anche se sbagliata, di tutto quello che lo circonda.

Oggi il design della moda è insegnato sia da figure accademiche – docenti e professori – sia da designer, artisti e altre figure professionali che trasmettono agli studenti le loro esperienze nell’area specifica. Nell’incontro tra teoria e pratica, lo spazio del laboratorio e dell’aula diventa un importante campo di prova, sia per lo studente, sia per i docenti professionisti o accademici. Ma le prove più interessanti accadono quando l’università incontra spazi e trova confronti al di fuori delle mura dell’istituzione. Il designer che in-segnare la disciplina deve conoscere ogni singolo passaggio del processo progettuale per la realizzazione di una capsule collection – professionale e industriale – e deve cogliere nella scomposizione dell’iter progettuale gli elementi chiave per [ri]costruire un percorso programmatico volto a studiare ogni fase in modo chiaro e fluido, con una struttura aper-ta e flessibile per poter insegnare agli studenti, lasciandoli liberi nel loro spazio mentale per sperimentare le loro capacità, il loro approccio al progetto, e le relative tracce di una ricerca visiva e personale. C’è un altro fattore che a nostro avviso contribuisce a definire la figura professionale del docente. Il rapporto con lo studente diventa un’esperienza tra designer professionista e aspirante designer: si trovano nello stesso spazio, parlando del progetto e di tutto quello che comporta, risolvendo gli stessi problemi di design e condividendo un linguaggio visivo comune.Nel trasmettere il saper fare, le attitudini e le capacità progettuali, si tenta di creare uno spazio dialogico, in cui lo studente abbia la possibilità di sperimentare, sbagliare e crescere.Approcciarsi all’insegnamento implica l’uso di metodi e strutture che richiedono sia la sospensione di un giudizio creativo legato ai preconcetti su quello che è il design della moda, sia l’assumersi la responsabilità del proprio lavoro. L’insegnamento che sottolinea la priorità del laboratorio come uno spazio di dialogo, tra chi si occupa e chi si occuperà

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di design, ci fornisce l’opportunità di esplorare il rapporto, al contempo semplice e complesso, tra designer e aspirante designer, e di analizzare quello che intendiamo con le espressioni “dialogo artistico” e “ricerca personale”.Decidere d’iscriversi all’università è una scelta, ma decidere d’iscriversi a un corso di laurea in Design della moda dovrebbe essere una scelta che comporta iniziare a vedere se stessi come designer; de signum: qualcuno che in parte è definito dal segno che intende lasciare come traccia del suo essere designer, inteso sia come segno o segni che coglie nella sua mente, sia come segno raccolto fisicamente sulla carta.Se lo studente sceglie di indirizzarsi al mondo del fashion design dovrebbe sentirsi già coin-volto durante il suo percorso all’interno del laboratorio, trovando non solo risposte ai problemi di design ma anche avviando una ricerca che genera domande e relative risposte progettuali, intercettando stimolanti percorsi creativi. Innescare questo costante e fluido gioco di domande e risposte (call e response), promosse inizialmente dal docente allo studente, è fondamentale per poter capire il progetto e l’iter progettuale nella sua complessità. Questo crea una situa-zione ambivalente nella quale il docente non dovrebbe fornire risposte da designer, piuttosto concentrando la propria attenzione sulle metodologie, le attitudini e le capacità con le quali lo studente potrà formulare un discorso progettuale.La curiosità nello scoprire quale sia un nostro discorso concettuale, fatto di parole, segni e im-magine, o una personale interpretazione di una realtà immaginaria, diventa percorso, scoperta, indagine creativa; e infine per ogni designer e studente, una ricerca.

Gli sketchbook e le fonti primarie

L’immaginazione è più importante del sapere. Albert Einstein (Osborne 1992)

Queste considerazioni ci portano, a nostro avviso, a un punto importante. Perché ci soffermia-mo con insistenza sull’uso dello sketchbook, sulla ricerca visiva accumulata e “schizzata” direttamente da fonti primarie e sulla ricerca che focalizza l’attenzione dello studente sul progetto generato dalle sue stesse osservazioni, dal suo sguardo unico sul mondo?Diversamente da noi, che abbiamo compiuto il nostro percorso formativo in Inghilterra, la maggior parte degli studenti che si iscrivono al corso in Design della moda spesso non

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proviene da una formazione di tipo artistico. Inoltre, il percorso formativo a livello universi-tario in Italia non prevede l’equivalente anglosassone della formazione pratica e teorica di base attraverso il Foundation Course, Pre-Foundation Course o Professional Portfolio Course. Altra difficoltà che si incontra è paradossalmente posta da studenti che hanno completato un percorso formativo superiore (pre-universitario) in istituti professionali di moda, che spesso propongono un’idea del progetto che mette in evidenza modelli generici, e che lascia poco spazio alla sperimentazione, generando nello studente abitudini a tratti stereotipati. Tuttavia insegnare moda a un gruppo di studenti numeroso e dalle varie esperienze formative pregresse, ci offre la possibilità di sperimentare nuovi modelli. Partendo dal presupposto che il modello di formazione artistica inglese è un esempio consolida-to da studiare a fondo, con quali modalità potrebbe essere sperimentato in Italia? In quale contesto si insegna la moda oggi? Quali sono i tempi a disposizione? Come potrebbero essere introdotte con successo alcune metodologie del Foundation Course in un corso di design della moda in un’università italiana? E, se fosse possibile, come andrebbero gestiti il programma e il percorso? Un programma “tabula rasa”, che richiede a ciascuno studente un percorso individua-le? Quale potrebbe essere un punto d’inizio che vale per tutti, a qualsiasi livello di formazione?L’esigenza di trovare sia una struttura aperta per un programma in design della moda, sia un punto di partenza comune a tutti, ci ha permesso di riflettere e analizzare gli strumenti di lavoro che usiamo nel nostro percorso: con quale metafora possiamo identificare il percorso creativo come un modo di pensare e vivere il progetto di moda?

Nel cinema l’immagine che vediamo sullo schermo era passata anch’essa attraverso un testo scritto, poi era stata “vista” mentalmente dal regista, poi ricostruita nella sua fisicità sul set, per essere definitiva-mente fissata nei fotogrammi del film. Un film è dunque il risultato d’una successione di fasi, immateriali e materiali, in cui le immagini prendono forma; in questo processo il “cinema mentale” dell’immaginazione ha una funzione non meno importante di quelli delle fasi di realizzazione effettiva delle sequenze come verranno registrate dalla camera e poi montate in moviola. Questo “cinema mentale” è sempre in funzione in tutti noi, — e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema — e non cessa mai di proiet-tare immagini alla nostra vista interiore. (Calvino 1988: 94)

In questa citazione di Italo Calvino troviamo fotogrammi, pensieri, concept che scorrono nelle teste di tutti, in una costante moviola, un’idea di “vedere mentalmente” che viene frequente-mente utilizzata dagli studenti in modo implicito quando dicono: “ho tutto qui, nella testa”.

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Tuttavia è evidente che un progetto deve diventare materia; il designer e lo studente hanno bisogno di trasferire e bloccare quei fotogrammi. E se questo “cinema mentale” appartiene a tutti noi, serve pure uno strumento di facile uso, una superficie sulla quale trascrivere e custodire queste proiezioni mentali, che devono diventare materiale fisico al quale poter attingere, un diario visivo di esperienze e interpretazioni di visioni personali; per questa ragione chiediamo agli studenti una ricerca visiva costruita e ar-chiviata in una serie progressiva di sketchbook. L’abitudine di tenere uno sketchbook è di uso comune sia per i designer, sia per gli artisti e lo studente dovrebbe già conoscere questo strumento e introdurlo fin dal primo giorno di laboratorio. Lo sketchbook è il punto d’incontro con il docente, ma anche con gli altri studenti. Negli sketchbook troviamo i segni di un percorso individuale, di una ricerca culturale, storica e arti-stica che è un inconfondibile percorso personale: tratti, segni e immagini sketched_in_a_book

e ritenuti dall’autore significativi per diventare un archivio, una collezione di dati in grado di testimoniare una ricerca costante.È evidente che partendo da questo concetto esperienziale, il percorso in questa fase è prettamente individuale, vissuto in prima persona, generato da uno sguardo unico. Prospettiva e interpretazione diventano esperienza e stesura dettata della ricerca, nel-la quale trovare una trama coerente. Questa fase del progetto è di grande importanza: lo studente la completa prima dell’inizio del laboratorio poiché deve imparare a gestire la sua ricerca autonomamente.Il progetto vero e proprio non nasce da un tema assegnato, ma dalle scelte che ciascun studente ha preso in questa prima fase, partendo da due sketchbook di rife-rimento - il primo di cultural studies e il secondo basato su una traccia artistica - dei quali viene richiesta l’elaborazione dei materiali scelti. I due sketchbook si trasfor-mano in uno strumento di dialogo, attraverso il quale chiarire quali idee, concept e/o narrative saranno alle base della collezione. È nella scelta di “cosa guardo?”, di “cosa raccolgo?” e di “come e con quale segno lo fisso sulle pagine?” che progressivamente viene individuato il progetto.Ovviamente la richiesta di completare una ricerca a vasto raggio relativa a quanto viene ritenuto interessante dai docenti, comporta una certa maturità da parte dello studente, che deve essere predisposto al cercare autonomamente i riferimenti

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utili per definire il percorso progettuale. Completare un’indagine di questo tipo, la routine e il tempo trascorso nel selezionare il materiale, portano a un’analisi visiva in stretta relazione con lo studente. Iniziare a raccogliere materiale, schizzi veloci, parole trascritte in fretta, idee che possono risultare banali nel rileggerle, acquisterà significato in un secondo tempo, attraverso la selezione e il montaggio inedito dei materiali raccolti, che possono confluire in un testo che avrà un senso per il designer. Nel costruire e decifrare il percorso viene scelta una via, un sentiero creativo tra i mille possibili, tra le infinite combinazioni e frammenti di storie che possono suggerire una traccia o tema progettuale. Tenere fisicamente lo sketchbook significa tenere un oggetto, un contenitore tangibile, un contesto progettuale, una raccolta di pensieri, speranze, idee, una stratificazione di intenti, probabili campi d’azioni, promesse scritte e disegnate che possono essere richiamate a volontà, e archiviate per un uso futuro. È un percorso fatto di tentativi e di errori, che si equivalgono come esperienze formative. È fidarsi dei propri istinti e delle proprie capacità, è capire quale sia la propria verità. “Ma dobbiamo conquistare la verità indovinando, o in nessun altro modo”, secondo le parole di Charles S. Peirce (1965-66).

Nella stesura del cultural studies sketchbook è importante capire in primis i segni e le tracce artistiche lasciate da altri, le quali ci permettono di iniziare a leggere e comprendere con quale mano e da quali segni siano stati tratti, dandoci l’opportunità e il tempo di individuare possibili modelli, esercizi, stili dai quali possiamo trarre ispirazione. Sia per il designer, sia per lo studente che si approccia alle discipline del fashion design e del design di accessori, capire con quale mano e con quale tratto potrà creare un proprio linguaggio visivo, attraverso lo studio del disegno e delle tecniche artistiche, si dimostrerà funzionale nell’individuare quali materiali, tecniche e processi creativi andranno sviluppati e applicati nel design e nella progettazione, motivando così lo studente ad attivare un personale discorso creativo.Nella fase della ricerca, che è anche spazio e tempo, è implicito che buona parte del percorso rimarrà nascosta dietro i frammenti scelti: alcuni materiali resteranno sospesi e inutilizzati, con la consapevolezza che un giorno si dimostreranno utili in altre situazioni progettuali, diventando così un linguaggio comune e condivisibile con altri, un compromesso

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che ogni designer accetta con l’intenzione di diffondere il proprio percorso progettuale.C’è un punto di partenza e una parte del percorso che è spazio individuale; uno spazio in cui è possibile capire e sviluppare un senso di quello che il progetto di moda e accessori sarà per il designer.Nella scrematura, dall’elaborazione del materiale iniziale e attraverso lo sketchbook artistico si deve iniziare a individuare la struttura del progetto e i punti essenziali della capsule collection.Fissare i punti cardine diventa sviluppo progettuale in questa fase; essenziale allo scopo finale di disegnare e creare una collezione che sia la trasformazione delle sue idee, anche se a volte in forma diluita in relazione alla necessità di condividere il progetto con chi sta al di fuori del progetto stesso. Diventa urgenza progettuale, meta-progetto, rende il progetto tangibile, lo definisce e lo porta entro limiti e parametri reali. Il designer è consapevole di questo mutamento di intenti e contenuti, ne è artefice. Le idee generate nello spazio degli sketchbook iniziano a prendere forma, le connessioni tra un’idea e l’altra portano alla fase successiva: il progetto esce e inizia a invadere lo spazio fisico dello studio, delle aule, delle case dello studente e del designer. In questa fase ovviamente c’è sempre il rischio che il percorso di ricerca possa non trovare una traduzione che sia comprensibile, rimanendo sospeso un una di-mensione di sogno, reale solo ed esclusivamente per il designer. Ma rimane un rischio calcolato. Iniziare a comprendere i tempi della moda - quando un disegno, un’idea, un tratto, un concept si possono esplorare, quando è il momento giusto per esternarli, sviluppandoli all’interno di una capsule collection - richiede istinto, equilibrio e maturità creativa. Più si è consapevoli del proprio senso della moda, più consapevoli si è del progetto stesso.Proponiamo di ribaltare l’affermazione di Paul Klee: “The eye follows the paths that have been laid down for it in the work” (Klee 2003: 48) in “The path laid down in the work follows that one created by the eye and hand”.Il percorso è sempre in un costante stato di mutamento: percorso e ricerca compiuta, fasi e metodologie, tempi e trasmutazione progettuale. C’è sempre un margine di opportunità per tornare sui nostri passi, come c’è sempre un margine di opportunità per cambiare il significato dei contenuti e i tratti di un determinato progetto, per il designer e anche per il pubblico.

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Il disegno e il design progettuale

Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Antoine-Laurent Lavoisier

Nel disegno esiste spesso un’insicurezza sia nell’approccio progettuale rispetto alla ricerca, sia nel tentativo di individuare uno stile personale nella grafica e nell’illustrazione per la moda. Questo senso di insicurezza e disagio è spesso infondato, creato non dalla mancanza di capacità progettuale, ma dall’essere stati progressivamente sottoposti a una formazione che non mette in primo piano il disegno come metodo per “pensare sulla carta”. Lo stato del pensiero e quello del disegno sono in costante movimento, nessuno di questi istanti è statico. Perché allora affidarci a modelli che standardizzano il disegno? E se il disegno è il linguaggio artistico con il quale il designer si dovrebbe esprimere, quale percorso progettuale dovrebbe seguire? Che sia più difficile trovare un tratto personale, piuttosto che affidarsi alla sicurezza delle tracce del figurino o del modello generico può offrire abbondante materiale di discus-sione. Trovare un tratto personale vuol dire fidarsi delle proprie capacità, della sicurezza nel mark-making, una fiducia quasi cieca nel lasciare un segno o tratto tangibile e personale su carta, evidenziando la nostre capacità o lacune nel disegno.Tuttavia è attraverso il disegno che ogni designer ha la possibilità di esprimere e sperimentare un nuovo linguaggio, un tratto che esce dalla pagina, con uno stile e un’energia che contraddistin-guono l’elaborato artistico. Il disegno e il percorso creativo collegano il percorso di ricerca com-pletato attraverso gli sketchbook, finalizzandolo alla fase progettuale. Disegni preparatori, design sheet, studi d’osservazione saranno oggetto di trasformazione. Infatti, dalla fase progettuale dettata dal materiale di ricerca degli sketchbook provengono il moodwall e il meta-progetto. È in questa fase che il disegno diventa progetto, perché disegnare non significa sempre progettare. Si disegna per fissare un’idea, per studiare ed esplorare le nostre impressioni, i concetti e le sug-gestioni, per elaborare e per comunicare, mentre nella fase progettuale sono implicati la ricerca e l’ideazione, lo studio di forme, linee, strutture e materie. È nel fare differenza tra disegnare e progettare che si individua un’antica sinergia fra disegno e progetto: quando disegnare diventa disegnare con l’intento di progettare, in questo caso moda e accessori (Cartago 1981).Si possono analizzare o ignorare le parole che sono impiegate nel fashion design. L’uso e lo studio di parole e termini progettuali comunque rende il percorso interessante; il design brief

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in se stesso diventa discorso, un percorso e progetto scritto a parole, tracce da seguire e interpretare. Interpretare il percorso permette di seguire e capire l’iter progettuale. Il semplice gesto di leggere il design brief sottolinea il fatto che, sia chi lo scrive, sia chi lo riceve deve capire le richieste con un linguaggio comune da condividere attraverso il percorso progettuale. Se le parole inerenti alla progettazione di una capsule collection vengono sostituite da imma-gini, telette, studi di volumi, strutture, colori e materiali, si sottolinea la temporaneità delle terminologie usate e destinate a essere auto-cancellate man mano che il percorso e il progetto diventano più chiari e la collezione si concretizza. Infine, la collezione narrerà se stessa, diventando storia da raccontare, creando e offrendo a sua volta una serie d’immagini alle quali saranno affidate frasi e descrizioni. L’uso e lo studio delle parole, coadiuvavate da termini progettuali, rendono comunque il percor-so interessante, solo se le parole durante la realizzazione della collezione vengono sostituite da immagini, telette, studi di volumi, strutture, colori e materiali. Sono spesso le stesse parole scritte nel design brief che hanno generato la collezione, sostenendo il percorso fatto. Non ci sono parole banali, solo interpretazioni banali di parole. La ricerca progettuale - che sia fatta di parole o di immagini - significa andare oltre, realizzando materiale per poter scegliere le tracce narrative, le storie e i concept più interessanti e forti da raccontare per mezzo della collezione. Creando storie che verranno condivise da altri, il designer da autore diventa narratore ed è nel cambio d’identità che il designer, allontanandosi dalla sua stessa storia, diventa consapevole che è il momento di crearne altre; ritornare a schizzare, annotare, rielaborare le micro-realtà di oggi, tirando a sé tutte le informazione che serviranno per innescare nuovamente il processo creativo, che dispone il progetto di moda intorno al corpo; il corpo come utopia, secondo l’interpretazione data da Michel Foucault (2008):

Il mio corpo, in realtà, è sempre altrove. È legato a tutti gli altrove del mondo. E, a dire il vero, è altrove solo nel mondo. Perché è intorno a esso che le cose si dispongono, è rispetto a esso, e rispetto a esso come rispetto a un sovrano, che ci sono un sopra, un sotto, una destra, una sinistra, un avanti, un dietro, un vicino, un lontano. Il corpo è il punto zero del mondo, là dove i percorsi e gli spazi si incrociano. Il corpo non è da nessuna parte.

