Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · 2014-05-09 · ca, fisica,...

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1 Focus: epistemologi eretici del ’900 Pag. 03 Presentazione di Gaspare Polizzi Pag. 05 Michel Serres: un “umanesimo complesso” di Gaspare Polizzi Pag. 16 La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard di Gabriella Arazzi Pag. 31 Edgar Morin: abitare eticamente la natura di Mario Quaranta Pag. 44 Giovanni Vailati e Mario Calderoni tra meta-etica, etica descrittiva e normativa di Ivan Pozzoni Borderline Pag. 58 Le stagioni della Puglia Dalla primavera delle primarie all’autunno del Governo regionale di Alessandro Lattarulo Pag. 87 Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa di Elio Franzin Il Sestante Pag. 100 Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 284. di Lidia Lo Schiavo Pag. 114 Il deficit democratico dell’Unione europea: tra politics e policy di Silvia Bedin SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero Sedici, 2006

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Focus: epistemologi eretici del ’900

Pag. 03 Presentazione di Gaspare Polizzi

Pag. 05 Michel Serres: un “umanesimo complesso” di Gaspare Polizzi

Pag. 16 La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard di Gabriella Arazzi

Pag. 31 Edgar Morin: abitare eticamente la natura di Mario Quaranta

Pag. 44 Giovanni Vailati e Mario Calderoni tra meta-etica, etica descrittiva e normativadi Ivan Pozzoni

Borderline

Pag. 58 Le stagioni della Puglia Dalla primavera delle primarie all’autunno del Governo regionaledi Alessandro Lattarulo

Pag. 87 Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa di Elio Franzin

Il Sestante

Pag. 100 Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1998, pp. 284. di Lidia Lo Schiavo

Pag. 114 Il deficit democratico dell’Unione europea: tra politics e policy di Silvia Bedin

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IO Culture Economie e Territori

Rivista QuadrimestraleNumero Sedici, 2006

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Nel 1910 Henri Poincaré scriveva che «la fede delloscienziato assomiglierebbe piuttosto alla fedeinquieta dell’eretico, a quella che cerca sempre eche non è mai soddisfatta» (H. Poincaré, Savants etEcrivains, Flammarion, Paris 1910, p. VI). Questefrasi rispondono a una condizione storica e psico-logica particolare: gli scienziati della natura e imatematici sono colpiti – alla fine dell’Ottocento –da una radicale trasformazione che mette in dis-cussione i principi stessi della scienza. La lororisposta a tale crisi, che apre la strada agli straordi-nari successi delle scienze fisico-matematiche ebiologiche nel Novecento, è ben espressa dalla«fede inquieta dell’eretico». Gli studiosi che qui vengono presentati (G.Bachelard, G. Vailati, M. Calderoni, E. Morin, M.Serres), di area culturale francese e italiana, si sonomisurati dall’interno con il farsi della scienza delNovecento e testimoniano una linea di interpre-tazione della “crisi” della scienza che ha condottoa configurare una epistemologia e una filosofiadella scienza attente al carattere storico ed evoluti-vo delle teorie scientifiche, allo sviluppo dellaconoscenza e ai suoi risvolti etici. Si tratta di ten-denze epistemologiche estranee alla linea domi-nante dell’epistemologia contemporanea, che havissuto della rapida affermazione e dell’altrettantorapido declino dell’empirismo logico.Abbandonata l’illusione che si potesse fondare unascienza unificata e definire una logica univoca dellaconoscenza scientifica, la prospettiva dell’episte-mologia si fa storica e critica, seguendo da vicino«la fede inquieta» dello scienziato e risolvendosinelle ultime posizioni (si pensi in particolare a

Morin e a Serres) in una vera e propria filosofiadella natura eticamente orientata.Questa visione dinamica ed etica della razionalitàscientifica, che guarda alla scienza come alla ricer-ca di una verità che emerge spesso con i tratti del-l'eresia, si è fatta strada nel Novecento confrontan-dosi con le svolte epocali della scienza contempo-ranea. La storia della scienza è anche storia di isti-tuzioni e di “sette eretiche”, di un sapere dislocatofra il potere e l'antagonismo, è storia di svolte trau-matiche e di rivoluzioni, nella quale teorie a lungorimaste sotterranee si affermano per effetto di con-giunture sempre diverse e non predeterminate. Nel pensiero scientifico contemporaneo il con-trasto tra scienza “normale” e scienza “rivo-luzionaria” (per usare il lessico di Th. Kuhn) è statoparticolarmente efficace e ha condotto alla costi-tuzione di una nuova disciplina – l’epistemologia– che ha inteso indagare limiti e condizioni di pos-sibilità delle nuove teorie scientifiche con il pienopossesso degli strumenti del mestiere, ovveropadroneggiando dall’interno linguaggi e strumentidelle scienze. Soltanto ai margini del trionfantemovimento dell’empirismo logico – e specifica-mente in Francia e in Italia – si è tuttavia sviluppa-ta un’attenzione alla nuova scienza non indirizzataverso grandiose proposte di rifondazione e illusoriprogetti di unificazione del sapere. In Francia sisono prodotti momenti di riflessione che hannovisto protagonisti scienziati-filosofi come HenriPoincaré o Pierre Duhem e che hanno fornito nonpochi spunti al Circolo di Vienna e all’empirismologico. Ma in Francia – e, per quel poco che si èespresso, anche in Italia, con pensatori come

Gaspare Polizzi

Presentazione

Focus: epistemologi eretici del ’900

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Vailati e Calderoni (ma anche Giuseppe Peano eFederigo Enriques) – l’epistemologia ha mantenu-to un carattere storico, critico e razionalmenteaperto, che ben si raffigura nell'opera di Bachelard,il primo ad aver creato le condizioni per pensareadeguatamente le rotture epistemologicheprodotte della scienza novecentesca. Bachelard propone una vera e propria «psicologiadello spirito scientifico», al fine di superare gli osta-coli che si frappongono alla razionalità rettificatadella microfisica o della teoria della relatività, diabbandonare il senso comune che condiziona lapratica stessa della razionalità. Se «la scienza nonha la filosofia che si merita», una nuova "filosofiascientifica" nascerà soltanto dall’interno stessodelle scienze (fisica, matematica e chimica, scienzache Bachelard frequenta professionalmente) e sipiegherà alla scienza senza presumere di sosti-tuirvisi. L'effetto più consistente di tale dinamicadel pensiero scientifico è proprio la divaricazionerispetto alla conoscenza comune e alla scienza pas-sata. Da qui la teorizzazione di una «filosofia delnon», che raccolga in un’epistemologia non carte-siana sorretta dalla prospettiva della complessità ilvalore alternativo delle geometrie non euclidee,della meccanica non newtoniana, della fisica nonmaxwelliana, dell’aritmetica non pitagorica. Dallenuove scienze emerge anche quel primato delcomplesso che dà vita a una visione discontinua,rivoluzionaria dello sviluppo del sapere e chediverrà centrale nel pensiero “eretico” di Morin.Scrive già Bachelard nel 1934: «Mentre la scienza diispirazione cartesiana costruiva molto logicamenteil complesso col semplice, il pensiero scientificocontemporaneo cerca di leggere il complesso realesotto l’apparenza semplice offerta dai fenomenicompensati, si sforza di trovare il pluralismo sottol’identità, al di là dell’esperienza immediata rias-sunta troppo frettolosamente in un aspetto d’in-sieme» (G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico,pref. di L. Geymonat e P. Redondi, trad. it. di F.Albèrgamo, Laterza, Bari 19782, pp. 126-127). Nellasua apertura anti-sistematica l’epistemologiabachelardiana mostra in pieno la sua attualità,

anche in rapporto con le più note tesi del post-neopositivismo (I. Lakatos, Th. Kuhn, P.Feyerabend).La dimensione “eretica” di tale indirizzo epistemo-logico è stata espressa nel modo più convincenteda due pensatori di grande rilievo nel panoramadella riflessione contemporanea sulle scienze:Morin e Serres. Morin ha percorso un lungo itiner-ario di ricerca che lo ha condotto dall’epistemolo-gia alla filosofia della natura ed è stato in buonaparte motivato dall’esigenza di sintetizzare unnuovo metodo (l’apprendere di apprendere) nelquadro di un’enciclopedia “democratica” delsapere, e dalla necessità etica di superare la sepa-razione tra discipline distinte per pensare la comp-lessità sui tre livelli della realtà naturale (microfisi-ca, fisica, cosmologia) e sul piano variabile e storicodella realtà umana e sociale. La sua prospettivatende a presentare una visione unitaria del rappor-to tra realtà umana e naturale che approda a un’al-leanza tra epistemologia ed etica. Per parte suaSerres sviluppa da quarant’anni una riflessione sulcomplesso e sulla miscela nelle scienze e nellanatura e propone una filosofia della natura cheinterpreta i messaggi e le loro trasmissioni nellatrama che connette le scienze e il mondo della cul-tura umana al Grand Récit dell’evoluzione naturale.Negli scritti apparsi a partire dal 2001 la “filosofianaturale” di Serres affronta i nodi ontologici ed eticipiù rilevanti della condizione umana nella tardamodernità, al fine di indicare nuove forme possibiliper «abitare eticamente la Terra» (M. Quaranta). Unobiettivo questo che accomuna negli scopi gli itin-erari di ricerca di Morin e di Serres.Con gli scritti che qui raccogliamo intendiamofornire una prima ricognizione di tali tendenze“eretiche” della odierna riflessione sulla scienza esulla morale.

*I saggi di Arazzi, Polizzi e Quaranta sono lerelazioni lette al convegno su “Caos e complessità”che si è tenuto a Messina nel Luglio 2006.Ringraziamo il Professor Giuseppe Gembillo peraver consentito la pubblicazione.

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Gaspare Polizzi

Michel Serres: un “umanesimo complesso”

Focus: epistemologi eretici del ’900

Nous vivons et pensons dans le mélangeConversations avec Michel Serres.Jules Verne, la science et l'homme contemporain, p. 71

Da quasi quarant’anni Michel Serres sviluppa una riflessione sul complesso telquel, contrapponendo alla fissità semplice della ragione referenziale l'intrecciomobile delle complessità e, sotto il segno di Ermes, propone una filosofia cheinterpreta i messaggi e le loro trasmissioni nelle forme di una trama complessadi scienze, arti, leggi e religioni. La tessitura dell’ordine del sapere scientifico conla varietà del paesaggio narrativo ed esistenziale costituisce il tratto distintivo del-l’opera serresiana1, la cifra della sua lunga randonnée, che – in controtendenzarispetto a tutta una tradizione di pensiero – ha prodotto da più di trent’anni unariflessione mobile su variazioni e paesaggi di corpi e scienze, rimarcando negliultimi scritti la dimensione epocale dell’attuale svolta evolutiva dell’umanità2. Lacomplessità di tale itinerario ha fatto sì – come ha riconosciuto lo stesso Serres– che la sua opera, estranea a ogni collocazione disciplinare, non sia stata bencompresa:

«Je n’ai jamais été classé, pour la raison simple que j’habite une intersectionvide. Très peu d’auteurs littéraires autrefois ont ignoré la science. Balzac ensavait, Corneille aussi, La Fontaine plus encore, il avait traduit Lucrèce. OrLucrèce c’est de la bonne physique et ma critique a consisté à le montrer. Pascalécrit des mathématiques mais personne n’en tient compte. Quand j’ai fait mathèse sur Leibniz dont la moitié de l’oeuvre porte sur la science je me suis aper-çu que personne n’en avait tenu compte. On coupe en deux les oeuvres en que-stion. Donc, j’ai essayé de tenir compte de cet état de choses. Mais, la pédago-gie, aujourd’hui, divise les gens en scientifiques qui ne connaissent pas deLettres, et littéraires qui ne connaissent pas de Science. Or, j’ai fait mon ?uvre aubeau milieu. Et par conséquent, je n’appartiens ni aux uns ni aux autres; je suisseul. C’est une question que l’université a sanctionnée dans les années 50, quandelle a décidé de ne pas enseigner de Science aux littéraires et de ne pas ensei-gner de Lettres aux scientifiques … c’est un malheur de civilisation considéra-ble. Il donne lieu aujourd’hui à des phénomènes inattendus contre lesquels j’aiessayé de lutter toute ma vie». [VERNE 113-114]

1 L’indicazione dellarotta fu proposta in M.

Serres, Le messager,«Bulletin de la Société

Française dePhilosophie», 62, 2, apri-le-giugno 1968, pp. 33-71

e nel 2003, a parzialebilancio, Serres scrive:

«Depuis un demi-siècle,je cherche à construire

une philosophie, quimanque, de la relation,

en passant de modèlessaturés: Hermès, les

Anges, le Parasite oul’Hermaphrodite, aux

généralités qu’elle exige:traduction, communica-tion, bouquet des prépo-sitions», L’incandescent,

Le Pommier, Paris 2003,p. 97.

2 La prima opera espres-samente dedicata a

descrivere le variazionicomplesse della corporei-tà umana e naturale può

ritenersi Les Cinq Sens.Philosophie des corpsmelés, Grasset, Paris

1985, ma la ricognizionesui paesaggi delle scienze

e del sapere inaugural'intera ricerca serresia-

na a partire da Hermès I.La communication, Èdi-

tions de Minuit, Paris1969. Ricordo che negli

ultimi anni Serres haaccentuato tale indaginesu variazioni e paesaggi,

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Una lotta spesso solitaria, una difficile erranza, nella quale Serres ha «tenté toute[sa] vie de faire du savoir une culture» [VERNE 141], «de construire une philo-sophie qui tienne compte des acquits du savoir contemporain qui structurenotre monde» [VERNE 148]; una lotta motivata dalla consapevolezza che «lesnouvelles manières de penser, les nouvelles manières d’agir, entretiennent unrapport mort avec la culture. Voilà l’un des problèmes les plus fondamentaux dumonde contemporain, l’un des plus profonds et qui a des conséquences immen-ses que sont la crise de la littérature et celle de la science. Cette crise de cultureest considérable» [VERNE 140], e dal riconoscimento, per molti versi drammati-co, che «la philosophie a complètement abandonné la connaissance du monde»[VERNE 141]. Intendo qui richiamare alcuni paesaggi teorici descritti da Serres negli ultimiscritti (2001-04), ben consapevole che non potrò riprodurre i tratti del suoinconfondibile stile di pensiero e ugualmente convinto che la “filosofia naturale”di Serres affronta i nodi ontologici ed etici più rilevanti della condizione umananella tarda modernità. Gli scritti apparsi a partire dal 2001 sono segno della rico-gnizione di una nuova “emergenza” dell’umano, di uno sguardo epocale sullasvolta evolutiva dell’umanità, il cui arazzo compare nella varietà complessa diHominescence (2001), nel Grand Récit di L’Incandescent (2003) e nel tessutosistemico e narrativo di Rameaux (2004). Questi ultimi scritti si dirigono versoquella nuova forma di scrittura, miscela di scienza e narrazione, che Serres rim-piange di non aver ancora compiutamente trovato («La question de la nouvelleforme est nostre espoir. Et si j’ai un regret dans ma vie, c’est peut-être de ne pasl’avoir trouvée», [VERNE 16]). Si tratta di una svolta rispetto alle opere prece-denti indicata da Serres come irreversibile:

«Je ne réécrirai plus jamais les livres que j’ai écrits au début. Je les trouve main-tenant trop difficiles, trop ardus, trop coincés, trop défendus dans une armatureénorme de références et de citations. Maintenant, je ne mets plus de notes enbas des pages parce que je déteste de plus en plus cet effet-là». [HOR 4]

Serres aveva già descritto per immagini paesaggi di trasformazioni dei corpiumani (Variations sur le corps, 1999), e “naturali” (Paysages des sciences, 1999),intrisi di sapere scientifico e tecnologico, facendo emergere un mondo reticola-re della comunicazione, della miscela e dello scambio in tutte le forme possibilidi una cultura naturalizzata e di una natura culturale. E bisogna ricordare che lacuriosa ricognizione di paesaggi – siano essi naturali che virtuali – è peculiaredella randonnée serresiana, in questo parallela a quella di Jules Verne, come hadichiarato lo stesso Serres in un’intervista del 20023. Va rilevata anche la novitàprocedurale di una scrittura figurata, sostanzialmente ipertestuale e multimedia-le, che – a partire dalla Légende des Anges (1993) – impegna Serres in una rico-gnizione di legami (angeli come punto di unione tra uomini e mondo), di varia-zioni (nella flessibilità psicofisica dei corpi) e di paesaggi (nella virtualità dellescienze).La rappresentazione delle variazioni dei corpi e dei paesaggi delle scienze, raffi-gurata nel pensiero visivo dei due libri omonimi del 1999, confluisce in un reper-torio complessivo sullo stato dell'evoluzione umana, della coevoluzione trauomini e mondo, nel segno di una biforcazione che Serres intende come irre-

producendo cinqueimportanti opere:Variations sur le corps, LePommier-Fayard, Paris1999 [d’ora in poi citeròcon la sigla VC seguitadal numero di pagina];Paysages des Sciences,ouvrage collectif sous ladirection de M. Serres etN. Farouki, Le Pommier-Fayard, Paris 1999[d’ora in poi citerò conla sigla PS seguita dalnumero di pagina];Hominescence, LePommier, Paris 2001[d’ora in poi citerò conla sigla HOM seguita dalnumero di pagina];L’incandescent, cit.[d’ora in poi citerò conla sigla INC seguita dalnumero di pagina] eRameaux, Le Pommier,Paris 2004 [d’ora in poiciterò con la sigla RAMseguita dal numero dipagina]. Per un prelimi-nare inquadramentodell'indagine serresianarinvio a A. Delcò,Morphologies. À partir dupremier Serres, Kimé,Paris 1998 e ai mieiMichel Serres. Per unafilosofia dei corpi miscela-ti, Liguori, Napoli 1990 eTra Bachelard e Serres.Aspetti dell’epistemologiafrancese del Novecento,Armando Siciliano edito-re, Messina 2003, nonchéall'illuminante autobio-grafia intellettuale forni-ta dallo stesso Serres inEclaircissements, entre-tiens avec Bruno Latour,F. Bourin, Paris 1992(tr.it. di A. Colella, postfa-zione e cura di M.Castellana, Barbieri,Manduria 2001 - da cuicito - ) e in parte anchein Conversations avecMichel Serres. JulesVerne, la science etl'homme contemporain,a cura di Jean-Paul

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Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso”

versibile e che descrive in Hominescence, «livre de synthèse» [VERNE 11], chesembra scritto da «plusieurs auteurs» [VERNE 17]. Serres vede emergere una homi-nescence, ovvero un processo incoativo di svolta nell’evoluzione dell’umano4. Eglinota un’emergenza nuova nei processi di ominizzazione, nel duplice senso disnodo evolutivo della specie e di crinale catastrofico dell’ominizzazione: nel XXsecolo si sono addensati tempi di catastrofi inaudite e di poderose speranze. Le tre parti che distinguono il libro (Corps, Monde, Autres), ormai libero da ognicommentario e rivolto a «des choses telles quelles» [VERNE 122], rendono contodei riferimenti costitutivi delle tre modalità del mutamento evolutivo, in rappor-to alla materialità dei corpi, alla “naturalità” del mondo fisico e alla socialità dellerelazioni e delle comunicazioni collettive. A partire dagli anni Settanta del XXsecolo Serres riconosce le linee di una rivoluzione mondiale profonda, di unassestamento tettonico della storia sociale che taglia in due il secolo provocan-do ben riconoscibili rotture superficiali. Tale “non-evento universale” ha prodot-to tre terremoti che hanno incrinato le stabilità di lunga durata nella configura-zione dei rapporti umani, ben al di là del segno degli eventi storici: nel soggetti-vo, la liberazione dalle costrizioni corporali; nell’oggettivo, quella dalle antichedipendenze del rapporto con le cose; nel collettivo, quella dalle condizioni spa-ziali della comunicazione. Ne è scaturita una ridefinizione della condizioneumana rispetto alla classica tripartizione funzionale legata alla guerra, all'econo-mia, al sacro, che Serres propone di mappare5. Nel primo dominio la bomba ato-mica ha trasformato radicalmente le forme della guerra e della violenza, il regnoguerresco di Marte; la scomparsa dell’agricoltura tradizionale ha segnato, nelsecondo dominio, la fine di un’economia legata alla produzione e agli scambiagrari, il regno sedentario di Quirino; la radicale rifondazione conciliare dellareligione cattolica ha cancellato, nel terzo dominio, la figura statica del prete, ilregno sacro di Giove [cfr. HOM 316-320].I rapporti umani con la violenza, con la terra e con il sacro, rimasti pressoché sta-bili nelle nostre società a partire dal neolitico, sono stati dissolti in un sommovi-mento delle placche profonde dei legami sociali che non si ferma alla superficiedella storia, ma tocca le condizioni antropologiche delle società umane, se nonaddirittura la dimensione evolutiva della specie. Soltanto se si discende nella pro-fondità del sommovimento tettonico si possono cogliere le dinamiche superfi-ciali degli eventi politici, economici e religiosi che continuano a inquietarci leg-gendole nel segno di una rinascenza pericolosa ma anche straordinariamentefertile. E Serres rivolge il suo sguardo acuto all’ominiscenza riconoscendonesenza esitazioni la radice nelle trasformazioni provocate dalle “scienze dure” edalle loro applicazioni tecnologiche; egli traccia le linee di sviluppo di un mede-simo processo evolutivo che cambia insieme i connotati della specie umana, delsuo mondo e le relazioni reciproche. Soltanto alla luce di tale profondità di pro-spettiva ci si può avvicinare a un libro che descrive «[…] l’émergence de lienssans équivalents connus au corps, au monde et aux autres» [HOM 12]. Si trattadi riconoscere la radicale trasformazione della condizione umana dovuta allostraordinario potere di vita e di morte accumulato nei cambiamenti promossi dalsapere scientifico-tecnologico dell'umanità. Il processo di “ominiscenza”, marca«[…] une sorte de differentielle d’hominisation» [HOM 14], scavando nei tempiprofondi della biologia e delle scienze esatte per rintracciare l’onda lunga delmutamento evolutivo.

Dekiss, «Revue JulesVerne», n. 13/14, juillet

2002, pp. 96-98 [d’ora inpoi citerò con la sigla

VERNE seguita dal nume-ro di pagina], nuova edi-zione presso Le Pommier,Paris 2004. Ricordo inol-

tre tra le più recenti rico-gnizioni d'insieme i

numeri monografici di«Configurations. A

Journal of Literature,Science, and

Technology», MichelSerres, 8, 2, spring 2000 edi «Horizons philosophi-

ques", Le Monde deMichel Serres, 8, 1997, 1[d’ora in poi citerò conla sigla HOR seguita dal

numero di pagina].

3 «Ah, que je sois attachéaux paysages du monde,oui ! Je ne sais pas si je le

tire de Jules Verne maisj’ai toujours voyagé avecpassion. J’ai voulu voya-

ger à peu près partout.C’est vrai que je suis

passé aussi bien par labanquise que dans l’hé-

misphère sud, que j’ainavigué à peu près sur

toutes les mers dumonde, que j’ai roulé

ma bosse dans cent ports.J’ai marché dans lesdéserts, j’ai fait de la

haute montagne. Biensûr ! … J’ai ça en com-mun avec Jules Verne».

[VERNE 134]

4 Lascio la parola allostesso Serres: «J’ai inventéce mot pour caractériserla coupure qui intervient

dans les pays occiden-taux vers les années1950/1970. Elle est si

importante qu’elle tou-che plus l’évolution quel’histoire. Elle concerne

le corps, l’agriculture,notre rapport a monde,à la vie, à la naissance

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Il riconoscimento di una possibile ominiscenza muove dalla nuova cognizionedella morte globale dell’umanità segnata a partire dal 6 agosto 1945 (e Serres hapiù volte ripetuto che non ci si può impegnare in uno sguardo filosofico sulnostro tempo trascurando tale irreversibile aspetto della morte collettiva dellaspecie umana, impressa dopo Hiroshima) [HOM 3-4]6. Esso impone un ripensa-mento globale – nel soggettivo, nell’oggettivo e nel collettivo –, che approdi allacomprensione comune delle forme e delle condizioni di possibilità di nuovi vin-coli, di un diritto possibile per un’umanità posta oggi dinanzi alle modalità di unamorte globale conseguibile come effetto delle stesse azioni umane. Il pericolodell’acosmismo7, così presente nella pratica odierna della filosofia, consiste pro-prio nell’incomprensione dei nuovi dati e risultati del sapere scientifico e tecno-logico, senza i quali risulta impossibile ogni progetto per costruire una dimorapossibile per gli uomini alle soglie dell’ominiscenza: dinanzi ai nuovi uomini-mondo tecnologici e scientifici la filosofia si chiude in una cieca ricerca di rigorelocale e analitico, di giochi linguistici autoreferenziali, senza confrontarsi con leimpegnative categorie della totalità8. Una filosofia per i nuovi processi di omini-scenza, questa – molto semplicemente – la scommessa che Serres presenta perla futura ricerca filosofica. Essa innanzitutto si impegna in una filosofia della conoscenza e dell’azione ricon-giunte nel punto d’unione della ricerca di un nuovo diritto, globale e naturaleinsieme, che tenga conto del tertium9, oltre la sterile, arcaica e agonistica dialet-tica del servo-padrone o dell’amico-nemico. La lotta, lo scontro, la violenza coin-volgono globalmente un terzo, sconvolgono l’habitat locale e globale. Basta guar-darci intorno: non ci chiediamo mai cosa ne è delle terre del Kosovo,dell’Afghanistan o dell’Iraq dopo la massiccia distribuzione di bombe e mine,come può essere abitato un territorio distrutto da bombardamenti devastantiche lo fanno diventare quasi lunare, come può vivere un mare che dopo l’in-cendio dei pozzi di petrolio diventa una grande chiazza oleosa.Proprio dal pericolo concreto di una morte globale scaturisce l’utopia di unanuova immortalità, perché la consapevolezza della morte è tratto distintivo del-l’evoluzione dell’umano oltre i limiti della naturalità (le tombe sono il primosegno di riconoscimento di Homo sapiens) [HOM 1-2]10. Il processo di omini-scenza potrà magnificare o assassinare gli uomini, nella più completa indecidibi-lità tra nuova soglia di immortalità e morte globale dell’umanità. Il modello del-l’apoptosi, il suicidio cellulare che costituisce una costante dell’auto-organizza-zione del corpo e che insieme conduce nelle sue forme estreme alla senescenzae alla morte, come anche alla costruzione delle differenziazioni organiche fun-zionali già a partire dall’embrione, indica bene l’ambivalenza delle possibile bifor-cazioni evolutive dell’ominiscenza [HOM 5-6]. Oggi, la consapevolezza della pos-sibilità della morte globale si presenta come un’angosciante litania quotidiana,ma proprio da tale ripetizione che non permette oblio, nasce l’obbligo di unateoria dell’ominiscenza [HOM 11]. Speranze e inquietudini si mescolano in un cruccio intenso che pungola conurgenza la filosofia, secondo una necessità impellente che richiede l’abbandonodei trucchi accademici e dei sotterfugi pseudo-specialistici.

«Le moment d'hominescence – conclude Serres nell’introduzione al volume,intitolata Morts e siglata, non casualmente, 1957-2000 – oblige à résoudre ce pro-

et à la mort, enfin notrerapport aux autres, parles divers canaux decommunication. Je n’ai pas voulu utiliser le mothominisation. Trop lourd,et j’ai forgé ce vocable,plus léger, en choisissantparmi les mots que lesgrammairiens appellentinchoatifs et qui signi-fient le début d’unetransformation (commeluminescence, adolescen-ce, arborescence, etc.)Hominescence signifiedonc le commencementd’un nouvel homme».[VERNE 144]

5Utilizzo le note perrichiamare qualchesignificativa ricorrenzadel pensiero di Serresriflessa in Hominescence,seguendo peraltro unconsiglio formulato dallostesso Serres, che chiede achi voglia accostarsi alsuo pensiero di partiredal suo ultimo libro: «Ilme semble toujoursqu'en vieillissant, quel-qu'un qui travaille trou-ve de plus en plus demanières claires de s'ex-primer – je parle peut-être seulement dans moncas –, mais il me sembletoujours qu'il faut lire unauteur à l'envers, c'est-à-dire de partir du dernierpour remonter vers lepremier». [HOR 4]Mi riferisco qui alla tria-de proposta da GeorgesDumézil, e richiamatada Serres in varie forme.In Rome. Le livre des fon-dations, Grasset, Paris1983 e in Les origines dela Géométrie. Tiers livredes fondations,Flammarion, Paris 1993la triade Marte-Giove-Quirino, resa dinamicatramite la teoria dellafondazione violenta delsacro di Réné Girard, è

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Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso”

blème global sous le risque de guerre totale, donc d'une mort alors pleinementuniverselle. L'intuition que se produisit récemment un tel bouquet de bifurcations et qu'ildemandait, en urgence, une reconstruction de nos cultures et de nos philoso-phies, accompagna ma vie et illumine ce livre». [HOM 16]

Serres descrive tre boucles che compongono l’hominescence, in un andirivieniricorsivo di corpi, mondo e comunicazione rispetto alle radici arcaiche delnostro presente11. Dinanzi alle conseguenze stupende e terribili implicate nelprocesso soggettivo, oggettivo e collettivo di ominiscenza, nella trasformazionedel soggetto cognitivo, della scienza oggettiva e della cultura collettiva, non è tut-tavia sufficiente il perspicuo riconoscimento dei sommovimenti profondi dellefaglie dell’ominizzazione. Serres invita a pensare la totipotenza dell’umano, l’on-nivalenza delle sue possibilità, a partire da un luogo terzo dal quale poter vede-re insieme la ragione della scienza (le leggi del mondo fisico, le regole della natu-ra) e la ragione del diritto (le regole dei contratti, le leggi politiche dei collettiviumani). Assistiamo alla costituzione embrionale di un contratto naturale cheestende le condizioni ricorrenti del diritto (e la storia del diritto consiste nell’u-niversalizzazione progressiva del diritto a divenire soggetti di diritto)12: con i pro-cessi di ominiscenza sono comparse insieme una nuova oggettività e una nuovacollettività che impongono di interrogarsi sulle nuove condizioni del diritto, suldiritto di un nuovo soggetto di diritto, la Terra stessa. La trasformazione degli statuti degli oggetti nel processo che incrementa global-mente azione e conoscenza comporta un nuovo stato di fatto nel diritto dellaTerra a divenire soggetto di diritto13. Ma, al di là della dimensione politica e giu-ridica, l’esigenza del contratto è alla radice di ogni istanza sociale, di ogni rap-porto umano, di ogni scambio tra organismi viventi e ambienti, ha a che fare conil rapporto originario di simbiosi che lega la vita al suo habitat14. Ricorsivamentetale esigenza si rintraccia oggi nella rete, vero insieme ramificato di contratti, che«recouvre et exprime un objet-sujet, le monde» e pone innanzitutto problemi didiritto, presuppone un contratto globale, esigenza prioritaria nel pensare la svol-ta evolutiva dei nostri tempi senza implodere nella catastrofe collettiva15. Dinanzialla pervasività della guerra, alla spirale senza fine che lega guerra, stati, storia,società umane, la morte collettiva che riconosciamo sul piano attuale dell’omi-niscenza correlativamente alla straordinaria avanzata delle scienze, delle ricchez-ze e delle relazioni umane impone di svelare il “segreto di Pulcinella”: nondistruggere, ecco il principio costitutivo del nuovo contratto naturale e l’impe-gno prioritario per la vita futura [cfr. HOM 291-295].Un Homo universalis coniuga uno spazio senza distanza e un io senza spazio,scorre, fluttua, percola16, nell’attesa di un umanismo globale che ne fissi il con-tratto naturale, un contratto di simbiosi tra la Terra globale e gli attori umani glo-bali [cfr. HOM 198 e 332-333].Tale umanismo integrale è in qualche modo l’oggetto dei due libri successivi,L’Incandescent e Rameaux, che si iscrivono nella dimensione complessiva del-l’hominescence. L’Incandescent è sostanzialmente dedicato a quella nuova sin-tesi di natura e cultura che Serres designa con la felice espressione di GrandRécit17. I passaggi e i transiti del Grand Récit riuniscono in un’unica descrizioneuniversale la storia dell’universo (13 miliardi di anni), quella del vivente (quattro

alla base del tripliceprocesso di esclusione

(tempio, campo, pagus)che produce la società

organizzata (Rome) e lacultura (Les origines de

la Géométrie). Un richia-mo alla connessione tra

la struttura trifunzionaledi Dumézil e la dinami-ca della violenza fonda-

tiva di Girard si trovaanche in Atlas, Juillard,Paris 1994, pp. 217-242.

6 La centralità dellabomba atomica come

motore della filosofia ser-resiana è evidente nellascelta di rivolta moralecompiuta da Serres nel1949, con l'abbandono

dell'École navale e il pas-saggio alla filosofia ed è

stata ribadita di recente:«Chiedo ai miei lettori di

sentir esplodere questoproblema in ogni paginadei miei libri. Hiroshimaresta il solo oggetto della

mia filosofia»,Eclaircissements, cit., p. 23.

7 L'acosmismo della filo-sofia, unito al tendenzia-le acosmismo della poli-

tica e della sociologia,viene riconosciuto esem-

plarmente – in Le con-trat naturel, F. Bourin,Paris 1990, pp. 52-54 e

116-118 – come riduzio-ne a storia e linguaggiodelle forze, dei legami edelle interazioni che ci

legano al mondo.

8 In uno scritto recenteconnesso alla tematica

del contratto naturale –Retour au Contrat

Naturel, BibliothèqueNationale de France,

Paris 2000, p. 15 (il testoè ricavato da una confe-

renza tenuta il 14 gen-naio 1998 nell'audito-

rium della BibliothèqueNationale de France ed è

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miliardi), e quella dell’uomo (sette milioni) e delle civiltà storiche (alcunemigliaia). Il Grand Récit insegna che gli uomini, la conoscenza e la filosofia devo-no più alla natura che non alle loro recenti civilizzazioni. In questa prospettiva, illibro si autodefinisce un’opera di filosofia della natura18. Una filosofia – possiamoaggiungere – realista della natura, con un attributo che oggi suona quasi deni-gratorio, ma che Serres accredita con una difesa appassionata.Il realismo crede che le cose esistano, assume una credenza empirica non dimo-strabile, ma ancorata alla “durezza” del mondo:

«[...] le réalisme ne se défend, le plus faiblement du monde, que par une cro-yance issue des sens, de l’expérience brute et même de la religion, prétendentcertains. En effet, les réalistes croient en la réalité des / choses comme les mysti-ques croient en Dieu, pour l’avoir expérimenté. Malgré cette faiblesse, je n’aijamais su ni pu me départir du réalisme, dur, car les idéalistes, doux, me parais-sent n’avoir jamais souffert du monde comme tel [...]». [INC 53-54]

Ispirata alla stratigrafia, alla termodinamica, alla radioattività, alla biochimica, talecredenza nelle cose reali ritrova in esse le funzioni umane elementari; le cose delmondo, il cervello individuale e la collettività “si ricordano” sempre a partire dai“materiali” delle cose stesse. In quanto memoria partecipiamo delle cose, inquanto cose esse partecipano della memoria. Viceversa, «l’idéalisme suppose uncombat d’où nous sortions vainqueurs; je vois la partie équilibrée ou nulle. Pis,je ne vois plus la frontière qui sépare et oppose hommes et monde». [INC 55]Ma è proprio tale frontiera che va dissolta, ritrovando una partita equilibrata trauomini e mondo che inneschi un processo ciclico nel quale il reale risvegli l’attodi conoscere che a sua volta lo risveglia. Se l’idealismo ricerca il dominio paras-sitario, il realismo pratica la simbiosi e la partecipazione, senza contrapposizionie agonismi.Il libro è scandito in quattro parti: la prima (Mémoire et Oubli) e l’ultima (LeGrand Récit) introducono e concludono la lunga trama di riflessioni racchiuse inNature et Culture e in Accès à l’Universel, sostenendo entrambe il complessoorganico del Grand Récit che viene poi risolto in molteplici varietà poste nelledue parti centrali. Richiamo la prima, che racchiude efficacemente l’intera corni-ce del Grand Récit. La salita e la discesa delle scale spazio-temporali viene inau-gurata in Mémoire et Oubli da un’immagine di Fontanelle, che ricorda come «demémorie de rose, jamais l’on ne vit mourir de jardinier» [INC 11]. Tutta la nostrastoria replica l’illusione del giardino, permane nella credenza illusoria che unageografia stabile veda scorrere l’azione del tempo umano, come si vede scorre-re un torrente o si assiste a uno spettacolo teatrale. Anzichè vedere due spetta-coli diversi posti in uno spazio simile, si tratta invece di riconoscere «une suc-cession de mille fontaines à rythmes divers» [INC 13], di riconoscere la coesi-stenza delle diverse scale temporali dello storico, del geologo, del chimico, del-l’astrofisico, riproducibili in una serie scalare di orologi che segnano il tempo aritmi diversi. Ecco che Serres delinea il racconto che prepara al Grand Récit,dove tutto è tempo, nei differenti ritmi di durata, dove lo spazio scompare nel-l’alternanza e nell’intreccio di tanti ritmi. Gli uomini, illudendosi di vivere nellospazio stabile di un giardino, non si accorgono di tessere lo spazio stesso, tap-peto di tempo insieme effimero e millenario. L’universalità eraclitea del «tutto

stato parzialmente rifusoin Hominescence) –Serres sottolinea conforza che «La philosophie a donc pour tache de réexaminer tous sesanciens conceptscomme: le sujet, lesobjets, la connaissance etl’action… tous con-struits au long des millé-naires sous condition dedécoupages locaux préa-lables: en ceux-ci, se défi-nissait une distancesujet-objet, le long delaquelle jouaient con-naissance et action».

9 Tale impegno è illumi-nato fin dal 1991 (cfr. LeTiers Instruit, F. Bourin,Paris 1991) da una peda-gogia del “terzo istruito”,parallela alla definizio-ne di un nuovo dirittonaturale proposta nel1990, che unisce lacognizione del mondo ela sua comprensione neidue fuochi della sofferen-za universale e del pen-siero locale (con unaconnessione simile aquella che ispirò a J.-J.Rousseau nel 1762 insie-me l'Emilio e il Contrattosociale).

10 Una generalizzazioneteoretica della funzionedella tomba e dellanecropoli nella fondazio-ne della città e del con-sorzio umano è stataproposta da Serres inStatues. Le second livredes fondations, F.Bourin, Paris 1987.

11 Le tre boucles sono condensate nei paragrafiPremière boucle d'homi-nescence [cfr. HOM 51-68], Deuxième boucled'hominescence [cfr.HOM 179-189] eTroisième boucle d'homi-nescence [cfr. HOM, 267-

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Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso”

scorre» si riempie soltanto ora della complessità intrecciata dei tempi degli uomi-ni e del mondo.Ciascun individuo, vera “polvere di stelle”, è immerso in una totalità temporaleche si dispiega dall’effimero ai milioni di secoli. Il nostro corpo sale e scendenella scala temporale, con una connessione in tempo reale di mille date tra diloro incomparabili. La peculiarità complessa di questo «vieillard nouveau-né»risiede nella straordinaria difficoltà della combinazione del vivente e nella suaeffimera durata, nella miscela di una lunga forza e di una corta fragilità. E oggi,grazie alla sincronia di ontogenesi e di filogenesi promossa dalle biotecnologie,la vita e la storia si connettono reciprocamente.La commedia naturale e umana si svolge nell’ampia contingenza del tempo;siamo immersi nel Grand Récit ed è giunto il tempo di praticare un umanesimodegno del suo nome, scritto nella lingua enciclopedica di tutte le scienze, chenon può risolversi in falso antropocentrismo e che deve ricercare il difficile per-corso che dalla discesa lungo le biforcazioni temporali consenta la risalita nelloro labirinto, connessa all’andatura caotica del processo. A tal fine Serres impie-ga la doppia tradizione di scienze e miti, che permettono insieme di retrocede-re nel passato più lontano e di aprire spiragli sulla ricomposizione complessa deitempi lungo la direzione inversa.Ancora una volta viene posto l’accento sul carattere concreto e “vivente” dellanatura, iscritto nell’etimologia stessa del termine, che è stato progressivamentecancellato dall’astrazione filosofica: «Mais nous avions oublié ce que signifie leparticipe futur naturus, au féminin natura, du verb latin nascor, sa racine: cequi va naître, le processus même de naissance, d’émergence ou de nouveauté.Nature: la nouvelle-née». [INC 28]Con linguaggio matematico la natura può essere descritta come un integraleindefinito di tutte le biforcazioni note, come una sommatoria di nascite, all’in-terno della quale si colloca la natura umana, integrale definito di quelle biforca-zioni che hanno condotto a Homo sapiens sapiens19. Scomparsi ogni centro di riferimento, ogni forma circolare del sapere, ogni enci-clopedia totalizzante, il Grand Récit descrive il paesaggio dinamico di una «cro-nopedia» che raccoglie tutti gli orologi dell’universo e si compone nei mille tas-selli delle nuove scienze, con un’operazione di collage per la quale Serres richia-ma il modello recente della teoria delle superstringhe, che fa sperare nell’adat-tamento reciproco della meccanica quantistica e della fisica relativistica. Insiemeall’istanza narrativa del Grand Récit permane ne L’Incandescent una volontàpedagogica che costituisce il punto di convergenza dell’intero libro. La pedago-gia esprime lo slittamento della materia e dei viventi nel tempo che si racconta,lo spiazzamento nel tempo di uomini e cose che coevolvono e coproducono ilmondo attraverso le contingenze possibili e le fluttuazioni della modalità20. L’Incandescent è un libro di coniugazioni, un libro di congiunture, che Serrescon ostinato coraggio connette in un Gran Récit in cui la filosofia si sforza di rag-giungere il tempo stesso delle cose: «Depuis longtemps, je cherche à construireune culture où la philosophie, oeuvre d’art aussi bien, s’écarterait un peu dutrou noir, inévitable et relativement stable, où attirent les rapport sociaux, pourrejoindre, au prix d’un effort incompris, à la lettre surhumain, la formationmême des choses, le temps mondial, le chaos du climat, le frémissement desvivants, bref, notre habitat global oublié, ainsi que son Grand Récit». [INC 296]

278]; per una presenta-zione più ampia rinvioal mio Tra Bachelard e

Serres, cap. 10 Verso unanuova emergenza dell'u-

mano, cit., pp. 293-308.

12 Preconizzato già nelContrat naturel, il proble-ma della Terra come sog-

getto di diritto è oggiposto consapevolmente

anche nell'istanza politi-ca, cfr. ancora M. Serres,

Retour au ContratNaturel, cit., p. 22.

13 Riporto un illuminan-te passaggio sul nuovo

status dell'oggetto-mondoda Retour au Contrat

Naturel, cit., pp. 20-21:«[…] comment le statutobjectif du sujet collectifvaria, puisque, ancien-nement actif, il devient

l’objet global passif defor-ces et contraintes enretour de ses propres

actions, et comment lestatut de l’objet-monde

varie, puisque, ancienne-ment passif, le voici, àson retour, et puisque,

anciennement donné, ildevient notre partenaire

de fait».

14 All’interno di un'ambi-valente logica parassita-

ria dell'hospes che si puòtrasformare in hostis, del

simbolon che cela il diabolon, ovvero della

coppia ambivalente sim-biota-parassita; cfr.

soprattutto Le Parasite,cit., tra l'altro alle pp.

224-226 e 335-338.

15 M. Serres, Retour auContrat Naturel, cit., p.

27. Emblematica a que-sto proposito la "questio-ne di Robin Hood", ovve-

ro di come pensare undiritto in una terra dinessuno dove non c'è

nessun diritto: Serres ci

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Uno sforzo sovrumano che si compone, nella chiusa del libro, in un progetto“pedagogico” lanciato all’umanità futura, l’unico progetto che in questa fase diumanizzazione possa essere promosso e mantenuto, quello del sapere: «Il enreste un [de projet], qu’on le veuille ou non. Le savoir reste un projet, le savoiren général…l’enseignement, la transmission de l’information… non seulementcela reste un projet,mais c’est le seul pour le moment. La politique ou les politi-ques n’ont plus de projets». [VERNE 151]Ed è con questo progetto “pedagogico” che Serres chiude il libro, nell’ambizio-ne di promuovere una cultura in armonia con le scienze, un «nuovo umanesimo»che acceda all’universale di un’umanità possibile. Si tratta di un appello pedago-gico lanciato tramite l’Unesco e rivolto alle Università di tutto il mondo, affinchési diffonda un sapere comune, un ceppo comune del sapere, e avanzino la pacee la fratellanza. Nella sua articolazione pedagogica esso prevede in concreto treparti: un programma corrente di specialità disciplinari, secondo gli studi disci-plinari intrapresi (medicina, diritto, scienze o letterature) e due parti comuni, IlGrande Racconto unitario di tutte le scienze e Il mosaico delle culture umane.Sulla medesima linea, ma con un’attenzione più forte per il riavvicinamento trauniverso, viventi e uomini, si presenta Rameaux, un vero “monumento alla con-tingenza”. Il volume propone uno svolgimento parallelo tra la dimensione delsystème e quella del récit, che permette di confrontare e far convergere la confi-gurazione stabile del format e quella dinamica dell’événement. L’ingresso in unnuovo rameau evolutivo, che prospetta l’inquietante biforcazione tra la com-parsa di un nuovo uomo o la scomparsa dell’umanità, impone di inventare «nou-veaux rapports entre les hommes et la totalité de ce qui conditionne la vie» [RAM5] per decidere «la paix entre nous pour sauvegarder le monde et la paix avec lemonde afin de nous sauver» [Ibid.]. Rameaux è un «livre-fils» immerso nella con-tingenza; esso «célèbre l’éveil au point-fourche entre tige et rameau, parce quenous vivons ces jours-ci sur ce point double de tangence, d’où vint le mot decontingence». [RAM 130]Anche se testimonia di un deficit di linguaggio: «Comment dire, d’une seule voix,tous les genres d’événements, comment unir les exemples cités sans les distin-guer ? Privé de la discipline que les synthétiserait, ce livre, fils orphelin, manquedu langage dans lequel il pourrait exprimer leur concordance, celle de la nou-veauté dont la ramification se retrouve en tous lieux et nous concerne aussibien»[RAM 141]21. L’immagine centrale del libro disegna figurativamente la trama stessa del rap-porto tra la dimensione stabile del tronco solido di una scienza dell’ordine equella imprevedibile delle arborescenze contingenti delle scienze del possibile.E proprio nell’incrocio tra la dimensione universale della matematica e quellaindividuale della metafisica emerge la singolarità innovativa dell’opera rispetto alquadro degli scritti serresiani22. Nella parte “sistemica” del libro si confrontano glistatuti contrapposti del sistema-padre e della scienza-figlia per condurre, trami-te la lettura del messaggio cristiano di San Paolo, alla nuova dimensione del“figlio adottivo”. Nella parte “narrativa” si espone la biforcazione tra événemente avènement, tramite la quale vengono offerte le chiavi per una proposta di ri-conciliazione adatta alla profondità della attuale svolta evolutiva.Formattazione del tempo nella serializzazione collettiva delle attività, formatta-zione della gioventù tramite gli istituti pedagogici, formattazione dei ritmi del

ricorda che la foresta diRobin Hood era la terradei senza legge, come loè oggi internet, ma l'esistenza stessa diRobin Hood, ovvero del"magistrato dei boschi",come recita il senso origi-nario del suo nome, testi-monia di un'allegoriadel diritto, del passaggiodalla violenza al contrat-to, della possibilità di unnuovo diritto "comples-so" [HOM 227-229].

16 Una teoria della perco-lazione – per la qualecfr. M. Serres, Les origi-nes de la Géométrie, cit.,pp. 40-41 – rendevaconto del tempo nuovoalle soglie del neolitico,dell'agricoltura, dellageometria e della culturaumana, a partire dallaprima biforcazione omi-nide; una nuova sogliadi percolazione si rin-traccia ora nell'omini-scenza.

17 Riporto la seguentedefinizione serresiana:«J’appelle Grand Récit l’é-noncé des circonstancescontingentes émergeanttour à tour au coursd’un temps, d’une lon-gueur colossale, dont lanaissance de l’universmarque le commence-ment et qui continue parson expansion, le refroi-dissement des planètes,l’apparition de la vie surla terre, l’évolution desvivants telle que la con-çoit le néodarwinisme etcelle de l’homme», M.Serres, Le temps humain:de l’évolution créatrice aucréateur d’évolution, inP. Picq, M. Serres, J.-D.Vincent, Qu'est-ce quel'humain?, Le Pommier,Paris 2003, pp. 73-74.

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Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso”

corpo nello spazio-tempo regolare per chi pratica l’esercizio della scrittura:aspetti diversi di un’omologazione pervasiva dell’azione umana che ha presoforma agli inizi dell’età moderna. Format, supporto e codificazione produconooggi il più potente sistema di controllo sul mondo mai realizzato; ma esigono,come al tempo di Platone, che aveva intrecciato il mondo sensibile e i collettivisociali nella figura “politica” del tessitore, o di Leibniz, che aveva operato unamirabile sintesi tra le leggi del padre (armonia prestabilita) e il posto del figlionelle mille contingenze delle singolarità23, una nuova sintesi filosoficamente rile-vante, che «lie l’univers et les cultures par un contrat naturel» [RAM 31], affidataalle pagine di Hominescence, che ha scoperto come la storia degli uomini siaimmersa nel Grand Récit del mondo materiale, come l’informazione giaccia nelseno della materia.La descrizione del format implica una connotazione di necessità e violenza, unintegralismo tirannico; ma in realtà i format, che si pongono come trascendentisono anche immanenti e contingenti. Dalla meccanica quantistica in poi trionfa-no le scienze-figlie, nelle quali le circostanze vengono reintegrate nel sapere. Nelformat è iscritto «un moteur de production irréductible» [RAM 42], che intrecciacontingenza e legge razionale24. Il format si sfrangia e si dissolve. Dal sistemadella scienza-padre, preformante e deduttiva, ai decentramenti successivi dellescienze-figlie, alle filiazioni decentrate che si espandono nel sapere odierno eche spesso sono opera di scienziati-figli, allontanati e sconfitti dal potere cano-nico della scienza del loro tempo, che assumono posti esitanti e temporanei. Dinanzi alla prospettiva di una scienza che padroneggia la natura, che esige «laliaison meurtrière du savoir et du pouvoir» [RAM 55], gli scienziati-figli indie-treggiano e ricercano un rapporto contrattuale, trasformano il sapere in contrat-to: «La symbiose, obligée, débouche sur un contrat naturel» [RAM 53]. La veraconoscenza, scienza nell’esodo e non nel metodo, erranza del viaggio arbore-scente del Grand Récit, connette la scienza, gli uomini e il mondo. La cono-scenza viva intreccia a partire dal soggettivo l’oggettivo e il collettivo; Serres usail termine «escient» (dall’ablativo assoluto latino meo sciente), che associa inpieno soggetto e oggetto del sapere, per indicare la vera conoscenza, che tra-sforma il corpo e la parola di chi la riceve tramite un’invenzione che è ancheresurrezione dell’informazione morta, concentrazione di forze sociali, esternaliz-zazione incarnata di conoscenza in un collettivo (come fu quello dei congressiSolvay o di Bourbaki). L’evocazione religiosa e cristiana di queste pagine trova la sua piena esplicazio-ne nella terza parte della sezione (Le fils adoptif), modello di una filosofia “cri-stiana” della scienza, incardinata sulla figura e sul pensiero di Paolo, che uniscee scioglie i tre format ebraico, greco e romano posti all’origine dell’occidente,ramificandoli in una nuova creatura. Paolo incarna la distinzione tra identità,espressa nella singolarità della vita individuale, e appartenenza, propria del col-lettivo, sia greco che romano. Negli scritti paolini Serres rintraccia il primo dis-corso di un filosofo-figlio, prodigo, errante, adottivo, di fronte alla ripetizionepesante della ragione critica dei discorsi di potere dei filosofi-padri. Il fragilefiglio Paulos non parla soltanto al suo tempo, ma soprattutto al nostro: indica lavirata dalla generazione all’adozione che configura l’hominescence come ultimabiforcazione della trama evolutiva, verso la fabbrica dell’umano. Il progetto diresurrezione incarnato in Paolo e tramite esso nella figura di Cristo rappresenta

18 «A propos d’humani-sme, ce livre de philoso-phie de la nature traite

d’elle, de la vie et del’homme, trois concepts

sans définitions et enparle sans idéologie,

tabou ni sacré, puisqu’illes définit selon les lignes

du Grand Récit». [INC 29]

19 «Qu’appeler nature,dès lors, sinon une inté-

grale des bifurcations enquestions? Une somme de

naissances. Du coup,même la nature humai-ne devient facile à défi-

nir, sinon à dépister,comme intégrale définiedes carrefours qui, dans

le Grand Récit, amenè-rent à la formation du

sapiens sapiens. La natu-re, quant à elle, se défini-

rait comme l’intégraleindéfinie de toutes les

bifurcations connues et àvenir dans le bouquet

explosif du Grand Récit. /D’où venons-nous? De ce

bouquet, de ce GrandRécit, d’un sous-ensemble

de ses branches, d’unesérie finie de ses émer-

gences contigentes. Quisommes-nous? Le résultat

temporaire de ce sous-ensemble». [INC 29]

20 «Je souhaite qu’il [lemot pédagogie] exprime

désormais ce déplace-ment, rapide ou lent, dumonde, des choses et des

vivants dans le temps,oui, cette nouvelle per-ception de l’Univers, la

nôtre et celle de nosenfants». [INC 38]

21 «Toute ma philosophiecrie dans les lettres et lavoix. La fontaine chantele pouvoir des fables; jecélébre et cultive celui

des langues. A chacuneson rameau». [RAM 147]

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un’inversione nelle rappresentazioni e nelle pratiche dell’umano, tutte radicatenella morte; Serres lo legge come una vittoria inventiva sulla morte, una rotturadell’ominizzazione estranea al conflitto mortale e aperta alla speranza di vita.La seconda parte di Rameaux vive – come ho sopra ricordato – nella dinamicadel récit, oscillante tra l’evento e l’avvento. L’evento fisico, culturale e umano,può segnare un mutamento di natura dalle conseguenze globali. Ecco allora chel’evento, deviazione inattesa dal format monotono delle regole anteriori, si pre-senta come sinonimo di novità. L’evento umano non è meno dirompente: daun’equazione come e=mc2 è emersa un’arma globale che non abbiamo il pote-re di dominare, nel segno – ben descritto da Poincaré nella teoria del caos – diuna straordinaria sproporzione tra causa ed effetto. Nel suo doppio movimentodal format monotono alla rottura contingente l’evento implica un interesse checresce proporzionalmente rispetto alla sua novità. La convenienza tra il tempoindividuale ramificato e le ramificazioni del Grand Récit propone una nuova fon-dazione della conoscenza, che vive nell’in-quietudine, nello scarto dall’equilibriocostitutivo dell’ex-istenza. E tale nuova fluttuante fondazione rende possibile latrasformazione dell’evento in avvento, l’invenzione di un nuovo mondo, cheviene descritta nella seconda e nella terza parte di questa sezione.Si tratta di dar conto di un processo autocatalitico, di un ciclo che innesca un’e-mergenza complessa, come è avvenuto per la nascita della Terra o di un grupposociale, come avviene nell’inclinazione del genio, nella sua serendipity. In realtàqui Serres ricapitola la propria stessa vocazione di messaggero, angelo, parassita,la reiterata vocazione degli annunci, materiali, viventi, storici. Il suo ordito si intes-se di “esordi”, ovvero alla lettera di inizi che coincidono con le trame, di testi tes-suti sempre di nuovo. E la descrizione dell’avvio del racconto, nel momento ini-ziale del punto di biforcazione, è un’ottima descrizione della propria personalears narrativa, oltre che una professione di fede evangelica nell’avvento. L’inerte, il collettivo, il soggetto partecipano insieme di tale meraviglia “panica”dell’inizio, oscillano nella contingenza. Non l’essenza, ma l’«escenza», il movi-mento incessante di uscita, caratterizza l’umano25, e prende oggi il nome diappareillage; è così giunto un momento exodarwiniano dell’evoluzione umanain cui si trasformano le tecniche piuttosto che gli organismi, in cui si scopre ilvantaggio della mobilità dell’artificiale; «L’évolution produit un corps qui en pro-duit une nouvelle» [RAM 177]. La tecnica, risparmio di tempo e di morte, accom-pagna la natura, è insita nella sua autoevoluzione26. E così la tecnica sgorga nonprogrammata dall’evoluzione e si sviluppa programmaticamente in cultura,secondo un processo autocatalitico che si iscrive nell’evoluzione cosmica. Se lanostra produzione biforca rispetto alla riproduzione l’emergenza delle biotecno-logia riconduce alla riproduzione e gli strumenti tornano a essere organi. Le bio-tecnologie tornano alle sorgenti vive dalla tecnicità e inversamente il tempo evo-lutivo diviene un lento avvento di fabbricazione. All’ultima sezione è dedicato il momento della proposta nel panorama dellamondializzazione tecnologica odierna, nella quale si intrecciano in modo con-tingente i tre codici genetici delle molecole, del vivente e dell’informazione. Se«Le récit des techniques participe donc de la même contingence que l’évolution»[RAM 199], i problemi legati a un’etica delle tecnologie riguardano esclusiva-mente il mutamento di scala e l’ordine di grandezza dell’imprevisto. Serres pro-pone «une éthique à la mode cybernétique» [RAM 201], nella quale il governo

22 «Par ces approchescroisées, ce livre essaiede nouer, de nouveau etpour aujourd’hui, lamathématique universelle, tige-père, àla métaphysique de l’in-dividu, rameau-fils».[RAM 222]

23 Un altro aperçu leibni-ziano si trova nella pre-sentazione della pirami-de dei mondi offerta allafine degli Essais de théo-dicée, che rappresenta alvertice il mondo reale enelle zone inferiori imondi possibili: Serresricorda come anche laporzione di spazio postaall’esterno della sezioneconica possa includeremondi possibili, stavoltasviluppati verso l’alto[cfr. RAM 171-173].Leibniz rimane, dopoPaolo, il riferimento pri-vilegiato del libro: inconclusione, Serres leggenel pensiero leibniziano(e in quello di Pascal)un preannuncio dellasintesi tra matematicauniversale e metafisicadell’individuo che vieneproposta in Rameaux[cfr. RAM 221-222].

24 «Lorsque la théorie desbranes et des supercordestente de réconcilier larelativité du premier [lepère] avec la mécaniquequantique du second [lefils], je rêve que lesmathématiciens arran-gent une affaire defamille». [RAM 42]

25 «Notre espèce sort, voilàson destin sans défini-tion, sa fin sans finalité,son projet sans but, sonvoyage, non, son erran-ce, l’escence de sonhominescence. Nous sor-tons et faisons sortir denous nos productions;

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Gaspare Polizzi Michel Serres: un “umanesimo complesso”

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della tecnica segua modalità contingenti, tra la precauzione e la prudenza. E alcontratto naturale aggiunge la proposta di un contratto virtuale, che guardi allasalvezza delle possibilità contingenti. Una nuova etica del contingente quindi,che porta con sé una nuova politica del concordato. Serres ne enuncia, in con-clusione del libro, tre ragioni: una ragione ontologica (fabbrichiamo già mondipossibili), una ragione metodologica (le scienze dure si fanno storiche e vice-versa), una ragione cognitiva (il concettuale che opera distinzioni viene ormairimpiazzato, tramite l’intelligenza artificiale, dal procedurale che produce dettagli). Tale proposta insieme etica e politica per un contratto virtuale dei mondi possi-bili viene simbolizzata dall’unione cristiana del dichiarativo ebraico (Jesus) conl’algoritmo greco (Cristo) e viene sostanziata da un preciso riferimento autobio-grafico27. Ma il messaggio più generale che il libro consegna risiede proprio nellapossibilità concreta di pensare il concetto e il racconto, nel raccontare circo-stanze e avventi dell’umano secondo il tempo cangiante.Una ragione che coltiva il dettaglio del paesaggio, che si apre a un contratto vir-tuale come condizione trascendentale insieme per la conoscenza e per l’azionerelativamente alle generazioni e alle cose future, è una ragione non più univocae astratta, ma vivente e ricca nella dimensione singolare della contingenza, pre-conizzata da Montaigne con la frase «Chaque homme porte la forme entière del’humaine condition» [RAM 225]. A questa ragione che unisca la concezione tem-porale della storia, la visione spazio-temporale del mondo e la società comunita-ria e solidale Serres dona l’attributo paolino della fede cristiana, senza timore dimiscelare il linguaggio della complessità con quello della religione. Anche un non credente, che abbia a cuore la salvezza dell’umanità e insiemedella natura, deve convenire non soltanto che con Serres la filosofia si fa sincera“meta-fisica” che interroga con la radicalità più conseguente il presente, ma chedifficilmente siamo stati posti dinanzi a soluzioni così globali per i destini dell’u-manità e della natura.Dal neolitico al Novecento la cultura umana ha intrecciato l'umanismo e le peg-giori barbarie; la gioiosa speranza della ricerca filosofica di Serres, orientata versoun’ominiscenza di pace ci invita a inventare un nuovo umanismo senza limiti, l'u-manismo integrale dell'ominizzazione: «[…] qu’attendons nous – domandia-moci con Serres pour inventer, non point un seconde humanisme, mais l’huma-nisme comme tel, puisque, pour la première fois dans le processus millionnairede l’hominisation, nous avons les moyens scientifiques, techniques et cognitifs,par études faciles, voyages aisés, rencontres et voisinages multiples et inatten-dues, de lui donner un contenu fédérateur non exclusif, enfin digne de sonnom?» [HOM 333]

nous produisons et nousautoproduisons par ce

mouvement incessant desortie». [RAM 173]

26 «La technique accom-pagne la nature, puisque

l’homme lui-mêmenaquit, naît encore naî-

tra – nascor, naturus,natura – de façonner des

choses; ainsi naquit-il,faber, fabriquant déjà, de

ses propres mains, deséquivalents de ses orga-

nes. Et ainsi entra-t-il,déjà, en autoévolution».

