Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle...

128
1 Focus: Norberto Bobbio Pag. 3 Norberto Bobbio e l’Università di Padova: 1940-48 di Dino Fiorot Pag. 12 Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia di Giuseppe Gangemi Pag. 41 Bobbio interprete di Cattaneo filosofo di Mario Quaranta Borderline Pag. 51 Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte? di Gabriele Blasutig Passaggio a NordEst Pag. 75 Pressioni innovative e path dependency nel sistema veneto. Come produrre la nuova conoscenza necessaria? di Giorgio Gottardi Il sestante Pag. 89 La regione alla vigilia della "nuova Europa". di Alexander Grasse Pag. 99 L’oggetivazione tecnica della natura umana. Nota critica su Habermas e Foucault di Irene Strazzeri Asterischi Pag. 109 ANTONIO SANTUCCI, Filosofia e cultura nel Settecento britannico; GIANCARLO CARABELLI E PAOLA ZANARDI, Il gentleman filosofo. Nuovi saggi su Shaftesbury; SERGIO LIRONI E MARIO MARTELLI, La città ecologica: progetti, realizzazioni, idee, con il coordinamento; J.H.H., WEILER, La costituzione dell’Europa, SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero Otto, 2004

Transcript of Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle...

Page 1: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

1

Focus: Norberto Bobbio

Pag. 3 Norberto Bobbio e l’Università di Padova: 1940-48 di Dino FiorotPag. 12 Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia di Giuseppe GangemiPag. 41 Bobbio interprete di Cattaneo filosofo di Mario Quaranta

Borderline

Pag. 51 Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte? di Gabriele Blasutig

Passaggio a NordEst

Pag. 75 Pressioni innovative e path dependency nel sistema veneto. Come produrre la nuova conoscenza necessaria? di Giorgio Gottardi

Il sestante

Pag. 89 La regione alla vigilia della "nuova Europa". di Alexander GrassePag. 99 L’oggetivazione tecnica della natura umana. Nota critica su Habermas e Foucault

di Irene Strazzeri

Asterischi

Pag. 109 ANTONIO SANTUCCI, Filosofia e cultura nel Settecento britannico; GIANCARLO CARABELLI E

PAOLA ZANARDI, Il gentleman filosofo. Nuovi saggi su Shaftesbury; SERGIO LIRONI E MARIO

MARTELLI, La città ecologica: progetti, realizzazioni, idee, con il coordinamento;J.H.H., WEILER, La costituzione dell’Europa,

SOM

MAR

IO Culture Economie e Territori

Rivista QuadrimestraleNumero Otto, 2004

Page 2: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

Il 9 gennaio 2004 è mancato Norberto Bobbio. Maestro di più generazioni di studiosi, ha insegnato all’Università di Padova negli

anni 1940-48, ossia in un periodo di grandi tragedie e di grandi illusioni. In questo decennio, Bobbio ha impresso profonde e durature trasformazioni al suo

pensiero politico e alla sua concezione della filosofia del diritto. Alcuni suoi corsiuniversitari padovani, litografati, attestano questo profondo travaglio intellettuale.Iniziamo da questo numero a discutere il suo pensiero e a esaminare la sua attività

intellettuale nella cultura italiana.La redazione esprime al figlio Luigi Bobbio, tra i collaboratori scientifici di questa

rivista, le proprie condoglianze.

Il 3 marzo 2004 è mancato Enrico Opocher, che è stato Preside della Facoltà diGiurisprudenza e Rettore dell’Università di Padova, ove ha tenuto la cattedra di

Filosofia del Diritto. Allievo di Adolfo Ravà e di Giuseppe Capograssi e assistente diNorberto Bobbio nel periodo padovano, ha elaborato una interessante teoria della

giustizia, che ha sollevato un dibattito nella cultura italiana.Opocher ha dato un notevole contributo alla Resistenza nel Veneto, in qualità di

fondatore del Partito d’Azione clandestino veneto e di membro del CNL di Treviso.

2

Page 3: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

3

Norberto Bobbio arriva a Padova con l’anno accade-mico 1940-41 per occupare la cattedra di Filosofiadel Diritto. Questa cattedra era stata tenuta, dal 1922al 1938, da Adolfo Ravà che l’aveva poi dovuta abban-donare in conseguenza delle leggi razziali. Nel 1938,aveva sostituito Ravà Giuseppe Capograssi che,dopo due anni di permanenza a Padova, aveva otte-nuto un ulteriore trasferimento. Dopo Capograssi,arriva Norberto Bobbio, quale straordinario diFilosofia del Diritto e vi resta per otto anni. Nel presentarlo con un comunicato stampa, così lofa descrivere il rettorato: Bobbio è “nato a Torinonel 1909 e quivi ha compiuto i suoi studi universi-tari. Allievo di Gioele Solari, ha conseguito la liberadocenza nel 1935 e nello stesso anno fu chiamatoad insegnare nell’Università di Camerino Filosofiadel Diritto. Nel 1938 è stato unico vincitore, franumerosi concorrenti, nel concorso per professoretitolare della stessa materia. Tra le sue pregevoliopere filosofiche e giuridiche vanno particolarmen-te ricordati gli studi sull’indirizzo fenomenologico,il lavoro sui rapporti tra la scienza e la tecnica deldiritto e l’ampia, profonda monografia sull’analo-gia” (ASUP, Fascicolo del Prof. Norberto Bobbio). Al tempo in cui Bobbio arrivava a Padova, era ret-tore Carlo Anti, che esercitava con zelo la propriafunzione e si faceva interprete convinto delle ini-ziative del regime. Una di queste sue solerti inizia-tive portò a uno scontro con Bobbio e per poconon né provocò il trasferimento d’ufficio. Nel feb-braio del 1943, infatti, il segretario federale delP.N.F. propose di accendere una lampada votiva

propiziatrice di vittoria nel sacrario dei caduti dellarivoluzione fascista. La lampada doveva esserepagata, nelle intenzioni del rettore Anti, che si fecesubito sostenitore dell’idea, con le offerte del per-sonale universitario. Secondo quanto AngeloVentura apprese dallo stesso Bobbio, quest’ultimoe Aldo Ferrabino, pur essendo iscritti al P.N.F., sirifiutarono di partecipare alla sottoscrizione. Neiconfronti di Ferrabino, per intervento di EmilioBodrero, il provvedimento fu archiviato. Nei con-fronti di Bobbio furono tentati provvedimenti (iltrasferimento d’ufficio all’Università di Cagliari)che furono, poi, interrotti dai rivolgimenti politicidel 25 luglio 1943 (Ventura 1992, nota xx).Fino al 25 luglio, la resistenza al fascismo non anda-va oltre questi gesti formali, che pure potevanocostare caro. Tuttavia, all’Università, era ancora pos-sibile utilizzare l’insegnamento per trasmettere valo-ri, anche se non direttive per l’azione. Questa oppor-tunità venne mirabilmente sfruttata da Bobbio.L’insegnamento di Bobbio, esemplare per chiarez-za e rigore, si svolgeva secondo la duplice prospet-tiva dell’analisi teorico tecnica dei fenomeni giuri-dici e dell’approfondimento dei presupposti filo-sofici che stanno alla base dell’esperienza giuridicain generale e del problema della giustizia in parti-colare. Ed è questa prospettiva che soprattuttoaffascinava noi studenti per i risvolti politici cheessa sottendeva.Il tema dominante della riflessione filosofica diBobbio, a partire dal ’38, è concentrato sul concettodi persona, come appare in tutta evidenza nei suoi

Dino Fiorot

Norberto Bobbio e l’Università di Padova:1940-48

Focus: Norberto Bobbio

Page 4: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

4

primi scritti di filosofia sociale pubblicati negli“Annali della Facoltà giuridica di Camerino”, e cioèLa persona e la società e La persona nella socio-logia contemporanea, cui fanno seguito leLezioni di filosofia del diritto tenute da Bobbio aPadova negli anni dal ’42 al ’45 dove vengono ana-lizzati con profondo impegno speculativo quei duetemi fondamentali.Il primo riguarda il problema della giustizia, consi-derato sia dal punto di vista della libertà e dell’u-guaglianza, sia dalla duplice prospettiva individuali-stica e universalistica. Queste riflessioni portano aconcludere che il problema della giustizia si puòporre correttamente solo in rapporto alla persona.Questa, poi, è intesa come individuo che considerase stesso e gli altri ed è considerato dagli altri comefine e non come mezzo e in questo senso comemembro di una comunità di persone. Di conse-guenza, azioni giuste sono quelle che l’individuocompie come persona in relazione ad altre personeal fine di attuare quella comunità di persone cherappresenta l’ideale a cui le società reali devono ten-dere se vogliono realizzare uno Stato di giustizia.Il secondo tema riguarda il personalismo e lademocrazia, argomento questo trattato da Bobbionelle lezioni di Filosofia del Diritto tenute nel ’44 enel ’45 e litografate all’inizio dell’aprile del ’45.Punto centrale della riflessione è sempre il perso-nalismo che possiamo classificare come “laico diispirazione kantiana”, per distinguerlo, senza peral-tro contrapporlo, dal personalismo cristiano, cheproprio in quello stesso periodo Luigi Stefaniniandava trattando nel suo insegnamento alla Facoltàdi Filosofia, senza però trarne alcuna implicazioneetico-politica riferibile all’istanza democratica. Tra lo Stato liberale che si fonda sull’individuali-smo utilitaristico e lo Stato socialista che si fondasul predominio del soggetto collettivo, si pone, agiudizio di Bobbio, lo Stato democratico che costi-tuisce la sintesi e il superamento delle forme diStato sopra indicate. Lo Stato democratico è dun-que il modello che meglio di ogni altro pone lecondizioni per una più equilibrata combinazionedei valori di giustizia e libertà, intesi come valoricomprimari che stanno a fondamento della formapiù elevata, tra le molteplici forme che possonodarsi le società umane rappresentate appunto

dalla comunità personale. Si tratta di una forma di Stato, oggi largamentecondivisa, ma che, vale la pena di sottolinearlo,Bobbio, in uno dei momenti più tragici dellanostra storia nazionale, e cioè durante laRepubblica sociale di Salò, andava trattando eapprofondendo come tema centrale dei suoi corsidi Filosofia del Diritto nel triennio ’43- ’45, median-te elaborazioni teoriche di alto profilo etico-politi-co, riferimenti storici quanto mai puntuali e suffra-gati dalla lettura e dal commento delle opere deigrandi classici della democrazia da Pericle a Kant ea Tocqueville. Con l’8 settembre 1943, infatti, l’impegno didatticodi Bobbio si fa più significativamente concentratosul tema della democrazia. Di questo insegnamentoio sono stato diretto testimone perché, dopo l’8settembre, ho ripreso a frequentare l’Università diPadova come studente del terzo anno di Filosofia.L’istituto di Filosofia del Diritto, diretto da Bobbio,oltre a essere un centro di formazione e di crescitamorale e intellettuale, era diventato anche un luogodi attività clandestina antifascista e partigiana. Bobbio, più che essere un organizzatore, comeinvece era Egidio Meneghetti, veniva moltoapprezzato per i contributi intellettuali che forniva,senza però dare nessun, diciamo così, esplicitoriferimento a fini operativi. Egli orientava, però,con il solo esprimere, attraverso l’insegnamento,quelle che erano le sue convinzioni più profondeche riguardavano appunto il problema della giusti-zia e quello della democrazia. Questo avvenivanelle lezioni.Nell’ambito dei seminari, invece, attraverso la pre-senza anche di altri (Enrico Opocher e GiovanniAmbrosetti che erano suoi assistenti, ma ancheLuigi Cosattini, Antonio Giuriolo e Mario Todesco)che erano tutti esponenti del Partito d’Azione, icontributi intellettuali si facevano più ricchi e piùattuali. Questi studiosi venivano a parlare, senzamanifestare in modo chiaro quella che era la loroadesione dal punto di vista dell’appartenenza par-titica. Venivano a discutere problemi che riguarda-vano, per esempio, Silvio Trentin, in particolare ilpensiero che Silvio Trentin aveva espresso nelloscritto Libérer et Fedérér.Silvio Trentin veniva presentato come uno studio-

Page 5: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

so costituzionalista che aveva lasciato l’insegna-mento per non giurare e aveva elaborato delle ideeestremamente interessanti e moderne che riguar-davano il suo concetto di Stato in rapporto soprat-tutto alla giustizia e alla libertà. A Trentin venivariconosciuto il merito di aver ipotizzato, da unaparte, completa libertà politica personale, e dall’al-tra, un filtro di carattere collettivistico. In partico-lare, nei seminari si illustrava nei particolari la solu-zione che egli proponeva circa i rapporti tra politi-ca ed economia. Siccome nella biblioteca c’erano alcuni scritti diTrentin (in particolare Liberare e Federare nellatraduzione di Giuriolo), essi erano stati oggetto didiscussione ed erano presentati come un’interes-sante visuale nell’interpretazione dei rapporti tralibertà e giustizia. Quella di Trentin veniva presen-tata come una visione teorica che aveva una suanovità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questoimplicasse l’espressione di una esplicita preferenzaper le sue idee rispetto a quelle degli altri. Solo che, in quegli stessi mesi, cioè dopo l’8 set-tembre 1943 fino al 12 marzo 1944 (data dellamorte di Trentin), questo antifascista di San Donàdi Piave era ritornato in Italia (dopo avere matura-to un larga esperienza come organizzatore dellaresistenza in Francia, appunto con il movimento“Libérer et Fedérér”) e si era distinto tra i più atti-vi organizzatori della resistenza veneta. Le opere giuridiche e politiche di Trentin circola-vano nell’ambito dell’Istituto di Filosofia delDiritto. In particolare Antonio Giuriolo, con l’ami-co Nino Perego, aveva tradotto il testo originale,che lo stesso Trentin gli aveva dato. La traduzionedi Antonio Giuriolo fu poi utilizzata per la stampadell’opera nella raccolta di Scritti inediti di Trentinche in sostanza venivano a costituire un progettopolitico che veniva a coinvolgere una parte dellaResistenza veneta. Trentin, infatti, aveva destato notevole interessetra i giovani resistenti, per il suo “Appello ai venetiguardia avanzata della nazione italiana”, pubblicatoil 1 novembre 1943 in “Giustizia e Libertà” organodel Partito d’Azione veneto.Trentin rappresentava il polo della sinistra progres-sista del Partito d’Azione e nello stesso tempo era

considerato il più originale interprete delle teoriefederalistiche e le sue posizioni venivano utilizzatea sollecitare la riflessione su due tematiche cheerano al centro del nostro interesse come studentidel corso di Filosofia del Diritto, ma interessavanoin ben altro modo quelli di noi che aderivano (oche avrebbero aderito) al Partito d’Azione.Il primo motivo di interesse riguardava la conce-zione di un sistema sociale che superasse nellostesso tempo tanto il collettivismo economico cheaveva generato il dispotismo politico, comenell’Unione Sovietica, quanto il solo liberalismopolitico che aveva generato il dispotismo econo-mico, come è avvenuto nelle democrazie capitali-stiche. Trentin proponeva un progetto di Statosocialista in economia e democratico in politica.Tale progetto si riferiva (e qui emerge il secondomotivo di interesse) alla costituzione di uno Statofederale che egli concepiva come il solo ordina-mento capace di salvaguardare la libertà del citta-dino e l’autonomia delle imprese in una economiacollettivistica.Nel pensiero di Trentin erano poste in evidenza ledue facce del federalismo: quella libertaria e quel-la pacifista, ma l’esigenza libertaria prevaleva suquella pacifista. Il suo interesse di studioso di dirit-to e di politica era rivolto alla critica dello Statonazionale che si era venuto identificando con unpotere sempre più monocratico. Il motto diTrentin “liberare e federare” ci suggeriva l’idea diuna liberazione che doveva coinvolgere sia il pote-re economico, sia quello politico, realizzando unoStato federale a democrazia integrale, le cui strut-ture di base dovevano fondarsi sui consigli deglienti professionali così come di quelli territoriali.La logica stessa del federalismo di Trentin esigevache il progetto istituzionale proposto venisseapplicato coerentemente e conseguentemente intutte le sfere in cui si esplicava la vita sociale. Tuttociò implicava la necessità di una rivoluzione per larealizzazione di una democrazia integrale che nonavrebbe esaurito il suo compito storico se non sifosse spinta alla costituzione degli Stati Unitid’Europa, e successivamente in un futuro moltolontano, alla unificazione istituzionale di tutti gliStati del mondo in un unico Stato federaleOltre che sugli scritti di Trentin, nei seminari orga-

5

Dino Fiort Norberto Bobbio e l’Università di Padova

Page 6: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

nizzati da Bobbio si parlava di Hobbes, diTocqueville, di Shumpeter. Il tema dominante eraquello della forma dello Stato e, nell’ambito diquesta, della funzione, dal punto di vista operativocostituzionale e dal punto di vista ideologico, dellademocrazia, cioè del problema della partecipazio-ne al potere, sia dal punto di vista formale, attra-verso la descrizione delle regole del gioco, sia dalpunto di vista sostanziale.Naturalmente, oltre che esprimere l’esigenza diuna democrazia formale, si considerava anche l’e-sigenza di una maggiore giustizia, non in quantoproblema amministrativo, ma in quanto valorecomprimario della libertà. Per cui la libertà era ilvalore supremo che veniva però a trovare la pro-pria collocazione da un punto di vista sociale attra-verso una esigenza che tutte le comunità avessero,quanto meno, dal punto di vista della partecipa-zione alla vita sociale, delle condizioni di partenzasostanzialmente uguali.Questo era il fulcro dei seminari. Bobbio facevacon molto garbo queste lezioni; non faceva prose-litismo; esponeva le teorie più recenti sulla demo-crazia; ragionava sul tema della democrazia comefa qualsiasi studioso quando decide di approfondi-re una qualsiasi tematica. Quindi era un po’ diffici-le, anche se c’era qualche spia, che potesse in qual-che modo essere impedito senza che venissemessa in discussione la libertà di insegnamento.Da parte delle autorità, in particolare del ministroCarlo Alberto Bigini, c’era una certa sensibilitàverso un minimo di libertas philosophandi con-sentita fino a quando non si passava anche solo ateorizzare la libertas operandi. Contemporaneamente con Bobbio e ad esso inbuona parte strettamente collegati, altri insignimaestri dell’Ateneo patavino cooperavano nellalotta contro il nazifascismo, e in particolare vannoricordati Concetto Marchesi, Ezio Franceschini,Egidio Meneghetti ed Enrico Opocher. Questi maestri non solo furono esponenti attividella Resistenza veneta, ma ad essa apportarono, enon solo ad essa, un arricchimento del patrimonioideale con significativi e originali contributi nel-l’ambito delle loro specifiche qualificazioni scienti-fiche e ideologiche. Furono questi maestri chelasciarono in me, come in molti miei compagni di

studio, una profonda impronta intellettuale e sol-lecitarono riflessioni e confronti che influenzaronole nostre scelte etico-politiche.Bobbio nella sua Autobiografia fa riferimento aifrequenti incontri serali con Marchesi in casa deiconti Parafava, dove abitava e lo ricorda come “unuomo di una schiettezza perfino imbarazzante enel cui animo dominavano due sentimenti, la com-passione per gli oppressi e il disprezzo per i poten-ti” (Bobbio 1999, p. 49)Come studente della Facoltà di Lettere e filosofia,ho potuto seguire il corso di letteratura latinatenuto da Concetto Marchesi. Con lui ho avutosolo sporadici rapporti personali per ragioni didat-tiche; ma fu soprattutto l’assidua frequenza allelezioni, che ho seguito col più vivo interesse, aconsentirmi di cogliere le frequenti e anche trop-po trasparenti allusioni che egli faceva tra le pre-potenze e le ottusità dei più despoti fra gli impera-tori romani e quelle dei gerarchi dell’imperanteregime fascista. Così altrettanto suggestivi mi appa-rivano i riferimenti agli scritti ai padri della Chiesaquali Tertulliano, Ambrosio, Prudenzio e Agostino,autori che egli inseriva nei suoi corsi di letteraturalatina classica. Nel cristianesimo e nel socialismo,Concetto Marchesi vedeva gli stessi ideali di giusti-zia, di uguaglianza e di pace per tutti gli uomini eparticolarmente per la povera gente diseredata.A suo giudizio era la chiesa di Roma a frapporre uninsuperabile ostacolo ad un incontro che sarebbestato provvidenziale e fecondo fra cristianesimo esocialismo.Anche Franceschini, docente della Facoltà diLettere, durante le lezioni di latino medievaleamava far riflessioni sulla situazione presente.E in particolare la mia curiosità era stimolata perinterpretare lo strettissimo rapporto di amiciziache lo legava a Marchesi, nonostante la radicalediversità tra il marxismo ortodosso professato daMarchesi e il cattolicesimo integrale professato daFranceschini. Il comune profondo interesse per la lingua e lette-ratura latina e il loro radicale antifascismo, sia purevissuto con approcci diversi, costituirono senzadubbio il forte legame della loro amicizia.Franceschini orientò dapprima la sua attività cospi-rativa verso un’opera di salvazione che consisteva

6

Page 7: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

7

nell’aiutare i perseguitati e i condannati dai nazifa-scisti, attraverso una organizzazione quanto maifunzionale ed efficace, a raggiungere un sicurorifugio in Svizzera. Tramite questa organizzazione(da lui battezzata FRAMA dalle iniziali diFranceschini e Marchesi), poterono trovare la viadella Svizzera anche molti altri perseguitati tra iquali mi limito a ricordare Diego Valeri.Franceschini riuscì inoltre a liberare Meneghettidalla deportazione in Germania trattando, permezzo di suoi collaboratori svizzeri, uno scambiofra Meneghetti e un alto ufficiale tedesco prigio-niero degli alleati.Franceschini maturò la sua esperienza politica nel-l’ambito dell’azione cattolica nel momento in cui,subito dopo i patti Lateranensi, nacque un acutodissenso tra i più duri esponenti del fascismo chevolevano strumentalizzare l’Azione Cattolica a finidi parte, e gli esponenti di questa che intendevanotutelarne la più netta autonomia restringendolaesclusivamente all’ambito religioso ed ecclesiale. Franceschini non si limitò solo all’opera di salva-zione, ma attraverso un approfondimento, stimo-lato dall’esperienza resistenziale e meditato all’in-terno del suo rigoroso cattolicesimo, confessò cheun altro grande insegnamento egli aveva trattodalla Resistenza: “i cattolici – sono sue parole –hanno finalmente superato l’istintivo orrore per learmi, hanno imparato a combattere, non più iner-mi, l’illegalità e l’ingiustizia, a battersi senza odiare,ad amare uccidendo, per ristabilire le leggi e la giu-stizia, l’avversario ingiusto”.L’insegnamento di questi maestri aiutò tanti di noi,e tante forze intellettuali, a scegliere e a schierarsi.Aiutò non solo chi aveva già maturato un atteggia-mento antifascista o stava passando all’antifascismo,ma anche altre forze che nel fascismo vivevano,avvertendo però una grande costrizione intellettua-le, e in cui agiva un forte spirito di insofferenza.Tra tutti questi maestri, tuttavia, proprio per lamaggiore libertà di approfondimento politico chegli veniva offerto dalla natura specifica della mate-ria, il maestro più formativo fu Norberto Bobbio.Anche perché, intorno a lui si era costituito quelfolto gruppo di giovani studiosi già militanti nellefile della resistenza, cui si è accennato prima. Che i giovani studiosi che collaboravano al semi-

nario fossero del Partito d’Azione, io lo ho saputoindirettamente, come vox populi. Con l’evolversidegli eventi lo si seppe per il tragico destino cheessi ebbero: Cosattini morì a Buchenwald, Giuriolocadde in combattimento nell’Appennino tosco-emiliano e Todesco fu selvaggiamente trucidato aPadova. Tra tutti i partecipanti a quel seminario, ho avutoun rapporto speciale con Opocher che abitava,come me, a Treviso. Eravamo vicini di casa.Ambedue frequentavamo l’Università. Enrico eradi cinque anni più anziano di me. Avevamo, piut-tosto di frequente, l’occasione di fare insieme ilviaggio da Treviso a Padova e viceversa, per cui tranoi è nato un forte legame di amicizia, legame cheha contribuito a determinare in me quel processodi maturazione intellettuale che mi ha portato dap-prima a partecipare attivamente allo lotta di libera-zione, e poi ad aderire al Partito d’Azione di cuiEnrico era allora esponente autorevole. Opocherha dato un notevole contributo alla lotta antifasci-sta in qualità di fondatore del Partito d’Azione clan-destino veneto nel 1942 e di membro del CNL diTreviso. Io, invece, ero nell’esecutivo militare. Si stavano allora costituendo le prime formazionidi combattenti. Nei primi tempi, ho operato aTreviso, ma poi ho cominciato ad operare aPadova perché la resistenza a Padova era stata pra-ticamente decimata, e questo richiedeva che altriaccorressero da altre province.Padova, ma soprattutto la sua Università, era, infat-ti, diventata un simbolo da quando il rettore incarica, Concetto Marchesi, il 1° dicembre di ses-sant’anni fa, rivolse il suo appello agli studenti perincitarli alla lotta armata contro il nazifascismo. Sitrattava indubbiamente di un evento quanto maiemblematico che incise significativamente nelcoinvolgimento del nostro Ateneo a una più attivapartecipazione alla lotta di liberazione, e che altret-tanto significativamente determinò in me, allorastudente, una decisiva svolta antifascista.Ma fu il discorso celebrativo tenuto il 9 novembredel ’43, in occasione dell’inaugurazione del 722°anno della fondazione dell’Università, che mi fececogliere il senso profondo della personalità diConcetto Marchesi nelle sue dimensioni di uomodi carattere, di comunista militante e di maestro di