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IL RUOLO DELLA MODELLISTICA NELLAFORMAZIONE DEL DESIGNER

Anthony Knight e Ethel Lotto

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*Hands on approach è stato scritto da Anthony Knight.

Hands on Approach *

— Non ho capito niente.— Che ansia!— Cos’è un cartamodello? Una cucitura? Come si infila la macchina?— Non so cos’è una macchina da cucire!Le mani tremano, gli studenti cominciano a piangere: benvenuti al Laboratorio di model-listica di Anthony Knight.Anche se le matricole arrivano “preparate” dopo aver ascoltato i racconti degli studenti che hanno già frequentato il corso, questo rito si ripete ogni anno, e si ripete sempre uguale. Io introduco il laboratorio con un approccio molto semplice, intrecciando nozioni di modellistica e di confezione.Ma i ragazzi vanno in tilt e la frase che si sente sussurrare tra i tavoli al termine della prima lezione è “adesso mi ritiro”. Il vero percorso didattico inizia al terzo incontro, dopo aver introdotto gli studenti agli elementi base della confezione per farli entrare in confidenza con l’aspetto pratico della manualità, alla quale attribuisco grande rilievo nella struttura del laboratorio. Come docente di formazione anglosassone, cerco di evidenziare gli aspetti stimolanti della modellistica, prendendo le distanze da una visione strettamente tecnicista della disciplina, mettendo l’accento sulle sua qualità di interprete del progetto di moda.Obiettivo del corso non è creare dei tecnici modellisti ma riuscire a portare, in un breve las-so di tempo, un gruppo eterogeneo di studenti generalmente orientati alla progettazione, ad uno stesso livello di conoscenza tecnica attraverso la prassi hands on approach e contem-poraneamente trasmettere una serie di informazioni legate ai concetti di misura, tipologia, genere, astrazione e soprattutto di traduzione e interpretazione. La modellistica opera un passaggio dal bidimensionale al tridimensionale, dal progetto al capo finito, ed è fondamen-tale che gli studenti conoscano gli strumenti, teorici e tecnici, che regolano questo passag-gio. Il corso quindi è strutturato per stimolare gli allievi a lavorare contemporaneamente sulla misura, sulle proporzioni e sulla bidimensionalità del progetto e del cartamodello e sulla misura, sulle proporzioni e sulla tridimensionalità del corpo e dell’abito. Il mio metodo didattico, perfezionato negli anni di insegnamento universitario, non prevede la costruzione diagrammatica dei tracciati base, ma introduce direttamente gli studenti alle tecniche di trasformazione del cartamodello attraverso il taglio e la pince, cardini del pas-

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** La modellistica come anatomia del progetto è stato scritto da Ethel Lotto.

saggio da bidimensionale a tridimensionale, inoltre tutte le informazioni teoriche e tecniche trasmesse trovano un’immediata applicazione nella realizzazione di prototipi in tela, per sti-molare gli studenti a comprendere la stretta connessione tra cartamodello e capo, a essere veloci sia nell’elaborazione logica che nell’esecuzione, per sottolineare l’importanza della confezione e della scelta dei materiali nella costruzione di un progetto di moda e soprattutto per renderli autonomi nei processi costruttivi connessi alla progettazione.Come detto in apertura, questo metodo spesso mette in difficoltà gli studenti che hanno alle spalle una formazione tecnica tradizionale perché aprendo all’interpretazione sovverte l’idea di una conoscenza basata su norme date come invariabili.

La modellistica come anatomia del progetto **

Una riflessione sul progetto dell’abito implica anche una riflessione sugli aspetti co-struttivi e sulle tecniche sartoriali. Le tecniche di costruzione, sia nella declinazione che pertiene al taglio, cioè la modellistica, sia in quella che si riferisce al drappeggio, cioè la tecnica del moulage, si fondano sui concetti di misura, geometria bidimensionale e tridi-mensionale, tipo, genere, anatomia, astrazione e sono uno strumento di razionalizzazione del corpo umano e del suo movimento (Lupano e Vaccari 2009), interpreti di un processo che tiene in equilibrio corpo, progetto e tessuto.Da un punto di vista storico la modellistica non ha sempre svolto un ruolo centrale nelle pratiche sartoriali. I primi cartamodelli nascono come guide per tagliare il tessuto senza sprechi e, anzi, il ricorso a questo strumento è visto come una carenza, una mancanza di abilità del sarto. La modellistica assume un ruolo preminente nel XIX secolo con l’evoluzio-ne dei sistemi di misurazione, la diffusione della macchina da cucire e soprattutto con la divulgazione dei cartamodelli attraverso le riviste di moda dedicate al pubblico femminile e con lo sviluppo della letteratura tecnica relativa al mestiere del sarto, tappa di una tra-sformazione che promuove l’evoluzione in senso scientifico della sartoria. Questo processo misura il passaggio da una posizione che preserva il sapere corporativo, trasmesso esclusi-vamente come lascito e legato al progetto per l’individuo, in stretta relazione con la rilevan-za che taglio e vestibilità dei capi assumono in ambito maschile, a una divulgazione delle conoscenze operative connessa al progetto per le masse (Emery 2005).

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In tale contesto, la modellistica, tecnica in costante evoluzione, è funzionale alla stan-dardizzazione e alla razionalizzazione del corpo umano e il cartamodello è un dispositivo indispensabile per l’ottimizzazione della produzione industriale. In questo processo di trasformazione è la stessa figura del sarto artigiano a cambiare e a indirizzarsi verso quel percorso che passando attraverso il mito del “creatore” porterà alla definizione della figura del fashion designer e del concetto di autorialità nel progetto di moda.In Italia, tradizionalmente, la modellistica viene trasmessa in percorsi formativi professiona-lizzanti, realizzati sia in contesti aziendali, sia all’interno di scuole di secondo livello e corsi di specializzazione. In tutti questi casi l’obiettivo è istruire una figura professionale speci-fica, un tecnico che “cura la realizzazione pratica delle idee dello Stilista”, come si legge nel Repertorio dei profili professionali (Global Form 2011: 14) messo online da un istituto secondario. Tale prospettiva definisce ruoli, competenze e capacità, ma separa nettamente le figure coinvolte nella definizione del progetto di moda. All’interno del percorso formativo del corso di laurea in Design della moda dell’Università Iuav di Venezia si riconosce alla modellistica un ruolo definito nelle pratiche progettuali. Attualmente il Laboratorio di modellistica è rivolto agli studenti del primo anno del triennio e si svolge nel primo semestre parallelamente al corso di Disegno e illustrazione per la moda con un focus comune sul tema dell’astrazione e della razionalizzazione del corpo e del suo movimento attraverso la rappresentazione bidimensionale, con l’obiettivo condiviso di stimolare gli studenti a definire una idea soggettiva di corpo. La struttura didattica del laboratorio è l’esito di una riflessione sulla modellistica intesa come analisi anatomica del progetto, come smontaggio, frammentazione, dove il taglio è trattato come il primo gesto di una connessione. È il risultato di un ragionamento sulla tecnica come strumento di un processo progettuale che mette al centro il corpo e le sue dinamiche. Nel cartamodello, infatti, sono presenti contemporaneamente il corpo e il capo; dove il corpo è un’astrazione, il capo è una riprodu-zione precisa; il cartamodello è uno strumento capace di contenere in sé la bidimensionalità del progetto e del tessuto e la tridimensionalità del corpo e del manufatto (Verhelst 2003).Il laboratorio presenta un percorso didattico volto a trasferire agli studenti gli strumenti necessari per la definizione di un processo progettuale consapevole delle caratteristiche e del significato delle tecniche sartoriali, concorrendo a mettere in luce le diverse atti-

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tudini progettuali e lavorando sulle capacità interpretative e di traduzione del progetto (Seivewright 2010). Il disegno del tracciato base di un modello è dato come assunto e gli studenti stimolati a individuare tracciati base personali, anche attraverso lo smontaggio e la ricostruzione bidimensionale (cartamodello) e tridimensionale (capo finito) di capi esistenti, con l’obiettivo di comporre un archivio di riferimento per la progettazione. Il programma prevede l’analisi dei tipi fondamentali che compongono il guardaroba maschile e femminile, in un’ottica di superamento delle distinzioni di genere, utilizzando un procedi-mento di scomposizione degli elementi base per definire un “catalogo” cui attingere per la costruzione di un linguaggio personale. La metodologia didattica ibrida la tecnica sartoriale con la tecnica industriale per rendere gli studenti autonomi nella definizione di forme e volumi attraverso le trasformazioni del cartamo-dello e capaci di dialogare con i tecnici professionisti della produzione industriale, in quest’otti-ca di collaborazione operano anche le esercitazioni di gruppo previste dal laboratorio. Sebbene attualmente il corso di laurea non preveda l’insegnamento delle tecniche di mo-dellazione digitale per la moda, sono manifesti un interesse e un’apertura verso lo sviluppo delle nuove tecnologie applicate al design della moda, in particolare in relazione al loro rapporto con il mondo dell’industria.

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Album

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BE MY GUEST: 2009-2014

Foto di Francesco de Luca e Laura Bolzan

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Le immagini raccontano sei anni di vita accademica di studenti, docenti e tecnici che hanno popolato i corridoi e i laboratori della sede di Treviso dell’Università Iuav di Venezia. Ogni fotografia è una storia dietro al lavoro dei giovani designer, dalla progettazione fino al backstage delle sfilate di fine anno.

Voyeur :: Shooting per BA_Walk, servizio fotografico con i lavori più rappresentativi dei finalisti per BA_Walk :: Iuav Gradu-ation Show [laurea triennale], sede Iuav, Treviso

2010

Newcomers, mostra con i progetti dei migliori neolaureati, sede Iuav, Treviso 2009

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Work in Progress :: laboratorio di progettazionesede Iuav, Treviso

2009

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Filing Fashion :: Pre-Runway Shootingfashion design: Niccolò Magrelli, modello: Federico Gattosede Iuav, Treviso

2010

Filing Fashion :: Pre-Runway Shootingritratti dei fashion designer Federica Toffoletto, Mauro De Marchi, Manuele Scapin e loro progetti, sede Iuav. Treviso

2010

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AMENfashion design e styling: Kristian Guerra, modello: Andrea VanniniClinicaurbana, Treviso

2010

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Passato Imperfettofashion design: Cristina Cerulli, modella: Linda TurkovicClinicaurbana, Treviso

2010

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Fresh Trashfashion design e styling: Andrea Tramontan, modella: Francesca BertiniClinicaurbana, Treviso

2010

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Fashion at Iuav :: In The Makinginstallazione a cura di Maria Bonifacic, sede Iuav, Treviso

Fashion at Iuav :: In The Makingbackstage della mostra a cura di Maria Bonifacic e Judith Clark, sede Iuav, Treviso

2010

2010

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Elda Cecchele: In forma di tessutomostra a cura di Maria Luisa Frisa con Gabriele Montiallestimento di Mario LupanoSchio, Lanificio Conte5 dicembre 2010-20 febbraio 2011

2011

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Ritratto di famigliala community dei corsi di laurea Iuav in Design della modasede Iuav, Treviso

2011

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Newcomersritratto di Valentina Sannasede Iuav, Treviso

2011

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Newcomersi ritratti dei neolaureatisede Iuav, Treviso

2011

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Fashion at Iuav :: End of Year Showpresentazione esiti del laboratorio di Menswear Design, magistrale in Design della modadocente: Fabio QuarantaIstituto Riccati Luzzati, Treviso

2011

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Fashion at Iuav :: End of Year Showpresentazione esiti del laboratorio di Knitwear Design, magistrale in Design della modadocenti: Michel Bergamo, Cristina ZamagniIstituto Riccati Luzzati, Treviso

2011

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Fashion at Iuav :: MA Graduation Showsfilata delle migliori collezioni della magistrale in Design della moda, nella foto il progetto di Niccolò MagrelliRiviera Santa Margherita

Habitus :: Pre-Runway Shootingle migliori collezioni presentate durante Fashion at Iuav :: BA Graduation Show, sfilata della triennale in Design della modanelle immagini i progetti di Gianluca Ferracin, Linda Turkovic, Mirka Beltrame, Annalisa Cescon

2012

2012

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Newcomersi ritratti dei neolaureati in Design della moda, sede Iuav, Treviso

Fashion at Iuavpresentazione esiti del laboratorio di Knitwear Design, magistrale in Design della modadocenti: Michel Bergamo, Cristina Zamagni

2012

2012

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Fashion at Iuav :: BA_Walk: Reflection in the Silver Eyesfilata delle migliori collezioni della triennale in Design della modaregia: Kinkalericortile della scuola elementare Edmondo De Amicis, Treviso

2013

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Voyeur :: Shooting per BA_Walkritratti dei designer finalisti della laurea triennale che hanno sfilato con la collezione abitonelle immagini Dimitri Leu, Jlenia Salvato, Edoardo Gallorini, Livia Raskusede Iuav, Treviso

2013

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Fashion at Iuav :: MA_Cut: Manual Landscapeperformance con le migliori collezioni della magistrale in Design della modanelle immagini i progetti di Andrea Chinellato, Anna Fregolent, Nicole Bidoliregia: Kinkaleri

2013

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Last Embraceservizio fotografico con gli esiti del progetto sperimentale di maglieria realizzato dalla magistrale in Design della moda per Pitti Filati in collaborazione con Maglificio Giordano’snelle immagini i designer Ekaterina Karpenko e Mattia Gobbo

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Punch Islandprogetto fotografico in occasione della mostra Re-visioni: Esercitazioni a partire da un study collectioncon gli studenti dell’insegnamento di Concept design della triennale in Design della modaSpazio Punch, Venezia

2014

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Prolessi

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L’USO DELLA STORIA NEL FASHION DESIGN

Alessandra Vaccari

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Il recente sviluppo della ricerca storica e culturale dedicata alla moda ha generato molte e nuove domande di metodo e contenuti, inducendo una espansione di interessi nei confronti della moda stessa, intesa come industria, cultura e strumento di progettazione del contem-poraneo. Questo intervento intende contribuire all’indagine sulle cause, ancora incerte, che hanno favorito tali interessi muovendo dall’ipotesi che il consolidarsi della didattica della moda in ambito universitario, tanto in Italia quanto a livello internazionale, abbia giocato un ruolo fondamentale negli sviluppi recenti della ricerca su storia e cultura della moda. In particolare l’intervento si focalizza sui possibili punti di contatto tra ricerca e didattica universitaria del design della moda, che è uno degli ambiti privilegiati in cui si è consolidata la formazione di tipo accademico. Per chi fa ricerca, quali sono gli stimoli e i limiti derivanti dal dialogo con il design della moda? E per chi studia design della moda, di quali strumenti ha bisogno per definire un punto di vista personale sulla moda e la sua storia?L’intervento fornisce elementi di comprensione del recente e non ancora del tutto compiuto processo di accademizzazione del design della moda. Si propone inoltre di esaminare criticamente il ruolo delle storie personali dei fashion designer nel negoziare visibilità e invisibilità della moda e di esplorare le connessioni tra analisi storica e design della moda attraverso il concetto di “uso della storia”, inteso come strumento a disposizione degli esseri umani per affrontare ciò che è nuovo.

(In)visibilità del fashion design

I fashion designer raccontano le loro storie professionali e esistenziali attraverso una varietà di mezzi che include, oltre ai loro progetti, memorie, interviste, testi in cataloghi di mostre, blog e post su social media. In che misura tali storie sono utili agli obiettivi conoscitivi dello storico e dell’analista culturale? Quali pregiudizi pesano ancora sui designer come soggetti e oggetti della storia della moda? Per rispondere a queste domande – e ancor prima per elaborarle – è stato per me utile insegnare in corsi di laurea con una forte impronta progettuale. Il contatto diretto con gli studenti di fashion design mi ha dato la possibilità di ampliare lo sguardo sulla moda, da un lato cominciando a includere i testi dei designer come oggetto delle mie esplorazioni storiografiche e critiche; e dall’altro considerando i designer stessi (a cominciare dagli studenti) come soggetti e presenze attive di tali indagini.