[RAM 178]

27 «Formé depuis la jeu-nesse aux concepts à la

grecque, j’ai échoué, mavie durant, à compren-

dre les avènements etsingularités des religions

à récit, comme, plusrécemment, à évaluer la

nouveauté du GrandRécit et le surgissement

de ses rameaux. Meslumières conceptuelles

laissaient dans l’ombreles algorithmes issus de

Rome ou de Jérusalem».[RAM 221]

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Graziella Arazzi

La vocazione alla complessità di GastonBachelard*

Focus: epistemologi eretici del ’900

1. I presupposti

Sul pensiero di Gaston Bachelard varie e ricche diprospettive sono state le piste di analisi e di studio.Alcuni percorsi hanno analizzato la dialettica dellaconoscenza scientifica, in cui Bachelard mette afuoco la dimensione di una razionalità costante-mente messa alla prova, valorizzando l’errore e l’o-stacolo come energie interne ai vari saperi. Moltistudi si sono rivolti all’approfondimento dellamatrice storica che, secondo l’autore, costituiscel’essenza della scienza. Recenti programmi di ricer-ca hanno invece tematizzato le linee di una peda-gogia del razionalismo applicato, che richiede ilcontinuo investimento della comunità educativa eche mette al centro dell’attenzione la distinzione eil contemporaneo richiamo tra rêverie e scienza. Inquesto panorama, i percorsi di ricostruzione sto-riografica, che sottolineano l’originalità diBachelard rispetto ai cardini del positivismo edello spiritualismo della cultura francese del primoNovecento, ma anche innovativi modelli di indagi-ne, che orientano a cogliere aspetti talora pocostudiati come la struttura comunicativa e letterariadelle opere di Bachelard, appaiono cospicui e mol-teplici. Tra tante articolazioni di riflessione, si rive-la tuttavia un’assenza: ciò che sembra mancareall’orizzonte è la configurazione di relazioni e rin-vii che si generano tra il pensiero di Bachelard e ilquadro epistemologico della complessità, che halasciato un profonda impronta nella cultura del XXsecolo. Come contestualizzare questo rapporto,senza cadere in riduzionismi, sovrapposizioni,metafisiche dell’anticipazione? Più che di un pro-cesso lineare, che esamini e fotografi le opere diBachelard, si tratta di utilizzare quello che il filoso-

fo ha più volte descritto come fisionomia vettoria-le del conoscere. Nel caleidoscopio della produ-zione bachelardiana occorre allora individuare,selezionare, sollecitare e mettere in scena le traccedella complessità, una sorta di riconoscimento diquelli che sono gli elementi determinanti del para-digma della metaconoscenza. Allo schema di lettu-ra a una sola dimensione subentra il dinamismodella scorribanda (randonnée, secondo il dizio-nario di Michel Serres), dove il rinvio da un testoall’altro non viene operato dal lettore ma si istitui-sce come una tessitura tra le varie forme di scrittu-ra dell’opera dell’autore. A farsi strada non è unsemplice passaggio storico da un saggio all’altro,bensì un percorso in cui tra categorie e nozionitracciate e definite si genera reciprocità, richiamo,quasi uno spazio di ricodificazione e di inedita con-notazione, che valorizza i modelli teorici e rivendi-ca la polifonia dei concetti, l’apertura arborescentedella conoscenza medesima. Mappa di questainterpretazione è un punto de La Philosohie duNon (1940), laddove Bachelard sostiene: “si proce-de da una concettualizzazione chiusa, bloccata,lineare e si arriva a una concettualizzazione aperta,libera, ramificata” (G. Bachelard, La Philosophiedu Non, Paris, Puf, 1940, p. 133). Emerge l’indicazione di un cammino, tuttavia giàsegnalato da un’opera del 1932, L’intuition de l’in-stant. Saggio sulla Siloë di G. Roupnel . Il saggiofornisce una mappa o una visione d’insieme concui intravedere, registrare e problematizzare lemolteplici direzioni o aperture alla complessità. Alcentro dell’attenzione la categoria di istante, checonnota l’azione e il pensiero, un binomio chetanto più percepisce la propria coesione e duplici-tà tanto più si apre al mondo. In Bachelard non si

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Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard

arriva a concepire la complessità come compresen-za di istante e durata, di accidentalità e di perma-nenza, intesi come termini che confliggono e sirichiamano ad un tempo. Si insiste invece sul ter-mine di istante, considerato come cuore di un dina-mismo, apertura della ragione che non è data unavota per tutte ma che si può cogliere solo comeprocedura temporale, oltre i vincoli di una struttu-ra consolidata e racchiusa in uno spazio definito.Una ragione che è discontinuità, “attività autonomache tende a completarsi” (G. Bachelard, LaPhilosophie du Non, cit., p.33) nel corso del suoprocedere, un logos che si qualifica nella messa inscena delle differenze, qualcosa che sempre rico-mincia, in tensione perspicua, senza smarrirsi nellatranquillità del continuo. Tuttavia, il pensiero dina-mico è scandito da una peculiare solitudine, attitu-dine speculativa e non emozionale che, lungi dalprefigurare isolamento, diviene opera del tempo,atto che è decisione istantanea, scelta tra pluralitàdi orientamenti e dunque dimensione fondamen-talmente creativa. La ragione si manifesta nel suoincessante interrompersi e simmetrico riconoscer-si, nel costante differenziarsi e produrre specificità.L’opera del 1932 pare demandare la sua chiarifica-zione ad un‘ulteriore riflessione che Bachelardsvolge nel corpo della Philosophie du Non: “dialet-tizzare il pensiero significa aumentare la garanzia dicreare fenomeni completi, rigenerando e offrendoospitalità a tutte le variabili che la scienza, propriocome il pensiero ingenuo, aveva omesso nella suaprima fase” (G. Bachelard, La Philosophie du Non,cit., p. 17). La coscienza del tempo è valutata comela geometria topologica che si innerva tra i singoliistanti, una configurazione attiva e mobile passiva.L’istante è la situazione-ponte che collega l’oriz-zonte pratico al teorico, la vita al suo costante met-tersi in atto, il germogliare della conoscenza all’au-toevidenza. Sintesi di polarità, funziona come polodi energia, dialogo tra elementi che la rappresenta-zione comune scinde. Secondo tali prerogative,non è assimilabile alla durata, non si presenta qualeinsieme di parti distinte, bensì appare nella fisiono-mia paradossale del tutto e delle parti. L’isolamento dell’ istante, la solitudine della cono-scenza sono tuttavia speculari a creatività e ric-chezza concettuale, individuando quell’orizzontedella complessità dove gli opposti vivono comeidentici e differenti. Spetterà all’analisi di E. Morin

individuare i movimenti tra parti e sistema, svilup-pando un modello che Bachelard definisce inmodo intuitivo nel flash dell’attimo. articolazione,dischiusura immediata, senza anticipazioni. Inquesto percorso, appaiono operazioni prive disignificato tanto distinguere tra logica della sco-perta e struttura della dimostrazione scientificatanto contrapporre schemi deduttivi a schemiinduttivi. Qualsiasi elemento di vita è storicità,temporalità concentrata nell’attimo, unione dell’e-sistente e del possibile. Anche i fatti scientificisono azioni che si svolgono, funzioni dinamiche,aperte a nuove stratificazioni. La valutazione del-l’essere come struttura improvvisa, inaspettata,richiede l’accoglienza di un pensiero multiforme,vettore temporale, destinato a collocarsi sul parti-colare, a interrompersi e a riprendersi. L’intuitionde l’instant rappresenta un luogo di esplorazionedi tematiche che costelleranno saggi, articoli,recensioni, prefazioni, opere meno strutturate esistematiche ma rispondenti alla dimensione dinuclei tematici della discontinuità.

2. Le trame dell’istante: tra conoscenza evolontà

Sul sentiero che Bachelard offre al lettore sicostruisce in tutta la sua concretezza la dinamica diun conoscere che costantemente si ricerca e siautoosserva, che procede per operazioni di tessi-tura, che tende a tenere insieme concetti, perce-zioni, inquadramenti storici. Il costante lavoro con-dotto da Bachelard per demistificare le nozioni tra-dizionali di realtà e di soggetto, definendo la dina-mica della conoscenza approssimata e dalla dialet-tica della complementarietà, un procedere mai ret-tilineo ma sempre topologico, sottoposto a costan-te rettificazione, si esprime in un dizionario sotter-raneo, forse meno esplicito e trasparente rispettoalle grammatiche del razionalismo applicato, ma diestremo rilievo per permettere di leggere fasi emosse dell’avvistamento del conoscere che cono-sce se stesso. Ed è proprio la conoscenza dellaconoscenza – come avverte Morin - a caratterizza-re la struttura della complessità. “La conoscenza èper eccellenza un’opera segnata dal tempo” (G.Bachelard, L’intuition de l’instant. Etude sur laSiloë de G. Roupnel, Paris, Librairie Stock, 1932, p.

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23), dalla correlazione tra tempi molteplici chevivono in vicinanza e in opposizione. Conoscere laconoscenza significa abbandonare il terreno astrat-to di nozioni separate e chiuse, la rassicurantededizione a modelli che presumono di rispecchia-re la realtà, l’assolutezza di una verità che si pensadi acquisire con l’applicazione di procedure logi-co-argomentative. Se il conoscere è l’atto dello spi-rito nel suo sforzo, l’istantaneità isolata nella suaenergia e nella sua potenzialità, conoscere il cono-scere richiede e sollecita l’apertura a fasi tempora-li multiple. In tale contesto, emergono non solo iti-nerari logici plurimi ma anche tipologie percettivee contesti d’azione diversificati. Nell’istante delpensiero, la reciprocità o meglio la continua trasla-zione tra tutti questi piani opera in modo da tra-durre la costruzione del sapere in continui rico-minciamenti. Come non esiste una piatta realtà,che si offra alla conoscenza ma ogni fatto è intes-suto di idee e volizioni così non si manifesta unprocedere continuo e durevole per il sapere. Inquale direzione e con quale intensità si muova l’i-stante non è determinabile in una prospettiva con-tinuista e lineare, che pare rivendicare le unichedimensioni della dimostrazione e della scoperta.Questi due processi risultano essere l’esito di unmodello astratto che, per Bachelard, perde signifi-cato di fronte all’atto creativo della scienza.Nell’istante di un logos attivo, categorie, parole,teorie si collegano in topografie sempre nuove edè l’energia psicosociobiologica della temporalità anutrire e a cementare le connessioni. Apprenderee lavorare nella ricerca diventano azioni che apro-no a una vera e propria scorribanda di nodi, in cuigli operatori dell’intelletto chiariscono e si rendo-no conto in primo luogo del loro modo di proce-dere. La conoscenza complessa stabilisce legamitra le varie configurazioni di realtà e le inedite geo-metrie dell’intelletto, sonda la reciprocità tra i poli,mette in evidenza come natura e pensiero rafforzi-no stili e autonomia solo nell’invadere reciproca-mente l’uno il campo dell’altro. Alla logica dellacomplementarietà subentra quella dell’azione sim-metrica. Ogni pensiero è vincolato agli altri e lenozioni rinviano all’elemento empirico, tramiteuna sequenza di azioni cui succedono continuereazioni. La conoscenza si costruisce e si sedimen-ta nella rapidità e nell’accidentalità, manifestaincessanti segnali di apertura, secondo cambia-

menti e costellazioni, che generano distruzioni perricomporsi in altre forme. L’eterogeneità del reale,l’infinita diversità della natura, l’illimitata energiadelle varie parti del cosmo e il dinamismo molte-plice della mente lasciano intravedere i contempo-ranei flussi dell’indipendenza e dell’interdipenden-za, giocati in ogni fase del conoscere. Come perMorin “la conoscenza della conoscenza” non è que-stione esclusiva dei filosofi ma assume i caratteri diun problema di tutti i cittadini, “perché la cosa piùimportante è la vita vissuta, che è strettamente col-legata al sapere ed è infatti a partire dalla cono-scenza che noi prendiamo decisioni e compiamoazioni” (E. Morin, Lezioni messinesi, a cura di A.M.Anselmo e G. Gembillo, Messina, ArmandoSiciliano Editore, 2006, pp.17-18), per Bachelard lavera evidenza, il nucleo del conoscere si raggiunge“nella coscienza che si protende fino a decidereun’azione” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant,cit., p. 26). Un atto è decisione istantanea, chesegue un movimento costantemente variato, dis-continuo, sempre ricominciato e carico di originali-tà. Se liberiamo la conoscenza da stereotipi e sche-matismi, osserviamo infinite particolarità, proprietàaccidentali, istantanee, contatti tra elementi diversi,non prevedibili in sequenze continue. Ogni fattoreè indipendente rispetto agli altri; contemporanea-mente, ha in ogni caso bisogno degli altri. Ogniistante è separato dagli altri ma proprio nella suaassolutezza genera la configurazione d’insiemedella conoscenza. Conoscere il conoscere significatener presente la rete variabile di configurazioni, leprocedure ricorsive, per cui ciò che si qualificacome effetto di una causa - nell’essenzialità dell’i-stante - retroagisce sulla causa presunta, in un per-corso che Bachelard connota come propulsività. Utilizzando un dizionario che rivela parentele conla struttura della complessità, Bachelard considerale relazioni di distanza e contemporanea vicinanzatra vita e conoscenza, tra biologia e logica. La vita,come la conoscenza, è per essenza temporale, vet-tore prospettico e non può essere compresa “inuna contemplazione passiva; comprenderla, è piùche viverla, è in verità offrirle propulsione”(G.Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.28). Nelladimensione ologrammatica di Morin, l’individuo sitrova entro la società ma l’anima sociale si espandenell’individuo con un linguaggio, un codice, ununiverso e individuo e specie si richiamano costan-

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Graziella Arazzi La vocazione alla complessità di Gaston Bachelard

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temente, in una dinamica in cui agisce un tutto perun tutto. In sorprendente analogia, Bachelardintende la conoscenza come dialettica di autorea-lizzazione dei sistemi viventi medesimi, in un pro-cesso temporale per cui la conoscenza-vita non hasvolgimento continuo, non scorre “sull’asse di untempo destinato a riceverla come un canale ricevele acque di un fiume” bensì trova la sua realtàessenziale nella concentrazione di un attimo” (G.Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.28). Tale autoorganizzazione propulsiva è segnata dalladiscontinuità e dall’originalità che ne rinvigoriscela struttura. Vivere, conoscere e creare sono fasi diun percorso costellato da interruzioni, cesure,rivolgimenti, capovolgimenti e pieno di “anacroni-smi, scacchi, riprese” (G. Bachelard, L’intuition del’instant, cit. p. 30). Viene definita la priorità del-l’accidentale, momento in cui la vita si sintetizza ericomincia, diviene autocreazione e conoscenzaconsapevole. Superando le barriere della conti-nuità e lo stereotipo della scomposizione dellaconoscenza in frammenti, Bachelard cancella latipologia di una realtà, destinata a permanere in untempo uniforme, passibile di rappresentazioni o discoperta e sottolinea la dimensione di un istante,continuo rinnovamento e ricominciamento, cherestituisce al reale la proprietà di un divenire mol-teplice. Tempi differenti, intersecati, nuclei di sin-tesi dell’essere caratterizzano l’epistemologia,ossia la struttura complessa in cui - come avverteMorin - persona, cultura, organizzazione delleidee e delle teorie comunicano in forma multipla,registrando cambiamenti che non sono prevedibi-li e si innescano nella dialettica dell’istante.L’istante che Bachelard valorizza è il momento incui reale e psichico, fattori tradizionalmente oppo-sti, si richiamano nella dialogo della ricorsività,dove tutto e parti si rapportano. Verità, evidenza,energia vitale si svelano solo nell’attimo e non nelmodello inefficace della durata. Sinergie e simbio-si, logiche dell’integrazione, traduzioni costanti diparametri sociali, culturali e psicologici caratteriz-zano un pensiero che elude la chiusura autoevi-dente della logica cartesiana e si profila comeattenzione al momento fecondo, in cui conosceree vivere sono strutture che emergono nella ric-chezza organizzativa, nell’apertura continua, nelladimensione del costante rinnovamento. Su questoasse, la solitudine degli opposti, tipica delle varie

dialettiche, lascia il posto alla comunicazione traspirito e cose, alla comunicazione fra presente epassato, tra essere umano e altre specie.L’autopoiesi, l’emergenza di stili e forme di vita,incorpora una temporalità discontinua, dove l’i-stante è un punto di completezza che proprio inquanto tale si autosupera, deflagrando la propriaconsistenza nel dinamismo delle multipossibilità.La vita e la conoscenza non sono altro che il teatroin cui emergono istanti, separati, discontinui.L’essere, soggetto o oggetto, “è un luogo di riso-nanza per i ritmi degli istanti” (G. Bachelard,L’intuiton de l’instant, cit., p. 69). La metafora diun’eco, che possiede nel suo passato anche unavoce, elimina il paradigma sostanzialistico e cono-scitivo lineare per lasciare spazio alla “problemati-ca permanente, che cambia ogni giorno assieme atutte le conoscenze che via via ritroviamo”, in altritermini all’”autoesame” (G. Bachelard, L’intuitionde l’instant, cit., p. 44). Emergenza e autoanalisi sono segnali di disconti-nuità e di direzioni multiple che riorientano le fina-lità dell’insegnamento delle varie discipline. La fisi-ca teorica e la storia delle scienze devono, infatti,accompagnarsi a una sorta di pedagogia del dis-continuo per Bachelard e di osservazione dellaconoscenza secondo Morin. L’analisi di ciò che siconosce e di come si conosce diviene esame delcontesto biopsicosociale, in cui il rapporto di assi-milazione è anche rapporto di conflitto, dove l’esi-stenza di una vita culturale e intellettuale dialogica,il calore culturale, la possibilità di esprimeredevianze rappresentano tre condizioni che mobili-tano e liberano energie, tre dinamiche che lasociologia della conoscenza deve prendere in con-siderazione e che “rendono possibile l’autonomiadel pensiero e, correlativamente, le condizionisociali, culturali, storiche delle possibilità di ogget-tività, di innovazione e di evoluzione nell’ambitodella conoscenza” (E Morin, Le idee: habitat, vita,organizzazione, usi e costumi, tr. it A. Serra,Milano, Feltrinelli, 1993, p. 31) In un’opera difficile da interpretare e che puòessere assunta come il tentativo di Bachelard diconoscere il conoscere stesso, una sorta di meta-logica del tempo, l’attenzione verte sulla strutturamedesima del paradosso che caratterizza la dimen-sione della complessità. L’istante è solitudine, eli-minazione della continuità e, nello stesso tempo, è

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nucleo fecondo di idee, punto in cui la vita è rico-minciamento. La struttura ricorsiva e circolare con-nota la conoscenza, eliminando la dimensione pro-gressiva e lineare. Nella ripresa, che scatta nell’i-stante, nella tensione del tempo, emerge la vita maanche lo stile di conoscenza, si struttura l’appren-dere ad apprendere, coniugando l’estrema fecon-dità e pienezza dell’essere con la quiete e l’isola-mento del ricercatore che si autoanalizza, la fertili-tà con il rigore. “Nel presente che agisce, operanoi mille fattori della nostra cultura, i mille tentativi dirinnovarci e di riformularci” (G. Bachelard,L’intuition de l’instant, cit., p.23). Con questi ter-mini Bachelard sembra alludere alla finalità di unsapere che, albero mobile e libero, produce auto-nomia e consapevolezza, offrendo occasioni perrivalorizzare costantemente l’uomo, osservato inconnessione multipla con le cose e con il mondo.La conoscenza cessa di essere applicazione dimodelli e paradigmi che fotografano o scopronorealtà per divenire linea costantemente articolata edeviante, dove si offrono condizioni di apertura edi continua innovazione. “Dal momento in cui silibera la conoscenza e nella proporzione in cui silibera la conoscenza, ci si accorge che può ospita-re infinite casualità” (G. Bachelard, L’intuition del’instant, cit., p.24). Bachelard usa il termine diaccidente per indicare l’estrema varietà delle con-nessioni, delle combinazioni e delle relazioni, pro-prietà emergenti in un percorso che interrompequalsiasi logica lineare per configurare le rotture,le crepe, i conflitti. Si delinea quel panorama cheMorin definirà con nuovi processi categoriali: l’au-tonomia delle menti, l’emergenza di conoscenze eidee nuove, lo sviluppo di ibridazioni e di critichereciproche. La definizione del tempo istantaneo ediscontinuo si affianca all’esplicita critica delmodello del conoscere inteso come durata edestensione lineare. Quest’ultima prospettiva, infat-ti, suscita una serie di condizionamenti e di deter-minismi che imprigionano il dinamismo, l’origina-lità e la creatività delle conoscenze, annullando inestrema sintesi l’anima stessa del sapere, che èquella di andare costantemente oltre.L’epistemologia complessa pone in chiaro le con-dizioni di autonomia della conoscenza cheBachelard individua in nuce nella critica allo stilecontinuista della durata bergsoniana. Riconoscerela realtà decisiva dell’istante significa demistificare

le condizioni di falsa conoscenza e, in primo luogo,lo stereotipo di causalità lineare per concederespazio alla discontinuità. “Ogni azione, pur sempli-ce che sia, rompe necessariamente la continui-tà”(G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit., p.30) presunta della vita. Ciò che accade è l’effettivoprincipio da valutare attraverso una topografia dirotture, crepe, buchi, cesure. Solo nell’istante pun-tiforme, concentrato di energia, si assicurano quel-le condizioni che poi Morin definirà secondo gliassi della PLURALITÀ/COMMERCIO/DIALOGICA,(regolazione, regola del gioco, tradizione critica,conflitti di argomentazioni, Calore, agitazioni,alea); della LIBERTÀ (libere polemiche, devianzetollerate, ibridazioni, sintesi, critica, scetticismo,contestazioni, rivolta) e delle ROTTURE PARADIG-MATICHE (buchi neri antropologici, possibilità didecentramento, ricerca di oggettività, di universa-lità). E’ l’istante discontinuo, casuale, a sprigionareenergia per nuove configurazioni, a gestire retroa-zioni, capovolgimenti, sintesi ologrammatiche,assegnando valore al soggetto che conosce ilmondo, nel momento in cui è condotto ad esami-nare rischi e possibilità della conoscenza medesi-ma. Nell’atto del presente si concentrano dimen-sioni e direzioni plurali che occorre disoccultare.

3. La ragione in esercizio

Nella seconda delle Lezioni messinesi, Morin indivi-dua tre idee guida. La prima di esse, denominataecologia dell’azione, indica un fatto testimoniatodall’orizzonte della complessità. “Quando si comin-cia un’azione, essa entra in un gioco di interrelazio-ne, di interazione e di retroazione con l’ambientepolitico e sociale circostante” (E. Morin, Lezionimessinesi, cit., p. 33). Non esiste dunque un’inten-zionalità lineare, un nesso di continuità tra l’azionee il suo risultato. Un percorso accidentale che, perBachelard, non coincide tuttavia con l’irrazionale el’alogico; al contrario, riassume la completezza delleprospettive conoscitive. L’accidentalità delinea lalibertà della conoscenza, che esplode nell’energia enella decisività di atti teorico-pratici. Ogni atto è sin-tesi, ibridazione, rinnovamento. Non è mai ripresadel precedente ma è sempre messa all’opera e vali-dazione continua del conoscere. L’istante conte-stualizza l’essere, offre una configurazione delle arti-

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colazioni conoscitive. Ogni geometria del sapere è tuttavia autonoma eproprio in quanto tale esprime il valore della cono-scenza. L’atto istantaneo è certo in quanto inizia;nello stesso tempo. appare indeterminato e alea-torio, poiché infinite sono le articolazioni.Mescolanza di regole e di occasionalità, risponde alcriterio di pertinenza, poiché riveste caratteri mul-tidimensionali e multidirezionali ed è coevoluzio-ne di materia e psiche. La nostra vita come lanostra conoscenza appare quale lunga fila di istan-ti separati e interviene come integrazione di even-ti, rispetto delle differenze mai assemblabili in unaestensione lineare. Affrontare l’incertezza, il dram-ma della solitudine della conoscenza istantanea,che non conosce la tranquillità della durata, signi-fica tuttavia anche riconoscere la pluralità infinitadelle costellazioni di istanti, la multidimensionalitàdelle organizzazioni conoscitive. In tale contesto,si ipotizza il quadro di un’educazione dell’istante,che privilegia la metodologia dell’arborescenza eche richiama il principi dell’antropoetica, ossia l’in-terazione tra individuo, specie e società.Cominciare sempre da capo è la tensione cheguida il cominciare a cominciare, ossia percorreredelle trame devianti rispetto alle traiettorie prefis-sate costituisce anche l’obiettivo dell’epistemolo-gia della complessità. La ragione che ricomincia,completamente coerente nell’assolutezza di unistante, si apre alla pluralità delle sue forme, è ingrado di recepire la polivalenza del reale e di tra-dursi in strutture aperte ad ospitare principi cheritmano il divenire del conoscere. Il logos istanta-neo è apertura al nuovo e memoria delle azionicompiute, dei continui sentieri, in cui il conosceresi è via via strutturato attraverso traiettorie, scac-chi, riprese, deviazioni e turbolenze. Bachelard,seguendo G. Roupnel, individua la categoria digerme come quella che concentra particolaritàdistinte. Il germe “è una vera unione di contrari,anche di contraddizioni: il germe è ciò che non è.E’ già ciò che non è ancora, ciò che sarà solamen-te. E’ ciò che sarà perché, altrimenti, come potreb-be diventarlo? Non lo è perché, altrimenti, che esi-genza avrebbe di diventarlo?” (G. Bachelard,L’intuition de l’instant, cit., p. 83). Il germe èmateria che si trasforma e potenza che trasforma lamateria, due processi ad un tempo. La ragione chevive nell’istante è anche ragione futura, imprevedi-

bilità e incertezza. La sperimentazione del tempo,in tutte le sue argomentazioni, caratterizza la strut-tura complessa del pensiero, destinato a muoversinel futuro, in cui vengono conglobati il presente eil passato. “L’avvenire non è ciò che viene verso dinoi ma il punto, la mèta, verso cui noi procedia-mo” (G. Bachelard, L’intuiton de l’instant., cit., p.69). La conoscenza complessa costruisce neltempo risonanze degli istanti, ciò che nel lessicoquotidiano si definisce come abitudine.L’abitudine non è collocata nello spazio o nellamateria. “L’abitudine – sottolinea Bachelard – ètroppo aerea per radicarsi, troppo immateriale perdormire nella materia. Essa è un gioco che conti-nua, una frase musicale che è destinata a ripetersi,perché appartiene a una sinfonia in cui gioca unruolo” (G. Bachelard, L’intuition de l’instant, cit.,p. 69). Il conoscere si esprime nell’istante che lace-ra ed esplode ma anche nel timbro musicale, nellerelazioni sonore e ritmiche degli instanti. In talecontesto, la conoscenza è eco di un passato cheappare voce consolidata e il futuro si segnala comeanticipazione di vaghe melodie. L’abitudine è l’at-to del conoscere che si riappropria della sua ener-gia, non spazio continuo ma configurazione ecostellazione, che segna la disimmetria tra passatoe presente, tra certo e incerto. Quale differenzascorgere tra la conoscenza scientifica, la conoscen-za comune, il sapere politico, l’atto creativo? Sitratta di forme di connessione o di identità pluraliche si configurano come diverse possibilità di con-nessioni tra ritmi. Se l’istante coincidesse solo conil presente, non ci sarebbe possibilità di coscienza;esso, invece, si pone come interruzione, capace ditesaurizzare in se stessa il passato e di articolare ilfuturo. Uno scenario polivoco: rapporti che ven-gono rivisitati e aperture a nuovi legami, in un’on-tologia aperta. Al centro dell’analisi assume pre-gnanza l’oggettività del ritmo temporale. L’istanteè l’eco del passato, la voce che si ripresenta. Inesso la razionalità è costantemente rinnovata, sirispecchia nel suo potenziale e, al contempo, deli-nea l’arborescenza di nuove forme. L’abitudine –al di là dell’immagine comune di ripetizione linea-re e di sequenza ininterrotta di atti – appare comeesercizio alla ragione, percorso multiforme chenon si smarrisce nei suoi meandri ma che è pre-sente a se stessa, attraverso una variegata polise-mia. Interruzione di un viaggio, intrapresa di un

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altro cammino, selezione, decisione costituiscononon solo le categorie mobili del conoscere maanche le particolari modalità di strutturarsi e diorientarsi nel mondo dell’etica, che è sempreattenzione alle pluralità, rifiuto delle identità uni-che e della continuità, maschere in ultima analisidell’egocentrismo e del nichilismo. La conoscenzaè tanto più forte e solida quanto più si riconosceattraverso interruzioni, cesure, discontinuità, tur-bolenze. L’etica è orizzonte della libertà laddoveevita le pastoie dello scontro o del dialogo e sotto-linea la presenza di contesti plurali, a cui il sogget-to appartiene nello stesso tempo e dove può eser-citare libertà di scelta. Continuità e identità omo-logano la conoscenza, svuotano il conoscere dellasua potenzialità autoriflessiva e distruggono lavirtù della responsabilità come investitura dellapersona che prende decisioni. In questo scenario,l’istantaneità si fonde con una sorta di memoriaintellettiva che permane anche nelle fratture e nelletorsioni, poiché il concetto possiede una strutturaessenzialmente ritmica, temporale, manifestatadalla relazione tra elementi. L’attività etica si fondasulle medesime morfologie ed è anticipazione degliesiti del futuro. Escludendo la mera applicazionedelle norme o l’univocità di un giudizio riflettente,anticipa mondi e prospettive di vita attraverso lascelta. Nella dialettica dell’istante, il soggetto si rafforzasia sul piano conoscitivo sia su quello della libertàetica, poiché attraversa pluralità di situazioni dis-giunte e dissonanti, mantenendo tuttavia la suastruttura di focus propulsivo e la sua capacità diindividuare, ibridare, connettere. Il ritrovarsi dellaragione, anche attraverso opere di desertificazionee ardite soluzioni morali, che non si limitano almondo presente, ma postulano mondi futuri, raf-forza le strategie di razionalità e la libertà del sog-getto. Nella durata spaziale, la forza del pensieroprocede da un passato solido ad un futuro, chegode della coerenza solo in virtù del passato. Nelladiscontinuità epistemologica, è il presente a ren-dere conto del vigore della ragione passata e dellaforza di quella futura, definendo le diverse dirama-zioni del logos. Precisione e oggettività caratteriz-zano l’emergenza della ragione, che riassume ilpassato e sceglie il futuro, mantenendo sempre laprerogativa di un’attenta autosorveglianza. Nelmeccanismo fallace della durata, l’istante è consi-

derato come punto immobile, laddove invece essosi connota come continuo e duplice oscillazionetra pensiero e azione, tra conoscere e volere, tramemoria del passato e segnale del futuro.Rinascita dello spirito che riprende consapevolez-za e gioia etica si dimensionano nel ritmo dell’atti-mo, dove si legano attenzione e abitudine, partico-lare e universale, relativo e assoluto. Ragione chericomincia, pensiero che rinasce: “il problema èquello di una ragione che continui a ragionare: chenon proceda per puri automatismi, finendo pergirare a vuoto, per ridursi a un razionalismo senzapensiero, alla banale stupidità ma sappia accoglie-re quella singolarità che di volta in volta mette incrisi l’universalità delle sue leggi, fa fatica a trovareun posto nel suo sistema, non si lascia attraversareda una luce che vuole cancellarla in una trasparen-za omogenea anziché farne risaltare la particolarepiegatura, l’irriducibile opacità” (G. Berto,Illuminismo, in “Aut Aut” – luglio-settembre 2005,n. 327, p. 15. Il numero della rivista era dedicato altema “Jacques Derrida. Decostruzioni”). Il proble-ma sollevato da Bachelard sarà poi sviluppato etematizzato con altri accenti da J. Derrida. Bachelard rileva come la ragione sia costante sfor-zo di riprendersi e ritrovarsi, attraverso un percor-so che la pone a contatto con ciò che non si lasciaridurre. Solo nel continuo reinterpretarsi si mani-festa l’essenza della ragione. Essa è forte poichéricomincia. Non ha la certezza della continuità mal’inquietudine delle cesure e la chiarezza delleriprese. E’ una ragione che lavora fianco a fiancodelle ombre e delle opacità, che non si lascianoincludere nelle sue categorie; è una ragione chenon cerca soluzioni una volta per tutte. E’ unaragione che sfugge alla trasparenza, si moltiplica inpercorsi tortuosi, evita le semplificazioni e mantie-ne il presente nella sua apertura al nuovo, nell’in-deducibilità totale e nell’incertezza. Dunque, unpensiero che dona le possibilità del futuro, unarazionalità etica, poiché fondamentalmente asim-metrica e lontana dal modello di reciprocità, aper-ta all’accidentalità del donare. L’istante concentrale relazioni del passato, emerge con tutti i percor-si della ragione, è germe che non deriva dal passa-to ma lo riattiva e nello stesso tempo feconda l’av-venire. Una conoscenza solitaria e aperta a ciò chenon si lascia dedurre, alle trasgressioni, alle per-turbazioni, traccia il percorso del limite, dell’iper-

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bolico, senza possibilità di sfuggire all’ignoto, alladecisione, ai risultati della decisione medesima.L’istante è asimmetrico nei confronti del passato,perché lo considera ma lo ignora; al contempo,risulta asimmetrico verso il futuro, perché loannuncia ma non lo anticipa. La conoscenza non èun percorso obbligato, un cammino protetto dabalaustre, configurandosi sempre come una devia-zione che si allontana dal punto d’origine e che,nel suo dilagare, tuttavia lo rammemora. In altritermini, non è qualcosa che muove verso un futu-ro determinabile, presentandosi invece comeluminosità ritmica e puntiforme. Ogni volta, laragione ricomincia, senza paura di perdere ladignità, anzi rafforzando la sua armonia, metten-dosi alla prova con il rischio, l’emergenza della sin-golarità, l’eccezione che – solo in una dimensioneingenua – paiono minacciare le sue possibilità diorientamento e di rimodulazione. Nell’istante, lachiarezza lascia il posto all’opacità, permette che laluce sia toccata dall’ombra, elimina la trasparenzadi un logos lineare e univoco, pronta per esseretrasmessa come sequenza di categorie. L’istante ègroviglio del passato, configurazione di ciò che laragione è stata. Nello stesso tempo, segna il rina-scere del pensiero, al contatto con ciò che sfugge.Emerge un’assenza, un’alterità che svolge, tutta-via, il ruolo fondamentale di rendere il sapere con-sapevole di limiti e profondità. L’abitudine è abitodella ragione, pronta a spogliarsi delle sue certez-ze per diventare attenta alle fughe, alle deviazioni,all’incertezza di una scelta, senza ridursi a vuotischemi di appropriazione della realtà.

4. Dalla causalità efficiente alla causalità for-male: il germogliare della conoscenza

Aperture alla complessità vengono segnalate daglisnodi che - nel pensiero di Bachelard – caratteriz-zano una serie di saggi, appartenenti a diversiperiodi. La trascrizione della seduta del 13 marzo1937 sul tema La continuità e la molteplicità tem-porale registra la tavola rotonda, organizzata dallasocietà Francese di Filosofia e in cui Bachelard hacome interlocutori, tra gli altri, A. Lalande, I.Meyerson, D. Parodi. Nel dibattito, contro le tota-lizzazione dell’unicità e della continuità temporale,assumendo come contesto di indagine la biologia

e il campo del vivente, l’autore sviluppa una seriedi argomentazioni per caratterizzare quello chedefinisce come “essere complesso” (G. Bachelard,La continuité et la multiplicité temporelle, in“Bulletin de la Société Française de Philosophie”,XXXVII, 1937, p. 54). “Un essere complesso si svi-luppa in una pluralità di tempi. In ciascuno di que-sti tempi non si presenta mai come un tutto unicoe omogeneo” G. Bachelard, La continuité, cit, p.55). La discontinuità caratterizza le funzioni vitali,poiché la vita si presenta quale struttura di alter-nanze, in cui il dialogo di essere e di non esserecostituisce l’essenza. Il pluralismo dell’essere com-plesso si collega in termini necessari a quella che ilfilosofo sancisce come dialettica del ritmo.“Maggiormente un essere diventa complesso emaggiormente le sue funzioni si diversificano.Maggiormente si impone la differenziazione, conmaggiore evidenza appare che una funzione agiscenon per sempre, ma in tempi limitati e che la suafinalità approda al non funzionamento […]. Ilriposo di una funzione è immediatamente il risve-glio di un’altra” (G. Bachelard, La continuité, cit.,pp. 55-56). Un essere complesso è quindi, essen-zialmente, essere ritmico, contrassegnato da unsistema raffinato di alternanze, cesure e riprese. Aifautori dell’unicità e del continuismo, Bachelard fanotare che solo in un percorso senza metodo,grossolano e senza attenzione sfuggono le conno-tazioni del vivente complesso, ossia la discontinui-tà e la molteplicità, che riassumono anche l’azionedella psiche. Assumendo la lezione di P. Valéry,Bachelard sottolinea la natura accidentale delconoscere. L’intelletto è qualcosa che accade, unavvenimento, qualcosa di imprevedibile a talpunto da segnare il soggetto. “Qualche voltapenso, qualche volta sono”, rimarca Valéry, san-cendo una completa sostituzione dell’unicità edella coesione del cogito con il carattere ritmicodel pensiero. Ne deriva una sorta di dialettica onto-logica, che “deve incoraggiarci a moltiplicare ledialettiche temporali per spiegare il pluralismo psi-cologico” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 56).In un orizzonte certamente innovativo, lo spirito ela vita si configurano come due sistemi che opera-no per diastole e sistole, attraverso realizzazionidiscontinue, “insieme di ritmi più o meno orche-strati” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 57). Ladimensione olistica, ricorsiva e peculiare dell’au-

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toecoorganizzazione viene chiarita da Bachelardtramite una serie di metafore: “una corda è com-posta di fili, un filo è costituito da fibre, ma le fibresono costituite da molecole. Ogni legame tempo-rale è designato da un valore di insieme. Il legamediminuisce di forza quando l’insieme si depoten-zia” (G. Bachelard, La continuité, cit., p. 58).Qualsiasi procedura per misurare il tempo vuoto econtinuo è destinata al fallimento. La temporalità,dunque, appare come struttura di relazioni, fonda-te sul ritmo di funzioni. “Il tempo ha in ogni casouna dimensione correlativa, sintesi dell’osservato-re e dell’osservato” (G. Bachelard, La continuité,cit., p. 59). Bachelard sembra aprire alla logica deisistemi viventi e alle modalità di sistemi non bana-li, successivamente definite da H. von Foerster. Inparticolare, pare anticipare alcune formulazionidella futura teoria della riflessività. “L’osservatoreche si trova, in olimpica indipendenza, al di fuoridel quadro della sua osservazione, non esiste” sot-tolineerà più avanti P. Watzlawick (P. Watzlawick,Comunicazione e scienze umane, dattiloscrittodella relazione al Convegno Internazionale diStudio “La comunicazione umana”, IstitutoGramsci Veneto, 19-20 settembre 1983, p. 10) . Nelprocesso di conoscenza, il soggetto non è estraneoall’oggetto che conosce ma appartiene al medesi-mo contesto. “In contrasto con la concezione pre-dominante, l’analisi meticolosa di una osservazio-ne rivela le caratteristiche proprie del suo osserva-tore” sosterrà – in continuità con le posizioni diBachelard – F. J. Varela (F. J. Varela, A Calculs forSelf-Reference, in “International Journal of GeneralSystems, 1975, p. 24). Strutture autopoieitiche edinamica di sistema vengono segnalate, dunque,dalla riflessione di Bachelard. La realtà è configura-zione ritmica, correlata ai ritmi di conoscenzaattraverso fasi di cambiamento che risultano sem-pre discontinue. Tra le vibrazioni del vivente, iritmi della conoscenza e le scansioni di altre realtàsi pone una connessione coevolutiva. Interruzionie riprese caratterizzano i legami tra i diversi livelliontologici. A sostenere il processo si configura unmodello di causalità formale, che si rende visibilein avvenimenti discontinui. Cambiamenti di formanon seguono una traiettoria continua, bensì esplo-dono in istanti accidentali, rendendo visibile comeil modello della causalità efficiente non sia piùdecisivo. Nell’interlocuzione con A. Lalande,

Bachelard sottolinea la pluralità di ritmi che carat-terizzano la vita di idee, uomini e definisce ilmodello vibratorio come una metastruttura dicoordinamento tra i molteplici e infiniti processi. Iritmi – rileva Bachelard – sono delle realtà ogget-tive. In tale orizzonte appare delinearsi quellapedagogia del tempo che ha il compito di costrui-re percorsi di coeducazione e di coapprendimen-to, mediante lo sviluppo di legami tra discipline,saperi, aree di creatività. La natura ritmica, discon-tinua, della realtà e della conoscenza, la prioritàdella causalità formale nei sistemi e nei processiviventi conducono a esplorare alcuni fattori chepossono rinnovare l’istruzione e l’educazione, illu-minando e portando in primo piano quella dialet-tica dei tempi, dell’istante, della discontinuità edelle cesure che connota l’articolazione dei pro-cessi di coevoluzione. Nel contesto della Philosophie du Non, Bachelardconsidera la dimensione della molteplicità e delladiscontinuità come linfa vitale per le dinamiche dievoluzione dell’apprendimento. “Il pensiero razio-nale ancorato alla linearità rischia la degenerazio-ne” (G. Bachelard, La Philosophie du Non, cit., p.127). Di qui la necessità di ipotizzare una pedago-gia che educhi alla dimensione temporale, cheorienti alla moltiplicazione dei legami, che formi eguidi alle articolazioni, alle cesure e alle riprese.Una prospettiva che l’autore riprende da A.Korzybski e che ritraduce in un percorso peculia-re, dove biologia, logica, teoria della conoscenzaappaiono sottosistemi temporali di un contesto dicui si registrano vibrazioni, articolazioni e possibi-lità di sviluppo. L’apprendimento favorisce la strut-turazione di processi biologici e neuronali, tramitel’uso di un linguaggio e aperto e la sperimentazio-ne di stili cognitivi divergenti. In particolare, l’edu-cazione non-aristotelica, quale la che elimina lacausalità lineare e potenzia il multiversum, la dis-continuità e la pluralità dei sistemi, ha il fine dicompletare le strutture cerebrali, organismo aper-to, che trae energia dal sistema complesso dellaconoscenza. Coevoluzione di processi, tra stratifi-cazione dei concetti e potenziamento della psiche,dunque, in una sorta di anticipazione dell’episte-mologia di Varela. La complessità richiede che ilmaestro debba apprendere insegnando, fuori delsuo insegnamento, in un’apertura al futuro checonduce a eliminare la semplice trasmissione di

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nozioni. Una pedagogia che riconosca il cambia-mento, la molteplicità di funzioni, la flessibilità disistema appare in grado di riconoscere la valenzadella non-identità, il rapporto con l’assenza, il nonconosciuto, l’errore. Il maestro deve possedere ladisponibilità ad accogliere il molteplice, a muover-si in rapporto a tempi e condotte diversificate.Tutto ciò implica il superamento della psicologiadella forma per codificare in maniera sistematica“l’educazione alla deformazione”(G. Bachelard, LaPhilosophie du Non, cit., p. 132) . Qualsiasi pro-cesso formativo deve incorporare il modello del-l’incrocio e dell’articolazione, conducendo i ragaz-zi all’intersezione dei concetti, al confronto, allamoltiplicazione delle idee. All’unicità delle nozionisi contrappone la pluralità delle nozioni.L’obiettivo dell’istruzione è quella di potenziarel’attitudine a una concettualizzazione arborescen-te, che definisce la pluralità dei significati di ognimodello scientifico. Educare all’arborescenza deiconcetti vuol dire eliminare le stereotipie, creandocondizioni di fecondità per lo sviluppo del pensie-ro. La logica non-aristotelica sviluppa la capacità didifferenziazione, orienta alla scelta tra molteplicipossibilità, orientando l’allievo a sviluppare una“concettualizzazione aperta, libera” , nettamentedistinta da una concettualizzazione “chiusa, bloc-cata, lineare” (G. Bachelard, La Philosophie duNon, cit., 133). Tuttavia, per educare all’attività psi-chica aperta e per garantire lo sviluppo sistemicodelle facoltà, bisogna formare gli educatori inun’ottica non-aristotelica. La scienza dei concettiaperti e articolati, dei saperi in prospettiva conferi-sce una dimensione temporale al pensiero e forni-sce al soggetto una prospettiva di significato.Educare al contrasto, all’opposizione, differenzian-do le nozioni, problematizzandole, innesca un pro-cesso di fecondità delle strategie dell’apprendi-mento e delle connessioni neuronali, generandoanche nuove reti semantiche e virtuosi circuiti dicoappartenenza tra alunni e maestro. Pensare aparte – direbbe A. Koestler, per Bachelard si trattadi rompere il determinismo dell’intelletto. Crearecollegamenti tra le funzioni cerebrali, eliminareabitudini di pensiero vuol dire percorrere quellastrada della non-identità che risulta terapeuticaanche per la formazione degli adulti. In che modorealizzare il processo? Insegnando la tecnica dellasegmentazione e dell’articolazione di concetti. Se

infatti valutiamo soggetti con deficit intellettivi,possiamo osservare come uno dei parametri fon-damenti del loro handicap sia soprattutto la perdi-ta o l’assenza della facoltà di divisione e di scom-posizione dei concetti così come l’incapacità dioperare connessioni e legami tra le nozioni, in altritermini una scarsa strutturazione temporale dellefunzioni logiche. Abituare alla deformazione, allasegmentazione, alla non–linearità del procedereconcettuale significa garantire congiuntamentedue condizioni: l’oggettività della conoscenza e lacreatività della logica. Sbloccare i meccanismi diinvenzione significa anche garantire un correttosviluppo del potenziale biopsicofisiologico. I siste-mi cognitivi e biologici coevolvono grazie ad unapprendimento che valorizza la mobilità, la dialet-tica, l’apertura dei concetti e degli stili d’indagine.Bachelard sembra riproporre quell’unicità di strut-tura tra psiche e mondo fisico che nel 1937 inden-tificava con la nozione di ritmo. Proprio nella sedu-ta della Società Francese di Filosofia, l’autore,rispondendo alle obiezioni dei sostenitori dellalogica dell’identità, assume la posizione diPirandello per spiegare la costruzione della perso-nalità. “Per Pirandello – afferma – la costruzionedella persona avviene per coincidenze, dissimili edisomogenee; e il processo di queste coincidenzeelude la dinamica storica e non segue neppure unalogica evolutiva, ma si esprime nel contatto dicampi d’azione estremamente diversi” (G.Bachelard, La continuité, cit. p. 77). Di qui ilmodello dei tempi sovrapposti, intrecciati e siner-gici, che configurano società, psiche e conoscenza.Nella costruzione della personalità intervengonofattori molteplici e diversificati. “Ci vogliono parec-chi elementi per rendere visibile una personalità.”(G. Bachelard, La continuité, cit., p. 77), la cui evo-luzione è segnata dalla discontinuità, punteggiatada sfumature ed elementi minuziosi. La formazio-ne dei concetti - così come l’evoluzione della psi-che - segue trame arborescenti, ricche di particola-ri, costantemente ricontestualizzate e aperte suuna molteplicità di orizzonti. Per delucidare il pro-cesso, Bachelard trova un esempio calzante nell’o-pera drammaturgica di Ibsen. La scena si snoda inun mondo chiaro e coerente; all’improvviso, tradue porte, si gioca un brevissimo dialogo, lo scam-bio di parole o frasi paradossali e, in quel frangen-te, la personalità dei soggetti viene a galla.

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Istantaneità, specificità e dialettica rifiutano la logi-ca lineare e continua del discorso, della conversa-zione, del trattato per affermare invece le categoriedel pensiero visivo, i linguaggi del messaggio filmi-co, le cesure letterarie del frammento e del saggio.Se la narrativa vive nel frammento e nel flash, lalogica si sviluppa nella contraddizione e la cono-scenza scientifica si nutre della forma aforistica esaggistica. Ologramma, principio di ricorsività e diautoorganizzazione ancora una volta rappresenta-no il dizionario con cui Bachelard pare confrontar-si. In particolare, la natura relazionale e tempora-le degli oggetti, della conoscenza e del mondoconduce Bachelard a definire la soglia dell’elabora-zione teorica per cui - come sosterrà più tardi P.Watzlawick - ciò che accade nell’ambito delle rela-zioni interumane non è più, quindi, un fenomenosecondario dell’uomo primariamente inteso insenso monodico ma, propriamente, l’essenza dellacoscienza umana.

5. Un dialogo fra epistemologia della relazio-ne ed etica della scienza

Il percorso tematico sull’avvio alla complessitàtrova un ulteriore tassello nel 1938, quandoBachelard scrive la prefazione all’opera di M.Buber, L’Io e il Tu. “L’io si risveglia proprio grazieal tu” (G. Bachelard, Préface à M. Buber, Je et Tu,trad. fr., Paris, Aubier, 1938, p. 8) Proseguendo lavocazione a scorgere la complessità, Bachelardrivela la crisi del modello di causalità lineare, supe-rata dalla categoria di simultaneità e distinzione,che caratterizza l’incontro di due coscienze.“L’incontro ci determina - sostiene Bachelard –non siamo nulla prima di essere messi in relazio-ne” (G. Bachelard, Préface, cit., p. 9). L’io e il tunon sono poli separabili, punti o centri da con-giungere ma se mai appartengono all’ordine delleforze relazionabili traverso linee vettoriali.“Bisogna essere in due per comprendere un cieloblu, per dare un nome all’aurora” (G. Bachelard,Préface, cit., p. 11), afferma Bachelard, sottoli-neando come la categoria di reciprocità rispondaalla tipologia della relazione. Tramite la relazione,il soggetto si rapporta alla comunità umana e almondo delle cose. Alla conoscenza-monologo sisostituisce il dialogo, il calore della relazione e

dello scambio, in cui il riferimento dell’io al tu eviceversa fornisce senso al conoscere e all’etica.Uniti ma diversi, senza possibilità di omologazionee di sovrapposizione, l’io e il tu vivono una rela-zione che porta ognuno dei due membri di fronteall’alterità assoluta dell’altro e genera il processo dicoesistenza e di coappartenenza. Lì, può nascerelo stile della conoscenza scientifica come comuni-tà di condivisione, di contro alla concezione dellascienza e della tecnica quali attività pratiche, azionidi sfruttamento del mondo delle cose. Il soggettoche si rapporta al tu non ha nulla da chiedere, masi richiama all’assolutezza della relazione, in cuianche il tu si apre costantemente all’imprevedibile,nel solco di un’esperienza che supera il mondoempirico. Orizzonte dell’incontro e della relazio-ne, l’io e il tu rimangono comunque distinti, purnell’inevitabile richiamo reciproco. Emerge un’eti-ca della complessità, capace di elaborare modellidi comunicazione e di comprensione dell’altro epronta a caratterizzare l’illuminazione dellacoscienza attraverso l’esperienza di un altro cogito.Un allontanamento significativo dalle matrici carte-siane dell’identità e dell’ipseità del pensare e untentativo di definire il conoscere come strutturadella relazione, come fluido dell’intersoggettivitàche sostituisce il rapporto strumentale con le cose.Nell’io, il soggetto conosce ciò che anche il tuviene a definire. L’io è essenzialmente apertura allarelazione, all’essere con altri, con il tu. Isolamentoe solitudine di un intellettuale, che riduce il suopensiero a assimilazione del mondo, vengonosuperati dall’aurora di una scienza in cui l’incontrocon l’altro, la reciprocità tra due soggetti, il rico-noscersi l’uno attraverso l’altro rappresentano ilcuore di una conoscenza superiore a quella empi-rica. Tutto il percorso si può sintetizzare come lanascita e il procedere di un pensare attraverso lacoscienza di un altro uomo. Proprio lo slittamentodell’unitarietà del legame soggetto-mondo (cheBachelard definisce con il neutro cela, cosalità) allacomplessità della relazione io-tu, in cui ogni ele-mento è se stesso e l’altro, conduce a evidenziarela totalità di una scienza che risulta insieme di rela-zioni. Assume rilevanza un percorso innovativo, incui ciò che l’io costruisce è realizzato simultanea-mente nelle altre coscienze. La tensione verso l’in-tersoggettività indica l’apertura alla relazione esostiene la messa in atto di dinamiche di respon-

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sabilità. La conoscenza dell’io è la conoscenza diun soggetto attraverso l’altro soggetto. Tra l’io e ilmondo si impone la dimensione fondamentaledella responsabilità e della cura. Una dimensionesistemica, dove azioni e retroazioni sono sottoli-neate da una curva oscillatoria, da un andirivienicognitivo che rende tutti i soggetti protagonisti delprocesso etico del pensiero. Il conoscere nonafferra o totalizza il mondo ma si approssima allarealtà, attraverso la conoscenza di un altro.Confronto, distinzione nella relazione, scoperta ecostruzione risultano sempre in forte tensione dia-lettica. Il soggetto conosce ciò che l’altro ha ride-stato nel suo processo di coscienza. Essere con,pensare a parte sono due fenomeni inscindibiliche indicano come l’invenzione scientifica sia sco-perta dell’etica, riformulazione di mondi e di stilidi coappartenenza attraverso il continuo rinvioall’alterità, di fronte alla quale si genera la coscien-za e l’azione. Questo percorso segmentato, in cui Bachelardoscilla tra il 1937 e il 1940, si abbina a un’altraesplorazione delle tematiche della complessità,che emerge da un saggio concepito all’internodegli incontri Internazionali di Ginevra del 1952.L’intervento, sul tema La vocation scientifique etl’âme humaine, si pone di fronte alla questionedella responsabilità etica della scienza. “E’ vera-mente la scienza responsabile dell’accentuazionedel dramma umano?” (G. Bachelard, La vocationscientifique et l’âme humaine, in AA.VV.,L’homme devant la science, RencontresInternationales de Genève, Neuchatel, Editions dela Baconnière, 1952, p. 11). Bachelard individuacome la posizione fenomenologica di M. Scheler,svalorizzando lo spirito scientifico e attribuendoalla scienza la dimensione della volontà di potenza,non riconosca l’intrinseca anima etica della scien-za. “La vocazione scientifica non procede senzacoraggio di fronte a un lavoro per natura difficile,senza la pazienza di tollerare scacchi” (G.Bachelard, La vocation, cit., p. 13): termini checonnotano il percorso dello scienziato, destinato acondurre una vita drammatica, costantemente alleprese non solo con l’errore, ma con il confronto, lalotta, in un percorso problematico e oscuro. Ilcoraggio degli inizi è la dimensione che caratteriz-za il comportamento del ricercatore che, primaancora che sul piano epistemologico, viene con-

notato sul piano etico e dell’agire. Ad animare ilricercatore non è tanto il narcisismo della curiositàimmediata quanto invece l’impegno costantemen-te rinnovato dell’uomo di scienza, che sperimentapercorsi tortuosi, dialettici, nella costruzione enell’articolazione del sapere. Nelle opere episte-mologiche, Bachelard tematizza il ruolo dell’erroree l’importanza della conoscenza approssimata, checostantemente provvede ad epurare le vie delsapere scientifico dal senso comune e dall’immagi-nazione immediata. Nel saggio del 1952, quasi inparallelo alle tematiche della città scientifica dibat-tute nel Razionalismo applicato (1949), affrontacon stile inconsueto le relazioni tra etica, atteggia-menti scientifici e sistema della conoscenza scien-tifica. Proprio la fenomenologia -.secondoBachelard – dovrebbe mettere in chiaro il caratte-re di tensione e di sforzo che anima il ricercatorescientifico, un lavoratore particolare che nonsegue mai un percorso rettilineo, una traiettoriasegnata, ma è aperto a interruzioni, a quel proces-so in cui la cognizione è l’azione di una coscienzache si interrompe e che viene ripresa con difficol-tà. Il pensiero scientifico – ben oltre un cartesia-nesimo che lo stringe nell’unicità del percorsolineare o di una visione strumentale che lo inter-preta come governo dell’empiria – appare dunquecome “uno dei più forti meccanismi di vettorializ-zazione e di dinamismo della psiche umana. E’prospettiva mantenuta, prospettiva ritrovata, rico-minciata, corretta, rettificata” (G. Bachelard, Lavocation, cit., pp. 13-14). Bachelard non esita aparagonare il pensiero scientifico alla natura dram-matica del coraggio e della perserveranza, denun-ciando la riduzione che Scheler, nell’opera del1928, La posizione dell’uomo nel cosmo, compie,interpretando la scienza in continuità con i mecca-nismi degli animali non umani. Al filosofo tedescorimprovera di bloccare la conoscenza nelle stret-toie di un rigido strumentalismo e di non coglierela continua cooperazione di epistemologia edetica, di logos e spirito nel dinamismo complessodella storia delle scienze. La categoria dell’evolu-zione lineare non fornisce il contesto per interpre-tare con esaustività il processo della scienza. Ciòche infatti anima il lavoro della scienza è la dimen-sione storica, l’accelerazione del divenire umanoche è il modello della nostra epoca e in cui loscienziato si trova immerso. “La vocazione scienti-

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fica diventa un esplicito invito al pensiero rapido alpensiero in accelerazione. Mette in movimentoenergie profonde” (G. Bachelard, La vocation, cit.,p. 17). Il procedere storico della scienza è caratte-rizzato non tanto dalla continuità e dalla linearitàquanto dal multiversum, dall’esplodere di tempi espazi in direzioni diverse, dalla rapidità e dall’acce-lerazione, dallo slittamento e dallo spostamentoche rompe con la causalità fissa e con il determini-smo sequenziale: alla visione della scienza cheabita nella storia subentra l’agire della scienzacome motore propulsivo della storia medesima.Scienza e società si coappartengono e la scienzariesce anche a creare una sorta di struttura, in cuila società assume consapevolezza del suo dinami-smo. Una posizione vicina a quella di Morin quan-do - in La Méthode IV - afferma che “cultura esocietà stanno in mutua relazione generatrice, e inquesta relazione non dobbiamo dimenticare leinterazioni tra individui, i quali a loro volta sonoportatori/trasmettitori di cultura; tali interazionirigenerano la società, la quale rigenera la cultura”(E. Morin, Le idee, cit., p. 21). La dinamica tragica,tortuosa che Bachelard attribuisce al conoscereviene registrata da Morin come complessità delconoscere. “Non è soltanto la conoscenza di uncervello dentro un corpo, e di una mente entrouna cultura: è la conoscenza generata in modo bio-antropo-cultrale da un intelletto/cervello in unhinc et nunc. Inoltre, non è soltanto la conoscen-za egocentrica di un soggetto su di un oggetto, è laconoscenza di una soggetto che porta anche in séanche geno-centrismo, etno-centrismo, socio-cen-trismo, cioè ha più centri-soggetti di riferimento”(E. Morin, Le idee, cit., p. 22). Visione ologramma-tica e ricorsiva che Bachelard intravede e cheMorin sintetizza in questi termini: “La cultura ènelle menti individuali, le quali menti individualisono nella cultura” (E. Morin, Le idee, cit., p 23).Tra etica e scienza, il primato della relazione siesprime come reciproca inclusione, al punto che“le interazioni cognitive degli individui rigeneranola cultura, che rigenera tali interazioni cognitive”(E. Morin, Le idee, cit., p. 23). Nell’ottica diBachelard, il lavoro dei ricercatori scientifici pro-duce cultura e dinamiche sociali che condizionanola loro stessa operatività, configurando un proce-dere articolato, che vive di cesure, torsioni cam-biamenti, balzi in avanti, riprese. In questo percor-

so a ramificazioni, imprevedibile e tanto più signi-ficativo quanto non predeterminato, lo spiritoscientifico – che mette al bando l’autoreferenziali-tà a favore di un processo relazionale e sistemico –introduce non solo delle risposte ma anche nuovitipi di problematizzazione. Ne deriva un percorsooriginale, dove l’invenzione dell’invenzione creacondivisione e stratificazione di conoscenze e “lascienza non solamente procede, ma sembracostantemente ricominciare, partire da nuovi inizi”(G. Bachelard, La vocation, cit, p. 19). Il dinami-smo che conduce scienza e società a coapparte-nersi viene definito da Bachelard survitalisation,proprio a rimarcare quella specificità di interazionebio-antropo-socio-cultutrale che elimina il rischiodella tecnica strumentale, dell’isolamento del cogi-to, della scissione tra vitalismo e razionalismo, trapsiche e vita. Dinamica del paradosso, che reggedue estremi identici e diversi, certezza del cono-scere e rischio del processo, pensiero libero e alcontempo fortemente “integrato nella scienza del-l’epoca” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 21). Inmodo analogo, la specializzazione non è frammen-tazione, parcellizzazione, scansione lineare ma sirapporta necessariamente alla totalità di un siste-ma. Lungi da essere mutilazione dello spirito, sipresenta come espressione di una cultura articola-ta. Infatti, “qualsiasi specializzazione mette in motodei pensieri che hanno le loro radici in campi dicultura allargati” (G. Bachelard, La vocation, cit.,p. 22). Ogni studio specialistico non elimina dun-que il sapere aperto ma si contestualizza propriograzie al sapere complesso. In tale orizzonte,occorre rivalutare le categorie di rapidità, accelera-zione, specializzazione, rischio, come parametripeculiari del procedere tortuoso e complesso dellascienza. A gestire la mappa del discorso bachelar-diano appaiono alcune coppie di opposti: evolu-zione/storicità; razionale/alogico; pensiero libe-ro/pensiero appartenente a una comunità definita;specializzazione/cultura aperta e per ultimo cer-tezza/rischio. Se l’attività scientifica comporta ildebordare necessario di tempi, l’invasione di altriluoghi e spazi rispetto al punto di partenza, viven-do nel principio dell’azione differita e della molte-plicità temporale, “i suoi rischi sono molteplici”ma appaiono organizzati: “A ben vedere – sottoli-nea Bachelard – si può considerare un programmadi ricerca come un’organizzazione dei fattori di

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rischio” (G. Bachelard, La vocation, cit., p. 24),compito cui risponde principalmente la vocazionescientifica. La rapidità della scienza non è conside-rata come negatività, poiché non si tratta di ade-guare la società alla scienza ma di mettere in movi-mento - attraverso la scienza - le possibilità di cam-biamento della società stessa. Scienza e società sirichiamano vicendevolmente, sono in relazione direciprocità. Accelerare i pensieri, garantire dinami-smi psichici significa, in altri termini, valorizzare ildestino etico della società, pluralizzare i punti diconfronto, corroborare il senso di corresponsabili-tà, moltiplicare le possibilità dell’umanesimo decli-nato, che si prendere carico delle differenze, delmondo e delle altre specie. L’adesione alla cittàscientifica non avviene nel segno dell’universalecartesiano, che paralizza l’intelletto e ne esclude lastruttura sistemica ma esplode come interumani-smo e interrazionalismo, principi incarnati, logi-che in atto, universalità concrete, attuazione dellareciprocità conoscitiva ed etica. “La scienza conti-nua la scienza nel momento stesso in cui si rinno-va” (G. Bachelard, La vocation, cit., p.28). Un con-testo complesso, quindi, in cui operano le forze ditrasformazione e muta anche il concetto di inse-gnamento scientifico, che non avviene più nellasegretezza delle aule scolastiche ma nelle articola-zioni della società medesima. “Noi dobbiamo ilnostro sapere ai nostri allievi” (G. Bachelard, Lavocation, cit., p. 28). Il maestro è l’allievo dell’al-lievo, in un percorso dove accelerazione e intensi-ficazione della vita si uniscono a percorsi di cono-scenza etica che possono rovesciare il vecchiodetto “la scuola deve preparare alla vita” nel nuovoprogramma di rispetto, reciprocità e ricchezzaconoscitiva, racchiuso in una frase significativa: “lasocietà ha come fine la scuola” (G. Bachelard, Lavocation, cit., p. 29). Il continuo rinvio tra etica escienza che Bachelard rileva nell’opera del 1952rappresenta anche un ulteriore indizio di aperturaalla complessità. Esso ci riporta alla definizione difrontiera scientifica declinata nell’intervento all’ot-tavo Congresso Internazionale di Filosofia, svoltosiPraga dal 2 al 7 settembre 1934. In quel contesto,intervenendo sulla Critique préliminaire du con-cept de frontière épistémologique, Bachelard affer-ma: “La frontiera scientifica non è tanto un limitequanto invece una zona di pensiero particolar-mente attiva, un campo di mediazione e di relazio-

ne. In direzione opposta procede, invece, la nozio-ne metafisica di frontiera, che appare terreno neu-tro, senza possibilità di sviluppo, priva di significa-to” (G. Bachelard, Critique préliminaire du con-cept de frontière épistémologique, in “Actes duhuitème Congrès International de Philosophie”,Prague, 2-7 septembre 1934, Prague, ComitéD’Organisation du Congrès, 1936, p. 5). Tra i vari edifferenti saperi si generano specularità, diffusionedi linee di significato, coevoluzione. Non è difficileritrovare la configurazione che Morin delinea, aproposito delle rotture, delle crepe, delle trasfor-mazioni nel determinismo culturale, laddove intro-duce il modello dei brodi di cultura che “favori-scono contemporaneamente:a) l’autonomia relativa delle menti;b) l’emergenza di conoscenze e idee nuove;c) lo sviluppo di critiche reciproche” (E. Morin, Leidee, cit., p. 31).La frontiera epistemologica segna un arresto delpensiero, che immediatamente procede peròverso un’altra deviazione: “più che di ostacolo inassoluto si dovrebbe parlare in termini di pro-gramma, più che d’impossibilità in termini di vir-tualità” (G. Bachelard, Critique, cit., p. 8). Diventaun valore positivo se si riesce a tradurre l’operati-vità di ogni scienza in una progettualità polisemica,in grado di sostenere rotture, deviazioni, trasfor-mazioni, in altri termini se interviene una sorta dipiano quinquennale, a lungo termine, della ricercascientifica. La natura del conoscere come processocomplesso introduce il modello della negoziazioneintegrativa dei saperi e delle decisioni. Limiti insu-perabili segnalano un percorso conoscitivo maleimpostato e indicano l’urgenza di mettere in prati-ca una pedagogia che educhi al cambiamento, allamescolanza, all’ibridazione dei concetti e alla tra-duzione dei modelli, all’utilizzo di processi diricorsività e di reciprocità speculativa. Il decennio degli anni Trenta, per Bachelard, ècontrassegnato dall’impegno delle categorie cono-scitive e degli strumenti della riflessione scientificain senso non cartesiano. Il registro utilizzato pareabbandonare il dizionario della causalità lineareper ritematizzare problemi e dinamiche all’internodel lessico della causalità formale.