Dino Fiort Norberto Bobbio e l’Università di Padova

Page 8: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

umanità. Si tratta di un’impressione profonda cheè rimasta incisa nel mio animo, come in quello dinumerosi compagni che hanno condiviso con mequella esperienza davvero indimenticabile.Al di là di ogni contingente passione politica –come ha mirabilmente ricordato Enrico Opochernella sua commemorazione letta in Aula Magna inoccasione del XX anniversario dell’inaugurazionedell’anno accademico di cui stiamo parlando –quel discorso fu e sarà sempre l’incoercibile sfidache l’Università di Padova, come “tempio inviola-to”, secondo la felice espressione di Marchesi, lan-ciava agli oppressori ed ai pavidi per il fatto stessodella sua esistenza, della sua tradizione, della suamissione, quasi a testimoniare che soltanto attra-verso la fedeltà a se stessi, alla propria vocazione,si può salvare, anche nelle più tragiche avversità,l’avvenire così degli individui come delle nazioni(Opocher 1963, 17-8).Mi piace qui ricordare, non senza un brivido diemozione, le parole con cui Marchesi, con quellasua voce calma e suadente, ha dato inizio al suodiscorso: “Se i rintocchi della torre del Bo nonannunciano quest’anno alla città il rinnovarsi dellaconsueta pompa accademica, c’è nell’aria invecequalche cosa di nuovo e di insolito, come unagrande pena e una grande speranza che qui siaduna ad ascoltare più che la fuggevole parola diun uomo, la voce secolare dell’Università”(Marchesi 1964, 51).Nel grande silenzio dell’aula non si avvertiva solo lapartecipata attenzione dei maestri e degli studenti,ma aleggiava lo spirito dell’intero popolo italiano.“Quella grande ‘pena’ e quella grande ‘speranza’”– sono ancora parole di Opocher – erano, anchese diversamente avvertite e diversamente espres-se, nel cuore di ogni italiano, là dove il rispettodella verità e la forza redentrice del lavoro affran-cavano dall’umiliazione della retorica e del pesodella schiavitù e convertivano la sofferenza nel pre-sagio della risurrezione. E quando ConcettoMarchesi nel momento più solenne della cerimo-nia, osò dichiarare aperto l’anno accademico innome “di questa Italia dei lavoratori, degli artisti, edegli scienziati”, il miracolo sembrò compiuto:l’Università di Padova aveva espresso a nome ditutti e per tutti quella ‘pena’ e quella ‘speranza’

come se il diaframma che nei tempi tranquilli sem-bra estraniare il mondo della cultura dalla coscien-za popolare, fosse improvvisamente caduto e ilnostro Studio, riscoprendo, sotto le ceneri di unaastratta cultura ormai consumata, le forze vivedella civiltà, si fosse decisamente avviato per leaspre vie della nuova storia (Opocher 1963, 18).“Oggi il lavoro – ricordava Marchesi – ha sollevatola schiena, ha liberato i suoi polsi, ha potuto alzarela testa e guardare attorno e guardare in su …Sotto il martellare di questo immenso conflitto –incalzava Marchesi – cadono per sempre privilegisecolari e insaziabili fortune; cadono signorie,reami, assemblee che assumevano il titolo dellaperennità: ma perenne e irrevocabile c’è solo laforza e la potestà del popolo che lavora e dellacomunità che costituisce la gente invece dellacasta” (Marchesi 1964, 53-4).Certo queste parole erano l’espressione della fedepolitica professata dall’oratore, ma vi era anchequalcosa di più: vi era il senso profondo di unanuova speranza che stava penetrando nella societàcivile. Ed espressione di questo nuovo sentire fu lavibrata protesta degli studenti presenti in difesadel tempio inviolato quando, uno sciagurato mani-polo di violatori dell’Aula Magna osò contrapporrealle parole di Concetto Marchesi il ritmo ormailugubre dei canti fascisti.Atti così emblematici in un momento cruciale dellanostra storia ci dicono della grande personalitàpolitica di Concetto Marchesi, della forza e del pre-stigio della sua figura, ma anche dell’autorità delmaestro: di chi aveva formato intere generazioni distudenti e di studiosi dando una ragione di vita edi impegno civile alla conoscenza del camminodella storia.Dopo il 9 novembre, Marchesi poté rimanereancora per poco tempo alla guida dell’Ateneo, fin-ché il 1° dicembre, sotto l’incalzare degli eventiche si indirizzavano verso forme di lotta più incisi-ve contro il nazifascismo, decise di lasciare il retto-rato lanciando agli studenti lo storico appello d’in-citamento alla lotta armata.Mi pare quanto mai opportuno in questa sedericordare la parte finale di questo appello in cuiinvitava gli studenti ad “Aggiungere al labaro dellavostra Università la gloria di una nuova più grande

8

Page 9: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Dino Fiort Norberto Bobbio e l’Università di Padova

decorazione in questa battaglia suprema per la giu-stizia e per la pace nel mondo”.Quanto grande sia stata l’efficacia di questo appel-lo e quanto profetico sia stato l’invito agli studentidi aggiungere al labaro dell’Università la “gloria diuna nuova grande decorazione”, trova puntualeriscontro nella motivazione della Medaglia d’oro alValor Militare che Ferruccio Parri, Presidente delConsiglio, consegnò a Egidio Meneghetti, nuovoRettore, per il gonfalone dell’Ateneo. Si legge infat-ti nella motivazione: “Dalla solennità inaugurale del9 novembre ’43, in cui la gioventù padovana urlò lasua maledizione agli oppressori e lanciò aperta lasfida, fino alla trionfale liberazione nella primaveradel ’45, Padova ebbe nel suo Ateneo un tempio difede civile e un presidio di eroica resistenza, e daPadova la gioventù universitaria partigiana offrivaall’Italia il maggior e più lungo tributo di sangue.” E a conferma di ciò, sono registrate in una grandelapide, a perenne memoria, una per una, le 117vite per la gran parte di giovani studenti, ma anchedi docenti e di personale non docente, sacrificatenel fiore degli anni per la causa della democrazia,della libertà, della giustizia e della pace.È su questo humus, ricco di motivazioni ideali, poli-tiche e culturali, che la Resistenza veneta organizzai suoi dirigenti, in cui trovano ampio spazio profes-sori, studenti e anche altre categorie di personaleuniversitario. Viene costituito il CLN regionale periniziativa di Marchesi, Meneghetti e Trentin.Il primo a subire la repressione nazifascista, forseperché il più noto per l’antifascimo militante, fuSilvio Trentin. Arrestato alla fine del novembre del’43, il suo cuore, duramente provato dalle lunghesofferenze dell’esilio e dalle nuove responsabilità,non resse e dopo qualche mese, Trentin morì rivol-gendo il suo pensiero all’amata patria. Vale la penadi ricordare in questa sede le sue ultime parole:“che io muoia senza vedere la luce della faticata vit-toria, dell’invocata giustizia, della riconquistatalibertà; e dopo aver lottato per lunghi anni, dopoaver sofferto esilio, carcere, povertà, persecuzioni,cada ora sul campo della battaglia non ancora con-clusa e mi sia negato di dare opera alla ricostruzio-ne immensa; che io chiuda per sempre gli occhi inuna camera di ospedale lontano dall’adorata figlia edebba abbandonare nel momento più duro, l’eroi-

ca compagna e i figli straziati; ch’io abbia perdutoogni bene e abbia veduto i migliori amici uccisi, dis-persi, imprigionati, percossi dalle più disumanesventure tutto questo non importa, purché l’Italiasi salvi” (Opocher 1963, 27).Dopo il ritiro forzato di Trentin e di Marchesi dalladirigenza della Resistenza veneta, restava soloMeneghetti, legato a Bobbio da strettissimi vincolidi amicizia fondati sui comuni ideali dell’antifasci-smo e dell’azionismo. Benché straziato dal disuma-no dolore per la perdita dell’intera famiglia a causadi una crudele quanto insensata incursione aerea,egli, lasciato il rettorato a un uomo di alto prestigioscientifico e politicamente non compromesso,come il prof. Giuseppe Gola, dedicò ogni sua ener-gia alla organizzazione e al potenziamento dellaresistenza veneta e di questa sua dedizione totale,posso dare diretta testimonianza per aver fattoparte del ristretto gruppo di collaboratori che nonlui hanno condiviso l’intensa attività cospirativa.La personalità di Meneghetti mi affascinava perchéegli portava nella Resistenza lo slancio della tradi-zione combattentistica e repubblicana del nostroRisorgimento. Quanti gli sono stati vicini lo ricor-dano instancabile, onnipresente, incurante di ognicautela, nonostante i consigli di prudenza che glivenivano dai compagni, disponibile per ogni sacri-ficio a favore della causa in cui credeva. Per direttaesperienza posso testimoniare gli intensissimi rap-porti che tenne coi compagni azionisti e con i rap-presentanti sia del CLN veneto sia del comandomilitare di cui fu l’anima e il braccio.Meneghetti non fu un ideologo, ma un grande ani-matore, uno spirito nobile, un vero maestro discienza e di vita che aveva un senso profondo dellafunzione dell’Università moderna che “appare achi ne è degno – come scrisse nel manifesto clan-destino celebrativo dell’8 febbraio ’44 – il massimotempio della libertà per la consapevolezza e l’inda-gine che diviene feconda nella divergenza delleopinioni apertamente discusse, per la ferma per-suasione che il valido oppositore è il collaboratorepiù efficace, per la sicura esperienza del perenneaffermarsi dell’eresia in ortodossia e del perennezampillare dall’ortodossia di nuove benefiche ere-sie” (Manifesto 8 febbraio, 18).Il suo pensiero politico corrispondeva alle enun-

9

Page 10: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

ciazioni programmatiche del Partito d’Azione: egliesaltava la grande tradizione liberale, ma non lariteneva sufficientemente valida perché non vi ècompiuta libertà là dove i punti di partenza sonodiseguali. Si fece convinto sostenitore dell’autono-mia regionale perché intimamente legata alla con-cezione democratica dell’autogoverno e perché lariteneva stimolatrice di iniziative e scuola diresponsabilità.Ma anche sul piano culturale ritengo che la figuradi Meneghetti abbia avuto un suo particolare rilie-vo, oltre che per i mirabili saggi di alta divulgazio-ne scientifica, per la sua opera poetica, special-mente per i versi che evocano episodi della vitapartigiana. Personaggi come Rita, Bartolo,l’Ebreeta, La partigiana nuda, sono figure di unmondo in cui ogni segno di umanità viene brutal-mente e stupidamente stroncato dalla ferocia deipersecutori, in un mondo in cui non vi è posto emodo di salvezza se non nel sentimento della pietàe nel culto della memoria espressi dal poeta conaccenti di alta liricità.Né posso passare sotto silenzio che, dopo l’arre-sto, Meneghetti e molti altri compagni e collabora-tori subirono e seppero resistere alle torture deglisgherri della “Banda Carità”, mentre nella stessacittà di Padova cadevano trucidati i comandantidella brigata Giustizia e Libertà “Silvio Trentin”,Otello Pighin, assistente della Facoltà diIngegneria, Corrado Lubian e Sergio Fracalanza,studente della Facoltà di Medicina, questi ultimimiei preziosi e validissimi collaboratori. Nel 1944-45, ormai, l’attività accademica internaall’Università languiva, le aule erano pressochédeserte, le biblioteche paralizzate, gli istituti semi-vuoti in una città gravemente ferita dai frequentibombardamenti. Fuori dall’Università, stimolata dadocenti, da giovani studiosi e da numerosi studen-ti ferveva viva la lotta partigiana all’ombra delle fab-briche, nei quartieri cittadini, nei campi e soprat-tutto nelle montagne dal Cansiglio, al Grappa, alPasubio, all’Altopiano di Asiago, alle montagneveronesi, coinvolgendo larga parte della popolazio-ne veneta: donne, giovani, e anziani davano semprepiù numerosi il loro apporto svolgendo i ruoli piùdiversi, contribuendo, a costo di gravi sacrifici e tal-volta anche con l’olocausto della vita, a trasformare

la lotta partigiana nella guerra di popolo.Ho qui tracciato nell’onda dei ricordi i profili diquesti maestri esponenti della Resistenza che conil loro insegnamento e il loro esempio hannoinfluito incisivamente sulla mia formazione intel-lettuale nel biennio della lotta di liberazione.Chiudo ritornando a Norberto Bobbio, che fuanche arrestato per quanto andava facendoall’Università di Padova e nella Resistenza. In quegli ultimi mesi di guerra in cui l’Universitàfunzionò poco, egli fu spesso a Torino. Nel 1945,cominciò anche a tenervi una supplenza, premes-sa del fatto che, qualche anno dopo la fine dellaguerra, egli venisse trasferito in quella Università.Norberto Bobbio, dopo la guerra, cominciò a par-lare di Stati Uniti d’Europa, e lo fece mentre si tro-vava ancora a Padova. Il Veneto appariva, allora,almeno ai nostri occhi di veneti, il posto in cui que-sta prospettiva aveva acquistato più senso. Infatti,tale prospettiva, come ho già ricordato, si trovavain alcuni scritti di Silvio Trentin, ed era stato rilan-ciato, prima ancora che da Spinelli, anche daFermo Solari. Questi faceva parte, del Partitod’Azione udinese ed era diventato rappresentantedel partito per l’Alta Italia. C’è stato uno strettorapporto tra Fermo Solari e Bobbio, particolar-mente nel 1944-45. Il concetto di Stati Uniti d’Europa, rivisto daBobbio nel senso di Cattaneo, ma anche diUmberto Campagnolo e di Altiero Spinelli, eradivenuto uno dei temi più trattati nell’immediatodopoguerra. Il periodo padovano è stato per Bobbio quantomai impegnativo dal punto di vista intellettuale, eha prodotto nel suo pensiero trasformazioni pro-fonde e durature. Del resto tale giudizio trovapiena conferma nella lettera che lo stesso Bobbiomi ha indirizzato in risposta agli auguri che io emolti altri ex allievi ed amici padovani gli avevamoscritto in occasione del suo novantesimo com-pleanno: “Tra i molti auguri che ho ricevuto per imiei novant’anni – egli scrive – quelli che mihanno commosso di più per la loro forza rievocati-va, sono i tuoi che accompagnano le firme di allie-vi, compagni, amici di quella straordinaria stagionedella mia vita che furono gli anni trascorsi a Padova,gli anni della fine e della caduta del fascismo e della

10

Page 11: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Dino Fiort Norberto Bobbio e l’Università di Padova

11

preparazione alla libertà. Stagione straordinaria,irripetibile, non più ripetuta, incancellabile dallamia memoria per le persone con cui sono venutoin contatto, in gran parte allievi che frequentavanole mie lezioni (…). Fu uno di questi studentimorto giovane, Beppe Gerardis, che alla fine delmio corso 1942-43 (la caduta del fascismo era vici-na) disse a nome dei compagni alcune parolecoraggiose su ciò che dalle mie lezioni avevanoappreso, ed era proprio quel tentativo di fondare lademocrazia su un’etica personalistica che tu haicosì perfettamente ricostruito nell’articolo de “IlMattino” (…). Ho detto più volte che il vecchio,non potendo fare progetti per il futuro, si rifugianei ricordi, nel ripercorrere la propria vita perconoscere finalmente se stesso, attraverso la rifles-sione dei suoi errori o erramenti e sui momenti(rari) felici, in cui ha compiuto pienamente il pro-prio dovere. Gli anni padovani sono stati unmomento cruciale della mia vita, della raggiuntamaturità, di cui sono debitore anche ai giovaniormai insofferenti della dittatura, della guerra com-battuta dalla parte sbagliata, protesi verso un futu-ro di pace e libertà. A loro la mia riconoscenza”.

Riferimenti bibliografici

ASUP (Archivio Storico dell’Università di Padova),Fascicolo del prof. Norberto Bobbio Bobbio, Norberto (1999) Autobiografia, a cura diAlberto Papuzzi, Bari Editori LaterzaOpocher, Enrico (1963), Discorso in occasionedel XX anniversario della Resistenza universita-ria, estratto dall’“Annuario dell’Università diPadova per l’anno 1963-64”Marchesi, Concetto (1964), Discorso inauguraledell’anno accademico 1943-44 tenuto dal RettoreConcetto Marchesi, in L’Università di Padova perla Resistenza, Padova, MarsilioManifesto per l’8 febbraio 1944 in Scritti clandesti-ni, Milano, Zanocco, 1975Trentin, Silvio (1972), Scritti inediti, Parma,GuandaVentura, Angelo (1992), Carlo Anti RettoreMagnifico e la sua Università, in AA.VV., CarloAnti. Giornate di Studio nel centenario dellanascita, Trieste, Lint

Dino Fiorot è professore emerito di Filosofia politica dell’Università di Padova. Ha partecipato attivamen-te alla Resistenza come comandante delle formazioni “G.L.” delle province di Treviso e Padova; nel 1945 èstato nominato assistente volontario del prof. Bobbio; dal 1970 al 1996 è stato direttore dell’Istituto diScienze Politiche e dal 1989 al 1996 Preside della Facoltà di Scienze Politiche. Attualmente è presidenteonorario della Società italiana di Filosofia Giuridica e Politica e Presidente dell’Istituto veneto per la storiadella Resistenza e dell’età contemporanea.

Prof. Dino Fiorot Dipartimento di Studi Storici e Politicivia del Santo, 28 - 35123 Pd

Page 12: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

12

IntroduzioneL’obiettivo di questo scritto è la rappresentazione diun percorso credibile della riflessione teorica diNorberto Bobbio. Il punto di partenza scelto è,grosso modo, il saggio del 1950 su “Scienza deldiritto e analisi del linguaggio, che ebbe un suc-cesso maggiore di quel che meritava, ma che rap-presentò l’inizio del nuovo corso” (Bobbio 1992, 8).Il primo inizio di Bobbio è stato antikelseniano eantinormativista, come nella migliore tradizionedella Filosofia del Diritto del tempo. Solo che, intan-to, maturavano in lui i germi di un mutamento radi-cale che così egli descriverà, molto tempo dopo:“Parlo di ‘conversione’, perché soltanto così spiego,da un lato, l’oblio in cui ho lasciato sprofondare imiei scritti giuridici precedenti, dall’altro, la confes-sione più volte fatta, secondo cui alla rottura violen-ta col passato avvenuta nella storia del nostro Paesetra il 1934 e il 1946 ha corrisposto una frattura nelcorso della mia vita privata e pubblica, intellettualee morale. Incipit vita nova” (Bobbio 1992, 7). In questo nuovo inizio, Bobbio rigetta con entu-siasmo, per poi gradatamente modificare le pro-prie nuove posizioni. Infatti, il suo percorso intel-lettuale si può descrivere come un passaggio dal-l’affermazione della centralità della legge alla cen-tralità dell’apprendimento, dalla frequentazioneprivilegiata di Kelsen alla dimestichezza con lametodologia di Max Weber e con le retoriche diPerelman, da una rigida definizione dei propri con-cetti (a partire da quello di federalismo e di pace)a una flessibile definizione del concetto di demo-

crazia nei suoi volumi del 1976 (Quale socia-lismo?) e del 1984 (Il futuro della democrazia). Quello di cui non si parlerà in questo scritto è ilperiodo della prima produzione di Bobbio (1934-44) quando era noto come fenomenologo e stu-dioso di Husserl (L’indirizzo fenomenologiconella filosofia sociale e giuridica del 1934; La filo-sofia di Husserl e la tendenza fenomenologica del1935; La fenomenologia secondo M. Scheler del1936; il Necrologio per Hedmund Husserl del1938; La personalità di Max Scheler del 1938;Husserl postumo del 1940), per i suoi scritti suirapporti tra la scienza e la tecnica del diritto(Scienza e tecnica del diritto del 1934; La consue-tudine come atto normativo del 1942) e per l’am-pio e profondo lavoro sul tema dell’analogia(L’analogia e il diritto penale e L’analogia nellalogica del diritto, entrambi del 1938). Bobbio haammesso di avere abbandonato “alla furia roditricedei topi” (1992, 5) questi scritti che pure gli aveva-no fatto conseguire la libera docenza nel 1935, lohanno portato a insegnare Filosofia del Diritto aCamerino, nel 1938, gli hanno fatto vincere la cat-tedra di professore straordinario di Filosofia delDiritto e hanno fatto che fosse chiamato a Siena.Nel 1940, da Siena, si è trasferito alla facoltà diGiurisprudenza dell’Università di Padova dove hainsegnato, sempre Filosofia del Diritto, fino al 1948.In questo scritto non si parlerà nemmeno, e larinuncia è più dolorosa, dei saggi di Bobbio sullapace (per lo meno di quegli scritti successivi al1961, il cui il tema della pace non è collegato al

Giuseppe Gangemi

Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

Focus: Norberto Bobbio

Page 13: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

13

federalismo). Questa esclusione è derivata dalfatto che non vi è evoluzione nel suo modo di trat-tare il tema della pace, che Bobbio intende semprecome non belligeranza e che affronta secondo iristretti canoni metodologici del neopositivismo.Ma poiché questi saggi sono stati oggetto di anali-si di un altro saggio su Bobbio, mi limiterò arimandare a quello scritto (Gangemi 1991).Gli scritti che saranno qui analizzati sono quelli, dal1945 in poi, sul tema del federalismo, dellaFilosofia del Diritto e della Scienza (o Filosofia)Politica. Dei saggi precedenti il 1945, si accenneràsolo a uno scritto, del 1942, La filosofia del dirittoin Italia nella seconda metà del secolo XIX, inquanto, nella seconda metà degli anni Settanta,questo saggio è stato immaginato come la primaparte di un volume, la cui seconda parte sarebbestato il saggio, poi rimasto inedito, Filosofia deldiritto e scienza del diritto in Italia nell’ultimocinquantennio. Quest’ultimo testo è particolar-mente interessante perché ripresenta, in formaleggermente modificata, la famosa tesi contenutain Politica e cultura, sul tema del rapporto tra filo-sofia e democrazia: nella versione più nota, quelladegli anni Cinquanta, la tesi era che la filosofiaidealista favorirebbe il totalitarismo, mentre quellaempirista favorirebbe il rafforzarsi delle democra-zie. La nuova tesi è che l’idealismo assoluto e ilpositivismo assoluto si incontrino e producano,nei fatti, effetti simili e negativi sulla democrazia.

Federalismo e pacifismoIl tema che, nel dopoguerra, sembra appassionare dipiù Bobbio è il tema dei federalismo. Bobbio collegaquesto tema al problema della pace (Federalismo epacifismo) ed insiste molto sull'esistenza di unfederalismo passivo (legato all'idea dell'inevitabili-tà del progresso) del secolo scorso e di un federa-lismo attivo (legato all'idea che occorra trasforma-re il movimento federalista in una organizzazioneo, almeno, in un organismo interpartitico).Questo nuovo federalismo, nato in Italia durante laguerra, aveva già prodotto, per mano di confinatiantifascisti, il Manifesto di Ventotene del 1941, unoscritto di Ernesto Rossi (Stati Uniti d'Europa) del1944 e, dello stesso anno, uno scritto di Spinelli eRossi (Problemi della federazione europea).

Bobbio sottolinea (Le due facce del federalismo;Federalismo vecchio e nuovo) che il federalismoitaliano si è proposto come programma di azionepolitica e che tanta è stata la sensazione di differen-za tra il federalismo passato e quello presente che ifederalisti quasi hanno ignorato i precedenti storici.Questi precedenti erano stati, con l'eccezione rile-vante della Federal Union inglese sorta nel 1938(Orientamenti federalistici nei paesi anglosasso-ni), esclusivamente dei movimenti di opinione.Il federalismo italiano nato dalla Resistenza cerca,invece, di trasformare un'idea (quella dellaRiorganizzazione della società europea che erastata elaborata nel 1814 da Saint-Simon e daAugustin Thierry) in un programma di azione poli-tica per costruire l'Europa (Il federalismo el’Europa). A questo concetto di federalismo ester-no Bobbio aggiunge un concetto di federalismointerno come strada per realizzare la democrazia.Egli ricava questo concetto da Cattaneo e lo svilup-pa nello scritto Stati Uniti d’Italia che è l'introdu-zione ad una antologia di scritti politici di Cattaneo.Bobbio sottolinea l'attualità del pensiero diCattaneo che concepisce il federalismo come dis-articolazione dell'unità dello Stato e ricerca di unasuperiore unità tra gli Stati. Cattaneo combatte labattaglia su due fronti: quello della sovranità inter-na (la divisione orizzontale del potere) e quellodella sovranità esterna (la limitazione della potestàdi guerra che è la prerogativa dello Stato sovrano).Bobbio vede in Cattaneo l'esponente liberale chepiù aveva predicato la lotta contro lo Stato bu-rocratico-militare (cioè contro quella concezionedello Stato che, secondo Bobbio, si è poi realizza-ta pienamente con il fascismo) e la lotta a favoredella moltiplicazione dal basso degli organi delpotere attraverso la federazione e, al limite, l'auto-governo (cioè al fatto che si sceglie la classe politi-ca attraverso il voto). Secondo Bobbio, il federali-smo di Cattaneo come principio ideologico rap-presenterebbe la soluzione universale del proble-ma della convivenza civile sia nell'ambito naziona-le che in quello internazionale. Bobbio osserva chealla base di questo federalismo vi è la convinzioneche lo sviluppo della democrazia marcia “nontanto in proporzione all'estendersi meramentequantitativo del suffragio, quanto proporzional-

Page 14: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

14

mente al moltiplicarsi delle istituzioni di autogo-verno”. Il federalismo diventa così “la teorica dellalibertà e della democrazia” (Bobbio 1971, 55).Come tale diventa anche una dottrina sociale dicarattere globale alternativa al liberalismo e alsocialismo. Come dottrina sociale globale, il fede-ralismo diventa una consapevole utopia di ben piùdifficile attuazione di quanto sospettassero moltifederalisti del tempo. È mia opinione che granparte degli scritti successivi di Bobbio siano leggi-bili come un tentativo di verificare la possibilità direalizzare il passaggio della teoria federalista dall'u-topia all'azione politica guidata dalla ragione.Nel tentativo di verificare questa possibilità,Bobbio apre un terzo fronte, accanto al due tradi-zionali del federalismo, e mostra di ritenere cheuna teoria federalista debba disarticolare ben tretipi di potere: il potere (politico ed economico)rivolto verso l'esterno dello Stato, cioè verso ilsistema internazionale e gli altri Stati; il potere(politico ed economico) rivolto verso l'internodello Stato, cioè verso i pubblici di convertiti checostituiscono l'insieme della popolazione di unoStato e le élite che essi esprimono; il potere ideo-logico che giustifica o razionalizza sia il potereesterno che quello interno.Gli scritti sulla pace degli anni Sessanta e Settantarappresentano, indirettamente, l'ammissione delfallimento (che ha origine metodologica) dell'o-biettivo di Bobbio di basare il progetto politicofederalista su un'analisi scientifica della società. Aquesta rinuncia all'obiettivo iniziale Bobbio giungegradatamente ed è mia opinione che questa rinun-cia non fosse inevitabile e che sia attribuibile quasiinteramente all'essere Bobbio rimasto troppo lega-to solo ad un aspetto della rivoluzione culturalenecessaria a combattere il centralismo e lo statali-smo: quella reazione alla grande rivoluzione fran-cese rappresentata dallo scritto sulla riunificazionedell’Europa di Saint-Simon e Thierry. Bobbio, neltrattare il tema del federalismo, non considera l’al-tra grande reazione culturale alla centralizzazioneoperata dalla rivoluzione francese: quella diSavigny, nel 1814, in reazione a Thibaut, sul temadella codificazione delle leggi. Savigny paragona ildiritto al linguaggio, e di fatto stabilisce un colle-gamento alle teorie di Vico, nel mentre che sostie-

ne che l’intervento dei tecnici nella codificazionedel diritto deve essere operato al modo dei gram-matici i quali fissano le regole della lingua non per-ché pretendano di essere loro ad avere inventatoquelle regole, ma in quanto sanno di contribuire aregolare la creazione istintiva e quasi incoscientedi principi giuridici da parte di quella forma di inte-razione che viene detta, al tempo, coscienza popo-lare. L’impostazione di Savigny si basa sul presup-posto che il diritto sia una produzione spontaneadella società attraverso quelle infinite interazioniche avvengono tra individui, gruppi e comunità. Inaltri termini, Savigny sostiene che il diritto preesi-ste allo Stato e ai tentativi di codificazione che, acominciare da Napoleone, caratterizzano l’azionedegli Stati moderni. Concependo il diritto come il risultato di un pattoo di un contratto, Bobbio considera il federalismonei suoi aspetti formali e istituzionali e non perquello che, soprattutto, si è dimostrato di essere:un fatto (o meglio un processo) antropologico. Daciò la sua incapacità di dare spessore alla propriaintuizione del federalismo come dottrina socialeglobale, cioè come teoria politica che si pone allapari con liberalismo e socialismo. Infatti, proprioin quanto teoria globale, il federalismo si presentacompleto solo se riesce a portare su un piano pari-tario sia i rapporti tra istituzioni, tra gruppi e tragruppi e istituzioni nella dimensione verticale dellapolitica (tra governanti e governati di ciascunaunità e dei vari livelli di federazione) e a superarele distinzioni esistenti nella dimensione orizzonta-le della politica (tra spesso contrapposti pubblici diconvertiti a fedi diverse; tra le varie unità federateche, nel mondo sempre più complesso in cui vivia-mo, non possono realisticamente pensare di auto-gestirsi senza che quanto deciso da ciascuna non siripercuota sulle altre e le condizioni).Eppure, questa necessità di allargare la visione delfederalismo oltre i limiti (ancora troppo ristretti) incui lo inserivano Saint-Simon e Thierry, sarebbedovuta discendere dall’intuizione di Bobbio secon-do cui la lotta all’autoritarismo può avvenire soloattraverso la disarticolazione del potere economi-co, di quello politico e di quello ideologico. Questaidea delle tre forme di potere da disarticolare perrealizzare il federalismo (idea che Bobbio afferma

Page 15: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

15

nella seconda metà del XX secolo) era già stataavanzata da Romagnosi nella prima metà del XIX(come consapevolezza maturata per aver vissutodirettamente la reazione agli eccessi statalisti ecentralismi della rivoluzione francese). Tuttavia,Romagnosi, a differenza di Bobbio, aveva intuitoche questa idea presupponeva la filosofia di Vicocome punto di partenza ineludibile. Bobbio, purammettendo la grandezza di Vico, non riuscirà maia utilizzarlo nel proprio sistema filosofico.L’ispiratore principale di Bobbio rimane, infatti,soprattutto Kant ed è da Kant che egli ricava e svi-luppa l’idea che esista uno stretto collegamentotra il problema di un "ordinamento democraticoall'interno del nostro paese" e quello di "un ordi-namento pacifico nel rapporti fra il nostro paese eil resto del mondo" (Bobbio 1979, 7). I due pro-blemi altro non sono che due facce dello stessoproblema: quello della eliminazione, o perlomenodella massima limitazione possibile, della violenzacome mezzo per risolvere i conflitti tra individui etra gruppi, sia all'interno di uno stesso Stato sia neiconfronti fra gli Stati. Questo problema unico è siala prova della centralità, nella produzione scientifi-ca di Bobbio, dei temi della democrazia e del fede-ralismo, sia della centralità della riflessione meto-dologica. Centralità conseguite al fatto che, comeera già stato evidente ai classici della filosofia poli-tica (da Hobbes e Locke in poi), la riflessione sulpotere e sulla società presuppone sempre dellescelte metodologiche implicite e, quindi, contenu-ti specialistici e soluzioni metodologiche chediventano, di fatto, inscindibili.