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L’(in)visibilità storica e culturale del fashion designer è stato il tema di due corsi che ho recentemente tenuto rispettivamente all’Università di San Paolo in Brasile, dove sono stata visiting professor nel settembre 2013, e tra ottobre 2013 e gennaio 2014 all’Università Iuav di Venezia, sede di Treviso, come parte del mio compito didattico. Durante questi corsi ho avuto modo di discutere insieme agli studenti il processo storico di definizione del fashion designer nell’ambito del sistema della moda occidentale; le sue attuali interazioni con la moda globale e lo squilibrio tra l’alta visibilità mediatica e la scarsa considerazione teorica dei fashion designer, dialettica che in questo testo è riassunta dall’espressione (in)visibilità (Vaccari 2012; Vaccari 2013).Il fatto stesso che il fashion design sia una delle figure più affascinanti e discusse prodotte in epoca contemporanea offre elementi fondamentali di comprensione della storia della moda occidentale degli ultimi secoli. Dal XIX secolo la moda occidentale è diventata un si-stema centrato sul design, ma che ha tendenzialmente escluso i fashion designer dalla sua stessa storia. Questa è sì profondamente legata alle storie individuali dei fashion designer, ma con un approccio perlopiù agiografico. I designer sono stati spesso emarginati come soggetti produttori di storia e lo si evince dal fatto che ciò che hanno detto e scritto su di loro e il loro lavoro resta ancora abbondantemente inesplorato. Tale corpus di letteratura include temi quali formazione, ambiente e metodi di lavoro, creatività, colleghi e clienti, vi-sioni culturali e politiche e ha avuto un grande impulso dall’inizio del XX secolo, in parallelo con il consolidarsi di un’idea di fashion designer come personaggio pubblico, autore e firma. Esempi noti includono le autobiografie di Paul Poiret (1930) e di Elsa Schiaparelli (1954); le conferenze di Christian Dior (2003) alla Sorbona negli anni Cinquanta; i diari colorati di Ossie Clark (1998) degli anni Settanta e l’intervista di Yohji Yamamoto nel docu-film di Wim Wenders Appunti di viaggio su moda e città (1989).In una prospettiva di storia culturale, l’analisi di ciò che i fashion designer dicono e scrivono permette di riflettere su come negoziano la loro (in)visibilità: tra riconoscibilità mediatica e marginalità teorica. Affinare il punto di vista degli studenti su questi temi, significa aiutarli a capire come inquadrare le loro esperienze progettuali; ma è anche un’opportunità per elaborare un metodo di lavoro che tenga conto della duplice condizione del fashion designer come oggetto e soggetto della storia. Nei due prossimi paragrafi sono contenute le prime e ancora parziali riflessioni emerse da questa indagine, che mi ha permesso di rilevare alcune

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peculiarità della storia della moda, come il suo bisogno di essere vicina al presente, e di ripensare le priorità della ricerca storica, che dovrebbe darsi l’obiettivo di mettere in luce non solo cosa la moda racconta, ma anche cosa non dice.

Uso della storia

La storia della moda è attenta al presente, probabilmente più di quanto non sia la storia, che sembra concedersi tempi di registrazione e sedimentazione più lunghi. Al contrario, nel loro lavoro didattico e di ricerca, gli storici della moda sono spesso chiamati a riflettere sul tempo presente della moda, accettando quindi il rischio di confrontarsi con le temporalità brevi. Per esempio, durante una mia lezione, un libro che tratta la storia della moda occi-dentale dall’inizio del XX secolo fino al 2007 è stato considerato da uno studente di design della moda dello Iuav come poco aggiornato.Il paradosso è che la moda sembra costretta al presente, ma fa continuamente riferimento al passato, alienando visioni e atmosfere e lavorando di assemblaggi. Quando si parla di uso della storia nel campo della moda e della sua progettazione ciò che viene in mente è l’idea di rivisitazione del passato, di storicizzazione del nuovo e anche di crisi della storia occi-dentale per effetto della globalizzazione e di sua reinvenzione (Appadurai 2005; Nora 1989). L’invenzione dei decenni come stile collegato a una scansione temporale, l’idea del vintage, dell’archivio e dell’heritage sono tutti aspetti del lavorio di uso e riabilitazione del passato a opera della moda. Sembra che la moda abbia il potere di fare dimenticare la storia e che chi si occupa di design sia chiamato a operare astoricamente, una condizione che Nietzsche (2006) attribuiva agli animali per il loro contatto continuo con il presente. Ne deriva una visione della storia limitata perché tende a non riconoscere il fashion designer come parte integrante del processo di costruzione della storia della moda.

Cosa la moda non dice

La prospettiva del fashion designer è centrale per affrontare cosa la moda non dice. Permet-te di esplorare fonti considerate dubbie dallo storico, per esempio le autobiografie, e sembra utile per riflettere sull’opacità delle narrative dei designer e sullo storytelling. I fashion

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designer producono scritti autobiografici con lo scopo esplicito di promuovere se stessi o il brand che porta il loro nome o che rappresentano in qualità di direttori creativi. Da un punto di vista storico, tuttavia, tali scritti dimostrano anche il ruolo che ai fashion designer è stato chiesto di ricoprire nella cultura occidentale della moda. Le autobiografie, d’accordo con lo storico Eric Hobsbawm, “sono autopsie in cui il cadavere pretende di essere il medico lega-le” in quanto scritte da “uomini e donne che hanno compiuto azioni che vogliono giustificare o documentare dinanzi all’opinione pubblica” (Hobsbawm 2002: 10-1). Per questa ragione la storica del design Denise Whitehouse (2009: 17) afferma che le memorie sono materiali conflittuali per lo storico e che bisogna sviluppare “strategie critiche per analizzare la retori-ca delle autobiografie dei designer”. Lo scopo è quindi di fornire un punto di vista alternativo a quello agiografico e interrogare l’approccio biografico, come la storia dell’arte, dell’architettura e della letteratura hanno già ampiamente fatto (Arnold, Ergut e Turan Özkaya 2006). Come nel caso di altri campi artistici e creativi, sarebbe utile anche per la storia della moda prendere in considerazione i testi dei fashion designer e analizzarli come strumenti di progetto, e non solo come documenti di identità e di lavoro creativo. A questo proposito, ci dovrebbe essere un maggiore ricono-scimento del ruolo attivo svolto dal fashion designer come narratore (Hancock II 2009). L’arte dello storytelling serve all’industria della pubblicità, ma è anche parte del processo di progettazione e si basa sulla partecipazione. Walter Benjamin (1999: 83) ha definito lo storyelling come la “capacità di scambiare esperienze” e tali esperienze tendono sempre a coinvolgere emotivamente l’ascoltatore, siano esse reali o immaginarie, proprie o di altri. Un simile approccio ci permette di prestare attenzione a testi complessi e collettivi, come dichiarazioni e interviste, nonostante vi sia un ghostwriter o un ufficio stampa dietro le pa-role di un/una fashion designer. Il concetto di “genio privo di originalità” (unoriginal genius) definito da Marjorie Perloff (2010) può essere qui utile in relazione alla tendenza di costruire testi basandosi sulle tecniche di montaggio e di appropriazione ereditate dall’inizio XX secolo. Diversamente da quanto comunemente si pensa – e cioè che i racconti dei fashion designer sono inutili perché pieni di mitologie non scalfibili dallo storico – essi offrono la possibilità, come ha recentemente suggerito Ilya Parkins (2011: 9) di “materializzare e personalizzare le riconfigurazioni temporali della modernità, le quali sono troppo spesso viste in modo astratto e impersonale”.

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La tesi è che il riconoscimento del valore delle parole dei fashion designer fa parte del processo di superamento delle discriminazioni culturali di cui la moda è stata ed è ancora in parte vittima. Nel loro insieme, gli scritti dei fashion designer devono essere considerati come parte di un corpus teorico di conoscenze in cui gli studi sulla moda possono lavorare e identificarsi. Se così inteso, tale corpus può favorire lo sviluppo della ricerca, controbilanciando l’importanza che l’insegnamento del fashion design ha acquisito in ambito universitario a livello internazionale.La possibilità che la ricerca tenga conto sempre di più del punto di vista dei fashion de-signer come soggetti della storia ne valorizzerà il ruolo immaginifico di storyteller della moda. La conclusione, ancora provvisoria, è che il processo di accademizzazione della moda stia portando ai fashion designer nuove responsabilità, ma anche nuove libertà, come l’essere, secondo quanto suggerito dall’artista e fashion designer Bogomir Doringer (2008), “storyteller of ‘unwanted stories’”.

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COMUNICARE LA MODA: LA RICERCA SUL SÉ

Simone Sbarbati

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La comunicazione della moda – e con questa espressione intendo sia l’attività di pubbliche relazioni attraverso apposite agenzie o freelance, sia l’autopromozione necessaria ai fashion designer per far conoscere il proprio marchio, sia lo stesso giornalismo che si occupa di moda – oggi si svolge quasi totalmente online. Se da una parte questo favorisce uno scambio di informazioni e una produzione di contenuti in tempi rapidissimi (grazie ai social network si arriva addirittura al “tempo reale”), dall’altra la stessa velocità, unita alla facilità di accesso alla rete di contatti un tempo esclusiva di pochi, ha portato a un generalizzato appiattimento dei linguaggi e delle forme di comunicazione.In un mondo in cui siamo sommersi dalle informazioni – il cosiddetto information over-load di cui parlava il futurologo Alvin Toffler (1971) – tutte le informazioni acquistano la stessa importanza e un’inutile vignetta pubblicata su Facebook ha esattamente la stessa possibilità di essere discussa e condivisa rispetto a un approfondito e autorevole edito-riale sulla geopolitica del Medio Oriente (a dirla tutta l’editoriale di possibilità ne avrebbe molte meno) innescando un circolo vizioso che assomiglia alla ricerca di un metaforico Sacro Graal della comunicazione: la soluzione definitiva che permetta di massimizzare la diffusione di un contenuto editoriale – dal video alla fotografia, dall’articolo al comunica-to stampa – nel minor tempo possibile.Tale ricerca – del tutto vana – si porta dietro un inevitabile strascico: copiando strategie a destra e a manca, seppur adattandole (di solito malamente) alle proprie necessità, si finisce per dimenticare il sé, le proprie specificità, elemento fondamentale per una comunica-zione efficace di un prodotto commerciale o culturale come un capo d’abbigliamento, una collezione, un evento, una piattaforma, un libro, un articolo. Quello che ritengo si possa fare, a livello didattico, per costruire attorno a una delle suddette tipologie di prodotto un linguaggio coerente e una comunicazione funzionale agli scopi che di volta in volta ci si prefigge, è accompagnare lo studente su due strade parallele: 1) imparare a raccontare storie e 2) trovare la propria “voce”, in un percorso di presa di coscienza del sé attraverso la pratica della scrittura creativa. Strade, queste, intimamente legate tra loro: se non sai chi sei come puoi sapere come raccontarti e in che contesto collocarti?Lo sviluppo delle lezioni tenute quest’anno nell’ambito della laurea magistrale in Moda ha seguito dunque questo doppio binario, privilegiando l’approccio partecipativo degli studenti piuttosto che la tradizionale lezione frontale: fornire l’input (ad esempio iniziando la lezione

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con un racconto, un esempio, un problema, a volte utilizzando le esperienze personali e/o professionali del docente) per poi arrivare insieme alla soluzione, guidando il gruppo attraverso un percorso sì precedentemente tracciato ma allo stesso tempo aperto a ogni tipo di deviazione (purché coerente) e a diversi punti di vista, favorendo in questo modo il cosiddetto pensiero laterale o orizzontale (De Bono 1998). Per quanto riguarda il raccontare storie il programma si è sviluppato nei seguenti punti: elementi dello storytelling (prodotto = idea + tecnologia & know how + ricerca + persone + territorio + heritage = storia); esempi di storytelling; importanza del contesto ( = target + competitors + cultura + medium); i media (social network, blog, apps, stampa, testimonial, eventi); analisi di case studies; diversi tipi di blog = diverso linguaggio (analisi del linguaggio dei blog in base a diverso approccio sullo stesso argomento/prodotto); nuovi strumenti di finanziamento dal basso (crowdfunding); pitching (o l’arte di raccontarsi o presentare un progetto in pochi minuti per convincere un pubblico di potenziali clienti/finanziatori).Parallelamente l’attività di ricerca del sé attraverso la scrittura creativa è stata affrontata in questo modo: esercizi base (chi sono/dove sono/cosa faccio); cambiare il punto di vista (diverso interlocutore = diverso stile e scelta di informazioni appropriate); raccontarsi per immagini (saper scegliere un’iconografia coerente col proprio stile che sappia comunicare i propri valori, la propria ricerca); identificare i concetti chiave (utilizzarli per realizzare una mappa concettuale); raccontare un luogo/un evento (l’arte del reportage, trovare il fil rouge tra i concetti chiave e con essi costruire un racconto, l’esempio ho visto, ho visto, ho visto di David Foster Wallace (1998); scrittura bidimensionale vs scrittura tridimensionale cercare gli indizi, saperli riconoscere e archiviare (una semplice uscita, una gita di gruppo in città può diventare occasione per imparare a notare particolari imprevisti, pattern che si ripetono, informazioni che non aspettano altro che essere raccolte e una volta in aula mettere insieme quegli indizi, diversi per ciascuno, e costruirci una storia); raccontare se stessi utilizzando gli indizi che si lasciano sul proprio cammino (che segni lascio nella mia stanza, come mi vesto, che libri leggo, che locali frequento, chi sono i miei veri amici?); raccontare gli altri utilizzando i loro e i propri indizi; “The secret art of interviewing, and it is an art, is to let the other person think he’s interviewing you. You tell him everything about yourself, and slowly you spin your web so that he tells you everything” (Truman Capote); la scrittura tattile (la materia racconta la storia, esempio dell’“omino di vetro” di Rodari, 1973); tra A

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a B c’è di mezzo l’universo: l’intervallo di spazio e tempo tra due punti di una storia può aprirsi a ventaglio e racchiuderne infinite, l’esempio di Ballata (Blexbolex 2013).Infine, l’ultima lezione è stata dedicata alla messa in pratica di quanto affrontato fino a quel momento, creando un’immaginaria collezione realizzata con un materiale di fantasia (o comunque non convenzionale: esempio carta, cera, alluminio), cercandone i punti di forza e i punti deboli, pensando a tecniche specifiche per lavorarlo e a come ovviare eventuali proble-mi, immaginando un target commerciale coerente col prodotto e di conseguenza i canali e i media più appropriati per comunicare la collezione, aggiustando linguaggio e informazioni in base ai diversi tipi di referente. Indispensabile, infine, una discussione finale di quanto fatto/visto/pensato durante questo “viaggio didattico”, che serve come feedback al docente e come ultima occasione di autoanalisi per lo studente.

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NECESSITÀ DELLA STUDY COLLECTION

Gabriele Monti

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Nel settembre 2012 alla conferenza internazionale Fashioning the City: Exploring Fashion Cultures, Structures, and Systems organizzata da Nathaniel Dafydd Beard al Royal College of Art di Londra due interventi in particolare hanno colpito la mia attenzione. Karen Van Godtsenhoven del MoMu (il museo della moda di Anversa, che condivide con il Fashion Department della Royal Academy of Fine Arts la stessa sede, il ModeNatie di Anversa) presentava il progetto della neonata Study Collection, ricavata dalla collezione di abbiglia-mento storico posseduta da Jacoba de Jonge e donata al museo. Colleen Hill del Museum at FIT (il Fashion Institute of Technology di New York) rifletteva sul rapporto fra exhibition making e formazione, sottolineando gli intrecci fra le attività del museo e la didattica della prestigiosa scuola di moda a esso collegata.In entrambi i casi, la presenza nelle istituzione museali di una study collection veniva cele-brata come uno straordinario valore aggiunto: i musei, collegati in entrambi i casi a scuole di moda note internazionalmente, non si configuravano solo come luogo della conservazione e dell’esposizione della moda, ma anche come strumento attivo per la progettazione.Una study collection, solitamente composta da esemplari doppi, pezzi meno pregiati o troppo usurati per prevedere un’azione di restauro, o donazioni di difficile collocazione nella geografia della collezione museale, prevede infatti che i capi che la compongono possano essere studiati da vicino, maneggiati, virtualmente smontati, e di conseguenza consumati molto velocemente, cosa che ovviamente non accade con i pezzi della colle-zione museale, tutelati da rigidi standard di conservazione. Se un museo è di per sé fon-damentale per una scuola di moda, in quanto luogo dove riattivare le storie della moda, un museo con una study collection entra a pieno titolo nella dimensione più progettuale (non puramente conoscitiva), diventa materia prima che dà sostanza ai postulati teorici e tecnici del fashion design che gli studenti apprendono nel corso dei laboratori.

Sempre nel 2012, la mostra Cristóbal Balenciaga: Collectioneur de modes, organizzata da Olivier Saillard e dallo staff del Musée Galliera ai Docks-Cité de la mode et du design di Parigi, ha messo in scena e rivelato l’archivio privato di Balenciaga, che infatti nel titolo del progetto “perdeva” la qualifica di couturier, per diventare un collezionista. Abiti “anonimi” risalenti al diciannovesimo secolo, alcuni provenienti da grandi magazzini, costumi tradizionali per la danza popolare andalusa, preziose pubblicazioni sull’abbiglia-

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mento etnico, ricami, colletti, paramenti sacri, stole liturgiche: la mostra e il catalogo attraversavano il prezioso patrimonio personale di Balenciaga, assemblato nel corso della sua carriera. Oggetti, non solo abiti, che Balenciaga stesso utilizzava in modo evidente come punto di partenza per la costruzione dei propri modelli, o addirittura come matrice da cui estrarre – copiare – dettagli decorativi, elaborati ricami e motivi ornamentali o strutturali. In mostra pochissimi modelli realizzati dal couturier spagnolo: solo quelli necessari a esplicitare il rapporto fra la “sua” moda e la materia viva, spesso anonima, che abitava il suo archivio privato e nutriva il suo progetto di couture. Esplicitando lo stu-dio dell’esistente e la pratica della copia come strumenti del processo creativo, la mostra metteva definitivamente in discussione una delle mitologie più radicate nel campo disciplinare della moda: l’idea dell’invenzione radicalmente nuova, che deve letteralmen-te spazzare via il già fatto. Progettare è anche un’azione interpretativa di riappropriazione (Debo 2002; Lacroix, Mauriès e Saillard 2007).