* Le traduzioni dei testi di Gaston Bachelard sonodell’autrice dell’articolo.

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Mario Quaranta

Edgar Morin: abitare eticamente la natura

Focus: epistemologi eretici del ’900

1. Effetti della globalizzazione nelle istituzio-ni formative e nella cultura

È opinione ormai consolidata che l'inizio delnuovo Millennio sia caratterizzato da una rivolu-zione che coinvolge tutti i campi del sapere, dellavita economica, civile, politica. È in atto un proces-so di globalizzazione che ha via via assunto uncarattere irreversibile, e ha aperto una nuova fasenella vita dei popoli, delle nazioni, degli uomini ditutti i continenti; un processo accelerato in manie-ra esponenziale dalla diffusione dei media infor-matici. Molte e contrastanti sono state le interpre-tazioni della globalizzazione, degli effetti negativi opositivi che essa produce o può determinare alungo termine, della possibilità o meno che sipossa regolarne lo sviluppo, e così via. Ma su unpunto concordano gli studiosi: la scienza e la tec-nica sono decisive per lo sviluppo economico e nelconfronto fra le diverse aree geopolitiche.Oggi si parla della tendenza in atto verso una“società della conoscenza”, ossia una società chenon solo promuove la ricerca scientifica per farfronte alle sfide che impone un mondo globalizza-to, ma considera la scienza l'elemento strategicodello sviluppo, il terreno in cui l'Occidente si giocala sua stessa possibilità di mantenere l'egemonianel mondo, specie rispetto alle sfide emergenti diPaesi come la Cina e l'India. La globalizzazione haavuto effetti molto rilevanti anche nella cultura;essa ha trasformato più o meno radicalmente lastruttura di discipline consolidate da una lunga tra-dizione come il diritto, la sociologia, l'economia;inoltre, ha provocato una ridefinizione di profes-

sioni tradizionali e creato nuove professioni. Etutto ciò ha imposto all'attenzione il problema deicambiamenti da introdurre nelle istituzioni forma-tive come l'università. In questi ultimi decenni i Paesi occidentali hannointrapreso delle riforme più o meno radicali deisistemi scolastici tradizionali; in particolare, in tuttii Paesi dell'OCSE tali sistemi non sono più com-pletamente centralizzati, e ciò non è connesso conl'esistenza di Stati federali, perché anche in Staticentralizzati si va affermando un modello di decen-tralizzazione dei poteri decisionali alle scuole. Inaltri termini, la sfida della globalizzazione imponeai sistemi formativi (in particolare all'università)una riforma culturale volta alla comprensione,prima di tutto, delle nuove caratteristiche dell'im-presa scientifica in dimensione planetaria, e deglieffetti che ciò determina nella stessa esperienza diapprendimento. L'apprendimento non si configura più come unasemplice acquisizione di contenuti precostituiti inambiti disciplianri delimitati secondo criteri statici,ma diviene essa stessa azione di interconnessionedisciplinare e creazione di nuovi percorsi cognitivi.Per tale motivo la logica dei sistemi formativi deveadeguarsi alla nuova dimensione “globale” in cuioperano, caratterizzata dal passaggio dalla stabilitàe continuità all'instabilità e al mutamento conti-nuo. Gli investimenti nell'istruzione e nella forma-zione si sono rivelati decisivi sia per lo sviluppodell'economia di un Paese sia per avere un ruoloimportante nella mondializzazione dei mercati. Èciò che hanno compreso tempestivamente queiPaesi oggi emergenti; ad esempio, la Corea del Sud

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è già diventata una potenza economica, ed è all'a-vanguardia mondiale nella produzione di compo-nenti elettroniche.Nel campo dell'epistemologia e della filosofiaabbiamo assistito all'eclissi di modelli razionalisticiche hanno dominato nella cultura europea dalSettecento al Novecento: dal meccanicismo alpositivismo, al neopositivismo fino ai post-positivi-sti, orientamenti diversi ma unificati da una stessaidea di fondo: che la razionalità scientifica sia ingrado di fornire una conoscenza esauriente delmondo naturale e di quello umano, e conseguen-temenete di progettare comportamenti individualie collettivi razionali. In questa prospettiva la storiadella scienza avrebbe dovuto rendere conto delleragioni che presiedono allo sviluppo della scienza,alle rivoluzioni scientifiche e così via. Questi orien-tamenti sono stati abbandonati sia dalla critica epi-stemologica interna alla scienza espressa nel corsodi quest'ultimo trentennio, in cui un ruolo criticodecisivo ha svolto la teoria della complessità, sia dauna nuova dislocazione dell'impresa scientificanell'ambito della società. In altri termini, si può dire che sia le filosofie scien-tifiche sia la filosofia della scienza (o le epistemo-logie) hanno concluso il loro ciclo storico. Il neo-positivismo ha delineato una filosofia scientificache ha esercitato un ruolo essenziale nella culturaeuropea nel corso degli anni Trenta-Quaranta (eoltre, in Italia). Esso ebbe come obiettivo fonda-mentale l'analisi critica della conoscenza dellanatura, al cui interno procedette a demarcare leconoscenze che rispondono a problemi autentica-mente scientifici e altre che rispondono a proble-mi per principio metafisici, ossia illusori. Secondotale orientamento, il filosofo ha due compiti: for-mulare con rigore i problemi della scienza e dimo-strare l'insignificanza di quelli metafisici, e a talescopo dispone di due strumenti: l'analisi del lin-guaggio e la verifica delle proposizioni (principiodi verificazione).Questa corrente si collega non solo al positivismoma anche a Kant; precisamente alla dialettica dellaragione, nella quale Kant mette in rilievo che laragione formula problemi di cui non conosciamo(non possiamo conoscere) la risposta. Questoindirizzo, proprio perchè ha attribuito un valoreconoscitivo alle sole proposizioni scientifiche, èstato considerato una “filosofia scientifica”. (Il suo

documento programmatico del 1929 ha per titolo:La concezione scientifica del mondo). Ora, que-sta immagine della scienza ritenuta capace di tra-sformarsi in sistema formalizzato chiuso, in gradodi raggiungere un livello perfetto, ossia un assettodefinitivo, è stata sottoposta a critiche radicali nelcorso del Novecento, critiche che hanno posto inevidenza i limiti di un tale razionalismo dogmatico,della sua pretesa di determinare quali caratterideve avere una teoria per poter essere qualificatacome scientifica.Critiche analoghe sono state estese anche alla filo-sofia della scienza sorta dopo e in contrasto con ilneopositivismo, il cui obiettivo fu di riflettere sullescienze nella loro concrete e storiche manifesta-zioni, riconoscendo che esse hanno un loro lin-guaggio proprio e metodi diversi. In altri termini,l'oggetto della filosofia della scienza è il “fenome-no scienza” studiato nel suo sviluppo e nel suointerno intreccio fra disciplina e disciplina. Nellacultura italiana questa posizione è stata espressada un gruppo di filosofi, fra cui ricordiamo:Ludovico Geymonat, Antonio Banfi, LucioLombardo-Radice, Francesco Barone.

2. I filosofi della complessità critici della“ragion classica”

Un ruolo decisivo nella critica delle epistemologiedell'Otto e Novecento ha svolto in Italia il dibattitosul post-moderno, che ha caratterizzato in largamisura la cultura filosofica italiana durante ildecennio 1980-1990, con le due varianti in cui si èespresso, il “pensiero debole” e il “pensiero dellacomplessità”; esso ha avuto una notevole continui-tà di interventi e di contributi teorici, e ha portatofino alle estreme conseguenze la critica della“ragion classica”, ossia, nel campo epistemologico,del razionalismo approdato conclusivamente alneopositivismo e sue varianti.L'opera a più voci, La sfida della complessità(Milano 1985), costituisce la prima, organica siste-mazione di questo nuovo orientamento. Esso puòessere considerato il punto d'approdo di un ven-tennio (dagli anni Sessanta ai Settanta, e oltre) diricerche e di discussioni su alcuni nodi teorici (filo-sofici ed epistemologici) fondamentali: dai dibatti-ti sulla dialettica, a quello sui modelli di razionalità,

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dalle discussioni sul programma scientifico di Marxai rapporti tra scienza e potere (per citare i piùnoti). La teoria della complessità si configura, dun-que, come il punto di confluenza e risistemazionedi una molteplicità di motivi teorici, che vannodalla critica alla tradizione filosofica razionalisticaeuropea fino alla revisione di consolidati paradig-mi storiografici di stampo idealistico. Il riferimentocostante dei teorici italiani della complessità èstato il lavoro filosofico ed epistemologico diEdgar Morin; un filosofo che è stato, per così dire,“adottato” dalla filosofia italiana, secondo unmodulo non nuovo nella cultura italiana. Basteràricordare nel primo Novecento la presenza diGeorges Sorel, il cui pensiero ha alimentato ildibattito teorico all'interno del socialismo ed èstato accolto da un orientamento politico impor-tante come il sindacalismo rivoluzionario.La teoria della complessità ha avuto un notevoleimpatto sulla cultura italiana ed è apparsa, in largamisura, come la ratifica di una situazione ormaimatura, che ha segnato il passaggio da una fase dicritica della modernità caratterizzata dal rifiutoradicale d’ogni “ragion metafisica”, della sua prete-sa di conoscere-dominare il mondo, a una fasepropositiva, in cui ha fornito risposte nuove ai pro-blemi tradizionali e ha individuato nuovi problemi. L'idea di semplicità, ha sostenuto Mauro Ceruti inIl vincolo e la possibilità (1985) è stato l'obiettivoperseguito dalla scienza e dall'epistemologiamoderna da Cartesio ai neopositivisti. Tale modelloepistemologico è fondato su un'idea di legge scien-tifica come luogo in cui si svela l'ordine nascosto(una posizione che già Anassagora espresse nell'af-fermazione: “Ciò che si manifesta è la visione di ciòche è nascosto”), e di un metodo capace di demar-care ciò che rientra e ciò che fuoriesce dalla razio-nalità scientifica. Il compito dell'epistemologia èstato quello di individuare il codice nascosto (lalegge, appunto) per prevedere il futuro. Così, a una concezione causalistica dei fenomeni,Ceruti ne contrappone una “vincolistica”, secondo cui«la storia naturale si delinea come una storia di pro-duzione reciproca di vincoli e di possibilità attraversola coevoluzione di sistemi viventi (autonomi) e deiloro ambienti, e dei differenti sistemi viventi (autono-mi) all'interno di particolari ecologie». I vincoli sonoregole di un gioco che ci dicono ciò che può succe-dere, non ciò che necessariamente accadrà.

La complessità, dunque, risponde all'urgenza diuna riflessione volta non solo alla ricerca di nuoverisposte alle vecchie domande, ma soprattutto a for-mulare nuovi tipi di domande, ossia nuovi modi diinterrogare la natura. In questa direzione, la scienzaè sì formata, come dice Galileo, di “sensate espe-rienze” e “certe dimostrazioni”, ma le une e le altrenon sono leggibili solo in termini deterministici,tanto che ora ciò che era considerato residuale,casuale, aleatorio, si è imposto come centrale neldiscorso scientifico. La complessità, afferma Ceruti,è soprattutto una sfida, nel senso che provoca«un'irruzione dell'incertezza irriducibile nelle nostreconoscenze». È un’avventura della conoscenza, e «inquesto senso il delinearsi di un universo incertonon è tanto il sintomo di una scienza in crisi, masoprattutto l'indicazione di un approfondimentodel nostro dialogo con l'universo».In altri termini, «le nuove strategie costruttive dellaconoscenza contemporanea, dichiara Ceruti,hanno messo in crisi l'idea che l'universo catego-riale della scienza sia unitario, omogeneo al suointerno, fissato una volta per tutte». In tal modo leantinomie, i paradossi, le presunte insolubilità dicerti problemi come i famosi sette “ignorabimus”di Du Bois-Reymond non sono, secondo questaprospettiva, l'espressione di un limite ultimo delleconoscenze umane, di uno scacco della ragione,dovuto al fatto che non possiamo dare un fonda-mento ultimo alla conoscenza scientifica, ma«appaiono piuttosto collocabili nelle matricicostruttive e nei meccanismi costitutivi stessi delleconoscenze». Secondo questa prospettiva, il problema episte-mologico fondamentale non è più quello di trova-re un momento di sintesi dei diversi punti di vista,ma «piuttosto quello di comprendere come puntidi vista differenti si producano reciprocamente».Così, all'eclissi dell'immagine classica di una razio-nalità capace, attraverso sintesi sempre più ampie,di esaurire la comprensione del mondo, e di forni-re regole di condotta certe perché commisurate aobiettivi predeterminati e razionalmente fondati, sicontrappone l'immagine di una ragione “plurale”.In altri termini, la decostruzione dell'immagine dirazionalità monolitica (che si è estesa poi alle altrecategorie connesse, come quella di progresso e ditempo lineare) ha esaltato le differenze; differenzeche non sono mediabili o unificabili da una logica

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dialettica, come quella hegeliana (e sue varianti),ma sono irriducibilmente costitutive dei vari campidella conoscenza. Il problema fondamentale non è,oggi, quello di rendere omologhe tali differenze, madi accettarle e metterle in feconda interazione tra loro.L'epistemologia tradizionale, nelle sue diversevarianti, non ha più una presenza e incidenza nellacultura come negli anni precedenti; assistiamopiuttosto a una sua “accademizzazione”, a un inte-resse più marcato verso la storia dell'epistemolo-gia, e soprattutto all'emergere di filosofie legatealle singole scienze: la filosofia della fisica, dellabiologia, della matematica, e così via. Non solo: siè allentato anche l'interesse per i modelli di storiadella scienza, per il problema delle condizioni chedeterminano una rivoluzione e le caratteristichedella scienza “normale”; problemi che hanno ali-mentato il dibattito provocato dai post-positivisti.

3. Esigenza di una filosofia della natura

Attualmente, dopo i dibattiti provocati nel campodell'epistemologia dai post-positivisti, abbiano assi-stito se non a un'eclissi dell'epistemologia, a unvenir meno di quella centralità che si era conqui-stata nella cultura europea e italiana. Le epistemo-logie tradizionali hanno dato via via risposte diver-se e diversamente motivate sui caratteri specificidella razionalità scientifica, sulle ragioni del suoprogresso, sui motivi di diversità o superiorità delleforme di conoscenza, sulle condizioni delle rivolu-zioni scientifiche. Ma i diversi modelli di razionalitàscientifica per rendere ragione dello sviluppo dellascienza sono risultati insufficienti o inadeguatirispetto ai caratteri assunti dalla scienza odierna. Oggi la scienza è caratterizzata da uno svilupporivoluzionario permanente, non descrivibile inmodi e tempi preordinati. Già Gaston Bachelardsottolineò, nell'opera Il materialismo razionale(1953), che nel corso dei primi trent'anni delNovecento c'erano stati così grandi scoperte scien-tifiche ed epistemologiche - Planck, Einstein,Heisenberg, Bohr, De Broglie -, per cui si potevaaffermare che «dieci anni del nostro tempo valgonodieci secoli delle epoche anteriori». Nella secondametà del secolo scorso abbiamo assistito a una ulte-riore accelerazione dello sviluppo scientifico. Nonsolo: scoperte e innovazioni in un campo si riverbe-

rano in altri, contribuendo a modificare più o menoradicalmente i singoli saperi.Stiamo attraversando un momento in cui la scien-za ha assunto un ruolo così decisivo nell'organiz-zazione economica e nella vita politica e civile ditutti i Paesi, da sollevare problemi del tutto nuovirispetto ad alcuni decenni or sono. L'aspetto deltutto nuovo è oggi rappresentato dai rapporti chesi stanno istaurando fra l'impresa scientifica nelsuo complesso e la società. Per la prima volta l'u-manità si trova a dover affrontare il problema dellacompatibilità dello sviluppo scientifico con lerisorse esistenti sulla Terra; problema che imponesoluzioni di enormi problemi economici, politici eculturali. In varie opere Morin ha affrontato questoproblema, che via via è diventato uno dei centridella sua riflessione filosofica ed epistemologica.In Terra-Patria (1993) ha compiuto un'analisiimpietosa dell'“era planetaria”, della sua agonia,delle nostre finalità terrestri, nella persuasione che«oggi il problema è sapere se le forze di regresso edi distruzione avranno la meglio su quelle di pro-gresso e di creazione, e se non abbiamo superatouna soglia critica nel processo di accelerazio-ne/amplificazione, che ormai potrebbe condurcialla singolarità esplosiva». E più oltre: «La crisi pla-netaria è il nucleo dei processi incontrollati, i qualisono a loro volta il nucleo della crisi planetaria.L'ascesa delle minacce globali mortali è uno deicaratteri della crisi planetaria». Morin non è un catastrofista, la via di uscita chepropone è un lavoro (politico, culturale, filosofico,ecc.) di lunga durata, cui debbono essere chiamatitutti gli uomini per passare a una nuova rinascita,«possibile ma non ancora probabile», ossia «lanascita dell'umanità, che ci farebbe uscire dallapreistoria dello spirito umano, che civilizzerebbe laTerra e che vedrebbe la nascita della società/comu-nità planetaria degli individui, delle etnie, dellenazioni». In altri temini, occorre proseguire nelprocesso di ominizzazione e civilizzazione dellaTerra. D’altra parte, tale sviluppo non è inscrittonella storia dell'uomo, perchè «il progresso stessoè toccato da un principio di incertezza»; è una scel-ta che può essere ragionevolmente compiuta sedisponiamo «di principi di speranza nella dispera-zione»; la condizione in cui ora ci troviamo. Ed è aquesto punto che Morin indica i principi di un pos-sibile «vangelo della disperazione» che ci consenti-

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rebbe di «concepire una nuova tappa della ominiz-zazione, che sarebbe, allo stesso tempo, una nuovatappa della cultura e della civiltà».Ma di fronte alle catastrofiche previsioni cui vaincontro la Terra se continua l'attuale modello diprogresso delle società, della scienza e della tecni-ca, è sufficiente richiamarsi alla necessità di unamodificazione antropologica dell'uomo, alla for-mazione di una “coscienza planetaria” capace diorientare l'uomo verso fini diversi da quelli che hafinora accettato e che sono stati socialmente stabi-lizzati da una lunga pratica sociale e culturale?A mio parere, i filosofi e gli epsitemologi dovrebbe-ro concorrere ad elaborare una filosofia della natu-ra in grado di far comprendere il significato dell'im-presa scientifica, i problemi completamente nuovicui l'umanità si trova di fronte. Viviamo in ummondo in cui le previsioni scientifiche sono perlo-più ignorate o non credute da larga parte degliuomini. Il messaggio ritenuto “catastrofista” che lascienza ci fornisce su un possibile esito di distruzio-ne della vita sulla Terra, e che ha indubbie, solideragioni scientifiche e fattuali, sembra non determina-re, per regioni già individuate dagli studiosi, unamodificazione nei comportamenti dei governi, e amaggior ragione dei popoli. Ed è indubbio che siamodi fronte al problema cruciale dei prossimi decenni.D'altra parte è anche vero che riconoscere un'at-tualità alla filosofia della natura può costituire unmotivo di sorpresa e sollevare un atteggiamentoscettico; si tratta, infatti, di un sapere che è assen-te da molti decenni nelle discussioni filosofiche.Nelle varie immagini della scienza veicolate nelcorso del Novecento non c'è stato un grande spa-zio per la filosofia della natura; solo in questi ulti-mi anni sono stati pubblicati alcuni libri sull'argo-mento perlopiù di carattere storico. (Fra i piùrecenti lavori, ricordiamo quello di Pierre Hadot, Ilvelo di Iside. Storia dell'idea di natura (Torino2006) e quello di Mario Alcaro, Filosofie dellanatura. Naturalismo mediterraneo e pensieromoderno, Roma 2006).Il razionalismo novecentesco ci ha fornito un'im-magine della scienza in cui la filosofia ha avuto ouna funzione ancillare, o metodologica, o di sinte-si dei risultati delle scienze. «La metodologia con-temporanea», afferma Nicola Abbagnano nella“voce” “Filosofia della natura” nel suo Dizionariodi filosofia, «ha sempre più sottolineato l'illegitti-

mità di astrarre le proposizioni della scienza dai lorocontesti e di trovare in esse significati che vadano aldi là di quanto i concetti stessi autorizzano. Da que-sta limitazione metodologica, il compito di una filo-sofia della Natura viene tagliato alla base». Dunque, secondo la prospettiva fino ad oggi domi-nante, la filosofia della natura non ha avuto unapresenza significativa; essa è stata spesso “sostitui-ta”, per così dire, dal problema del rapporto trareligione e scienza; un argomento, questo, presen-te in tutti gli orientamenti novecenteschi (Peirce,inizia il saggio L'ordine della natura del 1878, conquesta affermazione: «Qualsiasi proposizione checoncerna l'ordine della natura deve più o menosfiorare la religione»). D'altra parte, rari e senza una grande eco sono statii tentativi compiuti da alcuni filosofi nel corso delsecolo scorso, di delineare una filosofia della natura.Un posto particolare va riservato a GastonBachelard il quale, accanto alla elaborazione di unaepistemologia, ha pubblicato opere sull'acqua, laterra, l'aria, il fuoco, di cui fornisce un'interpretazio-ne transdisciplianare, rivalutando così una possibilefilosofia della natura, sia pure molto diversa da quel-la tradizionale. Inoltre, ricordiamo l'opera di NicolaiHartmann, La filosofia della natura (1950), in cuil'autore attraverso un'analisi di concetti scientificicome quelli di tempo, forza, massa, estensione,ecc., cerca di scoprire il valore ontologico dellarazionalità scientifica. Più recentemenete, l'episte-mologo Evandro Agazzi nell'opera Filosofia dellanatura. Scienza e cosmologia (1995) ha sostenutoche gli stessi risultati considerati non definitivi cui ègiunta la scienza attuale, hanno posto in evidenza laleggitimità teorica della filosofia della natura, di cuitraccia le caratteristiche fondamentali.Sul piano storico, possiamo dire che la filosofiamoderna ha espresso sostanzialmente due model-li di filosofie della natura; il primo, caratterizzatoda un “imperialismo della scienza”; il secondo daun “imperialismo della filosofia”. Il primo esalta larazionalità scientifica come l'unica, autentica cono-scenza del mondo; il secondo assegna un postoprivilegiato alla filosofia e uno subordinato allascienza. Il primo è stato espresso dal meccanici-smo, che ha esteso a tutta la natura il modello diconoscenza delle scienze fisiche (la meccanica); ilsecondo è rappresentato in modo eminente dallaNaturphilosophie romantica (Goethe e più ancora

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Schelling), ma soprattutto da Hegel, la cuiEnciclopedia delle scienze filosofiche (1816) costi-tuisce l'opera più organica in questa direzione.Una ripresa del discorso sulla filosofia della naturapuò iniziare, come hanno fatto i due studiosi cita-ti, da una riflessione critica sui diversi modelli chela storia del pensiero filosofico e scientifico ha viavia elaborato. In questo caso accenniamo alla posi-zione espressa da Moritz Schlick, il maggiore rap-presentante del Circolo di Vienna, un movimentoin cui è forte l'interesse per la filosofia della natu-ra, come ha documentato Ludovico Geymonat nel-l'opera del 1934 La nuova filosofia della naturain Germania. Schlick nell'opera Lineamenti difilosofia della natura pubblicata postuma nel1948, ma con materiali dei suoi corsi universitaridei primi anni Trenta, ha sostenuto la tesi che «lafilosofia della natura non è scienza essa stessa, maun'attività diretta alla considerazione del significa-to delle leggi di Natura». Il compito della filosofia della natura, afferma l'epi-stemologo viennese, è duplice: «1) produre una sin-tesi delle conoscenze acquisite, per assicurare unavisione unitaria della natura; 2) fornire una giustifi-cazione gnoseologica dei fondamenti della scienzanaturale». Egli precisa che il compito fondamentaledelle scienze naturali è quello di conoscere tutti iprocessi naturali, compresi i principi generali, percui «non esiste nessun altro tipo di giustificazioneprecipuamente filosofica dei fondamenti». Maanche accettando ciò, è possibile sostenere unapossibile complementarità fra i due campi del sape-re. Infatti, dichiara Schlick, «si possono distingueredue tipi d'interessi intellettuali, l'uno volto al con-trollo della verità delle ipotesi, l'altro orientatoverso la comprensione del loro senso». A nostro parere, oggi è urgente mettere in eviden-za proprio il senso della filosofia della natura, entrocui si colloca l'attività dell'uomo come parte inte-grante della natura. In altri termini, va stabilita unafeconda alleanza tra scienza, filosofia e filosofiadella natura. Ludovico Geymonat, che dopo la lau-rea in filosofia e in matematica, è andato a Viennaper seguire le lezioni di Schlick, nell'opera Scienzae realismo (1977) ha affrontato questo problemasostenendo due tesi: la prima, che l'uomo fa parteintegrante della natura; «ovviamente è un fattore ilquale possiede una propria specificità entro il pro-cesso anzidetto, sicchè l'intervento umano per

modificare la natura è a pieno titolo un intervento“dall'interno” e non “dall'esterno”». La seconda,che «il compito di elaborare una concezione del-l'universo nuova, da sostituirsi a quelle ormaiincompatibili con il nostro patrimonio scientifico-tecnico, spetterà a un altro tipo di studioso, chepotremmo qualificare come scienziato-filosofo.L'importante è, comunque, che tale nuova conce-zione risulti aperta, flessibile, capace di fare inin-terrottamente tesoro di tutte le rettifiche che lascienza le suggerisce».Ma chi ha posto in termini nuovi il problema diuna filosofia della natura, stabilendo una rotturacon le precedenti, è stato il filosofo Hans Jonas; lasua posizione può essere considerata essenzialenella ricostruzione delle riflessioni di Morin sullanatura. Jonas nell'opera Il principio responsabili-tà afferma che lo sviluppo della scienza e della tec-nica ha raggiunto un tale livello, attraverso lo sfrut-tamento (ossia la distruzione) della natura, da met-tere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umani-tà. Il progetto, o “sogno” di Francis Bacone, dicreare un “regnum hominis” attraverso l’utilizzodella scienza e il dominio sulla natura, si è effetti-vamente realizzato, ma invece di un “regno” amisura d’uomo, abbiamo creato una situazioned’emergenza. La distruzione della natura è giuntaal punto che sembra precedere una “situazioneapocalittica”, la distruzione della natura, ossia lestesse condizioni d’esistenza sulla Terra.Altre volte ci siamo trovati di fronte a gravissimeminacce, come la possibilità di una guerra atomicache se usata avrebbe distrutto la Terra; ma il peri-colo della bomba atomica, dichiara Jonas, puòessere eliminato attraverso accordi (di fatto è ciòche sta avvenendo). Diverso è l’odierno pericoloperché è incardinato nello sviluppo tecnologicoche sembra irreversibile. Se ciò è vero, le etiche tradizionali, centrate sull’uo-mo, sui suoi comportamenti individuali o collettivi,risultano del tutto inadeguate alla situazione odier-na: lo sviluppo straordinario della scienza ha datoun rilievo prioritario, afferma Jonas, all’«agire collet-tivo, nel quale l’autore, l’azione e l’effetto non sonopiù gli stessi; ed essa [scienza], a causa dell’enormi-tà delle sue forze, impone all’etica una nuovadimensione della responsabilità, mai immaginataprima». In conclusione, ora occorre passare da un’e-tica antropocentrica, fondata sull’uomo, a un’etica

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planetaria, il cui imperativo è espresso da Jonas inquesti termini: “Agisci in modo che le conseguenzedella tua azione siano compatibili con la permanen-za di un’autentica vita sulla Terra”.

4. Edgar Morin fra epistemologia e filosofiadella natura

Le “due tensioni” nel pensiero di MorinCi soffermiamo, ora, su alcuni aspetti dell'opera diMorin La Méthode 1. La nature de la nature(1977) in cui l'epistemologo francese ha portatoalle ultime conseguenze la sua critica dell'immagi-ne della scienza della modernità, tracciando poi,accanto a un'epistemologia della complessità, ilineamenti di una possibile filosofia della naturaintegrata da una nuova etica espressa nell’ultimasua opera, Etica. Egli ha criticato le idee-guida fon-damentali su cui si è retta finora la razionalitàscientifica (il dubbio, il rapporto soggetto-oggetto,l'unità del sapere, ecc.); però, non ha parlato espli-citamente di una filosofia della natura; su tale argo-mento egli sembra a volte oscillare tra un'analisirigorosa della struttura (logica e fattuale) dellescienze, nella persuasione che possano dare uncontributo decisivo alla soluzione dei problemidello sviluppo in un mondo globalizzato, e l'ideache per risolvere i problemi posti dalle emergenzeplanetarie, occorra soprattutto affidarci a una spe-cie di rivoluzione antropologica dell'uomo, sem-pre più consapevole della situazione di emergenzain cui vive. Secondo Morin, ciò che ora occorre èun nuovo tipo di rivoluzione: «Essa è necessarialogicamente per salvare la vita, ma non è necessa-ria storicamente, e sembra anzi poco probabile.Non porterebbe a compimento l'evoluzioneumana, ma darebbe il via a una nuova evoluzione.Trasformerebbe i principi di cambiamento. Questaidea di rivoluzione porta con sé l'idea di comunitàradicale, perché dobbiamo far sì che continui lavita, e in particolar modo la vita umana».Morin nelle sue opere filosofiche smonta, per cosìdire, l'apparato categoriale su cui è fondata l'im-magine della razionalità scientifica dell'Otto eNovecento e ne traccia una nuova, i cui nodi cen-trali sono stati sommariamente delineati nell'intro-duzione generale della prima opera de La Méthode1. La nature de la nature, dal titolo Lo spirito

della valle. In questo testo programmatico sonopiù esplicite le “due tensioni” presenti nel suo pen-siero: l'esigenza di formulare un'epistemologianuova che vada oltre le aporie di quelle tradizionali,e la necessità di tracciare una concezione della natu-ra non attraverso il primato della razionalità scienti-fica o della filosofia, ma attraverso un'alleanza trafilosofia e scienza diversa da quella prospettata dalpositivismo, dal neopositivismo e dal pragmatismo(per citare alcuni degli orientamenti principali otto-novecenteschi). Nel primo volume de La Méthode,Morin enuncia le idee direttrici della sua impresaculturale, su alcune delle quali ci soffermiamo bre-vemente. Esse sono: il problema del metodo; il rap-porto soggetto-oggetto; il rapporto tra le cosidette“scienze dello spirito” e le “scienze della natura”, ilproblema dell'enciclopedia del sapere.

Il problema del metodoMorin chiarisce subito il significato che intendeattribuire al problema del metodo, e il riferimento ènecessariamente a Cartesio, l'iniziatore della moder-nità la cui presenza si riscontra anche nei filosofimoderni e contemporanei. E proprio per questapresenza “ingombrante” l'anticartesianesimo ha unalarga udienza nella cultura francese moderna e con-temporanea. Basterà ricordare, fra gli epistemologifrancesi, Gaston Bachelard, mentre nell'area anglo-sassone il riferimento più ovvio è Charles Peirce.Secondo Morin c'è un'aporia nel dubbio cartesiano,essa risiede nel fatto che esso «era certo di se stes-so», mentre il dubbio per essere tale non può esse-re né assoluto né «purificato in misura assoluta».Occorre pertanto «mettere in dubbio metodica-mente il principio stesso del metodo cartesiano»; laconseguenza cui la disamina di Morin perviene èche «non il chiaro e il distinto, ma l'oscuro e l'incer-to» sono alla radice della conoscenza.

Egli ha chiarito ulteriormente il significato deldubbio, il ruolo che svolge nella ricerca epistemo-logica e filosofica. «Nel cuore stesso della ragione,afferma, ritroviamo non la semplice certezza o ilsemplica dubbio, ma il dialogo/circuito credenza---dubbio. La ragione è fede nella conoscenza, ma èdubbio rispetto alle pretese assolute della cono-scenza. La ragione non può sfuggire al circuito cre-denza-----dubbio, ma introduce in questo circuitole esigenze di chiarificazione e di spiegazione. Ioho fede nella ragione proprio perché porta in sé,

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in maniera intercomunicante, sia la fede nellaconoscenza che il dubbio della conosceza».La critica del dubbio cartesiano ha un ruolo strate-gico nell'elaborazione della teoria della complessi-tà di Morin; va peraltro sottolineato che anche inCartesio il dubbio costituisce uno dei leitmotiv delsuo pensiero. Esso assolve una funzione essenzia-le nell'opera Meditationes de prima philosophia(1641), uno dei capolavori della filosofia moderna.Prima di pubblicarla Cartesio la fece pervenire adalcuni fra i principali filosofi e teologi del tempo,sollecitando le loro critiche e obiezioni; obiezioniche furono pubblicate con le risposte di Cartesio.Con queste risposte Cartesio si cimenta con i varie motivati dubbi e obiezioni dei suoi interlocutori,cui egli risponde con una straordinaria capacitàargomentativa e un approfondimento ulteriore delsignificato logico e ontologico del dubbio.Morin va oltre l'indicazione metodologica diBachelard, il quale ha rivalutato il “non rigoroso”per renderlo compatibile o comunque coesistentecon la razionalità umana. Secondo Morin non è suf-ficiente far rientrare nel processo della conoscenzail non rigoroso; occorre riconoscere che l'incerto, ilconfuso, il non rigoroso, appunto, ci consentono diesplorare nuovi territori. Esso è parte integrantedella razionalità; anzi, esso è stato, in certo qualmodo, il motore d'avvio di rivoluzioni scientifiche.Infatti, storicamente gli sviluppi più innovativi dellascienza sono avvenuti proprio sulla base del “nonrigoroso”: il disordine termodinamico, l'incertezzamicrofisica, il carattere aleatorio delle mutazionigenetiche sono all'origine dei più rivoluzionari svi-luppi della scienza contemporanea.Anche Charles S. Peirce, fondatore del pragmati-smo, sottolinea che all'inizio del processo conosciti-vo c'è un dubbio che consente di raggiungere nonuna verità assoluta ma una “credenza”, dalla quale siparte per giungere a un’altra credenza. Nel suo sag-gio programmatico, Come rendere chiare le nostreidee (1878) egli definisce in questi termini la cre-denza: «Che cosa, dunque, è la credenza? Abbiamovisto che ha tre proprietà: 1) è qualcosa di cui ci ren-diamo conto; 2) acquieta l'irritazione del dubbio; 3)implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regolad'azione, o, per dirla in breve, di un abito. […] Madal momento che la credenza è una regola d'azione,l'applicazione della quale implica ulteriori dubbi epensieri, nello stesso tempo in cui essa è un punto

d'arrivo, è anche un punto di partenza per il pen-siero». In altri termini, le domande che sono allabase della nostra attività intellettuale sono e riman-gono aperte perché la caratteristica della credenza èuna costitutiva incertezza.La posizione di Morin è radicale; «oggi, afferma, sipuò partire soltanto nell'incertezza del dubbio». Maallora, di fronte all'opzione cartesiana fra assoluto oscetticismo, quale è la nostra risposta? Morin respin-ge il dilemma; egli è fuoriuscito dall'anti-metodo edè giunto a un nuovo metodo attraverso la scopertadel principio della complessità, per cui «il problemaè ormai di trasformare la scoperta della complessitàin metodo della complessità». Ossia: «apprenderead apprendere, questo è il metodo».

Il rapporto soggetto-oggettoLa soluzione del problema del metodo richiede unadislocazione nuova del rapporto tra soggetto eoggetto, base della conoscenza. Secondo Morin c'èstata storicamente una specie di divisione di sferedi competenza tra la scienza e la filosofia: «La scien-za si impossessa dell'oggetto, e la filosofia del sog-getto»; le differenze fra gli orientamenti filosoficirisiedono, pertanto, nella diversa soluzione chehanno dato a tale problema. La connessione tramente e oggetto è stata ricondotta o all'oggetto fisi-co dall'empirismo e sue varianti, o alla mente del-l'individuo dall'idealismo e sue varianti, o alla realtàsociale dal sociologismo. Tre soluzioni diverse maunificate dall'attribuzione del primato a uno o all'al-tro dei termini (oggetto o soggetto). Contro la «dit-tatura della semplificazione riduttrice», Morin pro-pone di «abbattere la dittatura della semplificazionedisgiuntiva e riduttrice», e considerare il soggetto el'oggetto due aspetti di una realtà unitaria.Egli critica radicalmente l'idea-base del razionali-smo basato sull'epistemologia della fisica dell'Ottoe Novecento, secondo cui l'obiettivo della cono-scenza scientifica è di fornire un'immagine esattadella realtà, secondo quello che possiamo chiama-re il “modello cartesiano”, fondato sulla netta sepa-razione fra res extensa e res cogitans. Esso è allabase anche del materialismo nelle sue diversevarianti: c'è una realtà oggettiva e di fronte un sog-getto; la conoscenza consiste nel fornire un'imma-gine via via più esatta di tale realtà oggettiva. E la“fotografia” che riusciamo a realizzare è tantomigliore quanto più prescinde dall'osservatore da

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cui è stata scattata. Al contrario, una delle idee-guida del pensiero di Morin è che l'osservatore el'osservato (soggetto e oggetto) non esistono unoindipendentemente dall'altro. Da qui sorge unanuova teoria della conoscenza ove l’oggetto è l'in-sieme delle relazioni tra un osservatore e un osser-vato, secondo una concezione dinamica in cui«tutto è solidale».

Rapporti tra “scienze dello spirito” e “scienzedella natura”.Una delle idee centrali del testo programmatico diMorin Lo spirito della valle, è che «la scienzaantropo-sociale ha bisogno di articolarsi sullascienza della natura, e che quest'ultima articolazio-ne richiede una riorganizzazione nella struttura delsapere». Egli affronta, dunque, l'arduo problemache attraversa tutto il Novecento, il rapporto fra lecosiddette “scienze dello spirito” e le “scienzedella natura”. A titolo esemplificativo, per sottoli-neare l'importanza che ha avuto nella cultura euro-pea tale problema, accenniamo alle posizioniespresse da due filosofi, Wilhelm Dilthey eWilhelm Windelband, i quali vi hanno dedicatoimportanti opere che hanno avuto una notevoleinfluenza nella cultura europea del Novecento, e acui si richiama spesso lo stesso Morin. Dilthey formula una distinzione fondamentale trale scienze naturali e le scienze dello spirito; leprime hanno per oggetto il mondo naturale, leseconde il mondo storico formato da individui; unposto privilegiato assume, dunque, la storia.Accanto alla storia ci sono le scienze della società,che studiano i “sistemi di cultura”, ossia la religio-ne, il diritto, la scienza, e le “forme di organizza-zione esterna della società”, ossia la famiglia, lostato, la chiesa; forme che assolvono l’importantecompito di assicurare la continuità del patrimonioculturale dell’umanità.Le scienze dello spirito hanno un carattere indivi-dualizzante; il loro oggetto è interno all’uomo nelsenso che colgono l’uomo attraverso la sua “espe-rienza vissuta”, mentre le scienze della naturaenunciano le leggi dei fenomeni naturali. Fra i duetipi di scienze c’è sì un rapporto di autonomia mapermane un collegamento, perché l’uomo mantie-ne rapporti indisgiungibili con la natura. I duemodelli di scienza adoperano metodi diversi; lescienze della natura hanno a che fare con ipotesi

collegate in una teoria e spiegano i fenomeni intermini causali, mentre le scienze dello spiritohanno a che fare con fenomeni complessi, e perciònon possono usare categorie troppo astratte eschematiche come quelle scientifiche. Le scienzedello spirito usano categorie che non spiegano macomprendono l’“esperienza vissuta” degli uomini. Wilhelm Windelband non accetta la distinzione trascienze della natura e scienze dello spirito diDilthey, distinzione che riproporrebbe quella tra-dizionale, di stampo metafisico, tra natura e spiri-to. Egli ne formula un’altra, tra scienze nomoteti-che e scienze idiografiche; una distinzione di carat-tere metodologico, che concerne non una diffe-renza fra due tipi di conoscenze come in Dilthey,ma una diversità di fini.Le scienze monotetiche si occupano dei fenomeninaturali e hanno per fine la ricerca e la determina-zione di leggi generali, quelle idiografiche colgonogli eventi particolari, ossia tendono a giustificare ilcarattere di unicità di ogni singolo evento, rilevan-done l'autonomia dai vincoli naturali; esse si occu-pano in modo particolare dei fenomeni culturali. Lapiù caratteristica scienza dello spirito è la storia, il cuicompito principale è di conservare ciò che ha valoree abbandonare all’oblio ciò che ne è privo.Fra i due tipi di razionalità (scientifica e filosofica)non c’è, dunque, una netta distinzione, ma ècomunque possibile avere una conoscenza razio-nale anche di avvenimenti unici, irripetibili, comequelli storici, dal momento che sono inseriti inuno sviluppo orientato finalisticamente secondocerti valori. Un'ultima considerazione. Sia i neo-kantiani sia gli storicisti riconoscono alle scienzenaturali lo statuto di scientificità, e alla spiegazionescientifica un valore conoscitivo anche se circo-scritto. La giurisdizione della spiegazione scientifi-ca è solo nel campo dei fenomeni naturali, mentrequella filosofica è nel campo dei fenomeni umani.Di fronte a queste soluzioni, caratterizzate dallaseparatezza dei campi del sapere, Morin sostiene latesi che «la realtà antropo-sociale si proietta e siinscrive nel nucleo stesso della scienza fisica»,secondo un processo circolare che richiede unadiversa soluzione dell'altro problema strettamenteconncesso con questo: il rapporto tra soggetto eoggetto, per cui si possa dire che «ogni scienza fisi-ca dipende, in qualche misura (quale?), dalla realtàantropo-sociale». La risposta all'interrogativo è affi-

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data a un'analisi ravvicinata delle singole scienze,analisi che Morin ha compiuto nelle sei opere dicui si compone La Mèthode. La conclusione cuiperviene è che «il circuito fisica-biologia-antropo-sociologia invade tutto il campo della conoscenzae richiede un sapere enciclopedico impossibile».

Il problema dell'enciclopedia del sapereMorin fin dall'avvio della sua ricerca si trova difronte a due “muri”: quello epistemologico e quel-lo enciclopedico, che la cultura flosofica da Comtea Carnap ha tentato di unire attraverso un proget-to di enciclopedia del sapere, in cui l'epistemolo-gia definisce il criterio di scientificità delle singolescienze e l'enciclopedia assicura che l'edificio dellascienza, fondatto su tale criterio, ha i caratteri dellarazionalità e della definitività. Che cosa è il Corso difilosofia positiva di Comte se non un'enciclopediadelle scienze del suo tempo, la cui maturità episte-mologica è determinata dalla loro capacità previsi-va? Le scienze “mature” sono sei e solo sei (mate-matica, astronomia, fisica, chimica, biologia, socio-logia) le quali peraltro hanno interne articolazioni(l'acustica, l'ottica, la termologia, ecc.), e l'ultimascienza è la sociologia, la quale usufruisce del patri-monio metodologico delle precedenti e perciò sicandida ad essere la scienza regina. Il compito chesi è attribuito il filosofo francese è proprio quello difar pervenire la sociologia ad autentica scienza.L'altro, grande tentativo è stato compiuto dai neo-positivisti che hanno iniziato l'impresa di una“Enciclopedia della scienza unificata”, fondata nonpiù sul criterio della previsione come quella comtia-na, ma sul linguaggio scientifico fondato sulla fisica(il fisicalismo). Un'impresa rimasta inconclusa, cheha via via fatto emergere i propri limiti.Morin rifiuta l'enciclopedismo come cumulazionedi conoscenze e saperi in un sistema totalizzante, edelinea un'enciclopedia capace di «articolare ciòche fondamentalmente è disgiunto e che dovreb-be essere fondamentalmente connesso», con unascelta delle conoscenze cruciali, dei punti nodali,«delle articolazioni organizzative fra le sfere dis-giunte». Si può dire che i sei volumi de La Méthodesono la realizzazione di questo nuovo modello dienciclopedia. L'opera La nature de la nature nonè più fondata sul primato della scienza o su quellodella filosofia, ma su un'alleanza fra scienza, epi-stemologia e filosofia. Nell'ultima opera di Morin,

Etica, si possono individuare i punti di congiun-zione tra epistemologia ed etica, una congiunzionenuova rispetto a quelle precedentemente viste.L'esigenza di una filosofia della natura, come abbia-mo già accennato, è presente in Terra-Patria(1993), ove il filosofo francese ha affrontato i pro-blemi dell'era planetaria, della carta d'identità ter-restre, dell'agonia planetaria, e così via. Ma è nel-l'ultima opera sull'etica che la proposta di Morin èpiù esplicita. Di fronte ai problemi sollevati dal dis-ordine economico mondiale, da quello demografi-co, dalla crisi ecologica, egli riafferma sì il valore diuna riforma radicale del pensiero per restaurarequella che definisce «la razionalità contro la razio-nalizzazione», ma è nell'Etica che compie il passoulteriore e decisivo.

5. Approdo all'etica

Il problema dei rapporti tra scienza ed etica è statotra i più discussi e variamente risolti nella filosofiadel Novecento: accenniamo brevemente ad alcunedelle risposte che filosofi, epistemologi e scienziatidi diversi orientamenti hanno dato a tale problema,per poi indicare la posizione espressa da Morin.La tendenza positivistica a fondare sistemi di mora-le sui risultati raggiunti dalle scienze ha trovato inGeorge E. Moore, all'inizio del Novecento, il filo-sofo che ha confutato in termini persuasivi talepretesa. Nell’opera del 1903, Principia ethica,Moore stabilì una distinzione fra etica e metaetica;l’etica si chiede che cosa è ‘buono’, la metaeticacosa intendiamo quando diciamo ‘buono’. L’eticaha un carattere normativo, ossia indica quale azio-ne, fra le molte possibili, dobbiamo fare; la metae-tica chiarisce i vari e diversi significati dei terminietici. Il termine ‘buono’, argomenta Moore, non èdefinibile perché è una nozione semplice, elemen-tare, primitiva; essa è così evidente per se stessa,che non è sottoponibile a verifica, come invece leproposizioni scientifiche; pertanto le proposizionietiche non possono essere provate né confutate. A una conclusione analoga è giunto BertrandRussell, il quale nell'opera Religione e scienza(1936) sostiene che le norme etiche non hanno unagenesi razionale o conoscitiva ma pratica, emotiva.Gli enunciati dell’etica non sono classificabili secon-do le categorie del vero e del falso (categorie usatedalla scienza), ma sono espressioni di sentimenti

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che tendono a determinarne altri. All’etica, dunque,manca la dimensione cognitiva, che invece caratte-rizza la razionalità scientifica. Anche EmileBoutroux, teorico del contingentismo, ha affrontatoquesto stesso problema. Nello scritto La Scienza ela morale moderna o scientifica afferma che dovec’è la morale non c’è la scienza, e dove c’è la scien-za non c’è la morale. In altri termini, la scienza èautonoma, ossia non è collegata né condizionata, néfondata su una morale: siamo di fronte a due formedi attività incommensurabili, rette da principi costi-tutivamente diversi. Sempre all'inizio del Novecento, il problema deirapporti tra razionalità scientifica ed etica è statoaffrontato dai filosofi pragmatisti, cui hanno datorisposte non univoche, pur nell'affermazionecomune di una distinzione di fondo tra i duecampi dell'attività umana. Secondo Peirce la scien-za e la morale fanno parte di due distinti “universidel discorso”: la scienza studia i fenomeni naturali,la morale indica i fini che siamo disposti ad accet-tare come regole della nostra condotta. WilliamJames sostiene, fin nel saggio del 1884, Il dilemmadel determinismo, che la scelta fra determinismo eindeterminismo non è di carattere scientifico; cisono ragioni valide per sostenere l’una o l’altraconcezione del mondo naturale. Inoltre, egli ritie-ne che l'alternativa determinismo/indeterminismonon costituisca un problema di scienza, ma dimetafisica, ossia di visione del mondo. Ora, fra ledue opzioni noi scegliamo quella che è più com-patibile con una concezione filosofica fondata sullalibertà e sul pluralismo; una concezione che sostie-ne una visione positiva, ottimistica della vita, per-chè «la vita merita di essere vissuta, qualunquecosa porti con sé». Ora, il determinismo, negandola libertà e affermando l’esistenza ineliminabile delmale, offre un'immagine pessimistica della vita. Ilbene e il male, dichiara James, sono i due poli diuna tensione permanente della vita umana, e lalegge morale si esprime nella volontà di procurareil maggior bene possibile. In conclusione, la scien-za si fonda su fatti, su teorie verificabili; la moralesu credenze che di per sè non traggono la loro vali-dità da una verifica, anche se sono più o menocompatibili con la verità scientifica.Nel saggio Valore morale delle scienze naturaliJohn Dewey dichiara che la morale ha proprimetodi d’indagine e un campo circoscritto dell’e-

sperienza entro cui i suoi metodi sono feconda-mente usati. Egli rifiuta l’assolutezza dei valorietici; tutti sono «mezzi per l’arricchimento delleattività della vita». L’etica, come la scienza, è fon-data sull’esperienza; il suo campo d’azione non siferma al di qua della conoscenza (egli non è unintuizionista nè un utilitarista), né è al di fuori dellarazionalità. Non c’è una separazione tra fatti e valo-ri, tra mezzi e fini; c’è, sì, una distinzione tra “è” e“deve”, ma ciò non esclude delle forme argomen-tabili nell’etica come nella scienza. Nei giudizi eticie in quelli scientifici c’è un medesimo procedi-mento logico: entrambi sono espressi in proposi-zioni generali e perciò controllabili, sia pure conprocedure metodologiche diverse.Karl Jaspers ha dedicato saggi e capitoli di numero-se opere ai rapporti fra scienza e morale. L’uomo,afferma nell'opera Psicopatologia generale del1913, «è la possibilità aperta, incompleta e mai com-pletabile. Perciò egli è sempre anche più ed altro diquanto ha realizzato di sé». La scienza produce risul-tati «irresistibilmente e universalmente validi», e perraggiungerli la scienza deve oggettivare il mondo,facendone qualcosa di nettamente distinto dal sog-getto. La scienza vuole raggiungere l'esattezza; è lasua forza ma anche il suo limite, perché essa risulta«limitata a una sfera determinata del conoscibile»,ossia alla sfera del mondo oggettivo. La scienza,dunque, ci fornisce sì conoscenze esatte ma nonrisponde al problema dell’esistenza umana. «La veri-tà, afferma Jaspers, è qualcosa di infinitamente piùdell’esattezza scientifica», e solo la filosofia è ingrado di fornire una risposta persuasiva.Edmund Husserl nell'ultima sua opera, rimastaincompiuta, La crisi delle scienze europee, fa data-re la crisi della razionalità scientifica con la stessanascita della scienza moderna, ossia con Galileo.Lo scienziato pisano ha segnato una svolta nellastoria del pensiero, ma in una direzione che haallontanato la scienza dall'uomo, perchè ha opera-to una matematizzazione della natura (il meccani-cismo) sovrapponendo un mondo di essenze idea-li al mondo dei fenomeni osservati. Così, se lascienza ha permesso all'uomo di enunciare leggiesatte, lo ha però condotto a una rottura con ilmondo della vita, che è fluido, mobile, e perciònon si lascia imbrigliare in categorie di caratterequantitativo. Secondo Husserl, la scienza moderna è pertanto

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caratterizzata da questa profonda, incolmabile scis-sione tra ragione e vita. Da tale situazione si puòuscire, facendo ricorso ad una nuova scienza, lafenomenologia, l'unica capace di darci un'autenticafondazione del sapere, in primo luogo delle scien-ze che ne costituiscono il tessuto connettivo. Inacuni scritti brevi egli ribadisce il valore della razio-nalità scientifica, e si pone la domanda se la scienzarenda felici gli uomini. Una domanda che appareretorica, perché una scienza che ha perso il telosoriginario non può rendere gli uomini “teoretica-mente felici”. Occorre, allora, che la scienza rinun-ci all’illusione di un’autofondazione, e sia restituitaalla filosofia, ossia alla fenomenologia. Fra gli scienziati che si sono soffermati sui rapportitra razionalità scientifica e etica, ricordiamo HenriPoincaré, uno dei maggiori matematici ed episte-mologi tra Otto e Novecento, teorico del conven-zionalismo, e Albert Einstein. Poincaré ha pubblica-to un acuto saggio su Scienza e morale ove respin-ge sia l’idea che la morale abbia (o debba avere) unfondamento naturale o metafisico, sia la credenzache la scienza possa diventare una “scuola di immo-ralità”, temevano alcuni critici cattolici perchè cifornirebbe una conoscenza integralmente raziona-le del mondo, togliendo sempre più spazio almistero. Secondo Poincaré la morale non è fondatasu alcun valore assoluto, sia esso di carattere reli-gioso o laico (come la patria, l’altruismo, e così via).La scienza non può nè creare nè distruggere lamorale, perchè la morale è fondata sul sentimento.Ma allora, non c’è alcun rapporto tra razionalitàscientifica e morale? C’è, ma indiretto, nel sensoche la scienza ci fa “vedere”, o intravedere che alfondo della realtà c’è un’armonia determinata dalleleggi razionali che la sorreggono, e questa armoniaè all’origine dell’amore per la verità che anima loscienziato e il moralista. Infine, Poincaré sottolineache sentimenti morali presiedono alla stessa prati-ca scientifica, e ciò in particolare ora, quando lascienza è diventata un’opera collettiva, e pertantorichiede una cooperazione e solidarietà fra tutticoloro che partecipano all’impresa scientifica, con-sapevoli di lavorare per il bene dell’umanità.In alcuni brevi scritti Albert Einstein ha preso unaposizione sui rapporti tra scienza e morale. Lascienza, afferma, ci fa conoscere i fatti, i rapportiche intercorrono tra loro. A tale proposito, egliaccetta pienamente la cosiddetta “regola di

Hume”, secondo cui la ragione non ha competen-za o giurisdizione sui fini e sui valori dell'azione.Ora, afferma Einstein, se «il significato dei fini ulti-mi» è precluso alla razionalità scientifica, tali finiperò esistono; essi sono accertabili empiricamenteanche se non hanno alcun fondamento razionale,perchè «nascono non da una dimostrazione ma dauna rivelazione». Così, se è vero che le due carat-teristiche fondamentali delle proposizioni scientifi-che sono che esse sono o vere o false, e che i con-cetti che usa non esprimono emozioni, ciò nonsignifica che il pensiero logico sia estraneo all’eti-ca. La scienza non produce istanze etiche, né l’eti-ca istanze scientifiche, però la logica consenteall’etica di esprimere in termini coerenti le sueproposizioni. In conclusione, una volta scelto unassioma etico (una proposizione etica fondamen-tale), una scelta che è convenzionale, la logica ciconsente di trarre tutte le conseguenze possibili.Dunque, “gli assiomi etici vengono scoperti e veri-ficati in modo non molto diverso dagli assiomidella scienza”.Tutte queste posizioni sui rapporti tra scienza edetica sono oggi in larga misura obsolete di frontealle nuove sfide etiche poste dagli sviluppi odiernidella scienza. Esse hanno avuto un'indubbiaimportanza storica nel periodo in cui occorrevadifendere la razionalità scientifica senza subordi-narla a obiettivi e fini estranei come potevano esse-re considerate posizioni etiche sostenute da Stati oistituzioni come le chiese. Nell'epoca moderna èemersa la scienza, che si è conquistata un propriospazio, prima, e uno stabile insediamento nellasocietà, poi, attraverso prolungate lotte, e soprat-tutto attraverso i risultati che ha ottenuto nell'in-terpretazione dei fenomeni naturali. Inoltre, questa difesa di una separatezza fra scien-za ed etica è stata parte integrante di un laicismoche rivendicava una propria autonomia e valore.C'è, al fondo, l'acquisizione di un aspetto impor-tante della morale kantiana, la quale, separando ivalori morali dalla religione e dalla metafisica, èstata accolta e fatta propria da quel laicismo checontro la morale “metafisica” (cattolica) combattéuna notevole battaglia.Non intendiamo, ora, esaminare l'opera di Morin,Etica, ma sottolineare la conclusione cui giungedopo un'analisi che si snoda attraverso vari aspettidel problema etico, sia nella cultura sia nella vita

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attuale. Alla fine egli si richiama esplicitamente aiprimi filosofi. Morin non è isolato in questa propo-sta, varie costellazioni teoriche della filosofia e dellascienza contemporanee hanno proposto di interro-gare i primi filosofi: da Husserl a Heidegger, daPopper a Schrödinger a Heisenberg, il riferimentoattualizzante a quei filosofi è ritenuto essenziale (siveda il libro di Giuseppe Gembillo, La filosofiagreca nel Novecento, Messina 2001). Essi sono statii primi ad affrontare il problema della physis, deli-nenado una visione olistica della natura entro cui sicolloca la vita dell'uomo. Anche in Morin ci sonofrequenti richiami a quei primi pensatori; egli stes-so afferma nelle prime pagine di Natura dellanatura che «l'oggetto principale di questo primovolume è la physis», per poi subito precisare che«la physis non è né uno zoccolo, né uno strato, néun sostegno. La physis è comune all'universo fisico,alla vita, all'uomo», come appunto sostennero iprimi filosofi. E più oltre: «L'antica materia si inari-disce e si disaggrega, mentre si produce la nuovaphysis, figlia del caos. Così physis, cosmo, caos nonpossono più essere dissociati. Sono sempre com-presenti gli uni in rapporto agli altri».Ma cosa significa ritornare, oggi, ai presocratici? celo dice lo stesso Morin proprio alla fine dell'Etica.Quei filosofi hanno compreso che occorre andareoltre la conoscenza (ossia la scienza) e raggiunge-re la saggezza. «La saggezza», afferma Morin allaconclusione della sua avventura intellettuale, «nonpuò essere concepita che come il prodotto di unadialogica tra yin e yang e tra ragione e follia. […]Non è neppure il ‘giusto mezzo’ di Aristotele, ma ildialogo ad anello dei contrari. La saggezza devesuscitare un'arte della vita. Questa, nelle condizio-ni attuali, chiede una riforma della vita». Dunque,l'alleanza fra epistemolgia ed etica approda a unaconcezione della natura la quale può, per così dire,“reggere” al confronto con le grandi sfide dell'im-presa scientifica. Quest'etica non indica, comequelle tradizionali, solo le regole delle nostre azio-ni (individuali e collettive), ma altresì (e forse,soprattutto) la nostra condotta verso la natura. Èun'etica che indica le ragioni e le vie di una riformadella nostra vita, la condizione perché gli ostacoli,che sono enormi, sulla via della salvezza (nostra edella Terra in cui viviamo) siano superati. In altritermini, l'etica nell'era della globalizzazione deveindicare le vie per abitare eticamente la Terra; una

condizione, questa, per assicurare la continuitàdella specie homo sapiens.