Politica e culturaBobbio, appena dopo la fine della guerra, nei sem-pre più lunghi periodi che passava a Torino (fino al1948 era ordinario a Padova), anche perché avevacominciato a tenere delle supplenze, contribuì afondare, con altri studiosi, un Centro metodologi-co che ebbe un ruolo cruciale sia nella sua forma-zione come neopositivista che nello sviluppo delneopositivismo in Italia. Facevano parte di questoCentro, tra gli altri, anche Nicola Abbagnano eLudovico Geymonat (che ebbero, insieme aBobbio un ruolo importante nella propagazionedel neopositivismo in Italia).

Questo Centro produsse due importanti operecollettanee costituite da vere e proprie lezioni suargomenti specifici (entrambe le opere sono statepubblicate dall’editore De Silva di Torino):Fondamenti logici della scienza, nel 1947, e Saggidi critica delle scienze, nel 1950. In questo secon-do volume è riscontrabile il saggio di Bobbio piùesplicitamente neopositivista: Scienze del diritto eanalisi del linguaggio.Da quella lezione del 1950 in poi, Bobbio si è sen-tito sufficientemente padrone della nuova meto-dologia e libero di applicarla ai temi che sentivapiù vicini ai propri interessi: la democrazia, la pace,etc. Questi erano anche i temi che lo hanno porta-to a collaborare, a partire proprio dal 1950, con laSocietà Europea di Cultura, portata a Venezia, inquell’anno, da Umberto Campagnolo. La SocietàEuropea di Cultura viene costituita a Ginevra, nelsettembre 1946, da un Comitato di ginevrini emi-nenti che fa riunire prima a Ginevra, poi in altrecittà d'Europa, un numero considerevole di uomi-ni di cultura europei. Dall’intenso lavoro di questi anni (con il Centrometodologico e con la Società Europea) si svilup-pa quel tipo di saggi che costituiscono il volumePolitica e cultura. Il tema centrale di questo volu-me di Bobbio, pubblicato nel 1955 ma costituito da14 articoli pubblicati tra il 1951 e il 1955, è il rap-porto che la cultura instaura con il potere politico.Nella Introduzione a Politica e cultura, Bobbioriconosce che quei saggi forse non sarebbero maistati scritti se non avesse partecipato assiduamen-te alle iniziative della Società europea di cultura dicui era “promotore e organizzatore, l'amicoUmberto Campagnolo” (Bobbio 1980, 10).L'obiettivo della Società era quello di favorire il dia-logo e, come ammetterà lo stesso Campagnolo,nell’Introduzione a Spirito Europeo, un volumecollettaneo del 1950, pubblicato dalle Edizioni diComunità, scopo della società era quello di inda-gare se fosse possibile una pace stabile e sicura trale nazioni europee.La Società Europea di Cultura, nel novembre 1951,aveva discusso ed approvato, a Venezia, due appel-li inviati "agli intellettuali d'Europa e del mondo" e"ai capi di stato, ai presidenti dei parlamenti, aicapi di governo, etc. di tutti gli Stati d'Europa e

Page 16: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

16

d'America". Di questi due appelli, Bobbio riporta,in lingua originale, la parte essenziale nel secondodei saggi (Politica culturale e politica della cultu-ra) del volume Politica e cultura. La tesi centraledi quell'appello è che la guerra non è finita con il1946. Il mondo è, infatti, diviso in due blocchi esono troppi coloro che credono che non vi siaaltro sbocco che il trionfo dell'uno e dell'altroavversario. "E la politica dell'aut aut, del con o con-tro, del si o no" (Bobbio 1980, 33)L'imperativo del sì o no, aggiunge il documento, èconseguenza di uno spirito di guerra al quale l'uo-mo di cultura deve resistere. Sia detto per inciso: èevidente che i due appelli (e tutta l'attività in gene-re della Società Europea di Cultura) rifiutano ladefinizione di pace come non belligeranza che saràpoi adottata da Bobbio.Secondo Bobbio, comunque, l'idea fondamentaledella Società è quella di indagare sui rapporti trapolitica e cultura e cercare di enucleare i criteriattraverso cui la funzione critica dell'intellettuale sipossa meglio esercitare nei confronti del potere. Ilvolume è un tentativo di dare una risposta a questiproblemi.Bobbio incomincia con il sottolineare che l'intel-lettuale deve combattere in difesa della verità edaggiunge che, a suo parere, “Le più comuni offesealla verità consistono nelle falsificazioni di fatti enelle storture di ragionamenti” (Bobbio 1980, 39).Con questa affermazione, a mio avviso, Bobbiopone come momento centrale della riflessionesulla funzione critica dell'intellettuale il momentognoseologico (in cui ci si domanda se i fatti siano,o meno, portatori di verità) e quello logico (in cuici si domanda in che cosa consiste, se esiste, lastortura di un ragionamento).Bobbio ribadisce, più avanti, che l'intellettuale deveproclamare il dovere di intendere gli altri. E con-clude: "Non saprei indicare in questo campo nulladi meglio del libro di Guido Calogero Logo e dialo-go. Il dovere di intendere è ivi difeso come impera-tivo morale, anzi come il presupposto stesso di tuttigli imperativi morali; come l'imperativo, abbiamoritenuto noi stessi di precisare, fondamentale del-l'uomo di cultura, suprema regola della nostra one-stà intellettuale" (Bobbio 1980, 41).Uno spazio notevole è, nel volume, dedicato a

Benedetto Croce, soprattutto in considerazionedell'importante opera da questi svolta durante ilfascismo. Bobbio sottolinea che Croce "combatte-va contro due fronti: oggi diremmo contro l'apoli-ticità della cultura, vale a dire contro la cultura cheè staccata dalla storia in atto per mancanza di rigo-re filosofico, per aridità mentale, o peggio, perdeliberato spirito di evasione; e contro la politicadella cultura, vale a dire contro la cultura trasfor-mata in pubblico servizio" (Bobbio 1980, 111).Notare che la cultura politicizzata e la cultura apo-litica sono i due mali da combattere indicati,appunto, nei due già citati appelli della SocietàEuropea di Cultura.Siamo ancora nel 1953 e l'influenza del clima cul-turale dell'immediato dopoguerra su Bobbio sem-bra avere un forte peso. Bobbio conclude questosaggio su Croce criticando quest'ultimo per avereconfuso, nel dopoguerra, quello che aveva cosìseveramente distinto durante il fascismo: la politi-ca della cultura dalla politica dei politici. Egli rim-provera, in concreto, a Croce di avere confuso illiberalismo con il partito liberale. L'accusa è ribadi-ta in un altro saggio dell'anno successivo ripubbli-cato anche questo in Politica e Cultura.L'accusa più grave nei confronti di Croce è, però,formulata in un saggio del 1955 che quasi chiudel'intero volume. In esso si afferma che Croce ha cer-cato nei teorici tedeschi del totalitarismo, la lezionedella democrazia. Bobbio si dichiara convinto chel'idealismo di Croce predispone un terreno cultu-rale più favorevole alle dittature che alle democra-zie. Questo radicalismo nel valutare Croce è conse-guenza dell'ormai implicita adesione di Bobbio alneopositivismo. Questa adesione, già dichiarata,per la scienza del diritto, nel 1950, diventa esplicitaanche per la Filosofia Politica in un saggio del 1954,dove Bobblo affronta il problema della specificazio-ne del carattere del proprio empirismo. Si tratta diun saggio su Hobbes (Legge naturale e legge civilenella filosofia politica di Hobbes) che rivela l'ade-sione di Bobbio ad una versione molto ristrettadella metodologia neopositivista.In conseguenza di questa adesione, prevale inBobbio una concezione ristretta dell'empirismoche, nel saggio del 1955 su Croce, lo porta ad affer-mare che “la contrapposizione tra liberalismo e

Page 17: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

17

autoritarismo si è venuta chiarendo come una con-trapposizione di mentalità o di atteggiamenti spiri-tuali, l'uno empirico di chi procede a gradi, esami-nando una questione per volta, e non accetta altrocriterio di verità che la verifica sperimentale, l'altrospeculativo di chi crede di essere in possesso, luisolo, della verità una volta per tutte ed è dispostocon ogni mezzo di imporla. E di qua si è fatta la con-vinzione che a formar la mente a un modo liberaledi vedere, di giudicare e di agire, gioverà leggere gliscrittori inglesi più che i tedeschi, gli illuministi piùche i romantici... [il liberalismo] si è sviluppato eanche oggi fiorisce dove più forte è stata la tradi-zione empiristica, mentre nelle patrie che hannonutrito i geni speculativi ha avuto di solito vitagrama e di breve durata” (Bobbio 1980, 267).Questo tema della contrapposizione tra culturademocratica (basata sull'empirismo) e cultura deltotalitarismo (basata sull’idealismo) non eranuovo. Questa connessione dell'empirismo (odello spirito scientifico, o di quella versione parti-colare dell'empirismo che è il pragmatismo) con lademocrazia, è stata per la prima volta sottolineatada John Dewey che, ebbe a dire, nel 1939, che"nonostante il largo uso delle epurazioni, esecu-zioni, campi di concentramento, privazioni di pro-prietà e di mezzi di vita, nessun regime può dura-re a lungo in un paese dove sia già esistito uno spi-rito scientifico, a meno che non sia appoggiato daquelli che si designano come gli elementi idealisti-ci della costituzione umana” (Dewey 1953, 40).Una considerazione abbastanza simile è stata fatta,qualche anno dopo, da Otto Neurath il quale, nelribadire la responsabilità dell’idealismo, avevaaggiunto, rispetto a Dewey, una connotazioneontologica, consistente nell'indicare una drasticadivisione di campo tra l'empirismo e l'avversario, ilnemico da combattere in nome della democrazia:la metafisica in genere e l'idealismo tedesco in par-ticolare. Partendo dal presupposto che la metafisi-ca divide, mentre la scienza unisce, Neurath avevaattribuito, durante la guerra, la responsabilità deimali del secolo interamente alla metafisica e in par-ticolare alla metafisica idealista che avrebbe pro-dotto un clima culturale favorevole al diffondersidi irrazionalìsmo, intolleranza e totalitarismo(Neurath 1945-46, 504-5).

Bertrand Russell, invece, più pragmaticamente, hasostenuto che la responsabilità dei mali del secoloXCX erano da addebitare a quanti avevano presotroppo sul serio le critiche di Hume all’induzione eall’esperienza. Egli ha sostenuto che "il sorgeredell'irrazionalismo nel corso del XIX secolo, e queltanto che ne è passato nel XX, sono una naturaleconseguenza della distruzione dell'empirismoeffettuata da Hume" (Russell 1984, 639). Molti anni dopo, nel 1971, in un articolo che èstato poi ristampato nel volume Conoscenzaoggettiva, Carl Popper ribadisce le posizioni diRussell, sostenendo che esiste uno stretto collega-mento tra democrazia e razionalismo, tra riflessio-ne filosofica sull'origine della conoscenza e politi-ca. Poiché per Popper “l’atteggiamento razionali-stico è caratterizzato dall'importanza che attribui-sce all'argomento e all'esperienza” (Popper 1974,II, 303), si può concludere che quello che Popperchiama atteggiamento razionalistico coincide conquello che altrimenti viene detto empirismo.I cinque filosofi precedenti hanno condiviso cin-que diverse (e per certi aspetti divergenti) conce-zioni dell'empirismo, nessuna delle quali è "pura"(nel senso di priva di debiti nei confronti della tra-dizione filosofica avversa all'empirismo: il raziona-lismo prima e l'idealismo poi). Il debito gnoseolo-gico di Dewey nei confronti di Hegel è ampiamen-te noto; Russell ha preso dal razionalismo cartesia-no il concetto di esperienza come intuizione (cioèl'idea che i concetti possono essere definiti indi-pendentemente dal contesto in cui sono inseriti);il debito di Popper nei confronti dell'idealismo ingenere (e di Kant in particolare) è stato esplicita-mente ammesso; l'influenza di Hegel (e soprattut-to della logica hegeliana) sul marxista economici-sta Neurath è innegabile; come pure l'influenzadella filosofia del diritto di Hegel su Bobbio.Tuttavia, solo Neurath e Bobbio concepiscono illoro empirismo come antitetico all'idealismo. Ed èproprio questo il debito maggiore che essi hannonei confronti dell'idealismo e, in particolare, diHegel: la convinzione che i concetti vadano defini-ti all'interno di contrapposizioni ontologiche, cioèantitetiche nella loro natura. È proprio questodebito a costringerli a considerare come "puro" illoro empirismo e a contrapporlo all'idealismo: la

Page 18: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

18

logica che tende a tradurre ogni differenza in con-trapposizione e che per fare questo li spinge aragionare di concetti puri (cioè definibili indipen-dentemente dal contesto e dalla storia) e non diconcetti empirici (definibili nella storia e nei con-testi ai quali appartengono).Si capisce, così, perché “il volume costituisce ilpunto di arrivo di un dibattito che in Italia avevaavuto al centro Benedetto Croce, per un altroverso era un punto di partenza" (Garin 1986, 119).Questo punto di partenza è chiaramente rappre-sentato dal definitivo approdo di Bobbio al neopo-sitivismo e dal contemporaneo sganciamento dalclima culturale che aveva portato agli incontriorganizzati dalla Società Europea di Cultura.Negli ultimi saggi di Politica e cultura, Bobbioaffronta il problema dei rapporti orizzontali che, asuo dire, trovano soluzione attraverso l'empirismoconcepito come criterio di controllo del potereideologico. Traspare, ovviamente, la convinzioneche esista un solo tipo di empirismo. La tesi cen-trale del volume è quella secondo cui l'empirismosia una scelta culturale capace di rinnovare la cul-tura italiana e di portarla verso la maturazione diuna coscienza critica che renda più forte la demo-crazia. E, dal momento che il federalismo è la teo-rica della libertà e della democrazia, l'empirismoviene presentato anche come il criterio per con-trollare (e disarticolare) il potere ideologico.Inoltre, il rifiuto di specificare le regole metodolo-giche di questo empirismo fa di Politica e culturaun volume che rappresenta e coglie - per dirloparafrasando i due appelli della Società Europea diCultura - il momento in cui l'io degli empiristi ita-liani si accorge di sé nell'urto con il non io rappre-sentato dagli idealisti.In questo momento, per Bobbio e per tanti suoicontemporanei, il laicismo come metodo sembraconsistere di due soli elementi: la buona volontà(cioè una disponibilità al dialogo senza preconcet-ti) e il dubbio, che va esercitato su tutti gli ele-menti del discorso, su tutti i frazionamenti del pro-cesso euristico. Viene spesso dimenticato, invece,il terzo e più importante elemento: il metodo deldialogo, le regole in base alle quali il dubbio deveessere esercitato, le regole con cui si deve cercaredi convincere chi non la pensa come noi o ci si

deve lasciare convincere quando diventa irragione-vole sostenere una qualsiasi opinione contro gliargomenti degli avversari.La scarsa riflessione sul metodo del laicismo è all'o-rigine della debolezza critica sia dell'empirismorealizzatosi nel nostro paese che del laicismo comecultura politica. Mi sembra evidente, infatti, chenon sia molto diffuso in Italia, quello spirito laico,del pragmatismo come metodo, che è congenialealla costruzione della democrazia e della pace. Si èdiffuso, invece, soltanto una forma di secolarizza-zione che viene spesso confusa con il laicismo.Una secolarizzazione che è stata portata dallo svi-luppo del mercato e dal dinamismo dello sviluppocapitalistico. Il processo di laicizzazione che il nostro paese hasubito (ed il termine non è causale) è parziale eidentifica il laicismo con l'essere pragmatici, nelsenso di non legati ad una chiesa o ad una ideolo-gia. Una concezione così ristretta del laicismo ha,probabilmente, avuto una parte non indifferentenella generale caduta dei valori e nell'abbassamen-to della politica a pura lotta per il potere che carat-terizza negativamente la vita politica italiana.Anche per questo, la cultura laica, che è riuscita acostruire un'Italia più libera e più matura, si è sco-perta di avere costruito anche un paese insoffe-rente ai vincoli morali e di responsabilità. Siamostati testimoni di un processo di empirizzazionebasato su un’operazionismo di tipo burocratico oamministrativo (cioè staccato dai valori e, nellostesso tempo, incapace di portare le persone apensare criticamente) ed abbiamo innestato suquesto un processo di laicizzazione che ha segna-to la sconfitta di tutte le tradizioni culturali (com-presa quella empirista) per fondare una culturaconsumistica estranea ad ogni valore morale e cheha sostituito al gusto del dialogo come interazionela pratica di una comunicazione esclusivamenteformale, cioè esclusivamente sintattica.Tre sono, infatti, le dimensioni della comunicazio-ne: la dimensione della sintassi che fa coincidere lacomunicazione con il medium (con l’aspetto for-male della comunicazione, cioè con lo strumento, equindi con la sintassi inscindibile dallo strumento);la dimensione della semantica che fa coincidere lacomunicazione con il messaggio (con la comunica-

Page 19: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

19

zione fatta coincidere con la reificazione dell’espe-rienza passata intesa come significato staccato dal-l’interprete e dal suo progetto o finalità); la dimen-sione della pragmatica che fa coincidere la comuni-cazione con l’interazione (cioè con la comunicazio-ne intesa come esperienza futura, cioè come signi-ficato reso significante dall’interprete e dalle suafinalità, ma anche come significato legato agli effet-ti non desiderati e non programmati).L’empirismo italiano, schiacciato sulla sola dimen-sione sintattica (come è stato sempre tipico delneopositivismo) non è riuscito a evitare che quel-l'empirismo che doveva rafforzare la democrazia siafallito nel suo obiettivo in quanto non ha saputodiventare critico perché ha contribuito a diffondereun tipo di cultura che esalta come supremo valorelo sviluppo tecnico-burocratico della società a dis-capito dello sviluppo creativo (che è una compo-nente essenziale, anche se non l'unica, della espe-rienza che incorpora, con la finalità, anche il pro-prio futuro); l’empirismo formalista (o sintattico)italiano ha realizzato una forma di cultura che hafinito, inevitabilmente, per cedere alla politica, peressere la cultura di una concezione (e di una prati-ca) burocratica della politica. Come questo siapotuto avvenire è un discorso lungo ed in questasede mi limiterò a fornire solo alcuni brevi accenniche riguardano immediatamente la comprensionedella riflessione metodologica di Bobbio.È mia opinione che la grande tradizione culturalelaica sia finita con la fine della tradizione filosoficavichiana, cioè con la fine del riconoscimento del-l'influenza dei fattori etici sulla vita sociale. InItalia, poi, per effetto di due rotture molto drasti-che con la tradizione culturale italiana precedente(la rottura neopositivista degli anni Cinquanta equella del pensiero debole degli anni Settanta)sembra che questa grande tradizione abbia scarsa-mente o per niente attecchito. Ed invece, bastariesumare la cultura politica precedente al fasci-smo per scoprire la grande forza di questa tradi-zione che ha avuto anche grandi interpreti: Tuveri(Tuveri, Bellieni e Lussu 2002), Zanardelli(Gangemi 1994 e Cattaneo, Zanardelli e Ghisleri1999), Lampertico, Luzzatti, Messedaglia eMorpurgo (2002), Colajanni (Ventura, Colajanni,Sturzo, Canèpa e Milazzo 2004) e tanti altri che

hanno continuato, con o senza riferimento esplici-to a Vico, quella tradizione di studi politici cheJohn Pocock, Quentin Skinner e Philippe Pettithanno descritto come neoromanesimo o repubbli-canesimo. Una tradizione che, per essere statasconfitta, non ha potuto contribuire ad evitare chesi affermasse una scarsa qualità della democrazia(come Bobbio stesso sosterrà negli scritti Qualesocialismo? e Il futuro della democrazia). Infatti,questa scarsa qualità della democrazia è stataanche il risultato dell’essere prevalso, in Italia, unempirismo burocratico e neoplatonico.A partire dagli anni Trenta negli U.S.A. e degli anniCinquanta in Italia, si è andato, infatti, affermandoun nuovo paradigma metodologico che dall'eco-nomia si è trasmesso a tutte le scienze sociali. Unparadigma per il quale ha senso solo ciò che è uni-voco e che può essere estratto dal contesto e con-tabilizzato (sia nella quantità che nel valore). Si èfinito per concepire l'uomo solo per quello cheegli può fornire di quantificabile e misurabile sulmercato (la forza lavoro nella produzione e il red-dito nello scambio) e per concepire il mondo incui egli vive solo per ciò che è estraibile (ed appro-priabile) dal contesto, trasferibile sul mercato econtabilizzabile; con l'esclusione, quindi, dall'eco-nomia, di quel beni (come l'aria, l'acqua, il territo-rio antropizzato, l'ambiente umano, etc.) che perloro natura sono sociali in quanto non appropria-bili e non trasferibili attraverso il mercato. Questoha segnato la sconfitta della tradizione culturalelaica ed ha trasformato il laicismo in semplice seco-larizzazione (intesa come estraneità ad ogni valoremorale). Il laicismo è diventato talmente “pragma-tico" (nel senso di estraneo ai valori e privo di cre-denze per cui combattere) da essere diventatosemplicemente mercato. Ed infatti, oggi, la propo-sta più frequente che sento emergere dal giornalie dai partiti laici è la richiesta di "ritornare al mer-cato". Come se questo potesse avere un senso lad-dove per mercato si intende l'economia staccatadall'etica. O meglio, il senso ce lo ha ed è quellodella indifferenza ai valori e dell’impotenza di fron-te ai conflitti di interesse.Questo “ritorno al mercato” implica, infatti, con-senso al tentativo della cultura neopositivista ecomportamentista di costruire un tipo di uomo

Page 20: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

20

che è metà burocrate e metà contabile; checomunque è incapace di decidere, avendo impara-to a delegare, anche nel fare ricerca empirica, que-sta funzione al computer; che è indifferente ai pro-blemi etici o ai vincoli morali; che è incapace discegliere o di responsabilizzarsi. L'affermazionepiù frequente e più orgogliosa che sento ribadiredai ricercatori "empiristi" delle nostre accademie èquella di ribadire ad eventuali critici di loro ricer-che: "non sono io che dico queste cose; le dice ilcomputer". A me questa affermazione sembra,sempre, una follia e l'ammissione evidente del fal-lito obiettivo dell'empirismo (alla Bobbio, allaPreti, alla Sartori, etc.) di costruire una forma men-tis più critica.La grande intuizione di Bobbio, negli anniCinquanta, è stata quella di avere capito che non vipuò essere laicismo senza empirismo e pragmati-smo. Il grande limite di questa intuizione è stato dinon avere capito che l'empirismo più adatto nonera quello comportamentista allora ancora pococonosciuto in Italia, ma quello più vecchio, ancorameno conosciuto e radicalmente diverso di Webere Polanyi (in Europa) o quello pragmatista (prove-niente dagli U.S.A.). Un empirismo, cioè non anti-tetico a tutto l'idealismo perché fa all'idealismo laconcessione di considerare teoria tutta la nostraconoscenza, di sostenere, con Kant, che le nostreteorie sono le nostre invenzioni e che noi cerchia-mo di imporle al mondo.Questo vuol dire che esiste del mondo quello chenoi vi vediamo attraverso le nostre teorie. E se lenostre teorie sono basate su coppie concettualicontrapposte o su realtà univoche perché misura-bili e contabilizzabili, noi non possiamo vederci lademocrazia (e quindi non possiamo contribuire acostruire la democrazia), ma solo conflitti, appro-priazione e sfruttamento dei più deboli. Non sipuò, quindi, costruire la ricerca sulla democrazia (eper la democrazia) al di fuori di una impostazioneepistemologica pragmatista, cioè al di fuori di unaconcezione della comunicazione come interazione.