I corsi di laurea triennale e magistrale in Design della moda dell’Università Iuav di Venezia hanno già affermato in questi anni la centralità degli archivi per la progettazio-ne della moda attraverso importanti azioni didattiche e di ricerca. Nel dicembre 2010 la mostra Elda Cecchele: In forma di tessuto ha attraversato e ri-scoperto l’archivio della tessitrice veneta Elda Cecchele, attiva dagli anni cinquanta fino alla sua morte nel 1998 (Frisa con Monti 2010). Nell’archivio, conservato presso uno dei laboratori dell’Istituto statale d’arte “Pietro Selvatico” di Padova insieme al Fondo Franca Polacco, sarta vene-ziana alla quale Cecchele forniva i tessuti, sono presenti campioni, filati, abiti e arazzi, che attraverso il percorso espositivo curato da Mario Lupano hanno potuto raccontare la storia di Elda Cecchele e dei suoi tessuti (alcuni dei quali realizzati per marchi molto noti, quali Roberta di Camerino, Salvatore Ferragamo, Jole Veneziani). Il progetto ha visto il coinvolgimento attivo dell’unità di ricerca “Il progetto nella moda” e degli studenti Iuav nelle azioni di studio e attraversamento critico dell’archivio, e nelle fasi di allestimento della mostra. L’occasione ci è servita anche per interrogarci direttamente su cosa significhi riattivare un archivio, e interpretarlo visivamente. Il saggio fotografico realizzato in occasione dei lavori di preparazione della mostra dal fotografo Francesco de Luca e dallo stylist Francesco Casarotto (neolaureato Iuav) ha enfatizzato il ruolo

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dell’archivio come centro propulsore della riflessione sulla moda: il racconto è svolto utilizzando quegli elementi che compongono la grammatica visuale dell’archivio (la carta velina, i guanti bianchi di cotone, le scatole, i rotoli per i tessuti). Nel momento in cui osservi, studi e fotografi questi campioni di intrecci che mescolano cotone, lana, seta, fili di perle, nastri e passamanerie, fettucce di pelle e di pelliccia, trecce di paglia, cellophane, tulle, può accadere di avvicinarli in modo inedito e di illuminare qualità e aspetti non emersi in precedenza. Interpretare un archivio è un gesto quasi involontario, perché spesso sono involontari e sorprendenti gli esiti che si ottengono. L’interpretazio-ne in questo caso è nata da un’osservazione ravvicinata: abbiamo avuto la possibilità di riscoprire, con uno sguardo contemporaneo, la straordinaria cultura progettuale tessile appartenuta a Elda Cecchele.

Nel 2012 il lavoro dello Iuav moda sull’archivio e i suoi intrecci con la formazione del designer ha raggiunto una maggiore articolazione e un livello superiore. Gli studenti della triennale e della magistrale hanno avuto accesso all’Archivio Lanerossi, oggi un marchio del Gruppo Marzotto. Il workshop e la mostra Under the Cover, a cura di Mario Lupano e Alessandra Vaccari (2012) con il coordinamento di Amanda Montanari e Raffaella Brunzin, nati nell’ambito dell’unità di ricerca Il progetto nella moda come parte del progetto Heritage, design e innovazione nella moda di Alessandra Vaccari, e realizzati in collaborazione con la Soprintendenza archivistica per il Veneto e il Comune di Schio, erano dedicati alla coperta, oggetto simbolo di Lanerossi. L’importante storia tessile e industriale di Lanerossi è testimoniata dagli archivi aziendali che gli studenti hanno avuto l’opportunità di analizzare e interpretare. Nel corso del workshop, il tema della coperta è stato affrontato da due prospettive complementari: da un lato la storia culturale e materiale per rileggere le campionature di filati e tessuti, dall’altro la ricerca progettuale nella moda per interpretare i materiali contenuti in archivio. Gli esiti progettuali di questo lavoro sono stati allestiti allo Spazio Espositivo Lanificio Conte, a Schio: una mostra che è riuscita a far dialogare i materiali dell’Archivio Lanerossi e gli eterogenei progetti che quindici studenti hanno restituito sulla base di una piattaforma di analisi comune, l’atlante iconografico e il lemmario che si sono costruiti durante la ricerca.

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Nel corso dell’anno accademico 2012-2013 mi è stato possibile strutturare l’insegnamento di Concept design a partire da un gruppo di circa centocinquanta oggetti (abiti, scarpe, accessori), che costituisce il primo nucleo di una study collection a disposizione degli stu-denti Iuav e delle loro ricerche progettuali. Jean Paul Gaultier, Giorgio Armani, Romeo Gigli, Comme des Garçons, Emilio Pucci, Norma Kamali, Riccardo Tisci, Maison Martin Margiela, Complice, Byblos, Irié, Rifat Ozbek, Sonia Rykiel, Yohji Yamamoto, Moschino, Prada: questi alcuni dei nomi di marchi e fashion designer che attraversano un gruppo apparentemente eterogeneo di abiti e accessori, maschili e femminili, che dagli anni ottanta arrivano fino a oggi. Si tratta di un fondo donato da Maria Luisa Frisa, direttore del corso di laurea triennale in Design della moda e Arti multimediali allo Iuav, al Museo di Palazzo Mocenigo - Centro Studi di Storia del Tessuto e del Costume a Venezia, proprio per dare vita al progetto di una study collection da utilizzare allo Iuav.

Gli studenti del corso di laurea in Design della moda hanno attraversato questa collezione, analizzando ogni oggetto e compilando la Scheda VeAC (Vestimenti Antichi e Contemporanei) messa a punto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, uno strumento che trattiene sinteticamente tutte le informazioni relative all’abito o all’accessorio in esame. Il 22 febbraio 2013 abbiamo invitato la storica della moda e del tessuto Roberta Orsa Landini a tenere una lezione seminariale, Schedare la moda, per mostrarci come utilizzare la scheda ministeriale, e il relativo lemmario per la schedatura dell’abito e degli elementi vestimentari. Questo progetto, pubblicato nel 2007, ha visto la partecipazione di un gruppo di lavoro composto dalla stessa Roberta Orsi Landini, da Grazietta Butazzi, da Thessy Schoenholzer Nichols e ha predisposto gli strumenti normativi per la catalogazione scientifica dell’abito e degli elementi vestimentari in modalità standard, al fine di garantire la condivisione in ambito nazionale e internazionale (Direzione generale paesaggio, belle arti, architettura e arte contemporanea 2010).

Questo primo lavoro di attenta schedatura e di descrizione tecnica ha permesso di costruire una narrazione attorno a ogni oggetto analizzato, una delle possibili storie che lo definiscono. La polifonia delle descrizioni ha restituito un’immagine della study collection, che rappresenta l’esito di uno fra i molteplici modi di attraversarla. Per il corso di Concept design agli studenti è stato chiesto di utilizzare questo esito come strumento per individuare un’idea allestitiva,

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un concept, appunto, per una mostra collettiva che sarà realizzata ad aprile 2014. La mostra metterà in scena una selezione degli oggetti, che saranno riattivati dall’allestimento, per evidenziare il potere del backstage e dell’archivio nel campo dei fashion studies e per riflettere sullo studio della moda come strumento per conoscerne le storie, e per innescare riflessioni progettuali inedite. Ma la possibilità di utilizzare una study collection per gli studenti non si è esaurita nella messa a punto di una mostra in grado di raccontare questa esperienza. La study collection si è rivelata necessaria per chi studia fashion design: l’insieme di oggetti relativamente lontani (da un punto di vista cronologico) ma improvvisamente estremamente accessibili, perché si possono studiare da vicino, toccare con mano, diventa anche un punto di partenza per i percorsi progettuali degli studenti. Non a caso, infatti, in mostra avranno un ruolo centrale non gli abiti in quanto tali, ma alcune telette che gli studenti hanno voluto realizzare rilevando la struttura dei capi ritenuti più significativi fra tutti quelli appartenenti alla study collection. Questo esperimento di modellistica a rovescio, a partire dall’esistente, rappresenta un esercizio basico per chi intende affrontare la disciplina del fashion design (Ferré 2009). Le peculiarità di capi iconici che provengono dal passato risiedono spesso in dettagli strutturali che solo uno studio ravvicinato, eseguito quasi al microscopio, può restituire, per trasformarsi poi in strumento per innescare nuove traiettorie creative.

La study collection e la sua necessità per una scuola di moda ci ricordano anche altro. Ci ricordano che un museo della moda contemporanea è forse il primo elemento necessario per rendere completamente attiva una scuola di moda. Ma la necessità della study collec-tion è anche la necessità di un museo che, attraverso una politica di acquisizione attiva, si interroghi costantemente sulla definizione di moda che intende dare attraverso gli oggetti che sceglie di conservare. Oggi, nel 2014, a quasi dieci anni della fondazione dei corsi di laurea in Design della moda allo Iuav (2005), la necessità della study collection ci obbliga a riflettere sul fatto che dobbiamo forse agire nella direzione dell’“autoconservazione”, della costruzione di un’autobiografia, iniziando anche a mettere in opera un archivio vivo, pulsante, fatto di una selezione degli oggetti più significativi realizzati in questi anni allo Iuav moda. Oggetti che potranno fare parte della study collection, perché potranno essere studiati da vicino, radiografati, e che ci serviranno simultaneamente per raccontare la nostra storia e per tracciare gli scenari che andremo a progettare nel futuro.

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INDAGINE SUGLI SCARTI PRE-CONSUMODI AZIENDE TESSILI E DELL’ABBIGLIAMENTO

Maria Cristina Cerulli

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La ricerca è finalizzata allo studio e all’attivazione di una nuova metodologia di relazione tra il sistema di produzione e stoccaggio delle imprese nel settore della moda con le esigenze di reperimento di materiale di qualità e a costi accessibili da parte delle scuole di moda e delle imprese nascenti ed emergenti. Lo studio intende favorire le buone pratiche e i circoli virtuosi tra piccole realtà basate sul design e aziende consolidate nel settore del tessile e dell’abbigliamento. I materiali non più inseribili nel mercato (tessuti prodotti per stagioni ormai passate o in quantitativi limitati) e localizzati nei magazzini delle grandi fabbriche, diventando una risorsa preziosa per aziende, scuole e giovani imprese.L’obiettivo è di trasmettere conoscenza dall’università all’industria e viceversa, utilizzando il design della moda come forza prospettica. Per fare questo la ricerca si propone di sostenere l’innovazione, ripensando il destino degli scarti di lavorazione e gli invenduti a magazzino, rimettendo sul mercato merce destinata allo smaltimento e creando quindi un’azione virtuosa capace di generare un miglioramento sia dal punto di vista economico che sociale. La ricerca è stata finanziata nel 2013 nell’ambito del programma operativo Regione Veneto del Fondo Sociale Europeo con il titolo Textile and Fashion Hub: come estendere il ciclo di vita di tessuti e altri materiali della moda, responsabile scientifico Alessandra Vaccari dell’Università Iuav di Venezia.

La personale esperienza e la formazione all’interno del corso di design della moda presso l’Università Iuav di Venezia hanno costituito per me le basi necessarie al perseguimento degli obiettivi di questa ricerca. Infatti, durante i precedenti anni di studio ho potuto ve-rificare in prima persona le difficoltà in cui incorre uno studente di design della moda nel reperire, ma anche solo nel venire a conoscenza dei materiali utilizzati dalla moda stessa e le conseguenti ultime tendenze in fatto di tessuti, trattamenti, tessiture, finissaggi e qualsiasi altro materiale di cui la moda è fatta. Nonostante il territorio in cui si colloca Iuav sia ricco di aziende nel settore tessile e abbigliamento di rilevanza mondiale, è molto difficile venire a conoscenza di come reperire questi materiali. Gli studenti finiscono così per rivolgersi a grande ditte di stock, le quali però hanno ben poco interesse nel vendere al singolo studente poiché i loro interessi vertono su vendite all’ingrosso o su ordini di ditte straniere di confezione, molto spesso est-europee. Inoltre, sul materiale che lo stocchista raccoglie nel proprio magazzino, viene

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operata un’azione di dissimulazione rispetto alla provenienza del materiale importato: nello specifico, i tessuti, spesso vengono privati delle informazioni necessarie che permettono di risalire all’azienda produttrice. Questa operazione crea parecchi danni alla scala globale, lasciando che, materiali di differenti livelli qualitativi si mescolino tra di loro e perdano una parte fondamentale della propria biografia tessile: qualità e specificità della ditta produttrice che li ha progettati e fatti nascere.Se a livello globale è un danno grave per l’immagine dell’azienda, a livello universitario è un danno significativo ai fini della didattica. Progettare senza conoscere la provenienza del materiale utilizzato non solo è un limite per il progetto stesso ma esclude la possibilità di creare una relazione e una conoscenza diretta con l’azienda produttrice del materiale uti-lizzato che, molto probabilmente, nel caso dello studente Iuav, si trova a pochi chilometri di distanza. Da queste difficoltà nasce dunque l’esigenza del singolo di recarsi direttamen-te presso le aziende produttrici, le quali, nel corso degli anni sono diventate sempre più disponibili a collaborare con gli studenti. Questo dialogo avviene per diversi motivi: primo tra tutti quello di una consapevolezza collettiva che se si vuole salvare la manodopera e l’artigianato locale bisogna cambiare qualcosa da qualche parte. Il cambiamento risiede nell’investimento e nella sperimentazione che, un numero sempre maggiore di aziende lungimiranti sta iniziando ad attuare con l’aiuto di giovani studenti e designer. Nel caso in cui si voglia fondere la ricerca con le buone pratiche e gli aspetti etici della moda, un buon punto di partenza sarebbe quello di istituzionaliz-zare il rapporto università e lavoro attraverso l’utilizzo degli scarti pre-consumo delle aziende tessili e di abbigliamento.Si tratterebbe di un investimento che le aziende possono effettuare per ovviare all’al-trimenti non proficuo stoccaggio dei tessuti ancora necessario allo smaltimento degli stessi (Viale 2010). Inoltre, gli obiettivi della direttiva comunitaria sulle discariche im-plicano che tutti i tessuti siano banditi dalle discariche entro il 2015 e vengano raccolti separatamente. Ciò significa che tutti i soggetti che svolgono un ruolo nel settore della moda devono adattarsi ad affrontare la nuova situazione e le sfide ad essa connesse. La maggior parte delle aziende hanno una sovrapproduzione di almeno il 20%.In un’intervista dell’ottobre 2010 Ursula de Castro, alla domanda su quali tendenze saran-no in arrivo nel prossimo futuro, rispondeva: “Penso che inizierà con le università, avranno

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corsi, insegnando alla gente come andare presso grandi aziende e riciclare. Per le grandi aziende, penso, sarà standardizzato entro i prossimi cinque anni” (Aus 2011: 185).L’attenzione all’etica è oggi un aspetto importante della moda in grado di generare cre-scita e competitività, sia per aziende del settore moda che per piccole imprese nascenti (Thomas 2008; Black 2008; Fletcher 2008; Fletcher 2012). Da un punto di vista metodologico, la scelta è stata quindi di allontanarsi dalle più recenti mode dettate dal “ghetto” dell’ecosostenibile sviluppatesi negli ultimi anni secondo due filoni differenti: il primo coinvolge le grandi imprese del fashion system che utilizzano i concetti della moda sostenibile come driver marketing (Rinaldi e Testa 2013); il secondo ha come protagonisti individui e gruppi che poco hanno a che fare con una formazione nel campo della ricerca di una moda innovativa, ma si sviluppa invece nella sfera delle piccole pratiche utili al sociale e per questa ragione rimane di scarso interesse per obiettivi finalizzati alla crescita, al futuro e all’innovazione nel campo della moda (Lunghi e Montagnin 2007). Quello di cui invece questo studio si vuole avvalere, rispetto alle nuove mode dedite al riciclo e al riutilizzo di materiali, è il fatto di considerare la raccolta di tessuti, che ha vi-sto interrompere il proprio ciclo di vita (Baldo, Marino e Rossi 2008), non come elemento mediatico della loro rimessa in circolo ma come dato utile. Lo sviluppo di una metodologia in grado di radunare in un unico bacino/banca mate-riali apporta infatti diverse agevolazioni evitando sprechi ma soprattutto riqualifica il territorio, la ricerca e evita il disperdersi e lo smaltimento dei materiali su diversi fronti: 1) risparmio economico e di tempo da parte di imprese nascenti del settore e studenti di fashion design; 2) risparmio di spazio e costi di mantenimento del magazzino da parte delle aziende del fashion system; 3) evitare il disperdersi di materiali di qualità verso altri mercati ad opera di ditte di stoccaggio; 4) creazione di progetti e collaborazioni lavorative tra designer e aziende.Inoltre, in taluni casi, la raccolta e la catalogazione di materiali legati alla moda può divenire bacino di idee e di storie da cui attingere ai fini della progettazione creativa. Esempi tra i più riusciti e completi di come realizzare un buon progetto senza porre lo scarto alla base della comunicazione e del progetto stesso Christopher Ræburn, le borse dei fratelli Markus e Daniel Freitag e il marchio coreano Re;Code.

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Gli scarti pre-consumo sono il materiale selezionato per l’analisi condotta in questa ricerca. Essi differiscono dai rifiuti post-consumo e dagli scarti di produzione per il fatto di non essere stati utilizzati con lo scopo per cui sono stati prodotti o acquistati. Le aziende, infatti, spesso producono o acquistano in quantità maggiore rispetto alle effettive esigenze. Questa operazione costa loro meno o fa guadagnare di più a seconda dei casi. Gli scarti pre-consumo sono quindi materiale non più utilizzabile dalle aziende a causa della continua e veloce ricerca di novità nel campo della moda. Spesso si tratta di materiale di prima qualità destinato allo smaltimento o allo stock. La scelta di questo materiale sottintende una presa di distanza dalle sempre più presenti mode che si affiancano alla sostenibilità promuo-vendo molto spesso un prodotto con scarso valore estetico ma che trova invece sostegno e apprezzamento dal punto di vista etico. Un approccio interessante tra design e riciclo è quello espresso in alcuni testi presi in prestito dal mondo dell’architettura. L’architetto Paola Viganò, nel catalogo della mostra Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta (2011), all’interno del capitolo Riciclare la città sottolinea che si può riciclare solo ciò che è soggetto ad un ciclo di vita e di conseguenza è sottoposto a dei ritmi, a delle metamorfosi. L’operazione da attuare è quindi quella della reinterpretazione analizzando le forze che possono produrre degrado:

riciclare non è semplicemente riusare, ma, seguendo l’analogia con il mondo organico, proporre un nuovo ciclo di vita. Il concetto di ciclo di vita ha una lunga storia nelle scienze sociali ed economiche: parla di mutamento opposto a staticità; di sequenze, avvicinamenti e ritmi; di flussi, dinamiche e processi. (Viganò 2011: 103)

Analizza poi tre percorsi possibili legati al riciclo: 1) scarto: la prima operazione di riciclo riguarda ciò che rimane, come scarto, dal processo di produzione dello spazio abitato. Il re-siduo utilizzato come punto di partenza; 2) death and fife: nuovi cicli di vita che interessano il già esistente; 3) cradle to cradle: non c’è riciclo perché non c’è declino. Si tratta di un passaggio di stato e di un ciclo chiuso basto sulla reversibilità, il riuso, la trasformazione e la multifunzionalità. Quest’ultimo percorso è stato quello di maggiore interesse per i fini della ricerca. Nella teoria del cradle to cradle, letteralmente “dalla culla alla culla”, non si parla di riciclo ma di trasformazione e soprattutto si tratta di voler cambiare il sistema alla base verso una politica che non accetta sprechi e si concretizza in funzione del risparmio.