Indicazioni Bibliografiche

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1. Premessa

Per affrontare un'analisi sul valore culturale del pragmatismo italiano1 è necessarioorientare la nostra attenzione su campi tematici vailatiani e calderoniani considerati diminore interesse dalla storiografia moderna; solo con la fine del secolo scorso si èaccentuata la tendenza a fornire una visione meno riduttiva dei nostri due pragmati-sti, mediante studi sui contributi relativi ad aree come la semiotica (CAPUTO 1989,PETRILLI 1989 e AQUECI 1999), l'etica (LODIGIANI 1999), l'arte (BIANCO 1989) e lescienze sociali2, e attraverso ricerche collettive3. Intendiamo ora sottolineare aree diinteresse e temi che riammettano i nostri autori nel novero dei filosofi novecenteschi,senza trascurare i contributi di Mario Calderoni, erede e continuatore della tradizionedi ricerca vailatiana (POZZONI 2003). Ci sono temi e interessi caratteristici della filo-sofia analitica novecentesca che si mostrano centrali anche all’interno della riflessioneculturale del pragmatismo italiano; Vailati ha intrattenuto ottime relazioni con filoso-fi come Brentano, Duhem, Mach, Peano e Russell, com’è oramai indiscutibile l’esi-stenza di scambi meno diretti con autori come Couturat, Frege, James, Moore. Vailatiè uomo del Novecento, ed è forse l’unico autore italiano d’inizio secolo scorso, insie-me all’erede Calderoni, a ricorrere in modo costante alla cultura filosofica americana.Presente nella narrazione dei nostri due autori è anche una decisa curiosità versodeterminazione e analisi semantica di termini ed enunciazioni morali, orientata acoordinare meta-etica vailatiana e conclusioni naturalistiche mooriane o emotivismoayeriano/ stevensoniano. Tentiamo ora di chiarire in che misura e in che maniera,senza errore ricostruttivo, i nostri autori siano classificabili come “analitici”4.

2. I riferimenti “analitici” in Vailati e Calderoni

Molti sono i riferimenti del pragmatismo logico italiano alla nascente tradizione diricerca analitica, e si tratta di ante-analitici di scuola tedesca (Brentano, Mach eFrege), italiana (Peano), francese (Poincaré, Couturat e Duhem) e britannica(Russell, Welby, Moore); altri sono i richiami d’interesse analitico rinvenuti dainostri autori in scrittori meno recenti. All’interno dell’intensa attività di costoro siintersecano di continuo richiami moderni e riferimenti antichi. Gli antecedenti tedeschi della tradizione analitica novecentesca sembrano intratte-nere con Vailati ampie relazioni culturali. Precursore del neo-positivismo del Wiener

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Ivan Pozzoni

Giovanni Vailati e Mario Calderoni tra meta-etica, etica descrittiva e normativa

Focus: epistemologi eretici del ’900

1 Giovanni Vailati nascea Crema nel 1863. Dinobili natali si iscrivealla facoltà di matemati-ca dell’università diTorino. Laureatosi inmatematica, collaboranel 1891 alla “Rivista dimatematica” diretta daPeano e l’anno successi-vo diviene assistente diCalcolo infinitesimaleall’Università di Torino;nel 1899, volendo dedi-carsi con massima liber-tà ai suoi vasti interessiculturali, abbandona lacarriera universitaria echiede di entrare nellascuola secondaria. InToscana inizia a colla-borare assiduamente al“Leonardo” e nel novem-bre del 1905 è nominato,su richiesta di Salvemini,membro di unaCommissione reale desti-nata alla riforma dellescuole secondarie; nel1908 si ammala, e trasfe-ritosi a Roma, vi muorela sera del 14 Maggio1909. Mario Calderoninasce a Ferrara nel1879; si laurea in Diritto,e, nel 1909, ottiene lalibera docenza in filoso-fia morale all’Universitàdi Bologna. Muore, adImola, a soli 35 anni.

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Ivan Pozzoni Giovanni Vailati e Mario Calderoni

Kreis è Ernst Mach5, con cui Vailati tiene un fitto scambio di lettere, incentrato sudiscussioni inerenti la storia della scienza e la storia del metodo analitico. In una let-tera del novembre 1896 Vailati sottolinea brillantemente come la diairetica aristote-lica continui obiettivi e istanze analitiche della dialettica di Platone; Vailati scrive:«Ses efforts à dèterminer quelles sont les circonstances communes qui se rencon-trent dans tous les cas dans lesquels une résistance donnée est vaincue par uneforce moindre qu’elle, me semblent parfaitement caractéristiques du processus réelde développement de la science. Il s’y montre digne disciple de son grand maîtrePlaton qui définissait comme but de la recherche scientifique: “to see the one in themany”, en d’autres mots: constater des ressemblances, des analogies, des uniformi-tés, des éléments constants enfin, et des invariants6».Per Vailati è un Aristotele continuatore di Platone a ricondurre la teoria delle idee amero strumento analitico, liberandola dalla caratterizzazione metafisica e da residuidi trascendenza (VAILATI 1906b, [vol.I, 368]). Oltre a sviscerare insieme a Mach l’a-naliticità aristotelica, è in relazione ad alcune tematiche dello studioso moravo cheVailati, attraverso la mediazione di Leibniz, sottolinea l’esistenza di un’area di con-tatto tra storia delle scienze e semiotica. Ciò è presente in una lettera del 1905, doveVailati tenta di tradurre un concetto dell'opera di Mach Erkenntnis und Irrtum inchiave semantica asserendo che «votre conception de la loi comme Einschränkungder Erwartung me semble bien en harmonie avec la conception leibnitzienne des“propositions générales” comme des “négations de quelque fait ou coincidenceentre deux faits”»7.Aldilà delle innumerevoli citazioni all’interno di articoli e contributi a riviste nazio-nali e internazionali, e aldilà delle recensioni dedicate a scritti machiani comePopulär-wissenschaftliche Vorlesungen (VAILATI 1896, [vol.I, 141-143]),Erkenntnis und Irrtum (VAILATI 1905c, [vol.I, 153-156]), o altri meno rilevanti8, èormai assodato come Vailati si sia accostato a un buon numero di materiali dello stu-dioso austriaco9. Non c’è nessun motivo di dubitare che Mach, oltre ad avereinfluenzato il Wiener Kreis, sia stato in Italia saldo riferimento culturale di Vailati eCalderoni. Un altro rapporto che ha avuto una rilevante importanza per Vailati, è quello intrat-tenuto con Franz Brentano10; le lettere scambiate tra i due sono una trentina, e den-sissime di contenuti. Probante del costante accrescimento dell'interesse vailatianoverso tematiche analitiche è un’asserzione contenuta in una lettera del 1908 aBrentano: «I suoi cortesi incoraggiamenti mi hanno fatto grande piacere e mi sonodi stimolo a continuare in quegli studi sui rapporti tra linguaggio e pensiero, ai qualimi sento sempre più attratto a dedicarmi, riconoscendoli sempre di maggior impor-tanza per la vera critica della conoscenza scientifica e filosofica (VAILATI 1971, 311)».Da tale breve notazione - occultata all’interno della vastissima riflessione culturalevailatiana - si desume come Vailati si sia accostato all’istanza analitica solo successi-vamente alla maturazione di interessi di storia della scienza e teoria della cono-scenza. La vita culturale di Vailati sembra un cammino inarrestabile sulla strada del-l’elaborazione di un metodo idoneo a chiarire antecedenti teorie e ambiti di ricer-ca. Oltre all’indicazione di Brentano come modello rilevante della svolta analiticavailatiana, in tali lettere restano interessanti i richiami ad autori vicini a Brentanocome Marty11 e von Meinong12. Vailati e Brentano riescono ad introdurre, attraversol’intermediazione di Amato Pojero, redditizie relazioni culturali, assecondate dal tra-sferimento a Firenze dello studioso austriaco. Esistono molte citazioni su Brentanoall’interno di articoli e contributi vailatiani a riviste e bollettini; meritevoli di nota

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2 Cfr. i non recentissimiBOBBIO (1963) e SEGRE(1963). Per una recenterivisitazione dell’orienta-mento economico vaila-tiano si consulti il riccoBRUNI (2000).

3 E’ il caso di DE ZAN(2000) e del recentissimoMINAZZI (2006). Piùrecente ancora è il con-tributo di FERRARI(2006).

4 D’ora in avanti i riferi-menti testuali aCalderoni saranno indi-cati in base a CALDERO-NI (1924, voll. I e II) e iriferimenti testuali aVailati saranno indicati– a meno di avviso con-trario- in base all’edizio-ne, curata daM.Quaranta, VAILATI(1987, voll. I-II-III).

5 Per una visione miratadella riflessione culturalemachiana si vedano irecenti CANTELLI e ROSSI(1995) e BLACKMORE(1992). Per uno studiosulle incidenze delle con-cezioni machiane sull'a-nalitica viennese si con-sulti l’ottimo FERRARI(2000).

6 Cfr. VAILATI (1971, 113).E successivamente l’in-tento "analitico" diAristotele è confrontatocon l’intento "analitico"di Platone nell’articoloPer un’analisi pragmati-stica della NomenclaturaFilosofica (VAILATI 1906,[vol.I , 73-80]).

7 Cfr. VAILATI (1971, 125).La raccolta dei docu-menti vailatiani curatada Lanaro nel 1971 nonè molto recente; unaminuziosa attività diraccolta delle lettere vai-latiane è attualmente in

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sono l’articolo Sulla portata logica della classificazione dei fatti mentali propostadal prof. Franz Brentano (VAILATI 1901b, [vol.II, 87-91]), che inciderà in manieraintensa sulla teoria calderoniana della volizione, e la visualizzazione diretta di unbuon numero di scritti (RONCHETTI 1998, 378 - biblioteca). Nemmeno in meritoa Brentano è lecito dubitare che costui, oltre ad avere influenzato direttamenteHusserl e Marty e von Meinong, abbia inciso in maniera indiretta anche sul prag-matismo italiano. Per concludere l’esame delle relazioni tra Vailati e l’ante-analiticadi scuola tedesca è necessario notare come esista una traccia di scambi di lettere traVailati e Frege; l’autore tedesco è citato insieme a Russell in numerose lettere vaila-tiane indirizzate all’amico Vacca. Da tutto ciò risulta in modo certo che ci sia statauna incidenza dell’ante-analitica di scuola tedesca sul pragmatismo italiano.Sul versante italiano è altrettanto incontestabile l’incidenza di un autore di famainternazionale come Peano. Gli esordi accademici vedono Vailati stretto collabora-tore di costui; egli pubblica i suoi primi lavori di logica nella “Rivista di matematica”e collabora alla stesura del noto Formulario; inoltre, egli è anche membro attivodella scuola di matematica simbolica torinese (Pieri, Burali-Forti, Padoa, Vacca). Larilevanza analitica di Peano, che in scritti come Arithmetices principia nova metho-do exposita e Formulario di matematica sostiene l’idea dell’analisi simbolica comeunico strumento idoneo alla risoluzione delle antinomie matematiche, è ricono-sciuta da un analitico del calibro di Russell. Costui ammette senza riserve che sim-bolismo matematico e serietà metodica di Peano abbiano avuto un'indubbia ascen-denza sulle sue stesse modalità di ricerca e indirettamente sulle modalità di ricercadell’analitica britannica successiva13. Benché il debito culturale vailatiano nei con-fronti di Peano sia notevole, non rimane traccia di un consistente scambio di lette-re tra i due autori; i riferimenti vailatiani alle relazioni con Peano e con la scuola tori-nese restano tuttavia immortalati nelle numerose lettere inviate a Vacca. Gli accen-ni a Peano e alla scuola matematica torinese sono in toto encomiastici; Vailati anno-vera Peano nel «numero di quelli tra i nostri migliori scienziati che rivolgono la loroattenzione a ricerche di indole filosofica»(VAILATI 1902b, [vol.I, 5]) e definisce inmodo efficace il metodo simbolico della scuola torinese: «Ce n’est pas un des moin-dres avantages du symbolisme logique adopté par Peano et ses collaborateurs, quede rendre possible l’énonciation des prémisses fondamentales de chaque branchedes mathématiques sous une forme extrêmement réduite et simplifiée, dépouilléede tout élément accessoire, et susceptible, par cela même, d’assumer les interpré-tations les plus variées et les plus hétérogènes (VAILATI 1907, [vol. I, 388])».Oltre che nell'ampio saggio La Logique Mathématique et sa nouvelle phase dedéveloppement dans les écrits de M.J. Peano (VAILATI 1899a, [vol.II, 172- 185]), ècon il brillante articolo Pragmatismo e logica matematica (VAILATI 1906c, [vol.I,67-72]) che attraverso un serrato confronto tra scuola torinese e tradizione di ricer-ca statunitense (Peirce, James) è definitivamente asserita la rilevanza internazionaledi Peano. Gli estratti e i testi contenuti nella biblioteca vailatiana relativi a Peano ealla sua scuola sono innumerevoli; e ciò conferma l’incidenza dell’ante-analitica ita-liana sul pragmatismo italiano.Per l’influenza del convenzionalismo francese di Poincaré, Boutroux, Duhem,Couturat e Le Roy sulla riflessione vailatiana e calderoniana si mostra necessaria unabreve introduzione storica. Non è corretto considerare tale tradizione di ricercaottocentesca come un diretto antecedente culturale dell’analitica novecentesca; ilconvenzionalismo francese storicamente sta all’ante-analitica ottocentesca, come lacosiddetta new epistemology14 sta all’analitica novecentesca. Vailati, come successi-

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atto a Crema sotto l’at-tenta direzione del Prof.M. De Zan (Centro StudiGiovanni Vailati).

8 Cfr. VAILATI (1901a,[vol.I, 148- 152]) e laPrefazione vailatiana alvolume di MACH (VAILA-TI 1909, [vol.I, 157- 159]).

9 Cfr. RONCHETTI (1998),259 (estratti) e 445(biblioteca).

10 Cfr. MODENATO(1993). Per l’intera rifles-sione culturale brenta-niana si veda l’intensaletteratura secondariaintrodotta da A. Maroccoe riassunta nell’interes-sante studio MAROCCO(1998).

11 Cfr. VAILATI (1971, 285-287). Marty è consideratofondatore del neo-Positivismo svizzero (SPI-NICCI 1991).

12 (VAILATI 1971, 305). F.D’Agostini asserisce chemolti riconoscono costui«come uno dei padri delpensiero analitico» (D’A-GOSTINI 1997, 228);Vailati dedica unarecensione alla sua scuo-la in VAILATI (1905d,[vol.I, 345]).

13 Cfr. RUSSELL: «Nellamia attività filosofica viè una svolta fondamen-tale: negli anni 1899-1900, adottai la filosofiadell'atomismo logico e ilmetodo di Peano nel-l'ambito della logicamatematica. Ciò rappre-sentò una trasformazio-ne tanto grande da ren-dere il mio lavoro prece-dente, a eccezione diquello puramente mate-matico, irrilevanterispetto a tutto ciò chefeci in seguito» (1995,

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vamente Popper, è trait d’union tra metodo analitico e teoria/storia delle scienzed’inizio secolo scorso, in cui s'intrecciano istanze filosofiche e interessi scientifici.Con Poincaré o Duhem i contatti diretti sono o inesistenti o assai limitati (DE ZAN2004a, 10); con Couturat l’affermazione dell’esistenza di relazioni dirette (VAILATI1971, 193) resiste all’irrintracciabilità dei correlati documenti cartacei. Più che diret-ta la conoscenza vailatiana dei francesi è di seconda mano. Mentre di Poincaré ilnostro autore sembra evidenziare unicamente il contributo di storico della scienza(VAILATI 1905e, [vol.I 355-358] e VAILATI 1906d, [vol.I, 359- 360]), la recensioneall’articolo La théorie physique15 di Duhem e la rilettura attraverso Couturat dellasemantica leibniziana riavvicinano il filosofo cremasco a tematiche marcatamenteanalitiche. Lo strumentalismo scientifico di Poincaré scaturisce insieme all’anti-ato-mismo semantico duhemiano in un contestualismo scientifico e semantico moltovicino ai moderni contestualismi di Quine e Davidson; e aldilà dei discorsi sul meto-do deduttivo e di una teoria convenzionalista della definizione, la riflessione leibni-ziana è valorizzata in relazione alla tesi della critica all’astrazione nelle costruzioniteoretiche, secondo cui sarebbe necessario tradurre enunciazioni formulate con ter-mini astratti in enunciazioni formulate con termini concreti. Vailati scrive a tale pro-posito: «La lutte engagée par les nominalistes contre les universaux se présente, enun certain sens, comme un cas particulier de celle que poursuivent les pragmatistescontre l’abus des phrases qu’on construit avec eux. Le procédé qu’ils se proposentd’appliquer à ces dernières est tout à fait analogue à celui qui est préconisé parLocke et par Leibniz, lorsqu’ils conseillent de traduire toute affirmation, où on leursubstitue les concrets qui leur correspondent16». Da Leibniz e Locke tale conve-niente tendenza al “concretismo” si è trasmessa a rilevanti autori moderni comeMill, Marx e Feuerbach. Per la ricerca vailatiana il richiamo dell'epistemology otto-centesca a Leibniz è occasione di molti stimoli.Più decisiva nei confronti dell'evoluzione dell'analitica vailatiana è l'incidenza del-l'ante-analitica britannica. Innanzitutto c'è un comune riferimento (caratteristicoanche di James) alla tradizione rappresentata da Berkeley, Locke e Hume; oltre aformulare l'acuta teoria aletica delle “attese di sensazioni” (Berkeley) tanto cara aCalderoni, e ad estendere alle scienze morali metodi simili ai metodi matematici(Locke), tale fortunata tradizione di ricerca introduce una nuova scienza semantica17

e una innovativa nozione di analisi idonea a metter sotto esame termini ed enun-ciazioni della teoria della conoscenza18. Poi c'è un richiamo a temi d'interesse comu-ne; è nota l'attenzione di Russell nei confronti dell'analisi simbolica di Peano, ealtrettanto noti sono i contatti diretti intercorsi tra il logico britannico, uno dei fon-datori dell'analitica moderna, e Vailati. La lettera scritta da Calderoni a Vailati nel gennaio del 1903 è sintomatica di unavicendevole incidenza tra atomismo russelliano e contestualismo calderoniano. Tral’altro è scritto: «Qui in casa di Berenson (il critico d’arte che forse avrai sentitonominare) ho trovato Russell, cognato di lui, persona che si occupa di filosofia especialmente di filosofia delle matematiche, e che conobbe te (e forse anche me) alCongresso di Parigi del ‘900. Te ne ricordi? Abbiamo lungamente discusso: egliconosce tutti i tuoi lavori e ti ammira moltissimo, sebbene non vada d’accordo conte, mi pare, nella questione dei postulati nella matematica. In morale è uno scetticoe non ha fatto che criticarmi: ma gli ho dato il mio lavoro, dove forse capirà più chia-ramente le nostre idee» (VAILATI 1971, 648).Benchè Russell riconosca senza esitazioni l’ascendenza di Peano, non sembraammettere nei suoi scritti relazioni culturali altrettanto dirette con altri autori italia-

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14); e successivamente«Fu al CongressoInternazionale diFilosofia di Parigi del1900 che io mi resi contodell'importanza di unariforma logica per la filo-sofia della matematica.Fu durante l'ascoltodella discussione traPeano di Torino e glialtri filosofi intervenutiche me ne resi conto.Prima di allora nonconoscevo il suo lavoro,ma rimasi molto impres-sionato dal fatto che, inogni discussione, eglidimostrava maggioreprecisione e maggiorerigore logico di chiunquealtro […] Furono taliopere a dare l'impetoalle mie successive teoriesui princìpi della mate-matica» (1995, 60).

14 Per una esaurienteintroduzione alla newepistemology si consulti-no GIORELLO (1999) D’A-GOSTINI (1997)

15 Cfr. VAILATI (1905f).Non inserita nell’edizio-ne curata daM.Quaranta, tale recen-sione è rinvenibile nel-l’ormai classico VAILATI(1911).

16 Cfr. VAILATI 1907, [vol.I, 384]). Calderoni sulleorme del maestro conti-nua: «Un’altra sorgentedi illusioni dello stessogenere ci presenta il pro-cesso di spiegazione, inquanto esso ci porta aconsiderare come dei“perché” sufficienti deifatti, che si tratta di spie-gare, asserzioni in cuinon si fa che rienunciar-li sotto altra forma […]Dei pericoli inerenti aquesta tendenza nonhanno mancato di occu-parsi i filosofi. Tra i

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ni. Due lettere indirizzate a Russell da Vailati (DE ZAN, 2004b, 44- 45) sottolineanoi comuni interessi matematici e la comune tendenza anti-kantiana; il filosofo cre-masco dedica l'esordio dell'articolo La più recente definizione della matematicaalla validità della dottrina matematica (VAILATI 1904, [vol.I, 7- 12]) russelliana, enella totalità dei suoi scritti continua a citarlo come serio matematico. Non c'è realeinteresse verso la filosofia di Russell, allora indirizzata sulla strada della critica allametafisica idealista bradleyiana e verso il realismo mooriano; con i Principles ofMathematics l'idea russelliana del metodo analitico è ancora allo stato embrionale.Oltretutto estratti e libri di Russell sono assai scarsi nella biblioteca vailatiana. Moltosimile è la dimestichezza con Moore; non si ammette l'esistenza di relazioni cultu-rali dirette tra Vailati e Moore, e non viene esclusa l'eventualità di scambi di lettereo di visite con Whitehead (DE ZAN 2004a, 17). Gli scritti vailatiani non sottolineanomai la collaborazione di Whitehead alla stesura dei Principles of Mathematics, nécostui viene mai citato direttamente; a commento dei Principia ethica di Moore èinvece dedicato l'articolo La ricerca dell’impossibile (VAILATI 1905a, [I, 59-66]).Benché ridotta ai minimi termini, sussiste senz'altro una seria conoscenza vailatianadell'attività matematica di Russell e Whitehead e finanche quella etica di Moore.Meno ridotte si mostrano le relazioni culturali tra Vailati e Welby. Nella loro assiduadiscussione - come è stato rilevato19- sono toccati tutti i temi d'ambito semiotico:teoria della definizione, analisi simbolica, indeterminatezza, senza dimenticarecome una incidenza non convenientemente evidenziata tra trattazione semanticadella Welby e l’articolo The meaning of meaning scritto da Ogden e Richards20, cheindirizzerà in modo evidente conclusioni e idee dell’emotivismo radicale ayeriano edell’emotivismo moderato stevensoniano, avvicini Vailati alla dimensione meta-etica dell'analitica moderna. Con la semioticista britannica il nostro autore eviden-zia un’indiscussa inclinazione verso esiti e conclusioni del positivismo milliano, cheritiene eccellere nei confronti dei positivismi continentali. Vailati scrive: «As youhave seen perhaps from my pamphlets, I am a fervent admirer of the English clas-sical philosophical school, in particular of J.S. Mill, whom I believe to be by far themost exact and profound writer of the century on philosophical subjects. Hisinfluence on continental thought seems to me to be underrated by the actual phi-losophical authorities in England; they seem to me not sufficiently to realize thegreat advance represented by Mill's writings, vis-à-vis of those of the Germanmetaphysicians of the school of Kant (VAILATI 1971, 136); e di nuovo valorizza laforza educativa dell'analisi, asserendo: «I believe the exposition and classification ofverbal fallacies and, above all, their caricatures (in jeux de mots), to be one of mosteffectual pedagogic contrivances for creating the habit of perceiving the ambiguitiesof language (VAILATI 1971, 141)».Lo scritto What is meaning? (1903) della Welby è citato nell’interessante articolo Itropi della logica (VAILATI 1905b, [vol.I, 21]), in cui Vailati abbozza un metodostrettamente contestualistico di analisi delle metafore e dei simboli connessi ai dis-corsi tecnici; i due scritti Sense, meaning, and interpretation (1896) e Grains ofsense (1897) sono citati nella celebre prolusione vailatiana al corso di Storia dellameccanica Alcune osservazioni sulle questioni di parole nella storia della scienzae della cultura (VAILATI 1899b, [vol.II, 55 e 70]). I tre scritti della studiosa britan-nica sono contenuti, in un caso con dedica, nella biblioteca vailatiana. L’influenzadell’ante-analitica britannica sui due pragmatisti italiani è evidente.La storiografia meno recente ha introdotto una tendenza a sacrificare un riscontroesteso dei riferimenti culturali vailatiani all’esame minuzioso delle relazioni tra

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rimedi migliori è quellosuggerito da Locke e daLeibniz, quando consi-gliano di tradurre ogniaffermazione, in cuifigurano parole «astrat-te», in un’affermazioneequivalente dove sianoloro sostituiti i concreticorrispondenti; regola dicui il pragmatismo non èin sostanza che unaamplificazione e uncompletamento» (CALDE-RON 1909, [vol. II, 150]).

17 Cfr. VAILATI (1905g,[vol. I, 349-354]). Vailatidescrivendo l’ArsCombinatoria di Leibnizla riconnette da lontanoalla Doctrine of signs diLocke: «Di questa“Caratteristica Generale”(Ars Combinatoria diLeibniz) – il cui concettoha qualche analogia conquello della scienza pre-conizzata da Locke connome di Semiotica» (orthe “Doctrine of signs”)nell’ultimo capitolodell’Essay onUnderstanding- tantol’algebra ordinaria,quanto la logica sillogi-stica avrebbero solo rap-presentato dei rami par-ticolari, accanto ad altrespecie di rappresentazio-ne simbolica…».

18 Cfr. CALDERONI (1909,[vol. II, 145]). Tale branoè una citazione dall’an-tecedente articolo di VAI-LATI (1905h, [vol. I, 19]).

19 PETRILLI scrive:«Vailati si mette in con-tatto epistolare conWelby nel 1898 dopoaver letto il libro di que-sta ultima Grains ofsense […] i due studiosidiscutono, fra l’altro,della natura della defini-zione, del suo contributoo meno all’avanzamento

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costui e la filosofia americana21 o tra costui e il positivismo continentale22. La cen-tralità dell’esame storico delle relazioni vailatiane con Peirce, James e il positivismo,strettamente connessa in sede ricostruttiva alla discriminazione tra “leonardianimistici” e “leonardiani analitici” mostra tutta la sua riduttività se riferita in via esclu-siva ad un tentativo di classificazione dell’analiticità vailatiana e calderoniana.Qualora ci si limiti a voler differenziare i nostri da autori con i due iconoclasti fio-rentini Gian Falco (Giovanni Papini) e Giuliano (Giuseppe Prezzolini), bastano i rife-rimenti alla cultura americana e al positivismo italiano e continentale; se si deside-ra invece raffrontare l’attività vailatiana all’intero orizzonte culturale d’inizio secoloscorso, tali scarni richiami si avviano a diventare ricostruttivamente inutili. Benchéresti incontrovertibile l’esistenza di una stretta relazione feedback con i leonardianiGian Falco e Giuliano e positivismi (DI GIOVANNI 2005, 35 ss), l’accostamento aduna linea ricostruttiva che, basandosi unicamente sull’oramai obsoleta dicotomiaPeirce/ James, trascuri ascendenze e incidenze decisive di Mach/Brentano, di Peano,del convenzionalismo francese e della semantica britannica sulla tradizione vailatia-na e calderoniana, rischia di mostrarsi estremamente riduttivo. Vailati è in strettocontatto e dibatte con tutta l’ante-analitica d’inizio secolo scorso, sia di matriceaustro-tedesca (Mach e Brentano), sia di scuola italiana (Peano e circolo torinese),sia di derivazione francese (convenzionalismo), sia di radice britannica (Russell eWelby); e tale sconcertante mole di scambi culturali e comunanze di temi conducead annoverare Vailati tra i rari iniziatori italiani dell’analitica novecentesca.

3. L'etica in Vailati e Calderoni

La curiosità di Vailati e Calderoni nei confronti di come si determini il senso di,(enunciazioni e discorsi morali) li accosta alle tradizioni di ricerca meta-etiche nove-centesche del naturalismo mooriano e dell’emotivismo ayeriano/stevensoniano. Èuna ricostruzione di Calderoni a mettere in evidenza con la massima chiarezza l'au-dacia dei discorsi vailatiani sulla morale. L’attenzione verso la meta-etica nasce neinostri due autori da alcune domande sulla validità e il valore della conoscenza mora-le. Due sono i momenti della narrazione meta-etica di Calderoni: I Postulati dellaScienza Positiva ed il Diritto Penale (CALDERONI 1901, [vol.I, 33-167]), caratteriz-zato dall’influsso travisato dello scritto vailatiano (citato) Sulla portata logica dellaclassificazione dei fatti mentali proposta dal prof. Franz Brentano, e Disarmonieeconomiche e disarmonie morali (CALDERONI 1906, [vol.I, 285-344]), modellatoinvece sullo scritto vailatiano La distinzione fra Conoscere e Volere (VAILATI 1905i,[vol.I, 55-58]). Nel primo testo (la tesi di laurea), un inaccorto Calderoni non mostradi metabolizzare in toto i concetti della meta-etica vailatiana; Vailati mutua due ideedalla trattazione contenuta nei brentaniani Psychologie vom empirischenStandpunkte e Vom Ursprung sittlicher Erkenntnis: l'interesse nei confronti delladistinzione tra stati mentali e il desiderio di connettere modelli di enunciazione aclassi di stati mentali. Secondo Vailati, Brentano mette in rilievo come esistano treordini di stati mentali: a] idee, aleticamente neutre; b] credenze, suscettibili di veri-tà/falsità e c] valutazioni, aleticamente neutre. Il filosofo cremasco arricchisce taleintuizione brentaniana riconducendo i tre ordini di stati mentali a tre modelli dienunciazione: a] enunciazioni analitiche («definizioni»); b] enunciazioni descritti-ve/osservative («affermazioni […] che esprimono il grado del nostro assenso, o delnostro dubbio») e c] enunciazioni valutative («Werth-Urtheile»). Vailati, da buon

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della conoscenza; inoltredella metafora, dei falsiproblemi ed equivociposti dalla scienza edalla filosofia a causadel cattivo uso del lin-guaggio, e della necessitàdi una revisione dell’im-postazione degli studiper rimediare a un erra-to uso linguistico» (1989,93). In merito aCalderoni si veda il mio(POZZONI 2006a).

20 Cfr. OGDEN eRICHARDS (1975). Percostoro è convenienteintrodurre una nettadistinzione tra due usicomunicativi: uso simbo-lico atto a descrivere euso emotivo idoneo asuscitare sentimenti edesideri.

21 Per una esaustiva trat-tazione delle incidenzedella filosofia statuniten-se su Vailati e Calderonisi vedano i due articoliHARRIS (1963) e SILVE-STRI (1989).

22 Generale è la trattazio-ne delle relazioni traVailati e Positivismi inDAL PRÀ (1984); una dis-creta ricostruzione dellerelazioni tra Calderoni ei Positivismi è attribuibi-le a LANARO (1979).Recente è POZZONI(2006b).

23 Cfr. PONTARA (1979).L’autore considera ilnichilismo etico diVailati e Calderoni comeun sotto-insieme delloscetticismo in etica.

24 Cfr. CALDERONI (1901,[vol. I, 116]). Costui rife-rendosi allo studio VomUrsprung sittlicherErkenntnis di Brentanosembra introdurre un’i-dea meta-teorica di etica

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ricercatore sulle «terre di nessuno» (EINAUDI 1971, XXIII), assecondando l’intimaconnessione tra scienze della mente e semiotica intuisce come la teoria brentania-na della mente sia adatta a costruire una esaustiva teoria delle enunciazioni; e in taleambito sono da sottolineare due ottime osservazioni. Da un lato, l’intuizione secon-do cui l’in-aleticità (insuscettibilità a stime di verità/falsità) di idee e di valutazionisia condizione della loro insensatezza (non subordinabilità a stime di senso); dal-l’altro, il fatto che la diversa modalità ontica delle tre forme enunciative non tolleriil “salto” da un modello enunciativo all’altro. Il nostro autore è strenuo sostenitoredi una sorta di nichilismo etico23 caratterizzato dalla decisa adesione alla cosiddettanorma di Hume. Calderoni nei Postulati non mantiene la direzione del maestro;sembra arrivare ad esiti naturalistici e obiettivistici molto simili alle conclusionimooriane nel momento in cui asserisca che lo «scopo della morale è di determina-re i fini che l’uomo deve porsi nell’operare»24 e consideri i fini umani come veritàmorali. Nello scritto successivo, Disarmonie, cambiano totalmente i modi caldero-niani di intendere l’etica; ed è uno scritto vailatiano del 1905 (La distinzione fraConoscere e Volere) ad essere motore di tale cambiamento. Mentre nella riflessio-ne antecedente Vailati si limita ad abbozzare l’idea dell’insuscettibilità delle enun-ciazioni morali a stime conoscitive, in tale articolo giunge ad asserire in manieradiretta l'insensatezza delle enunciazioni morali, la loro illocutorietà emotivo/senti-mentale e l'insussistenza dei disaccordi morali. È sintomatico un brano vailatianoassai denso di intuizioni: «La differenza tra l’un caso [credenze] e l’altro [valutazio-ni] si può brevemente caratterizzare dicendo che, mentre nel primo le nostre affer-mazioni implicano, direttamente o indirettamente, delle previsioni su ciò che avver-rà o avverrebbe se date circostanze si verificassero, nel secondo invece si esprimesoltanto il nostro desiderio che date circostanze si verifichino o no, e la nostra dis-posizione ad agire in modo da provocarle o impedirle. Mentre per le prime ha vigo-re quello che i logici chiamano il principio di contraddizione - in quanto, se due per-sone sono di diverso parere e prevedono, l’una che avvenga, e l’altra che non avven-ga, uno stesso fatto, esse non possono avere ragione ambedue -, nel secondo casoinvece lo stesso non si può dire. […] Mentre infatti le prime indicano delle vie edei mezzi a cui è possibile ricorrere per realizzare qualche fatto che non esiste anco-ra, le seconde si limitano a descrivere un nostro stato di coscienza o di fatto, chericonosciamo come presente. Le prime si riferiscono non a ciò che vogliamo ma aciò che potremmo fare se volessimo»25.Il brano contiene tre idee rilevanti, che diventeranno tematiche ricorrenti nella let-teratura calderoniana da Disarmonie in poi (CALDERONI 1907, [vol.II, 20-21], 1910,[vol.II, 190-191] e 1911, [vol.II, 341-342]). Per Vailati - a differenza di Moore -, a] nonesistono verità morali se unicamente “attese di sensazioni” siano suscettibili diconoscenza e se unicamente credenze siano suscettibili di verificazione, e se anco-ra la cosiddetta norma di Peirce sia da intendere come criterio di verificazione e disenso insieme, allora le enunciazioni della morale non saranno enunciazioni stret-tamente sensate. Poi, sottendendo mere decisioni («choses»), b] le enunciazionimorali, come in Calderoni, hanno forza illocutoria emotivo/sentimentale; Vailati, acommento di alcuni brani della tesi di laurea calderoniana asserisce infatti «l’attri-buire maggior pregio a un fine piuttostochè a un altro, il preferire, per usare la fraseormai divenuta classica del Nietzsche, una data “tavola di valori” ad un’altra, l’aderi-re a una concezione della vita e dei suoi scopi piuttosto che ad un’altra, non è affa-re di scienza o di ragionamento, o, in tutti i casi, non di sola scienza né di solo ragio-namento, ma è qualche cosa che riguarda il carattere, il temperamento, i sentimen-

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come scienza normativahard totalmente contra-ria sia all’idea vailatia-na di etica e sia all’ideadi etica a cui il nostroautore aderirà con loscritto Disarmonie eco-nomiche e disarmoniemorali (etica normativasoft). Per una esaustivatrattazione dell’etica cal-deroniana si consultiPOZZONI (2004).

25 Cfr. VAILATI (1905I,[vol. I, 56-57]). Vailatiintroduce una distinzio-ne netta tra valenzaemotiva e valenza nor-mativa. Funzione deldiscorso etico sarebbecomunicare desideri etendenze. Il riferimentofinale alla descrizione distati d’animo sembrauna svista inidonea avanificare il tenore del-l’emotivismo vailatiano.

26 L’intricata frammenta-rietà dell’orizzonte meta-etico analitico d’inizio emetà del secolo scorso èchiarita in BAGNOLI che– a chiusa della ricostru-zione accurata dell’eticaanalitica viva in talemomento storico – asse-risce: «Come si è visto, findalle investigazioni filo-sofiche di Moore i filosofianalitici si scontranocon il problema di conci-liare le aspirazioniall’oggettività dei giudizietici con la loro capacitàdi guidare l’azione. Talicaratteristiche sembranosuggerire soluzionimetaetiche opposte»(2002, 320).

27 Per una attuale e defi-nitiva trattazione dellais-ought question si con-sulti il monumentaleCELANO (1994).

28 Cfr. HARMAN (1977).

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ti, i gusti, il particolare modo di essere di ciascun uomo o di ciascun popolo. […]La propensione, infatti, o la ripugnanza, ad assumere l’utilità generale come unicocriterio di giustizia non dipende tanto dal fatto di possedere o non possedere deter-minate cognizioni, quanto dal fatto di essere o no suscettibili di determinate preoc-cupazioni morali o sentimentali» (VAILATI 1902a, [vol. I, 289]). E infine v’è c] unavisione della contraddizione tale da circoscriverne l’efficacia unicamente alle cre-denze e da non assicurare consistenza e validità ai disaccordi morali.Intuizione dell’insensatezza dei discorsi morali, riconoscimento dell’illocutorietàemotivo/sentimentale di essi e visione della contraddizione volta ad escludere l’esi-stenza di disaccordi morali inseriscono la riflessione culturale vailatiana nella meta-etica di un considerevole settore26 del movimento analitico novecentesco. Pur in ununiverso variamente contraddittorio di teorie meta-etiche, l’esordiente movimentoanalitico novecentesco è caratterizzato da una rilettura divisionista della is-oughtquestion27, in modo da mostrare assai radicata l’osservazione successiva di un auto-re come Putnam: «La scienza ci dice - o ci viene detto che la scienza ci dica - cheviviamo in un universo fatto di sciami di particelle, di molecole a spirale di DNA, dicalcolatori, e di cose esoteriche come buchi neri e stelle a neutroni. In un universosimile, come potremmo sperare che i nostri valori abbiano un senso o un fonda-mento?» (PUTNAM 1990, 142).L’iniziale comune critica anti-metafisica conduce di norma ad accettare la tesi del-l’immunity from observational testing delle enunciazioni morali28, con coerente dis-conoscimento della sensatezza del discorso morale29. La dimestichezza con l’attivitàculturale della Welby avvicina il pragmatismo italiano alla corrente emotivista dellameta-etica analitica novecentesca. Sulla scia del riconoscimento dell’immunity èAyer, mediatore tra analitica britannica mooriana e conclusioni schlickiane, a difen-dere l’idea della derivazione emozionale di tutte le enunciazioni morali, asserendo:«La presenza del simbolo etico nella proposizione non aggiunge nulla al suo conte-nuto fattuale. Così, per esempio, se dico a qualcuno: “Hai agito male rubando queldenaro”, non sto dicendo nulla di più che se avessi detto semplicemente: “Hai ruba-to quel denaro”. Aggiungendo che questa azione è male, non faccio nessun’altraaffermazione in proposito. Vengo semplicemente a mettere in evidenza la mia dis-approvazione morale del fatto. È come se avessi detto “Tu hai rubato quel denaro”,con un particolare tono di ripugnanza, o lo avessi scritto con l’aggiunta speciale dialcuni punti esclamativi. Il tono di ripugnanza o i punti esclamativi non aggiungononulla al significato letterale dell’enunciato. Servono solo a mostrare che in chi parlal’espressione dell’enunciato si accompagna a certi sentimenti»30. È ancora tale auto-re ad elaborare in nuce la tesi dell’inesistenza dei disaccordi morali31. Le conclusio-ni ayeriane sulla necessità di subordinare l’etica ai metodi delle scienze della mentee delle scienze sociali (Ayer 1961, 145) ricordano vivamente moniti e indicazioni vai-latiani in merito alla convenienza di studiare i meccanismi mentali investiti dellacostruzione delle così dette «tavole di valori» di nietzscheiana memoria.L’emotivismo radicale di Ayer è moderato in seconda battuta dall’intervento dell’e-motivismo combinazionista stevensoniano; aderendo alla tesi mooriana secondocui all’interno dell’everyday life sarebbe assurdo sostenere l’inesistenza di concretidisaccordi morali, Stevenson formula una definizione di “disaccordo” basata sulladistinzione tra disagreement in belief e disagreement in attitude32. Per Stevensonfondamento dei disaccordi morali è innanzitutto il «disaccordo di tendenze»33. Leenunciazioni morali, come in Hare34, sono combinazioni di costituenti diversi: unelemento descrittivo e un elemento emotivo; vista l’eccellenza dell’elemento emo-

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L’esistenza di tale tesianalitica è riconosciutaanche in MACKIE (2001)e in WILLIAMS (1987, 165ss).

29 Tra tutti si veda il casodel Wittgenstein iniziale.Questo autore scrive«[…] ora vedo comequeste espressioni privedi senso erano tali nonperché non avessi trova-to l’espressione corretta,ma perché la loro man-canza di senso era laloro essenza peculiare.Perché, infatti, con esseio mi proponevo propriodi andare al di là delmondo, ossia al di là dellinguaggio significante.La mia tendenza e, ioritengo, la tendenza ditutti coloro che hannomai cercato di scrivere eparlare di etica o di reli-gione, è stata di avven-tarsi contro i limiti dellinguaggio» (WITTGEN-STEIN 1967, 18). Percostui l’etica all’internodi un orientamento refe-renziale della semanticaè un discorso senzasenso.

30 Cfr. AYER (1961, 136). Ilcentro dell’emotivismoradicale di Ayer consistenell’asserzione di cometermini enunciazioni ediscorsi etici non sianoaltro che comunicazionidi interiezioni cariched’emozione.

31 Ayer scrive: «[…]Sosteniamo che in realtànon si discute mai diquestioni di valore. Puòessere che a prima vistaquest’ultima suoni unaasserzione molto para-dossale. E’certo che lagente si impegna di fattoin dispute comunementeconsiderate relative aquestioni di valore. Ma

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tivo o tendenziale sull’elemento descrittivo o credenziale termini, enunciazioni ediscorsi morali, a detta di Stevenson35, non saranno suscettibili di conoscenza.Stevenson, a differenza di Ayer, si avvia sul cammino dell’insensatezza senza calcarela strada dell’inesistenza dei disaccordi morali. Funzione del discorso morale è,come in Vailati, comunicare emozioni ad un destinatario, causandone una reazioneemotiva36.L’idea della inconoscibilità delle enunciazioni morali, la tesi dell’inesistenza dei dis-accordi morali o almeno la netta distinzione tra disaccordi di credenza e di valore,e l’attribuzione ai discorsi morali di una illocutorietà emotiva e sentimentale sonoelementi atti a costituire un trait d’union evidente tra tradizione di ricerca vailatia-na e un buon numero di autori del movimento analitico novecentesco. Benchéall’interno di un contesto tanto frammentato come l’orizzonte meta-etico novecen-tesco, non riesca a consolidarsi una decisiva conformità teoretica tra riflessione vai-latiana e intero movimento analitico, si assiste all’interesse di entrambe le tradizio-ni di ricerca verso i temi comuni della conoscenza morale, della illocutorietà e del-l’esistenza dei disaccordi morali. L’esistenza di una comune curiosità meta-etica èsintomo di una certa continuità culturale tra tradizioni diverse. Vailati e Calderonirestano analitici ante litteram con riserva. Mentre è caratteristico dell’intera analitica esordiente sacrificare etica descrittiva enormativa alla valenza meta-etica dell’analisi, i due italiani «simili in questo a falcia-tori», asservono l’analisi meta-etica alle conclusioni scientifiche dell’etica.Precorrendo la svolta etica connessa alla crisi interna al mondo dell’analitica dellaconcezione anti-metafisica dell’universo, i nostri due autori sia all’interno dei lavorietici calderoniani (Du rôle de l’évidence en morale (CALDERONI 1904a, [vol.I, 205-206]); De l’utilité “marginale” dans les questions d’etìque (CALDERONI 1904b,[vol.I, 207-208]); Disarmonie economiche e disarmonie morali) sia nelle recen-sioni vailatiane a tali studi, riconoscono come l’attività dello studioso di morale nonsi esaurisca nell’analisi dei o sui discorsi morali. Vailati e Calderoni ammettono cheal di fuori della meta-etica sussistano tre ulteriori rami della ricerca etica (meta-teo-ria etica; etica descrittiva; etica normativa)37. La meta-teoria etica è intesa come dis-corso sulle funzioni e sullo statuto dell’etica; etica descrittiva ed etica normativasono intese come discussioni sul funzionamento effettivo e ideale di sistemi mora-li. La scienza etica – a detta di Calderoni38- sottende uno statuto analitico/descritti-vo e normativo soft, è caratterizzata da un modello di analisi economicistica delle“choses” umane indirizzato a rendere l’insieme delle tavole dei valori individualisimile ad un immenso mercato economico e si mantiene ad una certa distanza dakantismo e utilitarismo etici. La curiosità della tradizione analitica novecentesca èinvece diretta in via esclusiva verso meta-etica e meta-teoria etica, e sino allaRehabilitierung der Praktischen Philosophie analitica della metà del secolo scorso(Nozick; Baier; Gauthier; Nagel; costruttivismo korsgaardiano) v’è una totaledimenticanza di etica descrittiva e normativa all’interno del movimento39.Precorrendo interessi meta-teorici e meta-etici novecenteschi e mantenendo inva-riati interessi sette-ottocenteschi verso l'etica descrittiva (illuminismi e positivismi)e normativa (kantismo e utilitarismi), Vailati rivela una narrazione etica caratterizza-ta da autonomia ed innovazione. Più vicina alle conclusioni della Rehabilitierung derPraktischen Philosophie di tarda analitica americana e teoria critica tedesca, l’anali-si etica del pragmatismo italiano si mostra come un moderato correttivo nei con-fronti di alcuni cliché etici del movimento analitico meno recente.

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esaminando la situazio-ne più da vicino in ognicaso del genere noi tro-viamo che la disputanon riguarda realmenteuna questione di valore,ma una questione difatto […]» (1961, 139).

32 Per una breve storiadella distinzione tra dis-accordi di credenza edisaccordi di tendenzaall’interno della riflessio-ne meta-etica stevenso-niana si veda innanzi-tutto l’accenno in STE-VENSON (1959) e succes-sivamente la riformula-zione in maniera siste-matica della medesimatesi nella sezione inizialedel libro di STEVENSON(1962).

33 Si consulti lo scritto ste-vensoniano The natureof ethical disagreementriedito in STEVENSON(1963)

34 Hare invece intendeun enunciato moralecome combinazione traun neustico direttivo eun frastico descrittivo.Per una chiara defini-zione dei termini descrit-tivo-valutativi si veda loscritto hareianoDescriptivism riedito inHUDSON (1969).

35 Cfr. STEVENSON (1962,71). Lo stesso C.S. Ninointuisce in toto talecaratteristica dualitàsemantica stevensonianadelle enunciazionimorali sostenendo:«Secondo Stevenson, ungiudizio morale come“questo è buono” potreb-be essere tradotto daquest’altro: io lo appro-vo, approvalo anche tu”.La prima parte avrebbesignificato descrittivo,ossia darebbe delle infor-

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4. Alcune conclusioni

Da una ricostruzione della collocazione dei nostri due autori nella storia della cul-tura moderna discendono i motivi della scarsa “fortuna” della tradizione vailatiana ecalderoniana all'interno dell'orizzonte culturale italiano novecentesco. Tale scarsafortuna ha come cause l'estremo inserimento vailatiano nel contesto della comuni-tà internazionale di studiosi d'inizio secolo scorso, e l'estrinsecazione di interessitanto moderni da non essere nemmeno intesi dall'arretrato e ristretto circolo acca-demico nazionale. Guardare fuori e avanti è una dimensione caratteristica dellariflessione culturale del pragmatismo italiano, non comune ad altre tradizioni diricerca ad essa coeve. Più che indirizzarsi all'estero o al futuro, la filosofia italiana d'i-nizio Novecento tende a chiudersi entro i confini nazionali (nazionalismo filosofico)o a ricercare in maniera scarsamente innovativa modelli anteriori e inattuali (con-servatorismo filosofico). Benché si riferisca alle interessanti meditazioni di Rosminie Gioberti, il trascendentalismo cattolico di Mamiani, Conte e Alfani, ne vanifica larilevanza teoretica, abbandonandosi a sterili discussioni sull'arte oratoria e a inutilisermoni moralistici (GARIN 1966, [vol. I, 1-2]). Il positivismo italiano, con Tarozzi,Troilo e Marchesini, tende a moderare naturalismo e meccanicismo deterministiciardigoiani mediante l'introduzione di un accorto umanesimo o riducendo tale dot-trina a mero metodo scientifico. L'idealismo meridionale di Vera, De Sanctis,Spaventa e le posizioni di altri autori meno rilevanti (Omodeo, Fazio Allmayer,Orestano, Guastella, etc.) sembra totalmente rivolto a conciliare storicismo vichia-no e idealismo tedesco; Croce e Gentile - i cui meriti internazionali devono rima-nere indimenticati -, nei loro neo-idealismi restano ancorati ad interessi e autori del-l'idealismo meridionale40. Le tradizioni di ricerca che rinunziano a nazionalismo econservazione e che si mostrano radicalmente innovative come il pragmatismo, l'ir-razionalismo di Michelstaedter, l'idealismo marxiano di Labriola o il modernismo,accolgono scarsi consensi all'interno dell'accademia italiana e saranno riconsiderateunicamente dalla metà del secolo scorso in avanti. Il pragmatismo italiano è inveceorientato verso l'Europa e oltre. Guarda fuori, creando e consolidando strette rela-zioni culturali con tradizioni di ricerca di matrice austro-tedesca (Mach e Brentano),francese (convenzionalismo), britannica (Russell e Welby) e americana (Peirce eJames). Guarda avanti, affrontando problemi nuovi e introducendo soluzioni carat-teristiche del successivo movimento analitico: Post-analytic Philosophy, new episte-mology, ermeneutica, contestualismo americano e teoria critica tedesca. In conclu-sione, la sensibilità verso tematiche e interessi assai recenti rende Vailati e Calderoniuomini del Novecento e autori molto vicini al movimento analitico novecentesco;necessità di un accostamento multi-culturale alle domande dell'uomo, ricerca dimodalità retoriche vicine allo stile delle scienze, riconoscimento della riflessività deldiscorso filosofico, intuizione della valenza clinica dell'analisi, idea della inaleticitàdelle enunciazioni morali e dell'inesistenza dei disaccordi morali, attribuzione divalore emotivo ai discorsi morali, si mostrano tutte caratteristiche atte ad includereVailati e Calderoni come iniziatori della successiva tradizione di ricerca analiticanovecentesca.Riconoscimento della mera introduttività della tecnica analitica, ricorso alla storiadelle scienze o al raffronto tra metodi diversi, attenzione verso contesto storico etradizione, e curiosità verso etica descrittiva e normativa sono invece caratteristicheatte ad inserirli a pieno titolo nella rilettura critica introdotta dal movimento recen-te contro idee e nozioni dell'analitica esordiente. Poco fortunata in Italia, la tradi-

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mazioni sull’atteggia-mento di chi parla, men-tre la seconda parte(“approvalo anche tu”)avrebbe un significatoemotivo, ossia sarebbevolta a suscitare un certoatteggiamento nell’inter-locutore» (NINO 1996,321-22).

36 Cfr. STEVENSON scrive:«[l’uso dei termini e delleenunciazioni eticiinnanzitutto] …is not toindicate facts, but tocreate an influence.Instead of merely descri-bing people’s interests,they change or intensifythem […]» (1959, 268).

37 La distinzione in baseall'uso tra etica normati-va, etica descrittiva emeta-etica è situazioneoramai consolidataall'interno della dottrinamoderna. Si veda NINO(1996, 311-312).Problema centrale dellameta-etica è – secondoNino- il dilemma dellafondazione razionale deivalori etici attraversoanalisi semantiche deitermini e delle enuncia-zioni etiche. Problemaessenziale dell’etica nor-mativa sarebbe invece ildilemma dell’indicazio-ne di criteri idonei avalutare norme e istitu-zioni. Problema centraledell’etica descrittiva infi-ne sarebbe il dilemmadella descrizione di valu-tazioni individualiall’interno di società inun dato momento stori-co. Problematica – suc-cessivamente alle criticherivolte da Quine alladistinzione analitico/sin-tetico inizia ad essereintesa la distinzione traetica normativa ed eticadescrittiva. Per unaesaustiva ricostruzione

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zione del pragmatismo italiano assume ruolo di trait d'union, oltre che tra positivi-smi e neo-positivismo, tra cultura americana e ante-analitica ottocentesche, in unasorta di contaminazione tra tradizioni diverse continuata nel secolo scorso conl'International Encyclopaedia of Unified Science tra strumentalismo americano(Dewey) e analitica (Wiener Kreis) o con la successiva riflessione rortyiana tra neo-strumentalismo americano (Goodman, Putnam) e analitica contestualista (Quine,Davidson, Sellars). Vailati, come Morris o Rorty, si presenta, dunque, come un abilee innovativo moderatore della tradizione analitica novecentesca.

Riferimenti bibliografici

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della situazione si vedaWHITE (1981, sez. I).

38 Cfr. CALDERONI (1906,[vol.I, 292]). La ricostru-zione dell'etica caldero-niana come una scienzaetica analitico/ descritti-va e moderatamentenormativa è comune aMORI (1979, 368 e 371).

39 Per determinate moti-vazioni storiche conside-rate in D’AGOSTINI(1995, 188) una similesvolta etica si manifestanello stesso momento indiverse tradizioni diricerca (Ermeneutica;Teoria critica; Post-strut-turalismo e Post-moder-nismo).

40 La relazione tra ideali-smo meridionale otto-centesco e neo-idealismonovecentesco – secondoGarin - è biunivoca.Come l’idealismo italia-no ottocentesco contri-buisce, con l’inizio delsecolo successivo, allafondazione del neo-idea-lismo italiano di Croce edi Gentile; così il neo-idealismo contribuiscealla riconsiderazioneculturale delle “dimenti-cate” riflessioni filosofi-che dell’idealismo italia-no ottocentesco. Garinscrive: «[…] se DeSanctis e Spaventa furo-no fattori importantissi-mi della formazione diCroce e di Gentile, essifigurano tra le compo-nenti più notevoli dellacoscienza italiana del‘900 attraverso il ripen-samento e la diffusioneche se ne ebbero sotto ilsegno, appunto, delCroce e del Gentile […]»(1966, [vol.I, 18]).

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1. Introduzione

Il 3 e 4 aprile 2005 si sono svolte, nelle regioni a statuto ordinario, elezioni il cuiinequivoco esito a favore della coalizione di centrosinistra ha consentito, retro-spettivamente, di interpretarle come la più credibile anticipazione delle inten-zioni di voto che nel 2006 hanno fatto maturare la vittoria dell’Unione guidata daRomano Prodi (Sani 2006, 49).A dir la verità, la risicata affermazione della coalizione sorta dalle ceneri dellaGrande Alleanza Democratica (GAD), ben lungi dal potersi addebitare al gap noncolmato rispetto al dinamismo mediatico di Berlusconi, per un verso ha imme-diatamente problematizzato i successi nelle realtà precedentemente amministra-te dalla Casa delle Libertà (CdL) (Piemonte, Liguria, Lazio, Puglia, Calabria,Abruzzo), d’altro canto, sopite le polemiche strumentali, impone di rileggere gliavvenimenti con superiore distacco e obiettività. Il caso della Puglia si presenta emblematico soprattutto perché maturato avendoalle spalle il travagliato esperimento da parte dello schieramento infine risultatovincente di convocare elezioni primarie aperte alla base elettorale per la sceltadel candidato Presidente, e perché il risultato scaturito il 16 gennaio 2005 ha evi-denziato segnali di continuità, ma altresì di rimarchevole frattura, nel bene e nelmale, con l’atmosfera condensata nella cosiddetta “primavera barese”, trasfor-mata, vedremo nel paragrafo terzo quanto a torto oppure se a ragione, in “pri-mavera pugliese”.Insomma, intendiamo con il presente contributo concorrere a (ri)definire i trat-ti maggiormente interessanti e innovativi della mobilitazione registrata in occa-sione delle primarie pugliesi, anticipazione di quelle poi svoltesi per indicare inProdi il legittimato candidato alla Presidenza del Consiglio, inserendone l’eventoall’interno di un ciclo elettorale favorevole al centrosinistra sin dal 2004 e valu-tando se e in che misura l’effetto mobilitante si sia riverberato sugli orientamen-ti elettorali dei pugliesi nel 2005 e nel 2006.