Bobbio e la metodologia italianaA partire dal 1956, Bobbio affronta, nella disciplinache più gli è congeniale, il problema della specifi-cazione del carattere dei proprio empirismo. A que-

sta riflessione dedicherà otto anni ed i saggi saran-no raccolti nel volume Giusnaturalismo e positivi-smo giuridico. In un saggio del 1957 (La filosofiadel diritto in Italia), Bobbio affronta il problemametodologico della disciplina e si domanda: se essasia scienza e, qualora lo sia, a quale tipo di scienzaappartenga (storica e individualizzante o naturale egeneralizzante). Dopo un lungo periodo in cui si èsostenuto che la scienza giuridica è modellata sullescienze naturali, Bobbio sostiene che questa con-vinzione stia tramontando, anche se, aggiunge,qualche neopositivista ha cercato di rilanciare l'ideache, attraverso l'aumentata consapevolezza lingui-stica, la filosofia del diritto possa pervenire al livel-lo di certezza e di rigore delle scienze naturali. Nellaconvinzione di Bobbio, l'influenza del neopositivi-smo deve portare, invece, a studiare, con l'ausiliodei nuovi metodi logici (ma anche con l'ausiliodella retorica classica), il concreto operare dei giu-dici. Secondo Bobbio bisogna sviluppare il lavorodi Kelsen che ha sostituito all'analisi della singolanorma l'analisi dell'ordinamento giuridico comesistema di regole di condotta. Bisogna, inoltre,avviare studi particolareggiati sulle strutture socialiper ricavarne indicazioni al fine di una legislazionetecnicamente adeguata. Bobbio intende, in partico-lare, studi sullo Stato (formazione ed esercizio delpotere, classe politica e classe dirigente, circolazio-ne delle élites, etc).Questa ultima indicazione mostra perché, nellostesso anno, Bobbio affronta il problema dei rap-porti orizzontali interni alle unità federate e tra idiversi livelli di federazione. La sua convinzioneche questo problema vada affrontato in terminirealisti lo porta alla teoria delle élites formulata daGaetano Mosca e Vilfredo Pareto. A questi dueautori e al loro studio empirico delle élite, Bobbiodedica due articoli: il primo a Pareto, nel 1957 e ilsecondo, due anni dopo, a Mosca.Entrambi i saggi sono pieni di considerazionimetodologiche che completano quelle già presen-ti nei saggi, contemporanei, di Filosofia del Diritto.Bobbio afferma che Mosca e Pareto hanno incomune la convinzione che unico sia il metododella osservazione empirica: quel metodo cheMosca chiama metodo storico (inteso come osser-vazione e raccolta di fatti storici attraverso criteri

Page 21: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

21

analoghi a quelli usati per la osservazione dei fattinelle scienze naturali) e Pareto metodo logicospe-rimentale (la stessa cosa che intende Mosca più l'e-sigenza di una particolare attenzione alla organiz-zazione dei dati attraverso la formalizzazione mate-matica). A questa prima considerazione metodolo-gica, Bobbio aggiunge, a proposito di Pareto: chele scienze tendono a costituire un linguaggio rigo-roso basato su concetti rigorosi, mentre le ideolo-gie non solo non ricercano il rigore ma traggonovantaggio dall'indeterminatezza del linguaggio;che nelle scienze le definizioni dei concetti sonosoltanto etichette con funzione indicativa (cioèdicono quali fatti un concetto racchiude) e valoreconvenzionale (valgono solo in quanto discendo-no da accordo intersoggettivo), mentre nelle ideo-logie le parole possono essere usate solo per illoro significato emotivo. Bobbio conclude, infine,che la lettura di Pareto è di grande aiuto per lo stu-dio delle ideologie e per la comprensione dellafunzione che esse svolgono nella storia e nell'azio-ne politica. Nell'articolo su Mosca, Bobbio inseri-sce, traendola da Duverger, una considerazionemetodologica di derivazione cartesiana: ogni feno-meno è individuale nel complesso delle compo-nenti che lo costituiscono, ma generale per ciascu-na componente che si può ritrovare in altre com-binazioni di altri fatti storici.Più complessa è, invece, la riflessione metodologi-ca condotta negli scritti di Filosofia del Diritto. Nel1958 (Sul formalismo giuridico), Bobbio va oltrela distinzione operata nel 1957 tra scienza giuridi-ca formale in senso stretto (quando si pongonoper oggetto singole norme o fatti) e in senso allar-gato alla Kelsen (quando si ha per oggetto l'interosistema giuridico) ed esprime la convinzione cheun ulteriore allargamento sia necessario: inserirenel proprio oggetto anche l'indagine sui fini socia-li e considerare il giudice come un creatore deldiritto e non come semplice esecutore del dirittoesistente. In un saggio del 1959 (Trends in italianLegal Theory), specifica che la tendenza generale èverso l'allargamento dei mezzi ermeneutici e versoil riconoscimento al giudice e al giurista di unamaggiore libertà dell'interprete e verso la libera-zione dai pregiudizi formalisticiQuesta considerazione, più il metodo che Bobbio

attribuisce a Kelsen (che avrebbe proposto disostituire all'analisi della singola norma l'analisidell'ordinamento giuridico come sistema di regoledi condotta), porterebbe a instaurare una prassi diricerca non lontana da quella consigliata da Quine.Questi ripeteva che prendere in considerazioneuna proposizione come unità significa lanciare unarete troppo sottile: l'unità della significanza empi-rica è l'intera scienza. Ed aggiungeva che qualsiasiaffermazione empirica o qualsiasi concetto empiri-co acquista senso solo in riferimento a tutte leaffermazioni scientifiche. Questo vuol dire cheogni concetto acquista senso solo in riferimentoall'intera teoria con cui il ricercatore descrive ilcontesto che sta indagando.L'affermazione di Quine sarebbe identica a quelladi Bobbio se questi non interpretasse in senso car-tesiano il concetto di sistema giuridico, cioè se nonfosse convinto che ogni fenomeno è individualenel complesso delle componenti che lo costitui-scono, ma generale per ciascuna componente chesi può ritrovare in altre combinazioni di altri fattistorici. Detto in altri termini, Bobbio è convintoche ogni oggetto è l'insieme delle parti che locostituiscono e che queste parti siano univoche insé e possono portare a conclusioni diverse quandocollegate tra loro in modo diverso.Intanto, si stava ripercuotendo in Italia una pole-mica sulla possibilità o meno di considerare comeempirica la teoria delle élites. Va premesso, infat-ti, che nel 1956, viene pubblicato, in U.S.A., ThePower élite di Wright Mills e che, due anni dopo,Dahl sostiene che la teoria delle élite (nelle suevarie versioni) non ha fondamento scientificoperché il concetto di élite non soddisfa i canoni diverificabilità empirica richiesti dalla metodologiacomportamentista. Al Convegno Internazionaledi Scienza Politica tenutosi a Stresa nel 1959,Bobbio presenta una relazione (La teoria dellaclasse politica negli scrittori democratici inItalia) in cui distingue tra la validità scientificadella teoria dell'élite e il suo valore ideologico. Lasua tesi di fondo è uno sviluppo della tesi già for-mulata nell'articolo su Pareto: le scienze si muo-vono adottando un linguaggio rigoroso basato suconcetti rigorosi; le ideologie si muovono utiliz-zando a proprio vantaggio l'indeterminatezza del

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

Page 22: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

22

linguaggio e la sua emotività.Tuttavia, quel convegno evidenzia che questadistinzione non regge, almeno per il caso della teo-ria dell'élite. Molti relatori affermano, con argo-menti difficilmente confutabili, che le élite sfuggo-no al metodo di verifica empirica neopositivista,proprio perché il concetto è ambiguo e carico diconnotazioni emotive. Alla fine di quei due giornidi discussione, Bobbio finisce con il dichiararsimolto perplesso. Egli afferma di essere venuto alconvegno quasi convinto della scientificità dellateoria e di ripartirne con dubbi che mettono incrisi la possibilità di distinguere tra scienza e ideo-logia. Eppure, Bobbio conclude, affermare che lateoria delle élites è scientificamente vera, cioè cor-rispondente ai fatti, è importante perché solo inquesto caso si può dire che essa non è né progres-sista né reazionaria e, quindi, la si può concepirecome compatibile sia con ideologie conservatriciche con ideologie democratiche.La relazione di Bobbio evidenzia, inoltre, che nonè in crisi soltanto una teoria, ma anche l'obiettivodi radicare gli studi empirici della politica nella tra-dizione filosofica italiana. La teoria della classepolitica, ricorda Bobbio, ha avuto in Italia moltafortuna sia come espressione di ideali conservato-ri (come nelle opere di Mosca e Pareto), sia peravere costituito una delle componenti principalidell'ideologia nazionalistica (come in Prezzolini,Papini e Corradini), sia nelle opere di scrittori poli-tici antifascisti (come Piero Gobetti, Guido Dorsoe Filippo Burzio). Da altri interventi al convegno sicapisce che viene messa in discussione anche latradizione italiana di Scienza Politica, con il rischiodi travolgere quel poco di empirismo che si stavacercando di realizzare negli anni Cinquanta. E qui va ricordato che, a parte gli studiosi dellaclasse politica (Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto eRobert Michels), “Mancava in ogni caso – e si sen-tiva in quella temperie culturale – il riferimentoagli antenati, cioè ad altre, riconosciute autoritàculturali” (Morlino 1991, 96). La conclusione,quindi, che il concetto di élite non fosse empirico,avrebbe significato cancellare del tutto quello chesi era realizzato fino a quel momento con l’obietti-vo di rafforzare la democrazia in Italia (dal momen-to che Bobbio era convinto che l’empirismo,

distinto dall’ideologia, fosse uno strumento percostruire più democrazia). Bobbio è troppo sensi-bile al problema e, di conseguenza, affronta la que-stione del fondamento empirico della teoria dellaclasse politica italiana, e quindi il problema del fon-damento empirico dell’analisi della politica inItalia, nella versione proposta negli anniCinquanta, attraverso una riconsiderazione e unareinterpretazione della metodologia empirista diCattaneo e di Pareto (ma nello stesso tempo sirivolge, come vedremo, verso lo studio dellenuove retoriche).Il primo dei lavori dedicati a questo scopo sono gliScritti filosofici di Cattaneo, per i quali scrive unainteressante Introduzione. Prima di analizzarequesta operazione culturale, è bene considerareche Cattaneo è stato considerato tra i padri fonda-tori della Scienza Politica italiana, praticamente,solo da Norberto Bobbio; per molti altri studiosiitaliani di politica, questi padri sono solo Mosca,Pareto e Michels. L’analisi dell’empirismo diCattaneo è, quindi, un contributo che Bobbio dàall’obiettivo del superamento dei ristretti limiti del-l’empirismo degli élitisti italiani. Bobbio vede, in questi scritti filosofici di Cattaneoe, in particolare nelle “Lezioni luganesi", l'aperturadi nuove strade e l'inizio di un profondo rinnova-mento in senso empirista della filosofia italiana.Egli riscontra nelle lezioni - che comprendono cin-que argomenti: la cosmologia, la psicologia, l'ideo-logia, la logica e la morale - un insegnamento anco-ra valido. In particolare, seguendo in questo ungiudizio di Franco Alessio che aveva curato nel1957 la raccolta degli Scritti filosofici, letterari evarii, Bobblo afferma che "per chi voglia risalirealle idee direttrici del pensiero catteneano, la logi-ca è, fra tanti sparsi commenti e scritti occasionali,l'opera più concludente e conclusiva" (Bobbio1971, 158). Inoltre, Bobbio è convinto che la meto-dologia di Cattaneo, letta soprattutto attraverso lasua Logica, esprima una tradizione unitaria del-l'empirismo ottocentesco che va, senza fratture, daRomagnosi e Roberto Ardigò.Pur non condividendo del tutto la valutazionepositiva della Logica di Cattaneo, considero positi-vo quel tentativo di Bobbio di uscire, attraversoCattaneo, dai limiti metodologici dell’empirismo

Page 23: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

23

élitista. Operazione che egli, del resto, non con-clude con l’interpretazione di Cattaneo, ma cheallarga ed estende anche a Pareto dandone unainterpretazione originale e convincente. Bobbio vede, infatti, in Pareto una sorta di conti-nuatore del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill,soprattutto per quella convinzione, ivi espressa aproposito di Comte, secondo cui ogni logica cheha la pretesa di essere concludente e decisivatende a costruire una forma di tirannide peggioredi quelle conosciute nel passato (Mill 1981, 37).Bobbio accoglie questa convinzione di Mill in con-clusione di un saggio del 1961 (Pareto e la teoriadell'argomentazione), nel quale opera una compa-razione tra il Trattato di sociologia di Pareto e ilTrattato dell’argomentazione di Perelman eOlbrechtsTyteca e distingue tra il discorso scientifi-co, che da premesse identiche trae conclusioni iden-tiche, e il discorso persuasivo, che da premesse iden-tiche perviene a conclusioni diverse, o viceversa.Leggendo questo saggio, insieme a un altro saggiodel 1957 su Pareto, si evince che Bobbio considerapossibili tre tipi di argomentazione: quella scientifi-ca in senso stretto basata su un linguaggio rigorosoche analizza definizioni che sono soltanto etichettee che hanno funzione indicativa e valore convenzio-nale; quella ideologica in cui non solo non si ricercail rigore linguistico, ma si cerca di trarre il massimovantaggio dall'indeterminatezza del linguaggio;quella scientifica in senso lato in cui il linguaggio e iconcetti non sono concepiti come capaci di far per-venire ad un'unica verità, ma sono consideraticomunque capaci di ridurre il numero delle possi-bili ipotesi arbitrarie. E conclude che solo quest'ulti-ma forma di argomentazione "accorda un senso allalibertà umana, condizione d'esercizio di una sceltaragionevole" (Bobbio 1969, 145). È, come si puòverificare, la conclusione cui inevitabilmente devearrivare chiunque, come J.S. Mill ed evidentementelo stesso Bobbio, pone come valori fondamentaliquelli della libertà e della democrazia.Affinché non si ricada nel dogmatismo del primotipo di argomentazione, Bobbio si convince che siapossibile ricorrere anche all'uso di concetti noninteramente operativizzabili e all'uso di linguagginon interamente formalizzati (al limite alla retoricache va rivalutata). Affinché non si ricada nell'arbi-

trarietà del secondo tipo di argomentazione, egliritiene che sia necessario evitare di utilizzare con-cetti già di per sé emotivi e le associazioni emotivedi concetti. In questo modo, tra l’altro, egli ottienedi allargare l'empirismo in modo da considerareempirica la teoria delle élites, anche se, come sivedrà più avanti, questa conclusione lo porta aidentificare la pace con la non belligeranza.Il concetto di élite, conclude Bobbio, non è emoti-vo (e questa era anche l'opinione di Pareto) men-tre i concetti di pace con giustizia, di federalismocome teorica della libertà, etc. sono emotivi, per-ché utopie. Svanisce così la possibilità del federali-smo come scienza che pone la democrazia parteci-pativa come proprio obiettivo politico specifico.Sempre nel 1961, Bobbio pubblica un saggio (Sulpositivismo giuridico) in cui manifesta la convin-zione che sia irrealistica, almeno nello studio enella pratica del diritto, la versione ristretta delneopositivismo (versione in base alla quale il giu-dice sarebbe un automa e la decisione giuridicaprocederebbe come un sillogismo) e ribadisceancora la necessità di allargare la concezione delproprio empirismo. Si domanda, poi, se questaversione allargata sia ancora da considerare neo-positivista. La sua risposta è positiva perché, osser-va, la nuova immagine proposta sta nascendo daun ripensamento interno alla corrente neopositivi-sta. Propone, quindi, di distinguere tra il neoposi-tivismo come ideologia, il neopositivismo cometeoria e il neopositivismo come metodo.Su quest'ultimo punto ritorna sistematicamente indue saggi pubblicati nel 1962: Giusnaturalismo epositivismo giuridico; Ancora sul positivismo giu-ridico. Dopo avere osservato che non si può accet-tare il positivismo giuridico come ideologia (cioècome criterio per distinguere il bene dal male) eche si può considerare più realista delle propostealternative il positivismo giuridico come teoria (ildiritto collegato allo Stato e la teoria statalista deldiritto), conclude dicendo che non si può nonaccettare il positivismo giuridico come metodoempirico per studiare il diritto. Afferma inoltre cheanche il giusnaturalismo si può considerare comeideologia (dove contrasta il positivismo in modoantitetico), come teoria (dove contrasta il positivi-smo ma non in modo antitetico: altre alternative

Page 24: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

24

sono possibili) e come metodo (dove sono com-plementari: il primo studia il diritto come è, ilsecondo come dovrebbe essere).In un saggio dello stesso anno (Nature et fonctionde la philosophie du droit), Bobbio ritorna sullaesigenza di porre a centro del proprio normativi-smo non le singole norme, ma l'intero ordinamen-to giuridico e ribadisce la necessità di analizzarel'opera del giudice attraverso i rigorosi strumentiforniti dalla logica simbolica e quelli forniti dallanuova retorica (di Perelman e Olbrechts-Tyteca).Tuttavia, a mio avviso, la conclusione più impor-tante della metodologia di Bobbio è contenuta inun saggio del 1963 il cui titolo è estremamenteindicativo: La scienza politica italiana.Insegnamento e autonomia interdisciplinare. Visi legge che, oltre allo storicismo, vi è stato in Italiaun secondo avversario delle nascenti scienze socia-li: il formalismo giuridico. E a conferma del fattoche Bobbio non intende solo il formalismo giuridi-co ottocentesco, cita tra i formalisti a cui si riferisceanche Kelsen, la cui vicinanza al Circolo di Viennaè ampiamente nota. Il formalismo giuridico, egliaggiunge, ha impedito lo sviluppo delle scienzesociali perché ha esaltato la purezza della formagiuridica. Purezza alla quale le scienze sociali nonpossono aspirare, malgrado l'opinione contrarladei neopositivisti che volevano realizzare per que-ste scienze la purezza della forma logica. Vi silegge, ancora, che la metodologia della ricerca ècondizionata sia dai fini che ogni scienza si propo-ne che dall'oggetto su cui si indaga: tra l'oggettogiuridico accessibile attraverso uno studio norma-tivo e quello storico accessibile attraverso uno stu-dio individualizzante, esiste una terra di nessunoche costituisce il terreno di sviluppo delle scienzesociali. Queste affermazioni permetteranno aBobbio di proporre soluzioni più o meno ristrettea seconda dell'oggetto di indagine: quello che vabene per la scienza giuridica non va bene per lascienza politica o per le scienze sociali in genere.Ed invece, anche i modelli matematici sono, per laricerca empirica, l’analogo delle pratiche del forma-lismo giuridico in quanto tendano ad esaltare lapurezza della forma logica convenzionalista alla con-cretezza delle forme interattive di argomentazione. Bobbio e la Scienza Politica italiana

Che Bobbio abbia avuto una lenta e graduale evo-luzione, da una precedente posizione metodologi-ca più vicina al neopositivismo a una successivaposizione più lontana dal neopositivismo, è cosaevidente e risaputa. Ma non tutti la intendono allostesso modo. Nicola Matteucci, per esempio, hadescritto questa evoluzione come passaggio dallafrequentazione di Kelsen alla frequentazione diWeber: "Per concludere questo paragrafo possia-mo dire che - emblematicamente - questo passag-gio dalla dicotomia alla tipologia mostra lo spo-starsi degli interessi del Bobbio dalla teoria gene-rale del diritto alla teoria (o alla filosofia) della poli-tica; o, se si vuole, il passaggio dalla consuetudinecon Hans Kelsen alla lettura o rilettura di MaxWeber" (Matteucci 1986, 152).La prima volta che ho commentato questa primaaffermazione di Matteucci (Gangemi 1991) neavevo colto solo una parte, quella che indicava unmutamento nel modo di definire e utilizzare i con-cetti. In effetti, nell’affermazione di Matteucci viera qualcosa in più. Qualcosa che mi fu chiaro soloanni dopo, quando è stato pubblicato un volumedi scritti di Bobbio a cura di Michelangelo Bovero(La teoria generale della politica del 1999).Matteucci aveva sostenuto, infatti, nel 1986 cheBobbio, nel mentre che passava dalla frequenta-zione di Kelsen a quella di Weber, contempora-neamente si spostava dalla Filosofia del Diritto allaScienza Politica. Secondo Bovero, il mutamentodescritto da Matteucci può essere presentatocome passaggio dalla teoria generale del diritto allateoria generale della politica. Questo, a mio avviso,non è il miglior modo di descrivere l’evoluzionedel pensiero di Bobbio, anche perché persino ilpassaggio da Kelsen a Weber è la descrizione solodi un pezzo dell’intero percorso di Bobbio. Ma procediamo con ordine: il passaggio dallaFilosofia del Diritto alla Scienza Politica, dalla teo-ria generale del diritto alla teoria generale dellapolitica. Negli scritti autobiografici posti nel volu-metto De senectute (Bobbio 1996), si legge:“L’unico cambiamento in tutti quegli anni fu nel1972 il passaggio dall’insegnamento della filosofiadel diritto nella Facoltà di Giurisprudenza a quellodella filosofia della politica nella facoltà di ScienzePolitiche, allora istituita. Il passaggio dall’uno all’al-

Page 25: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

25

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

tro insegnamento fu preparato e facilitato dall’avertenuto per una decina d’anni un corso di scienzapolitica” (Bobbio 1996, 169). Bobbio filosofo, inaltri termini, passa dalla Filosofia del Diritto allaFilosofia Politica perché, essendo filosofo empiri-sta, ha insegnato Scienza Politica, che è disciplinaempirica. Ma questo passaggio, chiarisce più avan-ti, non ha implicato alcun mutamento sostanzialenel modo di analizzare la società.“Credo di non peccare di presunzione se dico chel’aver coltivato studi giuridici e politici mi ha con-sentito di guardare ai mille complicati problemidell’umana convivenza da due punti di vista che siintegrano a vicenda... I due punti di vista sono, daun lato, quello delle regole o delle norme, come igiuristi preferiscono dire, la cui osservanza ènecessaria perché una società sia ben ordinata, e,dall’altro, quello dei poteri altrettanto necessariperché le regole o norme siano imposte e, unavolta imposte, osservate. La filosofia del diritto sioccupa delle prime, la filosofia politica delle secon-de. Diritto e potere sono due facce della stessamedaglia” (Bobbio 1996, 170). Dopo di che, pro-seguendo, Bobbio parla di Kelsen che si è interes-sato al tema del diritto e di Weber che si è interes-sato al tema del potere.Quindi, non vi è stato alcun passaggio da Kelsen aWeber perché Bobbio li ha considerati comple-mentari (anche se lo ha fatto da un certo punto inpoi: da quando la sua adesione al neopositivismosi è fatta meno rigida). E non vi è stato nemmenoun passaggio dalla Filosofia del Diritto (cioè dallateoria generale del diritto) alla Filosofia Politica oScienza Politica (cioè alla teoria generale della poli-tica), ma una costante compenetrazione tra le dueteorie generali. Lo mostra l’uso frequente, da partedi Bobbio, dei termini Diritto e Potere per intitola-re saggi o volumi sull’argomento. Un saggio, inse-rito nel De senectute, per esempio, porta proprioquesto titolo e comincia con il considerare che siaPlatone che Cicerone hanno dedicato opere allostudio delle leggi o norme insieme a opere allostudio delle forme di governo e del potere. E nonvi è stato, infine, nemmeno un passaggio dall’usodelle dicotomie antitetiche care a Kelsen, all’usodelle tipologie care a Weber. Infatti, anche dicoto-mie e tipologie possono essere usate insieme pro-

ficuamente, e Bobbio lo ha fatto spesso e persinoin uno dei suoi ultimi saggi, nel volumetto suDestra e Sinistra. Ragioni e significati di unadistinzione politica.Se cambiamento vi è stato, in Bobbio, questo vacercato nel volume Diritto e Potere. Saggi suKelsen. In questa raccolta di saggi, pubblicata nel1992, dopo avere descritto, nella Prefazione, i suoiprimi studi come antikelseniani e antinormativistie avere attribuito al generale mutamento dellasocietà (tra il 1934 e il 1946) “il proprio kelseni-smo, per cui sono stato considerato spesso unodei maggiori, se non il maggiore, responsabiledella ‘kelsenite’ italiana” (Bobbio 1992, 5), Bobbiodescrive il proprio passaggio da Kelsen ad altreinfluenze metodologiche che sono, nell’ordine,Weber e Perelman. Solo che, mentre il saggio suKelsen e Weber confronta temi che egli riesce apresentare come compatibili tra loro, quandopassa a confrontare Perelman e Kelsen l’obiettivodi dimostrare che essi sono abbastanza compatibi-li non gli riesce convincente. Nel paragonare, infat-ti, questi ultimi due studiosi, Bobbio deve spinger-si ad affrontare il tema del rapporto tra giuspositi-vismo e giusnaturalismo. Il kelsenismo di Bobbio,infatti, si era spinto fino a negare il valore del dirit-to di natura e lo aveva fatto con un saggio cheaveva presentato, nel 1957, a Parigi, a un convegnodell’Institut international de philosophie politique:Quelques arguments contre le droit naturel(Bobbio 1997, 142).Nel presentare i rapporti tra Perelman e Kelsen,Bobbio comincia dal 1957, che è lo stesso anno nelquale Perelman e Kelsen si sono conosciuti a unColloquio sul diritto naturale. Dopo quell’incon-tro, era stato Perelman a invitare Kelsen, l’annoseguente, a Lovanio, per un confronto sullo stessotema. A quel tempo, infatti, era Perelman che siinteressava di Kelsen e della sua teoria pura deldiritto i cui limiti egli faceva ”coincidere coi limitidel positivismo giuridico” (Bobbio 1992, 180).Dall’altra parte, invece, non sembrava che Kelsen siinteressasse al lavoro di Perelman. Solo dopo lamorte di Kelsen si ebbe, “con una certa sorpresa laprova di un’attenta lettura, se pure quasi sempre inchiave critica, della Théorie de l’argumentation.Kelsen dedicò a questo suo ultimo lavoro, com’è

Page 26: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

26

n.8 / 2004

noto, gli ultimi anni della vita, aggiornando conslancio giovanile le sue conoscenze specie neicampi della logica generale e della logica giuridica,com’è dimostrato dalle numerose e varie opere cheegli, generalmente così parco nei riferimenti biblio-grafici, cita nelle note. Di Perelman, oltre il Traité,cita anche The idea of Justice and the Problem ofArgument (1963) et Logique formelle, logique juri-dique (1960)” (Bobbio 1992, 1801). Il dissenso tra idue, ma anche il punto di superamento del positi-vismo, se avesse ragione Perelman, sarebbe da indi-viduare, dunque, in quella che lo stesso Perelmanchiama la “regola di giustizia”.Afferma Bobbio, a questo proposito: “Se Perelmanavesse ragione, cioè se fosse possibile riconoscerenella cosiddetta regola di giustizia una norma dicondotta ricavata esclusivamente attraverso un’a-nalisi empiricorazionale, ‘scientifica’ nel senso kel-seniano del termine, il posto della ragione nell’eti-ca, se pure un posto limitato a un’enunciazionepriva di contenuto concreto, sarebbe assicurato. Sipotrebbe sostenere che, partendo da una serie didati empiricamente e storicamente accertabili,relativi alle diverse formule di giustizia, applicabilie di fatto applicate in diversi contesti sociali esecondo le circostanze, e scoprendo il loro ele-mento comune, si ottiene una regola di condottavalida in tutti i contesti e in tutte le circostanze”(Bobbio 1992, 182). La regola di giustizia sarebbequella regola in base alla quale gli esseri di unamedesima categoria essenziale devono essere trat-tati allo stesso modo. Questa regola non avrebbeun contenuto concreto perché molti sono i modidi costruire la categoria comune e tante sono lepossibili formulazioni particolari della regola: a cia-scuno secondo il merito; a ciascuno secondo illavoro; a ciascuno secondo il bisogno; a ciascunosecondo il rango; etc.Nel criticare la regola di giustizia di Perelman,Kelsen “sostiene che il trattamento eguale deglieguali e ineguale degli ineguali è un’esigenza nondella giustizia ma della logica” (Bobbio 1992, 182).Questa critica acquista un senso se si considerache Kelsen è un dualista, mentre Perelman è undeciso critico del dualismo. “Per un dualista, ildiritto o è ragione o è volontà: per la teoria deldiritto naturale è ragione, per un positivista è

volontà. Il principio cui s’ispira la teoria kelsenianadel diritto che si presenta come la forma estremadel positivismo giuridico è la massima hobbesiana:‘Auctoritas non veritas facit legem’. La teoria puradel diritto, in quanto dottrina del positivismo giu-ridico, è fondata su una concezione volontaristicadel diritto” (Bobbio 1992, 184). Kelsen, quindi, puressendo vicino a Perelman su alcuni aspetti, se nedifferenzia fortemente nel momento in cui conce-pisce il diritto come espressione di volontà e nondi ragione. Perelman, invece, non si sente altret-tanto lontano da Kelsen perché anche egli si senteestraneo ai giusnaturalisti per le cui posizioni nonha mai nutrito grande interesse (quando hannoconsiderato il diritto naturale come un dato peren-ne e immutabile). Infatti, “Perelman propone diparlare di ‘diritto naturale positivo’ per designarequesta sua posizione secondo cui principi noncontenuti nell’insieme delle norme giuridiche diun ordinamento positivo vengono invocati e appli-cati per integrare, correggere, colmare, le regoleautoritariamente stabilite (sia questa autorità dellegislatore che della consuetudine)” (Bobbio 1992,191). In altri termini, il diritto naturale positivo èespressione, insieme, di volontà e ragione ed èvolontà perché può essere invocata da chi parla innome delle due autorità possibili (tradizione esovrano) ed è ragione naturale perché può pro-durre effetti non prevedibili e non desiderati nellainfinita molteplicità di azioni e reazioni che con-corrono a determinare la norma. Questo vuol direche Perelman, introducendo il concetto di dirittonaturale positivo sta concretamente parlando diuna forma di regolazione, quella logico-giuridica. Bobbio si ferma di fronte al concetto di diritto posi-tivo naturale, afferma di non condividerlo e, natu-ralmente, non lo utilizza. Tuttavia, è importante cheegli abbia indicato la strada per trovarlo, anche pre-sentando al pubblico italiano gli scritti di Perelmane la sua proposta di superamento di Kelsen. L’ultimo scritto di Bobbio su Perelman (Ancorasulle norme primarie e norme secondarie), nelquale si affronta ancora il tema della regola di giu-stizia, viene pubblicato nel 1968 (e ripubblicato nel1970, insieme agli scritti di altri studiosi in un volu-me dal titolo La regle du droit). Questa fine del-l’interesse per Perelman (unita alla morte prema-