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Cradle to cradle è un approccio alla progettazione di sistemi espresso dall’architetto statunitense William McDonough e dal chimico tedesco Michael Braungart (McDonough e Braungart 2002) che consiste nell’adattare alla natura i modelli dell’industria, ovvero convertire i processi produttivi assimilando i materiali usati a elementi naturali, che devono quindi rigenerarsi. Studiare i sistemi di smaltimento, interagire con le tecniche utilizzate per la produzione può essere la soluzione per lo sviluppo di una metodologia in grado di cambiare e migliorare il sistema e le relazioni tra aziende e designer. A tal proposito molto interessante è la considerazione espressa nella tesi di dottorato in Scienze del design di Ruggero Canova :

Vi è la necessità di una collaborazione tra antropologia delle tecniche ed il design per cui il lavoro docu-mentario della prima possa avere un’applicazione concreta per il secondo. Lo studio dei saperi tecnici offre al designer un modello verso cui tendere. Degli spunti di progettazione. (Canova 2013: 9)

Nella valutazione del processo produttivo possono emergere molti input progettuali: identificando le maggiori criticità in ciascuna fase di produzione e consumo, il designer può migliorare la riciclabilità e in genere l’impatto ambientale del prodotto. (Canova 2013: 19)

Canova esprime bene il concetto di cambiamento in direzione della sostenibilità grazie a uno studio dei saperi tecnici a opera del designer. È interessante, infatti, pensare a un cambiamento basato sulla conoscenze e sullo scambio al fine di creare uno sviluppo e non solo un circolo di buone pratiche. Un altro concetto interessante espresso nella tesi consiste nell’utilità per il designer di ricercare nelle librerie dei materiali, le “materioteche”. Le librerie rimangono tuttavia vincolate al ruolo di promotore commerciale, e non possono essere considerate uno strumento del tutto obiettivo nel presentare le proprietà, i pregi e i difetti dei materiali. L’aspetto positivo consiste nella loro capacità di creare contatti diretti tra aziende e università, offrendo la possibilità di sviluppare progetti e prototipi congiunta-mente, utili d’altronde anche a queste ultime per trovare nuove applicazioni ai loro prodotti.Queste riflessioni mi hanno permesso di strutturare un progetto di banca dei materiali destinato a un utilizzo didattico. Il fine è di evitare il confronto con una produzione su larga scala che andrebbe a generare delle problematiche effettive lavorando con una limitata disponibilità per articolo. Le quantità limitate sono invece più che sufficienti per uno studente di fashion design.

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Inoltre il progetto vuole creare un rapporto consolidato e duraturo tra università e aziende presenti sul territorio creando una rete istituzionale a partire dalle fasi di apprendimento nel campo della moda. Se dal punto di vista imprenditoriale è difficile far combaciare questo progetto con il desiderio da parte dei giovani designer di costituire un proprio marchio, i cui presupposti entrano in conflitto con una ricerca che basa le sue radici sugli avanzi di produzione; dal punto di vista didattico invece è un progetto che permetterebbe agli studenti di fashion design di conoscere le ultime tendenze e materiali applicati alla moda, di poterli studiare e di poterne usufruire durante gli ultimi laboratori del corso dia laurea.Il progetto si sviluppa attraverso la sua edizione zero chiamata Reserve. Textile and Fashion Hub e si concretizza realizzando,nella sede di Treviso dei corsi di laurea in moda dello Iuav, la prima banca materiali a disposizione degli studenti. L’idea di sostenibilità, vista come un progetto contro lo spreco e a favore di un investimento sul territorio, si inserisce così alla base di ogni programma del corso di studi. Gli obiettivi sono quindi differenti dal semplice presupposto di basare un proprio progetto sugli avanzi. Lo scopo è quello di creare una banca materiali, una riserva di tessuti e altri elementi legati alla moda, attraverso i quali il designer possa istruirsi e combinare la propria esperienza progettuale. La consapevolezza riguardo la provenienza e la storia del materiale utilizzato raf-forza la formazione del fashion designer dando alta visibilità alle aziende partner del progetto e creando un circolo virtuoso positivo per entrambi.L’obiettivo è di far partire questo progetto su scala territoriale per allargarsi ed estendersi a livello globale. La creazione di un rapporto tra aziende e istituti di moda avverrà anche grazie al supporto di una piattaforma web che rafforzi la reciproca visibilità. Partner operativi di questo progetto sono in questa fase di avvio l’azienda tessile Bonotto S.p.A. di Molvena (Vicenza), il lanificio Paoletti di Follina (Treviso) e l’azienda produttrice di abbigliamento Pier S.p.A di Casale sul Sile, sempre in provincia di Treviso. Ovviamente l’utilizzo dei materiali forniti da queste aziende è possibile finché ci si muove in un ambito didattico. Nel momento in cui si dovesse decidere di entrare in ambito commerciale, con ogni probabilità le aziende che si dichiarano pronte a liberarsi dei materiali dati in uso all’università tornerebbero a farsi avanti, rivendican-done la proprietà fisica e intellettuale. Un esempio di applicazione al campo commerciale di ri-manenze tessili è rappresentato dall’esperienza di Caterina Gatta, fashion designer italiana che lavora con tessuti firmati vintage, la quale, nel momento in cui ha iniziato a fare della propria

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idea un marchio, si è dovuta scontrare con gli aspetti più ostici relativi al caso in questione.Quello che deve cambiare è l’approccio verso l’idea di sostenibilità poiché spesso l’avvi-cinarsi a pratiche di ri-progettazione, riciclaggio e upcycling consiste in una sostanziale contrapposizione con l’evoluzione e lo sviluppo di un sistema che lavora con cicli di vita brevissimi dei propri prodotti. Il tentativo costante di utilizzare e creare qualcosa di “nuovo” inteso come non-esistente ci fa dimenticare che a volte la novità può risiedere nel progetto o rafforzarsi e porre le proprie basi in quello che già è stato fatto. Progettare metodi incen-trati sui rifiuti tessili rimane per ora un campo in gran parte dedicato a stilisti indipendenti e studi accademici (Reet 2011). Per questo motivo, l’utilizzo di rifiuti tessili si applica principalmente a pezzi unici e produzione di moda su piccola scala. Questa riflessione è tendenzialmente applicabile a tutti i rifiuti pre-consumo tranne in un caso: durante le prime fasi della ricerca è stata affrontata una tipologia di rifiuti pre-consumo legata alle aziende produttrici di tessuti su commissione.Si tratta di un aspetto in parte tenuto nascosto dall’azienda produttrice poiché si tratta di tessuti “sbagliati”.Lo sbaglio può avvenire in molte delle fasi della progettazione: da una mala comprensione tra ufficio stile della ditta e azienda tessile fino a un problema tecnico emerso nelle ultime fasi della produzione. Questo errore può quindi inficiare le qualità tecniche del tessuto. Spesso, infatti, si tratta di tessuti di ottima qualità e in quantità elevata, tale da poter coprire un’intera linea d’abbigliamento. Questa scoperta è emersa grazie ad una visita avvenuta presso il lanificio Paoletti di Follina, uno dei più importanti centri per la lavorazione della lana a livello mondiale. Da questa consapevolezza sono nati nel 2013 un workshop e una mostra dal titolo Refuso Tessile. Archivio, riciclo e procedure progettuali.La visita presso l’azienda è stata molto utile per conoscere e approfondire il ciclo di vita dei materiali fino alle metodologie di smaltimento degli avanzi presenti in magazzino. Stagional-mente il lanificio Paoletti di Follina produce due tipologie di collezioni di tessuti differenti, la prima dalle ricerche tendenze sulla base della loro tradizione e del loro archivio storico (l’azienda nasce nel 1795) di circa 100 articoli; la seconda riguarda i loro ordini personalizzati su commissione da parte di clienti di grandi marchi in tutto il mondo. Quest’ultima collezione ha generato un grande interesse sia per le metodologie atte a semplificare e rendere possibile il rapporto lanificio-cliente sia per la possibilità data al Lanificio di speri-mentare il più possibile ad opera di grandi marchi dl lusso come Chanel o Max Mara. La visita

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presso il magazzino Paoletti ha reso evidente il fatto che le due collezioni riservino destini e cicli di vita differenti per i loro avanzi di produzione. La produzione avanzata di tessuti Paoletti è presente in magazzino in piccole quantità e con la presenza di esigui metri per ogni articolo di tessuto. Stagionalmente le ditte di stoccaggio ritirano questi tessuti in grande qualità e dall’al-to valore commerciale acquistandoli per tre o cinque euro al kg, esportandoli e rivendendoli a prezzi sicuramente più alti rivolti a paesi dell’est del mondo. Questa è stata una prima constatazione che ha permesso di ragionare sulla realtà della pre-senza di materiali della moda di alta qualità acquistabili a prezzi ragionevoli ma che finiscono per essere dislocati presso altri mercati. Accanto a questo ammasso di tessuti della collazione Paoletti era presente un altro cumulo di tessuti molto più evidente e sostanzioso soprattutto per via della grande quantità di metri esistenti per ogni singolo articolo. Questi tessuti erano quelli progettati per i clienti del lanificio e che, come anticipato, a causa di un errore dovuto a incomprensioni tra lanificio e cliente o a errori in fase di produzione, erano stati scartati. L’ingente quantità era dovuta al fatto che spesso l’ordine del tessuto era arrivato alla completa produzione di tutta la metratura necessaria alla confezione ma, alla fine per le esigenze “esteti-che” del mercato della moda, non era più stata utilizzata. Questi scarti hanno da subito destato interesse per via del loro grande potenziale narrativo e istruttivo, nonostante il loro ciclo di vita utile fosse stato interrotto. Da qui nasce l’idea di un workshop dedicato agli scarti intesi come materiali rifiutati dall’indu-stria della moda. L’archiviazione delle procedure e dei materiali progettuali relativi alla creazione del tessuto scartato, sono stati l’input di questo progetto. La ricerca e lo sviluppo di una narrativa attorno al “refuso tessile” ha permesso ai designer di utilizzare il materiale di partenza, il tessuto, in maniera consapevole e ragionata. In questo modo, il tessuto ha una funzione attiva e il ciclo di vita relativo alle sue fasi di progettazione si ripropone, diventando contenuto da analizzare nel contesto di un ulteriore momento progettuale pertinente all’abito. Il refuso intercorso durante la progettazione del tessuto viene analizzato secondo questa ottica, divenendo valore aggiunto e materiale di studio sul quale il designer può sviluppare le proprie riflessioni. L’errore è il focus su cui ragionare diventando tesi da assecondare, esasperare o riparare. Accanto ai progetti nasce quindi l’esigenza di raccontare la biografia del tessuto utilizzata come elemento fondante per la progettazione. Si è scelto quindi di accostare ad ogni singolo progetto una biografia suddivisa in due parti. La prima parte dedicata alla provenienza del tessuto e all’errore sotto forma di archiviazione di dati e immagini, mentre la seconda parte

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racconta seguendo lo stesso principio, il procedimento effettuato dal designer. Biografie come etichette, in grado di restituire all’utente finale un bacino di informazioni tali da permettergli l’acquisizione di conoscenze relative al ciclo di vita dell’abito su diversi livelli. Questo procedi-mento porta agli estremi la riflessione su una metodologia progettuale che tiene in considerazio-ne ed è consapevole dei materiali di cui desidera fare uso. Per la realizzazione del workshop sono stati catalogati e archiviati tutti i tessuti scartati fino a quel momento e presenti all’interno dei magazzini dell’azienda con il relativo materiale di indagine. Sono stati poi selezionati alcuni gio-vani designer laureati presso i corsi di laurea in moda dello Iuav ed è stata data loro la possibilità di selezionare il tessuto che preferivano sia in base all’aspetto che alla biografia raccolta.I risultati del workshop, sia a livello pratico per quanto riguarda i progetti realizzati, sia teorico per ciò che invece riguarda lo studio dell’Archivio storico del Lanificio e le metodologie utilizzate per la creazione di tessuti su commissione, sono stati infine esposti nella mostra Refuso Tessile. Archivio, riciclo e procedure progettuali. La mostra ha avuto luogo presso l’Archivio di Stato di Treviso, Chiostro di Santa Margherita dal 4 al 12 luglio 2013 , in occasione della manifestazione Modesign /Fashion at IUAV, grazie anche alla collaborazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Direzione Regionale per il Veneto e la Soprintendenza Archivistica per il Veneto. La mostra si articolava in due parti: nelle gallerie del chiostro sono stati collocati i progetti, mentre nell’annessa sala espositiva veniva mostrata la documentazione archivistica.Tali materiali si riferiscono alla recente storia dei tessuti rifiutati e utilizzati nel workshop e raccontano le numerose complicità progettuali fra uffici stile delle aziende committenti e ufficio stile e ricerca dell’azienda produttrice. Essi restituiscono la complessità di un processo ideativo e realizzativo fatto di intese, ma anche di equivoci che inducono all’errore. Indirettamente portano a riflettere sui numerosi strumenti necessari affinché sia efficace la comunicazione tra l’azienda tessile e il cliente: un esempio tangibile è il “fazzoletto”, un campione prova di tessitura che raccoglie e racconta le diverse tipologie di armature e filati create per la scelta del campione definitivo. Altri documenti esposti sono più propriamente parte del fondo storico dell’Archivio del lanificio Paoletti, che rimanda alla sorprendente qualità della specifica storia aziendale.Questa ricerca e i progetti in cui si è articolata - in particolare la fornitura di materiali tessili del progetto Reserve: Textile and Fashion Hub e il workshop e la mostra Refuso Tessile - hanno permesso di cambiare in parte alcune regole e prassi della moda, creando delle alleanze in-terne tra diversi poli del sistema: l’ambito della formazione universitaria nel campo del design della moda e l’ambito della industria tessile.

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L’APPROCCIO OPEN SOURCE ALLA PROGETTAZIONE DELLA MODA

Amanda Montanari

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Questo lavoro si inquadra nella cornice delle pratiche open source, intese come pratiche che hanno come caratteristica principale i codici aperti, cioè il rilascio dei codici dal “program-matore” alla “comunità” che si fa “programmatrice” essa stessa. Erano previsti agganci a questa deriva di ricerca già nelle note sul Lo-Fi (Montanari 2010) e per rendere il percorso concettuale più di facile lettura parto proprio da lì. Fortunatamente negli ultimi dieci anni si sono sviluppati scenari che sostengono tale teoria e la rafforzano inquadrandola in un sistema di social e open innovation.

Sostituendo la parola “progettista” alla parola “programmatore” ci potrà apparire più chiaro quanto, garantite le nostre attuali capacità tecnologiche, si sprigioni tanto interesse verso l’innovazione trainata dagli utenti (user-driven innovation) che secondo il pensiero di Geoff Mulgan “non prevede un gruppo di ricercatori in un grande laboratorio, ma migliaia di persone di tutto il mondo che sfornano idee” (Mattei 2013: 14; Mulgan 2013). L’innovazione, grazie all’approccio open, sta subendo una democratizzazione e le strategie di scoperta di soluzioni nuove possono essere pensate in termini sistemici avvalendosi della tecnologia per “aprire” i processi al coinvolgimento degli “utenti”, sbloccando un’enorme quantità di valore. In questo senso guardiamo ai nuovi strumenti basati sulla “folla”, come il crowd-sourcing e il crowdfounding, e li studiamo da un punto di vista dell’intelligenza collettiva (Johnson 2001; Miller 2010). Sempre parlando di democratizzazione, un altro ambito di interesse è quello della microproduzione: un’intera gamma di strumenti di produzione digitale grazie a cui l’attività di produzione di oggetti potrà tornare al centro dell’attività individuale e collettiva.

Uso l’occorrenza della digital fabrication per avvicinarmi più rapidamente alla nostra scena di appartenenza: la moda. Per osservare questo intero scenario culturale all’interno del set-tore fashion abbiamo creato una laboratorio che si inserisse nei meccanismi di produzione, di trasferimento e di condivisione della conoscenza intorno al sistema abbigliamento. Que-sto lavoro è partito come un workshop con gli studenti del secondo anno del corso di laurea triennale in Design della moda dell’Università Iuav di Venezia strutturato su due differenti punti di vista: da una parte appunto la produzione e dall’altra il consumo.All’inizio abbiamo cercato di definire il raggio di azione girando attorno al concetto di

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hacking come riappropriazione dei codici interni all’abito. Il che significa anche ovviamente provare a innescare dei meccanismi di evoluzione della coscienza sul tema, passando attraverso l’osservazione e messa in valore dell’esistente, l’analisi critica del sistema di produzione e distribuzione dell’abito, l’individuazione di pratiche di produzione alternative e la ricerca di buone pratiche di consumo.Il primo acerbo frutto di questa visione è stata la mostra del 2011 Hackers: Esercizi di pirateria nel design che si è tenuta nel vecchio stabilimento delle storiche Cartiere Pigna di Alzano Lombardo, ora sede della Fa.Se. Fabbrica Seriana Energia. Il complesso, destinato alla demolizione, è stato recuperato alla sua funzione produttiva, ristrutturato, reso efficien-te e riproposto come polo di eccellenza dove sviluppare una sinergia tra attività produttive, di ricerca e sviluppo attorno ai temi della sostenibilità. Un luogo simbolo di riconversione dell’economia corporativa, come del resto tutti i luoghi che nel corso del nostro progetto abbiamo temporaneamente occupato (Hakim Bey 1991). In quel momento ci fu l’esigenza di ordinare gli eclettici input in un blog (http://www.sistemaaperto.tumblr.com).