2. La crisi del metodo negoziale tra partiti

Il crollo della cosiddetta “Prima Repubblica”, Repubblica dei partiti (Scoppola1997), e le trasformazioni intervenute in questi ultimi anni in un quadro politico

Alessandro Lattarulo

Le stagioni della PugliaDalla primavera delle primarie all’autunno delGoverno regionale

Borderline

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Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia

che sembra suggerire un’infinita e incompiuta transizione, ha reso centrale iltema della selezione dei candidati alle cariche elettive. In particolare, il sistemauninominale maggioritario di collegio impiegato nelle elezioni parlamentari del1994, 1996 e 2001, con il suo corollario di quota proporzionale da ripartirsimediante voto attribuito a liste bloccate con soglia di sbarramento del 4% (masolo per la Camera), diventata poi la base per la riforma approvata alla vigiliadelle elezioni del 2006, ha evidenziato che la selezione dei candidati da sotto-porre al giudizio degli elettori transita, alternativamente, per le trattative dei ver-tici partitici e le lunghe negoziazioni interne alle singole forze, con un coinvolgi-mento della base militante, tra l’altro in perniciosa contrazione, pressoché nullo.Detto altrimenti, l’annosa crisi del metodo negoziale tra partiti oggi inacidisce lapropria portata rispetto al passato non soltanto per il loro più defilato ruolo, perla loro debilitata credibilità, ma perché, laddove vi è una carica per la quale ilcorpo elettorale è chiamato a pronunciarsi direttamente, crescono le aspettativeda parte dello stesso di poter far convergere la propria indicazione su un candi-dato di valore. In tale ottica, una sola soluzione appare dotata della virtù di arre-stare l’accartocciamento in scelte debolmente in sintonia quanto meno con labase elettorale di riferimento e sorde a ogni istanza di apertura verso nuovi set-tori della società civile, al fine di infrangere l’avvitamento intorno a pratiche distanca perpetuazione di equilibri oligarchici, di classi politiche aliene dall’ideastessa di una salutare circolazione: quella di allargare il gruppo di persone chia-mate a scegliere il candidato (selectorate),chiamando in causa la base degli iscrit-ti o addirittura tutti i simpatizzanti, stabilendo preliminarmente regole che disci-plinino tale accesso al voto (Giaffreda 2006, 135).Senza lasciarsi tentare da frettolose comparazioni con l’esperienza degli StatiUniti d’America, dove, come è noto, risulta più efficacemente oliato il meccani-smo della selezione mediante il coinvolgimento della base dei candidati alle prin-cipali cariche elettive, non appaia un appiattimento su grammatiche ingegneri-sticamente soffocatrici del dibattito più squisitamente politico l’accurato disci-plinamento di un momento di consultazione quale le primarie si propongono diessere, giacché, dall’individuazione dei seggi alle modalità per rendere pubblicala propria candidatura, tutto può concorrere a favorire scelte in un senso o nel-l’altro, come del resto efficacemente evidenziato, per l’esperimento pugliese, daalcuni studi (Milella 2005; Gangemi-Gelli 2006).Va senza indugio rifuggita l’illusione che le primarie, elevate a trait d’union tra leaspettative partecipative dei girotondi, delle liste civiche, dei movimenti dei con-sumatori, possano esaurire le esigenze di rinnovamento del sistema politico chein tutte le proprie componenti raccoglie sentimenti di sfiducia pericolosamentediffusi, mettendo a repentaglio l’accettazione dei paradigmi liberal-democratici.Come infatti rimarcato da Giuseppe Cotturri, l’entusiasmo, pur comprensibile,per un pionieristico esperimento mobilitante come quello delle primarie, mani-festa “scontentezza e effervescenze diffuse” (Cotturri 2005b, 28), a cui non sioffre una risposta che scuota il primato dei poteri delegati, ma semplicementeuna chance d’intervento sulla costituzione di rappresentanze istituzionali. Evocando una forma più alta di democrazia meramente sul piano rappresentati-vo, si rischia di rimanere impigliati nell’equivoco appostato dietro l’obiettivo direndere efficacemente complementari poteri popolari diretti e sistemi di rap-presentanza, mentre il malcontento registrato da tutte le rilevazioni indichereb-

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be piuttosto che il tessuto connettivo per rigenerarli deve essere fornito da un’al-tra componente di sistema, che le esperienze di cittadinanza attiva avrebberoreso sufficientemente matura: la democrazia partecipativa, specialmente in ambi-to locale, dove timidi esperimenti di stampo consultivo hanno ormai fatto il pro-prio tempo (Cotturri 2005b, 28, 38).Se lo schema che contempla forme compiute di democrazia partecipativa puòforse suscitare le perplessità di coloro i quali, sebbene rimangano distanti da sci-volamenti oligarchici, intravedono nella limitata qualificazione dell’opinionepubblica ad affrontare problemi tecnologici complessi (inadeguatezza della com-petenza civico-deliberativa; Privitera 2001, 155) e nella ridotta disponibilità ditempo del cittadino medio una delle ragioni portanti dell’idea stessa di rappre-sentanza elettorale, non possono dimenticarsi gli sforzi compiuti da chi nelle pri-marie ravvisa almeno una leva per incidere sulle pretese della classe politica, sulsuo arroccamento attorno a posizioni di potere persino in spregio ai risultaticoncretamente conseguiti dal partito o dallo schieramento, costringendola a unconfronto più serrato con le idee e i sentimenti della base.Entro tale cornice si inserisce lo schema di primarie elaborato da GianfrancoPasquino già all’indomani della sconfitta patita dall’Ulivo nel 2001, per accelerareun processo di ravvivamento e rinnovamento programmatico in previsione dellescadenze elettorali per cariche monocratiche amministrative a vario livello(Pasquino 2002b). Esperienza di mobilitazione concepita dall’accademico la cuisorgente viene individuata nell’esplicita richiesta in tal senso di un numero di fir-matari ragionevolmente congruo (un centinaio), e che, sulla scorta di quanto veri-ficato nel corso degli anni al di là dell’Atlantico, svolge almeno quattro funzioni:a) una funzione esplicita, costitutiva, consistente nello scegliere il candidato allacarica per la quale si è reso possibile, utile e necessario consentire all’elettoratodi esprimersi direttamente e decisivamente;b) una funzione di sollecitazione e mobilitazione dell’elettorato, in special modose politicamente attento e consapevole;c) una funzione consistente nel favorire la critica all’incumbent, al titolare dellacarica, non risultando sufficienti, non da ultimo perché prive di spettacolarità,quelle mosse nelle sedi congressual-parlamentari. Dopotutto, qualora non siaprevisto esplicitamente un limite al numero dei mandati, la circolazione delle lea-dership, e soprattutto la creazione di precondizioni che garantiscano la qualitàdelle leadership stesse, non può prescindere dal conferimento agli elettori delpotere di scegliere non soltanto rappresentanti e governanti, ma anche coloroche ambiscono a diventare rappresentanti e governanti, quest’ultimo costituen-do un interrogativo democraticamente altrettanto rilevante di quello condensa-to nel classico “quis custodiat custodes?” (Pasquino 2006, 24);d) una funzione di proposizione programmatica, la maggior parte delle volte gra-duale, di temi e soluzioni, offrendo la possibilità di incominciare a valutare e son-dare le reazioni degli elettori, non soltanto quelli del proprio schieramento, conil fondamentale corollario di scremare le candidature, eliminando chi, ancorchéapprezzabile e moralmente probo, si dimostri ricettore di un consenso eccessi-vamente ristretto già all’interno dei sostenitori di un partito o di una coalizione.L’electability si erge pertanto immediatamente a fattore discriminante, a condi-zione necessaria per poter entrare nella fase della campagna elettorale nutrendoragionevoli possibilità di vittoria (Pasquino 2004).

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Alessandro Lattarulo Le stagioni della Puglia

3. L’intempestività della Puglia

Per inquadrare l’onda lunga nella quale si inserisce l’esito delle primarie e delleelezioni regionali è necessario compiere il proverbiale passo indietro, quantomeno cercando di intuire se i più rilevanti risultati maturati nella tornata ammi-nistrativa del 2004, contestuale alle elezioni per il rinnovo del ParlamentoEuropeo, costituiscano la traduzione elettorale delle intenzioni di rinnovamentoinnescate dalla cosiddetta “primavera pugliese”.Uno sguardo alla storia politico-sociale recente della Puglia conferma effettiva-mente la sua natura intempestiva, l’inclinazione quasi antropologica ad arrivaretardi sulla palla (Romano 2005, 218). Si pensi che il suo capoluogo, Bari, ha sal-tato a pie’ pari la stagione aurea dei “nuovi Sindaci”, vivendo una breve e inten-sa parentesi di fermento civico solamente nel 2004, quando il rinnovamento del-l’amministrazione comunale è coinciso con l’impossibilità per il primo cittadinouscente di ricandidarsi e con la convergenza dell’opposizione di centrosinistra sudi un candidato sostanzialmente imposto ai partiti dalla società civile, ancheattraverso il decisivo ricorso a una Convenzione che nel noto magistrato localeMichele Emiliano ha scrutato i lineamenti di un personaggio in grado di dialoga-re tanto con la borghesia quanto con i ceti popolari delle periferie più degrada-te. Tale duttilità, nemica della chiusura nella classica turris eburnea, ha di primoacchito stimolato, non aiutato a rifuggire, le perplessità di chi lo vedeva in odoredi antipolitica e con un’immagine pubblica esplicitamente ritagliata sul contornodi uomo d’ordine, di Sindaco-sceriffo alla Rudolph Giuliani1, che nell’incaricoamministrativo avrebbe senz’altro saputo trasferire gli apprezzamenti colleziona-ti in ambito professionale nella lotta contro la criminalità organizzata (Cozzi2005, 74-76). A difesa di Emiliano, del suo sforzo di diventare orecchio sensibiledella città, malgrado alcune riserve non pienamente chiarite sulla stampa locale,si schierarono immediatamente i principali rappresentati della società civile,preoccupati piuttosto che i partiti potessero e volessero bloccarne l’azione,rivendicando quote di potere variamente distribuite, incrinando di conseguenzaquel rapporto con la gente lentamente edificato sul dialogo, sconosciuto alla pra-tica politica della nuova sinistra al punto da essere impropriamente confuso perpopulismo (Cassano 2004).Bari aveva mancato il turno di rinnovamento rintracciabile nella rinascita dimolte città del Mezzogiorno, non certamente per aver scelto, in controtendenzacon il resto d’Italia, un primo cittadino espressione dello schieramento di cen-trodestra, bensì per aver sonnecchiato anche di fronte allo sfaldamento del siste-ma di potere che nel contesto urbano riproduceva gli equilibri della PrimaRepubblica, e per aver poi riposto un po’ acriticamente fiducia in Di CagnoAbbrescia, figura estranea alla vita politica, ma imprenditore sollecitato a candi-darsi dal “Ministro dell’Armonia” Tatarella, missino di lungo corso ritrovatosi aereditare, gestendolo sapientemente anche per i ritardi organizzativi di ForzaItalia sul territorio, il patrimonio elettorale della defunta DC e degli altri partiticonservatori.Laddove il 1993 aveva rappresentato per quasi tutte le metropoli italiane l’occa-sione per porre fine a esperienze amministrative edificate sulla corruzione, sullacollusione con la criminalità organizzata, sulla rottura della formula penta o qua-dripartitica, a Bari, anche a causa di un più ovattato susseguirsi di scandali, il

1 Convinzione stata rafforzata dall’essere

stato proposto come candidato anche daAlleanza Nazionale.

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Consiglio comunale eletto nel 1990 si trascinerà convulsamente fino alla scaden-za naturale del mandato, esercitandosi in rapsodici tentativi di apertura al PCI-PDS e ai Verdi, resi possibili soprattutto per gli sforzi dell’ala sinistra dellaDemocrazia Cristiana. Nel 1995, dunque, in una città che sin dall’anno prima hapotuto reinterpretare la propria anima conservatrice e pragmatica senza le ormaifuorvianti etichette di partiti (specialmente quelli laici) assai distanti dall’origina-rio patrimonio valoriale, le elezioni comunali giungono in un clima di “normali-tà”, senza aver alle spalle particolari richieste popolari, ma quasi come se si trat-tasse di conferire nuova morfologia politica a quanto acceduto nei mesi prece-denti. Stabilizzando, insomma, le posizioni rivendicate dal melmoso “partito deiparvenu”, formato dalle seconde e terze linee delle forze azzerate daTangentopoli (Romano 2003, 111). In tale atmosfera, che si prolunga nel tempo,favorendo nel 1999 la rielezione trionfale di Di Cagno Abbrescia, appare forzatala lettura di chi riconduce già a quegli anni lo sviluppo di un inedito fervore civi-le, invero esteso anche ad altre zone della regione, ma che a Bari avrebbe segna-to la traduzione in atto dell’accumulo lento e progressivo di un sentimento difrustrazione di una fetta dell’opinione pubblica, profondamente turbata da unastraordinaria sequenza di eventi drammatici, a partire dall’incendio doloso delTeatro Petruzzelli nel 1991 (Cassano 2005; Chiarello 2005).Episodi senza dubbio laceranti, ma che, nonostante gli esempi forniti da altre real-tà cittadine (a Venezia il teatro “La Fenice”, andato in fumo nel 1997, viene rico-struito a tempo di record), tardano a scuotere l’immobilismo della società civilelocale, ristretta nel numero e debolmente sensibile a una cultura non occasiona-le dei beni comuni. E anzi, l’impropriamente magnificata alba della “primavera”che si affaccerà nel 2004, resa possibile da Giunte parzialmente anomale comequella del democristiano Dalfino nel 1990-‘91 e del pidiessino Laforgia nel 1993,ritardano colpevolmente le pressioni esercitate per lo scioglimento anticipato delConsiglio comunale, zeppo di personaggi plurinquisiti e ridotto a un immobili-smo testimoniato nella ridottissima durata di Giunte affastellate senza logica2.A ben vedere, allora, la grammatica dei luoghi ridiventa materia di studio quan-do la Giunta Di Cagno Abbrescia, inizialmente a cifra rotondamente tecnica e poidai notevoli inserti politici dopo la crisi del “secondo anno”, sfrutta adeguata-mente i fondi statali stanziati per i Giochi del Mediterraneo previsti nel 1997 perdotare la città di impianti sportivi all’avanguardia, e fondi europei per ripensarela città vecchia, rendendola pedonale e riaprendo a una più serena opportunitàdi passeggio le piazze limitrofe al quartiere murattiano (Di Cagno Abbrescia2004). Forse adagiandosi sul mimetismo nei confronti di assai più celebri esem-pi di movida notturna, ma comunque segnando una svolta rispetto ad atavichelentezze amministrative.Certo, particolarmente in coincidenza con il secondo mandato (1999-2004), ilpasso della Giunta Di Cagno Abbrescia, nonostante il tentativo di indicare unacontinuità nell’azione e nelle competenze dei singoli componenti, si fa più incer-to, inciampando su temi, come quello di Punta Perotti, che ne screditano l’azio-ne pubblica e, anche al di là della superficialità dello sguardo dei media, sempretentato dal sensazionalismo, favoriscono l’affioramento di comitati e associazio-ni la cui attività si incentra su singole issues, legate essenzialmente alla qualitàdella vita e dello sviluppo urbano (Chiarello 2005, 151). A tematiche, insomma,ambientali anche in senso lato e aventi per oggetto beni immateriali comuni,

2 Nel decennale dellascomparsa di PietroLeonida Laforgia, ancheil Sindaco MicheleEmiliano indicherà nel-l’esperienza di quell’av-vocato socialista suigeneris, che aveva imma-ginato di traghettare la“Bari da bere” verso unnuovo modello di città, ilprimo vagito della pri-mavera che egli tenta diincarnare (Emiliano2005).

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quelli sui quali la classe dirigente locale, spesso per la presenza di conflitti di inte-resse – riguardanti in primis lo stesso Di Cagno Abbrescia –, non aveva volutointervenire, preferendo garantire, secondo canoni sviluppisti sorpassati, il siste-ma economico a essa più intimamente collegato3. La diffusione dell’associazioni-smo a Bari contrasta palesemente con la tesi di Banfield sul familismo amorale(Banfield 1976) e avvicina il Mezzogiorno alle altre aree del paese, favorendo unprocesso di omogeneizzazione culturale (Chiarello 2005, 155-156). Invero, comerilevato dagli stessi magnificatori di tale cambiamento, determinanti sono risul-tati fattori di contesto abbastanza trasversali a tutto il Mezzogiorno, consistentinell’incremento di risorse discrezionali (livello di istruzione e di reddito) dispo-nibili ad alcune categorie particolarmente interessate al rinnovamento sociale.Con la differenza che una simile propensione all’azione collettiva ha trovato lie-vito in una favorevole “struttura delle opportunità politiche” che a Bari puòricondursi esclusivamente a un capitale associativo costituito da soggetti spessointeressati a intervenire sulle fradice strutture di sbocchi professionali (e cioèeconomici) locali, senza invece trovare sponde dialoganti sul versante politicotout court, popolato da soggetti sconosciuti ad ampia parte della cittadinanza eincapaci, con iniziative di opposizione e proposizione, di ritagliarsi un qualsiasiruolo pubblico malgrado lo sbarco in regione delle grandi testate nazionali(Corriere della Sera e Repubblica), che attraverso le edizioni locali, pur tra milleambiguità, hanno spalancato ai pugliesi nuove finestre per la costruzione di unacoscienza di luogo, scardinando i tradizionali monopoli informativi legati a filodoppio con i poteri costituiti e a essi funzionali.Se la primavera pugliese che sboccia nel 2004 ricorda da vicino quella vissuta aPalermo e a Catania (e che replicava compiutamente la breve esperienza di fineanni Ottanta), a Napoli, a Salerno, nel capoluogo barese essa si poggia senz’altrosui meriti delle associazioni di cittadinanza attiva (si pensi a “Città plurale”), mal’altrimenti determinante freno dei partiti viene travolto da variabili esogeneinfluenti in ugual misura rispetto a quelle endogene.Con le prime intendiamo riferirci alla crisi del Governo Berlusconi, all’erosionedel consenso mietuto da Forza Italia nel 2001, indicatrice della predisposizionedi molti elettori a votare altrimenti, se posti dinanzi a una credibile offerta politi-ca della coalizione di centrosinistra (Persichella 2004). Segnalando che, lungi dalpoter essere sbrigativamente ascritta alla destra, pur radicata in molte zone, Barilascia trasparire un opportunismo filo-governativo poco incline a sposare unacausa per ragioni ideali e con fedeltà matrimoniale. Se a ciò si aggiunge, semprerimanendo nel recinto delle predette variabili esogene, l’impossibilità per DiCagno Abbrescia di sfruttare il fattore incumbency, presentandosi per un terzomandato consecutivo, l’evanescenza del candidato designato dal centrodestra asuccedergli, nonché il ritardo nell’ufficializzazione del suo nome rispetto allostrabordante anticipo con cui si era mosso Emiliano, forse si libera da un’auramiracolistica la vittoria di quest’ultimo al primo turno, accompagnata dall’exploitdella lista civica di sostegno chiamata con il proprio nome a forza più suffragataper il Consiglio comunale. Non che le variabili endogene abbiano ricoperto unruolo trascurabile, ma lo schema della campagna elettorale, mutuato dalle azio-ni dell’associazionismo locale con i “cantieri d’ascolto”, i “forum tematici” ecc.,ha sperimentato forme di coinvolgimento diretto della società civile persinonella definizione del programma, potendo contare anche su strumenti comuni-

3 La “saracinesca” sortasul Lungomare all’altez-

za di Punta Perotti, e poiabbattuta in più riprese

nel corso del 2006, eraun complesso di palazzi

costruiti in violazionedella distanza minima

dalla costa per operadell’impresa edile dei

Matarrese, famiglia pro-prietaria del Bari calcioe di cui è conosciuta la

carriera politico-dirigen-ziale di Antonio, a lungodeputato dello scudocro-

ciato, poi approdatoall’UDC dopo una fulmi-nea sosta in Forza Italia,

e tornato qualche mesefa al timone della Lega

Calcio di serie A e B.

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cativi quali ancora non si erano visti in città per le precedenti elezioni. A dimo-strazione, quindi, dell’imprescindibilità del ricorso a un’efficace e capillare impe-gno pubblicitario, che amplifica la propria capacità di penetrazione nell’elettora-to, specialmente in quello meno fidelizzato, se coadiuvato dalla garanzia offertadal candidato di mantenere, soprattutto in caso di successo, quell’estraneità aipalazzi del potere e al personale politico che gli consentono di domandare ilvoto senza lasciarsi ingabbiare da etichettature partitiche eccessivamente marca-te, e anzi solleticando il potere decisionale dei singoli con spot televisivi in gradodi veicolare messaggi semplici attraverso coinvolgenti tormentoni.Particolarmente azzeccato, anche perché ampiamente concessivo alla resa dia-lettale dell’italiano, quello del “Metti a Cassano !”, ambientato in una modestaabitazione nella quale i membri di una famiglia stanno assistendo con entusia-smo a un incontro di calcio trasmesso in televisione. La telecamera inquadra unaparete dove spicca San Nicola, un’immagine monarchica (!), dei girasoli (i cuisemi saranno distribuiti nei mercati dai volontari dei comitati) e una fotografia diMario Mancini, noto e amato attore del teatro vernacolare barese, fra i protago-nisti dello spot. Gli spettatori gridano a squarciagola “Metti a Cassano!”, afferma-to talento calcistico cittadino allora in forza alla Roma, chiaramente rivolgendosiall’allenatore, presunto colpevole per l’andamento non brillante del match, ilquale, nonostante tutto, tergiversa nel dare un’opportunità al giovane calciatore,come viceversa suggerisce essere finalmente possibile lo slogan: “Questa voltascegli tu chi mettere in campo”. In occasione delle elezioni, cioè, puoi fungeretu elettore da allenatore, schierando la formazione secondo te migliore, votandoil Cassano della situazione, vale a dire Emiliano, schierandoti a favore di Bari,come suggerito tra l’altro dai manifesti 6x3 (Bitetto 2005, 133).La società civile barese si attiva dunque sulla fiducia nei confronti di un perso-naggio che rivendica al proprio curriculum professionale l’abitudine e quindi lacapacità di stare in mezzo alla gente, facendosi megafono di un messaggio attra-verso cui si critica il monopolio degli interessi privati, che anche Lobuono incar-nerebbe, in quanto imprenditore schiettamente intenzionato a fungere da con-tinuatore della linea sposata da Di Cagno Abbrescia, ma con il quale la polemicanon è mai inasprita, anzi ostentando un’amicizia e una confidenza (Emiliano lochiama sempre con il diminutivo “Gigi”) che stemperino e archivino i timori dichi, tra i ceti benestanti cittadini, non nasconde perplessità circa l’estraneità delcandidato di centrosinistra a certi ambienti e a certe convenzioni.

4. L’onda della primavera

Conseguito l’inaspettato risultato di Bari, e vedendolo coincidere con la conqui-sta di tutte le cinque amministrazioni provinciali, con il Municipio di Foggia e conuna discreta rimonta nelle europee che conduce i due schieramenti a fronteg-giarsi da vicino, l’onda della primavera pugliese ambisce al traguardo delle ele-zioni regionali fissate per l’aprile del 2005.La sfida viene individuata nel capitalizzare il favorevole trend nazionale e la spin-ta propulsiva che le nuove amministrazioni avrebbero saputo garantire, quantomeno sotto il profilo d’immagine, rispetto alla gestione verticistica del potere dicui Fitto si stava rendendo protagonista, oscillando tra la tentazione di cercare

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democristianamente il consenso anche a scapito della fluidità amministrativa el’appiattimento su di un’immagine berlusconiana, con la propria giovane etàmessa al servizio di ripetute e pubbliche dichiarazioni di stima del Cavaliere, dis-posto a riconoscerne la centralità a livello nazionale senza mortificarne l’autono-mia, ma indisponibile a garantirgli una ribalta a costo zero, come accadde quan-do lo indicò quale sua “protesi” in Puglia, non da ultimo per ricordare al giovanepolitico che le sue eclatanti affermazioni personali (come quella alle europee del1999) non erano riconducibili esclusivamente al carico di preferenze “personali”,ma andavano tarate sul valore aggiunto del simbolo di Forza Italia, del qualeFitto, sebbene strumentalmente, si era servito.Figlio di un politico democristiano salentino di primo piano, Salvatore, prematu-ramente deceduto a causa di un incidente stradale nel 1988 quando eraPresidente della Giunta Regionale, Raffaele Fitto aveva raccolto l’eredità paternagià nelle elezioni del 1990, ricoprendo persino una carica assessorile, diventandopoi nel 1995 Vice Presidente del tecnico Distaso e, terminata per consunzione taleesperienza, trovando la convergenza del Polo sulla sua candidatura nel 2000 conla scena politica ormai stabilizzata nei suoi connotati. La strategia tatarelliana di“andare oltre il Polo” raccogliendo organicamente attorno al centrodestra unaparte delle professioni intellettuali che altrimenti sarebbero rimaste senza casa oaddirittura si sarebbero avvicinate allo schieramento avverso, aveva dato i proprifrutti, e la parentesi del docente universitario Distaso poteva lasciare il posto auna guida classicamente politica, attraverso la quale Forza Italia rivendicasse, fortedel responso delle urne, quella primazia che AN, in linea con i risultati in tutta lapenisola, non era riuscita a conservare dopo gli exploit del ’94-’95. Nel 2000, tra l’altro, si procede per la prima volta all’elezione diretta delPresidente della Regione (mentre nel 1995 il suo nome era solamente indicatoassociandolo a uno schieramento), in base a quanto previsto dalla legge n. 1/99,sprezzantemente definita “tatarellum” da Giovanni Sartori. Fitto, molto più capa-ce di organizzare la campagna elettorale rispetto al suo competitor Sinisi, vincecon largo margine, ma la sua affermazione, in sintonia con l’esito complessivodelle elezioni, che provocano a Roma le dimissioni di D’Alema dalla Presidenzadel Consiglio, risulta parzialmente offuscata da un preoccupante calo nei votan-ti, in caduta libera da anni, che a stento riesce a superare il 70 %, contraendosidi 5,6 punti percentuali rispetto al 1995 (Lattarulo 2000).Nel 2005 si tratta per il centrosinistra di catalizzare il malcontento generato dallariforma sanitaria e dal nuovo piano ospedaliero, passi compiuti dalla Giunta dicentrodestra in direzione di una razionalizzazione delle risorse umane ed econo-miche, ma dall’altissimo costo sociale, costringendo sia alcune centinaia di ope-ratori sanitari a compiere lunghi spostamenti per raggiungere il posto di lavoro,sia prevedendo la chiusura di reparti e strutture che avrebbero costretto la popo-lazione a degenze lontano da casa. Non c’è semplicemente l’esplosione di unaprotesta che a Fitto, in qualità di incarnazione simbolica delle politiche della CdL,rimprovera di ridurre aziendalisticamente un servizio sociale fondamentale entroangusti binari di compatibilità con i princìpi dell’efficienza di mercato. Infatti, leproteste che si sviluppano spontaneamente, spesso senza trovare supporto poli-tico nell’opposizione consiliare, sfidano la maggioranza soprattutto sul terrenodel mancato coinvolgimento delle parti sociali e delle organizzazioni del terzo set-tore, obiettando pubblicamente che perdono di credibilità le prese di distanza nei

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confronti del governo nazionale su provvedimenti sfavorevoli alla Puglia, peggioquando adottati su pressione della Lega Nord, se lo stile decisionale viene poiintegralmente mutuato da quello nazionale, scavando fossati di dimensioni cre-scenti persino tra l’esecutivo regionale e la maggioranza dei consiglieri.Problema molto simile a quello verificatosi a Bari, che lascia incancrenire unadelle più gravi contraddizioni del caracollante sistema politico esistente. Nellamisura in cui esso è composto da forze con debole collante ideologico e pro-grammatico, e soprattutto nella misura in cui l’inadeguatezza a raccogliere, riela-borandole, le istanze di determinate categorie sociali conduce alla creazione diliste locali, provinciali, regionali, la subordinazione delle assemblee all’esecutivopatisce più che la separazione dei poteri in sé, la difficoltà per gli eletti senza sta-bili riferimenti politici alle spalle di tutelare gli interessi degli elettori senza sca-dere nella difesa di egoismi microlocalistici o corporativi. Tali interessi non pos-sono infatti essere ragionevolmente utilizzati come merce di scambio con il tito-lare della carica monocratica, salvo esporlo all’esplosione di una lunga serie dirichieste di pari portata, che ne minerebbero l’autorevolezza, fondamentale dotein presenza di un congegno elettorale che permette il voto disgiunto, ossia lapossibilità per l’elettore di scegliere il candidato Sindaco o Presidente delloschieramento A e un partito di quello B, legando tuttavia l’esito delle elezioni allaperformance del candidato, non a quella dei partiti.Ecco in che senso, negli ambienti dei militanti di base del centrosinistra, e soprat-tutto della galassia di associazioni ricreative e ambientaliste, si stava facendolargo la convinzione che per battere Fitto fosse necessario un nome che evocas-se un profilo diametralmente opposto a quello del Governatore in carica, per dipiù favorito da una cospicua disponibilità di risorse economiche, personali ecoalizionali, che gli avrebbero consentito di sostenere l’urto di una campagnaprotratta per mesi.Un solo nome avrebbe probabilmente tacitato il malcontento serpeggiante: quel-lo di Vincenzo Divella, industriale della pasta, al vertice della Camera diCommercio di Bari, vicino al centrosinistra senza essere organico ad alcun parti-to, indicato dai sondaggi a lungo commissionati dai quotidiani e dalle forze poli-tiche come probabile vincitore su Fitto. Divella, in effetti, avendo il proprio radi-camento in terra di Bari e al tempo stesso possedendo un nome ormai famososu scala nazionale, colmava una lacuna territoriale altrimenti insostenibile, inconsiderazione del fatto che la provincia del capoluogo, ancora non spezzata conla Bat, raccoglieva un numero di elettori che, a meno di straordinarie perfor-mance nel resto della regione, si sarebbero rivelati decisivi per contrastare Fitto,meglio piazzato nel Salento.Ma su Divella gravava un’ipoteca non indifferente. La vittoria che lo aveva porta-to alla presidenza della Provincia l’anno precedente, tra l’altro a coronamento diuna campagna elettorale spesso condotta in tandem con Emiliano, non avrebbepotuto essere archiviata senza contraccolpi, salvo il testimoniare, neppure trop-po indirettamente, da parte della coalizione, il ricorso strumentale a un candida-to dal prestigio irrintracciabile tra le proprie fila, e da parte del Divella la ridu-zione a vacua retorica del programma sottoposto alla valutazione degli elettori,non essendo trascorso neppure un anno dalla perentoria affermazione elettora-le per poter “giustificare” il tentativo di passaggio ad altra carica rivendicandorealizzazioni concrete e mantenendo intatto il consenso.

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Sull’impasse in cui si trovò il centrosinistra volle intervenire in prima personaEmiliano, candidando Francesco Boccia, giovane Assessore comunale al Bilancio,dal corposo curriculum accademico ma sconosciuto ai più. Con tale smania diprotagonismo, ancorché giustificata come tentativo di favorire la trasmigrazionedello spirito del 2004 nella competizione regionale, il Sindaco di Bari riuscì nel-l’ardua impresa di incrinare gravemente il rapporto con la cittadinanza. Non sola-mente con larghi settori di quella società civile che l’aveva sostenuto per gover-nare la città e che adesso interpretava il suo atteggiamento come manifestazionedi ebbrezza da potere, diametralmente opposta allo spirito che avrebbe dovutopresiedere alla “primavera pugliese”. Ma anche con ampie fasce popolari che neavevano premiato l’indipendenza dai partiti, e che nella sua presa di posizionedecifravano in filigrana il tradimento della capacità di soggiacere alle scelte dicoalizione, convergendo più organicamente su una scelta di campo senza possi-bilità di lettura equivoche, giacché le proposte programmatiche di cui Bocciaavrebbe dovuto farsi sostenitore gli avrebbero imposto ripetute prese di distan-za da Fitto, senza tuttavia garantire un’effettiva proposta alternativa e senzagarantire una presa sugli indecisi in considerazione dell’inesistente radicamentosul territorio4.È da tale aporia che si apre la strada verso le primarie.Inizialmente sotto forma di braccio di ferro con il quale Rifondazione comunistaintese sfidare il resto della coalizione proponendo ufficialmente Vendola, ancheal fine di reclamare pari dignità tra tutte le espressioni del centrosinistra, testan-do così le reazioni delle forze più moderate. Nella costruzione della GAD, infat-ti, l’immediata rivendicazione di Bertinotti consistette nel pretendere che ancheil partito più “estremo” dell’alleanza, nella fattispecie il proprio, non risultasseaprioristicamente escluso da posizioni di rilievo con la scusa che la competizio-ne elettorale si giocasse esclusivamente al centro e che i candidati a cariche elet-tive rilevanti dovessero appunto risultare dotati della capacità di garantire buonapresa su quell’elettorato.Fattosi dunque avanti Vendola, deputato di lungo corso nonostante la giovaneetà, tra i fondatori del PRC e in prima fila nella lotta contro tutte le mafie, tantoda vivere perennemente sotto scorta, il ripiegamento dei partiti cardine dellacoalizione, e dei DS in special modo, sul nome di Boccia, mise in luce l’inten-zione di sbarrare la strada a uno stravolgimento degli equilibri interni alla coali-zione, piuttosto che il convinto appoggio all’economista.Ma, come repentinamente emerso tra i militanti del partito, decisamente più “asinistra” della dirigenza, il nome di Vendola, appoggiato tra l’altro dai Verdi,incarnava la possibilità di affrontare elettoralmente Fitto senza abdicare a princì-pi percepiti non negoziabili, tra cui la legalità, che, particolarmente al Sud, tra-scende per gran parte del popolo progressista impegnato nell’associazionismo,nel volontariato, l’eventuale iscrizione a un partito, e assume quali propri riferi-menti personaggi carismatici di varia appartenenza, tutti però schierati esplicita-mente contro il racket, contro l’usura, talvolta persino a costo di prendere ledistanze da colleghi di partito.Di fronte alla mancata rinuncia da parte di uno dei due contendenti a farsi daparte, e in considerazione della follia politica consistente nel correre separata-mente per la presidenza della Regione con un sistema elettorale a turno unico,venne accettata dalla maggioranza della GAD l’idea di celebrare “primarie ristret-

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4 Nominato dal Sindacoassessore tecnico, puressendo originario di

Bisceglie, quale indice dipopolarità poteva vanta-re Boccia nel resto della

Regione ?

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5 Il Regolamento è ripor-tato integralmente nelsito www.perlulivo.it.

te”, allargando il selectorate rispetto alle proposte originarie – che intendevanocoinvolgere solamente gli eletti ai vari livelli istituzionali dei partiti del centrosi-nistra – a una platea inclusiva dei dirigenti e dei rappresentanti della associazio-ni, giungendo in tal modo a circa duemila delegati, convocati per il 13 dicembre2004 alla Fiera del Levante, con l’obiettivo di definire innanzitutto il programmada sottoporre agli elettori e in seguito il candidato.Così, tuttavia, le primarie sarebbero rimaste un meccanismo blindato ex ante efunzionale alla ratifica di un’incolmabile distanza tra i vertici dei partiti e una basepiù effervescente. Ancora una volta avrebbe dovuto rilevarsi uno iato che rendei partiti del centrosinistra particolarmente deboli e stagnanti, se considerati sin-golarmente, tanto da produrre incessantemente scissioni e rimescolamenti variper creare realtà in grado di intercettare quella frangia di elettorato che individuanel complesso della coalizione il quid pluris per la propria collocazione nel cen-trosinistra, come del resto testimoniato dalle positive performances nel 1996 enel 2001 nei collegi uninominali rispetto a quelle della scheda per la coperturaproporzionale del 25% di seggi alla Camera (Maraffi 2006, 199).I lavori dell’assemblea si arenarono però in merito al meccanismo per la sceltadel candidato e il compito, secondo polverosi schemi da “Prima Repubblica”, furiservato a summit “romani”, a seguito dei quali, un non troppo nascosto asse traProdi e Bertinotti, concepito al fine di arrestare l’avvitamento su sé stessa dell’a-rea moderata della coalizione, facilitò la decisione di indire primarie aperte a tuttigli elettori, secondo modalità che sarebbero state definite nel giro di qualchegiorno da una commissione presieduta da Arturo Parisi, d’intesa con le forzepolitiche regionali. Tale ritrovo di “saggi” produsse un Regolamento compostoda 12 articoli, fissando la data della selezione domenica 16 gennaio 2005, conpossibilità di espressione del voto dalle ore 9 alle 22 in uno dei 112 seggi sparsisul territorio (art. 3 Regolamento)5.Una considerazione si impone a questo punto: paradossalmente, il via libera alleprimarie è giunto da una decisione centralistica e inequivocabilmente partito-cratrica. Se fosse passata la linea della “primavera pugliese”, senza intendere giu-dicarla, vi sarebbero state primarie ristrette. L’adozione delle primarie che sisono effettivamente tenute è frutto di una lunga serie di circostanze favorevoli(Romano 2005, 225), i cui esiti inintenzionali non depongono particolarmente afavore della confusa classe politica regionale, la cui miopia è stata testimoniata dauna partecipazione che non semplicemente è andata oltre le più rosee aspettati-ve, ma che ha travolto l’intento malcelato di coinvolgere sì gli elettori, senza peròesagerare.

5. La funzione delle primarie

Gianfranco Pasquino ha acutamente rintuzzato le preoccupazioni che dirigenti dipartito e operatori di mass media eterodiretti continuano a manifestare ogni-qualvolta si affacci la possibilità di accrescere l’influenza dei cittadini nei proces-si elettorali con consultazioni trasparenti e competitive.Due perplessità si fanno largo con puntuale frequenza. La prima consiste nel-l’additare i cittadini quali soggetti “ignoranti”, dalle visioni strategiche di cortorespiro, almeno in parte potenziali vittime di artate manipolazioni provenienti sia

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dalla parte politica “amica” che da quella “avversa”, particolarmente interessata,per esempio in occasione delle primarie, a che si affermi un candidato ritenutosulla carta più debole. La seconda si fonda sul timore che le primarie possanorivelarsi un “cavallo di Troia” per temibili incursioni populiste, delle quali non dirado si farebbe megafono la società civile (Pasquino 2006, 27).Obiezioni deboli e contraddittorie, specialmente se interpretate innescandopuntualmente il refrain che elogia la saggezza del popolo in occasione di elezio-ni che promuovono in assemblee parlamentari o consiliari professionisti dellapolitica di dubbia moralità e/o competenza. Timori, per di più, che fingono discordare i risultati che concretamente si registrano in occasione di ripetutiappuntamenti elettorali, nei quali, con l’Italia protagonista di primo piano, set-tori non marginali degli aventi diritto restano ammaliati da sirene populiste gene-rate anche da partiti strutturati piuttosto tradizionalmente. I cui vertici, dunque,testimoniano con ravvicinata frequenza l’incapacità di arrestare la recessionedemocratica impropriamente riducibile all’appariscente manifestazione delleNuove Destre (Mastropaolo 2005, 169).Si badi: il vento populista che soffia a intervalli sempre più ravvicinati, tanto dasuscitare dubbi sull’esistenza di una qualche soluzione di continuità, se per unverso può suggerire l’urgenza di ripensare i tratti costitutivi di ciò che viene eti-chettato come “populismo”, d’altro canto, al fine di evitare sbrigative autoasso-luzioni, può incontrare nel disciplinamento delle primarie un primo ostacolo, enella più allargata introduzione di limitazioni temporali di mandati elettivi un’ul-teriore strategia “procedurale” per contrastare la chiusura oligopolistica del mer-cato politico, il cui nesso con l’umiliazione dell’anima “sostanziale” della demo-crazia può a stento essere negato.Ovviamente, la generalità di una norma produce quasi inevitabilmente effettiindesiderati, per esempio precludendo la rielezione di un Sindaco capace o, even-tualmente, di un parlamentare ligio al proprio dovere, riducendo di fatto le pos-sibilità di scelta degli elettori (Pasquino 2006, 28). Ma il discorso andrebbe alloraampliato ai partiti, che restano immarcescibilmente le principali agenzie di cana-lizzazione e organizzazione del consenso popolare negli appuntamenti elettorali,domandandosi se la loro apertura alle primarie possa diventare una disposizionestatutaria o se debba rimanere occasionale testimonianza di un momento di crisidal quale auspicare una sferzata rinvigorente agitando quello strumento che inter-viene sul reclutamento e la selezione dei candidati a varie cariche.Certamente le primarie non sono un farmaco in grado di debellare i conflitti frapartiti cronicamente litigiosi, come pure talvolta sembra verificarsi nel breve ter-mine, né vanno ridotte a mero artificio tecnico per passare agli elettori una “pata-ta bollente”, il compito di sciogliere i nodi attorno ai quali i partiti restanoimbambolati. Se la funzione cruciale delle primarie consiste nel favorire, mediante una proce-dura dalle regole semplici e chiare, che facilitino l’espressione del voto da partedegli elettori e che prevedono meccanismi di arresto contro candidature di merofolklore, prevedendo la raccolta di un certo numero di firme, una selezione tradue o più candidati (cfr. paragrafo 2), non può trascurarsi che si tratta pur sem-pre di un marchingegno ad altissima politicità, come l’esperimento pugliese si èincaricato di dimostrare.Incidere su modalità di selezione di candidati che apparivano fino all’alba del

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giorno precedente intangibili, significa riattivare il rapporto tra destinatari dellapolitica (i cittadini-elettori) e i decisori (i partiti), sottraendo a questi ultimi l’e-sclusiva pertinenza di una scelta altrimenti limitata al loro diretto e paternalisti-co intervento.Le primarie consentono di scomporre la logica binaria decisori/destinatari delledecisioni che, qualora le candidature siano già tutte stabilite dai partiti, s’infiltracomunque proprio nel momento principe dell’esercizio democratico del voto.«Ai cittadini viene richiesto con le primarie non di esprimere una preferenza di“schieramento” (destra-sinistra) ma un giudizio di pertinenza sul candidato»(Gangemi-Gelli 2006, 26).Nel considerarli capaci, competenti di esprimersi, una risorsa da attivare perlegittimare un candidato per la competizione elettorale, a essi, soprattutto nelcaso che le primarie siano convocate da tutti i partiti o dagli schieramenti rile-vanti, viene offerta l’opportunità di incidere decisivamente su una selezioneattraverso cui poter scongiurare, nel momento elettorale vero e proprio, un voto“turandosi il naso”, l’insoddisfatta costrizione a un consenso “per esclusione”,per vaghissimo posizionamento valoriale. Le primarie stimolano gli elettori a rac-cogliere un numero di informazioni sui candidati superiore a quanto farebberose le candidature fossero già preconfezionate dai partiti, consentendo di matu-rare le proprie competenze individuali su questioni politiche che altrimenti nonavrebbero sollecitato alcun approfondimento. Ma soprattutto le primarie favori-scono la socializzazione e la discussione molecolare su temi economico-socialisopiti, generando la stipulazione tra candidati ed elettori di un nuovo patto, cheimpone ai primi di procedere a un processo di agenda-setting inclusivo di sug-gestioni e proposte raccolte dai cittadini coinvolti o confermando, per la piùautentica circolarità dell’interscambio, l’assurdità della tesi appoggiata da coloroche individuano in accurati sondaggi un realistico surrogato delle primarie.Anche il più affidabile campione, trattato con eccelsa perizia metodologica, nongarantisce che l’intervistato si produca in risposte che ne evidenzino una prece-dente sollecitazione su disparate issues, esattamente ciò, al contrario, a cui aspi-rano primarie concepite con un moderato periodo di attivo confronto tra i can-didati. Un sondaggio fotografa (dovrebbe rappresentare) il già dato, le primariestimolare il divenire. Tra l’altro, la spinta a una dialettica tra elettori non neces-sariamente distanti per autocollocazione sull’asse destra-sinistra accresce la cer-tezza che l’esito delle primarie, anche qualora sortisse sorprese poco gradite apotentati di varia consistenza, più difficilmente che in caso opposto lederebbe lacomplicità tra elettori e partiti, auspicabilmente senza dover prevedere unadichiarazione ufficiale dei candidati, dei partiti, o di tutti, di impegno ad accetta-re il risultato proclamato da una Commissione di Garanzia, come viceversa fissa-to nero su bianco dall’articolo 1 del Regolamento per le primarie pugliesi. Siffattaprevisione, ancorché finalizzata a tutelare con la terzietà di una norma il vincito-re, rimane un’anomalia regolamentare che impegna non più che moralmente glisconfitti, non potendo da questi esigersi formale certificazione sul comporta-mento in seguito tenuto nella cabina elettorale, il voto rimanendo «libero esegreto» come da articolo 48 della Costituzione.Anche quest’ultima ipotesi, non troppo “di scuola”, sintetizza un esito “sotto-prodotto” delle primarie, che costituisce il motivo principale di interesse per lestesse e che sfugge alla misurazione mediante parametri numerici e applicazioni

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di modelli tecnici di previsione, poiché è l’esito proteiforme del processo e nonpuò essere previsto al di fuori dell’azione (Gangemi-Gelli 2006, 26).Si consideri che proprio il case-study pugliese ricopre tuttora una centralità nonprevista originariamente senza dubbio per l’esito sorprendente, ma proprio inconsiderazione del fatto che tale esito si è inverato per le torsioni che hanno tra-sformato le primarie rispetto a quanto previsto in origine, innescando esperi-menti di mobilitazione che hanno palesato la necessità di riconfigurare il temadella partecipazione.L’evidenza del loro effetto di trascinamento, amplificata con comprensibile entu-siasmo dall’attuale Presidente regionale (Rossi-Vendola 2005, 22), consente diconfermare le ipotesi formulate prima dell’effettivo svolgimento, attribuendoloro il ruolo di una policy in grado di fungere da fattore strategico e necessariodi innesco di domande che altrimenti sarebbero rimaste latenti. Di conflitti per-sino, come confermerebbe la tendenza all’attivazione in tali appuntamenti deglielettori “estremi”, dalle preferenze “intense”, cognitivamente ed emozionalmen-te più interessati a dinamizzare esperimenti associativi mediante i quali metterein circolo richiami netti su questioni di inequivoco interesse collettivo, motivatia pesare quanto più possibile negli equilibri interni a uno schieramento, al finedi conquistare preventivamente rendite di posizione che attenuino il ridimen-sionamento della loro forza che il voto andrà in seguito a sancire.

6. Il 16 gennaio 2005

Il 16 gennaio 2005 partecipano alle elezioni primarie in Puglia 79.296 elettori.Con poco più di 40 mila voti a favore si afferma Nichi Vendola (50,9 %), sconfig-gendo Francesco Boccia, che aveva condotto una propaganda di basso profilo,cercando di accreditare un’immagine di affidabilità, veleggiando sulla certezza didover semplicemente attendere la formalizzazione di una sicura investiturapopolare. Ex post factum sarebbe facile ironizzare sulla sicumera con la qualemolti dirigenti di partito avevano sopravvalutato la propria capacità di influenzasull’espressione del voto, troppe volte preoccupandosi di come trasformare unacopiosa partecipazione dei cittadini nella certificazione della sintonia tra verticee base, piuttosto che segnalare una maturità democratica da apprezzare di per séstessa, non in quanto eventuale conferma della bontà delle indicazioni fornite.Non a caso, quando prese corpo l’affermazione di Vendola, DS e Margherita siastennero dal commentare in dettaglio la sconfessione dei propri vertici, prefe-rendo contribuire a compattare la GAD battendo sul tasto dell’imprevisto afflus-so di votanti nei 107 Comuni in cui erano stati allestiti i seggi, improvvisamentedunque attribuendo l’appropriato valore alla partecipazione, tanto più che nelcaso di specie la peculiare natura di mero diritto partecipativo rende la rileva-zione dell’affluenza alle urne una scala di valutazione qualitativamente diversadalla fattispecie del voto, diritto ma anche dovere (art. 48 Cost.).Quale interpretazione fornire delle primarie, e del loro risultato?Ci sembra sia possibile canalizzare la congerie di ragioni che ne hanno marcatoin grassetto i tratti lungo due direttrici: una, attenta a fattori di impatto sistemi-co-organizzativo-procedurale; l’altra, puntata sul circuito comunicativo tra candi-dati ed elettori, con tutte le correlate strategie di mobilitazione, ecc. Entrambe,

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6 Nel quale, accorpandola Bat, la percentuale divotanti alle primarie sultotale è risultata pari al38,99 %.

tuttavia, consentono di aderire allo schema che enfatizza, come premessa d’ob-bligo, il capillare desiderio di partecipazione, tanto più evidente nella misura incui si rapporti l’afflusso ai seggi, in una giornata di rigido inverno, con i dati sultesseramento ai partiti del centrosinistra, attestato – morti e ignari iscritti com-presi – attorno alle 60 mila unità (Giaffreda 2006, 150). Considerando che sola-mente una ridotta quota di costoro può essere ascritta alla militanza attiva, diven-ta inconfutabile l’apporto garantito dai simpatizzanti, dai rappresentanti dell’as-sociazionismo e della società civile, con madornale confusione equiparati dallaMargherita e dai vertici degli altri partiti schierati a favore di Boccia con la mag-gioranza silenziosa e tutto sommato accondiscendente (Amendola 2005).Demolita così empiricamente, sia pure in parte, la tesi sartoriana sul particolari-smo minoritario dei militanti, che sembra adombrare l’insofferenza del cattedra-tico per l’esito delle primarie, militanti apparendo in effetti sinonimo di “iscrittia Rifondazione”, e dunque minoranza radicale per definizione, oltre ogni possi-bile verifica (Sartori 2005; contra Pasquino 2005), le primarie hanno evidenziatola scollatura tra la nomenklatura partitica e gli umori profondi dell’elettorato dicentrosinistra. In questo senso il caso di Bari costituisce effettivamente un pre-cedente, tutto lo schieramento avendo dovuto convergere alla fine, obtortocollo, sul nome di Emiliano, promosso, come precedentemente accennato, dallastampa locale e dalla cittadinanza attiva.

6.1 Fattori organizzativi, procedurali

L’affermazione di Vendola, garantita da poco più di mille voti oltre quelli diBoccia, si fonda in larga misura sul consenso ottenuto a Bari e provincia, dove ildeputato del PRC ha raccolto 17 delle 40 mila preferenze complessive, con unaperformance (55,7 %) che gli ha consentito di contenere la differenza risultata afavore di Boccia nelle altre quattro province.Successo sostanzialmente uniforme quello di Vendola nel capoluogo e nell’hin-terland, rilevabile anche scomponendo la provincia di Bari al fine di procedere auno screening dei dati che metta in gioco la sesta provincia, la costellazione dellaBat. Anche tra gli ulivi di Barletta (soprattutto), Andria, Trani e dintorni il rendi-mento di Vendola è stato talmente positivo da far registrare uno scarto di voti(854) in grado di ammortizzare pienamente il successo di Boccia nel foggiano(Milella 2005, 1192). In considerazione del peso specifico del territorio barese6, non può trascurarsiche l’indice di copertura dei seggi per elettore, ossia la proporzione di elettoricon almeno un seggio nel proprio comune di residenza, ha raggiunto il piccoproprio qui (93,9 %) e il minimo nel leccese (47,6 %), zona della regione rivela-tasi più ostica per Vendola sotto ogni punto di vista (Giaffreda 2006, 144).Ragioni dovute non da ultimo alla peculiarità del Salento, disseminato di comu-ni dalle ridottissime dimensioni, che ha tuttavia alimentato a posteriori, nell’en-tourage dello sconfitto, il dubbio che la gestione dell’evento sia stata affetta dauna micidiale miscela di superficialità e dolo, onde favorire un esito finale chedepotenziasse l’adesione acritica dei militanti locali alle indicazioni di partito, perpoter quindi ridimensionare le pretese di D’Alema, notoriamente di casa traGallipoli e Casarano, dove aveva avuto il proprio collegio elettorale sin dal 1994.

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Obiezione non del tutto peregrina, anche se il trasporto organizzato in partico-lare dalla Margherita ha pur sempre sortito l’effetto di rendere il totale dei votivalidi alle primarie nel brindisino e nel leccese la percentuale più alta (rispetti-vamente il 10,7 e il 12,8 %) sui voti ottenuti dai partiti di centrosinistra in occa-sione delle europee del 2004 (Giaffreda 2006, 148).Dato che insomma sembra ridimensionare gli appigli degli sconfitti alla tattica“vittimista”, sottolineando piuttosto la pigrizia mobilitatrice dei partiti “modera-ti” e, ancor di più, la congenita debolezza del candidato Boccia, incapace di risa-lire la classifica di popolarità nei confronti di Vendola. Anche in virtù di tale considerazione, appare di modesto spessore la denuncia inbase alla quale, soprattutto nella realtà cittadina di Bari, si sarebbero recati alleurne noti iscritti o simpatizzanti del centrodestra, “infiltratisi” al fine di favorire,per quanto nelle loro possibilità, la vittoria di Vendola, imprudentemente repu-tato un candidato sicuramente perdente contro Fitto. Il risultato conseguito daVendola non solamente a Bari, dove ha severamente sconfitto Boccia persino nelquartier generale della Margherita, nella centralissima Via Calefati, ridimensionaqualsiasi intervento “avversario”, favorendo inoltre la considerazione per cui l’e-sperienza delle successive elezioni di aprile dovrebbe aver debellato futuri inter-venti di disturbo. Il dato politicamente rilevante consiste piuttosto nell’aver san-cito una pesante sconfitta per Emiliano, sponsor di Boccia, incapace di garantireal proprio assessore un’affermazione nella città conquistata appena qualchemese prima, testimoniando quanto – e tra il proprio elettorato di riferimento inmisura preoccupante – le prime scelte effettuate nell’amministrazione della cosapubblica, con il contorno di consulenze d’oro elargite con scarsa attenzione aibilanci e al rigore promesso, abbiano eroso nel volgere di pochi mesi la fiducianei suoi confronti.E comunque il tentativo di gettare fango sul risultato delle primarie si sfarina difronte all’impossibilità di rilevare attendibilmente se e quanta parte delle scelte afavore di Boccia abbia avuto alle spalle una radicata convinzione, oppure sia statafavorita dall’espressione di una sorta di voto strategico da parte di elettori di cen-trosinistra che in Boccia abbiano individuato un candidato dotato di un’electabi-lity pensata più debole per Vendola.Un ultimo fattore organizzativo merita attenzione. Sui 112 seggi distribuiti nellaregione, ben 34 (il 30,36 % del totale) erano costituiti da sezioni del PRC, ancheper l’avversione più marcata verso evanescenti tipologie di “partito leggero”,privo di luoghi di incontro e di dibattito. Certo è che l’aver potuto giocare “incasa” un numero superiore alla media di match con regole mai sperimentateprima ha prodotto l’ineguagliata situazione di un’affermazione di Vendola in 30di questi 34 seggi (l’88,23 %), con uno scarto di voti talmente ampio da aver con-corso in misura rilevante alla costruzione del successo finale. Questo ha infattipreso corpo, malgrado la vittoria di Vendola in meno seggi di Boccia (53 a 59),grazie alla capacità di capitalizzare le proprie affermazioni nei contesti ambienta-li più “favorevoli”.

6.2 Stile comunicativo e sostegni al candidato Vendola

Dovendo risalire la china, rispetto alla forza dell’appoggio garantito ufficialmen-

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te a Boccia dalle forze più rilevanti della coalizione, Vendola ha evidenziato unamigliore e rizomatica capacità di copertura del territorio con il proprio messag-gio, potendo mettere a frutto la notorietà acquisita al fine di impiegare più effi-cacemente le doti comunicative. Boccia, viceversa, che pure non ha disdegnato la partecipazione a decine di ini-ziative pubbliche, potendo contare sull’ampio supporto logistico dei numerosipartiti di riferimento, ha scontato il fattore “notorietà”, senza riuscire a porvirimedio, nel brevissimo volgere della campagna per le primarie, con una comu-nicazione politica altrettanto efficace rispetto a quella di Vendola. In considera-zione della striminzita durata della campagna, questo ha strategicamente investi-to tutto sulla scommessa di rendere pulsante “La Puglia nel cuore”, sfibrandosi,come nelle sue corde, in quasi cento iniziative attraverso le quali emozionare e,coinvolgendo molti giovani, indicare l’opportunità di costruire anche in Pugliaun futuro di speranza, non di cinica rassegnazione. Alla nascita dei comitati loca-li spontanei che in Vendola hanno intravisto una figura in grado di dare gambeal desiderio di prolungare la “primavera pugliese”, sfilandola dall’imbuto dellasua riduzione a etichetta appannata di una svolta immediatamente “normalizza-ta”, è corrisposta, da parte di Boccia, la volontà di privilegiare incontri su temati-che economiche, senza rinunciare ad approfondimenti insidiosi per molti citta-dini, onde accreditarsi dell’aura di “tecnocrate” dotato di un bagaglio di compe-tenze che il tessuto produttivo locale avrebbe appoggiato nel confronto con unpolitico “generalista” come Fitto. Non a caso sfidato (nell’ottimismo delle inten-zioni iniziali) facendo leva su uno slogan, “La Puglia per tutti”, chiaramente fina-lizzato a supportare, con il materiale cartaceo distribuito e con i manifesti affissi,una lenta ma inesorabile demolizione delle politiche pubbliche del Governatoreuscente. La propaganda di Boccia si è però rivelata poco focalizzata sulle piùinnovative forme di comunicazione, come quella garantita da Internet, viceversasfruttata senza indugi e ritardi da Vendola, intenzionato a caratterizzare anchemediante il web uno stile partecipato e orizzontale, maggiormente disposto a unincontro con ristretti gruppi di cittadini e ostile al datato appoggio fornito dapolitici “romani” con la loro presenza diretta, che ha creato la perversa situazio-ne di un candidato (Boccia) in cerca di notorietà appoggiarsi a politici di caratu-ra nazionale senza radicamento in Puglia e ignari dei problemi del territorio.Vendola ha applicato a ogni incontro una affabulazione, con un percorso di pas-sione e interesse che non è arrivato immediatamente al merito “tecnico” delleproposte, pur risultando in parziale controtendenza con le schematizzazionidella politica-spettacolo. Egli non ha cercato di bruciare le tappe della rispostapolitica e istituzionale, preferendo stimolare la partecipazione (Cristante 2005,76). Il suo stile comunicativo è stato orgogliosamente puntato sulla matricepopolare della propria appartenenza, perché da tempo gli era ben chiaro che sela partecipazione politica si cristallizza sui segmenti centrali della società, comeaccaduto con l’indebolimento della presenza organizzata dei partiti di massa, glieffetti di tale partecipazione esclusiva e in fondo anche escludente finiscono perfavorire soprattutto i loro interessi, rafforzare le loro posizioni e accrescere cosìle disuguaglianze sociali (Biorcio 2003, 49). La strategia di Boccia è invece sem-brata accettare l’inesorabilità di tale trend, contro cui Vendola ha sostanziato ilproprio infaticabile impegno per attivare inediti processi di formazione di iden-tità collettive che sfruttassero a fini aggregativi caratteristiche trasversali ai tradi-

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zionali cleavages in grado di consolidare la formazione di partiti e persino movi-menti sociali, cercando di trasformare l’occasione delle primarie, a prescinderedal loro esito, in un’offerta esplicita di azione collettiva verso portatori di doman-de e rivendicazioni latenti, tra cui quel composito pluriverso di soggetti dallecaratteristiche eterodosse come Vendola stesso. Comunista, poeta, cattolico eomosessuale dichiarato, il suo profilo identitario plurale da anni lo aveva reso uncomunicatore anomalo, sperimentatore di formule originali attente a mai pesca-re da un’unica fonte o tradizione e anche per questo a proprio agio in mezzo allagente più che in televisione, dove si sconta l’immane fatica di far passare la vocedi un’anomalia (Cristante 2005, 81). A doti personali del candidato Vendola, come la ricordata notorietà e il carisma,si sono aggiunte dunque variabili tecniche, come la più efficace comunicazione,e “partitiche”, ossia la compatta mobilitazione dei suoi sostenitori, a cui aggiun-gere, in special modo per le conseguenze che ne scaturiranno in sede di effetti-va campagna elettorale, i significativi appoggi ricevuti sia nel mondo politico chein quello associativo. Per anni rimasto il principale esponente parlamentare ditutta la sinistra a mantenere, nonostante il ruolo dirigente nel partito, un con-tatto fisico continuo con gran parte del territorio pugliese, ergendosi a patrimo-nio comune anche per fasce non residuali dell’elettorato diessino e del Pdci,Vendola ha guadagnato il sostegno di Pietro Folena, transitato solo successiva-mente dalla Quercia a Rifondazione, ma, soprattutto, decine di dichiarazioni diappoggio in spregio alle indicazioni dei relativi partiti. Citiamo, fra tutti, il pecu-liare caso dei Comunisti italiani, pronunciatisi con la segreteria regionale a favo-re dell’astensione dalle primarie, ma la cui ambigua scelta è stata ampiamentesconfessata in decine di realtà locali, dove gli iscritti si sono attivati a favore del“compagno Vendola”, anche al fine di non smentire con i fatti la linea impostadal Segretario nazionale, Diliberto, sempre spesosi a favore di una prospettivaunitaria della sinistra e contro duelli favoriti dalla “sindrome del divorziato” perla ferita aperta dalla scissione del 1998.Vendola ha altresì captato immediatamente il favore delle associazioni ecologi-ste, anche quando non collaterali ai Verdi o al PRC, per la centralità riservata nelleproprie battaglie alla tutela, talvolta un po’ scomposta, dell’ambiente su delicatequestioni quali l’emergenza rifiuti o la spina del rigassificatore a Brindisi, o, anco-ra, sull’inquinamento prodotto a Taranto dall’Ilva.Egli, infine, è stato amichevolmente sostenuto dall’avanguardia dell’associazioni-smo cattolico maggiormente attivo nel sociale, pescando quindi in maniera nontrascurabile tra le fila di un elettorato potenzialmente di riferimento per Bocciaattraverso il tramite della Margherita. In particolare, il sostegno fornito dalle asso-ciazioni contro le mafie, la droga, e la sensibilità, coerentemente cristiana, versoi poveri, i carcerati, hanno sortito un effetto di trascinamento per i cattolici lai-camente scevri da pregiudizi retrogradi, garantendogli un consenso che ha sfila-to a Boccia prima e a Fitto poi fondamentali pietre angolari per l’edificazionedegli attesi successi.