Page 27: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

27

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

tura di Bruno Leoni) interrompe, a mio avviso,quel graduale processo di rinnovamento dellaScienza Politica italiana che si stava operando attra-verso la progressiva convergenza verso alcuni con-cetti di regolazione (cioè verso l’idea di una ragio-ne naturale e interattiva come base e condizionedel maturare del diritto e della logica). Anche in conseguenza dell’interruzione di questopercorso, si trova favorito il percorso, ben diverso,che porta a proporre e utilizzare la volontà artificia-le come metodo di costruzione dei concetti scienti-fici. Questo percorso alternativo comincia ad affer-marsi nella Scienza Politica Italiana con i saggi meto-dologici di Giovanni Sartori: i due principali saggisulla comparazione (Sartori 1970 e 1971), doveviene introdotto il concetto di scala di astrazione, eil saggio sulle dieci regole logiche per la costruzio-ne di buoni concetti empirici (Sartori 1984). Anche Sartori, come Bobbio, era presente a Stresa,nel 1959, e, in quella occasione, aveva reagito agliattacchi dei neopositivisti U.S.A. difendendo il con-cetto di élite e sostenendo che pretendere di usaredefinizioni così rigide per i concetti empirici signifi-cava trasformare la scienza in una caserma. Nel1984, invece, stabilisce, a sua volta, regole altrettan-to rigide e, per di più, nega l’esistenza dell’incom-mensurabilità, cioè la esclude come se fosse unfalso problema o, perlomeno, la considera un pro-blema risolvibile attraverso il ricorso alle sue dieciregole logiche per la costruzione di buoni concetti.In questo modo, egli rilancia l’idea della superiori-tà della conoscenza scientifica sulle altre forme diconoscenza, ribaltando in questo modo l’avverti-mento dato da Richard Rorty che affermava che,essendo posti nella situazione di dover scegliere trademocrazia (intesa come ricerca del consenso) efilosofia (intesa come ricerca di una verità con pre-tesa di univocità ed esaustività), occorra semprepreferire la democrazia alla filosofia.In altri termini, come ha giustamente sottolineatoAlessandro Pizzorno in un contraddittorio conSartori, al convegno SISP di Napoli del 2000, glistudiosi italiani di Scienza Politica hanno privile-giato, con la metodologia di Sartori, l’obiettivo dirafforzare lo status scientifico della disciplina, indi-pendentemente dagli avvertimenti che proveniva-no, da oltre un secolo, sulla incompatibilità tra

concetti con pretese di univocità e validità e i valo-ri della libertà e della democrazia (cfr. Gangemi1994; 1999, cap. IV).Così come Matteucci e Bovero, pur percependo ilmutamento intervenuto in Bobbio, ne hanno coltosolo parzialmente la rilevanza (anche perché que-sto mutamento si è arrestato prima di quel radica-le mutamento di paradigma che l’andare in quelladirezione avrebbe implicato), anche altri studiosidi Scienza Politica hanno percepito solo in parte ledivergenti direzioni caratterizzanti la riflessione deitre padri rifondatori della Scienza Politica italiana(Bobbio, Leoni e Sartori). Alcuni le hanno del tuttoignorate; altri le hanno messe in secondo pianorispetto a una divergenza che appariva, ma nonera, più rilevante. A questo secondo gruppo appar-tiene Leonardo Morlino che scrive: “I tre studiosiseguono percorsi intellettuali autonomi, e Sartoriè l’unico che farà proprio tra la fine degli anniCinquanta e l’inizio del decennio successivo il‘grande salto’ nella ricerca empirica” (Morlino1989, 24). A parte il fatto che manchi qualsiasi ana-lisi di quali siano i percorsi autonomi, dei tre, l’af-fermazione che sono uno di essi abbia fatto ricercaemprica è accettabile se, e solo se, si accetta unadefinizione molto ristretta di empirismo. Se siadotta una visione più allargata di empirismo,quale era, a mio avviso, quella di Bobbio, quella diMorlino non è un’affermazione condivisibile.Bobbio, infatti, ha una visione dell’empirismo chepuò essere assimilata a quella che, polemicamentenei confronti dei suoi ascoltatori italiani, Klaus vonBeyme, al tempo Presidente dell’IPSA(International Political Science Association), nel1985, ha enunciato a un convegno organizzato aMilano dalla Fondazione Feltrinelli. Beyme ha criti-cato fortemente le retoriche giustificative delmodo in cui era stata ricostruita la Scienza Politicaitaliana: l’abbandono della tradizione di studi poli-tici italiani e l’adozione delle metodologie neoposi-tiviste provenienti dagli U.S.A. sono stati da luiattribuiti alla necessità di “adattare alla nuova realtàdella democrazia occidentale le loro vecchie tradi-zioni di pensiero politico” e, per quanto riguarda laScienza Politica, questo adattamento è da intende-re come accettazione “dell’egemonia intellettualedi una potenza vincitrice” (Beyme 1985, 1). Dopo

Page 28: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

28

di che Beyme ha suggerito che i vari “Romagnosi,Gioberti, Mazzini, Cattaneo e tanti altri“ esprimeva-no un tipo di pensiero che è “stato dominato dalleconcrete esperienze italiane” (Beyme 1985, 1) eche, in quanto tale, era da considerare come unrisultato di analisi equivalenti, per valore, a quelleempiriche, indipendentemente dal fatto che fosseottenuto con altri metodi rispetto a quelli neoposi-tivisti. L’empirismo, suggeriva von Beyme, non èsoltanto la somma delle ricerche empiriche (insenso neopositivista) che vengono effettuate, maanche la valutazione delle riflessioni che si sonoespresse nel tempo da parte di quegli studiosi chepiù hanno ricevuto consenso.Il passo verso l’empirismo che alcuni studiosi ita-liani di Scienza Politica rimproverano a Bobbio dinon aver fatto, egli poteva anche non farlo perchéne aveva fatto un altro, verso un empirismo piùallargato in cui lo studio degli studiosi del passatoera un modo e un mezzo per conoscere la realtàconcreta italiana, attraverso i suoi maggiori inter-preti contemporanei. Questo invito a questa con-cezione dell’empirismo allargata era ribadito nel-l’invito, che costantemente proveniva da Bobbio,di leggere e rileggere i classici; non solo quelli delproprio Paese, ma anche costoro. Il suo ineditodegli anni Settanta, di cui parlerò immediatamen-te, è appunto una analisi dell’opera dei più impor-tanti studiosi italiani della Filosofia del Diritto, dicoloro che, per la grandezza della loro opera,meglio hanno saputo interpretare la realtà italiananel suo sviluppo e nelle sue crisi.

La Filosofia del Diritto in ItaliaNel 1942, Norberto Bobbio aveva pubblicato, indue parti, La filosofia del diritto in Italia nellaseconda metà del secolo XIX e, oltre trenta annidopo, scriveva un saggio, rimasto inedito, suFilosofia del diritto e scienza del diritto in Italianell’ultimo cinquantennio. I due scritti avrebberodovuto costituire un unico volume sulla Filosofiadel Diritto dall’Unità alla fine degli anniSessanta; tuttavia, poi, questo volume non è statopiù realizzato. Infatti, come mi dice MarioQuaranta, che mi ha messo a disposizione l’inedi-to di Bobbio e che, nella seconda metà degli anniSettanta, aveva tentato di pubblicare in volume le

due opere, la casa editrice contattata non fu dispo-nibile. Negli scritti in questione, Bobbio comincia con l’af-fermare che la Filosofia del Diritto, dopo l’Unitàd’Italia, era combattuta tra due correnti: quellaidealista (in cui l’idealismo era più che altro unatteggiamento morale) e quella materialista (maerano pochi, agli inizi, a seguire questa secondaimpostazione). Accanto a queste correnti, si pre-sentavano altre scuole specificamente italiane,come la rosminiana e la vichiana. Entrambe porta-vano in primo piano il concetto di diritto naturale.Questo concetto veniva considerato non come una priori rispetto alla natura umana o alla sua storia,ma come un a posteriori, un obiettivo verso cui siavvicinavano quelle nazioni che non fossero in fasedi arretramento (o seconda barbarie, nella termi-nologia di Vico). In molti, era presente la conce-zione giobertiana di Vico, quella elaborata ne Il pri-mato, che si serviva di Vico per affermare l’esigen-za di una filosofia interamente italiana in quantointeramente basata sulla propria tradizione cultu-rale e filosofica.Queste correnti furono, secondo Bobbio, sbara-gliate e superate dal materialismo socialista e dalpositivismo evoluzionista. All’interno del positivi-smo, tuttavia, Roberto Ardirò rese popolare un’i-dea di diritto naturale inteso in senso evoluzioni-sta. Inoltre, complessivamente, la Filosofia delDiritto fu, per tutto il secondo Ottocento, moltodebole, non solo sul piano scientifico, ma anchesul piano accademico. Nel 1875, il ministro Borghi abolì l’obbligatorietà del-l’insegnamento della Filosofia del Diritto e, anche seil provvedimento fu abrogato l’anno dopo, si ritentò,senza successo, sia nel 1890 che nel 1902, di rende-re la materia opzionale nelle Facoltà diGiurisprudenza. Qualche anno dopo, tuttavia, laFilosofia del Diritto divenne una disciplina centrale(e lo rimase per almeno sessanta anni) in conse-guenza delle tre prime opere di Giorgio DelVecchio: I presupposti filosofici della nozione deldiritto (1905), Il concetto del diritto (1906) e Il con-cetto della natura e il principio del diritto (1908). Solo che, con queste tre opere, siamo già entratinel nuovo secolo e, quindi, nel secondo saggio diBobbio sull’argomento (l’inedito che è, anche, la

Page 29: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

29

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

parte più matura e interessante dell’intero lavoro).In questa ultima parte, Bobbio esordisce ricono-scendo il grande ruolo che Giorgio Del Vecchio haassunto nel generale orientamento antipositivistadell’inizio del secolo XX. Lo stesso Del Vecchio hachiamato idealismo critico la propria filosofia. Edinfatti, era critico soprattutto nei confronti dell’i-dealismo di Croce e Gentile, come si vide nel 1925,quando la Rivista Internazionale di Filosofia delDiritto, da lui fondata nel 1921, dedicò un interonumero a Vico nel secondo centenario della pub-blicazione della prima edizione della ScienzaNuova. Consapevole del fatto che Croce avevaconsiderato La Scienza Nuova come espressionecerta di quella “epistemologia della superbia” cheCroce attribuiva alla grande filosofia, Del Vecchioaveva ospitato sulla rivista soprattutto saggi sulleopere minori di Vico, cioè saggi espressione diquella che sempre Croce aveva chiamato “episte-mologia dell’umiltà” (Croce 1980, 27) e qualchesaggio che inquadrava Vico in riferimento ad altriautori o nel contesto italiano del tempo e succes-sivo. Croce aveva immediatamente recensito l’inte-ro volume stroncando praticamente tutti i saggi,con l’esclusione di quelli di Giuseppe Capograssi,Gioele Solari e Fulvio Maroi, per poi concludere: “imigliori scritti della raccolta sono quelli che tratta-no punti particolari. E, in verità, la trattazione deipunti particolari delle opere dei filosofi, non soloarricchisce la conoscenza di esse, ma conduce allaloro idea centrale o motivo fondamentale che sidica, meglio assai che le esposizioni generiche incui quelle opere sono impoverite o rese scheletri-che. Per questo io, nel mio libro di quindici anni fasulla filosofia di Vico, mi sforzai di lumeggiare tuttele particolari teorie e le particolari ricostruzionistoriche del Vico, unico modo di intendere e acco-gliere in noi, e serbare in noi efficace, lo spiritodella Scienza nuova” (Croce 1925, 365-66). In altritermini, Croce nel recensire l’opera ha inteso riba-dire che le opere minori sono importanti per capi-re l’opera maggiore e, quindi, l’epistemologia dellasuperbia che viene espressa nell’opera maggiore.La contrapposizione, quindi, tra la rivista diGiorgio Del Vecchio e Benedetto Croce è, ancora,nel 1925, contrapposizione tra coloro che sosten-gono una identificazione della grande filosofia con

l’epistemologia della superbia (Croce) e coloroche concepiscono la grande filosofia anche comeespressione dell’epistemologia dell’umiltà(Giorgio Del Vecchio). Più tardi, la critica dell’epi-stemologia della superbia diventa critica politicaalla filosofia idealista che ha preparato l’afferma-zione del fascismo. Infatti, soprattutto conCapograssi, dall’iniziale, ed interna al fascismo, cri-tica all’epistemologia della superbia fine a se stes-sa, cioè dalla critica di Giorgio Del Vecchio all’i-dealismo di Croce e Gentile in quanto filosofi di unparticolare tipo di idealismo, si è andati gradata-mente passando alla critica dell’epistemologiadella superbia come filosofia che aveva preparatole condizioni per l’affermazione del fascismo,quindi alla critica di Croce e Gentile come respon-sabili della crisi della democrazia e dell’avvento delfascismo. Bobbio ne è consapevole, anche se glis-sa sul problema. Nello scritto inedito sulla filosofiadel diritto in Italia, infatti, Bobbio riferisce una cri-tica di Capograssi agli idealisti (critica contenutanello scritto Il problema della scienza del dirittodel 1937), anche se la storpia un poco. Infatti,afferma: “Capograssi [andava] opponendo al‘metodo della superbia’ degli idealisti un atteggia-mento che avrebbe potuto chiamarsi ‘metododella modestia’” (Bobbio inedito, 14). Dopo di cheaggiunge che né il metodo della superbia degliidealisti, né quello della modestia di Capograssi“fecero una vera e propria opera di filosofia dellascienza sul tipo di quella che si andava negli stessianni pazientemente elaborando in quel crogiuolodi idee che fu il Circolo di Vienna, da cui è nata, siapure in mezzo a contrasti, gran parte dell’episte-mologia contemporanea” (Bobbio inedito, 14-15).Nel 1956, con uno scritto in commemorazione diGiuseppe Capograssi, morto il 23 aprile di quel-l’anno, Bobbio aveva già trattato lo stesso tema:“Nel libro su Il problema della scienza del diritto[Capograssi] contrapponeva al metodo dellasuperbia proprio dei filosofi speculativi che siappollaiavano su picchi inaccessibili, il propriometodo mirante a una ricostruzione interna delcontenuto della scienza, ed era il metodo dell’u-miltà: e chi non corre subito alla vichiana ‘boria deidotti’” (Bobbio 1964, 228). Immediatamente dopoquesta affermazione, Bobbio trattava il tema del-

Page 30: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

30

l’empirismo dicendo che il metodo dell’umiltàfaceva riferimento alla vita e all’esperienza, eammettendo che per Capograssi i due terminierano sinonimi. Quindi suggeriva che, per evitareequivoci, quella di Capograssi venisse definita filo-sofia della vita e non dell’esperienza: infatti “espe-rienza fa pensare a ‘empirismo’, e questa filosofiadell’esperienza non è una filosofia empirista”(Bobbio 1964, 229). E, a questo punto, viene da domandarsi: ma cosac’entra questo problema? Perché Bobbio fa questocollegamento tra epistemologia dell’umiltà edempirismo? Bobbio non lo dice esplicitamente, ma il collega-mento nasce dal fatto che la teoria di Capograssisull’epistemologia dell’umiltà è una teoria in com-petizione con quella di Bobbio sul come costruireuna cultura che favorisca il diffondersi di una cul-tura democratica e inibisca lo sviluppo dei fasci-smi. Capograssi sosteneva che questa cultura fossela filosofia dell’umiltà ricavabile da Vico, mentreBobbio sosteneva che questa cultura fosse quellaempirista. Per questo, Bobbio ci teneva a negareche Capograssi fosse un empirista e che il suo con-cetto di esperienza fosse un riferimento all’empiri-smo. Bobbio, così dicendo, affermava che qualsia-si cultura, che avesse debiti intellettuali nei con-fronti del’idealismo, non poteva definirsi empiricae, in base a questo assunto, egli negava che la filo-sofia di Capograssi, o quella vichiana, fosse adattaa costruire una cultura democratica.Ma in che cosa consisterebbe questa epistemolo-gia dell’umiltà? La risposta ce la fornisce lo stessoBobbio presentando l’interpretazione cheCapograssi dà di Vico, esattamente in un’opera del1937. Vico è il filosofo dell’umiltà, in quanto la filo-sofia di Vico, cioè la sua epistemologia dell’umiltàpone come problema centrale sia il tema del rap-porto tra individuo e Stato sia l’obiettivo dellalibertà, intesa come “spontaneità creatrice, controlo Stato sovrano e autoritario, aggressivo e aggres-sore” (Bobbio 1964, 232), e anche contro la boriadelle nazioni o la boria dei togati o dei dotti(espressioni queste, come è noto, di Vico). LoStato moderno viene concepito, da Capograssi,che aggiorna l’epistemologia dell’umiltà di Vicoalle esigenze del XX secolo, come usurpatore e

negatore della vera autorità di cui l’esperienzaumana non può fare a meno. Per questa via, già nel 1922 (La nuova democraziadiretta), prima quindi dell’affermazione del fasci-smo, Capograssi era arrivato a teorizzare la demo-crazia diretta come l’intervento delle forze socialinella formazione della volontà e dell’ordine pubbli-co (Bobbio 1964, 233). Seguendo ancora Vico eaggiornandolo, Capograssi aveva intuito che “comeal di sotto della dotta riflessione dei filosofi c’è l’e-sperienza comune di cui bisogna tener conto, cosìal di sotto della storia ufficiale degli Stati, c’è la sto-ria clandestina, ignorata, monotona del poveroindividuo anonimo ed è quella che conta [...] ildiritto che sale fino ai fastigi dello Stato e dellasocietà internazionale nasce in questa storia anoni-ma, e qui sta il suo valore intimo e perenne, e vinasce allo scopo di salvare l’azione dell’individuoindipendentemente dalla salvezza dell’agente, inquanto è valutazione consapevole del valore dell’a-zione e per questo il diritto è elemento costitutivodella società umana” (Bobbio 1964, 237).Capograssi intuisce, prima del fascismo e a propo-sito della stessa società liberale, quello che i giuri-sti suoi contemporanei hanno capito, se lo hannocapito, solo “vivendo la tragica esperienza delloStato totalitario”. Egli intuisce i pericoli insiti nelpositivismo giuridico inteso come quella concezio-ne secondo cui “non c’è altro diritto che il dirittopositivo e il diritto posto per il solo fatto di essereposto deve essere ubbidito” (Bobbio inedito, 22).E a questa conclusione Bobbio arrivava dopo averposto, quasi a premessa dello scritto, l’accusa all’i-dealismo di Gentile di avere preparato il terreno alfascismo: “Ridefinendo il diritto come legge,Gentile accettava senza volerlo il punto di vista delpositivismo giuridico. Di fronte al problema che hasempre diviso il positivista dal giusnaturalista, se lalegge sia giusta soltanto per il fatto di essere giusta,Gentile rispondeva che ‘la legge veramente ingiu-sta è quella che si abroga e non è più legge’,lasciando intendere che sino a che una legge èvigente è giusta per il fatto stesso di essere legge.L’idealismo assoluto si convertiva in tal modo inpositivismo assoluto ... [Dall’altra parte, invece,]Con la definizione del diritto come istituzione,Romano, giurista positivo, metteva in discussione

Page 31: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

31

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

uno dei cardini del positivismo giuridico, condan-nato dai filosofi puri come la (cattiva) filosofia deigiuristi, la teoria della statualità del diritto, e aprivail varco alla teoria della pluralità degli ordinamentigiuridici, che era destinata a fare molta strada, pro-prio nella direzione della critica radicale del positi-vismo giuridico di stretta osservanza. Attraverso ilcontatto quotidiano con gli spregiati ‘fatti’ ...,Romano si era reso conto della crisi dello Statomoderno come ente monolitico e del formarsi diorganizzazioni sociali al di fuori e talora al di làdello Stato, mentre il filosofo dall’alto della suaspecula riaffermava l’unicità e l’eticità dello Stato, eportava la propria pietra alla costruzione delloStato totalitario” (Bobbio inedito, 5-7).Nei passi qui citati si vede come l’originaria tesi diBobbio, sul rapporto tra empirismo e democrazia,si sia resa più sfumata e complessa: non è più empi-rismo uguale democrazia e idealismo uguale totali-tarismo, ma l’empirismo (il riferimento ai fatti) èdiventato la molla che produce il rifiuto dell’identi-ficazione del diritto con la legge positiva. Lo Statonon è solo la struttura delle istituzioni politiche(nelle tre dimensioni del legislativo, del giudiziarioe dell’esecutivo), ma sono anche altre organizza-zioni al di fuori e al di là; organizzazioni che costrui-scono diritto e, quindi, possono operare al di fuoridelle leggi vigenti. L’autonomia di queste leggi ègarantita solo dal fatto che non si faccia coinciderela giustizia con la legge. Solo che, ed è qui il pas-saggio che opera il salto nell’interpretazione diBobbio che lo porta al di fuori del neopositivismostandard, non si accorgono dei fatti sia i sostenitoridi forme di idealismo assoluto che i sostenitori diforme di positivismo assoluto (ergo, positivismo edempirismo non coincidono). Se solo Bobbio sifosse spinto fino a ipotizzare che anche l’esperien-za secondo Capograssi è empirismo, l’abbandonodi ogni residuo di neopositivismo dalla propriametodologia sarebbe stato definitivo.Bobbio si ferma prima dell’ultimo passo; ma è giàimportante che questi passi fino al penultimo eglili abbia fatti nel trattare i temi metodologici delladisciplina nella quale si sentiva più a suo agio: laFilosofia del Diritto.

La strada bloccata della metodologia italianaL'esigenza di rifiutare, in logica, le antitesi tropponette (tra verità assoluta garantita dalla logiche for-malizzate e le non verità irrazionali) è formulata daBobbio nella Prefazione, del 1966, alla traduzioneitaliana del Trattato dell’argomentazione diPerelman e Olbrecths-Tyteca. Questa esigenza èchiaramente estranea al concetto cartesiano dimetodo (in quanto non identifica il dominio dellaragione con quello delle prove dimostrative) e aquello neopositivista (in quanto non identifica ildominio della logica con quello della formalizzazio-ne matematica). La logica, suggerisce Bobbio, nondeve essere definita in modo eccessivamenteristretto, per non abbandonare all'irrazionale ancheil campo della prova argomentativa. Bisogna distin-guere tra dimostrazione e argomentazione, tra con-vinzione e persuasione, tra logica in senso stretto eretorica. La prova argomentativa (che vale solo inriferimento ad un determinato uditorio), aggiungeBobbio, non è abile mascheramento delle propriepassioni (come la definirebbe Pareto). È una logica,in senso lato, che estende la scelta razionale ancheal campo dell'opinabile e del preferibile.È molto significativo, in questa Prefazione l'apprez-zamento di Bobbio per il saggio The Uses ofArgument di Stephen Toulmin. Bobbio sottolineache Toulmin sostituisce al modello matematico ilmodello giuridico e che definisce la logica comegiurisprudenza generalizzata. Toulmin, che è unallievo di Wittgenstein, è importante perché pro-porrà, nel 1973, insieme a Janik, una nuova inter-pretazione dell'opera di Wittgenstein.Un'interpretazione secondo la quale l'indagine sullinguaggio e sulla logica di questo filosofo non èvolta al fine di proporre un linguaggio artificialeinteramente formalizzato, quanto piuttosto di rive-lare che nessun linguaggio formalizzato potrà maiaffrontare le cose che veramente contano nella vita.Nel 1969, Bobbio contribuisce ad organizzare, aTorino, un convegno sulla Politica Comparata. Inquella occasione, riflettendo sulla politica compara-ta, egli finisce per convincersi che al metodo com-parato gli studiosi italiani di Scienza Politica vannoaffidando funzioni dimostrative sproporzionaterispetto a quello che realmente il metodo può