Negli ultimi anni stiamo lentamente configurando una più razionale organizzazione dell’argomento. Abbiamo individuato due interessi principali e abbiamo invitato due figure di riferimento a chiarire le due macroderive di questa ricerca: Zoe Romano e Kate Fletcher. Grazie ai riferimenti alla loro esperienza condurremo questa trattazione sui due binari paral-leli della produzione open source per l’abbigliamento e gli accessori da una parte e il lavoro di raccolta di buone pratiche e di consumo collaborativo e sostenibile dall’altra.

L’apporto di Zoe Romano, attivista milanese del collettivo Serpica Naro e ora responsabile della divisione wearable technology di Arduino, ha toccato diversi aspetti della produ-zione open source. A questo proposito, un caso interessante è Openwear, un progetto di collezioni collaborative (brand open source): i codici (in questo caso i cartamodelli) sono aperti e ogni progettista può scaricarli e trasformarli, per poi venderli con la propria etichetta insieme a quella di Openwear. Come in ogni tipo di progetto opensource oltre a essere un’etichetta, Openwear è anche una comunità basata sui valori della reputazione, trustability (Botsman e Rogers 2010) e a disposizione di comunità sempre attiva nel trovare soluzioni comuni.

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La sperimentazione di nuovi modelli di business intorno al crowdsourcing è in continua evoluzione: citiamo forse il più famoso, che si chiama Thingiverse ed è una piattaforma che consente il caricamento di file in 3D di oggetti che altri utenti possono scaricare e prodursi in proprio (Guntlett 2013; Sunstein e Thaler 2009). Un esempio che potrebbe risultare interessante per capire la logica della produzione con licenze commons è l’esperienza di Cecilia Palmer (2014), designer berlinese del marchio Pamoyo che rilascia i codici delle sue collezioni online. In una sua intervista spiega:

Yes, its great there is more and more things happening, different business ideas around patterns and non-finished products, half-made (…) People also want to buy objects which have a story, slowly moving away from mass-produced goods. In terms of business model, they just need to be aware it’s not going to be the thing that makes you rich, but its so important they do it. And they might not get rich but they can get happier.

Codici aperti per la moda significa il rilascio dei cartamodelli on line: nel mondo del fashion e dell’artigianato c’è spesso la paura, oggigiorno sempre più ingiustificata, di es-sere copiati. Il lavoro è portato avanti in segreto, spesso sopravvalutando la qualità della segretezza, più legata a un vecchio attaccamento dello stilista al proprio ego più che a un reale valore effettivo della separazione rispetto agli altri. Nell’ottica di lavorare a servizio di un cambiamento di paradigma, legato alla microproduzione diffusa e che potesse essere d’agio anche alle singole competenze dei nostri studenti futuri designer, abbiamo inserito nel programma del workshop universitario intitolato Reframing Sustainability (20 marzo-17 aprile 2013) una prima indagine sugli artigiani presenti sul territorio, provando a responsabilizzare ciascuno studente rispetto alla propria area di provenienza.L’idea è quella da una parte di avvicinare l’attività artigianale ai futuri designer che si troveranno a interfacciarsi ad artigiani, toccando con mano gli strumenti del fare, la sapienza di chi si è dedicato ad una sola arte fino a conoscerne i più piccoli segreti e che grazie a questa intima conoscenza è capace di trovare soluzioni creative a sempre nuove questioni. Dall’altra, attraverso la tessitura di impreviste relazioni, avvicinare gli artigiani al futuro mondo digitale, un’ibridazione che siamo convinti possa portare buoni nuovi frutti (Micelli 2011; Guntlett 2013). Anche qui i casi si stanno moltiplicando. Emblematici sono i progetti Knitic del duo Varvara Guljajeva e Mar Canet un nuovo “cervello” per po-tenziare l’elettronica di una macchina da maglieria casalinga. Questa frangia della ricerca

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prevede, infine, la registrazione di alcuni tutorial che possano essere utili all’interno di ipotetici fab lab (fabrication laboratory) dell’area fashion.Riprendendo il filo dei cambiamenti nella relazione tra produzione e consumo della moda, la seconda deriva della ricerca riguarda il lavoro di raccolta di buone pratiche e consumo collaborativo e sostenibile. Adottando in parte il sistema di ricognizione che Kate Fletcher è venuta a presentarci durante il workshop Reframing Sustainability, abbiamo cercato di capire quali fossero per noi i sistemi di hackeraggio dell’abito che sapessero comunicare in maniera diffusa un sapere e un consumo critico dell’abbigliamento.Il mai lavato, il riparato, il fatto insieme, il trovato, il riadattato, il fatto con materiali di scarto, lo scambiato, il decorato, il pezzo perfetto, l’abito dell’armadio porta sempre con sé una storia che gli conferisce valore, l’abito che ha una durabilità ci attraversa le giornate, testimone di un percorso che è poi quello personale. La ricerca voleva dare attenzione a queste memorie. Analizzando come è stata portata avanti la riflessione sulla sostenibilità al London College of Fashion – dove Fletcher lavora – ci siamo resi conto che il ruolo delle immagini era forse sopravvalutato e noi avremmo avuto bisogno delle voci dell’utilizzo, dei racconti orali.Il nostro metodo richiedeva che il progetto fosse partecipato e abbiamo dato il via al numero zero di un archivio di memorie intorno all’uso dell’abito, alle tecniche di riparazione con le “stoffine” che negli anni hanno preso il sopravvento diventando toppe decorative, agli orgogli di alcune macchie ostentate con dei ricami, alle storie di ac-quisto, dono, allo scambio di gonne durante l’ora del te. Una grande voce collettiva che senza padrone è stata montata ed è in un work in progress e che prevede degli agganci in differenti comunità, che hanno differenti tracce culturali, che fanno un differente uso degli oggetti, e che si mischiano in un insieme indistinto di storie di ciò che è successo.Abbiamo individuato dei luoghi in cui per noi fosse importante fare risuonare una ricerca sulle pratiche sostenibili, sul consumo critico e dare ulteriore possibilità di risonanza e di reazione a questa per noi importante momento di aggregazione e di riflessione sulle pratiche d’uso. Perciò abbiamo chiesto ai ragazzi del Lab43, il laboratorio di incisione del Forte Marghera e al cantiere OAM#FaREte del Teatro Marinoni Bene Comune al Lido di Venezia di ospitare queste Call for Clothes che speriamo abbiano ancora modo di rinnovarsi in altri luoghi e comunità.

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Esiste la necessità di avere comunità abilitate alla progettualità non solo grazie agli strumenti tecnologici ma che sappiano riconoscere gli strumenti culturali a disposi-zione: a questo proposito doveroso dare il giusto risalto agli open data, open access e open content che hanno ruolo fondamentale nella sinergia che sottende all’innovazione sociale. Concludo citando AG Fronzoni (1995) che ci viene in aiuto con una chiosa perfetta per questa nostro spirito di ricerca:

Giulio Carlo Argan diceva che chi ricusa di progettare accetta di essere progettato. È una frase che dovrebbe essere tenuta presente da tutti. Il progetto serve a ognuno di noi per auto-progettarsi, con tutte le implicazioni relative: gli obiettivi, i significati, l’aspirazione a curare di più noi stessi, ad aiutare gli altri a realizzarsi. È solo a questo punto che si può pensare ad affrontare altri progetti: progetti di architetture, di prodotti, di grafica.

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SPERIMENTARE IL CO-DESIGN: PROGETTARE LA MODA ATTRAVERSO LE COMUNITÀ

Desamparados Pardo Cuenca*

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La questione della co-creazione, portata alla ribalta dal contesto economico e tecnologico, e di conseguenza dalle necessità sociali emerse con la crisi, ha dato impulso a nuovi modi di considerare il design e allo sviluppo di nuovi ruoli per il designer, che oggi vengono messi a fuoco (Lee 2008). Questi approcci collaborativi si presentano come una delle principali sfide che le scuole di design dovranno affrontare (Sanders e Stappers 2008). I docenti di design della moda hanno la possibilità di adottare un paradigma che può preparare gli studenti a imparare e a lavorare in modo più sostenibile, collaborativo e integrato con le esigenze della società, oltre a promuovere lo sviluppo di un diverso modo di pensare la cultura della moda.Anche se ci sono numerose discipline del progetto che da più di quarant’anni fondano i loro metodi di lavoro nel design della partecipazione (DP), la disciplina del design della moda appare ancora troppo centrata sulle metodologie di approccio individuale, centrate sul riconoscimento autoriale. Questo modo di intendere la moda non conside-ra i processi di pensiero aperto, di condivisione dei ruoli, la collaborazione attiva con gli utenti, e altre forme di interazione.Eppure, negli ultimi tempi la realtà del networking ci mostra una visione multidimen-sionale di approccio collaborativo molto lontana dalla prassi accademica attuale. Di conseguenza, la nostra ricerca indaga le basi teoriche e pratiche del co-design e della co-creazione per mettere a fuoco nuovi metodi e tecniche di progettazione che migliorino l’insegnamento del design della moda (Sanders 2006; Sanders e Stappers 2008; Sanders e Westerlund 2011; Liem e Sanders 2011; Piller et al. 2005; Prahalad e Ramaswamy 2004; Visser et al. 2005; Wu 2010).Quindi, partendo da ricerche precedenti, abbiamo messo a fuoco diversi studi che cer-cano di dare supporto alla seguente ipotesi di partenza: il design di moda, riformulato dalla pratica del co-design, rafforza il coinvolgimento degli studenti e consente anche un design più creativo e piacevole.Ho avuto modo di sviluppare questa ricerca come visiting researcher presso la sede di Treviso dei corsi di laurea triennale e magistrale in Design della moda dell’Università Iuav di Venezia, grazie alla partecipazione di docenti, ricercatori, professionisti e studenti.L’obiettivo è stato esplorare gli antecedenti del co-design al fine di applicare una proposta metodologica alla didattica della moda, per favorire un approccio collettivo e co-creativo. Per portare a termine questo obiettivo, durante le fasi della ricerca sono

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state usate diverse metodologie quantitative e qualitative, sviluppate in tre studi.Il primo studio è stato condotto attraverso una dinamica di gruppo. L’obiettivo è stato focalizzato sulla revisione e ridefinizione di una proposta metodologica che riguardava il campo del co-design e della co-creazione (Piller et al. 2005; Wu 2010).Il carattere esplorativo della proposta è stata messa in discussione dagli studenti coinvolti. Erano attese soluzioni di miglioramento della proposta, da portare nella prassi della didattica di moda e nella parte seguente dello studio. I risultati di questo primo studio hanno proposto diverse soluzioni specifiche per il co-design in studio. I risultati più rilevanti sono stati in sintesi: il potenziamento del ruolo attivo dei partecipanti e lo scambio dei ruoli durante lo svolgimento dell’esperimento, la definizione della struttura e il processo o sistema di lavoro collaborativo e, infine, la definizione della procedura per la raccolta dei dati e ordinamento dei risultati.Un secondo studio ha sperimentato la proposta precedentemente discussa, che è stata formulata in tre fasi. Questa proposta è stata sviluppata nell’aula di progettazione con un campione di quindici studenti divisi in due gruppi, che hanno messo in pratica simultane-amente due fasi diverse del modello di co-design proposto da Frank Piller (2005).In questo secondo studio, l’obiettivo è stato analizzare le differenze motivazionali e creative tra i gruppi quando lavoravano utilizzando le diverse fasi del modello di Piller.Nella prima fase di “preferenza” il nostro obiettivo è stato di cercare la ricostruzione di una storia, che è stata condivisa da tutto il gruppo. Per un maggior coinvolgimento dei partecipanti la storia creata doveva essere letta ad alta voce. Con questa pratica si volevano aumentare i livelli di implicazione nella comprensione da parte del gruppo, e allo stesso tempo si personalizzava il processo, in modo che lo studente riuscisse a costruire il proprio contesto nello spazio-tempo.La seconda fase di “pianificazione” è stata elaborata a partire dai risultati della fase pre-cedente, in modo visuale, impiegando in questo caso la tecnica del moodboard. Tutte le informazioni sono state condivise e valutate apertamente attraverso le comunità online. Nella terza fase di “costruzione” gli studenti, avendo già un’idea basata sul lavoro sviluppato nelle fasi precedenti, hanno realizzato tridimensionalmente il loro concetto. Anche in questo caso le decisioni erano condivise e cercavano il supporto e l’approva-zione del gruppo in ogni momento.

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I risultati di questo secondo studio sono stati valutati attraverso diversi metodi. Da una parte abbiamo creato un questionario che includeva le variabili suggerite dalla teoria studiata in precedenza (Piller et al. 2005; Wu 2010). Questo questionario è servito per valutare il grado di soddisfazione degli studenti per il metodo di lavoro utilizzato ed è stato analizzato attraverso diversi test statistici. Attraverso questa analisi, si è potuta confermare l’esistenza di significative differenze tra le diverse metodologie di lavoro, affrontate da entrambi i gruppi.Con questo esperimento è stato dimostrato che l’uso di metodi di co-progettazione in aula contribuiscono a valorizzare la creatività, a condividere le idee all’interno della co-munità, eliminando incertezze e riducendo l’ansia e la confusione. Inoltre si è dimostrato che i livelli di soddisfazione dell’esperienza di cooperazione sono stati più elevati quando i gruppi lavorarono in modo collaborativo, condividendo e valutando i propri risultati e quelli degli altri; attraverso le interazioni prodotte mediante le comunità online e offline.Infine, un terzo studio ha esaminato il rapporto di interazione tra i gruppi quando si lavo-rava in modo collaborativo. In questo caso l’obiettivo, raggiunto mediante il supporto di tre esperti, in qualità di giudici, è stato di verificare, attraverso le osservazioni dei gruppi (quando lavoravano collaborativamente) e mediante la compilazione di un questionario, le capacità interattive dei gruppi, il livello di motivazione e il grado di risposta creativa.I risultati di questo studio hanno dimostrato un alto accordo tra i giudici, che è stato confermato dal test statistico utilizzato per l’analisi dei risultati (coefficiente Kappa di Cohen). Infine, i risultati di questo ultimo studio hanno mostrato che quando i gruppi lavoravano in collaborazione aumentavano i loro livelli di motivazione, la capacità di risposta critica e il miglioramento comunicativo e riflessivo. Inoltre, i livelli di autostima e la fiducia si potenziavano con il supporto del gruppo, facendo aumentare anche i livelli di creatività e coinvolgimento, così come la reattività.

In questo esperimento sono state messe a fuoco diverse tecniche centrate nella pratica del design thinking, combinate con i modelli procedenti del co-design. L’impostazione della metodologia nel suo formato e nello sviluppo delle fasi, e la scelta delle tecniche impiegate per portare a termine l’esperimento sono state strumenti decisivi per i risultati riportati nella ricerca.Il punto più innovativo relativo ai cambiamenti nell’orientamento classico della proget-

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* Sono grata all’Università Iuav di Venezia e alla Escola d’Art i Superior de Disseny de València per avermi accolta e sup-portata durante le fasi della ricerca. Tutta la mia gratitudine va alle persone che mi hanno dato fiducia per realizzare questo progetto, specialmente vorrei ringraziare Mario Lupano, Alessandra Vaccari, Gabriele Monti e Amanda Montanari.

tazione è stato quello di affrontare il progetto dalla fase ideativa iniziale, introducendo pratiche co-creative per affrontare diverse tecniche di lavoro.Inoltre, dai risultati ottenuti a partire dei diversi test statistici portati a termine, siamo stati in grado di dimostrare la nostra ipotesi di partenza, dal momento che i risultati hanno dimostrato che l’uso di metodi di co-progettazione in aula contribuiscono a valorizzare la creatività, eliminando incertezze e riducendo l’ansia e la confusione quando si condividono le idee all’interno delle comunità.In sintesi, l’applicazione di nuove metodologie all’insegnamento della progettazione nella moda, aiutano gli studenti a comprendere in modo più articolato i processi di progettazione collaborativa legati al design thinking e alla co-creazione. Così gli studenti affrontano sia le nuove esigenze creative, sia i nuovi valori che ne risultano, utilizzando strategie di innovazione nel co-design che costituiscono il nuovo fashion design thinking e creano relazioni interattive sostenibili.In futuro questa ricerca potrebbe essere sviluppata attraverso nuovi esperimenti e casi di studio, incorporando all’interno del design della moda nuovi processi di co-creazione per lavorare con il modello di co-design e integrando la creatività condivisa.Questo studio ci conduce inoltre verso nuove ricerche che potrebbero concentrarsi su come affrontare l’uso di metodologie open source in aula.

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Tavola rotonda

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MODA, PROGETTO E RESPONSABILITÀ

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Il testo è una trascrizione editata della tavola rotonda che si è svolta a Venezia il 18 febbraio 2014 a chiusura del seminario Insegnare il design della moda. Il testo raccoglie i dialoghi dei partecipanti di fronte a un pubblico di studenti e gli inter-venti di alcuni di questi ultimi. Partecipanti: Maria Bonifacic, Maria Cristina Cerulli, Patrizia Fiorenza, Samanta Fiorenza, Anthony Knight, Ethel Lotto, Mario Lupano, Amanda Montanari, Gabriele Monti, Desamparados Pardo Cuenca, Simone Sbarbati, Alessandra Vaccari. Studenti intervenuti: Margherita Cesario, Roberta Colla, Florentina Isac.

Alessandra Vaccari: Bene, chiederei anche a chi ha partecipato alla prima sezione del seminario di raggiungerci e naturalmente agli studenti di avvicinarsi e contribuire a questa tavola rotonda, che è il momento centrale della giornata e del confronto. È l’occasione per riprendere in forma di dialogo tutti i discorsi che abbiamo affrontato oggi. Magari è più facile se ragioniamo intorno a delle questioni. Questi bigliettini contengono le domande pensate con Mario Lupano durante le fasi di progettazione della giornata. Sono giusto delle tracce per riflettere. Ecco la prima: le scuole di moda possono essere intese come laboratori del genere, di identità, di storie, di luoghi e di immaginari? La domanda è un po’ retorica, ma la risposta, positiva, ha comunque bisogno delle nostre spiegazioni. Sarebbe interes-sante articolare un po’ questa risposta, anche rispetto alle esperienze della nostra attività didattica. Come hanno spiegato nei loro interventi Simone [Sbarbati] e Maria [Bonifacic], molto spesso possiamo seguire le trasformazioni dei nostri studenti: le persone entrano il primo anno in un modo ed escono in un altro. Ed è un processo che corre in modo parallelo alla loro formazione.