7. Il voto regionale

Se aderiamo alla tesi di Albert Hirschman, il quale, malgrado rifiuti di rapportar-

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si all’individuo razionale della dottrina economica generalmente accettata, sostie-ne che «gli atti di consumo, e come questi gli atti di partecipazione agli affari pub-blici, sono intrapresi perché ci si attende che procurino soddisfazione, e tuttavia,in realtà, generano anche delusione e insoddisfazione» (Hirschman 1995, 18),allora il caso delle primarie pugliesi, nonostante lo spirito unitario che le avevapervase sia tra gli organismi dirigenti dei partiti che tra gli elettori, pone un inter-rogativo generale, ma ancor più interessante vista la vittoria dell’“estremista”Vendola: come impedire che tra l’elettorato potenzialmente di riferimento, cheha scelto o ha guardato con maggior simpatia Boccia, si insinui il distruttivogerme della delusione, soprattutto per il timore che il successo della risicata mag-gioranza destini l’intera coalizione a sicura sconfitta contro l’incumbent, Fitto ?Si considerino le aspettative nutrite dagli individui nell’elaborare il progetto difare una determinata cosa. Collocandosi in tale prospettiva, si potrebbe conclu-dere che, trattandosi di una esperienza senza precedenti del genere per i puglie-si, ed essendosi registrata un’affluenza inattesa, la delusione per gli sconfitti siarisultata attenuata nonostante e oltre le immediate strette di mano tra Vendola eBoccia e le garanzie di lealtà della minoranza. Riprendendo alcune suggestioni diPasquino, si può ragionevolmente concludere che il grande entusiasmo da partedegli elettori di centrosinistra per le primarie possa aver sopito la delusione deglisconfitti sia nel caso pugliese che in occasione di quelle dell’ottobre successivo,perché con quello strumento sarebbe stata risolta l’annosa questione della lea-dership. Non si dimentichi, infatti, che su scala nazionale, ancora alla vigilia delleprimarie, la costituita Unione non era riuscita del tutto a legittimare Prodi comeleader indiscusso capace di tenere insieme tutti i partiti della coalizione, comeinvece, sin da prima delle vittoriose elezioni del 2001, era evidente per gli elet-tori della CdL con Berlusconi (Pasquino 2002a, 131).L’inserimento delle primarie regionali entro una cornice politica complessivasegnata da un’opposizione movimentista senza sconti al Governo Berlusconi incarica, attraversata da una tensione etica ripetutamente delusa dalla moderazio-ne venata da tentazioni compromissorie dei vertici partitici, anche a causa dellagià accennata difficoltà di comporre coerentemente le variopinte anime del cen-trosinistra, avrebbe dunque alleviato il malcontento dei sostenitori di Boccia perla scelta di Vendola, sia in considerazione delle linee programmatiche indicateper il governo della Regione, per esempio molto nette in tema di lavoro preca-rio, non combattuto invece in sede parlamentare con altrettanta decisione,accentuando di conseguenza la dissonanza cognitiva tra i partecipanti alle pri-marie. Il superiore estremismo degli elettori della GAD, poi Unione, rispetto alleclassi dirigenti dei partiti, ha accentuato la pervasività della dissonanza cognitiva,vale a dire l’autoinganno nel quale si rifugiano le persone che hanno effettuatouna scelta o fatto un acquisto, evitando ogni informazione “dissonante”, cercan-do in ogni modo di confermare la bontà della scelta collettiva, anteponendo ilsuccesso collettivo alle scelte personali, anche al fine di sentirsi pienamente pro-tagoniste di tale esito. Ciononostante rimane incontestabile che Vendola ha otte-nuto più voti nelle elezioni laddove era andato meglio alle primarie, e meno inquei paesi in cui era risultato più forte Boccia. In verità, anche qualora permanga qualche dubbio sull’eventuale malessere ditaluni elettori più “moderati”, la peculiarità del sistema elettorale adottato impor-rebbe una verifica empirica sulle schede che si concentri su due tipologie di

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voto. Considerato che la mera selezione di un partito sulla scheda elettorale tra-sferisce automaticamente il voto anche al candidato Presidente della coalizione,al più consentendo di scegliere esclusivamente quest’ultimo, potrebbe costitui-re motivo di interesse verificare se i voti andati alla Margherita o all’Udeur sianoprivi di un’esplicita indicazione per Vendola in misura rilevamentemente supe-riore alla media. Un secondo tipo di analisi avrebbe potuto riguardare il ricorsoal voto disgiunto, onde verificare quale o quali partiti in particolare nel centrosi-nistra siano stati oggetto di preferenza invece destinata a Fitto come candidatopresidente. Il tasso del voto personale per Vendola, comunque, segnala un’evi-dente capacità del candidato della GAD di penetrare tra le maglie dell’elettorato,conquistandolo sorprendentemente più di Fitto, Governatore uscente di unoschieramento dalle più ostentate pulsioni presidenzialiste. Mentre infatti la vit-toria del centrosinistra conteggiando esclusivamente i voti di lista è ridotta a4.500 voti (1.064.410 a 1.059.869), il margine di distacco si è leggermente amplia-to in virtù dei voti personali collezionati da Vendola (101.126), quasi diecimila inpiù dell’avversario (91.536), sconfitto pertanto proprio sul terreno presuppostopiù congeniale. E sconfitto soprattutto per l’elevata personalizzazione del votonel barese (escludendo la sesta provincia), dove Vendola ha raccolto il 40,98 %dei voti maggioritari a proprio favore (41.439) in tutta la Puglia, staccando tal-mente Fitto da non consentire a quest’ultimo di recuperare nonostante l’eccel-lente rendimento nel basso Salento (25.078 voti personali).Vittoria nel complesso di misura, maturata pur non raggiungendo il 50 % dei votivalidamente espressi, favorita dalla transumanza del partito dei Pensionati dalcentrodestra alla GAD e dalla formazione di una neo Democrazia Cristiana (laDCU), nonché vittoria in merito alla quale rimarcare quattro elementi, che ana-lizzeremo sinteticamente ma puntualmente:a) la capacità di Vendola di mantenere intatto, se non addirittura di incremen-tarlo, l’entusiasmo generato dalle primarie, con l’inattesa partecipazione del 16gennaio;b) la vittoria di Vendola come paradigma del riscatto del Politico impegnato aintraprendere una sfida per l’egemonia, rifiutando il compito di gestire l’esisten-te mediante scelte annacquate, per sfuggire al rischio della precipitazione delneutralismo impolitico;c) la capacità di innescare un effetto traino a favore dei partiti di sinistra, pur inuna gestione dell’immagine mai schiacciata sulla propria appartenenza;d) l’abilità nell’impostare una campagna elettorale i cui effetti ne hanno accen-tuato la personalizzazione, in parte contraddicendo lo sforzo di coinvolgere oriz-zontalmente i cittadini, e ridimensionando l’illusione di chi, passando in rasse-gna il voto del 3 e 4 aprile, nei suoi esiti scorgerà l’irreversibile tramonto del ber-lusconismo.

7.1 Sfruttare il momentum

I comitati spontanei, quelli di “partecipazione democratica”, hanno sostenutocon entusiasmo raramente rintracciabile in occasioni elettorali la candidatura diVendola. Sorti persino all’estero, essi si sono contraddistinti nella quasi totalitàdei casi per specializzazione tematica (ad esempio sul Parco dell’Alta Murgia),

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per appartenenza categoriale (gli “artisti per Nichi”), e/o per l’impegno sui temigenerali della partecipazione politica (i comitati per la cittadinanza attiva). Taleintensa mobilitazione, come suggerito da alcune letture degli avvenimenti, sareb-be stata stimolata da un senso di responsabilità nei confronti del candidato: l’avercontribuito in prima persona a designarlo, spezzando ossidati bilanciamenti nelcentrosinistra, ha condotto i suoi sostenitori della prima ora a condividere il desti-no elettorale e quindi a mettersi attivamente in gioco per tutta la durata della cam-pagna, in una sorta di “chiamata di correità” (Romano 2005, 230). L’apporto dei comitati sia nella definizione di taluni punti programmatici che nel-l’azione di propaganda ha consentito allo staff di Vendola di limitarsi a fungereda struttura di collegamento tra i numerosi candidati, specialmente con uncostante aggiornamento del sito Internet. Dinanzi infatti a partiti ormai abituatia procedere in ordine sparso, tanto più che il proprio risultato era chiaramentelegato al consenso personale che sarebbero stati in grado di catalizzare i loroesponenti, a partire dai consiglieri uscenti, la funzione di coordinamento delcomitato elettorale di riferimento ha permesso di ottimizzare l’impiego di molterisorse umane, garantendo a tutte le esperienze periferiche, nessuna esclusa, lapresenza di Vendola in almeno un’occasione.

7.2 Vittoria del Politico

Aprendo una crepa nel sistema blindato dell’ideologia del neutralismo specularedelle proposte elaborate in sede politica rispetto al senso comune, o al più dis-torcendolo per accordi sottobanco, le primarie sono state trasformate daVendola nell’occasione mediante la quale farsi visibilmente soggetto di una visio-ne che alla Politica ridotta ad amministrazione dell’esistente cerca di sostituireidee forti, riconoscibili, reali prospettive di mutamento. Vendola riesce su Bocciaprima e su Fitto poi perché, rigettando, quanto meno sul piano retorico, velleitàsbiaditamente riformiste del versante più conservatore della coalizione, esplici-tamente considera limitata la capacità umana di immaginare il cambiamentosociale, e sceglie di battere la via che riconduce i fattori del mutamento entro loschema forse semplicistico, ma non privo di sicura efficacia, di proporre su alcu-ne tematiche cruciali l’opposto dello stato presente, invece di qualcosa di sfu-matamente diverso, costringendo in tal modo Fitto ad arroccarsi, persino al di làdelle intenzioni, sulla difesa rigida dello status quo, aggravata dall’omogeneitàdella maggioranza che lo ha sostenuto con quella parlamentare. Con un’anomalia, tra l’altro. Quella della Lega, reificazione partitica della tenta-zione padana di un’Italia a due velocità. Sfruttando l’esacerbamento di un mal-contento che in passato Fitto non aveva esitato a direzionare contro le riformecostituzionali perorate dal centrosinistra e che adesso, con le iniziative secessio-niste, andava a toccare le corde più profonde dello stato d’animo meridionalesegnato dalla deprivazione, perennemente inclinato alla rivendicazione lacrimo-sa rispetto a quanto sarebbe stato strappato al Mezzogiorno “povero” dal restodel paese “benestante”. Maliziosamente tentato di fare delle regioni meno svi-luppate discariche a cielo aperto da ricompensare con un po’ d’elemosina. Vendola ha evocato le paure più recondite dei suoi corregionali, al fine di muta-re in orgoglio quel ribellismo da frustrazione verso chi sta meglio del Sud, pro-

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mettendo al Mezzogiorno di poter scegliere una versione di sviluppo alternativo,storicamente compresso sino al punto di coincidere nell’immaginario collettivocon il galleggiamento nell’arretratezza della rete ferroviaria locale, con la cronicamancanza d’acqua in alcune zone della Puglia per la trasformazione in scelteantieconomiche, in perfetta coerenza con l’ideologia neoliberista, della necessi-tà di mettere mano alle condutture dell’Acquedotto Pugliese. Secondo le oleo-grafie alle quali si dedicano i quotidiani (Merlo 2005), Vendola ha pervicace-mente cercato di presentarsi come un leader gentile e delicato, un Masaniello suigeneris, sfruttando a proprio favore la statura molto meridionale e la timidezzaaccentuata dai capelli a caschetto.

7.3 L’effetto traino per la sinistra della candidatura Vendola

La candidatura di Vendola e l’immediato supporto, quasi di stampo militare, for-nitogli dagli attivisti del PRC e da altri settori dell’associazionismo collaterali alpartito o comunque tutt’altro che ostili allo stesso, gli hanno consentito di favo-rire un’eccellente affermazione di Rifondazione, attestatasi con il 5,1 % qualeterza forza della GAD, senza che il risultato andasse a scapito del Pdci, cresciuto,rispetto al 2000, dal 1,7 al 2,3 %, a confermare che la disposizione dell’elettoratoa muoversi, sia pure quasi esclusivamente entro le coalizioni, sia la prova paten-te dell’errata convinzione assolutistica nutrita dai ferventi sostenitori della prio-rità di conquistare il “centro”. Il crollo della Margherita al 7,1% dal 12,3 % otte-nuto nel 2000 da Popolari e Democratici, non compensato da una significativacrescita dell’Udeur (3,3 % rispetto al 2,8 %), anzi coincidente con il ridimensio-namento di Forza Italia (anche a voler sommare i consensi della lista di Fitto siregistra un calo dell’1,8 %) e con la lievissima crescita dell’UDC, ha segnato, cer-tamente con pretesa marginale, un recupero dei partiti “laici”, e delle liste socia-liste oltre tutte le altre. Il “fattore DC” nel nuovo sistema partitico, pur mante-nendo un’indubbia persistenza rispetto al passato, è risultato ammaccato, anchese affidiamo al tempo la lucidità di giudicare se ciò concerna più il piano simbo-lico che quello reale.Vendola è riuscito a non trasformare la scelta di Rifondazione di essere piena-mente associata alla GAD prima e all’Unione poi in appiattimento su posizioni di“governo” costrette a misurarsi con le scelte ancora equivoche del centrosinistra,garantendo una proiezione pubblica di partito anche “di lotta” e tuttavia attentoa demolire con i propri comportamenti il persistente pregiudizio di chi lo giudi-ca “anti-sistema”.Annodando il rapporto lasco, che nel 1996 aveva dato vita, in sede elettorale, alla“desistenza”, Rifondazione, a seguito di una decennale opera di tessitura degliorganismi dirigenti regionali, tra i più sensibili a tessere trame di organica colla-borazione con l’Ulivo, non foss’altro che per far fruttificare un discreto patrimo-nio di consensi in Capitanata e nell’entroterra barese, con pochi eguali nelMezzogiorno profondo, ha potuto far leva sul carisma di Vendola, ritornandopersino ad affacciarsi nell’underclass, da anni orientata a destra. E anzi, il con-senso indirizzato al solo Vendola, al di là degli “errori” nell’espressione del votoe come effetto più immediato della campagna elettorale, consente di rilevare chel’ostilità nei confronti dei “comunisti”, agitata ossessivamente da Berlusconi, sia

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di sicuro impatto tra gli elettori più fidelizzati del centrodestra, ma possa atte-nuarsi quando l’evocazione del “pericolo rosso” appostata dietro la falce e mar-tello risulti “coperta” dall’investimento sull’immagine del candidato, in grado ditrasmettere una coesione unitaria dello schieramento a proprio sostegno, lavo-rando per infrangere la perversa circolarità di una propria dipendenza dal parti-to di riferimento, che ne farebbe collimare le sorti. La vera sconfitta delle regionali è così risultata “La Primavera pugliese”, in gradodi raggranellare appena il 2,6 %, e soprattutto in evidente sofferenza per nonaver saputo liberarsi del proprio imprinting “baricentrico”, legato ai nomi diEmiliano e Divella, il primo specialmente in debito di consensi. Nell’incapacità ditrasformarsi in lista d’opinione più diffusamente radicata sul territorio, essa hainteso il proprio appoggio a Vendola come sostegno a un personaggio in gradodi indicare, in ciò al pari dell’Emiliano impegnato nella campagna elettorale peril Comune di Bari, una capacità di “stare tra le gente” innovativa per l’aristocrati-co centrosinistra pugliese, sebbene oggetto di una strumentale intensificazionea ridosso delle elezioni, come analizzeremo adesso.

7.4 La campagna elettorale

Mentre nel 2000 il centrosinistra aveva scelto un candidato “centrista”(Giannicola Sinisi, come nel 1995 con Luigi Ferrara Mirenzi), nel 2005 sono statii suoi elettori a preferire un cambio di rotta, puntando su Vendola, deputato dal1992, abile oratore, impegnato, come già accennato, in battaglie difficili e mino-ritarie, non sempre garanzia di ritorni elettorali, come quella contro la criminali-tà organizzata. Ma che ciò rappresentasse un problema per la rassicurazione del-l’elettorato moderato, verso il quale altrimenti Fitto avrebbe rischiato di sfonda-re, è stato chiaramente evidente nella campagna elettorale di Vendola.Egli, per di più, doveva vincere il pregiudizio che accompagna molti cittadini neiconfronti degli omosessuali e si è ritrovato a combattere contro un tradizionali-smo indisposto ad accettare l’autenticità valoriale del suo cattolicesimo, giudica-to in alcuni ambienti clericali “incompatibile” con tendenze sessuali “anormali”.Sconfiggere in un sol colpo l’essere comunisti, gay e praticanti rappresentavauno scoglio appuntito che esempi rassicuranti garantiti dall’estero non aiutava-no a inabissarsi, e non solamente perché nell’Italia meridionale il tutto avrebbepotuto rivelarsi un limite insormontabile. Curata dall’agenzia barese “Proforma srl”, che si era già occupata con successodella campagna elettorale di Emiliano, quella comunicativa di Vendola ha privi-legiato registri lessicali diretti, senza imboscarli dietro frasi di circostanza, tatti-camente adoperate per guadagnare il favore degli indecisi. Contro i pregiudiziideologici e sessuali che rischiavano di ricoprire, per quanto si fosse abili nel lorocontenimento, un peso decisivo nel determinare il vincitore, Vendola ha agito sudue piani contemporaneamente:a) si è impegnato senza reticenze in una modalità comunicativa ecumenica, conla quale ha guidato tutta la coalizione in campagna elettorale, anche al fine didimostrare di possedere quelle indispensabili capacità di coordinamento che ilmero impegno parlamentare richiede in misura inferiore e per dimostrare diriuscire a imporre l’attenuazione dei toni delle proposte che non avrebbero

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avuto il consenso da parte di tutte le liste a suo sostegno (Cristante 2005, 78);b) attraverso i curatori della campagna, ha capovolto a proprio favore gli agget-tivi con i quali gli avversari erano soliti apostrofarlo più spesso, con il non misco-nosciuto intento di demolire un linguaggio, quasi un gergo, alimentato dal quar-to potere, ma il cui senso è diametralmente alternativo a un utilizzo libero daprecomprensioni distorte. La sua “diversità” è stata manipolata per farla diventa-re elemento di rottura con il disastro regionale (“Diverso: da quelli che oggigovernano la Puglia”). Oppure l’estremismo associato alla propria appartenenzapolitica è stato trasformato in un modo d’essere “estremista” sì, ma “nell’amoreper la Puglia”. Autobollandosi nella cartellonistica come “pericoloso”, “sovversi-vo”, adducendo però nelle didascalie spiegazioni positive, Vendola ha cercato distabilire un’interazione con il lettore-cittadino, la necessità di misurarsi con unpensiero depurato dai tipici lustrini della convention. Assecondando tale tattica,sono risultate depotenziate le accuse che il centrodestra, ma non esclusivamen-te, era solito muovergli proprio con tali portati di durezza. Anche gli spot diAlessandro Piva, tentando di denudare i guasti del modello pugliese propugnatoda Fitto, hanno puntato l’indice contro la modernità rivendicata per la Puglia dalcentrodestra, evidenziando che, grattando sotto la superficie, si presentava ungroviglio di drammatici problemi irrisolti, per disinnescare i quali era necessariaun’alternativa, della cui possibile applicazione Vendola si faceva garante verso lospettatore.Vendola ha insomma demitizzato il proprio estremismo, l’appartenenza a un par-tito sul cui nome Berlusconi ha costruito, sin dalla “discesa in campo”, il frontedi una paura sociale evocando lo spettro della continuità con un totalitarismotragico che la storia ha in Occidente archiviato.Raccogliendo alcuni aggettivi usualmente associati a una connotazione politica“radicale”, “estrema”, Vendola è arrivato persino a ironizzare sul portato allar-mante, facendo leva su un malcontento nei confronti della politica attuale chefende trasversalmente tutti gli elettori, per dimostrare che la durezza di certeprese di posizione non può essere banalmente ricondotta a una collocazione trale forze politiche incompatibile con la pretesa di diventare il vertice istituzionaleregionale. È lo spazio politico che si è modificato negli ultimi anni, contraendo-si in una gelatinosa consonanza di policies tra gli schieramenti che soffoca tuttele voci dissenzienti rispetto ai dogmi liberisti e monetaristi. Egli ha sfruttato il rapporto con la madre sul versante della rassicurazione, al finedi evidenziare quanto la propria dichiarata omosessualità, – che gli aveva pron-tamente garantito in fase di confronto per le primarie l’appoggio di FrancoGrillini e dell’Arcigay e che lo aveva fatto partecipare al Gay Pride di Bari senzaremore – non possa finire tra le volgari considerazioni di alcuni avversari politi-ci, ma sia parte della proiezione pubblica di un uomo il quale, come tutti, man-tiene un legame di infinita tenerezza con la mamma, tanto più nel Mezzogiornosupremo riferimento per la famiglia. Nei manifesti elettorali Vendola le si appog-gia delicatamente, girando lo sguardo quasi a voler ritagliare per la propria emo-zione una dimensione residualmente privata, mentre la madre sorride gioiosa-mente all’obiettivo. Si è cercato di solleticare la condivisione di un rapporto conla genitrice attorno al quale si rompono i rigidi schemi politici, rivolgendosi quin-di potenzialmente a tutti i pugliesi. Strategia elettorale volta a rafforzare l’ideacomune che la Mamma riesca a smussare ogni asperità, ogni peculiarità esclu-

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dente, nei suoi confronti ritrovandosi una perfetta coincidenza nei comporta-menti di un omosessuale come Vendola con quelli di qualunque elettore, per sfi-lare a quest’ultimo l’alibi del comodo ricorso immotivato al pre-giudizio.Normalizzare la diversità, le inclinazioni annidate tra i versi delle proprie poesie,ha significato anche far passare attraverso i media l’immagine autorevole di uncandidato adeguatamente capace di rivaleggiare in stile sartoriale con le impec-cabili tonalità scure di Fitto, i cui completi blu ne hanno definito contorni mime-ticamente replicanti di Berlusconi, a cui l’ex Governatore continua a essere asso-ciato, talvolta con ostentazione eccessiva. Se da un lato, pertanto, Fitto non harifiutato la ricerca di una connotazione che potesse delinearne la piena autono-mia da un governo della Repubblica in evidente crisi di consenso, confezionan-do una lista civica, “La Puglia prima di tutto”, che sin dal nome intendeva pren-dere le distanze dall’accondiscendenza di Forza Italia, dell’UDC e di AN nei con-fronti della Lega, impostandone il colore prevalente sull’arancione, dall’altroVendola si è autonomizzato dalla declinazione forzata che altri avrebbero volutodarne, attraverso la madre garantendo sulle proprie personali capacità, mentresu Fitto, che pure non aveva rinunciato a farsi fotografare con la mamma inten-ta a schioccargli un bacio, è rimasto sempre aleggiante il ricordo del padre.Nell’inevitabile oscillazione tra il codice materno e quello paterno, reciproca-mente esclusivi, il primo produce una società dei fratelli – la cui sottesa solida-rietà rappresenta per il Mezzogiorno l’unica credibile strategia di salvezza –,mentre il secondo genera la società dei mercanti e dei predoni, come ha rileva-to Pietro Barcellona sulla scia di Pasolini e Fornari (Barcellona 2006, 42). In considerazione di tutto ciò, quando solleviamo alcune perplessità circa la con-clusione di Cotturri in merito al significato della vittoria di Vendola come certifi-cazione del superamento del berlusconismo7, intendiamo sottolineare l’impor-tanza ricoperta dalla campagna elettorale, dalle strategie di marketing politicoveicolate con spot e cartelloni, non persuadendoci affatto che queste siano risul-tate secondarie rispetto allo sforzo di organizzare significativi appuntamenti diconfronto e scambio di idee (Cotturri 2005a).Sarebbe impossibile imporre al cittadino-elettore-consumatore una strategia chepretenda di localizzare la scelta politica nelle sezioni di partito, nelle piazze o neimercati e non anche in televisione o con abili fotografi e truccatori. Quel che lacampagna per le primarie e quella per le elezioni regionali hanno evidenziato èl’esigenza di somministrare con grande perizia all’attento consumatore dosi difidelizzazione verso un candidato da trasformare necessariamente in leader, conun coinvolgimento non eccessivamente impegnativo ma che non sia angusta-mente sacrificato nel passivo ascolto di un comizio. I fautori della democrazia partecipata fanno da alcuni anni largo all’idea di auto-istituzione: non ci si illuda che esista un popolo già formato da rispecchiare, ma,à la Castoriadis, vi è un processo continuo e mai concluso di costruzione parte-cipata e discorsiva del bene comune, della verità e della stessa identità dei sin-goli, disposti, però, se necessario, a delegare i propri poteri per farsi rappresen-tare da politici e cittadini comuni non ricompresi entro tradizionali categorie diappartenenza.Una vittoria elettorale non può essere figlia, tra l’altro nata – come nel caso diVendola – da una gestazione parecchio inferiore ai nove mesi, di cambi improv-visi di idee e di mentalità, ma queste possono al massimo risultare liberate da

7 Tesi sostenuta condecisione dallo stessoneo-Presidente(Vendola 2005b)

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schermi coprenti mediante tecniche manipolatorie e accordi elettorali. Cogliepertanto nel segno Onofrio Romano quando scrive che «Vendola è stato capacedi dare cittadinanza a dimensioni espunte da anni dalla sinistra politica e mono-polizzate da Berlusconi: ha somministrato alla sinistra alcune dosi omeopatichedi berlusconismo, che il codice riformista si ostina a schernire. Ha dato voce aimoti profondi dell’anima. Ha emozionato. Ha commosso» (Romano 2005, 236-237). A conti fatti, il vero antiberlusconiano è stato Fitto, inchiodato dal suo stra-potere sull’esigenza di non tradire la pratica di governo democristiana appresa infamiglia.

8. Conclusioni

«Il fatto che la Puglia sia una regione di regioni costituisce […] un vantaggio,perché esistono più tradizioni» che oggi trovano uno spazio prima loro negato.Il declino relativo di Bari e il successo di Lecce e del Salento possono essere deci-frati in tale ottica (Botta 2004, 20). Nella vita, in fondo, tanto più in una realtà glo-balizzata che impone di ripensare i modelli di sviluppo dominanti nel passato, èimportante sia per i singoli che per le collettività diventare sempre qualcosa didiverso, di nuovo. Vendola ha saputo interpretare più abilmente di Fitto questa esigenza in sede dicampagna elettorale, sintonizzandosi sui più frammentati e polverizzati umoridei giovani, utilizzando con maggiore efficacia e disinvoltura Internet, cogliendosenza tentennamenti che, dinanzi all’impossibilità di considerare specifici cetisociali quali punti di forza di un partito, diventa fondamentale lavorare su frattu-re di genere, sulle coorti d’età, sempre proponendosi in prima fila per affronta-re tutte le emergenze esistenti e che rendono penosa la vita dei pugliesi in un’ot-tica di problem-solving.Un ruolo senza dubbio centrale è stato ricoperto dalla società civile, un serratoconfronto con la quale, costringendo il retrivo ceto politico del centrosinistra asmuovere il proprio immobilismo, si è alla fine rivelato un elemento di cambia-mento, fornendo un prezioso apporto nelle vittorie che hanno costellato il bien-nio 2004-2006.Sicuramente la reciproca maturazione ha contribuito a mettere in evidenza lacomposizione proteiforme del sistema politico regionale, nel quale i partiti sonosolamente uno dei pilastri, ancora necessario, indispensabile, ma tutt’altro chesufficiente.Basterebbe pensare alle decine di comitati che hanno sostenuto Vendola, al paridegli artisti che, garantendogli il proprio appoggio, hanno portato in tante piaz-ze momenti di spettacolo gratuito, accessibile a tutti, fino a una vera e propriamaratona di chiusura della campagna elettorale che ha contribuito a inorgogliretanti pugliesi per la centralità guadagnata in un evento a cui decine di massmedia hanno dedicato la propria attenzione.Ciò ha tuttavia testimoniato l’impossibilità di sottrarre alla comunicazione la cen-tralità che al suo ruolo è garantito da quest’epoca, e, soprattutto, di evidenziar-ne pienamente la mistificazione a cui essa si accompagna: «presentarsi sotto leinsegne del progressismo democratico, mentre costituisce la configurazionecompiuta dell’oscuramento populistico» (Perniola 2004, 6). Sottraendosi a ogni

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determinazione, aspirando a essere contemporaneamente una cosa, il suo con-trario e tutto ciò che sta in mezzo tra i due opposti, essa manifesta il proprio tota-litarismo pervasivo nella ricerca di comprendere persino l’antitotalitarismo(Perniola 2004, 9). Essa immerge tutto nell’immediato, dissolvendolo nell’istante,riducendolo a un vitalismo che si esaurisce in un’infinita sequenza di momentisaturi. L’estrema consumabilità del messaggio nel labirinto mediatico della video-politica, che non tollera una memoria troppo lunga, lo proietta a barcamenarsiambiguamente tra slogan che garantiscano visibilità e polisemia (Prospero 2001,31). Le primarie non sono sfuggite a tale trappola, e ovviamente non ne è risulta-to indenne il loro esito, nonostante l’interpretazione benevola che potremmosuggerire affiancando alle scelte propagandistiche ufficiali lo sforzo di coinvolgi-mento della cittadinanza nel contribuire a progettare il futuro condiviso. Anche in ragione di siffatto sforzo ha deluso tante aspettative la formazione diuna Giunta “Bari-centrica”, di profilo inferiore alle attese, solcata da alcune pro-fonde contraddizioni, ancora irrisolte, come l’esclusione di uno degli alleati, ilPdci, aggravata dall’equivoco di volergli dare in quota uno degli assessori sceltidirettamente dal Presidente. Prosternazione a una logica da manuale “Cencelli”che ha ricondotto i propositi vendoliani della vigilia ad affievolirsi nella sapienteregia per il proprio partito nell’occupazione sistematica e famelica delle carichepubbliche, in adesione a una pratica di spoil-system che rende il turnover inne-scato in questi anni vorticoso come mai si era visto nei decenni passati8. La nuovaGiunta, peraltro, ha dovuto misurarsi, fuori dagli schemi delle promesse eletto-rali, con ben noti problemi, come quello dei rifiuti e quello energetico, assu-mendo nella prima fase della propria esistenza atteggiamenti equivoci e troppospesso reticenti rispetto alla chiarezza garantita in campagna elettorale, così con-tribuendo a una rapida erosione dei consensi, come verificatosi nelle politichedel 20069. La “primavera” ha già ceduto il passo all’autunno del malcontento ?

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8 E che contraddice lameritocrazia di taglioimprenditoriale garan-tita come stella polaredelle proprie scelte atutti i media a vittoriaappena conquistata(Vendola 2005a).

9 Quando la CdL, inPuglia, ha sconfittol’Unione sia allaCamera (51,54 % a48,29 %) che al Senato(51,89 % a 47,86 %).

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Alessandro Lattarulo è docente a contratto di Sociologia dei fenomeni politiciall’Università di Bari.

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Elio Franzin

Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa

Borderline

La comunicazione, su ”Silvio Trentin in Francia,dall’antifascismo in Guascogna agli esordi dellaResistenza a Tolosa”, presentata da Paul Arrighi alquarto convegno su Silvio Trentin, promosso dalCentro studi e ricerca che ne porta il nome (Jesolo,2-3 aprile 2004) sul tema ” L’antifascismo italianotra le due guerre alla ricerca di una nuova unità”,contiene alcune informazioni sulla ripresa dellapartecipazione di Trentin alla vita massonica. Lafonte documentaria di Arrighi è costituita da unacorrispondenza fra organismi massonici, che sitrova presso l’archivio del Grande Oriente diFrancia, di notevole interesse ai fini della ricostru-zione della biografia del più autorevole esponentedel pensiero federalista italiano del Novecento.Alla fine di questo scritto, viene fornita la trascri-zione della parte essenziale della prima delle quat-tro lettere e le altre tre lettere.Il 21 marzo 1935 il venerabile della loggia o atelier“La parfaite harmonie” scrisse al Grande Orientedi Francia informandolo che: “il fratello SilvioTrentin attualmente librario a Tolosa, al n. 46 dellavia Languedoc, ha manifestato il vivo desiderio diassistere ai lavori della R. L. la Parf. H.Le referenze più serie sono state presentate dainostri f.[rères] Costeodat e Rabary tutti e due dellaP. H. Referenze morali, ben inteso. Il f. Trentin èdi una vasta cultura e renderà dei servizi. D’altraparte questo f. esiliato per le sue opinioni ed attiantifascisti ha un urgente bisogno di aiuto morale.Egli si trova solo, smarrito, un po’ scoraggiato. Ilnostro dovere urgente è quello di dargli tutto ilnostro appoggio. Il f. Trentin ha dichiarato che egliera stato iniziato alla L.[oggia] Darwin di Pisa –(Ven. il professore Pozzolini). Entrato in sonno nel

1906, egli domandò di riprendere la vita Massonicaattiva nell’ottobre 1925, nel momento in cui fudepositato il progetto di legge Rocco per lo scio-glimento della F.[amiglia] M.[assonica] Italiana.Egli fu allora collegato al G. O. [Grande Oriente] diRoma.Il f. Trentin è nato l’11 Novembre 1885 a San Donàdi Piave – Venezia.Io vi prego M.Ill. F., se voi ne avete la possibilità, difarmi conoscere se le dichiarazioni del f. Trentinsono esatte e d’altra parte, se il nostro At.[elier]può, senza creare qualche spiacevole precedente,accettare questo fratello alle sue riunioni.Io vi sarò molto obbligato di farmi conoscere ilvostro parere nel più breve termine di tempo”(Archivio del Grande Oriente di Francia, cartellaTolosa).Trentin si era iscritto al primo anno della facoltà digiurisprudenza dell’Università di Pisa due anniprima della entrata nella loggia pisana, il 9 dicem-bre 1904.Agli inizi del Novecento la massoneria era ancorain Italia l’organizzazione di tutte le forze che soste-nevano e davano coesione allo Stato.L’adesione di Trentin alla massoneria, l’unico par-tito reale ed efficiente creato dalla borghesia italia-na che sta avendo in quegli anni, quelli dell’uomopolitico piemontese Giovanni Giolitti, il suo massi-mo sviluppo, è coerente con le tradizioni risorgi-mentali della sua famiglia e la sua formazione sco-lastica. Alla scuola elementare, in quarta e in quin-ta, è stato allievo del maestro Secondo Ciceriinfluenzato dal pensiero democratico di GiuseppeMazzini. Al ginnasio-liceo Marco Foscarini diVenezia ha avuto come docente il conte Pietro

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Orsi, autore di un’opera di storia italiana di orien-tamento liberale ed anche anticlericale, nella qualeaveva espresso, fra l’altro, una critica severa neiconfronti di Carlo Tivaroni, notissimo esponentedel radicalismo veneto (Orsi, 1901 - Per alcuni rife-rimenti al ruolo culturale di P. Orsi a Venezia, M.Isnenghi 1984).Orsi era a Venezia uno dei dirigenti dell’Unionedemocratica, un’organizzazione che nel 1912 si erafusa con il partito radicale (Piva, 1977, 26). AVenezia il partito radicale, espressione dei cetiintermedi, era caratterizzato in senso fortementeanticlericale.L’anticlericalismo era una posizione condivisaanche da molti liberali e socialisti nei confronti deiquali, soprattutto dei primi, il partito radicale rivol-geva delle proposte di alleanza politica ed eletto-rale. L’anticlericalismo aveva anche la funzione didividere i moderati laici dai moderati cattolici. Ilpartito radicale raccoglieva un certo consenso nonsoltanto dei ceti medi in città ma anche in provin-cia, a Portogruaro e a San Donà di Piave, da partedella borghesia agraria impegnata, mediante capi-tali propri e mediante i consorzi di bonifica, nellalunghissima, complessa e difficile operazione dellabonifica delle paludi (Fassetta, 1977)La famiglia Trentin possedeva dei terreni agricoli.Trentin, pur non appartenendovi, era molto vicinoallo strato della borghesia agraria protagonistadelle bonifiche delle paludi del Basso Piave ai mar-gini della laguna di Venezia.Nelle note sulla politica agraria del fascismo, pub-blicate su “Giustizia e libertà” del 1938, Trentinesprime il suo legittimo orgoglio per la tradizioneveneta delle bonifiche, quella del Magistrato alleacque e dei consorzi della Repubblica di Venezia.Egli esalta i sacrifici sostenuti dai contadini, chespesso morivano molto giovani per bonificare leterre; inoltre difende i risultati ottenuti nella boni-fica dalla legge Baccarini del 25 giugno 1882. I suoi primi saggi giuridici, pubblicati anche primadella laurea, sono dedicati ai consorzi di bonifica,una storica istituzione creata nella prima metà delCinquecento nella Terraferma veneta dallaRepubblica di Venezia nella quale si realizzò, alme-no in parte, il principio della sussidiarietà.Tuttavia al congresso regionale veneto delle bonifi-che, che si svolse a San Donà di Piave dal 23 al 25

marzo 1922, Trentin presentò, oltre alla relazione,una mozione che fu duramente contrastata dagliagrari bonificatori per due richieste in essa conte-nute nei punti 3 e 7, relative al diritto di ispezionedel Governo nelle bonifiche private e alla responsa-bilità dei proprietari terrieri per la malaria contrattadai loro braccianti quando essi fossero stati inadem-pienti nel provvedere alle misure profilattiche (Sulladiffusione della malaria nel Sandonatese e nelVeneto, P. Sepulcri 1936).Trentin appartiene alla classe dei proprietari ter-rieri ma per il suo reale e coerente umanitarismonon esita ad entrare in conflitto con esponentiautorevoli della classe dirigente del suo ambientedi appartenenza. Per Trentin la bonifica umana, cioè quella dellecondizioni di vita dei braccianti, è veramente loscopo prioritario della bonifica idraulica ed agrico-la. Egli supera di gran lunga la filantropia del pen-siero e della tradizione massonica. La radicalitàdella sua posizione umanitaria assunta nel conve-gno del marzo 1922, quando egli è ancora nellaprima fase del suo pensiero, quella liberal-demo-cratica, è un precedente importante che consentedi capire la dura critica del capitalismo monopoli-stico e finanziario e della proprietà privata chefece parte, agli inizi degli anni Trenta, delle suenuove posizioni politiche e filosofiche espressenelle due opere decisive della “svolta” dell’auto-nomia e quindi del federalismo: Riflessioni sullacrisi e sulla rivoluzione (1933) e La crisi del dirit-to e dello stato (1935).Nell’agosto 1924 il consiglio nazionale del Partitofascista non solo ribadì, con un ordine del giornopresentato da E. Bodrero, l’incompatibilità tra l’ap-partenenza al PNF e alla massoneria, ma pose tragli scopi principali del fascismo la lotta contro diessa, cioè contro la vecchia classe dirigente postri-sorgimentale (De Felice, 1966, 679-670).Una forte presenza massonica caratterizzò nonsolo la Democrazia sociale, che era la formazionepolitica originaria e di provenienza di Trentin, maanche l’Unione nazionale, una organizzazione poli-tica coerentemente antifascista che ha avuto comeesponente più autorevole Giovanni Amendola, allaquale Trentin aderì nel novembre 1924 in unperiodo di piena crisi delle opposizioni antifasci-ste (Carocci,1956, 166)

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Elio Franzin Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa

Dopo il delitto di Giacomo Matteotti (10 giugno1924), Mussolini, con il suo discorso del 3 gennaio1925, diede inizio ad una nuova fase del fascismoponendo alcune delle premesse politiche e giuri-diche per la sua trasformazione da governo in regi-me, ridimensionando e liquidando gli esponentidel vecchio stato conservatore e laico. Il 19 mag-gio 1925 con 304 voti a favore fu approvata allaCamera dei deputati la legge contro le associazionisegrete cioè la massoneria, che era stata la princi-pale organizzazione del vecchio stato laico. Il 16maggio era intervenuto contro il provvedimentoanche Antonio Gramsci ben consapevole dellasvolta nella storia dello stato italiano rappresentatadalla liquidazione della massoneria (Gramsci,1971, 75-85). Nello stesso mese il nome di Trentinapparve nella seconda lista dei firmatari del“Manifesto degli intellettuali” redatto daBenedetto Croce.Il 5 novembre furono arrestati, con l’accusa del-l’organizzazione di un attentato a Mussolini, l’ex-deputato Tito Zaniboni del Partito socialista unita-rio e il generale Luigi Capello legato agli ambientidella massoneria (De Felice, 1968, 139-147). Laresponsabilità della preparazione dell’attentato delGran Maestro della massoneria di palazzoGiustiniani non fu dimostrata al processo, anche seindubbiamente alcuni ambienti massonici eranostati a conoscenza del progetto di Zaniboni cheprevedeva prima l’attentato a Mussolini e poi l’in-staurazione di un governo militare.Zaniboni aveva progettato, contemporaneamenteall’attentato a Mussolini, anche l’intervento di grup-pi di azione nell’Italia settentrionale. Mussolini neapprofittò per decidere lo scioglimento di tutte lelogge della massoneria di palazzo Giustiniani, dellaquale Capello era uno dei maggiorenti, e la sorve-glianza di quelle di piazza del Gesù.Secondo Antonio Gramsci, “col colpo Zaniboni si èchiuso una ciclo della storia del nostro paese, ilciclo apertosi con l’occupazione delle fabbriche”.Egli riteneva che l’episodio Zaniboni spiegasse l’at-teggiamento di molti partiti, come ad esempioquello repubblicano e quello socialista massimalista,i quali avevano delle illusioni nei loro “strani pro-getti e metodi di lotta” (Gramsci, 1971, 476, 478)Il 24 dicembre 1925 fu approvato il decreto leggen. 2300 il quale privava gli impiegati dello stato

della libertà politica. Esso all’articolo 1 concedevaal governo la facoltà di dispensare dal servizio ifunzionari pubblici di ogni ordine e grado che per“ragioni di manifestazioni compiute in ufficio ofuori di ufficio” non diano “piena garanzia di unfedele adempimento dei loro doveri o si ponganoin condizioni di incompatibilità con le generalidirettive del Governo”.In seguito all’arresto del 5 novembre di TitoZaniboni e del generale Luigi Capello, a Venezia siintensificarono le aggressioni fasciste nei confron-ti della massoneria, ed anche dei docenti antifasci-sti di Ca’ Foscari. È molto probabile che l’intimidazione personale,raccontata da Vittorio Ronchi, subita da Trentin daparte di uno squadrista che gli impedì di tenerelezione a Ca’ Foscari e della quale egli informò inu-tilmente il prefetto, si sia verificata dopo l’appro-vazione della legge antimassonica del 19 maggio1925 (Ronchi, 1975, 47-48 - Per la biografia di V.Ronchi, D. Casagrande 2000).Il 7 gennaio 1926 Trentin inviò al direttore del R.Istituto universitario di Ca’ Foscari le sue dimissio-ni da professore stabile di diritto pubblico. Il 2 feb-braio 1926 lasciò l’Italia assieme alla sua famigliaper recarsi nella località di Pavie a tre chilometri diAuch nel dipartimento del Gers (Languedoc) doveacquistò una azienda agricola.Trentin fu introdotto in alcuni salotti ed ambientiradicali e massonici della regione dal giornalista ita-liano Luigi Campolonghi che amministrava le pro-prietà francesi del giornalista milanese Della Torre.Per la sua cultura ed il suo impegno politico con-quistò ben presto una notevole popolarità nellaregione, ma la sua gestione dell’azienda agricolaacquistata si concluse in modo negativo. Riuscì poia farsi assumere come semplice operaio nella tipo-grafia Bouquet di Auch dalla quale fu licenziato nelmaggio 1934 per aver partecipato ad uno sciopero.Agli inizi del 1935 comprò una libreria a Tolosa ediniziò la nuova attività (Arrighi, 2004).Gli anni dell’esilio non furono certamente facili sulpiano personale ma non lo furono neanche sulpiano politico. Fino al 1930 gli articoli, i saggi e leopere di Trentin hanno come argomento esclusivoil fascismo. Una di esse, Dallo statuto albertino alregime fascista contiene una ricostruzione, note-vole sul piano storico, della evoluzione graduale

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dello stato italiano sul piano costituzionale(Trentin, 1983). La tesi generale sostenuta daTrentin è quella della continuità e del rafforzamen-to del carattere liberale dello stato unitario italianoche, improvvisamente e per una fortuita concomi-tanza di circostanze accidentali, viene eliminato dalfascismo. È sostanzialmente la stessa tesi diBenedetto Croce, espressa nella sua Storia d’Italiadal 1871 al 1915 pubblicata nel 1928.È una tesi storiografica rifiutata dalla grande mag-gioranza delle forze politiche dell’emigrazioneantifascista, estranee alla classe dirigente liberale eimpegnate in una ricerca sulla storia di lunga dura-ta dell’Italia e sui limiti strutturali delRisorgimento. In un momento di grande difficoltàdi ogni genere, professionale, psicologica e politi-ca, nell’inverno 1933-1934, Trentin intensifica lasua amicizia con Emilio Lussu, praticandolo quoti-dianamente ad Auch. Lussu è un federalista che,come Trentin, ha partecipato quale interventistaalla Prima guerra mondiale e ha diretto in primapersona in Sardegna una formazione federalista, ilPartito sardo d’azione. L’influenza di Lussu è statauno stimolo decisivo per l’autocritica di Trentinche nei suoi primi scritti, seguendo l’insegnamen-to del suo maestro Giovanni Vacchelli, ha esaltatoil ruolo dei Comuni come modello per la demo-crazia ma ha rifiutato la tesi regionalista.Il 1933 è l’anno della svolta politica di Trentin chepubblica le sue Riflessioni sulla crisi e sulla rivo-luzione individuando nell’autonomia il principiofondamentale della futura Costituzione dellaRepubblica italiana, la cui realizzazione è resa pos-sibile da una rivoluzione economica con obbiettivisimili a quelli della rivoluzione russa. Trentin èdecisamente antieconomicista sul piano economi-co, e laico ma antimaterialista su quello filosofico.L’enunciazione del principio dell’autonomia, con-tenuta nelle Riflessioni, è stata ripresa, citando ilbrano, anche in due opere successive da Trentinche ha voluto così sottolineare l’elemento fondan-te e fondamentale della sua concezione del federa-lismo. Peraltro, Trentin era consapevole dellainsufficienza della enunciazione del principio del-l’autonomia nell'opera del 1933 e della necessità dirisalire alle fonti del principio dell’autonomia ecioè al pensiero giusnaturalista di Grotius, Kant eRousseau.

Nell’inverno 1933-1934 Trentin stava portando atermine la stesura de La crisi del diritto è dellostato (Trentin, 2006), la sua opera filosofica princi-pale, iniziata probabilmente nel 1931 (anno in cuicomincia a ricevere il sostegno economico daparte del professor Fritz Fleiner), nella qualeTrentin ha illustrato il principio dell’autonomia,base del federalismo, la cui realizzazione è resapossibile da un programma economico di ispira-zione socialista.Secondo Trentin, la rivoluzione economica sociali-sta ha una carattere strumentale rispetto al princi-pio dell’autonomia che ha un valore assoluto. Èuna posizione esattamente opposta a quella soste-nuta dai partiti della Internazionale comunista, peri quali i diritti e le libertà sostanziali, quelli econo-mici, sono prioritari nella scala dei valori rispetto aidiritti ed alle libertà cosiddette formali.Il 15 maggio 1934 si riunì il Consiglio generaledella Concentrazione antifascista, alla quale nonpartecipavano i comunisti, che venne sciolta.Trentin, per la prima volta, assunse una parte diresponsabilità nel movimento.Nello stesso mese, Trentin perdette il modestolavoro di operaio in tipografia. Più o meno nellostesso periodo, l’insurrezione operaia di Viennavenne abbandonata al proprio destino dalla social-democrazia europea.Poco dopo in Francia, nel giugno, cominciò a for-marsi il Fronte popolare. Gli articoli scritti nel1934: Bisogna decidersi, Rivoluzione e ceti medi,sono scritti da un uomo politico molto critico neiconfronti del socialismo riformista e deciso a par-tecipare al Fronte popolare ma anche a mantenereuna differenziazione assoluta rispetto al partitocomunista pur non escludendo delle alleanze. InRivoluzione e ceti medi vi è una citazione diTrotsky, di dura critica ai socialisti riformisti, cheTrentin condivide. Ma il nucleo centrale delle sueposizioni nell’estate del 1934 è ben altro. La suaautocritica di ex-combattente della Prima guerramondiale, spinta al punto più estremo, secondo laquale la gioventù repubblicana e democratica si èposta al servizio degli speculatori dell’interventi, èin relazione con la lettura di Lenin e con le analisidel capitalismo svolte dal rivoluzionario russo. Trentin ritiene che il capitalismo sia giunto ad unnuovo stadio caratterizzato dalla concentrazione

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della produzione e delle imprese e che questa siala causa della sua crisi.La negazione del ruolo autonomo dei ceti medinella rivoluzione antifascista deriva dal cambiamen-to dei ceti medi nella rivoluzione e la critica al socia-lismo riformista è la conseguenza sul piano politicodella lettura della nuova fase del capitalismo che, avolte, è accompagnata anche da una interpretazio-ne “catastrofista” della crisi capitalistica.Non bisogna dimenticare che Trentin non è uneconomista. È un giurista che studia l’economiamondiale e ne ricava delle conseguenze sul pianopolitico.È del tutto infondata, a mio avviso, l’affermazionedi F. Rosengarten sulla influenza del pensiero diTrotsky su quello di Trentin negli anni della”svol-ta” (F. Rosengarten, 1980)È perfettamente comprensibile che, alla fine del1934, in una situazione di pesanti difficoltà econo-miche e di forte discontinuità politica e filosofica,perfino di crisi psicologica, Trentin abbia sentitoanche l’esigenza di affermare la continuità di unodegli elementi della sua storia ed identità persona-le, ossia la partecipazione alla vita di una Loggiamassonica francese, tipica organizzazione di cetimedi. Egli aveva ricevuto una formazione laica dimatrice risorgimentale ma anche il suo laicismo haavuto successivamente una evoluzione in relazio-ne al superamento del liberalismo mediante l’af-fermazione del principio dell’autonomia e delfederalismo operato con La crisi del diritto e dellostato.La Loggia La Parfaite harmonie di Toulouse versola metà degli anni Trenta non è caratterizzata sol-tanto dal laicismo. Dopo il gravissimo attacco dimassa al Parlamento del 6 febbraio 1934, organiz-zato dalle organizzazioni antiparlamentari didestra ed anche filofasciste, la Francia si divide. Il 9febbraio La Parfaite harmonie si schiera su posi-zioni antifasciste chiedendo la creazione di gruppidi difesa proletaria contro il fascismo. Nel marzoall’Università di Toulouse si verificano degli scontrifra studenti fascisti e antifascisti. Alcuni docentivengono attaccati dalla stampa di destra e la Loggiainterviene in loro difesa. Nel novembre essa sischiera contro il progetto di riforma costituzionaledel presidente G. Doumergue.Trentin nell’opera Alle origini del fascismo (1931),

successiva alla firma dei Patti Lateranensi (11 feb-braio 1929) da parte del regime fascista e delVaticano, traccia un profilo molto semplice delruolo della Chiesa. La Chiesa è impegnata in unaeterna lotta contro lo spirito e il senso della liber-tà; è un potere che ha la pretesa di imporre dog-maticamente le sue regole nelle relazioni della vitasociale. Manca da parte di Trentin qualsiasi analisistorica dei cambiamenti interventi nell’Ottocentoe nel Novecento nel rapporto fra il Vaticano e lavita economica, gli Stati, le masse popolari, i parti-ti. I Patti Lateranensi sarebbero semplicementel’incontro di due autoritarismi malgrado le riservesul fascismo precedentemente espresse da Pio XI(Trentin, 1988, 162-166).Ben diversa è la capacità di analisi che dimostra unaltro esule antifascista, Palmiro Togliatti, nel suosaggio Fine della questione romana nel quale siindividuano i cambiamenti della Chiesa per supera-re la distanza che la separava dal mondo capitalisti-co, per assimilare una parte del metodo liberale edanche di quello socialista. I Patti Lateranensi rispon-dono anche all’esigenza dello stato italiano di supe-rare la ristrettezza originaria delle sue basi sociali.Cona la firma dei patti, afferma Togliatti,“Mussolini, come al solito, realizza un successo inquanto conduce a termine con spregiudicatezzaquello che altri avevano intuito, preparato, inco-minciato a tradurre in atto”. (Togliatti, 1929, 17-28).Nel successivo saggio La libertà e le sue guarenti-gie (1932), dedicato agli amici di “Giustizia eLibertà”, Trentin prevede nella futura Costituzioneitaliana l’affermazione del principio della laicità,mediante la separazione della Chiesa dallo Stato el’organizzazione della scuola, di ispirazione risorgi-mentale. Egli riprende, non per caso, lo stesso ter-mine guarentigie usato nella legge del maggio1871. E’ ancora un uomo molto legato alle tradi-zioni laiche e laiciste del Risorgimento. (Trentin,1985, pp. 90-93).La crisi del diritto e dello stato, l’opera della svol-ta autonomista e federalista, segna una modifica-zione, un cambiamento anche del suo laicismo.D’accordo con Francois Gény, Trentin riconosce ilruolo dei Padri della Chiesa, dei teologi e dei cano-nisti nella trasmissione della nozione di dirittonaturale, poi laicizzata a partire dalla fine del sedi-cesimo secolo. Egli cita l’affermazione di Gény

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secondo il quale il fondamento della civiltà occi-dentale è la tradizione greco-latina-cristiana, laquale si è costantemente mantenuta nel senso diun diritto naturale uscito dalla natura e dalla ragio-ne, poi laicizzato e come tale indipendente dallarivelazione e dai suoi dogmi religiosi, i quali pos-sono confermarlo e svilupparlo ma non potrebbe-ro né supplirlo né assorbirlo.Alla conclusione de La crisi, quando afferma lanecessità di una rivoluzione fondata sulla dignitàdell’uomo, sulla ripresa dall’origine del processodi formazione dello statuto della vita sociale,Trentin cita i Vangeli.Al ritorno a San Donà di Piave, avvenuto il 6 set-tembre 1943, i suoi compaesani vollero cheTrentin incontrasse subito pubblicamente, appenaattraversato il ponte sul Piave, l’arciprete del paesemonsignor Luigi Saretta, già diretto collaboratoredel vescovo della diocesi di Treviso GiacintoLonghin, uno dei principali protagonisti della vitasociale sandonatese dal giugno 1915 il quale neglianni successivi alla Prima guerra mondiale avevapolemizzato spesso e duramente con la massone-ria. La caduta del fascismo stava riorganizzando inmodo nuovo anche a San Donà le relazioni fra glischieramenti politici (Autori vari, 2004; Parrocchiadel Duomo di San Donà, 2004).

DOCUMENTII

25 mars 1935 194660A la Grande Loge de FranceTT.CC.FF.

Une de nos Loges de l’0. de Toulouse nous signa-le la situation mac. du F. Silvio TRENTIN, sujet ita-lien, actuellement libraire, 46 rue de Languedoc aToulouse.Le frère TRENTIN est né à San Donà di Piave(Venise), le 11 novembre 1885 ; il a déclaré avoirété initié, il y a fort longtemps à la L. Darwin (Ven.:il F. professeur POZZOLINI). Entré en sommeil dès1906, il aurait repris l’activitè au mois d’Octobre1925, lorsque fut deposé le projet de Loi Rocco,tendant à la dissolution de la franc-mac. italienne.Il fut alors rattaché au G. O. de Rome. Finalementil dut quitter l’Italie, et il se fixa à Toulouse.Le F. TRENTIN a formulé le désir, auprès de quel-

ques-uns de nos FF. de prendre part, en qualité deF. visiteur, aux travaux d’une de nos loges de l’O.de Toulouse.Nous vous serions très obligés de bien vouloirnous faire connaitre si, par l’intermédiaire de vosLoges italiennes, il serait possible de controler lesdéclarations du F. TRENTIN, et d’avoir des rensei-gnements précis à son sujet.Veuillez agréer, TT.CC.FF., l’assurance de nes sen-timents frat. et dévoués.

LE CHEF DU SECRETARIAT

II

RITO SCOZZESSE ANTICO ACCETTATO

GRANDE LOGE DE FRANCE

8, Rue Puteaux

O. de Paris, le 4 avril 1935 E.V.

Au GRAND ORIENT DE FRANCE

TT.CC.FF.Comme suite à votre pl. du 25 mars, concernant leF. Silvio TRENTIN, j’ai la faveur de vous donner ci-après copie de la lettre que nous recevons denotre L. ITALIA NUOVA.« En réponse à votre pl. du 28 Mars dernier con-cernant le F. Silvio TRENTIN, j’ai la faveur de vousfaire connaitre que les déclarations que ce F. a fai-tes à une des LL. de l’Orient de Toulouse sont toutà fait exactes.Il s’agit d’un F. de toute confiance, d’une probitéet d’une honneteté absolues. Il est digne de la plushaute considération.Le F. TRENTIN a tous sacrifié: situation, richesse,bonheur pour la cause de la liberté. Son caractère,sa vie privée et tout ce qu’il accomplit soit commeprofesseur de droit, soit comme deputé, font delui un parfait macon».Veuillez agréer, TT. CC. FF., l’expressione de messentiments frat.