Page 32: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

32

garantire. E colpisce perfettamente nel segno per-ché, evidentemente, conosce i propri interlocutori,le loro illusioni e l’argomento che trattano. Soloche, purtroppo, in quella occasione, Bobbio pre-senta come modello argomentativo preferibile almetodo comparato la matematica che garantirebbe,a suo dire, funzioni dimostrative adeguate alle esi-genze delle scienze sociali e alle aspettative deiricercatori del campo. Questa è la conclusione a cuiBobbio mostra di essere pervenuto nella voceScienza Politica del Dizionario di Politica del1976. In questa voce, Bobbio afferma che il metodocomparato non è un metodo di controllo e che nonè neanche un metodo (cioè non fornisce alcunaprova argomentativa o dimostrativa) e sostiene chela nuova frontiera dimostrativa delle scienze socialié l'analisi multivariata, cioè l'uso di modelli mate-matici per il trattamento statistico di molte variabili.Questa conclusione di Bobbio, per giunta contenu-ta nella voce principale di un dizionario molto uti-lizzato dagli studiosi italiani di Scienza Politica,mostrava di condividere una illusione nella statisti-ca multivariata che era diffusa tra i ricercatori cosid-detti empirici degli anni Settanta e Ottanta e è statadenunciata come convenzionalista, cioè volontari-sta, agli inizi degli anni Novanta (Anastasi et al.1989; 1991; 1993). Da allora, è diventato chiaro chealcuni modelli matematici, cioè quelle analisi multi-variate ampiamente usate nelle scienze sociali cuiaccennava Bobbio definendole più probanti delmetodo comparato, erano assimilabili a quelle chelo stesso Bobbio aveva chiamato logiche dei sistemiautocratici. Il che implicava che, siccome passavanoper formulazioni probanti dell’argomentazioneempirica (la statistica, anche quella multivariata,veniva, al tempo, definita come “la logica dellaricerca empirica”), l’empirismo, quell’empirismocostruito dai neopositivisti, che tanto frequente-mente sfruttava quei modelli statistici convenziona-listi, non contribuiva affatto a rafforzare la demo-crazia. Anzi, sembrava proprio che contribuisse adindebolirla e che la logica multivariata fosse piùsimile alla regola giuridica che Bobbio individuavanelle società autocratiche. Infatti, a proposito del-l'autocrazia, che serve in genere come termine anti-tetico per definire la democrazia, Bobbio dicevache in esso vige una sola regola giuridica: "ciò che

dice l'autocrate è legge”. La ricerca antropologica ha mostrato che esistealmeno una società organizzata su questa regola: lasocietà degli Azande. Questa scoperta antropologi-ca veniva portata a conferma del fatto che la logicaè giurisprudenza generalizzata, in quanto quellaregola, che per Bobbio è una regola giuridica, èconsiderata dagli antropologi una regola logica. Lacosiddetta logica degli Azande, sottolineano imetodologi servendosi dell'esempio degli Azande,si basa su una sola regola formulata attraverso ilprincipio che la chiusura della semiosi spettaesclusivamente al capo o agli stregoni. Quando levicende (i fatti empirici) prescrivono una riapertu-ra della semiosi per risolvere un problema impre-visto o mal previsto, si ricorre ad una serie di rego-le che riaprono e richiudono le semiosi in mododa non contraddire mai né il capo, né gli stregoni.Questa logica, certamente convenzionalista, cioèvolontaristica, veniva presentata come la provaempirica che legittima la possibilità di dare una for-mulazione convenzionalista, quindi volontarista,alla logica in uso in società dove i problemi con-nessi con la decisione politica sono più complessiche tra gli Azande.È evidente, infatti, che logiche convenzionali cosìelementari (come quella degli Azande) o sistemigiuridici così semplificati (come quello previsto daBobbio per l'autocrazia) sono inadatti o impropo-nibili per società complesse (termine con il quale siindicano quelle società che conoscono differenzia-zioni notevoli di capacità, funzioni, competenze enelle quali è indispensabile una consistente buro-crazia). Società del genere hanno bisogno di siste-mi (logici e giuridici) molto più sofisticati per lachiusura della semiosi: l'esperienza storica dimo-stra che, in tutte le società, possono prodursi chiu-sure autoritarie della semiosi attraverso logicheconvenzionali di tipo burocratico, che pretendonocioè di escludere i valori e di operare in modo neu-trale. Questa neutralità (che il neopositivismo nellaversione convenzionalista ha cercato di realizzarenel secolo XX) si manifesta nella richiesta di avereconcetti univoci (e quindi identici a quelli che uti-lizzerebbe chi detiene il potere), come se fossepossibile o legittima una chiusura aprioristica edefinitiva della semiosi; e si manifesta anche nella

Page 33: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

33

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

richiesta di avere regole logiche formalizzate e con-venzionali (come, per esempio, modelli matemati-ci per interpretare i risultati elettorali o altre situa-zioni potenzialmente conflittuali) per pervenire aconclusioni automatiche e, quindi, sempre alleconclusioni cui perverrebbe chi detiene il potere.Al tempo in cui scrissi quel primo saggio su Bobbio(tra il 1987 e il 1989, anche se la pubblicazione delvolume fu talmente laboriosa, come a volte accade,che porta la data del 1991), ero talmente attento aquesto pericolo da quasi non vedere quello, più omeno di analoghe conseguenze, che proveniva dalmetodo della comparazione come concepito dallascuola fiorentina di Scienza Politica. Di questosecondo pericolo mi accorsi solo nel 1991, contri-buendo con un saggio sulla comparazione ad unnumero monografico sull’argomento della RivistaItaliana di Scienza Politica, numero curato daGiovanni Sartori e Leonardo Morlino (1991). Nel1989, ero ancora disorientato per avere pubblica-to, senza avere ottenuto alcun risultato concreto,una serie di saggi sulle principali riviste di ScienzaPolitica: la Rivista Italiana di Scienza Politica(Gangemi 1986), Teoria Politica (Gangemi 1987) eIl Politico (Gangemi 1989). Queste tre riviste eranostate accuratamente scelte perché volute dai rifon-datori della Scienza Politica Italiana (Bruno Leoniper Il Politico; Sartori per la RISP) o da allievi (diBobbio per Teoria Politica). A questi rifondatori,fino a quel momento, avevo attribuito il desiderioo l’obiettivo (che, però solo Bobbio aveva enun-ciato esplicitamente) di rifondare la ScienzaPolitica Italiana per costruire o consolidare lademocrazia (e ritenevo, ingenuamente, che quel-l’obiettivo fosse quello prioritario delle riviste inquestione). Particolarmente cocente le mancatereazioni conseguite alla pubblicazione del saggiosu Teoria Politica e la delusione conseguita allapartecipazione a una riunione di redazione dellastessa rivista per il triennale della medesima. Inquella occasione avevo avuto modo di ascoltareBobbio e di trovarlo lontanissimo dall’attenzione aquel tema che consideravo centrale nella sua rifles-sione teorica: quale empirismo per una societàdemocratica?A molta distanza di tempo da quella cocente delu-sione, il mio giudizio complessivo su Bobbio si è,

nel tempo, fatto più sfumato e la conclusione cheallora scrissi a proposito della logica delle societàdemocratiche, pur ribadendola, mi sembra neces-siti di una leggera modifica (una aggiunta alle paro-le di allora che segnalo con il corsivo): “sui perico-li della democrazia Bobbio ha scritto pagine impor-tanti. Tuttavia, non ha mai sottolineato il pericoloche per essa rappresenta lo sviluppo abnormedelle logiche convenzionali, anche se ha intuitoper tempo il pericolo che poteva pervenire (edinfatti si è puntualmente manifestato) da unafiducia eccessiva nel valore probante di concettidefiniti in modo troppo rigido. La mancata per-cezione del primo tipo di pericolo è dipesa da unresiduo pregiudizio ideologico neopositivista chelo ha portato a considerare solo il pericolo oppo-sto: quello che trasforma in irragionevolezza lo spi-rito critico (non guidato dalle regole della logicaper convincere)”.

Quale democrazia?Quando, negli anni Settanta e Ottanta, Bobbioaffronta il tema del socialismo e della democrazia,egli ripropone una definizione di democrazia tal-mente allargata da non essere compatibile con lametodologia neopositivista. Il momento in cuiBobbio riprende il tema della democrazia, di fattoproponendo una rottura di paradigma, è quelloimmediatamente precedente le elezioni politichedei 1976 (quando sembra possibile il "sorpasso"della DC da parte del PCI).La prospettiva aveva fortemente impressionatoBobbio, al punto da fargli dichiarare, anni dopo:"chi scrive appartiene a una generazione che legrandi speranze le perdette più di trent'anni fapoco tempo dopo la liberazione, e non le ha piùritrovate se non in alcuni momenti tanto rari quan-to passeggeri e alla fine poco decisivi: uno perdecennio, la sconfitta della legge truffa (1953), l'av-vento dei centro-sinistra (1964), il grande balzo delpartito comunista (1975)” (Bobbio 1984a, 65).Il primo momento era quello in cui si dovevanodifendere le regole della democrazia da una leggeche somigliava troppo ad una legge voluta dal regi-me fascista. È probabile che questo momentoabbia contribuito, negli anni Cinquanta, ad accen-tuare la tendenza a vedere la democrazia in termi-

Page 34: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

34

n.8 / 2004

ni univoci, come qualcosa che o esiste o non esi-ste, come un polo di una contrapposizione anta-gonistica. A pochi anni dalla prima elezione, nel1946, a suffragio universale e sotto le critiche allademocrazia formale da parte dei sostenitori di nondemocratiche "democrazie sostanziali", era proba-bilmente molto difficile, per un sincero democrati-co, accettare il principio della non sufficienza dellademocrazia rappresentativa. In un saggio del 1984,Il futuro della democrazia, Bobbio osserva che"sino a ieri o all'altro ieri quando si voleva dare unaprova dello sviluppo della democrazia in un datopaese si prendeva come indice l'estensione deidiritti politici dal suffragio ristretto al suffragio uni-versale... oggi se si vuole prendere un indice dellosviluppo democratico, questo non può essere ilnumero delle persone che hanno diritto di votare,ma il numero di sedi in cui si esercita il diritto divoto" (Bobbio 1984a, 45-6).A pensare, però, alle grandi speranze del 1964 edel 1975, praticamente l’inizio del Centrosinistra eil momento del grande consenso elettorale delPCI, è evidente che l'ultimo Bobbio consideracome essenziale alla democrazia non solo l'esi-stenza delle regole, ma anche della speranza neglielettori che, usando quelle regole, si possano cam-biare veramente le cose.In questo senso va interpretata l'affermazione, giàcontenuta in un saggio del 1976, in cui ha sottoli-neato, come promessa non mantenuta dellademocrazia, che l'esperienza storica ci ha mostratoche "un sistema capitalistico non si trasforma insistema socialista democraticamente, cioè attraver-so l'uso di tutti gli espedienti di partecipazione, dicontrollo e di libertà che le regole del gioco demo-cratico permettono” (Bobbio 1976, 18). Sono glianni immediatamente successivi al colpo di statoin Cile e questa affermazione ne è, forse, una con-seguenza.Bobbio riconosce, inoltre, che le promesse nonmantenute dalla democrazia sono state più nume-rose del previsto. Tuttavia, esclude che la demo-crazia parlamentare si stia trasformando (contra-riamente a quanto affermavano molti critici dellademocrazia appartenenti alla sinistra extraparla-mentare) in un regime autocratico. È costretto,però, ad ammettere che, per esempio, la delega

attraverso un mandato imperativo, particolarmen-te congeniale alla prassi della partitocrazia, è tipica"di quegli organismi in cui il flusso del potere pro-cede dall'alto in basso e non dal basso in alto, equindi molto più adatta ai sistemi autocratici chenon a quelli democratici" (1984a, 40-1). Inoltre, lostesso sviluppo della democrazia, riconosceBobbio, porta come inevitabile conseguenza lo svi-luppo della burocrazia e della partitocrazia.Nella Prefazione a Quale socialismo?, Bobbio affer-ma "di essere un empirista, specie di animale filoso-fico raro nel nostro paese” (Bobbio 1976, VIII).Questo è complessivamente vero per tutti gli scrittidi Bobbio, ma è soprattutto vero per questo volumeispirato da temi, al tempo, attualissimi. Lo si vede,infatti, dai risultati. Questo è un volume nel qualel'empirismo di Bobbio è meno frenato da precosti-tuite griglie teoriche, al punto che ha così finito pertravolgere, con la ricchezza di senso delle definizio-ni dei concetti in essi proposti, i criteri operativiristretti del neopositivismo. Infatti, il volume Qualesocialismo? è il testo che segna visibilmente quelpassaggio da Kelsen a Weber sottolineato daMatteucci. Lo stesso insistere sull'esistenza sia diuna definizione ristretta (o minima) della democra-zia che di una definizione allargata (che Bobbio defi-nisce sovversiva perché, al limite, è la società senzaclassi, la società senza Stato o la fine dello Stato) èl'indice dell'abbandono del paradigma neopositivi-sta che richiede concetti esclusivamente antitetici:la definizione ristretta della democrazia può regge-re l'alternativa esistente/non esistente (e quindicostituire un polo antitetico ad altro concetto), manon la definizione allargata di democrazia (che èsolo un progetto, un'utopia). Il volume mostra chel'empirismo di Bobbio può essere definito in duemodi: uno come metodologia della ricerca empirica(di cui ho già detto i limiti); l'altro come prassi diriflessione empirica (di cui vorrei, invece, sottoli-neare i meriti). Infatti, la sua analisi della politica èsoprattutto importante per gli effetti positivi che hadiffuso sulle sottoculture politiche del nostro paese:la sua attività di studioso della politica ha contribui-to a diffondere un atteggiamento razionalisticocaratterizzato per l'importanza che si attribuisce alleforme dell'argomentazione e al controlli empirici.Da questo punto di vista i contributi più importanti

Page 35: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

35

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

e duraturi dati da Bobbio alla costruzione dellademocrazia in Italia sono: l'aver contribuito a pro-vocare una svolta empirista nella prassi politica delnostro paese e l'aver concentrato la propria azioneculturale sull'obiettivo di portare le "altre" culture(marxista, cattolica, etc.) dallo scontro ideologicosui principi agli scontri pragmatici su dati di fatto, suproblemi concreti.In questo senso la sua politica culturale è risultatavincente. Quando Giorgio Amendola, identificandocultura laica con area laica, ha parlato di tre culture(cattolica, comunista e laica) e ha sostenuto che laterza è minoritaria, Bobbio ha potuto ribattere chela cultura laica è stata dominante perché ha influen-zato le altre due culture e perché ha prodotto, inItalia, lo sviluppo di uno spirito scientifico e dellescienze sociali. In questo avere concepito l'empiri-smo come un tribunale imparziale della ragione, enell'avere contribuito a realizzarlo entro limiti che,per quanto ancora insufficienti, sono certamentepiù ampi di quello che erano negli anni Cinquanta,sta probabilmente il contributo maggiore e piùduraturo di Bobbio al problema della democrazianella gestione del potere ideologico.

Silvio Trentin secondo Norberto BobbioIl mio scritto su Norberto Bobbio, pubblicato nel1991, mi portò a scoprire un nuovo autore federa-lista di cui, fino a quel momento, ignoravo l’esi-stenza: Silvio Trentin. L’incontro era nato per caso,controllando la voce Federalismo della Bibliografiadegli scritti di Norberto Bobbio (volume curato daCarlo Violi). Una voce che era, stranamente, stri-minzita rispetto, per esempio, alla precedente(Fascismo/Nazismo), ma a cui avevo deciso, pro-prio in quanto federalista, di dare uno spazio rile-vante nella trattazione del pensiero di Bobbio.Questa voce mi aveva permesso di individuare gliarticoli di Bobbio sul federalismo, scritti nel primodopoguerra, ma mi aveva segnalato anche la pre-senza di un saggio sul federalismo di Silvio Trentin(Bobbio 1975). Cercando, in varie biblioteche lom-barde, le opere di Silvio Trentin, mi accorsi cheerano stati pubblicati cinque volumi di Opere scel-te di Silvio Trentin, che Bobbio aveva scritto unaIntroduzione a uno di questi volumi (Bobbio1987) e, indagando con più attenzione nella

Bibliografia di Bobbio, mi accorsi che vi erano altridue saggi su Trentin in quella bibliografia (Bobbio1955; 1964), ma che non erano considerati saggisul federalismo. Solo il fatto che Bobbio si fosselimitato, in quei pochi saggi da me rintracciati(Bobbio 1975; 1987), a sintetizzare il pensiero diTrentin, senza suoi contributi originali, mi convin-se di escludere quei saggi su Trentin dal saggio chestavo scrivendo sull’opera di Bobbio.Comunque, la lettura delle opere di Trentin fu ilprimo passo successivo alla consegna all’editoredel saggio su Bobbio. Ebbi così modo di accorger-mi che Bobbio ha avuto un ruolo determinante nelrecupero e nell’interpretazione dell’opera diTrentin. Tuttavia, il Trentin della Resistenza studia-to in quelle opere pubblicate in italiano non mi feceuna grande impressione. Qualche anno dopo lapubblicazione di un mio scritto sul federalismo(Gangemi 1984), in cui introducevo il concetto difederalismo antropologico, vennero a trovarmi duefederalisti veneti (Mario Quaranta ed Elio Franzin)per propormi di commemorare Silvio Trentin nelsuo Comune di nascita (San Donà di Piave). Dopoche ebbi accettato, essi mi fornirono una fotocopiadi un’opera di Trentin di cui avevo sentito parlare(leggendo le Opere scelte), ma che non ero mairiuscito a procurarmi: La crise du Droit et de l’Etat.Questa scoperta mi spinse a cercare e leggere conattenzione gli scritti che Bobbio ha dedicato aTrentin nel corso della lunga frequentazione dellesue opere (dal 1943, quando lo conobbe a Padova,fino a quasi cinquanta anni dopo). I risultati di que-sta lettura saranno qui presentati e discussi perchéhanno un rapporto molto stretto con la domandacentrale che mi spinge, da trenta anni, a leggere erileggere le opere di Bobbio: quale Scienza Politicaper quale democrazia? Il primo scritto di Bobbio su Trentin è del 1954 (edè stato stampato almeno altre tre volte: nel 1955,nel 1964 e nel 1984). Bobbio individua tre periodinell’evoluzione di Trentin come studioso (anchese parlerà solo degli ultimi due): il periodo di studispecialistici sul diritto precedenti la scelta volonta-ria dell’esilio; gli studi di critica del fascismo consi-derato, fino al 1931-32, come un fenomeno tem-poraneo e specificamente italiano; l’ultima fase incui si convince che il fascismo è un fenomeno

Page 36: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

36

europeo e duraturo e abbandona ogni cautelalegalitaria per affermare la necessità di una rivolu-zione. In questa ultima fase, secondo Bobbio, ilvolume La crise du Droit et de l’Etat serve comeopera di passaggio che porta Trentin dal concettodi autonomia al concetto di federalismo come stru-mento per realizzare una società pluralistica edimpedire che la necessaria, secondo Trentin, orga-nizzazione collettivista dell’economia soffochi lalibertà dell’individuo.Nel secondo saggio di venti anni dopo (La crisieuropea e lo Stato federale nell’opera di SilvioTrentin), Bobbio descrive il modo in cui Trentininterpreta il perché dell’affermarsi del fascismo e ilcome ricostruire la democrazia dopo il fascismo.Questo tema di Trentin è lo stesso che appassio-nava Norberto Bobbio negli anni Cinquanta eSessanta. In altri termini, la continuazione dellariflessione di Bobbio sul rapporto tra cultura edemocrazia si può riscontrare negli scritti diBobbio su Trentin, oltre che direttamente nell’o-pera di Trentin. Questo perché, secondo Bobbio,“Gran parte delle sue opere, la parte più viva, quel-la che egli scrisse durante l’esilio in Francia oppu-re durante la guerra (prescindo in questa sededalla sua opera di studioso del diritto) è una conti-nua meditazione sulla crisi della civiltà europea,che l’avvento del fascismo in Italia e dei fascismo inEuropa, aveva fatto esplodere” (1975, 200).Bobbio sostiene che Trentin avesse due intenti:uno critico (perché il fascismo?) e uno ricostrutti-vo (quale democrazia dopo il fascismo?). Sul primointento, di fronte alle due tesi preesistenti (fasci-smo-rivelazione di mali italiani di Piero Gobetti efascismo-parentesi nella storia italiana diBenedetto Croce), Trentin si schiera a favore dellaseconda ipotesi fino al 1931. Con gli anni Trenta,però, egli si convince della tesi di Gobetti e sipone, quindi, il problema di come combattere ilfascismo (con la rivoluzione) e di cosa costruire inalternativa (l’ordine degli ordine, cioè il federali-smo). Egli ipotizza che la rivoluzione avrebbedovuto realizzare il socialismo (come abolizionedella proprietà privata in favore di una proprietàcollettiva dei mezzi di produzione), mentre il fede-ralismo avrebbe dovuto garantire che il socialismonon soffocasse la libertà. Secondo Bobbio, riecheg-

giando Gobetti, che forse non conosceva comestudioso, Trentin si definisce “rivoluzionario libe-rale” e aderisce a Giustizia e Libertà, nella qualeCarlo Rosselli, già nel 1928, aveva elaborato unateoria del socialismo liberale.Centrando l’attenzione su La crise du Droit et del’Etat, Bobbio sostiene che il diritto e gli Stati di cuiTrentin dichiarava aperta la crisi irreversibile eranoil Diritto e lo Stato derivati dalla RivoluzioneFrancese, cioè tutti gli Stati accentrati o centraliz-zati. Bobbio prosegue con un’analisi dei due scrit-ti che hanno avuto un ruolo importante nel corsodella resistenza: Stato-Nazione-Federalismo del1940, pubblicato nel 1945 dal Partito d’Azione, eLibérer et fédérer del 1942, tradotto da AntonioGiuriolo nel 1943 (e pubblicato nel 1972, nel volu-me Scritti inediti di Trentin).Riflettendo su Trentin, in un saggio del 1985,Bobbio ritorna sul tema della responsabilità dellacultura italiana, non tanto della genesi del fasci-smo, quanto della sua durata. Commentando Lestransformations du droit public italien del 1929,egli afferma, riprendendo un’affermazione diGianantonio Paladini, che si tratta dell’unico scrit-to italiano del periodo fascista in cui si parli schiet-tamente dell’evoluzione del diritto costituzionaleitaliano. Per spiegare il perché di questo fatto,Bobbio è quasi forzato a tornare sul tema del rap-porto tra cultura italiana e fascismo e, nel tornarci,non parla più delle responsabilità dell’idealismo,bensì delle responsabilità del solo positivismo (edell’interpretazione positivista della avalutatività).“Questo adattamento al regime da parte dei giuri-sti fu favorito dalla concezione della scienza giuri-dica, e quindi anche del compito del giurista nellasocietà, propria del positivismo giuridico, secondocui tutte le scienze, e pertanto anche la giurispru-denza, se ha da essere scienza, debbono essereavalutative ... E che lo Stato fascista, in quantoStato a pieno diritto, fosse sovrano, e il dirittofascista fosse a pieno titolo diritto positivo, in baseal principio di effettività, non poteva esser messoin dubbio. Uno dei principali canoni del metodopositivistico era che altro è il compito del giurista,altro quello del filosofo o del moralista o del poli-tico ... Il buon giurista si deve occupare del GranConsiglio con la stessa indifferente neutralità con

Page 37: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

37

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

cui si era occupato durante l’età liberale della rap-presentanza politica” (Bobbio 1985, 706).Nel 1987, Bobbio si trova a dover affrontare la giu-stificazione di una scelta difficile: la decisione diescludere dalla pubblicazione, nelle Opere scelte diSilvio Trentin, de La crise du droit et de l’Etat, l’o-pera maggiore di Trentin (di cui viene pubblicatonelle Opere scelte solo l’ottavo e conclusivo capi-tolo). Di questa opera, nel 1954, aveva detto che inessa “appare per la prima volta il concetto, se nonancora una teoria compiuta, del federalismo”(Bobbio 1955, 18); nel 1974, aveva dichiarato chein quest’opera “il tema del federalismo, destinato adiventare il tema centrale del progetto di ricostru-zione del nuovo Stato, appare ormai tutto spiega-to” (Bobbio 1974, 208); nel 1987, corregge legger-mente il giudizio di tredici anni prima, adattando-lo alla decisione di includere solo il capitolo con-clusivo nelle Opere scelte da pubblicare, e dichiara:La crise è l’opera “in cui il suo pensiero federalisti-co ne esce, nella conclusione, tutto spiegato”(Bobbio 1987, XXVI). Il giudizio viene ancora ripe-tuto, con le stesse parole, quattro anni dopo(Bobbio 1991, 162) e diventa definitivo.Si può dire che, su questa opera, Bobbio esprimegiudizi concisi e, nel tempo, variabili. Inoltre, ladecisione di pubblicare solo l’ultimo capitolo con-trasta con quanto dichiarato, dal grande giuristafrancese François Gény, che ha scritto unaPrefazione per la prima e unica edizione del volu-me. Secondo Gény i primi sei capitoli sono la parteduratura e importante del saggio, mentre le con-clusioni sono la parte più astratta e inattuabile.Bobbio non contrappone il suo giudizio a quello diGény, perché non nega il valore dei primi sei/settecapitoli, ma nega che siano durati nel tempo: essisarebbero ormai superati, mentre le conclusioni,operative, avrebbero un valore storico per capire ilpercorso che porta Trentin verso Stato-Nazione-Federalismo e Libérer et Fédérer, cioè verso laResistenza.Nella lettura che io propongo de La crise, tutti icapitoli, dal primo all’ultimo, costituiscono un uni-cum inscindibile. La mia ipotesi è che persino isuccessivi libri della Resistenza vadano letti attra-verso la riflessione teorica de La crise. Gli scritti sulfederalismo di Trentin, infatti, immaginano il fede-

ralismo come una terza via tra quella liberale (cheprivilegia la regolazione economica, cioè ilMercato, alla regolazione politica, cioè allo Stato) equella socialista (che privilegia la regolazione poli-tica a quella economica). Una terza via che è con-sapevole che non sia realizzabile alcuna alternativaa liberismo e socialismo che non consideri lanecessità di operare su quattro diverse forme diregolazione: quella economica che libera le ener-gie spontanee degli individui intraprendenti, maprovoca povertà e sfruttamento oltre il necessarioe lascia troppo spazio alla cupiditas; quella politicache garantisce sicurezza, legge e ordine, ma tendea uccidere la libertà e l’iniziativa e lascia troppospazio all’arbitrio di chi detiene il potere (tende, senon contrastata, a produrre autoritarismo); quellacomunitaria che attribuisce le identità (che sonoidentità multiple) permettendo il libero sviluppar-si delle autonomie e destruttura lo Stato centraliz-zato per renderlo flessibile e modellabile dallasocietà (ma può generare fondamentalismo); quel-la logico-giuridica che struttura la mente (struttu-rando la logica, intesa come giurisprudenza gene-ralizzata, e il Diritto come prodotto di una sociali-tà preesistente allo Stato), destruttura le ideologietroppo rigide e i dogmi della fede e legittima ildiritto di resistenza (ma può produrre i dogmati-smi della ragione e manicheismo). Sempre nellamia lettura, la convinzione profonda di Trentin èche solo l’azione delle quattro regolazioni insiemepuò garantire quella “terza via” nella quale, struttu-rando lo Stato come ordine delle autonomie, sigarantisce sicurezza, legge e ordine, ma anche ilcontrollo collettivo delle imprese che necessitano dieconomie di scala, mentre strutturando il Mercato sirealizzano le condizioni per affidare all’iniziativa pri-vata le aziende che non necessitano di economie discala (perché producono beni non di massa). Nessun teorico italiano (e per quanto ne sappia io,nemmeno europeo) ha mai teorizzato con tantasicurezza come Trentin la complessità della “terzavia” e fornito una formulazione teorica che per-mettesse di uscire dalla logica degli slogan peraffrontare in termini operativi la descrizione dellecondizioni necessarie per realizzare, insieme alfederalismo antropologico, la democrazia e per ini-ziare un percorso eventuale verso la cosiddetta

Page 38: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

38

terza via liberalsocialista.Nel descrivere le opere di Trentin, Bobbio sottoli-nea il valore operativo di Libérer et fédérer e nericorda l’abbondanza di particolari operativi che, avolte, appesantiscono il libro. Questi particolarisono possibili perché, alle spalle di questo libro,Trentin ripeteva di avere costruito il tessuto teori-co all’interno del quale questi dettagli operativiacquistavano senso. E questo costrutto teorico era,appunto, La crise du Droit et de l’Etat. Bobbio haimpostato il tema del contributo che la ScienzaPolitica e la Scienza del Diritto potevano dare allacostruzione di una solida democrazia. I passi cheegli non ha compiuto nella direzione di quella rot-tura paradigmatica, rispetto al neopositivismo, chepure era necessaria per dare una adeguata impo-stazione al problema, Bobbio li ha saputi additare,proprio indicando gli studiosi che, nel tempo incui egli ha operato, stavano costruendo le proce-dure e la descrizione dei processi necessarie: SilvioTrentin, il cui pensiero più di tutti ha contribuito afar conoscere e diffondere, e Chailm Perelman, icui studi sulle nuove retoriche e sull’argomenta-zione ha fatto conoscere e divulgato in Italia.