Maria Bonifacic: Rispondo dicendo che, per me, questo seminario serve molto per iniziare a operare, anche assieme agli studenti, una puntualizzazione su cos’è e su cosa potrebbe essere l’identità – o le identità – del nostro corso di laurea. Cioè cercare di identificarla nel lavoro già fatto e capire dove vorremmo indirizzarla nel futuro. Lancio questo tema perché, come ho detto nel mio intervento, noi all’inizio avevamo individuato tre parole – progetto, tecnica e teoria – che erano un po’ fluttuanti sopra la nostra testa. Secondo me adesso vanno cambiate. E insieme a queste parole, c’era sempre fin dall’inizio un desiderio, non troppo esplicitato, di mettere a fuoco e cercare di far evolvere una riflessione sull’identità

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italiana. Metto sul tavolo questo aspetto che a me interessa molto: cos’è, cosa potrebbe essere la moda italiana, e quindi all’interno del nostro corso. Trovo questo tema importante semplicemente per il fatto che ogni cosa che ho apprezzato veramente nella mia vita aveva sempre un’identità legata a uno spazio e a un luogo, oltre che a una persona o a più perso-ne. C’è sempre questo fondamento. Sta nella specificità della biografia di una persona, la quale include la biografia collettiva del posto di provenienza o che abita. Comunque il dove stai e come stai e con chi stai, questi elementi sono la base che permette di andare incontro agli altri e di avere qualcosa da raccontare. Le storie esistono per questo motivo. Che siano le storie che si raccontano con le parole, che si raccontano con i vestiti, o con le cose che cuciniamo. Per questo motivo penso che abbia senso studiare e costruire una moda italiana, perché solo a partire da una capacità di capire chi siamo, si riesce ad andare oltre e ad avere qualcosa da condividere.

Simone Sbarbati: Sono molto d’accordo con te, e ho basato il mio seminario alla magistrale proprio sull’identità. Su un discorso di questo tipo ho fatto fare un “compito delle vacanze” di Natale, visto che quasi tutti gli studenti abitano in posti diversi, tranne un paio che sono autoctoni. È stato più complicato far svolgere il compito a chi abita fuori, anche magari in un paese diverso. Ho chiesto infatti di andare a cercare le tracce di se stessi nella propria stanza. A volte le stanze rimangono così come sono, poi uno parte per due anni, e torna soltanto per qualche giorno. Quindi si trova a cercare i segni della propria presenza passata, ipotizzando che la persona di cui si stanno indagando le tracce sia un’altra persona. Quindi pur sapendo che si è se stessi, è possibile vedersi dall’esterno, quindi capirsi con un’altra consapevolezza, tramite gli indizi trovati dentro alla stanza. Dopo aver fatto [in aula] un la-voro sugli indizi, siamo quindi andati a cercare le prove. usando usato gli indizi trovati nella stanza per raccontare delle storie e per cercare di ricostruire la propria identità. Ovviamente ognuno conosceva già la propria storia, perché ovviamente ognuno si conosce e conosce le tracce che ha lasciato, però alcuni hanno avuto problemi molto grossi; anche persone che si erano dimostrate molto sicure in altri esercizi, su questo si sono particolarmente bloccate, perché risultava particolarmente denso e pregno di significato. Poi ci sono state anche molte sorprese: molti si sono sbloccati perché,attraverso questo esercizio, hanno trovato la strada per cercare la propria voce.

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Desamparados Pardo Cuenca: Io sono d’accordo con voi e volevo anche riferire di un pro-getto sull’identità che ho impostato, sempre utilizzando la dimensione riflessiva dal design. L’idea è di costruire storie a partire da un oggetto che può permettermi di conoscere la persona che ho a fianco e di creare una narrazione che tiene conto anche dell’altra persona. Questo è un modo per personalizzare un prodotto, sia da parte del consumatore, sia da parte del designer che deve trovare un filo di comunicazione con il suo pubblico. L’identità dell’uno e dell’altro sono sempre parte di uno stesso discorso personale.

Mario Lupano: Nelle mie riflessioni su architettura e moda mi sono soffermato sul fatto che entrambe le discipline (la moda come l’architettura) lavorano sul tema dell’identità col-lettiva di comunità transitorie. Esistono anche le comunità transitorie e in trasformazione, mentre le identità delle comunità radicate talvolta mi creano inquietudine e mi fanno paura. Ritengo per esempio che la comunità transitoria degli studenti del nostro corso di laurea – transitoria perché dura pochi anni, e poi giustamente si sfalda – sia anche un’identità molto complessa, che ragiona appunto sulle questioni di genere in modo sofisticato utilizzando proprio la moda, e ciò non accade in nessun’altra realtà universitaria che mi è stato dato incontrare. L’identità appunto è un lavorio sul sé, e non c’entra niente con il lavoro sull’ego dell’artista o con le pratiche ottusamente autoriali. Il lavorare sul sé è un lavorare su una metodologia precisa, una metodologia non oggettiva, però necessaria in questo ambito. Affrontare un lavoro sul sé che distrugge l’oggettività metodologica. Ecco, credo che questo aspetto sia molto importante nel caratterizzare una scuola. Perché dobbiamo insegnare a partecipare e condividere, ma anche a cercare di emergere e fare da soli. Dobbiamo fare sempre questo lavoro di azioni opposte, e forse una scuola che si occupa di progetto deve lavorare proprio intorno a questo, deve assumere questa identità fatta di opposizioni.

AV: Intervengo solo per porre un’ulteriore domanda a tutti i docenti presenti: avete elaborato dei metodi per misurare questo lavorio intorno al sé nell’ambito dei vostri corsi?

Patrizia Fiorenza: Lo stiamo facendo in questo momento. Samanta [Fiorenza] e io stiamo iniziando ad analizzare in un modo più scientifico quali siano le richieste del programma del nostro laboratorio, gli esercizi e le metodologie sperimentati ogni settimana, anche

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perché lavoriamo molto nel costruire una narrativa attraverso le varie fasi progettuali. La prima è costruire e inventare il luogo nel quale poi viene progettata la collezione. Lo studente acquisisce capacità tecniche e artistiche durante il percorso, e inizia a capire chi è a livello progettuale quando ha la possibilità di costruire, con noi, una prima capsule collection. Questo vuol dire anche inventare tutto: una delle parole spesso usate (nella progettazione della moda e di una collezione) è “musa”. La figura della musa spesso è identificata da una figura vera e propria, e noi dobbiamo specificare: “prima trovate il luogo, e poi successivamente un’idea di musa che, almeno per noi, non è effettivamente una persona che esiste, né nel passato né nel presente, ma è semplice-mente la figura che [voi studenti] andrete a vestire all’interno di quel luogo che avete costruito, un luogo che nasce dalla ricerca; che è lo sketchbook, che è il moodwall, che è il processo che diventa progetto”. Un po’ alla volta possiamo scoprire quale parte del processo è importante per ogni studente, quanti usano ancora lo sketchbook dopo la fine del laboratorio, se diventa un rituale. Possiamo studiare il percorso attraverso una serie di interviste e colloqui, ma anche elaborando statistiche a partire dal lavoro prodotto nei sette anni trascorsi, da quando abbiamo iniziato a tenere il laboratorio. Per esempio, analizzando le statistiche del laboratorio sarà possibile capire quali sono gli esercizi più utili, quanti studenti li hanno completati, quanti poi ripetono certi esercizi, o se c’è una continua ricerca su un aspetto particolare; vediamo che spesso ci sono esercizi che piacciono all’intero gruppo e altri che nessuno studente affronta: questo significa che di deve essere una ragione intorno alla quale dobbiamo interrogarci, magari anche con l’intervento o la collaborazione di uno psicologo.

AV: Altri vogliono intervenire sulla questione della nostra eventuale capacità – in quanto docenti – di misurare i cambiamenti degli studenti? Durante il seminario, Anthony [Knight] ha iniziato il suo intervento secondo me in modo molto efficace, facendo un bellissimo elenco delle lamentele più frequenti degli studenti, come “non ho capito niente” o “non sono capace”. La sua riflessione ha toccato esattamente il punto di come gli studenti si aprono alla comprensione di una materia e anche come gli studenti cambiano e qual è il nostro ruolo di docenti in tale processo. Mi sembrano cose interessanti da registrare e un bel punto di vista, no?

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Anthony Knight: Sono stato efficace, dici? Il problema che per me si ripete ogni anno – ed è proprio un problema – viene dal fatto che io imparo sempre dall’anno precedente e che però ogni anno che non so chi mi arriva di fronte. Quando entro in aula ho davanti settanta studenti, e non so chi siano. Ho un programma già scritto, già definito, ma finché non vedo gli studenti, e non vedo come sono, è difficile, veramente difficile. Dall’esperienza degli anni pregressi, so che posso iniziare con la cosa più complicata e che i ragazzi possono rispondere come dei guerrieri, oppure disperarsi davanti a una cosa semplice. E quindi ogni volta è sempre diverso… Devo cercare di capire cosa posso fare per incoraggiare i ragazzi, ma so anche che devono avere ben chiara l’idea che il corso è molto serio, e che è necessaria molta disciplina. Ogni anno, dopo due lezioni di solito, mi ritrovo a rivedere la scansione del programma perché mi rendo conto che i ragazzi sono sempre diversi. Dal 2005 a oggi, posso dire che i ragazzi sono cambiati anche generazionalmente. I primi anni i ragazzi entravano con l’obiettivo di imparare tutto, con i sacrifici necessari. Adesso la tendenza è sentirsi parte del mondo della moda dopo aver superato la prova d’ammissione, e quindi abbastanza tranquilli. Il mio corso comunque è difficile. Penso che gli studenti qui presenti siano d’accordo. Ci sono molte esercitazioni, ma ci sono anche diversi livelli di apprendimento, perché ognuno ha il proprio tempo. Nel nostro mestiere, e specialmente nel mio, c’è bisogno di tempo per metabolizzare tutto. Comunque, per il mio corso, quando preparo il programma, ogni anno provo a cambiare, perché ho visto che ci sono tendenze, ci sono momenti in cui gli studenti vogliono fare il pantalone e solo il pantalone, mentre in passato volevano fare l’abito: è la moda che “gira”.

Amanda Montanari: Quando ero coordinatrice didattica del corso di laurea avevo modo di valutare diverse classi e diversi studenti: c’è chi entra in una maniera ed esce in un’altra, spesso ciò si evince proprio dal modo in cui si vestono. Nel corso di pochi anni a volte si nota una trasformazione netta. Lavorando con gli studenti del primo anno è molto complica-to scardinare alcune convinzioni che spesso sono dei luoghi comuni e il corso introduttivo di modellistica lascia scoperta la riflessione sul progetto, anche se la tecnica senza progetto non esiste. All’inizio è come se gli studenti progettassero senza avere strumenti per riflette-re sulla progettazione, e forse questo è un punto da riconsiderare nel percorso didattico.

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AK: Da qualche parte bisogna pure cominciare. Bisogna ricordare che quando i ragazzi entrano in aula non conoscono le procedure di costruzione di un abito e neppure gli strumenti per la confezione, non sanno cos’è una macchina da cucire, non sanno cos’è un cartamodello, non sanno niente: sono lì di fronte a me, spaventati, e devono imparare tutto. Ovviamente non vogliamo formare dei tecnici puri, quindi in maniera implicita o per imitazione trasmettiamo alcune visioni del progetto che poi i laboratori successivi avranno il dovere di mettere in discussione.

AV: Sia quando Amanda [Montanari] ci parla della “fatica di togliere le muse”, sia quando Anthony [Knight] riflette su come “cambiano le mode” all’interno delle narrative dei fashion designer, si tratta di aspetti impliciti della progettazione di moda, da collegare a come si costruiscono le storie e i discorsi dei fashion designer che non sempre sono dichiarati e ancor meno studiati. Questi aspetti sono davvero interessanti e poterli analizzare da una prospettiva interna alla formazione del fashion designer è per me, come storica della moda, davvero un’opportunità incredibile.

Ethel Lotto: Ho avuto modo di confrontarmi con Simone Sbarbati ed è emerso che due mo-duli didattici completamente diversi dal punto di vista del metodo, cioè quello di comunica-zione e quello di modellistica per gli studenti della magistrale, hanno messo in luce alcune caratteristiche degli studenti e indotto alcune trasformazioni molto simili.

AV: Possiamo esaminare alcuni aspetti di ricerca trascurati in questa prima parte della tavola rotonda? Finora ci siamo concentrati sulla didattica e le nostre responsabilità di docenti. Vorrei ora lanciarvi un’alta domanda, che ognuno può interpretare come vuole: quali sono le relazioni esplicite e implicite tra didattica e industria della moda? Possiamo ragionare partendo dalle considerazioni che hanno fatto nei loro interventi al seminario Cri-stina [Maria Cristina Cerulli], Gabriele [Monti] e anche ovviamente di Amanda [Montanari], Amparo [Desamparados Pardo Cuenca] e Simone [Sbarbati]. Per esempio, lo storytelling ha una funzione economica e le nostre attività didattiche sulle relazioni tra moda e raccontare delle storie ci servono solo per insegnare a produrre valore? Cosa altro?

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SS: Sono completamente contrario all’idea che il mio lavoro serva soltanto per produrre valore, anzi penso sia proprio il contrario, nel senso che prima bisogna lavorare sulla propria creatività, poi condurre anche una ricerca sul sé, sulla propria idea di moda, di progetto e poi costruire il resto. Quindi sì, tra industria e didattica, vedo questo scontro che però dovrebbe essere bypassato: l’industria si dovrebbe aprire di più alle sperimentazioni della didattica, perché all’università vengano formate delle creatività e delle professionalità che riescono sempre ad evolversi, e non figure professionali standard.

AV: Ci possono essere relazioni esplicite tra università e industria e anche relazioni sotter-ranee, virtuose o meno virtuose. Maria Cristina [Cerulli], nella ricerca che stai facendo sul recupero degli scarti tessili pre-consumo, e che mette direttamente in relazione università e industria, vedi dei possibili rischi? Prima hai fatto emergere principalmente gli aspetti posi-tivi della relazione tra aziende che hanno tessuti inutilizzati da smaltire e università sempre a caccia di materiali con cui sperimentare. Nell’alimentare questa relazione potremmo incorrere in qualche rischio?

Maria Cristina Cerulli: Assolutamente sì. Durante la ricerca mi sono chiesta più volte come mai, nonostante viviamo in un paese ricco di aziende, questo lavoro non sia ancora stato fatto. Non dico che non avvengono relazioni tra studenti e aziende, ma non vi è ancora una piena fiducia e un consolidato rapporto istituzionale. La difficoltà nel portare a termine, e concretizzare, un progetto di ricerca come il mio deriva dalla convinzione che sia utile tentare di smuovere meccanismi consolidati. Quando la mia ricerca entra in rapporto con la didattica c’è il rischio che si ritrovi subordinata a logiche ed esigenze aziendali, che vanno ben ponderate e organizzate. Bisogna valutare le modalità con le quali rendere fruibile questo materiale agli studenti. Per intenderci, è realmente utile che abbiano tutti queste agevolazioni? La storia ci insegna che spesso le idee migliori nascono proprio dalla mancanza di mezzi e possibilità. Per questa ragione è un progetto che va adeguatamente gestito e anche limitato. Inoltre, ricollegandomi al discorso precedente e basandomi sui dati raccolti durante le diverse fasi della ricerca, posso affermare che da parte di coloro che dirigono e lavorano all’interno delle aziende con il compito di vendere,

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oltre che progettare la moda, vi è spesso l’opinione comune rispetto che i giovani designer usciti dalle scuole siano inesperti. Il mio parere è che, finché si parla di didattica e di sperimentazione, le logiche e le dinamiche legate al mercato possano essere lasciate da parte. Ciò va fatto non nell’ignoranza della loro esistenza ma anzi nella piena consapevolezza che tali logiche esistono. Credo sia utile maturare una relazione tra didattica e industria attraverso incontri, workshop, i quali si potrebbero basare sul dibattito a partire da esempi ed esperienze personali. Poter raccontare agli studenti cosa succede fuori dall’ambiente protetto dell’università permetterebbe loro di riflettere, fare scelte, decidere e affermare con maggiore consapevolezza la propria identità, il proprio percorso ma soprattutto i propri progetti. Credo che la cosa fondamentale non sia essere dentro questa presunta realtà, ma che il punto centrale sia conoscerne l’esistenza. Per queste ragioni lo stage formativo obbligatorio che lo Iuav propone al terzo anno è un passo fondamentale per la crescita e lo sviluppo della propria identità. Ricordo che molto cambiò dopo la mia esperienza di stage. Da quel momento ho iniziato a maturare considerazioni rispetto a ciò che mi interessava e a ciò da cui, invece, volevo prendere le distanze.

ML: A me, per esempio, che gli studenti abbiano a disposizione i tessuti migliori, prodotti dalla ricerca industriale e che questo si sappia va bene, però mi interessa di più che gli studenti si trovino insoddisfatti di fronte al materiale che loro viene offerto dal mercato. Cioè, vorrei che cercassero qualcosa che il mercato non è ancora stato capace di esprimere, e questo va sempre sottolineato. Per rispondere alla questione dell’implicito e dell’esplicito, io preferirei dire del consapevole e dell’in-consapevole, abbiamo visto che molte metodologie didattiche, per esempio, sono desunte dal mondo dell’impresa, quindi sono simulazioni di procedimenti produttivi e imprenditoriali che vengono ritenute oggettive, che metodologicamente sono lineari, perché nell’industria sono lineari. Ecco, penso che l’università debba smontare tutto ciò e dare nuove interpretazioni. La scuola per esempio può trasformare il moodboard in un atlante delle sensazioni, distanziandosi da un’idea di dispositivo che raccoglie gli orientamenti del marketing a uso e consumo dell’ufficio stile. Ci interessa il moodboard anche come dispositivo interrogativo, piuttosto che come strumento per il

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controllo e l’affermazione di un prodotto. Penso che certe cose si debbano apprendere direttamente il mondo del lavoro, e altre nell’università. Possono essere anche punti di vista contraddittori, e noi abbiamo il compito di essere anche interrogativi rispetto all’insegnamento che viene dall’industria.