Le Grand – SecrétaireFirma illeggibile

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Elio Franzin Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa

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III6 AVRIL 1935194660

A LA L. LA PARFAITE HARMONIEO. DE TOULOUSETT.CC.FF :

A la suite de votre pl. du 21 mars écoulé, relativeau F. Silvio Trentin et à sa situation maconnique,nous nous sommes adressés à la GRANDE LOGEDE FRANCE, en la priant de nous faire savoir si, perl’intermédiaire de ses Loges italiennes, il était pos-sible de controler les déclarations du dit F. TREN-TIN.LA GRANDE LOGE DE FRANCE vient de me com-muniquer la lettre qu’elle a recue à ce sujet de saL. ITALIA NUOVA, et je m’empresse de vous don-ner copie ci-dessous:«En réponse à votre pl. du 28 mars écoulé, concer-nant le F. SILVIO TRENTIN, j’ai la faveur de vousfaire connaitre que les déclarations que ce f. a fai-tes à une des LL. de l’Orient de Toulouse sont toutà fait exactes.Il s’agit d’un F. de toute confiance, d’une probitéet d’une honnetteté absolue. Il est digne de la plushaute considération.Le F. TRENTIN a tout sacrifié: situation, richesse,bonheur pour la cause de la liberté. Son caractère,sa vie privée et tout ce qu’il a accompli, soitcomme professeur de droit, soit comme deputé,font de lui un parfait macon».Veuillez agréer, TT.CC. FF., l’assurance de messentiments frat. et devoués.LE CHEF DU SECRETARIAT

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Elio Franzin Silvio Trentin e il Grande Oriente di Tolosa

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Potrebbe essere considerata soltanto come l’ulti-ma “migrazione” , in ordine di tempo, del tema delrepubblicanesimo da un settore disciplinare all’al-tro, quindi dalla storia del pensiero politico, da cuiha inizio il suo percorso nel dibattito storico-poli-tologico contemporaneo, alla filosofia politica, allateoria politica, per approdare infine alle RelazioniInternazionali. Probabilmente però, nell’intenzio-ne di Nicholas Onuf, comunemente considerato ilfondatore dell’approccio costruttivista nelle scien-za politica internazionale, vuole essere molto dipiù. Seguendo per un momento il filo tracciatodalle posizioni (post-strutturaliste) più radicali,nell’ambito del variegato panorama della teoriacostruttivista, in tema di critica della modernitàpolitica, possiamo meglio comprendere qualeimpatto abbia il ricorso da parte di Onuf alla cate-goria del repubblicanesimo nell’affrontare i temicentrali della teoria generale delle relazioni inter-nazionali. Il primo dato che emerge si riferisce all’analisi deicaratteri fondanti del processo di strutturazionedello spazio politico moderno, definitosi, attraver-so la costruzione del sistema territoriale di Stati,intorno alla fondamentale cesura tra interno/ester-no, cioè tra pacificazione all’interno dei confininazionali e condizione permanente di anarchia inambito internazionale. Secondo la teoria post-strutturalista, questa archi-tettura si cristallizza in una duplice temporalità.Quella propria della politica interna, in cui opera la

dimensione del mutamento sociale, e quella dellapolitica internazionale di cui si postula una condi-zione di anarchia permanente, quindi immutabile.Sul piano epistemologico, questa duplice tempo-ralità si traduce nella pressoché totale esclusionedella variabile del mutamento dall’analisi dellapolitica internazionale. In questo quadro il riferi-mento al Repubblicanesimo, qui inteso come ondalunga del politico nella civiltà occidentale (dall’etàpre-moderna a quella moderna a quella tardo-moderna), viene utilizzato da Onuf dapprimacome grimaldello (la pars destruens) attraverso cuide-costruire questa architettura culturale e politi-ca, poi come prisma, punto di osservazione privi-legiato per l’analisi dei processi di trasformazionedella politica internazionale in questa fase storica.Per ciò che riguarda invece la pars construens, sitratta di capire in quali termini il repubblicanesimo(ovvero, come si vedrà, il costruttivismo nell’acce-zione di Onuf) implichi una concezione inclusivadello spazio politico, in grado di sostituire al duali-smo tra politica interna e internazionale, tra localee globale, tra continuità e mutamento, la dualitàinclusiva della “politica interna del mondo”, dellasocietà civile globale, del “glocale”. Questa dualità viene ricomposta nella visione post-moderna del rapporto tra micro e macro, tra“agente e struttura” (nei termini giddensiani).Questo rapporto ha natura riflessiva ed è esempli-ficato dal carattere ricorsivo di una relazione dimutua costituzione processuale di questi stessi ter-

Lidia Lo Schiavo

Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy inInternational Thought, Cambridge, CambridgeUniversity Press, 1998, pp. 284.

Il Sestante

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mini. Quanto alla vicenda storica del repubblicane-simo nella modernità politica, secondo Onuf, èpossibile fare riferimento ancora ad una duplicetemporalità, stabilita in questo caso dalla determi-nazione del prius e dal posterius che conseguonoad una fondamentale cesura, quella cioè che sanci-sce la fine (apparente) di questa stessa vicenda,quando nel XVIII secolo il repubblicanesimomoderno lascia spazio alla vittoria del liberalismo,affermatasi sia in termini ontologici che epistemo-logici. Apriamo qui per ciò che riguarda quest’ultimopunto, solo un breve spazio di riflessione. La vicen-da del pensiero politico occidentale si accompa-gna all’affermarsi della epistemologia positivistacon i suoi modelli esplicativi-predittivi della realtàpolitica. Quanto al problema ontologico, entrandoper questa via nel vivo del dibattito teorico delleRelazioni Internazionali contemporanee, si puòcominciare col dire che il progressivo stabilizzarsidella istituzione fondamentale delle moderne rela-zioni internazionali, ovvero la sovranità, implical’affermarsi di una sistema – liberale – dei rappor-ti tra Stati, garante di una convivenza di stampolockeano, che si stabilisce cioè tra “rivali” e non piùtra nemici, à la Hobbes. Il senso di questa distin-zione tra tipologie di rapporti, cioè tra un modellodi mera coesistenza hobbesiana e uno di coopera-zione lockeana, è stato individuato da un altrocostruttivista, Alexander Wendt, autore di unapproccio “stato-centrico” alla politica internazio-nale, e artefice della distinzione tra cultura hobbe-siana e cultura lockeana, ovvero kantiana, conside-rate costitutive della stessa struttura del sistemainternazionale. Ebbene, secondo Wendt, il motoredel mutamento della politica internazionale consi-ste nei processi di identificazione e di socializza-zione tra Stati, che esemplificano il ciclo istutizio-nalizzazione-mutamento-istituzionalizzazione. Ciòavviene nella cornice costituita dalla struttura dellapolitica internazionale, costruita processualmenteattraverso il raw material fatto di idee, di contenu-ti intersoggettivi condivisi (oltre che delle compo-nenti materiali cui quei contenuti intersoggettividanno significato). La struttura, intesa come il core ontologico dellapolitica internazionale, è dunque culturale e cogni-

tiva, in quanto costituita da un insieme di norme,identità e interessi condivisi. Se questa è la rappre-sentazione della politica internazionale secondol’approccio costruttivista, la visione consolidatasicon l’affermarsi del paradigma neorealista prima eneo-liberale poi nelle Relazioni Internazionali,approda a conclusioni ben diverse. Sul piano onto-logico si consolida infatti il paradosso costituito dalmodo di concepire il rapporto tra attori statali, inquanto egoisti razionali, e la dimensione dellasocialità pur presente nel sistema internazionale.Le posizioni neorealiste condividono con quelleneo-liberali gli assunti razionalistici relativi al com-portamento degli attori statali la cui identità è data,nel senso che risulta esogena rispetto ai processidi interazione. Quanto alla struttura, stando ad una delle piùrecenti ed eleganti formulazioni teoriche neoreali-ste (quella di Waltz), esse figurano al più come uninsieme di condizioni di costrizione, che si limita-no cioè a riflettere la “posizione” delle unità (defi-nite in termini di distribuzione delle capacità mate-riali) nel sistema internazionale. In questo senso lastruttura diventa determinante per il comporta-mento degli attori. Stando a questa concettualizza-zione, da una parte, gli Stati sono attori egoistica-mente orientati, autonomamente in grado di defi-nire i loro interessi, dall’altra il loro comportamen-to viene condizionato deterministicamente dallastruttura del sistema internazionale, che li rende,per così dire, reattivamente passivi. In più passaggi della sua argomentazione Onuf eti-chetta uno specifico modo di intendere la politicainternazionale riconducendolo alla visione deicosiddetti “weak liberals”. Il senso debole dellaloro posizione teorica consiste nel porsi di fronteal “paradosso” senza poterlo sciogliere. Nell’essereconsapevoli, cioè, delle implicazioni dell’assuntocentrale della visione “realista”, ovvero convenzio-nalista della politica che solo il recupero dellematrici repubblicane delle relazioni internazionalipuò avviare a soluzione. Il problema del rapportotra condizione di autonomia degli attori statali edelle loro reciproche relazioni nella “società inter-nazionale”, rimanda, secondo Onuf, ad una sortadi regresso infinito alla ricerca degli elementi dipriorità logica e ontologica dei termini di questo

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rapporto. Nella visione liberale (in particolarequella forte o realista tout court) gli individui (inquesto caso gli Stati) creano la società spinti dauna motivazione egoistica, quindi spinti da unalogica strumentale. Al contrario, in termini repub-blicani, la società non è puro artificio (leggi con-venzione) ma è prioritaria nel senso forte secondocui l’attore e l’azione sociale sono possibili e acqui-stano senso solo in presenza della cornice dellasocialità. A chiarire i caratteri della posizione dei weak libe-rals può servire ricordare che essi hanno in comu-ne, con la visione realista, la concezione anarchica,stato-centrica della politica internazionale. Sulpiano analitico questa visione si concreta nel con-siderare identità e interessi degli Stati come varia-bili esogene, e nell’attribuire un ruolo ancillare alleistituzioni della politica internazionale, consideratecome variabili intervenienti ed assunte nella fun-zione di riduzione dei costi di transazione nellacornice dei rapporti tra Stati, o come veicoli diinformazione e di monitoraggio per l’avvio ed ilmantenimento di processi cooperativi. L’idea diistituzioni della politica internazionale intese insenso forte viene avanzata dall’approccio costrutti-vista, nel sostenere che le costruzioni intersogget-tive (idee, informazioni, interessi ovvero il mododi percepire e definire bisogni e “desideri”) vengo-no incorporate e veicolate come DNA strutturalenelle stesse istituzioni. In questo senso, esse sonocostitutive degli attori e dei processi, si configura-no come le componenti cognitive ed “etiche” fon-damentali della politica internazionale, mentre vei-colano tanto i meccanismi di conservazione dellastruttura, quanto i processi di mutamento. Il paradosso viene sciolto, in termini costruttivisti,sulla base del processo di mutua costituzione diagente (gli attori statali) e struttura (il sistema-società internazionale). Questo rapporto, comesottolinea Onuf, in particolare, implica che nonpuò darsi attore sociale senza contesto socialestrutturato da regole. È a questo punto che emer-ge la specificità della posizione di Onuf rispetto adaltre voci presenti nell’approccio costruttivista. Inquesto senso, il mondo sociale è un universo dienunciati linguistici, ovvero di norme (rules) checostituiscono processualmente agente e struttu-

re/istituzioni. Si tratta di norme di carattere costi-tutivo (per capirci, come lo sono per il gioco degliscacchi le regole che lo definiscono) e di normecon funzione regolativa (prescrittive di comporta-menti). Il carattere costitutivo delle regole ha unadimensione pratico-cognitiva (l’agire diviene pos-sibile e acquista significato in forza di esse), e poli-tica (le regole decidono chi ottiene cosa, quando ecome). Un insieme di regimi, saldati tra loro daregole “secondarie” di riconoscimento e di muta-mento (in grado di garantire il raccordo tra insiemidi regole ed i processi di mutamento in ciascunspecifico ambito), costituiscono la stessa dimen-sione sociale. In questo contesto, la società inter-nazionale può essere considerata semplicementecome il regime più ampio e inclusivo, di cui gliStati (e non solo) sono membri. Vale la pena a questo punto ricordare la definizio-ne stipulativa del concetto di regime riconosciutanelle RI: un insieme di principi, di norme, regole eprocedure decisionali, implicite o esplicite, su cuiconvergono le aspettative degli attori in un deter-minato settore della politica internazionale.Emerge in questa definizione la concezione libera-le dei rapporti tra Stati, secondo la quale le normeesercitano una valenza esclusivamente regolativa,irreggimentando le preferenze di attori auto-inte-ressati e garantendo la formazione di cornici istitu-zionali per la gestione di determinate aree proble-matiche. Il carattere costitutivo delle regole vienefatto emergere invece dall’approccio costruttivista,secondo il quale i regimi sono parte integrantedelle pratiche di costruzione sociale della politicainternazionale, ovvero dei processi di socializzazio-ne e di identificazione degli attori. In particolare,essi sono in grado di indurre gli Stati ad elaborareidentità collettive anziché egoistiche. Ad esempio,ciò è quanto accade all’interno delle “comunità disicurezza”, in cui cioè la cooperazione governatada regole può mutare in senso altruistico l’orienta-mento degli attori. Sin qui abbiamo discusso del problema definito dalrapporto tra attori e sistema sulla base dell’assun-zione implicita che fa degli Stati gli attori della poli-tica internazionale per antonomasia, nel senso chepolitica e Stato, ovvero sistema di Stati, si sovrap-pongano fin quasi ad esaurire lo spazio della politi-

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ca. A questo riguardo può essere utile fare riferi-mento ancora a Wendt ed alla sua analisi dello Statocome identità corporata. Lo Stato come attore uni-tario risulta dalla stratificazione di una serie di com-ponenti che Wendt prende in considerazionerispettivamente sub specie “identità corporata”,identità tipo, identità di ruolo e identità collettiva.Lo Stato è in altre parole la risultante di un clusterdi componenti in “equilibrio omeostatico”. Vi è,quindi, secondo Wendt una componente minimaleimprescindibile, molto “sottile” e generalizzabile inuna visione “trans-storica” della statualità, ed unaforma contingente che connota diversamente nellastoria le diverse forme. Lo Stato di Wendt, dunque,è in primo luogo uno Stato weberiano, cioè unaorganizzazione per il monopolio della violenza fisi-ca, ma è anche uno Stato marxiano, nel senso cheesso esemplifica la “struttura della autorità politi-ca”, e risulta dalla relazione di mutua costituzionedel complesso “società-stato”, ovvero uno statonell’accezione pluralista, da cui risulta imprescindi-bile la dimensione della società (nazionale).Per Wendt queste tre diverse concettualizzazionidanno ciascuna una diversa risposta al problema dicome non sia possibile raggiungere una soddisfa-cente definizione dello Stato (seppure minima,come egli si propone) se non in connessione conla società, in quanto interdipendenti, e tuttavia altempo stesso distinguibili. Cambia per ciascunaconcettualizzazione, sia il modo di considerare loStato come referente, sia i termini del rapporto trasocietà e Stato. La visione weberiana è quella cheindica come oggetto di riferimento un “attoreorganizzato”, in grado di esercitare poteri e fun-zioni a servizio della società (in primo luogo lasicurezza) dalla quale sarebbe, prima ancora checoncettualmente, ontologicamente distinto.Speculare a quella weberiana è la visione pluralista,che, come sottolinea Wendt, “riduce” lo Stato aigruppi di interesse ed agli individui in una società.In questo caso non si riconosce ad esso alcunaidentità autonoma, se non quella incarnata dalgoverno e dai gruppi di potere che lo formano.Nella teoria marxista, il referente non è lo Stato néla società ma lo è la “struttura”, dal momento chené l’uno, né l’altra possono sussistere senza lastruttura dell’autorità politica che li costituisce.

Tale struttura di autorità è costituita dall’insiemedelle norme, regole e principi finalizzati alla gestio-ne del conflitto ed al “governo” della società, oltreche alla distribuzione di sacrifici e risorse. Da queste concettualizzazioni scaturiscono le pro-prietà costitutive dello Stato-attore nella visione diWendt. In questi termini, sovranità e monopoliodell’uso legittimo della forza gravitano nel poloweberiano della costellazione di elementi checostituiscono lo Stato, mentre la società, identifi-cata con un patrimonio di regole e di conoscenzacondivisa entro determinati confini, delinea il polopluralista; il territorio, ovvero il radicamento terri-toriale sembrano collocarsi tra questi due poli. Ilcomplesso dei rapporti di interazione tra società eStato, mediati dalla struttura di autorità, definisco-no la configurazione marxiana. La visione di insie-me che ne risulta, la definizione minima di cuiWendt è alla ricerca, è quella che considera loStato come un attore organizzato immerso(embedded) in un ordine istituzionale, “legittima-to” dalla sovranità e autorizzato all’esercizio dellaforza in un dato territorio. Tuttavia da questa definizione emerge un dato chegiustifica l’etichetta di “realista” (oltre che Stato-centrica, a livello sistemico) o “costruttivista neo-classico” che viene attribuita a Wendt nell’ambitodello stesso approccio costruttivista. Sembra infat-ti che egli, sebbene riconosca alla società poten-zialità di auto-organizzazione, incentri la sua visio-ne dei rapporti stato/società secondo una dinami-ca prevalentemente top-down, di governo dellasocietà da parte dello stato.Queste premesse definitorie servono a Wendt perprocedere nell’individuazione di quattro diversimodi di intendere lo Stato come attore, attraversoil concetto di identità. L’identità corporata (corpo-rate identity) – alla quale più si avvicina, secondoWendt, la visione weberiana –, assunta dagli attoriindividuali, membri delle organizzazioni, come l’i-dea del tutto in riferimento alla quale agiscono leparti (gli individui), è quella che implica una visio-ne “antropomorfica” dello Stato. L’identità tipo(type identity) è quella che esemplifica la forma diStato nel senso del tipo di regime, del principio dilegittimità politica. Con l’identità di ruolo ci si spo-sta decisamente dal lato della “fisicità” a quello

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della socialità. Il ruolo (role identity), ovvero laposizione di ciascun attore-Stato è quello cheviene attribuito a questo dai suoi simili. Infine l’i-dentità collettiva (collective identity) implica ildefinirsi di processi di cooperazione in un ambien-te di socialità, sia pure “anarchico”, in cui si avvia latrasformazione delle identità da egoiste ad altrui-ste, quando cioè si delinea un processo di caratte-re cognitivo in cui la linea di distinzione traSelf/Other, finisce con l’assottigliarsi e venir meno.Ciò tuttavia può avvenire in aree circoscritte e spe-cifiche della politica internazionale e si accompa-gna a tendenze che contrastano questo processo. Da queste premesse dovrebbe essere emersa lasalienza dell’operazione di de-costruzione/rico-struzione della modernità politica condotta daOnuf sub specie “repubblicanesimo”. La specificitàdella concezione repubblicana-costruttivista dellapolitica internazionale consiste nella capacità dirisolvere la tensione implicita nel paradosso chescaturisce dall’assunzione (realista ma anche neo-liberale) secondo cui lo Stato è da considerarsicome un attore indipendente dal contesto sociale,una sorta di traslato dell’homo oeconomicus, chetuttavia, a dispetto di questo assunto, vive immer-so in un mondo di socialità, a partire dallo stessoprincipio “individualistico” di sovranità, che difatto opera come una regola di riconoscimentoreciproco, come insieme di significati e aspettativeintersoggettivi nell’ambito della comunità di Stati.Da questo paradosso scaturisce anche la tensioneimplicita nella moderna spazialità politica (fondatasui confini territoriali) che si articola lungo la pola-rità tra locale e globale. Questa tensione si registraanche nel nucleo fondante del patrimonio norma-tivo e istituzionale del sistema di Stati, ovvero nelrapporto tra inviolabilità dei confini e principio disolidarietà, quindi tra divieto e richiesta di inter-vento per il “bene comune”. Da questa ambiguitàscaturisce il carattere della sovranità come “ipocri-sia organizzata” (per citare una felice espressionedi Krasner). Questa ipocrisia viene cioè istituziona-lizzata, da una parte attraverso la costante riaffer-mazione, sul piano dei principi, della inviolabilitàdei confini statuali e, dall’altra, sulla base dell’al-trettanto costante interferenza nel riservato domi-nio di ciascuno Stato.

L’obiettivo potremmo dire programmatico assun-to da Onuf, è quello di recuperare i frammenti, i“legati” (legacy) del repubblicanesimo nel pensie-ro e nelle istituzioni della modernità politica occi-dentale, di contestualizzarli storicamente maanche di mostrare quanto “sostanziale” sia la loropresenza nel mondo di oggi. Questo perché ilrepubblicanesimo continuerebbe a innervare lastessa concezione liberale dei rapporti tra Stati ead esprimere tutta la sua salienza nella teoria poli-tica internazionale, della quale Onuf vuole portarealla luce i fondamenti storici (historical underpin-nings). Procede in questa direzione svolgendo,come si vedrà, un’interessante operazione concet-tuale di scavo rispetto ai principali elementi fon-danti della modernità politica, dal principio disovranità, a quello di costituzione, a quello disocietà internazionale fino alla dottrina della pacedemocratica. L’indagine compiuta ha l’obiettivo dimostrare come il repubblicanesimo, muovendosilungo un percorso sotterraneo nel corso dellamodernità, non solo ha continuato a permeare disé (to color) il pensiero politico moderno, ovveroliberale, ma ha finito con il riaffiorare in vestecostruttivista alla fine di questo percorso, nellapolitica internazionale dell’età postmoderna. Può essere utile a questo punto descrivere breve-mente l’architettura dell’analisi costruita da Onuf. Iltesto viene diviso in tre parti fondamentali. Laprima affronta per così dire trasversalmente gli ele-menti centrali del pensiero repubblicano, cosìcome individuati dall’autore attraverso una primaoperazione di definizione lessicale del termine-con-cetto e degli elementi che lo connotano. La secon-da parte è utilizzata per l’analisi dei “legati” atlanti-ci del repubblicanesimo, mentre la terza (e ultimaparte) ne prende in considerazione l’eredità conti-nentale. Alla prima di queste storie, il politologoriconduce il pensiero di Machiavelli, Harrington,Montesquieu, Hume, Rousseau, dei teorici dellaRivoluzione americana, quindi di Vattel (il quale,come puntualizza l’autore, non viene incluso nellanarrazione del momento machiavelliano di Pocockin quanto fa parte di un’altra storia, quella dellapolitica internazionale). Alla seconda schiera l’au-tore riconduce Grozio, Altusio, Leibniz, Wolff eKant.

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Per ciò che riguarda la parte iniziale, il primo com-plesso tema ad essere affrontato è quello posto dalmodo di concettualizzare natura (nature) e con-venzione (convention), ovvero physis e nomos,nell’ambito del pensiero aristotelico. La continuitàdel rapporto postulata tra politica e natura, trarazionalità politica e razionalità sociale (il bios poli-tikos), implica che la polis venga ricondotta all’or-dine della natura e che, al tempo stesso, la praticapolitica venga considerata come un’arte (quindicome un’attività intenzionale). In questo senso lapolis va distinta dalla politeia, ovvero dalla costitu-zione pratica e dal modo di governare la città inconcreto. Nel prosieguo dell’analisi, vengono presiin considerazione il tema del mutamento politico, ilvalore della stabilità e del conflitto nella politica(tema centrale nella mediazione machiavelliana delrepubblicanesimo), il concetto di virtù civica, didovere, di bene comune.In questo contesto, si dà spazio anche alla vicendadella costruzione del lessico della modernità poli-tica. In particolare per ciò che riguarda lo slitta-mento nell’uso del termine respublica (e degli altritermini che, nella ricostruzione di Onuf, ne condi-vidono il campo semantico, come quello di civitasovvero anche di commonwealth) dal riferimentoalla forma istituzionale del politico in generale aquello ad una specifica forma di governo. Dunque,per ciò che riguarda la prima accezione, si affer-merà il neologismo moderno “Stato”, mentre il ter-mine repubblica diviene recessivo. Viceversa, il ter-mine repubblica entra a far parte a pieno titolo dellessico politico moderno e contemporaneo in rela-zione alla definizione della forma dei regimi politi-ci. Per quanto riguarda invece la specificità delladimensione internazionale, Onuf fa riferimentorispettivamente alla concezione di Wolff (repubbli-cano continentale) ed a quella di Vattel (rappre-sentante della versione “atlantica”), segnatamenteper ciò che concerne l’idea di civitas maxima equella di Europa (l’insieme delle nazioni europee),costituitasi come “Repubblica” in forza dello svi-luppo delle relazioni di commercio e dell’ottem-peranza all’insieme delle regole “volontarie” deldiritto internazionale “pubblico” (in cui viene datosempre più spazio al diritto pattizio dei trattati). Lo specifico dell’eredità di Vattel, nella vicenda

atlantica del Repubblicanesimo moderno, consistenella sua lettura della vicenda internazionale, i cuiprotagonisti sono le nazioni europee sovrane e laloro capacità di “cooperazione”, tendente verso lacostruzione di una “società internazionale” (ovve-ro la repubblica delle nazioni europee). In partico-lare, Vattel ha proposto una configurazione deirapporti tra nazioni sovrane come di per sé giuri-dici, sulla base di una dottrina in cui non si ricono-sceva soluzione di continuità tra Stato di natura eStato di diritto, non veniva separato il diritto dallamorale ed erano considerati giuridici anche gliobblighi non sanzionati. Gli Stati come “personelibere” possono giudicare “secondo coscienza”cosa i doveri naturali richiedono loro e, quindi, ciòche può essere fatto o non fatto. Nell’ottica diVattel, la società politica “ben ordinata” è quellache si fonda sulla costituzione formale, attraversocui una nazione si costituisce in Stato, dopo cheattraverso il “compact” un popolo si è fatto nazio-ne. E tuttavia, secondo Onuf, Vattel sarebbe statoforse eccessivamente ottimista nel ritenere che laregola dell’equilibrio europeo, del balance ofpower, sarebbe stata in grado di assicurare la con-vivenza pacifica, dal momento che tale equilibrioera fondato sulla regola della competizione traStati. Del resto, ricorda Onuf, la Rivoluzione fran-cese e gli eventi che ne seguirono, posero fine allapur breve storia della Repubblica delle nazionieuropee, mentre si consolidava il sistema di Stati,già scaturito dalla logica westphaliana. Da quantodetto sin qui risulta dunque che la tradizione atlan-tica del repubblicanesimo nella teoria internazio-nale lascia emergere in modo più netto la sferadella socialità. In questo senso, amplia il legatoatlantico in tema di costituzione della società inter-nazionale, la concezione costruttivista espressa daOnuf nei termini dei processi di costruzione socia-le della politica internazionale. Per quanto riguarda invece il repubblicano conti-nentale Wolff, la sua idea di civitas maxima puòessere ricondotta, secondo Onuf, alla tradizionearistotelica della concezione dello spazio politico,dal momento che, come afferma l’autore, Wolff hafatto riferimento ad una rappresentazione spazialecostruita per ordini e gradi, estesa in una sequen-za ascendente di diverse “associazioni” collocate

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su più livelli, fino alla magnitudo civitatis, com-prendente l’umanità intera (totum Genus huma-num). La civitas maxima di Wolff tuttavia, nonesaurisce l’eredità del repubblicanesimo continen-tale; a questo contesto Onuf riconduce il temadella società civile internazionale, consideratacome sistema di bisogni, della dottrina della pacedemocratica (si pensi alla società civile kantiana),edell’epistemologia positivista. Tra i “temi vatteliani”, centrale, come si è detto, èil concetto di sovranità. La ricostruzione condottada Onuf in questo caso è sia concettuale che lessi-cale. Non manca in questo caso il riferimento almetodo skinneriano di indagine del pensiero poli-tico compiuto “in contesto”, ovvero nella cornicestorico-politica in cui si sviluppa uno specifico lin-guaggio politico. In particolare, secondo Onuf, l’e-voluzione di tale fondamentale istituzione dellapolitica internazionale, va letta nella cornice dellapiù ampia serie di “discontinuità epistemiche”scandite dalle fasi del processo di modernizzazio-ne. Se, come ha affermato Onuf, “il mondo e leparole si costituiscono reciprocamente”, alloradiventa particolarmente saliente l’indagine “inter-testuale”, condotta dall’autore, del termine-con-cetto sovranità, di cui egli scandaglia le compo-nenti. In particolare, la vicenda della sovranitàviene qui ricostruita in prima istanza attraverso laricognizione degli “antecedenti”, derivanti dallaconcezione pre-moderna della politica, a partiredall’età classica. Questi vengono individuati rispet-tivamente nella “maestà” (majestas), in quantodella componente valoriale, “sacra” del poterepolitico, nell’imperium (la garanzia del rispettodella legge e l’amministrazione del territorio), neldiritto (rule), ancora, nella fiducia come collantedei rapporti sociali (public trust). In questo conte-sto, il processo di evoluzione dell’istituzione sovra-nità funge, nell’ottica costruttivista, da prisma perosservare i processi di mutamento della politicainternazionale. Per ciò che riguarda tale dimensione diacronica,secondo Onuf, occorre leggere queste vicendeseguendo la triplice trama delle interrelazioni tral’uso del termine, il significato attribuitogli e larealtà socio-politica cui esso è riferito. Al consoli-damento moderno della sovranità segue la sua

implosione, e la conseguente frammentazionedelle sue componenti, in età postmoderna. Così adesempio, la componente sacrale-valoriale sembraora configurarsi non più appannaggio degli Statima di gruppi religiosi (musulmani ma anche cri-stiani), che contestano dal di dentro e dall’esternol’auctoritas statale. L’elemento relativa alla alloca-zione delle funzioni amministrative subisce ora unduplice processo di de-concentrazione territoriale,a livello locale e sopranazionale, attraverso la redi-stribuzione delle funzioni tra diversi livelli di com-petenza. Il riferimento è al costituirsi delle struttu-re di governance sopranazionale ed all’assottigliar-si della linea di separazione tra pubblico e privato.Ancora (tra i temi vatteliani), Onuf indica il “princi-pio di intervento” per il bene comune; nulla di piùcontroverso probabilmente in questa fase storica,in cui il lessico delle “tecnologie” di esportazionedella democrazia sembra aver assunto una fortecaratterizzazione egemonica. La terza ed ultima parte del testo è dedicata allaenucleazione dei “legati” continentali, per conti-nuare con la metafora proposta dall’autore. Qui inprimo luogo figura il tema epistemologico nellostudio della politica internazionale, condotto attra-verso la distinzione di livelli analitici in cui Onufscorge, come si è detto, l’eredità della costruzionegeometrica dello spazio politico moderno. Questaimpalcatura analitica pone su una linea di conti-nuità la concezione moderna della territorialità(caratterizzata da un’organizzazione accentratadello spazio, sia in termini cognitivi che ammini-strativi, coerente con la concettualizzazione di ununico punto prospettico nelle arti visive), e la rap-presentazione dell’individuo come io cartesiano,resosi, per così dire immune dagli effetti dei pro-cessi di costruzione sociale della realtà (cognitiva epolitica). Per ciò che riguarda l’eredità kantiana,Onuf fa riferimento alla dottrina liberale della pacedemocratica. Al di là delle diverse articolazioniassunte da questa tesi (che si distingue fondamen-talmente nelle due versioni, monadica, secondo laquale gli Stati democratici sono sempre e comun-que poco inclini a ricorrere alla forza, e diadica, percui si ritiene che gli Stati democratici non combat-tono tra loro ma solo con gli Stati non-democrati-ci), l’accento è posto sulle premesse liberali costi-

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tuite dal cosiddetto triangolo kantiano - commer-cio/diritto internazionale e ordinamento repubbli-cano (interno) - considerato come garanzia dicooperazione pacifica tra stati. In questo contesto, quelle che Onuf ha raccontato,come si è detto, sono “due storie” del pensierorepubblicano - una “atlantica”, l’altra “continenta-le” – che indica, metaforicamente, come due fon-damentali “capitoli” del più ampio e complessomacro-testo costituito dai processi di modernizza-zione (qui assunti nell’accezione weberiana). Se è vero che Onuf utilizza l’opera di Pocock comecriterio guida lungo tutto il suo percorso di analisi,pure si possono notare alcune differenze che con-tribuiscono a determinare la specificità del repub-blicanesimo à la Onuf. Quanto alle differenze, que-ste emergono in particolare, in relazione al diversometodo con cui la vicenda del repubblicanesimo èstata ricostruita nel dibattito storico e filosofico.Nella storia delle dottrine politiche, l’opera diPocock e la sua tunnel history svolgono un ruolodeterminante nel prosieguo del dibattito. Ma inquesto ambito disciplinare non si fa riferimento adun repubblicanesimo di tradizione continentalenei termini utilizzati da Onuf, che lo considerainfatti come una sorta di liberalismo in senso debo-le, distinguibile, se così può dirsi, dalla correnteatlantica del repubblicanesimo, sulla base del rife-rimento alla natura, ad un ordine politico iscrittoin essa. Se infatti la tradizione giusnaturalista econtrattualista ha un carattere specifico, questoconsiste proprio nel diverso ruolo che la “natura”assume come referente, ovvero come esperimentomentale, per la ricostruzione della sfera politica.Questa tradizione si fonda sulla negazione delloStato di natura, secondo il modello hobbesianoche ha carattere dicotomico e chiuso (o lo stato dinatura o lo stato civile). Il modello aristotelico tradizionale ha invece carat-tere plurimo, gradualistico, aperto, nel senso che ilpassaggio dallo stato prepolitico allo stato politico,avviene per un naturale processo di estensionedalle società minori alla società maggiore, pereffetto di cause naturali e non per un atto di volon-tà razionale. D’altra parte, nell’ambito della storiadel pensiero politico, il discrimine tra le tesi à laPocock e quelle à la Skinner, è costitutito dalla

posizione assunta rispetto al rapporto di continui-tà-discontinuità del pensiero politico modernocon la “politica aristotelica”, dal ruolo più o menoampio attribuito alla “mediazione” del pensiero diMachiavelli, e dall’influenza riconosciuta alle ela-borazioni filosofiche e storiche romane. La distin-zione tra le due sponde dell’Oceano serve invecead Onuf anche per far emergere che, nella decli-nazione atlantica del repubblicanesimo, uno deitemi ricorrenti è costituito dal riferimento alladimensione del mutamento, mentre nella versionecontinentale prevale una concezione statica dellapolitica. Questa a sua volta sfocia altresì in unapostura epistemologica che finisce con il sostituireil “metodo” scientifico all’ontologia della realtàsociale, finendo cioè con l’assimilare la rappresen-tazione architettonica del mondo come unacostruzione spaziale collocata su più livelli, con ladistinzione delle diverse unità di analisi. Al contra-rio la dimensione dello spazio nel repubblicanesi-mo di matrice “atlantica” viene risolta nella costru-zione federalistica, alternativa all’architettura spa-ziale geometrica westphaliana e alle dinamichecentralizzatrici che la caratterizzano. L’intera vicenda storica del repubblicanesimo varicondotta, come argomenta l’autore, nel piùampio ambito dell’analisi dei meccanismi del pro-cesso di modernizzazione. Nell’alveo di questomacro-processo, sono riconoscibili i processi dirazionalizzazione dell’autorità politica (che, nel lin-guaggio di Onuf, sono indicati dal prevalere delleregole di tipo “direttivo”, ovvero amministrativo),la differenziazione dei ruoli e delle funzioni, l’am-pliamento della partecipazione politica sub speciepolitica di massa. Per ciò che riguarda la politicainternazionale, in età postmoderna, questi proces-si contribuiscono alla costruzione di una “societàcivile globale”, in cui si esprime al massimo livellola dinamica della differenziazione funzionale. PerOnuf questa nuova declinazione della strutturadella politica internazionale esprime, nell’ambitodell’eredità continentale, il trionfo dell’accezionehegeliana della società civile, intesa come “sistemadei bisogni” (system of needs). Questo sistema haun carattere omogeneizzante; come un “lattice”pervasivo ingloba in sé gli Stati, insieme a una“miriade” di associazioni sorte ad ogni livello di

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questa struttura dalla natura mutante, polimerica. Questo lo stato dell’arte. Ma dal momento che l’o-biettivo di Onuf è quello di “guardare avanti”,dopo aver proiettato lo sguardo indietro, rimane,in senso prasseologico, un compito da svolgereper il repubblicanesimo riaffiorante, quando cioèla sovranità è in crisi ed il mondo westphaliano cri-stallizzatosi nel XVIII secolo, si trasforma. In que-sto senso, occorre tornare al lessico repubblicanodel vivere civile, della partecipazione, del perse-guimento del bene comune per rendersi conto,cioè, che la mera espansione del “lattice” della dif-ferenziazione funzionale fino al disegno di unasocietà globale, non è sufficiente a costruire unasocietà politica, un nuovo ordine politico “repub-blicano”. Infatti, questo sistema globale, o se sivuole, questa “società in rete” che si regge sui nodicostituiti dalle città globali, si configura come unasocietà includente (o se si vuole pervasiva), edescludente al tempo stesso, costruita intorno alparadosso di un’umanità simultaneamente piùunificata e più frammentata. Al contrario, una concezione tocquevilliana-gram-sciana della società civile globale (e si noti che ilpluralismo associativo viene ricondotto da Onufall’eredità atlantica del repubblicanesimo), purpresente in altri contributi che arricchiscono l’at-tuale dibattito sul tema nelle RelazioniInternazionali, probabilmente è quella che più siavvicina all’idea del repubblicanesimo sostenuta inquesta sede da Onuf. L’accezione fatta propria da Onuf della società civi-le internazionale serve ad esemplificare un aspettodei processi di mutamento della world politicsnella fase attuale. In questo senso la lettura di Onufsi aggiunge al quadro analitico in via di consolida-mento che fa riferimento a questa categoria inter-pretativa in modo sempre più articolato. Tanto dapoterci consentire una sintesi dei diversi framesteorici proposti in relazione ai diversi aspetti dellacomplessa “realtà” in evoluzione della politicainternazionale che gli studiosi ora indicano con iltermine società civile internazionale. In realtà ven-gono utilizzate tre aggettivazioni diverse, con qual-che scostamento di significato tra l’una e l’altra o,come più spesso avviene, con l’indicazione di undiverso referente. In un caso, infatti, quello seman-

ticamente più ampio, la “società civile internazio-nale” è sovrapponibile al concetto di world poli-tics. La nuova condizione esistenziale dell’umanitàcui essa è riferibile è quella determinata dai pro-cessi di globalizzazione, ed è identificabile attra-verso la cifra qualitativa della “politica interna delmondo”. Né il “sistema internazionale”, né la socie-tà internazionale, fatti di Stati, esauriscono la com-plessità della vita politica internazionale. Ad unampliamento della soggettività politica internazio-nale, si accompagna l’inserimento, la “compressio-ne” degli Stati in questa cornice più ampia e piùcomplessa. Questa visione della società civile inter-nazionale è anche quella che conduce al supera-mento dell’idea di anarchia internazionale. Il riferi-mento alla società civile transnazionale esemplificala condizione di interdipendenza transnazionale ela sempre maggiore interpenetrazione tra arenepolitiche, nazionale, transnazionale, internaziona-le. In questo contesto, l’analisi del crescente pro-tagonismo degli attori della società civile, dalleorganizzazioni non governative ai movimenti glo-bali, mette in luce i processi di mutamento dellasfera politica internazionale. Vi è chi riconduce alladimensione interpretativa della società civile trans-nazionale sia il processo di trasformazione dell’on-tologia della politica internazionale determinatosicon la fine della guerra fredda, sia l’articolarsi di un“activist stratum”, di attori collettivi in grado diagire nella sfera transnazionale tematizzandoissues globali. La “società civile globale” si configu-ra invece come il referente più ampio, e riassorbein sé le due precedenti definizioni. In questo qua-dro viene identificata un’agenda della politica dellasocietà civile globale, che spazia dalle questioniambientali, alle cosiddette missioni umanitarie,alla politica dei diritti umani, alle proteste messe inatto dagli attivisti globali, alla costruzione di cam-pagne internazionali per obiettivi specifici (si pensialle mine antiuomo, o alla politica di genere). Siidentificano altresì “posizioni” specifiche nella“sfera pubblica internazionale” che si definisconoessenzialmente nelle diverse sensibilità e livelli diconsapevolezza della globalità dei problemi. Vi sono quindi in letteratura, accezioni più o menoampie della società civile globale. Il discrimine –proprio quello individuato da Onuf – tra processi

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di estensione globale funzionale (dalle dinamicheeconomiche, alle organizzazioni trans-governativee intergovernative, alla definizione di aree dicooperazione economica, tecnologica, organizzati-va nei regimi internazionali), e l’emergere dellaconsapevolezza globale, nei termini di una socio-logia della condizione globale, indica la linea didivisione tra i due modi di interpretare la politicainternazionale in questa fase storica. Una prima linea interpretativa fa riferimento aduna fase di transizione (la società civile globale insenso debole), caratterizzata da sopravvivenze delprecedente “ordine” e le manifestazioni di unoincipiente. La seconda linea interpretativa usa lacifra del mutamento di paradigma (la società civileglobale in senso forte), facendo appello all’uso dirinnovate capacità interpretative. A questo si aggiunge il contributo della teoria nor-mativa delle relazioni internazionali che si traducenella definizione dell’obiettivo del mutamentodella politica internazionale nel senso della costru-zione della democrazia internazionale. È a questadimensione prasseologica che è riconducibile unaparte della operazione concettuale condotta daOnuf, che per questa via si avvicina in qualchemisura ai costruttivisti riconducibili all’alveo dellateoria critica. In questo senso la politica globalepuò essere “riformata” attraverso un sempre piùampio processo di networking transnazionale (dicui si registrano le prime manifestazioni, sulla basedelle esperienze dei movimenti dei new globals,che si mobilitano secondo il macro-frame della glo-balizzazione dal basso). La possibilità di riformadell’indirizzo della politica globale viene ricono-sciuta, nell’analisi di un altro costruttivista, RobertCox, nel sorgere di un postmoderno “nuovo prin-cipe” (questa volta collettivo) quindi di una nuova“sfera pubblica”, che scaturisca dalla connessionedelle società civili e politiche nazionali per il per-seguimento di obiettivi politici globali, anzi glocali,e per la conduzione di un’azione di contrasto allespinte disgregatrici, populiste, fondamentaliste,violente che, in questa fase, stanno dettando l’a-genda della politica globale. D’altra parte, a questo quadro è possibile aggiun-gere che, una lettura del repubblicanesimo checonsenta di attribuire un ruolo di primo piano al

contributo di Vico, consente di valorizzare la socie-tà civile, intesa non solo come sfera distinta dalloStato (nel senso della tutela delle libertà individua-li) ma anche come dimensione precipua della par-tecipazione politica messa in atto da parte di iden-tità collettive indipendenti dallo Stato, a riprovadell’autonomia della dimensione della socialitàanche a fronte del processo di spoliticizzazionedella società che ha accompagnato la formazionedello Stato moderno. Né il riferimento al termineglocale, né il richiamo al pensiero di Vico possonotuttavia rimanere indicati semplicemente in modopoco più che evocativo. In particolare, l’uso deltermine glocale ricorre in modo sempre più fre-quente non solo nella letteratura specialistica,rischiando per questa via di diventare un terminepresente nel linguaggio comune. Tuttavia, alla fre-quenza dell’uso non si accompagna necessaria-mente il rigore concettuale. Anzi! Spesso viene uti-lizzato come espressione di sintesi per indicarequestioni complesse, che rimangono non esplici-tate. Brevemente proveremo dunque a far chiarez-za, sulla base di una ricostruzione delle condizioniin cui questo termine viene impiegato. A questo proposito, può essere utile tornare alladistinzione tra il piano ontologico e quello episte-mologico. Il glocale, cioè, può essere utilizzato perindicare la condizione di complessità dei mondi-di-vita globalizzati, come termine centrale nel lessicodi una “sociologia della cultura globale”, o comesintesi delle trasformazioni dell’organizzazionesociale e politica. Nell’uno e nell’altro caso si trattadi due assunti che hanno una serie di implicazioni.In un contesto in cui i confini perdono salienzapolitica e culturale (o assumono paradossalmenteuna salienza esasperata), in cui lo Stato vede ridur-si le sue funzioni di regolazione entro i confinidelle società nazionali – denazionalizzazione –ovvero il monopolio dell’esercizio e del controllodi queste stesse funzioni – destatalizzazione –(quando cioè la funzione del government si dilatanei suoi scopi e nella gamma dei soggetti legitti-mati ad esercitarla, spostandosi cioè verso lagovernance). Un mondo glocale è anche quello incui i flussi di risorse materiali e simboliche tendo-no a non obbedire più a sequenze e percorsi ordi-nati dal gioco a somma zero del rapporto territo-

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riale e culturale tra centro e periferia, ma seguonotraiettorie più complesse. Queste si irradianolungo una nuova “struttura della centralità” geopo-litica, ora reticolare. Flussi di persone, di denaro,tecnologici costituiscono la nuova “struttura” dellaglobalità. Flussi di immagini e informazioni ecostruzioni intersoggettive di comunità immagina-rie cambiano “dal di dentro” la natura della località;i paessaggi cognitivi globali come complessi disignificati condivisi, sono situati, globali ma costrui-ti in contesti specifici.Il riferimento al piano epistemologico è quello checi permette di seguire un percorso potremmo direevolutivo negli studi sulla globalizzazione.Potremmo cioè ricondurre il termine glocale aduna seconda stagione di questi studi. Quella cioè incui ci si libera da un approccio dicotomico nellavisione dei problemi per adottarne uno inclusivo.Si dà corso ad una visione della complessità in cuicioè eventi “paradossali” possono essere ricondottiad una comune cornice interpretativa. Questa cor-nice interpretativa si muove sul piano cognitivoattraverso l’uso di coppie di termini. La globalizza-zione può essere cioè spiegata come il risultato diuna serie di compresenze, tra la condizione diincertezza e quella di consapevolezza, di estensio-ne ed approfondimento dei processi sociali, didimensione globale e locale, di inclusione ed esclu-sione. Si tratta dunque di abbandonare una conce-zione interamente omogeneizzante dei processi diglobalizzazione (il lato della standardizzazione fun-zionale) o interamente frammentante (il lato deglietnicismi, dei nazionalismi, dei comunitarismi),come nel caso di interpretazioni riassumibili neitermini di “Jihad versus Mcworld”. Piuttosto si puòpensare a processi di istituzionalizzazione globaledel locale (per esempio attraverso la definizione distandard minimi di diritti che vengono adottatilocalmente) e di incorporazione o traduzione loca-le del globale. L’idea della interpenetrazione e dellacomplementarietà di globale e locale, di “incorpo-razione selettiva” del primo da parte del secondo edella creazione di una nuova località ridefinita glo-balmente sta al cuore della proposta interpretativadel glocale individuata da Robertson, e si avvicinaalla sintesi proposta da Rosenau con il neologismo“fragmegration” (in relazione alla compresenza di

dinamiche di frammentazione e di integrazionenella cornice della world politics). Ancora sotto il profilo epistemologico si tratta difare riferimento ad una nuova stagione, iniziata neiprimi anni ’90, nella teoria sociale, quella che èsegnata da una sua “spazializzazione”. Il recuperodella salienza dello spazio rispetto al tempo comecategoria interpretativa della realtà sociale è la con-seguenza dell’abbandono delle grandi narrazionisull’unidirezionalità della storia, su una sua conce-zione come “meccanismo efficiente”, in grado dipassare da una condizione di equilibrio all’altra. Lateoria sociale si spazializza ed è così in grado diguardare rispettivamente alla modernità ed allaglobalità come a costellazioni complesse di pro-cessi, non seguendo la linea teorica che considerala globalizzazione come “conseguenza” dellamodernità, senza sottrarsi all’analisi delle relazioniche intercorrono tra le due costellazioni. Il riferi-mento allo spazio e al tempo rimanda all’uso dialtri termini-concetti che possono essere ricondot-ti alla “glocalità”. La glocalità presupporrebbe infat-ti il costituirsi di una nuova natura della località,considerata come il risultato di processi di esten-sione delle relazioni sociali nello spazio e neltempo e del loro ricollocarsi in mutati contesti“locali”. Il riferimento al quadro teorico proposto daglistudi internazionalistici in campo politologico esociologico non sarebbe completo se non si pren-desse in considerazione il concetto di interdipen-denza transnazionale (che nella sua accezionedebole è riferito alle crescenti “emissioni” cheattraversano i confini di una data comunità edivengono una variabile di cui tener conto nei pro-cessi di regolazione sociale, mentre nella sua ver-sione forte indica il formarsi di una società globalesempre più integrata, diversa cioè da una costella-zione di società “internazionalizzate”) costituisce ilsostrato di una condizione di “connettività com-plessa”, di “compressione” spazio-temporale, otte-nuta con “l’annullamento dello spazio per mezzodel tempo”. Da questa scaturirebbe una condizio-ne generalizzata di prossimità, nel senso del dif-fondersi della percezione della tendenziale condi-zione di “unicità” del mondo.Nelle prime battute della nostra lettura del testo di

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Onuf abbiamo fatto cenno ad una “vittoria” delliberalismo nel suo rapporto con il repubblicanesi-mo, proposta dall’autore come frame interpretati-vo del percorso storico del pensiero politico occi-dentale. A questo punto del nostro discorso, que-sto riferimento ci consente di introdurre i terminivichiani del discorso repubblicano. Onuf includel’idea di una “vittoria” del liberalismo nel contestodella vicenda storica e politica del moderno siste-ma di Stati in cui, per un lungo tratto di questopercorso, politica e statualità non erano completa-mente sovrapponibili. La dimensione del politicoera cioè più ampia e inclusiva. In questa ottica allo-ra il posto che Onuf riserva al repubblicanesimonella sua analisi della politica internazionale e dellaconoscenza di questa è duplice. Da una parte infat-ti mette in evidenza che le istituzioni “interne”degli Stati, dalla costituzione all’idea di libertà,sono legati del “republican ways of thinking”[Onuf, 1998, 3], dall’altra che questa stessa ereditànon è facilmente rinvenibile nel “pensiero inter-nazionale”. Questo perché essa è divisa in “molti pezzi” (seve-ral pieces) e che gli internazionalisti hanno diffi-coltà a ricondurre ad un quadro coerente proprioperché manca loro il riferimento comune al“repubblicanesimo” come concezione politica maanche cognitiva, nel senso costruttivista dellacostruzione sociale della conoscenza, accanto allacostruzione intersoggettiva della realtà sociale.Come dire che diverse forme di regolazione dellavita associata, politica, economica, etica e cognitivasi intrecciano nei processi di interazione sociale.Per Onuf il recupero-rilettura del passato servecome acquisizione di consapevolezza per il pre-sente. In questo contesto, ci sembra di poter affer-mare che con il riferimento a Vico, che pure Onufomette nella sua ricostruzione, può essere utile achiarire il senso del riferimento dello stesso Onufal carattere inclusivo della concezione della politi-ca repubblicana e costruttivista. Per Vico infatti la“socialità” preesiste alla istituzione dello Stato. Lasocietà civile è lo spazio della libertà e della parte-cipazione politica. Si costituisce come ambitoautonomo, pluralistico quindi non neutralizzabilenella sua dimensione conflittuale, né amministra-bile dall’alto, attraverso l’organizzazione burocrati-

ca dello Stato. Sotto il profilo cognitivo, l’ideavichiana delle diverse forme che può assumere ilrapporto capo/gregari, Stato/società civile, riman-da ad una concezione “democratica” della logica,che non esclude cioè i gregari “dalla produzione disenso che conta”, quella cioè che definisce l’agen-da della politica ed il modo di interpretare e daresignificato alla realtà.Rispetto alle altre “migrazioni” da un contestodisciplinare all’altro, come si accennava, la rico-struzione della vicenda del repubblicanesimo ope-rata da Onuf presenta indubbiamente caratteri dispecificità rispetto alle modalità utilizzate neldibattito politologico interno. Rimane tuttavia laconvergenza degli “obiettivi” oltre ad una certavicinanza lessicale. Anche in questo caso, infatti, sitratta di ricostruire una tradizione di pensiero e,per questa via, di ricercare una diversa fondazionedel pensiero politico moderno. In questo conte-sto, Onuf è costretto, se così può dirsi, a tenere inconto anche la peculiarità dell’evoluzione discipli-nare delle Relazioni Internazionali, nell’analisidella politica internazionale. In questo campo,infatti, le RI sono storicamente le ultime arrivate.In questo caso, la “tradizione” è quella tracciata deldiritto internazionale, a partire dall’età della sua“fondazione mitica” – riconosciuta nell’opera diGrozio (repubblicano continentale) secondo la let-tura di Onuf – in cui sono riconoscibili due com-ponenti fondamentali (appunto tradizioni), quellagiusnaturalista e quella giuspositivista. Le RelazioniInternazionali, fin dal loro atto di fondazione acca-demico tra il primo e il secondo dopoguerra,hanno intrapreso immediatamente un’operazione“ideologica” di fondazione. In questo caso i “realisti” hanno guardato aTucidide, a Machiavelli e ad Hobbes come ai padrifondatori della disciplina. Tuttavia, la costruzionedi questa linea di continuità viene revocata in dub-bio non solo dai costruttivisti à la Onuf, ma ancheal di fuori delle Relazioni Internazionali. Già la let-tura pocockiana, ma soprattutto skinneriana dellessico politico moderno, mette in luce la differen-za del pensiero politico di Machiavelli e di Hobbes.La costruzione geometrico-politica hobbesianapersegue l’obiettivo di neutralizzare il conflitto, di“derubricare” la dimensione politica ad ammini-

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strazione delle cose. Al contrario, la politica è inter-pretata da Machiavelli attraverso la categoria delconflitto, inteso come manifestazione del viverecivile e della libertà, ovvero della partecipazioneresponsabile, contro la minaccia della corruzione.Ebbene, la disciplina internazionalistica riconosce ipropri natali in tre tradizioni fondamentali. Quellamachiavelliana, (realista e neo-realista), quella gro-tiana (liberale), e quella kantiana (solidarista-cosmopolitica). Tali tradizioni generano, secondoOnuf, delle aporie, presenti nell’approccio neoli-berale (riconoscibili in particolare nella versioneistituzionalista dei weak liberals). In questo ambitoinfatti se la dimensione istituzionale e delle regoleviene inserita come variabile nei modelli esplicati-vi del comportamento degli attori, rimangonoinvariate le premesse ontologiche (lo Stato comeegoista razionale) su cui si fonda tale visione dellapolitica internazionale. In forza di queste premes-se ontologiche, infatti, l’identità degli attori socialiviene assunta come variabile esogena, mentre allenorme e alle istituzioni si riconosce un mero ruoloregolativo della politica internazionale. Quanto affermato sin qui contribuisce a spiegarealmeno in parte le ragioni della difficile conviven-za, per così dire, tra relazioni internazionali e filo-sofia politica (international ethics), tra teorie espli-cative e teoria normativa. Questa impasse potreb-be tuttavia essere superata in due modi. In primaistanza distinguendo tra livelli diversi di problema-ticità e complessità della politica internazionale,per cui solo in relazione ai massimi problemi con-cettuali (quali il fondamento e la natura del siste-ma internazionale) è possibile porsi domande dicarattere normativo. Oppure facendo appello allalettura costruttivista della politica internazionale,posto che in questo caso gli elementi normativisono riconosciuti come parte integrante dello stes-so processo di costruzione sociale della realtà.Anche se in questo caso occorre sottrarsi al rischiodi sovrapporre indebitamente l’interpretazionedella realtà sociale condotta da chi agisce (firstorder interpretation) a quella del ricercatore(second order intepretation), di chi cioè osserva asua volta una realtà già interpretata. Quanto al tipodi “trattamento” del concetto repubblicanesimooperato da Onuf, oltre alla distinzione delle due

vicende, atlantica e continentale, rispetto al discri-mine fondamentale individuato nell’ambito deldibattito sul repubblicanesimo in ambito teorico-politico, Onuf sembra assumere una posizionepeculiare, riconducendo la tradizione aristotelicaalla sola componente continentale del repubblica-nesimo. Nella storia del pensiero politico la distin-zione fondamentale è posta tra tesi continuiste ediscontinuiste nella ricostruzione del pensierorepubblicano, ovvero tra chi, come Pocock, postu-la una linea di continuità tra aristotelismo e repub-blicanesimo, e chi, come Skinner, ritiene che l’ela-borazione dell’ideologia repubblicana nell’età del-l’umanesimo civile italiano, non avesse dovutoattendere il recupero di Aristotele, utilizzandopiuttosto le elaborazioni storiche e filosoficheromane (teoria neo-romana). In questo ambito disciplinare, il campo semanticoè stato costruito intorno a tre fondamentali figure.A partire da Pocock, centrale è stato il ruolo diQuentin Skinner e poi di Pettit, mentre Habermasda una parte ed i comunitaristi dall’altra, hannocontribuito ad articolare e arricchire tale dibattito.Habermas ha legittimato la sua posizione nei ter-mini di una “terza via” tra individualismo liberale ecomunitarismo di matrice aristotelica, per ciò cheriguarda la pensabilità del politico e del rapportoindividuo-società. Per i comunitaristi la ricondu-zione del repubblicanesimo ad una forma di ari-stotelismo politico (tesi continuista) è stata, se cosìpuò dirsi, funzionale alla contrapposizione conl’individualismo liberale, così come lo è stata la tesidella discontinuità per i costituzionalisti liberali, eper lo stesso Habermas (a sostegno della propostadeliberativa-procedurale di democrazia). La terzafigura fondamentale nel dibattito “interno” sulRepubblicanesimo, è, come è noto, quella di PhilipPettit, in particolare per ciò che riguarda la criticadella concezione liberale della libertà negativa,intesa come “non-interferenza”. L’alternativa pro-posta da Pettit è quella della libertà come “non-dominio”, in quanto esclude tutte le forme didominazione e di arbitrio. Questa digressione, sul diverso modo di organiz-zare il dibattito nella ricerca storiografica e nellateoria politica rispetto alla modalità seguita daOnuf nell’ambito delle RI, da una parte ci consen-

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Lidia Lo Schiavo Nicholas G. Onuf, The Republican Legacy in International Thought...

te di comprendere quale sia stato il ruolo del dibat-tito sul repubblicanesimo nella teoria democraticae nella scienza politica nell’ultimo trentennio delsecolo appena trascorso, dall’altra contribuisce afar emergere la specificità di questa ricostruzionenel campo della scienza politica internazionale.Ciò è quanto, almeno in parte, abbiamo cercato dichiarire sin qui. Concludiamo questo percorso con una riflessionesull’operazione concettuale affrontata da Onuf,utilizzando altresì questo spazio per inserirci neldibattito su uno dei temi cruciali degli studi inter-nazionali, affrontati sia attraverso l’analisi dei pro-cessi decisionali, sia con la riflessione sulle linee ditendenza dell’indirizzo politico globale. La compo-nente ricostruttiva dell’analisi condotta del polito-logo non esaurisce il senso della sua operazioneintellettuale. Vi è, come si è detto, anche una com-ponente normativa, rispetto alla quale Onuf mettein evidenza il contrasto tra i due mondi che costi-tuiscono la politica globale in questa fase storica.Da una parte, il mondo liberale delle transazioni

economiche, dell’interdipendenza, dei sempre piùveloci e intesi processi di comunicazione, della pro-sperità e della pace, dall’altra quello che resta del“mondo dei territori”, caratterizzato da insicurezza,povertà e guerra. Il primo mondo è anche quellodella società civile globale, di cui, nel prossimofuturo, verrà messa in gioco la capacità inclusiva. La posta in gioco consiste cioè nella possibilità chepossa o meno aprirsi una finestra di opportunità insenso democratico nella politica globale. Si trattadi capire cioè quali siano i margini per la realizza-zione di un’agenda normativa qui espressa attra-verso il lessico della concezione repubblicana dellapolitica, quindi mediante il linguaggio della parte-cipazione, della cittadinanza e dell’empowerment.Al momento, rispetto a quest’agenda, l’estensioneglobale dei processi funzionali, economici, comu-nicativi, costituisce solo una parte, peraltro sem-pre più spesso segnata da contraddizioni, del pro-cesso di costruzione di un nuovo ordine politicoglobale.

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Nel ripercorrere le tappe del processo d’integra-zione spesso si afferma come le prime comunitàsiano figlie della seconda guerra mondiale in quan-to nate dall’esigenza di superare la rivalità franco-tedesca causa dei mali dell’Europa nei primi annidel novecento; tuttavia, è leggendo l’autobiografiadi Monnet che si può cogliere il senso profondo ditale affermazione, che si capisce come l’integrazio-ne europea si basi su convinzioni ed idee matura-te nel corso delle esperienze di una vita, quella diJean Monnet appunto, che ha fatto della costruzio-ne di una nuova Europa un imperativo morale eduna filosofia d’azione nella convinzione che lariflessione non potesse essere separata dall’azione(Monnet 1978, 29). Tale è stata la sua influenza nel-l’informare il progetto comunitario che, comevedremo, autori quali Featherstone riconduconoalla sua filosofia le radici del deficit democratico.Testimone ed attore della costruzione dell’Europa,ideatore del metodo comunitario, promotore dellafederazione europea, sono quindi solo alcunedelle definizioni a cui possiamo ricorrere perdescrivere vita e ruolo di Monnet nell’Europa deldopoguerra. Da tali considerazioni nasce l’idea di anteporreall’analisi puntuale del deficit una riflessione sullavita e sulle esperienze di colui che è stato definitol’architetto delle Comunità. Nato a Cognac nel1888 da una famiglia di commercianti, si dedica finda giovane all’attività di famiglia, il commercio delcognac, che lo porta a viaggiare e a conoscerenuovi mondi e realtà, dapprima Londra quindil’America e il Canada. Sarà tuttavia l’esperienza

della Prima Guerra Mondiale a segnare il punto dipartenza, “l’anno zero”, della sua filosofia dell’azio-ne resa nelle formule: «unità di vedute e di azione;concetto d’assieme; messa in comune delle risor-se» (Monnet 1978, 51). Libero da pregiudizi e ricor-di del passato, egli comprende che la guerra nellaquale ci si stava imbattendo sarebbe stata diversadalle precedenti e avrebbe richiesto pertantonuove forme di organizzazione ed una revisionedel concetto di alleanza. Seguendo il principio cheavrebbe caratterizzato anche le sue azioni future,«prima avere un’idea, poi, cercare l’uomo che abbiail potere di realizzarla», e nella convinzione secon-do cui l’autorità è legittima nella misura in cui èutile, Monnet individua nel presidente delConsiglio Viviani l’uomo che ha il potere di realiz-zare la sua idea e, tramite un amico di famiglia,riesce ad esporgliela (Monnet 1978, 41). Nasce così, dalla necessità della guerra, il fulcrodella filosofia monettiana che si riassume nella pro-posta di mettere insieme dei paesi per realizzareun obiettivo comune ripartendo le responsabilitàin funzione delle capacità di ciascuno o, nel caso inquestione, «organizzare degli organi comuni capa-ci di valutare le risorse dell’Intesa, di suddividerlee di equilibrare i carichi» (Monnet 1978, 42). Lacreazione nel 1916 del Wheat Executive, ovverodella Commissione esecutiva per il grano qualeistituzione interalleata per la gestione comune, fuil primo successo registrato da Monnet che corro-bora la sua idea secondo la quale gli uomini sonoportati ad accordarsi nel momento in cui si accor-gono che hanno degli interessi in comune.