Riferimenti bibliograficiAA. VV. (1950), Spirito Europeo, Milano, Ed. diComunitàAnastasi, Antonino, Giuseppe Gangemi, Rita Pavsice Venera Tomaselli (1989), Guerra dei flussi obolle di sapone? Ricerca empirica e riflessioni sulmodello di Goodman per la stima dei flussi elet-torali, Acireale (CT), Bonanno Ed.Anastasi, Antonino, Giuseppe Gangemi, Rita Pavsice Venera Tomaselli (1989), “Stima dei flussi eletto-rali, metodologia di ricerca e regole della politi-ca”, Quaderni dell’osservatorio elettorale, n. 25,pp. 95-130Anastasi, Antonino, Giuseppe Gangemi, Rita Pavsice Venera Tomaselli (1989), Guerre dei flussi obolle di sapone?, pp. 41-58, in R. Mannheimer (acura di), Quale mobilità elettorale? Tendenze emodelli. La discussione metodologica sui flussielettorali, Milano, F. AngeliBobbio, Norberto (1950), Scienza del diritto eanalisi del linguaggio, pp. 21-65, in AA.VV., Saggidi critica delle scienze, Torino, De Silva editore

Beyme (von), Klaus (1985), La Scienza Politica inItalia – Uno sguardo dall’esterno, dattiloscritto Bobbio, Norberto (1955), Ricordo di SilvioTrentin, Venezia, Stampa Arti Grafiche SosteniBobbio, Norberto (1964), Italia civile. Ritratti etestimonianze, Manduria-Bari-Perugia, Lacaitaeditore Bobbio, Norberto (1969), Saggi sulla scienza poli-tica in Italia, Bari, LaterzaBobbio, Norberto (1971), Una filosofia militante,Torino, EinaudiBobbio, Norberto (1975), “La crisi europea e loStato federale nell’Opera di Silvio Trentin”, Città eRegione, I, n. 8, pp. 200-12Bobbio, Norberto (1976), Quale socialismo?,Torino, EinaudiBobbio, Norberto (1979), Il problema della guer-ra e le vie della pace, Bologna, 11 MulinoBobbio, Norberto (1980), Politica e cultura,Torino, EinaudiBobbio, Norberto (1981), Studi begeliani, Torino,EinaudiBobbio, Norberto (1984a), Il futuro della demo-crazia, Torino, EinaudiBobbio, Norberto (1984b), Prefazione, in C. Violi,Norberto Bobbio: 50 anni di studio. Bibliografiadegli scritti 1934-1983, Milano, F. AngeliBobbio, Norberto (1985), “Silvio Trentin e lo Statofascista”, Belfagor, XL, fasc. 6, pp. 700-07Bobbio, Norberto (1987), Introduzione, pp. IX-XXXVII, in Trentin Silvio, Federalismo e libertà.Scritti teorici 1935-1943, a cura di NorbertoBobbio, Venezia, Marsilio Editori, 1987Bobbio, Norberto (1991), Il pensiero federalista diTrentin, pp. 147-171, in AA.VV., Silvio Trentin e laFrancia. Saggi e testimonianze, Venezia, Marsilioeditori, 1991Bobbio, Norberto (1996), De senectute e altriscritti autobiografici, Torino, EinaudiBobbio, Norberto (1997), Autobiografia, a cura diAlberto Papuzzi, Roma-Bari, LaterzaBobbio, Norberto (inedito),Filosofia del diritto escienza del diritto in Italia nell’ultimo cinquan-tennio, dattiloscritto di 48 pagine, non presentenel catalogo del Centro Piero Gobetti di Torino edin possesso di Mario QuarantaBonanate, Luigi (1986) Un labirinto in forma di

Page 39: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

39

cerchi concentrici, ovvero: guerra e pace nel pen-siero di Norberto Bobbio, in Luigi Bonanate eMichelangelo Bovero (a cura di), Per una teoriagenerale della politica. Saggi, dedicati a NorbertoBobbio, Firenze, PassigliCattaneo, Carlo, Giuseppe Zanardelli e ArcangeloGhisleri (1999), La linea lombarda del federali-smo, a cura di Giuseppe Gangemi, Roma, Gangemi Croce, Benedetto (1925), “Rivista bibliografica”, LaCritica, pp. 361-366Croce, Benedetto (1980), La filosofia di G.B. Vico,Bari, LaterzaDewey, John (1953), Libertà e cultura, Firenze, LaNuova ItaliaGangemi, Giuseppe (1984), La questione federali-sta. Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciana,Torino, Liviana-UtetGangemi, Giuseppe (1986), “Il paradigma ‘neopla-tonico’ nelle scienze politiche e sociali”, RivistaItaliana di Scienza Politica, XVI, n. 1, pp. 117-39Gangemi, Giuseppe (1987), “Convenzionalismologico e cultura democratica”, Teoria Politica, III,n. 3, pp. 101-25Gangemi, Giuseppe (1989), “Operazionismo,democrazia e valori”, Il Politico, LIV, n. 2, pp. 259-89Gangemi, Giuseppe (1991), Norberto Bobbio, lapace e la metodologia italiana, pp. 161-207, inAA.VV., La pace in cammino, Acireale (CT),Bonanni EditoreGangemi, Giuseppe (1994), Costruire i concetti inScienza Politica: scale di astrazione e incom-mensurabilità, Teoria Politica, X, n. 1, pp. 153-81 Gangemi, Giuseppe (1999), Metodologia e demo-crazia. Metafore, concetti e forme argomentative,Milano, GiuffréGarin, Eugenio (1986) Politica e cultura, inBonanate e Bovero (1986)Lampertico, Fedele, Luigi Luzzatti, AngeloMessedaglia ed Emilio Morpurgo (2000), La lineaveneta del federalismo, a cura di GiuseppeGangemi, Roma, Gangemi

Matteucci, Nicola (1986), Democrazia e autocra-zia nel pensiero di N. Bobbio, in Bonanate eBovero (1986)Mill, John Stuart (1981), Saggio sulla libertà,Milano, MondatoriMorlino, Leonardo (1989), Introduzione. Ancoraun bilancio lamentevole?, pp. 5-52, in LeonardoMorlino (a cura di), Scienza Politica, Torino,Edizioni della Fondazione Agnelli Neurath, 0tto (1945-6), "The Orchestration of theScience by the Encyclopedism of LogicalEmpiricism”, Philosophy and PhenomenologicalResearch, VI, 496-508Popper, Karl (1974), La società aperta e i suoinemici, Roma, Armando Armando, Vol. IIQuine, W.V. (1963), From a Logical Point of Wew,New York, Harper and Row Russell, Bertrand (1984), Storia della filosofiaoccidentale, Milano, MondatoriSartori, Giovanni (1970), “Concept Misformationin Comparative Politics”, The American PoliticalScience Review, LXIV, pp. 1033-57Sartori, Giovanni (1971), “La politica comparata:premesse e problemi”, Rivista Italiana di ScienzaPolitica, I, pp. 7-66Sartori, Giovanni (1984), Guidelines for ConceptAnalysis, pp. 15-85, in G. Sartori, Social ScienceConcepts. A Systematic Analysis, Beverly Hills SageSartori, Giovanni e Leonardo Morlino (1991), Lacomparazione nelle scienze sociali, Bologna, IlMulinoTuveri, Giovanni Battista, Camillo Bellini ed EmilioLussu (2002), La linea sarda del federalismo, acura di Giuseppe Gangemi, Roma, GangemiVentura, Gioacchino, Napoleone Colajanni, LuigiSturzo, Antonio Canèpa e Silvio Milazzo (2004), Lalinea siciliana del federalismo, a cura diGiuseppe Gangemi, Roma, GangemiWeber, Max (1974), Il metodo delle scienze stori-co-sociali, Torino, Einaudi

Giuseppe Gangemi Norberto Bobbio tra diritto, potere e democrazia

([email protected])

Page 40: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

40

Page 41: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

41

Cattaneo, una presenza ciclica nella culturaitalianaLa presenza di Cattaneo è una delle “costanti” nellacultura italiana, in cui il suo pensiero politico e filo-sofico è riemerso in momenti cruciali delNovecento. All'insegna di Cattaneo è stato cultu-ralmente contrastato il fascismo (Salvemini eGobetti), e durante il ventennio l'incontro conCattaneo è stato significativo per alcuni intellettua-li come Elio Vittorini, Giansiro Ferrata e NorbertoBobbio; anche Ludovico Geymonat, nell'esprimerela speranza di un rinnovamento profondo dellasocietà italiana, si è richiamato a Cattaneo. In con-clusione, in diversi momenti del “secolo breve”,Cattaneo è stato considerato un valido riferimentonella battaglia modernizzatrice dell'Italia.Nel corso degli anni Trenta, l'incontro di alcuniintellettuali italiani con Cattaneo è stata l'occasioneper contrapporsi o distaccarsi dalla cultura fascista;la lunga introduzione di Bobbio alla scelta di scrit-ti cattaneani, Stati Uniti d'Italia del 1945, si collo-ca in tale direzione. In quello stesso anno, un grup-po d'intellettuali che aveva compiuto in modi etempi diversi il “lungo viaggio” attraverso il fasci-smo, per sottolineare la novità del loro progettoculturale di rottura rispetto a una consolidata tra-dizione di stampo idealistico, diede vita alla rivista“Il Politecnico”, diretta da Elio Vittorini, ove èesplicito il richiamo alla rivista di Cattaneo, al suostile di pensiero e di lavoro. Ma quel tentativo distabilire un rapporto “virtuoso” tra letteratura esocietà, tra scienza e filosofia non è stato condottoa fondo per l'interruzione forzata della rivista;un'interruzione che ha inciso negativamente nella

cultura italiana.A conferma di questo ruolo di Cattaneo nella cul-tura italiana, basterà ricordare i due interventi diGiansiro Ferrata su Cattaneo, uno del 1940 in“Primato”, e uno del 1942 (Introduzione aCattaneo, Italia-Messico-Cina, Milano 1942).Quando Ferrata ripubblicò nel 1978 il secondoscritto, si soffermò su Cattaneo per ricordare unfatto e ribadire un giudizio. Il fatto è che a marginedel primo articolo Mussolini scrisse: "un'osserva-zione politicamente deprecatoria"; il giudizio diFerrata è che “pochi scrittori [come Cattaneo] pre-sentano altrettanto una naturale destinazione anti-fascista, una antitesi a-priori con i criteri e gliorientamenti impostisi nel 'ventennio nero’”(Ferrata, Prospettiva dell'Otto-Novecento, Roma1978, 9). Anche Bobbio, riandando nella prefazio-ne agli studi su Cattaneo del 1971 al suo primo sag-gio, conveniva che “per chi combatteva in primis ilfascismo e vedeva nell'antitesi dispotismo-libertàl'antitesi primaria [...] Cattaneo era forse, tra i pro-tagonisti del Risorgimento, il maestro più attuale”(Bobbio, Una filosofia militante. Studi su CarloCattaneo, Torino 1971, VII).Il primo saggio di Bobbio ha il tono e il piglio di unmanifesto etico-politico, tutto centrato nel rivendi-care un'attualità culturale del pensiero cattaneano,della sua proposta federalista, sostenuta allora dalPartito d'Azione, di cui Bobbio è stato uno dei diri-genti. I primi due aspetti del pensiero di Cattaneosottolineati da Bobbio sono: l'assenza di “germi didecadenza”, e l'abbandono della “mentalità specu-lativa”; due caratteristiche negative presenti, inve-ce, nei due orientamenti di pensiero allora domi-

Focus: Norberto Bobbio

Mario Quaranta

Bobbio interprete di Cattaneo filosofo

Page 42: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

42

nanti: l'idealismo gentiliano e l'esistenzialismo,intrisi di retorica speculativa, il cui abbandonocostituiva, a suo giudizio, la precondizione per larinascita di una nuova cultura. In altri termini,Cattaneo poteva essere accolto sia come antidotoa questi due vizi “naturali” della cultura italiana, cuisi doveva contrapporre la cattaneana “positività”,sia per i valori etico-politici proposti, primo fratutti, quello della libertà “intesa come liberazionegraduale ed intelligente dai legami che attornoall'uomo sociale pongono la barbarie e l'ignoran-za” (Bobbio 1971, 12).Una libertà, dunque, “laica” che non sfocia nellacrociana “religione della libertà”, ossia in unaforma di religione secolarizzata, ma che rimaneancorata alla prassi umana, per cui la fiducia nellalibertà significa “fiducia che la libertà generi altralibertà, e ad una maggiore estensione di libertàcorrisponda una maggiore diffusione della civiltà”(Bobbio 1971, 13). Una libertà, dunque, che ali-menta un riformismo legato a progetti politici, isti-tuzionali, sociali precisi, frutto di uno studio atten-to della realtà (del territorio e della sua storia, delletradizioni, delle forze politiche, ecc.). In tal sensoBobbio afferma che “Cattaneo scienziato eCattaneo politico sono tutt'uno” (Bobbio 1971, 9),intendendo la politica in senso alto, come un pro-cesso conoscitivo e, insieme, operativo, volto amodificare la realtà. In tale prospettiva si colloca ilfederalismo di Cattaneo, che fu “nel suo pensieronon un aspetto secondario, ma quasi un puntod'incontro di tutte le sue esperienze culturali, ilfuoco in cui convergevano i raggi delle sue ricer-che, delle sue aspirazioni, dei suoi sentimenti”(Bobbio 1971, 19).Bobbio cerca le ragioni del fallimento del progettofederalista cattaneano, individuando gli ostacoliche in quegli anni dovevano essere affrontati percostruire una nuova Italia: "Il federalismo – affer-ma - fu dottrina d'intellettuali e non principio d'a-zione, perché non era, per lo meno in Italia, fruttodel tempo, ma era sotto certi aspetti idea troppovecchia e sotto altri idea troppo nuova, sì che nontrovò tra i suoi sostenitori se non politici che vede-vano troppo vicino o intellettuali che guardavanotroppo lontano; e quindi non ebbe organizzazione,

perché non poteva averla, e qualsiasi organizzazio-ne che fosse sorta per la buona volontà di pochi,sarebbe stata destinata al sicuro insuccesso"(Bobbio, 1971 51). Questa, più che una valutazio-ne di Cattaneo, sembra l'individuazione dei limitidel Partito d'Azione, che quella bandiera tentò diinnalzare nel momento in cui si doveva decidereuna nuova Costituzione, la quale, invece, nonintaccò il tradizionale centralismo politico e ammi-nistrativo dello Stato.

Cattaneo e il neolluminismo italianoIl secondo momento cattaneano di Bobbio si collo-ca negli anni Cinquanta-Sessanta, entro quel movi-mento neo-illuminista che ha visto intellettuali didiversa formazione e orientamento uniti in uncomune progetto di rinnovamento culturale.L'esigenza più profonda espressa da tale movimen-to è stata, secondo Bobbio, la formazione di unintellettuale di tipo nuovo, un “ingegnere sociale”,“scopritore, formatore e produttore di un sapereutile all'azione” (Empirismo e scienze sociali, 1973,3). (L'opera Politica e cultura del 1955 è l'espres-sione della sua battaglia neoilluminista). Cattaneoincarna proprio questo modello d'intellettuale;anch'egli, infatti, ha combattuto fieramente sia l'e-clettismo (che legittima in politica il moderatismo),sia l'ontologismo (che spregia i saperi concreti),convinto che la scienza sia uno strumento di pro-gresso, capace di avviare una modernizzazionedella società. Secondo la formula bobbiana,Cattaneo è un “illuminista rinato nel secolo dellastoria” (Bobbio 1971, 5), che dell'illuminismo acco-glie la fiducia nella razionalità scientifica, e delromanticismo la teoria del progresso dell'umanità.Con la cura degli Scritti filosofici di Cattaneo nel1960, Bobbio compie un'operazione culturaleambiziosa: installare saldamente Cattaneo entro lanostra tradizione filosofica, in cui il filone dell'em-pirismo è stato presente sì, ma minoritario, e riat-tualizzato nella prospettiva neoiluminista. Per fareciò, Bobbio ha delineato in termini sufficiente-mente organici il pensiero filosofico di Cattaneo,ed effettivamente, in una cultura come la nostra, incui il cosiddetto 'frammentismo' è considerato ilsegno di un pensiero inconcluso, quando non

Page 43: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Mario Quaranta Bobbio interprete di Cattaneo filosofo.

43

addirittura assenza di una prospettiva generale,avere ricostruito in termini organici la filosofia diCattaneo, è stato un risultato notevole, nell’otticadi un giudizio conclusivo, che Bobbio accoglie daFranco Alessio: il pensiero cattaneano “tiene nellastoria della cultura italiana del secolo XIX, unposto più importante di tanti sistemi addottrinati,e morti coi loro autori” (Bobbio 1971, 88).Secondo Bobbio, Cattaneo s'inserisce in quellacorrente empiristica che ha avuto in Bacone esoprattutto in Locke i suoi maggiori teorici; si com-prende, allora, la contrapposizione, che inCattaneo fu sempre viva, del sapere scientifico conla filosofia speculativa e la metafisica. Inoltre,Cattaneo esalta la tecnica non come ancilla dellascienza, ma come parte integrante dell'impresascientifica, cui si affianca una filosofia senza prete-se ‘imperialistiche’ nei confronti della scienza, maanzi come “metodologia generale del sapere”(Bobbio 1971, 103).Riassumendo: empirismo, ossia rivalutazione del-l'esperienza e rifiuto della metafisica; fiducia nellarazionalità scientifica fecondamente unita alla tec-nica; una filosofia utile e pubblica: sono gli stessitemi del neoilluminismo italiano, che concorsero adeterminare, come in Cattaneo, un nuovo rappor-to tra scienza, uomo e società.

Cattaneo teorico del progresso e del riformismoBobbio compie, poi, un ulteriore approfondimen-to del pensiero cattaneano, indicando nel “grandetema illuministico del progresso [...] l'oggettocostante, ricorrente e in ultima analisi unificantedelle sue riflessioni” (Bobbio 1971, 42). È un temacentrale presente in altri orientamenti come ilromanticismo e il positivismo, ma in Cattaneo èalla base, direi, volterrianamente, di una vera epropria teoria della storia come storia della civiltà,ed è a proposito di tale problema che è stata solle-vata la querelle se Cattaneo sia un illuminista o unpositivista (o uno storicista sui generis). Bobbiosostiene, al di là di convergenze che pur ha indica-to con quei due primi orientamenti, che Cattaneoè un illuminista post-romantico e post-positivista;vale a dire, che egli ebbe della storia una conce-zione non necessaristica come appunto il romanti-

cismo e il positivismo, ma la considerò illuministi-camente come prodotta dall'uomo. E in tale con-cezione dell'uomo e della sua storia si collocaanche l'idea cattaneana di progresso; esso si confi-gura come sviluppo delle forze produttive emiglioramento delle condizioni dell'umanità;miglioramento reso possibile dal fatto che ora lascienza e la tecnica costituiscono la forza trainantedello sviluppo.Per Cattaneo “il progresso è garantito come metacostante e finale dell'umanità, ma il suo corso èmolto accidentato” (Bobbio 1971, 116). Un corsocaratterizzato dalla conflittualità, da un rapporto dipermanente tensione nella società non risolvibile,però, in una sintesi pacificatrice. Insomma, “il con-cetto cattaneano del progresso è non soltanto unacategoria storiografica ma anche un'idea regolati-va: serve non soltanto a capire la storia passata maanche a orientare la storia futura” (Bobbio 1971,123). In conclusione, si può dire che il processod'incivilimento è lento e irto di ostacoli, e anche sesi può parlare di uomini geniali, cui Cousin attribuìuna funzione decisiva, la storia è in realtà fatta dauna moltitudine di uomini che sono stati animatida idee e interessi comuni. Un incivilimento che siè snodato, dunque, non secondo un processo sto-rico necessario (come sostenne Comte), perchè lastoria ha conosciuto anche arresti e periodi di sta-gnazione, ma secondo una linea in cui il peso deci-sivo l'ha avuto il pensiero, che è sempre pensierosociale, e che costituisce, insieme agli interessi concui convive, il vero motore della storia.Nel successivo lavoro su Le lezioni luganesi, il con-tributo cattaneano analiticamente più rigoroso diBobbio, è delineata la “riforma filosofica” propostadal filosofo lombardo. Essa consiste, secondo lostesso Cattaneo, nello “studio dell'uomo nelle suerelazioni più generali alli altri esseri (corsivo diC.), come questi appariscono al testimonio con-corde di tutte le scienze morali e fisiche” (Bobbio1971, 156). È il progetto di uno studio dell'uomoche avvicina Cattaneo al programma degli idéolo-gues, basato sull'unione delle libertà civili e dellescienze sperimentali. Al fondo di tale posizione, c'èla persuasione che le prime alimentano le secondee le scienze non possono essere usate che per il

Page 44: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

bene dell'umanità.Questa fiducia, afferma Bobbio, ora non c'è più,“perché abbiamo appreso che tanto la libertàquanto la scienza possono essere usate per il benee per il male, tanto per il benessere dell'umanitàquanto per la sua rovina” (Bobbio 1971, 180). Maallora si comprendono bene le ragioni profonde“della sfortuna del pensiero di Cattaneo in Italia”(è il titolo di un saggio del 1970). Se il centro delprogramma cattaneano è “una riforma della filoso-fia che prenda atto della rivoluzione proprio del-l'età moderna che è rivoluzione prima che politicao economica, intellettuale, cioè della rivoluzionescientifica” (Bobbio 1971, 208), una seria discus-sione su tale questione, secondo Bobbio, “non c'èmai stata” (Bobbio 1971, 206) nella cultura italiana,ove sono prevalsi orientamenti in cui la scienza èstata sottovalutata o emarginata o non considerataparte fondamentale della cultura.L'intervento cattaneano più impegnativo di Bobbiodopo il volume del 1971, è il saggio CarloCattaneo e le riforme (Aa.Vv, L’opera e l’eredità diCarlo Cattaneo, I, Bologna 1975, 5-35), apparso inun momento in cui il riformismo era all'ordine delgiorno nel nostro Paese, e Bobbio si richiama aCattaneo, ossia a quel “radicale riformatore” (ladefinizione è di Alessandro Levi) (Bobbio 1975,11), che ha tentato di inserire il riformismo in unafilosofia della storia, in cui “la fiducia nel progressoimmancabile è temperata dalla convinzione cheesso non procede necessariamente su una linearetta (Bobbio 1975, 23)“. Si tratta di una concezio-ne del progresso non predeterminato, perché è il“luogo” dell'attività umana costitutivamente liberae creatrice; e si contrappone sia al rivoluzionari-smo “astratto”, sia al conservatorismo “concreto”;essa riconosce l'esistenza di contraddizioni insitenella società e considera la lotta un fattore propul-sivo e “fisiologico” della vita sociale e non “patolo-gico”, e perciò da contrastare. In tale contesto,quale significato assume il concetto di rivoluzionerispetto a una concezione del progresso, comequella cattaneana, sostanzialmente continuista?Il problema è reso complesso dal fatto cheCattaneo riconosce le peculiarità di “rivoluzione”sia a quella scientifica, sia ai moti nazionali del suo

tempo, mentre la categoria che usa per caratteriz-zare il corso della storia è quella di “transazione”.Per Cattaneo, dunque, “la storia procede per con-tinue transazioni, e poiché le combinazioni possi-bili sono pressoché infinite, il corso storico è arti-colato, movimentato, vario, imprevedibile”(Bobbio 1975, 26). In conclusione, secondoCattaneo l'elemento centrale del dinamismo stori-co (sociale, politico, culturale) è “l'aumento delleconoscenze scientifiche e delle applicazioni tecni-che” (Bobbio 1975, 31); per questa ragione pro-gresso scientifico e progresso civile sono uniti inun nesso indissolubile. Ancora una volta Cattaneopuò, secondo Bobbio, costituire un saldo riferi-mento per elaborare una filosofia del riformismo,ossia un progetto per rinnovare la società italiana,“tanto facile, oggi, da criticare quanto poco, oggi eieri, imitato” (Bobbio 1975, 35).