AV: Per tenere alto il livello di dialogo.

ML: Esatto, per alzare sempre di più il livello di dialogo e per creare anche dei dubbi utili per stimolare la ricerca. Dovremmo arrivare a un punto in cui l’imprenditore non vive l’università come elemento di disturbo, ma con interesse. Le aziende con un alto livello di intraprendenza innovativa sono interessate a trovare soluzioni nuove ai problemi vecchi o nuovi che si presentano, a trovare nuovi comportamenti per costruire relazioni con un mondo cangiante.

MB: Forse questo seminario non è stato concepito per essere una conversazione anche con gli studenti. Però io vorrei coinvolgerli, anche se aprire una discussione con più di centottan-ta persone diventa complicato. Immagino che il discorso che faceva Amparo [Desamparados Pardo Cuenca] era motivato da questo desiderio di sperimentare nuove modalità nel rapporto fra docente e studente. A me interessa molto capire il punto di vista e l’esperienza degli studenti. Praticamente tutti i docenti oggi hanno parlato di ricalibrare i propri corsi, e questo succede in base all’esperienza di ogni anno. Le occasioni di confronto sono spesso ostacolate da questioni di ruoli, voti, programmi e tempo. Sarebbe bello trovare il modo di riflettere insieme. Ogni tanto vengono dei rilevatori a sottoporvi dei questionari di valutazione della didattica. Sono contenta che questo venga fatto, però, mi posso sbagliare, ma non mi sembra uno strumento utile. Mi piacerebbe per esempio sentire resoconti dettagliati delle vostre esperienze in stage. Ho lavorato con immenso entusiasmo per far sì che questo corso univer-sitario esistesse. Poi ho iniziato ad avere dubbi sull’idea che dobbiamo mandare gli studenti in stage per imparare le cose. Perché da quando abbiamo detto che la moda si impara nelle scuole e nelle università, tutte le forme svariate di imparare nella vita e nel lavoro sono state delegittimate. Ho anche molti dubbi, soprattutto perché, se c’è stata una cosa veramente difficile ogni anno, è stato proprio il rapporto con voi studenti. Io cercavo di farvi capire che

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non c’è nessun obbligo di frequenza. Cercavo un atteggiamento più maturo. L’università è una scelta, e uno studente è qui perché vuole imparare, che gli piaccia o meno un docente. Io non voglio forzare nessuno a essere qui. Io mi aspetto autonomia. Sono semplicemente un interlocutore in un processo che è scelto dallo studente. Mi piacerebbe molto avere la possibilità di capire le esperienze degli studenti, cosa realmente pensano. Però fuori dalla gabbia dei voti in cui ci troviamo nei corsi. Io odio dare i voti. Non si può trovare il modo per eliminarli, cioè o si passa o no si viene promossi? In Inghilterra c’è questa modalità.

PF: Il punto è che il voto è anche inutile, noi lo diciamo sempre agli studenti, per noi è più importante il percorso e la crescita individuale a fine laboratorio.

MB: Importa solo il portfolio infine. Chi lo guarda il voto? In questa disciplina non importa il numero, forse gli unici a cui interessa sono i genitori. E volevo aggiungere che mi piacerebbe, in uno dei prossimi open day di fine anno, restituire come noi vediamo ciò che abbiamo intorno. Piuttosto che mostrare ciò che facciamo e progettiamo, mostrare come ci relazioniamo con il nostro territorio.

DPC: Credo che si sia messo a fuoco il discorso di come siano cambiati i ruoli, la necessità e il lavoro del professore che progetta insieme agli alunni e anche insieme alle imprese: un grande laboratorio in cui tutti lavorano insieme. Credo sia molto inte-ressante. Il ruolo del professore, nella mia esperienza, è lottare ogni giorno e ripensare a come potenziare la creatività degli studenti, perché loro hanno bisogno di spinte, ogni giorno. Si tratta di tracciare contesti da ricercare insieme, proporre loro ogni giorno una sfida nuova, affinché siano coinvolti in questa esperienza.

MCC: Volevo fare una semplice constatazione che mi viene in mente dopo anni di studio trascorsi allo Iuav. Per me, a posteriori, è fondamentale affrontare percorsi diversi e diver-sificati col fine di costruirsi il proprio. Parliamo del triennio, solo alla fine del triennio inizi a concepire e stabilizzare il tuo percorso progettuale, a capire cosa ti appartiene di quello che hai potuto affrontare e cosa no, ed è fondamentale incontrare delle persone che ti impon-gano la loro “verità”, il loro modo di pensare, la loro metodologia, che ti impongano a volte

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di vederla a modo loro, attraverso quello che hanno costruito e attraverso ciò in cui credono. Si può poi provare a uscirne e non per forza adottare ciò che ci viene imposto anche se tutto questo, dopo averlo fatto, conosciuto ed aver operato sotto forti restrizioni, soprattutto agli inizi del proprio percorso formativo, ti permette pian piano di costruire la tua “verità”. Noi ci formiamo anche attraverso gli altri, per metterci alla prova attraverso sfide: si tratta di percorsi che inizialmente non è semplice comprendere. Io per esempio ho capito il corso di Maria Bonifacic due anni dopo, facendolo ho incontrato delle serie difficoltà perché non ero ancora in grado di recepire quello che mi veniva chiesto, e questo è importante, perché ti obbliga a provare, a tentoni, ad andare in una qualche direzione.

SS: Volevo legarmi alla questione del coinvolgere gli studenti, in quanto “professore di religione”. Secondo me è fondamentale come raccontare l’esperienza in azienda, non ai docenti, ma agli studenti più giovani, con apertura maggiore, senza filtri. Sanno che gli in-segnanti si aspettano qualcosa, la sincerità è sempre relativa, no? Formare delle persone che riescono a recepire e raccontare quello che fanno gli altri studenti, e come funziona… Da parte mia è servito anche farli uscire tutti insieme, in giro per la città: persone che non avevano mai parlato dall’inizio del corso si sono messe a chiacchierare insieme, e tutti erano molto più uniti rispetto all’inizio.

Roberta Colla: Io mi volevo collegare a ciò che ha detto Cerulli. In quanto studentes-sa, ho trovato che è molto utile e bello che ci siano dei laboratori così agli antipodi, veramente diversissimi che vengono uno dopo l’altro. Per esempio affrontare il laboratorio di Mariavittoria Sargentini e subito dopo quello di Patrizia e Samanta Fiorenza che sono due universi progettuali completamente diversi, è veramente uno step difficilissimo da superare. Averli di seguito ti fa capire diversi modi di progettare, e poi sta a te capire cosa prendere da uno e dall’altro. Lo capisci sempre dopo, ma è giusto così.

Florentina Isac: Sì, il non capire subito è per me fondamentale. Nel senso, io ho capito il metodo di Sargentini quando seguivo il laboratorio condotto da Fiorenza, ho capito il metodo di Fiorenza quando seguivo Bonifacic...

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Margherita Cesario: Per voi è difficile capire lo studente e per noi è difficile capire, in così poco tempo, anche il vostro approccio.

AK: Per me il momento di massima delusione è quando devo dare i voti, ed è tutto basato su un numero, non sulle capacità e su quello che gli studenti hanno imparato. Noi sappiamo che avete fatto fatica per sostenere il ritmo, ma io devo valutare il momento, non il fatto che questo voto vale tre anni. Tutti dicono che io do i voti più bassi e rovino la media, ma cosa succede dopo di me? Che hai imparato, punto! Quando si seguono i ragazzi per la tesi, alla fine tutto viene fuori. Alla fine, c’è bisogno di tempo: purtroppo la vostra generazione ha troppa fretta, a vent’anni devi essere già un designer affermato, che però rischia dopo due stagioni di aver già finito la carriera, e non sei più nessuno.

MB: Non bruciamoci troppo presto. Anche questa cosa dei concorsi, che pure è interes-sante, è anche un modo per l’industria di trovato idee e persone senza pagare. E dall’altra parte i giovani che partecipano a questi concorsi sono sotto un immenso, costante spotlight. Ho l’impressione che questo non aiuti.

PF: Anche perché l’aiuto è solo per le prime due stagioni. I neolaureati talvolta si trovano abbandonati. L’università dovrebbe essere in costante contatto con gli ex studenti per almeno due anni dopo la laurea, per sapere se stanno bene, se si sono inseriti bene nell’ambiente lavorativo, se hanno problemi. Gli studenti escono a vent’anni o poco più da una triennale, e anche se fanno i due anni in più della magistrale, non possono avere tutte le risposte, anzi nessuno le ha.

MB: Prima ancora di decidere come possiamo seguire le persone, va creato un ambiente in cui non c’è la pressione di diventare superstar. Se faccio qualcosa d’altro, chi se ne importa. L’importante è essere felici, essere in una situazione in cui è importante esserci, fare le cose. Poi la vita è veramente altro.

ML: Bene, dobbiamo chiudere. Sono stati rilevati e affrontati problemi anche molto sot-tili, che difficilmente si discutono in altre situazioni universitarie, penso che questo vada

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riconosciuto. Discutere per affrontare il futuro e riflettere su come monitorare il futuro degli studenti che escono dal corso di laurea, sono cose che raramente si affrontano, ma che noi facciamo molto volentieri. Io penso che questo sia dovuto al mix di docenti che si sono trovati a lavorare in questi corsi di laurea, tutti molto appassionati. L’idea di amare ciò che si fa credo sia molto importante.

Gabriele Monti: C’è anche un altro aspetto importante che ci riguarda, ed è un certo dibattito interno ai corsi di laurea; non lo dico perché ci lavoro dentro, ed è sicuramente qualcosa che accade più facilmente in un’università che si dedica al progetto. Però, quel-lo che abbiamo fatto noi oggi, i problemi che ci siamo posti, il modo in cui costantemente negli anni ho assistito e poi partecipato direttamente alla costruzione di questa realtà attraverso il coinvolgimento diretto degli studenti nel prendere decisioni: non si tratta di una cosa così usuale; c’è una dimensione speciale, qualcosa che succede allo Iuav, e solo allo Iuav. Come docente mi accorgo che non fai semplicemente lezione, e poi vai a casa a scrivere l’articolo; c’è un intreccio costante fra insegnare e fare ricerca, che è costitutivo del processo che stiamo portando avanti, il fondare un’università in Italia che si occupa della moda. È una cosa nuova, che succede solo qui, sono molto colpito da questo.

ML: Bene, allora grazie a tutti e continueremo in un’altra occasione.

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Ambiti d’indagine dell’unità di ricerca

Archivi della modaQuesto ambito di ricerca parte dalla considerazione che nella cultura della moda contemporanea gli archivi hanno acquisito un ruolo centrale come risorsa cultu-rale e terreno di incontro tra progettazione e produzione delle identità. Tra i temi d’indagine vi sono il collezionare moda; le forme di archiviazione; le dinamiche tra conservazione e comunicazione del passato; e la creazione di nuove collezioni a partire dall’archivio, sia nei contesti privati di case di moda e industrie, sia nell’ambito di raccolte pubbliche.

Design della modaConfluiscono in questo ambito un gruppo ampio di ricerche sulla pratica progettuale e sui suoi processi di rinnovamento nei contesti industriali e accademici. Sono qui considerate le metodologie e le tecniche di ricerca relative alla creatività; la teoria e la critica del fashion design e le relazioni con i fashion studies; l’autorialità e i discorsi dei fashion designer.

Pratiche curatoriali della modaAl centro di questo ambito è il rapporto fra la moda e il suo essere mostrata, attraverso allestimenti, musei, riviste e progetti editoriali. Oltre a considerare il ruolo degli oggetti e delle collezioni di abiti nella cultura della moda, questo ambito di ricerca intende stimolare la riflessione teorica su questa disciplina, sul ruolo professionale del curatore di moda, sulla storia degli allestimenti e sulla museologia.

Industria della moda e confezioneSi riferisce all’ideazione, alla produzione e al consumo di moda su larga scala, ma anche alla moda come mezzo di comunicazione di massa e come sistema che si diffonde secondo modalità mass-mediatiche. In questo ambito di ricerca confluiscono le riflessioni sul rapporto tra identità e stereotipo; tra sistemi di produzione industriale e cultura pop.

Moda e cultura visualeSi focalizza sulla produzione immateriale della moda e sul suo ruolo nella cultura contemporanea. Fanno parte di questo ambito le ricerche di taglio storico e culturale sulla creazione e il consumo di immagini e immaginari nei settori dell’illustrazione, della fotografia, del cinema, delle riviste e delle piattaforme web.

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Moda e modernismoEsplora in modo interdisciplinare il ruolo della moda nel modernismo, inteso come categoria culturale, artistica ed estetica. Tra gli interessi di questo ambito vi sono la questione delle temporalità moderniste; lo spettacolo e gli aspetti performativi della moda; le geografie e i processi di diffusione transnazionale delle mode; le visioni indotte dai regimi dittatoriali e le loro eredità.

Moda e sostenibilitàQuesto ambito si propone di ripensare la sostenibilità della moda, solitamente collegata alle questioni della globalizzazione, del lavoro minorile e della disuguaglianza sociale ed economica. In particolare, intende studiare l’emergere di specifiche, e storicamente situate, forme di impegno e attivismo nella moda da parte di fashion designer, comuni-tà, Ong, università, imprenditori e utenti finali.

Moda italianaL’identità e la storia della moda italiana dal XX secolo sono al centro di questo ambito, che ha come temi specifici l’industria; le diverse forme di moda tra loro in competi-zione; il rapporto tra moda e tessile; il fenomeno degli stilisti; il Made in Italy; le città italiane della moda; gli stereotipi e la creatività diffusa.

Storiografia della moda e storytelling Quest’ambito di ricerca si concentra sul rapporto tra cultura della moda e narrazione storica. Lavora sulla storiografia della moda; sui modi di produrre storia; sui paradigmi della ricerca storica; e sulla relazione con le storie di fashion designer, prodotti e aziende.

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Autori

Laura Bolzan è designer free-lance laureata presso l’Università Iuav di Venezia ed è Commesso fotografo insieme a Francesco de Luca.

Maria Bonifacic è docente nel Laboratorio di design della moda 3 per il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali dell’Università Iuav di Venezia.

Maria Cristina Cerulli è laureata magistrale in Design e Teorie della Moda all’Universi-tà Iuav di Venezia e titolare di un assegno di ricerca FSE-Regione Veneto in partenariato con Bonotto S.p.A e Pier S.p.A.

Francesco de Luca è Commesso fotografo e tiene il Workshop di fotografia presso il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali all’Università Iuav di Venezia.

Patrizia Fiorenza è fashion designer e professore a contratto all’Università Iuav di Venezia dove tiene il Laboratorio di Design della moda 2 per il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali.

Samanta Fiorenza è accessories e jewellery designer ed è docente nel Laboratorio di design della moda 2 per il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali dell’Università Iuav di Venezia.

Maria Luisa Frisa è direttore del corso di laurea in Design della moda e Arti multime-diali all’Università Iuav di Venezia e insegna Pratiche curatoriali della moda alla Magi-strale in Arti visive e Moda. È critico, fashion curator e presidente di Misa, Associazione italiana degli studi di moda.

Anthony Knight è modellista e docente nel Laboratorio di modellistica per il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali. Tiene inoltre il modulo di Modellistica nell’ambito del Laboratorio avanzato di design della moda 2 della Magistrale in Arti Visive e Moda dell’Università Iuav di Venezia.

Ethel Lotto è dottoranda di ricerca in Scienze del Design all’Università Iuav di Venezia e collaboratrice alla didattica del Laboratorio di modellistica per il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali. È titolare di un assegno di ricerca FSE-Regione Veneto in partenariato con l’azienda Marzotto S.p.A.

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Mario Lupano è professore ordinario all’Università Iuav di Venezia, dove insegna Storia dell’architettura contemporanea e Storia delle mostre e degli allestimenti, rispettiva-mente nei corsi di laurea di Design della moda e Arti multimediali e Magistrale in Arti visive e Moda. È responsabile scientifico dell’unità di ricerca Il progetto nella moda. Amanda Montanari è ricercatore all’Università Iuav di Venezia di progettazione partecipata e sostenibile ed è docente del Laboratorio di design della moda 1, insieme a Mariavittoria Sargentini, per il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali.

Gabriele Monti è ricercatore all’Università Iuav di Venezia, dove insegna Concept Design e Moda e cultura visuale, rispettivamente nei corsi di laurea di Design della moda e Arti multimediali e Magistrale in Arti visive e Moda.

Desamparados Pardo Cuenca è docente di design della moda alla Escola d’Art i Supe-rior de Disseny de València e dottoranda di ricerca e docente alla Università Politècnica di Valencia. Nel 2013 è stata visiting researcher all’Università Iuav di Venezia.

Simone Sbarbati è co-fondatore ed editor in chief del magazine online Frizzifrizzi. Tiene il Workshop di moda e comunicazione web nell’ambito del Laboratorio avanzato di desi-gn della moda 2 della Magistrale in Arti visive e Moda dell’Università Iuav di Venezia.

Alessandra Vaccari è responsabile del curriculum Moda della Magistrale in Arti visive e Moda dell’Università Iuav di Venezia, dove insegna Storia della moda e Storia e teoria della moda, rispettivamente nei corsi di laurea di Design della moda e Arti multimediali e Magistrale in Arti visive e Moda.

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Fashion at Iuav, BackstageRiviera Santa Margherita, Treviso

2012

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Finito di stampare nel mese di maggio del 2014dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. »

00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma

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