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Silvia Bedin

Il deficit democratico dell’Unione europea: tra politics e policy

Il Sestante

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Commentando la sua filosofia Monnet dirà «gliavvenimenti avrebbero dimostrato che questa filo-sofia relativa soprattutto a ciò che è necessario èpiù realistica di quella che considera soltanto ciòche è possibile» (Monnet 1978, 136).Soffermandosi sulle pagine dedicate alla narrazio-ne di quei giorni, si nota come vi sia un termine sucui Monnet torna più volte con insistenza, necessi-tà: «…solo la necessità costrinse a stabilire qua e làinterventi e controlli» (Monnet 1978, 43); «…nonci sarebbero stati sviluppi se non fossero stati sti-molati da urgentissime necessità finanziare…»(Monnet 1978, 44), etc.Ripercorrendo con attenzione le tappe fondamen-tali della vita di Monnet, si evince come il tema dellanecessità sia una sorta di fil rouge dell’intera narra-zione, ma anche come essa venga designata motoreed ispiratrice del processo di integrazione: «l’artefi-ce della federazione non sarebbe stato un uomo,ma sempre la stessa potenza astratta e multiformeche si impone a tutti gli uomini: la necessità»(Monnet 1978, 313). Tale potenza astratta è quindi,secondo la lezione che Monnet ci tramanda, moto-re della storia e pre-condizione per il cambiamentoal punto che, quando essa viene a mancare, si regi-stra un ritorno allo status quo preesistente. Come possono tali riflessioni incidere sull’analisidel deficit democratico dell’Unione europea?Punto di congiunzione, tra Monnet ed il deficit, èla necessità; in altre parole, il metodo elaborato daMonnet per l’integrazione dell’Europa deve essereadottato e può funzionare proprio perché vi è undeficit democratico. Come durante la prima guer-ra mondiale i comitati interalleati sono nati ehanno potuto funzionare in ragione delle necessi-tà della guerra, così la nuova Europa ideata daMonnet nasce e prospera dapprima sulla necessitàdi pacificare i rapporti tra Francia e Germania, suc-cessivamente sulla necessità di risolvere il deficit dilegittimazione democratica. La federazione euro-pea non nascerà quindi da un processo di costitu-zionalizzazione, ma da tentativi successivi diaffrontare le necessità contingenti e i problemi delmomento all’interno di “un’organizzazione collet-tiva e [attraverso] una consultazione collettiva”(Monnet 1978, 194), ovvero all’interno di quadri enorme d’azione condivisi che le istituzioni comuni

avranno contribuito a creare (Monnet 1978, 337).Seguendo la tesi di Monnet della necessità qualefederatore dell’Europa, possiamo leggere il tratta-to di Maastricht e le innovazioni in esso contenute,dall’introduzione della cittadinanza europea allaprocedura di co-decisione e dall’estensione delmetodo di voto a maggioranza qualificata alla pre-disposizione della moneta unica, quali azioni voltead affrontare necessità contingenti. Ricapitolando, le riflessioni formulate a partire dalpensiero di Monnet ci portano a considerare ildeficit quale realtà ineluttabile e componenteintrinsecamente legata alle sorti dell’integrazione;tuttavia, per valutare quanto forte sia tale legame,necessitiamo di una definizione del problemamedesimo, di una panoramica su studi e riflessio-ni aventi ad oggetto il deficit dell’Unione europea. Tre sono le linee interpretative principali ricavabilidalla letteratura in materia. Realtà complessa emultisfaccettata, il deficit democratico si prestainfatti a diverse e, a volte contrastanti, declinazio-ni: ad autori che imputano alla costruzione euro-pea un deficit di democrazia, si affiancano autoriche le attribuiscono un deficit di democraticità edautori che mettono in discussione tanto l’esistenzadi un deficit, quanto l’opportunità di interventi isti-tuzionali volti a politicizzare l’Ue. Molteplici sonod’altraparte le accezioni e le spiegazioni a cui glistudi del primo filone ricorrono per definire lelacune democratiche dell’Unione: le responsabilitàdel metodo Monnet; la tecnocrazia; la debole legit-timazione democratica di cui l’Unione gode in ter-mini di partecipazione e rappresentatività; la disaf-fezione e l’ininfluenza dei cittadini europei; losquilibrio istituzionale; la mancanza, a livello nazio-nale, di un dibattito sull’Unione e, a livello euro-peo, la mancanza di politics; l’assenza di una cul-tura politica democratica. Settorialità delle analisi, mancanza di una defini-zione chiara ed universalmente accettata del feno-meno nonché di un comune frame di riferimento,sono quindi i principali problemi che si incontra-no, accingendosi allo studio delle presunte caren-ze democratiche dell’Ue. Per quanto attiene, inparticolare, alla mancanza di consenso, tanto sullanatura quanto sull’accezione di deficit, essa puòtrovare una spiegazione nelle diverse occasioni di

Silvia Bedin Il deficit democratico dell’Unione europea

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democrazia che vengono applicate alla realtà sovra-nazionale (Pasquino 2000, 15), rendendo cosìnecessaria la ricerca di una definizione di democra-zia ed in particolare di una definizione empiricadella stessa che, individuando elementi essenziali ecaratteristiche base, ci consenta di discernere traun regime democratico e non. Così, se il nostromodello di riferimento è la democrazia parlamen-tare, definiremo il deficit quale «…mancanza o sot-tosviluppo delle istituzioni e dei meccanismi dellademocrazia parlamentare» (Majone 2003, 31).Pur privilegiando la dimensione empirica, nonpossiamo tuttavia prescindere dal dover-esseredella democrazia, dalla prescrizione; come ci inse-gna infatti Sartori, «ciò che la democrazia è nonpuò essere disgiunto da ciò che la democraziadovrebbe essere. Una esperienza democratica sisviluppa a cavallo del dislivello tra dover-essere edessere, lungo la traiettoria segnata da aspirazioniideali che sempre sopravanzano le condizionireali» (Sartori 1994, 12). La ricerca di una definizio-ne ideale di democrazia non deve tuttavia essereconcepita come il tentativo di individuare un assio-ma, una verità inconfutabile e definitiva che fissi unlimite allo sviluppo democratico. Condividendoinfatti la concezione di Dahl (2002, 10) della demo-crazia quale prodotto della storia, nonché la tesidella processualità della stessa, non possiamo checoncepire la definizione ideale quale ottimizzazio-ne piuttosto che massimizzazione democratica,come fa Sartori.Ideale e fattuale, normazione ed implementazionesono, o dovrebbero essere, entrambe componentifondamentali della teoria democratica in quanto,«senza l’accertamento la prescrizione è "irreale";ma senza l’ideale una democrazia "non è" (…). Lademocrazia ha in primo luogo una definizione nor-mativa; ma non ne consegue che il dover-esseredella democrazia sia la democrazia e che l’idealedemocratico definisca la realtà democratica»(Sartori 1994, 12). Partendo da tali premesse e attraverso il contribu-to di un allievo di Sartori, Leonardo Morlino, pos-siamo classificare i criteri democratici in duemacro-settori: da un lato, i criteri prettamenteempirici, dall’altro i criteri che ci aiutano a rilevarelo scarto tra l’essere e il dover-essere, tra l’ideale

democratico e la sua realizzazione. Mentre i primisono funzionali ad una definizione minima di demo-crazia, e quindi all’individuazione e alla classificazio-ne di un regime come democratico sulla base di unsemplice riscontro empirico, i secondi rilevano lasoglia oltre il minimo: la valutazione della qualità edella maturità di un regime democratico. Suffragio universale, elezioni libere e ricorrenti,presenza di più di un partito, alternative e diversefonti di informazione, sono gli elementi minimiche, Morlino docet, un regime deve almeno pos-sedere per essere qualificato come democratico.Viceversa, competizione e responsività sono «cen-trali per valutare la distanza di un regime reale dauna democrazia ideale, ma marginali per giudicareun paese come una democrazia reale (…). In altreparole, se competizione e responsività sono quasiinesistenti, ma vengono garantiti concretamentediritti e libertà e, dunque, vi è partecipazione epossibilità reale di dissenso, non siamo forse in unregime democratico?» (Morlino 2003, 20). Alla luce di siffatti ragionamenti, laddove nel siste-ma politico europeo fossero rintracciabili i criteriminimi individuati dall’autore, non dovremmoforse concludere che l’Unione rientra nel noverodei regimi democratici? Precisiamo tuttavia cheuna sua classificazione quale democrazia nonimplicherebbe una valutazione, né positiva nénegativa, sulla sua democraticità. Infatti, mutuan-do le parole di Sartori, «qualsiasi regime, il cui per-sonale politico "controllante" viene scelto tramiteelezioni libere, competitive, e non fraudolente, èda classificare come democrazia. Non sarà per que-sto buona, né altro; ma democrazia è: supera laprova che fa da prova» (Sartori 1994, 134).Ricordiamo come per l’autore l’indizione di libereelezioni costituisca il criterio principe ed il discri-mine fondamentale tra democrazia e non.Indipendentemente dalle valutazioni sulla possibi-lità-opportunità di ricondurre l’Unione nel noverodelle democrazie, non possiamo non evidenziarecome il ragionamento di Morlino possa portare aduna rivalutazione del deficit. Infatti, se riconoscia-mo nell’Ue un sistema democratico, sulla basedella definizione minima dell’autore, non possia-mo che concludere che la mancanza di responsivi-tà e di competizione, imputate spesso al sistema

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Silvia Bedin Il deficit democratico dell’Unione europea

sovranazionale, sono indici di un deficit di demo-craticità, piuttosto che di democrazia. Gli eventua-li aggiustamenti volti ad aumentare la capacità dirisposta dell’Unione alle esigenze ed ai bisogni deicittadini come i tentativi di introdurre una maggio-re competizione partitica o elettorale, non sareb-bero quindi tanto funzionali ad accrescere lademocrazia europea quanto a colmare il divario tral’essere e il dover-essere della stessa contribuendoad una maturazione del sistema democraticosovranazionale.Ad un’analisi della democrazia quale coordinata diriferimento e pietra di paragone per poter valutarele eventuali o presunte lacune attribuite all’Unionenon può che seguire una ricostruzione storico-concettuale del deficit quale riflessione a partireda, ed attraverso le diverse declinazioni, interpre-tazioni e connotazioni attribuite al fenomeno.Una prima possibile lettura individua nel metodoMonnet le premesse del deficit democraticodell’Unione nonché il responsabile di meriti edemeriti, pregi e difetti della Commissione euro-pea che, assieme al Parlamento, sono le istituzionisu cui si concentra il dibattito in materia. Sostenitore assieme a Schuman, di un’Europa fun-zionalista, l’architetto delle Comunità europee,Jean Monnet, riteneva che l’Unione europeapotesse essere costruita solo attraverso integrazio-ni settoriali «solo in questo modo, e cioè attraver-so successive, parziali e graduali cessioni di sovra-nità a nuove Istituzioni indipendenti dagli Stati, sipossono porre le basi di una nuova struttura delpotere in Europa, che possa garantire una nuova‘casa comune’ agli Europei» (Olivi 2001, 28). Fucosì che si arrivò alla creazione della primaComunità europea, la CECA, per la quale i padrifondatori pensarono che, dopo le atrocità dellaseconda guerra mondiale, i vantaggi per le popola-zioni europee, in termini di pace e prosperità, fos-sero e sarebbero stati, delle giustificazioni suffi-cienti ed autoevidenti per avviare il progetto inte-grativo; di qui l’esclusione dei cittadini ed il loronon coinvolgimento nelle decisioni di realizzare il,e nell’evoluzione del, processo medesimo. Esemplificativa è la constatazione di come i passiavanti nell’integrazione, guidati dalle dinamichedel mercato comune e dall’evoluzione del diritto

europeo, siano stati realizzati attraverso negoziatipoco pubblicizzati e senza un effettivo coinvolgi-mento dei cittadini degli Stati membri. Solo che nel lungo periodo tale approccio, pre-supponendo un’insicurezza collettiva e un succes-so economico continui, si è dimostrato incapace diprocedere oltre un certo limite: se dopo laSeconda Guerra Mondiale i cittadini hanno accet-tato favorevolmente l’avvio del processo integrati-vo consci dell’utilità e dei vantaggi che la Comunitàeuropea avrebbe loro portato, oggi, quegli stessicittadini sono sempre più scettici verso il progettoeuropeo, non ne capiscono più l’utilità né le finali-tà, essendo venute a mancare le premesse dinecessità su cui si fondava l’approccio iniziale. Seinfatti la pace, in Europa, sembra ormai un benescontato, il benessere lo è sempre meno, soprat-tutto dopo il rallentamento del boom economico.Sono inoltre cambiate, negli ultimi cinquant’anni,le necessità, i bisogni e le paure dei cittadini euro-pei. Ormai in cima a tutto troviamo l’insicurezzasociale, la globalizzazione, il terrorismo internazio-nale, il difficile rapporto con l’Islam. Di fronte aquesti cambiamenti, l’Unione è restata immobile,imprigionata tra gli egoismi nazionali e i tentenna-menti dei leaders politici che sembrano mancaredell’immaginazione, della fantasia, nonché delcoraggio necessari per far progredire l’Unione. Avendo impostato lo sviluppo dell’integrazione suuna legittimazione di tipo tecnocratico, che trovanei successi – quali la pace; il mercato unico; l’af-fermazione delle quattro libertà fondamentali;l’euro; etc. – la sua ragion d’essere, il “metodoJean Monnet” si è rivelato tanto più controprodu-cente quanto più l’incomprensione dei finidell’Unione europea e il meccanismo del blame-shift, che fa configurare l’Europa quale responsabi-le di disagi e mali nazionali, hanno portato a met-tere in discussione l’efficienza dell’Unione stessa(Weiler 2001, 63).Ricapitolando, le critiche di tecnocrazia, opacità edepoliticizzazione mosse all’Unione ed in partico-lare al suo esecutivo, la Commissione, derivereb-bero dalla filosofia di Monnet che può essere rias-sunta, secondo l’analisi di Featherstone(Featherstone 1994, 150), nell’idea pragmatico-funzionalista dei piccoli passi e nel gradualismo

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incrementale. D’altra parte, lo stesso autore, rico-nosce come non vi fossero alternative possibili aquella intrapresa dai padri fondatori; se, infatti, lavia federale non fosse stata accettata, l’ipotesi diun’Europa guidata dai soli Governi nazionali avreb-be condannato il progetto europeo a progressilimitati.L’esistenza dell’odierno deficit democratico sareb-be quindi imputabile a Monnet e alla sua visione"of a Europe united by a bureaucracy" basata sulcoinvolgimento e la "conversione" alla causa euro-pea delle élite piuttosto che delle masse; scriveinfatti Monnet: «We believed in starting with limi-ted achievements, establishing de facto solidarity,from which a federation would gradually emerge. Ihave never believed that one fine day Europewould be created by some great political mutation,and I thought it wrong to consult the peoples ofEurope about the structure of a Community ofwhich they had no practical experience. It was ano-ther matter, however, to ensure that in their limi-ted field the new institutions were thoroughlydemocratic; and in this direction there was stillprogress to be made....the pragmatic method wehad adopted would....lead to a federation validatedby the people’s vote; but that federation would bethe culmination of an existing economic and poli-tical reality, already put to the test» (citato inFeatherstone 1994, 159-160).Monnet, non solo afferma la necessità di unacostruzione de facto, prima ancora che de jure,dell’Europa nella convinzione che non sia possibi-le istituzionalizzare ciò che deve ancora esserecostituito, ma privilegia la strada di un gradualismoincrementale. Mutuando la definizione di LuigiBobbio (2004, 33), il modello incrementale pre-suppone un aggiustamento in itinere dei fini aseconda dei mezzi disponibili, privilegiando «i pic-coli passi» alle «grandi riforme» nella convinzioneche sia possibile conseguire notevoli mutamenti inmodo graduale. L’incrementalista è in sintesi coluiche aspira «a ciò che è di volta in volta concreta-mente possibile, piuttosto che perseguire ciò cheè astrattamente desiderabile». Così, negli intenti diMonnet, la federazione è la meta, il traguardo fina-le del processo integrativo, che tuttavia si raggiun-gerà gradualmente, come d’altra parte futura è la

prospettiva di un Parlamento europeo.Privilegiando infine, una conoscenza di tipo ordi-nario basata sull’esperienza, Monnet ritiene chenon sia opportuno coinvolgere e consultare «thepeoples» sul processo d’integrazione nei confrontidel quale «they had no practical experience».Nonostante l’impostazione tecnocratica ed elitista,non manca il riferimento alla necessità che lenuove istituzioni siano democratiche, anche se sirinvia la soluzione del problema a futuri ed impre-cisati progressi. Nell’affrontare problemi ed obiettivi che di volta involta si pongono alla sua attenzione, Monnet privi-legia un approccio empirico, operativo, basatocioè su casi concreti che fungono da esempio perdimostrare la teoria che sottostà all’azione.Accanto al tema della necessità troviamo anchequello dell’azione: «…bisognava agire empirica-mente, partire da alcuni casi concreti per dimo-strare col loro esempio che…» (Monnet 1978, 43);«…bisognava mettere a punto un certo numero dimisure concrete… le nostre strutture erano prag-matiche…» (Monnet 1978, 67); o, ancora,«…bisognava cominciare con realizzazioni chefossero allo stesso tempo più pragmatiche e piùambiziose, e attaccare le sovranità nazionali conpiù audacia su un aspetto più limitato» (Monnet1978, 205). Approccio pragmatico e filosofia dell’a-zione costituiscono i punti di forza del metodoideato da Monnet il cui successo, in settori contin-genti e circostanze peculiari, lo porta tuttavia asopravvalutarne le capacità di risoluzione, come sipuò evincere dalla proposta di unire Francia eGran Bretagna, al momento della crisi diDunkerque nella Seconda Guerra mondiale, inun’unione indissolubile basata sulla fusione deiparlamenti e dei popoli; in questo caso egli abban-donava, spinto da una necessità che era solo logi-ca ma non politica (la Francia preferì a quelmomento Petain a De Gaulle) la ritrosia dei picco-li passi per promuovere e sostenere un’integrazio-ne top-down, guidata dall’alto e realizzata median-te fusioni al vertice.Tecnocrazia, elitarismo, ma anche sopranazionalitàsono le parole chiave per comprendere il pensieroe la strategia di Monnet nonché i "responsabili" dimeriti e demeriti, punti di forza e debolezza, del-

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Silvia Bedin Il deficit democratico dell’Unione europea

l’attuale Commissione europea. Se da un lato lascelta della sopranazionalità e la volontà di supera-re vincoli e costrizioni dell’intergovernativismosottostanno all’ideazione dell’Alta Autorità e giusti-ficano la ritrosia di Monnet circa la creazione di unConsiglio dei Ministri – anche se alla fine le pres-sioni dei governi belga e olandese, fermi nella deci-sione di istituire un’istituzione che garantisse uncontrollo sulle decisioni adottate dall’Alta Autorità,fecero capitolare Monnet che dovette accettare lacreazione dell’istituzione intergovernativa – dal-l’altro, l’approccio tecnocratico ed elitista spiega lanatura di quella che è oggi la Commissione e l’e-sclusione dell’uomo qualunque dal progetto diintegrazione sovranazionale.Cuore del pensiero monettiano, scrive Radaelli(1999, 520), è poi il ruolo riconosciuto ad esperti egruppi di interesse nella formulazione delle politi-che sovranazionali, favorendo e promuovendo ungovernment with the people, piuttosto che by thepeople. L’importanza dei gruppi di interesse,soprattutto nella fase iniziale di formazione dellaproposta legislativa, è tale che Marco Mascia liparagona ai partiti politici: «…il gruppo di interes-se economico è essenziale al funzionamento delsistema dell’integrazione europea come il partitopolitico lo è rispetto ai sistemi nazionali democra-tici» (Mascia 2001, 128). Ricordiamo in particolareil ruolo giocato da esperti nazionali e gruppi diinteresse nella fase di elaborazione della propostalegislativa. Come ricorda Panebianco (2005, 88) leproposte di policy vengono infatti elaborate all’in-terno delle DG da funzionari che si avvalgono delleconoscenze e delle informazioni tecniche di sog-getti esterni quali i gruppi di interesse. Esclusi, almeno direttamente dal gioco politico finoal 1979, data delle prime elezioni dirette delParlamento europeo, restano invece i cittadini.Come sottolineano infatti Wallace e Smith «la stra-tegia di Monnet consisteva in un gradualismo trai-nato dall’élite, con l’aspettativa che il consensopopolare sarebbe cresciuto col tempo. In un simileapproccio indiretto all’integrazione politica, il fattodi attirare le organizzazioni di interesse - dell’im-presa, del lavoro e degli enti amministrativi nazio-nali - era una priorità assai più sentita del coinvolgi-mento diretto di un pubblico all’epoca ancora poco

informato» (citati in Radaelli 1999, 521).Riassumendo, la ricetta di Monnet prevedeva unmix di tecnocrazia ed interessi economici quali basiper costruire coalizioni transnazionali che soste-nessero la costruzione europea (Featherstone1994, 155). Ulteriore ingrediente dell’universo deficit è la legit-timità democratica o meglio il deficit di legittimità,intesa quale input-legitimacy, ovvero quale parte-cipazione e rappresentatività. Questo aspetto deldeficit legge, nell’astensionismo registrato in occa-sione delle elezioni per il rinnovo del legislativosovranazionale, nella diversa funzione delle elezio-ni europee, attraverso le quali non si esprime lavolontà collettiva del popolo europeo né si confe-risce al Parlamento il compito di formare l’esecuti-vo e, in sintesi, nel diverso funzionamento delsistema politico europeo rispetto all’alter egonazionale, le cause delle lacune democratichedell’Unione europea. L’avvio del dibattito sulla legittimità democraticadel processo di decision-making, delle strutture digovernance nonché, dell’intero processo di inte-grazione, può essere fatto risalire ad una decina dianni fa, alla crisi che ha accompagnato negli anni‘90 la ratifica del Trattato di Maastricht sull’Unioneeuropea. Vi sono tuttavia autori, tra i quali Giraudi(2005, 27), che fanno risalire la nascita del proble-ma alle controversie tra la Corte di giustizia euro-pea e le Corti costituzionali italiana e tedesca.Quest’ultime, infatti, rivendicavano il diritto di eser-citare il sindacato di costituzionalità delle leggi,anche nei confronti del diritto comunitario diretta-mente applicabile, ritenendo che il sistema comu-nitario, in ragione della debole rappresentanzapolitica diretta, non fosse in grado di assicurare chele disposizioni comunitarie non ledessero i dirittifondamentali riconosciuti dai rispettivi Stati.Fino alla metà degli anni ‘80, sottolinea Höreth

(1998, 4), il problema della legittimità democraticadell’Ue non sussisteva; si riteneva, infatti che la sualegittimità fosse indirettamente fornita dagli StatiMembri e dai loro Parlamenti: non erano forse statiquest’ultimi ad autorizzare la ratifica dei Trattatieuropei? La costruzione europea non era forsestata approvata democraticamente attraverso leprocedure costituzionali degli Stati membri?

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Il fallimento del referendum sul TUE in Danimarcae l’esito non incoraggiante seppur positivo, diquello in Francia (entrambi nel 1992) – lo scartotra i "si" e i "no" fu infatti minimo 51% vs. 49% –segnano dunque la fine di un periodo positivonella storia dell’integrazione durante il quale l’as-senza di critiche e dissensi al progetto europeo erastata letta come indice di popolarità e di successodel processo medesimo.Non dovrebbe tuttavia stupire che si cominci a par-lare dell’esistenza di un deficit democratico pro-prio in concomitanza dell’adozione del Trattato diMaastricht che, come è ben noto, segna un impor-tante passo avanti nella storia dell’integrazione:pensiamo all’introduzione della cittadinanza euro-pea; della procedura di co-decisione; del pilastrodedicato al settore della giustizia e degli affariinterni e a quello dedicato alla politica estera e disicurezza comune o, ancora, all’estensione delmetodo di voto a maggioranza qualificata e allapredisposizione della moneta unica. Nel momentoin cui l’Unione acquisisce funzioni e caratteristichetipicamente statali diventa più pressante la que-stione su come armonizzare gli standard comune-mente accettati di governance democratica, con iltrasferimento di prerogative nazionali verso il livel-lo europeo (Rittberger 2003, 3). Era inimmaginabi-le, sottolinea Höreth (1998, 9), che l’acquisizioneda parte dell’Ue, di competenze rappresentanti ilfulcro della sovranità statuale potesse continuaread essere legittimato indirettamente. Si avverte, ad un certo punto, la necessità di unmaggiore coinvolgimento dei parlamenti naziona-li, di una ripartizione più equilibrata dei poteri trale istituzioni sopranazionali, nonché di un soste-gno popolare diretto. Sostegno che tuttavia tarda arealizzarsi, come dimostrano la crisi aperta in occa-sione della ratifica del Trattato sull’UnioneEuropea o, per arrivare ai nostri giorni, le difficoltàa ratificare il Progetto di Trattato per unaCostituzione Europea rappresentate dai “no” diFrancia ed Olanda in occasione dei referendumsulla Costituzione svoltesi rispettivamente il 29maggio e il 1 giungo 2005.Dobbiamo tuttavia ricordare che vi sono diverseinterpretazioni della crisi aperta a Maastricht.Infatti, ad autori che vi leggono una crisi di legitti-

mità si affiancano autori, tra cui Peterson, chericonducono la difficile ratifica del trattato a pro-blematiche più prettamente "quotidiane" quali:«gli effetti impopolari delle politiche di austeritànecessarie per rispettare i parametri legati alla rea-lizzazione dell’unione monetaria; le conseguenzeche l’allargamento ad est avrebbe provocato, conla relativa riduzione dei fondi strutturali; l’incapa-cità dell’Unione (…) di affrontare in maniera effi-cace la crisi della mucca pazza» (Panebianco 2005,93). Per questi autori, quindi, la crisi aperta nel1992 va letta come una contestazione del modo incui veniva condotto il processo di costruzioneeuropea, non tanto come un ammonimento a col-mare le lacune democratiche dell’Unione. In linea con quest’ultima declinazione, l’analisi diPasquino (2000, 7) legge il deficit democraticoattraverso la discrepanza tra la partecipazione elet-torale alle elezioni nazionali e a quelle europee,ovvero, in termini di partecipazione ed influenzadei cittadini medesimi. Secondo l’autore, sono duei requisiti minimi che un’istituzione deve rispetta-re per essere considerata accettabilmente demo-cratica: l’elettività e la responsabilità. Requisiti che,seppur presenti, non pregiudicano «eventuali valu-tazioni qualitative, ad esempio, democratico, ma dibassa qualità, ovvero deficitario» (Pasquino 2000,7). Applicando questi due criteri alle principali isti-tuzioni comunitarie – Parlamento, Commissione eConsiglio dei ministri – solo il primo sembra,almeno formalmente, rispettarli. Come si spieganoallora le critiche mosse da alcuni autori al Pe?Come conciliare l’elettività del legislativo soprana-zionale con le tesi che lo vogliono deficitario?Pasquino prova a superare tale contraddizionefacendo derivare il deficit dalla natura nazionaledelle elezioni europee e dalla disaffezione chesempre più i cittadini dimostrano in occasione delrinnovo del corpo legislativo (Pasquino 2000, 8). Quella che potrebbe sembrare una contraddizionerispecchia la realtà dei fatti: non solo, sottolineal’autore, in occasione delle elezioni sopranazionalisi contrappongono liste di partiti nazionali su scalanazionale, ma anche le tematiche sottoposte aglielettori non sono davvero europee. Le elezionieuropee finiscono così per fungere da "banco diprova" per testare il consenso o il dissenso nei

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confronti dei politici nazionali. Si può così spiega-re come l’aumento dei poteri del Parlamento euro-peo sia stato accompagnato da una crescente dis-affezione che si è poi riflessa in una crescente dimi-nuzione della partecipazione alle elezioni. I pro-gressi realizzati, la sua maggiore influenza sul pro-cesso legislativo ed il controllo delle altre istituzio-ni non sono stati quindi sufficienti a far crescerel’interesse per il Pe e per la sua elezione che rima-ne nell’immaginario collettivo, un’istituzionesecondaria e non rilevante. Le carenze democratiche del Parlamento europeosarebbero quindi, sulla base di quanto fin qui affer-mato, imputabili ai partiti e alla loro scarsa capaci-tà di offerta e di attrazione, giustificata tenendopresente che il loro interesse è per la politicanazionale piuttosto che per quella europea. A cor-roborare quanto fin qui affermato è la constatazio-ne della mancata nascita di veri e propri partititransnazionali europei che rispecchia come sche-mi interpretativi e sistemi di appartenenza, tantodella classe dirigente quanto del cittadino medio,siano ancora nazionali. Tuttavia Pasquino introduce una nota di ottimismoe di speranza per il futuro nel momento in cuiricorda come «…il Parlamento Europeo, per quan-to possa apparire democraticamente deficitario,(…) ha acquisito maggiore potere politico rispet-to alle altre istituzioni e maggiore legittimità demo-cratica da parte dei cittadini attraverso la sua ele-zione popolare diretta» (Pasquino 2000, 9). Inoltre,«è possibile e persino probabile che quanto più illuogo delle decisioni politicamente rilevanti si spo-sti dai livelli nazionali al livello europeo tanto piùgli stessi partiti nazionali si rendano conto dellanecessità di spostare le loro risorse a quel livello equindi di mobilitare i loro elettori su tematicheeuropee, nel frattempo diventate più comprensibi-li per i loro elettori e ancora più influenti sulla lorovita quotidiana» (Pasquino 2000, 9).Adottare un’interpretazione che legge nella pocalegittimazione del Parlamento, a sua volta determi-nata dalla bassa percentuale di elettori che concor-rono a inviare i loro rappresentanti a Bruxelles enel poco potere politico effettivo (Pasquino 2000,8), le principali cause del deficit dell’Unione euro-pea, porta a privilegiare quali possibili vie di uscita

quelle riforme istituzionali che consolidano il lega-me tra cittadini ed istituzioni. Consolidamentoche, seguendo un’impostazione parlamentarista,trova una risposta al deficit nel rafforzamento delruolo del Parlamento. Riconoscendo al legislativosopranazionale il diritto di dare vita all’esecutivo e,perché no?, di scegliere la squadra di governo tra iparlamentari stessi, si rafforzerebbe la sua funzio-ne di controllo dell’esecutivo e, al contempo, siaccentuerebbe l’importanza delle elezioni europeecon il risultato di attribuire loro una forza ed unsignificato propri, rimediando alla sensazione cheesse non siano altro che mero terreno di scontrotra le forze politiche nazionali. Viceversa la propo-sta di riconoscere ai cittadini il diritto di eleggeredirettamente l’esecutivo risponde ad una logicapresidenzialista e permette di perseguire contem-poraneamente due obiettivi: il maggior coinvolgi-mento degli elettori e la rivitalizzazione dei partiti.L’eventuale futura elezione diretta dellaCommissione europea incentiverebbe inoltre lacostruzione democratica di una leadership politicache, puntando alla rielezione, sarebbe favorevol-mente propensa a perseguire interessi e preferen-ze degli elettori nonché a rendere conto del pro-prio operato, aumentando così la sua accountabi-lity (Pasquino 2000, 16); anche se, in questo con-testo, sembra più opportuno paralare, di respon-sability, definita da Pellizzoni, quale dovere e capa-cità di rispondere, ma anche quale possibilità diattribuire un’azione al suo agente (citato in Gelli2006, 16).Riassumendo, la soluzione prospettata passa per

una politicizzazione tanto della Commissionequanto, del Parlamento, spesso accusati di privile-giare, quale modus operandi, la ricerca del con-senso che differisce dall’esperienza nazionale delconflitto.Secondo Caporaso invece, le radici del deficitdemocratico andrebbero ricercate nello squilibriotra istituzioni legislative e governative, tanto a livel-lo europeo quanto nazionale. Se da un lato, il tra-sferimento di nuove competenze decisionali aBruxelles ha determinato una perdita di poteredecisionale dei parlamenti nazionali, rafforzando ilpotere degli esecutivi, dall’altro non c’è stato unrafforzamento del Parlamento europeo sufficiente

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e proporzionale al trasferimento del potere deci-sionale o, nelle parole di Williams, «la perdita diaccountability verso i parlamenti nazionali non èstata compensata dall’aumento di accountabilityverso il Parlamento europeo» (Caporaso 2004, 81).Infine, la percezione collettiva di un Parlamentosovranazionale e delle relative elezioni, qualisecondari, non rilevanti ed ininfluenti giustificanola crescente disaffezione ed apatia che i cittadinieuropei dimostrano nei confronti delle istituzionisovranazionali. Tecnocrazia, mancanza di legittimità democraticae squilibro istituzionale, delle analisi proposte,informano d’altraparte la chiave di lettura che lastessa Unione, nel suo sito internet, propone: «Ildeficit democratico è una nozione invocata princi-palmente per sostenere che l'Unione europea e lesue istanze soffrono di una mancanza di legittimitàdemocratica e sembrano inaccessibili al cittadino acausa della complessità del loro funzionamento. Ildeficit democratico rispecchia la percezionesecondo cui il sistema istituzionale comunitariosarebbe dominato da un'istituzione che cumulapoteri legislativi e di governo, il Consigliodell'Unione europea, e da un'istituzione burocrati-ca e tecnocratica che non ha un'effettiva legittimi-tà democratica, la Commissione europea»(www.europa.eu.int).La letteratura sul deficit non si esaurisce tuttavianella valutazione della dimensione tecnocratica oin quella della mancata legittimità democratica;essa propone, infatti, quali ulteriori e complemen-tari chiavi interpretative: la mancanza, a livellonazionale, di un dibattito sull’Unione e, a livelloeuropeo, la mancanza di politics, rilevata daSchmidt, infine, la mancanza di cultura politicademocratica, rilevata da Weiler. Dalla mancanza di una classe politica europeadiscende, nelle riflessioni di Schmidt (2003), l’im-possibilità di sanzionare i leaders sovranazionaliper il loro operato, continuando così a giudicaregli eletti nazionali anche in relazione a materiesulle quali non esercitano più alcun controllo. Aciò si aggiunge il rischio di una crescente de-politi-cizzazione e di un decrescente coinvolgimento deicittadini nella politica, quali conseguenze delletematiche su cui si realizza lo scontro elettorale a

livello nazionale ed europeo: mentre le elezioninazionali si focalizzano su tematiche risolvibili soloattraverso un coordinamento sopranazionale –quali, l’immigrazione, la crescita economica, lasicurezza alimentare – le elezioni europee, tendo-no a focalizzarsi su issues che possono essere risol-te solo a livello nazionale dagli attori statuali qualile riforme istituzionali. I cittadini si trovano così adesprimere le loro preferenze su questioni che poisaranno trattate ad un livello diverso da quello peril quale hanno votato. D’altra parte l’incompren-sione dei cittadini circa l’impatto che Unione hasul funzionamento delle loro democrazie derivadalla mancanza di un dibattito sui cambiamentiprodotti dall’integrazione europea. I leaders nazio-nali hanno infatti preferito enfatizzare l’idea tradi-zionale di una democrazia nazionale, piuttosto chericonoscere i cambiamenti prodotti dall’integrazio-ne e ridefinire il concetto e le pratiche della demo-crazia medesima.La crisi democratica che tanto l’Unione quanto isuoi membri stanno vivendo è invece, nell’analisi diWeiler, imputabile ad una crisi di cultura piuttostoche di istituzioni. Detto altrimenti, la mancanza diuna cultura politica democratica è più rilevante diassetti e procedure istituzionali. In un contestoquale quello europeo, dove vi è un Parlamento cre-sciuto «senza acquisire l’abitudine al potere demo-cratico, soprattutto in relazione alla funzione dicontrollo sull’esecutivo» (Weiler 2001, 60), e dove,per molti anni, si è soprasseduto all’importanza ditrasparenza, rappresentatività ed accountability, siè realizzato quello che Weiler definisce il "parados-so del successo". Il conseguimento di successi e larealizzazione di finalità importanti diventano fontidi legittimazione, «malgrado il fatto che la legitti-mazione tramite il processo e il discorso politicodemocratico sia così scarsa» (Weiler 2001, 64), dis-incentivando al contempo una legittimazione fon-data sulla partecipazione.Tale ricchezza, ma al contempo complessità con-cettuale si compone poi dei contributi di coloroche, partendo dall’ipotesi secondo cui l’Unionesarebbe una democrazia potenziale, sostengonocome essa sia affetta da un deficit di democraticitàpiuttosto che di democrazia, considerando lecarenze della stessa come limiti di un sistema poli-

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tico ancora incompiuto piuttosto che componenticongenite dello stesso. Di tale avviso Pasquino:«…per coloro che ritengono che l’esistenza deldeficit democratico dell’Unione Europea vengaeccessivamente e inopportunamente enfatizzata, ilcircuito [istituzionale] non è affatto privo di poten-zialità e neppure di effettività democratica. Al con-trario, configura un assetto complessivo che con-sente rappresentanza e decisionalità, controllo eresponsabilità tutt’altro che limitate e disprezzabi-li, in special modo in un sistema politico che rima-ne incompiuto. In questa prospettiva, se di deficitdemocratico è utile continuare a parlare, allorabisogna farlo sapendo che il termine non indicaaffatto assenza di democrazia, ma segnala i limitidella democrazia esistente a livello europeo»(Pasquino 2000, 15). Richiamando i ragionamenti iniziali, ricordiamocome l’analisi di una democrazia consti di duediversi steps: l’accertamento che un dato regimesia effettivamente democratico e la successiva valu-tazione della qualità democratica dello stesso.Quest’ultima fase di controllo circa la "bontàdemocratica" di un regime riguarda quindi soloquelle democrazie che, in base alla definizioneminima di Morlino, si caratterizzano per essere tali,laddove cioè siano presenti e garantiti suffragiouniversale, elezioni libere e ricorrenti, più di unpartito, pluralità delle fonti di informazione. Soloper questi regimi si procederà ad analizzare lo sta-dio di realizzazione dei due principi fondanti unademocrazia ideale: libertà ed eguaglianza. «Unabuona democrazia ovvero una democrazia di qua-lità [è infatti] quell’assetto istituzionale stabile cheattraverso istituzioni e meccanismi correttamentefunzionanti realizza libertà ed uguaglianza dei cit-tadini» (Morlino 2003, 228). Ne deduciamo chepossiamo attribuire la qualificazione di "buonademocrazia" a quel regime che:•sia ampiamente legittimato e generi soddisfazione;•garantisca libertà ed uguaglianza per i cittadini;•consenta ai governati di controllare come, e in chemisura, libertà ed uguaglianza siano perseguite e rea-lizzate, ma che consenta anche di monitorare l’ap-plicazione delle norme vigenti, nonché di permette-re ai cittadini di valutare la responsabilità degli elettiin relazione alle decisioni e alle scelte compiute.

La misurazione della qualità democratica o, demo-craticità, ci riconduce quindi al tema dell’idealedemocratico e alla tensione verso quest’ultimo. In controtendenza rispetto agli autori analizzati,Moravcsik non condivide né l’eccezionalità ricono-sciuta all’Unione europea – al pari delle classicheorganizzazioni internazionali, sarebbe quindidominata dagli Stati membri – né le accuse di esse-re non-democratica. La distanza tra i cittadini el’Unione, come la mancanza di un backgroundstorico, culturale e simbolico comune – riconduci-bili l’una alla natura dell’Unione quale organiza-tion of continental scope, l’altra alla sua multina-zionalità – non sono giustificazioni sufficienti aqualificarla come non legittimata democraticamen-te (Moravcsik 2002, 604). Il sistema di pesi e con-trappesi garantito dai trattati, la legittimità indiret-ta derivante dagli Stati membri nonché gli aumen-tati poteri del Parlamento europeo sarebbero, adetta dell’autore, elementi sufficienti a garantiretrasparenza, chiarezza ed efficienza del policy-making europeo. D’altra parte, la natura ancoraprettamente intergovernativa dell’Unione fa sì chesiano gli esecutivi degli Stati membri, e non le ele-zioni sopranazionali, ad assicurare l’accountabilitydemocratica all’Ue. «Se tutte le decisioni chiavesono in mano agli esecutivi nazionali e [quest’ulti-mi] sono eletti democraticamente e democratica-mente responsabili verso i propri cittadini, allora ilConsiglio dei ministri dell’Unione europea e ilConsiglio europeo sono luoghi dove la rappresen-tanza politica è assicurata in maniera sostanziale»(Giraudi 2005, 36). Secondo Moravcsik, l’accusa dimancata legittimazione democratica deriverebbequindi, da un lato, dalla tendenza di studiare l’Uecomparandola ad un modello ideale, cioè astratto,di democrazia; dall’altro, sempre Moravcsik,sostiene con Sharpf, come essa celi scetticismo epreoccupazione per una Europa attenta solo alledinamiche di mercato ma che presta scarsa atten-zione alle politiche sociali, disattendendo così unodegli elementi basilari di una polity democratica,l’equilibrio tra mercato e protezione sociale(Moravcsik 2002, 617). Laddove, per polity inten-diamo la dimensione territoriale dei confini, dellacomunità politica e delle sue norme.Neppure limiti e debolezza delle elezioni europee,

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seppur riconosciuti dallo stesso Moravcsik, sonoletti dall’autore quali fattori di deficit. Dal momen-to che «l’attività legislativa e regolativa dell’Unioneeuropea è inversamente correlata con la salienzadelle issues nelle menti degli elettori europei, qual-siasi sforzo volto a espandere la partecipazione èimprobabile che riesca a superare l’apatia»(Giraudi 2005, 37). L’interesse degli elettori pertasse e metodi di spesa del denaro pubblico, pre-rogative dello Stato e non dell’Unione, spieghe-rebbero così la disaffezione verso le elezioni sopra-nazionali. Secondo l’autore, tuttavia, l’irrilevanza o,altrimenti detto, la mancanza di salienza politicadell’Ue, ha dei risvolti positivi «[nel]l’isolamentodel policy-making comunitario dai contesti di con-fronto politico maggioritario che caratterizzano ledemocrazie nazionali. Grazie a questo isolamentol’Unione europea sarebbe in grado di proteggere epromuovere interessi di minoranza che altrimentiverrebbero cancellati da una competizione politicamaggioritaria (…)» (Giraudi 2005,37). Adottandol’approccio di Moravcsik si arriva non solo a nega-re l’esistenza del deficit, ma anche ad affermareche «l’Unione europea può essere più rappresen-tativa proprio perché è, in senso stretto, menodemocratica» (Giraudi 2005, 38). Possiamo giungere alla stessa conclusione, in ter-mini di insussistenza del deficit, anche partendo daun diverso approccio: l’approccio della regolazio-ne di Majone, in base al quale l’Unione europeadeve essere concepita, sottolinea l’autore, «comeuno Stato regolatore, cioè come una struttura isti-tuzionale dotata di autonomia dedita esclusiva-mente a fronteggiare i fallimenti dei mercati nazio-nali» (Giraudi 2005, 38). Diversamente dagli Statiche la compongo l’Unione si è specializzata, anchee soprattutto in ragione del bilancio limitato edella mancata funzione impositiva, nella produzio-ne di politiche regolative il cui fine non è l’equitàsociale, ma la produzione di situazioni ottimali«cioè di situazioni nelle quali l’incremento delbenessere di uno o più parti non determina unadiminuzione del benessere di nessun altro attore»(Giraudi 2005, 39). Si potrebbe obbiettare a Majone che la principalepolitica comunitaria, la Politica agricola comune, èuna politica distributiva e non regolativa.

Caratteristiche degli interventi regolativi sono: lastabilità nel tempo delle soluzioni approntate, evi-tando cioè che siano condizionate dalle tornateelettorali, e la natura di esperto indipendente delregolatore che è quindi sottratto dalle dinamicheconflittuali che caratterizzano la politica partitica.In quest’ottica, il deficit verrebbe ridimensionatonella misura in cui, secondo Majone, «il policy-making comunitario non deve essere democrati-co, o almeno non lo deve essere nei termini usua-li nei quali questo concetto è normalmente inteso»(Giraudi 2005, 40). Infatti, nel momento in cui laproduzione degli interventi regolativi fosse affidataad istituzioni maggioritarie (vedasi il Parlamentoeuropeo), diventerebbe uno strumento in manodella maggioranza di turno per il perseguimento diobiettivi particolaristici di breve periodo in vistadella rielezione. «La politicizzazione dell’Unioneeuropea [scrive Majone] di fatto rischierebbe didistruggere, invece che aumentare, la legittimitàdella stessa Unione» (citato in Giraudi 2005, 40).Le declinazioni fin qui proposte possono esserericondotte all’approccio di politics che privilegia,quali elementi di analisi, il comportamento eletto-rale, il sistema partitico ed il comportamento dispecifiche istituzioni, richiamando quindi all’attivi-tà che ha a che fare con il potere e con la lotta perla conquista dello stesso. Da tale prospettiva non èdifficile arrivare alla conclusione secondo cuil’Unione europea, il cui funzionamento diverge daquello degli Stati nazionali, non possa essere equi-parata alla democrazia convenzionalmente intesa,risultando sotto questo profilo, deficitaria.Dove stanno in tutto ciò le policies? Qual è, rifa-cendoci al titolo del presente lavoro, il loro ruolonel deficit democratico? Prendendo ad esempiotre delle politiche comunitarie più rilevanti, la poli-tica agricola comune (PAC), i fondi strutturali (FS)e la politica dell’allargamento, l’ipotesi interpreta-tiva proposta legge le politiche pubbliche quali“specchio ed anima” delle necessità contingentinonché quali vettori, a seconda del contesto, diapprofondimento e/o di attenuazione del deficit.Ricordiamo, prima di proseguire nel ragionamen-to, come il concetto di policy si presti ad una plu-ralità di accezioni. Le politiche pubbliche possonoinfatti essere intese: o quale mero risultato della

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competizione elettorale, nella convinzione che lapolitica faccia le politiche, cioè in una prospettivadi politics; oppure possono essere declinate, allaWildavsky, «una politica è sia un prodotto che unprocesso» (Crosta 2006, 3); o alla Giuliani, «le poli-tiche non sono "solo" intenzionalità, non coinci-dono con gli outputs decisionali, dovendosi com-prendere in esse anche gli effetti imprevisti delleazioni intenzionali» (Giuliani 1996, 319).Declinazioni quest’ultime che ci portano a consi-derare l’implementazione delle politiche pubbli-che non come una mera esecuzione di decisioniprese dall’alto ma, come sostiene Lewanski quale«insieme di processi complessi a cui prende parteuna molteplicità di attori istituzionali e "sociali"destinatari delle politiche (…). I destinatari nonrecepiscono passivamente le politiche, ma intera-giscono, esercitano pressioni sia sugli stessi esecu-tori che sui decisori affinché a loro volta mutino lepolitiche o introducano deroghe, eccezioni (…)»(Capano 1996, 186). La fase d’implementazione vaquindi considerata più che un prodotto, un pro-cesso caratterizzato da aggiustamenti ed adatta-menti continui, un momento di coinvolgimento emobilitazione di attori, territori, conoscenze esaperi, un momento di ridefinizione e di aggiusta-mento dell’intervento medesimo secondo proces-si di apprendimento. Tipica politica distributiva la PAC nasce dall’esigen-za di tutelare il settore agricolo che nell’Europa deldopoguerra occupava circa il 25% della popolazio-ne, e dalla consapevolezza che esso, lasciato alleleggi del mercato, non sarebbe riuscito a seguirel’espansione generale dell’economia. Tre sono lecaratteristiche fondamentali dell’intervento distri-butivo: l’asimmetria tra benefici e costi che rendefacilmente individuabili i destinatari di sussidi etrasferimenti monetari senza che vi sia una esplici-ta sottrazione di risorse a carico di un altro grupposociale; la rilevanza attribuita alla creazione dellecondizioni ottimali per accaparrarsi il beneficio,che diventa il vero problema “politico”; la prolife-razione di siffatti interventi in contesti istituzionalipoco trasparenti e frammentati nei quali è difficileindividuare chi è responsabile della decisione.Scarsa conflittualità, opacità e mancanza diaccountability caratterizzano quindi le politiche

distributive e con esse la PAC, ma richiamando iragionamenti sopraccitati sono anche le principaliaccuse mosse all’Unione europea nonché le causedel deficit democratico. In tal senso possiamoaffermare come la politica agricola europea rispec-chi e perpetui il deficit medesimo, ma anche comeessa sia veicolo di uno specifico volto dell’integra-zione e di una peculiare visione dell’Unione euro-pea ovvero, di un’integrazione imposta dall’alto edattenta a soddisfare forti interessi peculiari e diun’Europa dispensatrice di sussidi.Diversamente dall’intervento distributivo, quelloredistributivo, tra cui possiamo annoverare i fondistrutturali e le politiche per l’allargamento, si con-nota per un evidente trasferimento di risorse tragruppi sociali consapevoli. Mobilitando risorse, maal contempo valori – quali l’equità, la solidarietà, lacoesione economica, sociale e territoriale – talipolitiche possono essere fonte di conflitti e suscita-no una maggiore sensibilità nell’opinione pubblica.Sebbene già il preambolo del Trattato di Romaenunciasse tra i compiti della Comunità la promo-zione di uno sviluppo armonioso, equilibrato esostenibile è solo negli anni ’70, acquisita la consa-pevolezza che i persistenti divari in termini di svi-luppo tra le regioni della Comunità potevano osta-colare il processo d’integrazione economica, chevengono introdotti i primi interventi strutturali.Inizialmente pensati quali strumenti per favorireuno sviluppo armonioso delle attività economiche,i fondi struttali hanno contribuito, e contribuisco-no tuttora, a connotare di un “volto sociale” il pro-cesso d’integrazione. Interessante notare comepolitica regionale e fondi strutturali vengano intro-dotti nel meccanismo integrativo negli anni in cuigli effetti distorsivi della PAC, in termini di ecce-denze e aumento delle spese agricole, contribui-scono a creare malumori ed opposizioni alla politi-ca agricola medesima. Fatto quest’ultimo che, puòessere ricondotto (richiamando la spiegazione diFerrera) ad « una “crisi di politica pubblica”: ossia[ad] acuti scollamenti fra nuovi bisogni e vecchiprogrammi... In tali casi, lo status quo distributivonon è più sostenibile e occorre definire nuoveregole stabilendo chiaramente che guadagna e chipaga» (Capano 1996, 326). A partire quindi dagli anni ’70, con l’istituzione del

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Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), finoad arrivare agli anni ’90, con l’affermazione deiprincipi di coesione e di sussidiarietà, l’Unionededica una maggiore attenzione al territorio e aisuoi attori perseguendo contemporaneamente piùobiettivi: sussidiarietà, democrazia locale, sviluppoarmonioso ed equilibrato. Contribuiscono al per-seguimento degli obiettivi enunciati, anche iProgrammi di iniziativa comunitaria, cui è destina-to parte del bilancio dei fondi strutturali. Concepitiquali vettori di uno sviluppo endogeno dei territo-ri, promuovono una partecipazione dal bassoattraverso il coinvolgimento degli attori localiriuniti in partenariati pubblici-privati e sostengonola creazione di reti e di relazioni informali attraver-so le quali condividere e trasmettere esperienze econoscenze. Tali programmi ben evidenziano lanatura bi-direzionale del processo di europeizza-zione innescando processi di apprendimento, diridefinzione e di adattamento del modus operan-di nazionale a partire dalle direttive europee, epromovendo la partecipazione degli attori locali,beneficiari e destinatari del programma, attori checonoscendo esigenze e peculiarità del territoriotrasformano indicazioni generiche e tecniche ininterventi concreti, producendo un feedback intermini di conoscenza ed esperienza verso il livel-lo sopranazionale. Volendo riprodurre graficamen-te i processi così innescati potremmo immaginareflussi discendenti che si intrecciano con flussiascendenti creando un continuum. In continuità con gli obiettivi di territorializzazio-ne, democratizzazione e sussidiarietà vanno lettigli interventi di soft-governance, che si propongo-no come alternativi al metodo comunitario carat-terizzandosi per «experimentation and knowledgecreation, flexibility and revisability of normativeand policy standards, and diversity and decentrali-sation leaving final policy-making to the lo westpossible level» (Smismans 2005, 3). Introdotto dalConsiglio europeo di Lisbona del marzo 2000,l’Open Method of Coordination (OMC) viene por-tato come esempio di intervento soft. Finalizzato arafforzare la cooperazione tra gli Stati membrifacendo convergere le diverse politiche nazionalisu alcuni obiettivi condivisi, l’OMC si basa princi-palmente sulla definizione comune di una serie di

obiettivi da raggiungere, sull’individuazione deglistrumenti necessari per la misurazione dei risultati(statistiche, indicatori) e per la verifica dell’evolu-zione verso gli obiettivi prefissati, nonché sullamessa a punto di strumenti comparativi per favori-re l’innovazione e la qualità degli interventi (diffu-sione di “buone pratiche”, progetti pilota, etc.).Così se il classico metodo comunitario, basato sulriconoscimento alla Commissione del diritto esclu-sivo dell’iniziativa legislativa e sui poteri legislatividi Parlamento e Consiglio dei ministri, viene iden-tificato quale old mode of governance nonchéespressione di hard law, l’OMC viene apportatoquale esempio di new modes of governance edespressione di soft law. I sostenitori degli inter-venti soft law evidenziano come l’assenza di «obli-gation, uniformity, justifiability, sanctions» che licaratterizza, presenti innumerevoli vantaggi in ter-mini di flessibilità, di ‘tolleranza’ di fronte alle dif-ferenze che contraddistinguono gli Stati membrinonché di maggiore capacità di affrontare situazio-ni di incertezza che richiedono aggiustamenti esperimentazioni continue. Sebbene il dibattitosulle nuove forme di governance ne enfatizzi lepotenzialità democratizzanti, in termini di maggio-re partecipazione ed inclusione degli attori,Smismans non condivide totalmente questo entu-siasmo infatti, «although there are some signs ofcivil society involvement in the OMC (…) thedominant picture remains one of a narrow, opa-que and technocratic process involving highdomestic civil servants and EU officials in a closespolicy network, rather than a broad transparentprocess of public deliberation and decision-making, open to the participation of all those witha stake in the outcome» (Smismans 2005, 14).L’introduzione di politiche redistributive e dinuove forme di governance, sembrerebbe dunquegiocare un ruolo determinante nell’attenuazionedel deficit democratico nella misura in cui si favo-risce un’integrazione dal basso e si mobilitanonuovi attori e territori. In realtà, politica regionale,fondi strutturali e politica dell’allargamento, con-tribuiscono a connotare per una maggiore com-plessità le politiche pubbliche europee, piuttostoche a risolvere in via definitiva le lacune democra-tiche dell’Unione. Infatti, se da un lato li possiamo

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qualificare quali interventi redistributivi, dall’altronon possiamo dimenticarne la componente rego-lativa, le cui peculiarità corroborano le tesi secon-do cui le policies comunitarie esprimerebbero eaggraverebbero il deficit dell’Unione. Caratteristicafondamentale delle politiche regolative è il porrein essere degli interventi e delle misure che inten-zionalmente vadano a modificare il, e ad incideresul comportamento dei singoli attori. Pensiamo aicriteri di Copenaghen adottati nel 1993 per valuta-re le possibilità d’ingresso di nuovi paesinell’Unione proprio attraverso il soddisfacimentodi condizioni economiche, politiche e dell’acquis,in cui gli stessi sono ripartiti, non vanno forse essiad incidere sul comportamento dei singoli paesicandidati che, al fine di “guadagnare” l’accessonell’Ue, devono porre in essere un’economia dimercato funzionante, istituzioni democratiche,nonché garantire il rispetto dei diritti umani e delleminoranze? Gli interventi regolativi si basano dun-que sull’imposizione di parametri di riferimento estandard validi erga omnes, la cui definizione puòrichiedere una conoscenza tecnica, puntuale edesperta; ma essi vanno anche ad incidere e adinfluenzare sistemi di valori, sollevando non pochiproblemi di legittimità democratica dal momentoche la politica regolativa è spesso affidata ad esper-ti non eletti. Riassumendo, Radaelli sottolinea come la «cono-scenza intervenga nella formazione delle politichepubbliche [europee] in virtù della presenza diesperti e comunità epistemiche e dell’imprendito-rialità della Commissione europea, un’organizza-zione che ha come sua principale risorsa proprio laconoscenza. (…) La dimensione cognitiva dellapolitica ha tuttavia anche un lato oscuro: il suonome è tecnocrazia. Non sorprenderà, a questoproposito, che politiche gestite da esperti eimprenditori di policy non elettivi finiscano sottoaccusa per prime. Mentre la democrazia è basatasu consenso, libere elezioni e partecipazione, latecnocrazia attribuisce all’expertise il ruolo diunico fondamento dell’autorità e del potere»(Radaelli 1999, 518). Capiamo così le ragioni dicoloro che imputano alle stesse politiche pubbli-che comunitarie un deficit di democrazia; tuttavia,attraverso gli esempi proposti si avanza l’invito di

guardare alle policies europee come a realtà com-plesse e multisfaccettate che potrebbero contene-re potenzialità, oggi nascoste, di attenuazionedelle lacune democratiche dell’Unione. Confrontandosi con il problema del deficit emer-gono una molteplicità di scenari, di interstizi e dispazi per l’analisi e l’approfondimento, ma ancheper la rivisitazione di modelli e costrutti analitici innostro possesso. Rivisitazione che può o potrebbeportare ad inventare e ad immaginare nuovi oriz-zonti concettuali. Un esempio? Partendo dal pre-supposto secondo cui la democrazia è un prodot-to della storia ed un processo, quindi un projetinachevé, si deve riconoscere la necessità di unapproccio empirico allo studio della stessa.Laddove per projet inachevé si intende, nell’inter-pretazione del Consiglio d’Europa un progettoincompiuto in costante evoluzione, non riconduci-bile ad un modello specifico o predefinito in quan-to espressione di un insieme di valori e di principiche interagiscono di volta in volta in modo diffe-rente, dando vita ad esiti diversi e per questo nondefinibili ex-ante. In sintesi un progetto in tensio-ne verso un modello ideale, che però va di volta involta contestualizzato e calato nelle realtà peculia-ri. La definizione di democrazia di conseguenzanon può che essere posteriore alla ricerca e allostudio di caso. Date tali premesse, perché non studiare la demo-crazia a partire dalle politiche pubbliche, andandoad analizzare ed osservare come si producono par-tecipazione e apprendimento, come sono gestitele conseguenze inattese, come si svolge la fase del-l’implementazione delle politiche stesse?Lo studio del deficit apre poi ad una serie di que-siti, qui non affrontati, ma comunque complemen-tari al problema: nonostante, o sebbene, la prolife-razione degli studi sul deficit, siamo sicuri che sitratti di un problema veramente sentito dai cittadi-ni europei? O dovremmo piuttosto considerarloun’invenzione di accademici ed intellettuali? Siamo sicuri che la retorica che spesso accompa-gna i dibattiti sul deficit non sia funzionale alleremore di politici poco lungimiranti che vedononelle presunte lacune dell’Unione una sorta dibaluardo difensivo per procrastinare la delegaall’Unione di nuove competenze?

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A fronte dei cambiamenti e delle sfide poste dallaglobalizzazione e dalla crescente interdipendenzamondiale, siamo sicuri che la partecipazione, qualeunica fonte di legittimazione, sia ancora attuale oquanto meno sufficiente? Data l’impossibilità per icittadini di influenzare l’azione dei governi su pro-blemi che loro stessi non riescono più ad affronta-re e la cui gestione viene delegata ad istituzionisopranazionali, non sarebbe forse più opportunoricercare e potenziare fonti di legittimazione alter-native? Perché non considerare il deficit in riferi-mento alle aspettative dei cittadini? Se questi ulti-mi sono abituati a ragionare in termini di rappre-sentanza nazionale, e se comunque non sembranoinsoddisfatti delle istituzioni europee che essihanno (a parte la volontà di andare con i piedi dipiombo negli allargamenti successivi), perché noninterpretare la responsiveness in riferimento a que-ste aspettative e non soltanto in riferimento al con-cetto generale e astratto della rappresentatività?Perché non pensare che si possa parlare di deficitdi rappresentatività solo laddove sia soggettiva-mente percepito dai cittadini e non che se nedebba o possa parlare solo perché oggettivamentenon ritroviamo nel sistema politico sovranazionalequell’iniezione di legittimità che le elezioni nazio-nali garantiscono alle istituzioni statali?

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[email protected] Bedin è dottore magistrale in Politichedell’Unione Europea.