Alcune valutazioniCattaneo contro la filosofia speculativa emetafisicaNella ricostruzione del pensiero di Cattaneo,Bobbio è stato sempre attento a stabilire un rappor-to tra gli orientamenti filosofici italiani e quelli euro-pei. Così, la rivalutazione della tradizione empiristi-ca anglosassone è stata paralllea alla ricerca dei filo-sofi empiristi presenti nella cultura italiana, sia purein posizione minoritaria, con ciò rivalutandone illavoro teorico e le proposte politiche. (È il caso diGiovanni Vailati, analogo a quello di Cattaneo, su cuiBobbio è intervenuto in più occasioni).È indubbio che Bobbio ci ha dato uno degli studipiù innovativi nella vasta letteratura su Cattaneo;egli ha disegnato un profilo in cui ritroviamo tutti imotivi fondamentali del pensiero cattaneano; inparticolare egli ha sottolineato il valore delle inda-gini filosofiche, con un privilegiamento, nelleLezioni luganesi, di quelle sulla logica che peròappaiono, oggi, non solo distanti dalla tradizioneempiristica (non accenna alla logica di Mill del1843), ma anche dai testi di logica ottocenteschi(Gangemi, La linea lombarda del federalismo,Roma 1999, 15 sgg.). La posizione di Cattaneo sullalogica richiama, piuttosto, i testi di logica dei posi-tivisti italiani che fecero parte della tradizione sco-

n.8 / 2004

44

Page 45: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Mario Quaranta Bobbio interprete di Cattaneo filosofo.

lastica post-risorgimentale, quando tale disciplinacostituì un capitolo accanto a quelli di gnoseologiae di etica.Bobbio ha sostenuto in modo persuasivo, attraver-so una puntigliosa analisi dei testi, che Cattaneo èuno dei maggiori filosofi dell'Ottocento, ed hadelineato una concezione dell'uomo e della natu-ra, che assegna alla razionalità scientifica e alle sueapplicazioni un ruolo decisivo nello sviluppo dellaciviltà moderna. Inoltre, Cattaneo è stato avversoalla sostituzione della storia della filosofia alla filo-sofia; nella Prolusione al corso di filosofia dichia-ra apertamente, in polemica con Cousin: “Non è laprima volta ch'io mi lagni […] perché si venissesurrogando alla filosofia l'istoria della filosofia(corsivo di C.) onde la semplice esposizione delvero cedette il luogo alla dotta e orgogliosa confu-tazione delle teorie” (Cattaneo, Scritti filosofici let-terari e vari, Firenze 1957, 115). La sua teoria dellaconoscenza è di tipo empiristico, basata su quella“psicologia delle menti associate” che costituisce il“cuore” teoretico di Cattaneo filosofo, da cuidiscendono varie conseguenze; la più importanteriguarda la teoria della conoscenza.Se può, infatti, avere senso tentare una riduzionedella conoscenza ad un processo esclusivamenteindividuale, quando si concepisce il conoscerecome atto essenzialmente intuitivo, ossia un attoche consiste in un'immediata percezione dellaverità nella mente di un singolo, un tale termineperde ogni senso quando la conoscenza si presen-ti, come in Cattaneo, come un processo sociale,collettivo. Una posizione, questa, che ha avuto suc-cessivi, importanti sviluppi. Oggi, molto più chenell'Ottocento, lo scienziato e l'epistemologo sonoconsapevoli che la conoscenza scientifica si reggenon soltanto sulla singola opera di ricerca ma suun'ampia eredità di nozioni, concetti, principi, teo-rie; insomma, su elaborazioni che sono state tra-mandate dagli scienziati precedenti. La stessanecessità di rimettere continuamente in discussio-ne i fondamenti e il significato della scienza tradi-zionale, è la prova più sicura della collaborazionefra noi e i nostri predecessori che si attua nellaricerca scientifica.Nella riflesione filosofica di Cattaneo, che fu costan-

te negli anni, ci sono osservazioni, messe a puntoteoriche, valutazioni, posizioni, di grande acutezzae modernità non sempre adeguatamente valutate.Si deve convenire che la lettura dei suoi scritti indu-ce naturaliter a considerare alcune di queste ideeprecorritrici di ciò che hanno sostenuto pensatorisuccessivi (ma Bobbio indulge poco o nulla alla ten-tazione precursorista), e ciò è uno dei motivi del-l'interesse che rilevano, ieri come oggi, i lettori diCattaneo. Basterà qualche riferimento, trascelto trai molti possibili, su cui si è soffermato FerruccioRossi-Landi nelle sue lezioni universitarie padovanemolti anni fa, durante le quali accostava certi testifilosofici di Cattaneo e di altri filosofi italiani, alleanalisi logico-linguistiche oxoniensi.Ad esempio, Cattaneo sembra precorrere GeorgeE. Moore sui fondamenti della morale (un argo-mento, quello morale, perlopiù trascurato dai cat-taneisti), quando afferma: “Codesto sacro sensodell'intima responsabilità, da cui scaturisce ognimagnanimo e virtuoso pentimento, non può dun-que riposare se non sopra ‘un fatto di coscienza,indivisibile dalla moralità, e inesplicabile al paridella moralità’” (Cattaneo 1957, 88). Oppure: “Leradici della morale sono adunque a cercare nelseno stesso delle esperienze sociali, e nel fondodelle attitudini e delle aspirazioni umane. La virtùè una poesia, e la morale una irresistibile rivela-zione del cuore” (corsivo di C.) (Cattaneo 1957,88). E come non scorgere un richiamo al pragma-tismo in questa affermazione: “La prova dellamorale che s'insegna, sta ne' suoi effetti sui fattiquotidiani e la buona fama e la prosperità deipopoli a cui s'insegna. [...] La nazione più vicinaalla verità sarà la nazione che più onora la scienza,la probità, la giustizia” (Cattaneo 1957, 10). Infine,nel saggio Su la “Scienza Nova” del Vico, si puòrintracciare la formulazione di uno storicismoveramente integrale fatto di descrizioni. “E mestie-ri descrivere (corsivo di C.) per quali modi avven-ga che tanta parte della terra rimane ingombra diselvaggi” (Cattaneo 1957, 91). La sua critica al“sommo errore” di Vico, che consistette nel “volerrinvenire anzi tempo ripetizioni e similarità pressotutte le genti” (Cattaneo 1957, 90), è integrata daun'analisi dello “sviluppo delle variazioni (corsivo

45

Page 46: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

di C.) storiche” (Cattaneo 1957, 90) contro la ten-tazione di ridurre ad un solo principio la spiega-zione delle vicende storiche.In questo caso, Bobbio ha colto nel segno nell'indi-care i limiti fondamentali che secondo Cattaneocaratterizzano la tradizione filosofica italiana. Il sag-gio Un invito alli amatori della filosofia del 1857 èconsiderato giustamente dagli studiosi, e anche daBobbio, la più limpida sintesi del pensiero filosoficocattaneano, che individua nella scienza l'evento cheha avviato una nuova era dell'umanità. In questoscritto ribadisce in termini nuovi alcune posizionidel suo pensiero; prima fra tutte, un rifiuto inequi-vocabile della tradizione speculativa e metafisica,nella persuasione, che in lui fu profonda, che taletradizione costituisse l'ostacolo fondamentale peruna valorizzazione delle scienze nella cultura e nellasocietà, e un uso razionale della tecnica: l'una e l'al-tra cardini del progresso sociale e civile.Vediamo alcuni riferimenti contro la filosofia, sidirebbe, "accademica e ufficiale" (Cattaneo 1957,104). Nello scritto Polemica contro AntonioRosmini, Cattaneo presenta Locke come il filosofoche “scotendo le tradizioni su le quali riposava unaboriosa inerzia, riaperse il campo allo studio del-l'uomo interiore e all'istoria dell'intelletto”(Cattaneo 1957, 16). Egli sottolinea il permanentedisaccordo che esiste all'interno delle “scole metafi-siche”, che crea un generale discredito nei loro con-fronti, perchè “ogni intelletto il quale appena si levicon qualche potenza, inaugura le sue dottrine coldistruggere le dottrine altrui” (Cattaneo 1957, 88).Cattaneo dichiara apertamente, richiamandosiall'insegnamento del suo maestro Gian DomenicoRomagnosi, di voler “mostrare a che fini serva ainostri giorni la coperta della metafisica e di qual-che altra cosa più venerata” (Cattaneo 1957, 21).Egli è, dunque, contro “il martello ontologico” (ilriferimento è a Rosmini) che fa cadere in polvere“le dottrine della libertà morale e della responsabi-lità” (Cattaneo 1957, 87), e propone un “ritornoalla feconda via dell'esperienza” (Cattaneo 1957,84). La critica all'ontologia è una ‘costante’ del suopensiero: “L'ontologia, dichiara, fu veramente lapietra filosofale della scienza”; ciò significa, primadi tutto, che occorre avviare una ricerca delle idee

“dell'uomo associato” anziché, come ha in generefatto la tradizione, “dell'uomo individuo”(Cattaneo 1957, 108). E una delle caratteristichefondamentali della scienza è appunto di essere ilprodotto più alto dell'uomo associato. Infine,un’altra categoria centrale è quella di “transazio-ne” che “esclude il concetto di sistema” (Cattaneo1957, 96), e consente di dare una soluzione al cru-ciale problema dei rapporti tra continuità e rottura(tra riformismo e rivoluzione) nella storia.

Cattaneo positivista?Uno degli argomenti più controversi è la colloca-zione storica di Cattaneo; non è un argomentoperegrino, perché secondo che si consideri unpositivista o un illuminista o un “idéologiste” (que-sto è il mio parere), o altro ancora, s'istituisconoconfronti, filiazioni e continuatori. La stessa ric-chezza, ora segnalata, del suo pensiero, che si pre-sta senza troppe forzature a indicare un'attualitàstretta con il pensiero contemporaneo, sottolineale difficoltà a inserirlo in una precisa corrente filo-sofica. C'è chi l’ha considerato un precursore delpositivismo (Giuseppe Tarozzi) o fra i primi positi-visti (Ludovico Limentani, Giovanni Gentile, LuigiBulferetti, Alesandro Levi); c'è chi l’ha ritenuto l'ul-timo illuminista lombardo (Franco Alessio), e chiha riscontrato in lui una fusione di positivismo, illu-minismo e storicità (Mario Fubini); altri l’ha collo-cato, o fra gli empiristi (Ludovico Geymonat), oentro il positivismo sociale (Nicola Abbagnano), otra “umanesimo e positivismo” (Palo Rossi), mentreFerruccio Focher l’ha presentato come un filosofodella storia e Fabio Minazzi un illuminista in sinto-nia con la lezione kantiana. Antimo Negri, senza piùattardarsi in un confronto fra Cattaneo e Ardigò, sucui ha insistito certa storiografia positivistica e idea-listica, ha inserito a pieno titolo Cattaneo nella tra-dizione positivistica italiana, nella convinzione chequesta non è riducibile al pensiero di Ardigò, macomprende molte e diverse voci. Egli ha considera-to il saggio di Cattaneo, Invito alli amatori dellafilosofia, “il manifesto del positivismo italiano”, sot-tolineando la consonanza di molte riflessioni meto-dologiche e posizioni filosofiche di Cattaneo conquelle del positivismo posteriore.

46

Page 47: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Mario Quaranta Bobbio interprete di Cattaneo filosofo.

Il fatto è che Cattaneo è vissuto troppo tardi peressere un autentico illuminista ed è scomparsotroppo presto per essere un positivista; ma ciò nondeve indurci ad attribuirgli un ruolo secondario omarginale nella storia del pensiero italiano, comepure è stato fatto. Indubbiamente egli non fu unpositivista a l'Ardigò, per quel tanto di metafisicache permase nel filosofo mantovano; come haaffermato Alessio, Cattaneo ha rifiutato di “elevarela ragionevolezza dell'uomo su di un piano dirazionalità assoluta” (Cattaneo 1957, XLV); ma èaltrettanto certo che fu un anticipatore di certiconcetti del positivismo.Nell'idéologiste Cattaneo si possono rintracciaredue idee-guida che si ritroverranno nel positivi-smo: il progetto di una scienza della società, e unrapporto stretto tra scienza e filosofia, filosofia cuiegli riconosce una sua autonomia e che collegadirettamente alla scienza, caratterizzandola come“nesso commune di tutte le scienze” (corsivo di C.)(Cattaneo 1957, 104). Egli è contro i “vanagloriosiidealisti” che disputano solo “su le fila primilaridella scienza” (Cattaneo 1957, 37), costringendocicosì a “passare la vita cogli occhi incessantementeconfitti nelle buie profondità del dubbio” (Cattaneo1957, 37); li critica sia per il loro “sfrenato disprez-zo dei fatti” (Cattaneo 1957, 34), sia per l'antistori-cismo della metafisica che si riscontra nella tradi-zione che da Platone giunge a Kant e oltre, dove“fra le dottrine e il fatto dell'uomo, si spalanca unabisso incommensurabile” (Cattaneo 1957, 44).Inoltre, fa parte della sua concezione della storia ilduplice rifiuto della “solitudine della coscienza”(Cattaneo 1957, 44) di Cartesio, la quale c'impedi-sce di scoprire “quelle tante trasformazioni a cuil'uomo soggiace” (Cattaneo 1957, 45), e la dottrinadi Cousin (tratta da Hegel) “che le filosofie rappre-sentassero i tempi” e che il genio è “l'interprete delsuo popolo ed è grande perchè lo rappresenta”(Cattaneo, 1957, 68). Egli rifiuta ciò perchè “s'ègenio di originalità, lo precede; [...] s'è genio diperfezione, lo supera" (Cattaneo 1957, 69).La posizione di Bobbio si differenzia da quellesopra elencate: “La verità, afferma, è che ilCattaneo, come non fu né positivista né razionali-sta, non fu nemmeno storicista, ma soprattutto

storico, scienziato della storia” (Bobbio 1971, 8).Una storia intesa come “scienza descrittiva, dun-que, e non metafisica ipotetica o scienza speculati-va” (Bobbio 1971, 8). E nei suoi saggi, Bobbio ci hadato un’analisi persuasiva della concezione chedella storia ebbe Cattaneo, da lui definita post-positivista e post-romantica, ossia contraria a ogniprovvidenzialismo (religioso o laico) e a ogninecessarismo, e perciò non conciliabile con il posi-tivismo comtiano e con il romanticismo, ma chetiene conto sia della positività dei fatti accertati, siadel valore della tradizione. “Altri frantesero la giu-stificazione istorica del passato, e vi supposero lanecessità di ritornare le cose ai loro principi; evanamente additarono, come meta ad un viaggioretrogado dell'umanità, ora l'una ora l'altra delleetà consumate. In mezzo a queste aberrazioni, ipiù veggenti sanno congiungere la fiducia nel pro-gresso alla paziente accettazione delle lente e gra-duate sue fasi, e alla critica proporzionale e perse-verante, ch'è pur necessaria a promuoverlo"(Cattaneo 1957, 42),Un'ulteriore conferma della concezione anti-romantica della storia di Cattaneo, si può indivi-duare nell'uso della categoria di “infinito” che ètipica dell'ideologia romantica, che trasvaluta ilconcetto illuministico di storia, in svolgimento diun principio infinito variamente chiamato Spirito,Umanità, Io, senza che muti la categoria logica,comune sia allo storicismo idealistico, sia al positi-vismo comtiano, sia all'evoluzionismo sociale.Questa concezione della storia e del progressocome sviluppo di un principio “infinito” eclissa,infatti, il senso dialettico (di “transazione”, nel lin-guaggio cattaneano) dell'opposizione di tradizionee ragione, di presente e passato, di progresso econservazione, in un rapporto di “evoluzione",come nella formulazione del romanticismo, deltradizionalismo ottocentesco e dell'idealismo. Intutti questi movimenti c'è un'interdipendenza deiconcetti di società, organicità, tradizione, associatia quel che comunemente è l'atteggiamento“romantico”. Atteggiamento che possiamo caratte-rizzare con diverse categorie: sentimento, fede,impulso vitale, religiosità, misticismo; tutte richia-mano verità ineffabili, ossia non comunicabili.

47

Page 48: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

48

Ebbene, Cattaneo è del tutto estraneo a questaconcezione della storia e del progresso, e in piùoccasioni l’ha criticata apertamente.

La razionalità scientifica in CattaneoUn altro aspetto cui Bobbio attribuisce una notevo-le importanza è l'affermazione, di Cattaneo, dellacrucialità della razionalità scientifica nella civiltàmoderna, su cui è opportuno soffermarsi.Cattaneo, riprendendo nel 1859 la pubblicazionedella rivista “Il Politecnico”, che fondò nel 1839 ediresse fino al 1844 (e poi fino 1865), ribadì nellapremessa le sue idee sulla scienza e sul ruolo cheessa ha nel processo di modernizzazione dellasocietà. La nuova serie iniziò in un momento in cuil'Italia stava avviandosi verso l'unità, e Cattaneoaffermò in modo inequivoco il ruolo guida che lascienza deve avere in tale processo di unificazionedel Paese e nella costruzione della nuova Italia.Nella prefazione al quinto volume (1842) della stes-sa rivista aveva affermato: “Nelle presenti condizio-ni delle nostre lettere nessuna cosa possa tornartanto giovevole quanto il promovere a tutto poterela cultura delle scienze” (Cattaneo 1957, 699).Secondo Cattaneo, la razionalità scientifica ha uncarattere sociale perchè “l'atto più sociale delliuomini è il pensiero” (corsivo di C.), afferma nellaquinta lezione della Psicologia delle menti asso-ciate, il suo capolavoro filosofico. In altri termini,la razionalità scientifica non è presente solo nellescienze “forti”, ma caratterizza tutte le attività del-l'uomo, come la legislazione e la stessa arte milita-re. E ciò non deve stupire; Cattaneo è stato unodei protagonisti del '48; ha avuto un ruolo decisivoa Milano, la città che assieme a Venezia è stata all'a-vanguardia di quei moti. Egli considera l'organizza-zione militare lo strumento fondamentale dellarivoluzione democratica nazionale, in base appun-to all'esperienza milanese. Un'esperienza la qualel’ha persuaso che l'esercito popolare è fondamen-tale e che occorre recuperare tutta la tradizionemilitare italiana.Egli sostiene che “la scienza è forza”, ossia ha laforza della ragione capace di sottomettere tutte lesuperstizioni, e contemporaneamente avviarel'Italia verso la modernità economica e politica. La

scienza costruisce ponti, navi, ferrovie, mentre lafilosofia fondata sull'esperienza secondo l'insegna-meno di Bacone e Locke, è alla base delle costitu-zioni della borghesia vittoriosa sul mondo del pas-sato, uscite dalle rivoluzioni francese e americana.La scienza è poi il luogo dei dibattiti e dei confronti;nella comunità scientifica ci sono sì contrasti, ma“vince” chi esprime il pensiero più forte e persuasi-vo. Il criterio di valutazione delle idee non è mera-mente politico o ideologico, si direbbe oggi, ma,appunto, eminentemente conoscitivo e pratico. Lascienza, infatti, deve essere applicabile alla vita; essaha stabilito una feconda alleanza con la tecnicasenza venire meno al suo scopo conoscitivo, e ciòl'abilita ad essere il motore dello sviluppo del Paese.La forza (conoscitiva e pratica) della scienza scatu-risce dalla sua stessa struttura; essa è un fattosociale perchè la conoscenza (comune e scientifi-ca) è tale fin dall'origine. “La sensazione nell'espe-rienza umana”, afferma nella quarta lezione dellaPsicologia delle menti associate, “non è dunquenudo scontro del soggetto cogli oggetti, non è unfatto puro; fin dai suoi primordi è un fatto sociale”.Un'affermazione che va accostata all'altra:“All'elaborazione della scienza non basterebbero,dunque, tutte le facultà dell'intelletto, se l'uomonon fosse già per istinto di natura un essere socia-le”. Alla stessa conclusione Cattaneo giunge esami-nando lo sviluppo dell'uomo; contro l'idea di una“solitudine del neonato in faccia alle cose”(Cattaneo 1957, 108), egli afferma che “l'infantenon procede mai da solo, ma segue una scortaadulta e sicura”, la madre, la quale a sua volta nonè “un essere isolato” (Cattaneo 1957, 109). La con-clusione cui perviene è che “ogni idea dell'infantenon è dunque l'opera di una mente solitaria, ma dipiù menti associate” (Cattaneo 1957, 109). Giànella prima lezione aveva chiarito che “una neces-sità della costruzione scientifica [è] ch'essa surganel seno d'una società, anzi di molte società”. Inconclusione, lo sviluppo della scienza, è “qualcosadi procedente anch'esso dalla natura comune del-l'uomo, ma che si accompagna all'alterno e varioritmo di ascesa e di oscuramento della vita dellasocietà e dei loro intrecciati rapporti” [Cattaneo1957, XLVII).

Page 49: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Bobbio interprete di Cattaneo filosofo.

49

Dal momento che la razionalità scientifica è sem-pre un fatto sociale, lo scienziato vive, lavora e pro-duce in una comunità scientifica. Egli è pertantoconsapevole di non poter risolvere, da solo, tutti iproblemi sempre più complessi che emergononelle varie discipline, anche se è altrettanto consa-pevole di poter (e dover) contribuire alla loro solu-zione. Questa concezione della scienza comeespressione e prodotto di una comunità scientifi-ca, insieme alla sua dimensione storica, è unindubbio motivo di attualità del pensiero diCattaneo; un motivo che peraltro non mi sembrasia stato adeguatamente tematizzato da Bobbio.Oggi, ancor più che nell’Ottocento, lo scienziato sache la propria conoscenza scientifica si regge nonsolo sulla sua singola opera di ricercatore, ma che

opera entro un’eredità di nozioni, concetti, teorieche gli sono state trasmesse dagli scienziati prece-denti. La stessa necessità di rimettere in discussio-ne i fondamenti e il significato della scienza, è laprova più sicura della necessità di una collabora-zione fra scienziati odierni e quelli delle generazio-ni precedenti, che si attua, appunto, nella cono-scenza scientifica. Ed è proprio questa collabora-zione che sta alla base della fiducia di Cattaneo nelprogresso scientifico. Un progresso che non ègarantito da nessuna legge della storia, né da unfondamento assoluto della ragione, ma è affidatoagli uomini, alle loro decisioni di continuare a lot-tare perché la forza rischiaratrice della ragione,ossia la filosofia, raggiunga via via traguardi semprepiù avanzati per costruire una società in cui gliuomini possano vivere una vita felice.

([email protected])

Mario Quaranta

Page 50: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

50

Page 51: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Il postfordismo come chiave di lettura del capitalismo contemporaneoNel corso di questo articolo vorrei sviluppare qualche riflessione critica sul post-fordismo. Si tratta di un concetto in cui ci si imbatte quasi inevitabilmente nell’a-nalizzare i caratteri e le sorti del capitalismo contemporaneo. Molte delle recentianalisi sull’economia, le organizzazioni ed il lavoro fanno riferimento alla fine diun’epoca, i cosiddetti “gloriosi trent’anni” del capitalismo, ed alla corrispondenteapertura di una nuova fase. Il postfordismo ne risulta la principale chiave inter-pretativa. Una chiave interpretativa molto in voga e, forse anche per questo, sfug-gente e scivolosa. Segue infatti le sorti di molti altri concetti che, quanto più ven-gono applicati dagli analisti sociali, tanto più si riempiono di contenuti e diventa-no difficili da trattare. Di fronte a tali difficoltà è quasi fisiologico che vengano usatiapoditticamente e che risultino delle specie di black box concettuali. Partendo datale constatazione, cercherò di aprire la “scatola” del postfordismo, in particolareverificando in che misura e con quali conseguenze tale concetto sia costitutivo diun nuovo paradigma, ovvero dia vita ad un quadro relativamente organico di feno-meni, tra loro interdipendenti, venendo in nostro soccorso allorquando cerchia-mo di ridurre la complessità che segna l’attuale momento del capitalismo. Una complessità che si impone a noi e che rischia di spiazzarci cognitivamente,non solo quando osserviamo i processi generali (le economie internazionali enazionali, le istituzioni di regolazione), ma anche quando analizziamo le dinami-che più micro e “localizzate” (i settori economici, le organizzazioni, i processi diproduzione, i sistemi territoriali, i rapporti competitivi tra imprese, ecc.). Talescarsa intelligibilità è la conseguenza di quella che Lash e Urry (1987) hanno chia-mato “la fine del capitalismo organizzato”, ovvero la fine di quella fase nella qualeistituzioni fortemente inclusive ed universaliste (non solo lo stato-nazione, congli strumenti di regolazione keynesiana e le politiche di welfare state, ma anchele grandi imprese a conduzione manageriale, le banche centrali, i partiti ed i sin-dacati di massa, ecc.), avevano accumulato una capacità incrementale di regola-zione, controllo ed indirizzo dell’economia di mercato. L’impressione è che talecapacità sia venuta sostanzialmente meno. Da questo punto di vista, suonanorivelatrici le parole utilizzate da Adriano Sofri (2003), in un recente incisivo inter-vento. Questi ha infatti evidenziato la progressiva degradazione del capitalismo,

51

Gabriele Blasutig

Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

Borderline

Page 52: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

trasformatosi in un “enorme guazzabuglio”, frutto dell’agire quasi casuale di inte-ressi dispersi, parziali e miopi, privo delle caratteristiche che consentirebbero diparlarne come di un “sistema”, di cui si possa riconoscere qualche base di razio-nalità; in virtù di tale sua irrazionalità di fondo, il capitalismo contemporaneo cistarebbe conducendo “sulle soglie della rovina universale” (Sofri 2003).Non tutti sarebbero naturalmente disposti a sottoscrivere tali immagini estreme.Tuttavia non credo si possa negare che esse, in qualche modo, testimonino unacondizione diffusa di spaesamento di fronte agli sviluppi, soprattutto recenti,delle economie di mercato. Basti osservare quanto viene rappresentato dallestesse cronache economiche quotidiane. Emergono contraddizioni difficili dadecodificare e comporre. Rileviamo tendenze di segno opposto, a stento conci-liabili, il cui rapporto conosce un andamento ondivago e discontinuo. Tali ten-denze riguardano, ad esempio, il rapporto tra apertura e chiusura degli scambiinternazionali; tra accentramento e decentramento produttivo, tra sistemi digrande e piccola impresa, tra processi di qualificazione e dequalificazione dellavoro, tra concezione finanziaria e concezione produttivista dell’azione impren-ditoriale, tra centralità e marginalità del lavoro nei sistemi di valore. Colpiscono,inoltre, le manifestazioni di instabilità dei sistemi, l’intensificazione delle oscilla-zioni a cui questi sono sottoposti, il profilarsi di crisi radicali, spesso improvviseed impreviste, che generano effetti a cascata, con eventi tellurici di vasta porta-ta, che si scaricano in particolare nei mercati dei capitali. Tale situazione di complessità, evidentemente, costituisce un terreno analitico fer-tile per l’utilizzo di paradigmi, come quello fondato sul concetto di postfordismo,che permettono di dare un senso ad una situazione apparentemente caotica. Essiconsentono infatti di identificare i processi fondamentali e gli “attrattori evolutivi”(Rullani 1998, 32), ovvero le forze basilari che fungono da collettori della com-plessità, segnano gli orizzonti e le direzioni di marcia delle traiettorie multipleche attraversano i sistemi. I paradigmi, quindi, sembrano costituire un supportofondamentale per l’analista che cerca di costruire quadri interpretativi, in parti-colare nei momenti di transizione qual è l’attuale. Ma essi divengono fondamen-tali anche come basi cognitive per l’azione, in particolare per chi, come ad esem-pio le imprese, ha la necessità di “afferrare” cognitivamente la realtà, elaborandoazioni dotate di senso all’interno di ambienti o campi operativi di per sé inde-terminati o, comunque, suscettibili di strutturazione. L’uso dei paradigmi diven-ta quindi una sorta di rifugio cognitivo a cui sembra difficile poter rinunciare1. Tuttavia, nel momento stesso in cui si utilizza un concetto come quello di post-fordismo, alzando anche di poco il grado di riflessività rispetto agli schemi inter-pretativi utilizzati, sorge un senso di insoddisfazione, non sempre facile da espli-citare e comprendere. Per molti tale insoddisfazione si lega al fatto che il para-digma fondato sul concetto di postfordismo risulta poco definito. Secondo taleprospettiva, come argomenta Rullani, abbiamo a che fare con un “paradigmaemergente, ricco di potenzialità, ma ancora abbastanza indeterminato” (1998,11). L’uso del prefisso post ne segna fatalmente il destino. Tale concetto rischiainfatti di essere povero di significati propri, perché, come ricorda Rullani, “com-prende residualmente una congerie di fenomeni eterogenei, non integrabili traloro se non per il fatto che risultano dalla crisi del fordismo” (Rullani 1998, 11).Il postfordismo viene quindi considerato da taluni un concetto debole: incapace

52

1 A questo proposito,Rullani si riferisce aconcetti come quellodi fordismo o di post-fordismo come “rego-latori selettivi dellacomplessità”. Piùestensivamente eglisostiene che “la com-plessità dell’esperien-za non sarà mai esau-rita da uno schemaastratto come quelloche si organizza attor-no a pochi grandimodelli. Nella tramatessuta dalla storiareale ci sono infattimolti più fili, moltipiù disegni, molti piùcolori di quanti sianorappresentabili dauno schema che ordi-na gli eventi soltantoin funzione di unparadigma e del pas-saggio dall’uno all’al-tro. Un paradigmaeconomico, nellanostra accezione, nonpretende di rappresen-tare, nemmeno inmodo stilizzato, l’in-sieme di questi eventi.Piuttosto, esso deveessere visto come unriduttore intelligentedella complessitànaturale e sociale, cheviene selezionata daun filtro cognitivo chela orienta nella pro-duzione del valore”(1998, 30-31)

Page 53: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

di costituire un proprio spazio semantico strutturato, contenente soltanto ele-menti “di risulta” del paradigma precedente. Non definirebbe pertanto un nuovoparadigma, nel senso “forte” discusso poc’anzi. Risulterebbe preclusa la possibi-lità di attribuire al capitalismo contemporaneo una “struttura riconoscibile ecoerente” (Rullani 1998, 13). L’immagine risultante accoglierebbe “tutti i possi-bili elementi di disordine, instabilità, incoerenza” (Rullani 1998, 13). Come evi-denziato da Revelli, il capitalismo contemporaneo rifletterebbe “il carattere pro-teiforme, mutevole e inafferrabile” proprio del fumo, in rapporto alla geometrialineare, alla razionalità ed all’ordine strutturale proprio del cristallo, a cui è para-gonabile il precedente modello fordista (Revelli 1997, 69). Di conseguenza, ilpostfordismo, anziché ridurre la complessità a cui si è fatto accenno poc’anzi, nerisulterebbe un semplice riflesso.Ragionandoci un po’ su e ripercorrendo rapidamente le tante riflessioni teoricheelaborate attorno all’argomento, sorge qualche dubbio circa la tesi dell’indetermi-natezza testé richiamata. Non si può infatti disconoscere che il postfordismo siastato progressivamente riempito di contenuti semantici e che tali contenuti si sianoin qualche modo strutturati ed ordinati attorno ad alcuni elementi coagulanti. Nona caso, in tempi recenti, il concetto ha “figliato” nuove denominazioni, come quel-le di capitalismo reticolare (Rullani 1998), capitalismo molecolare (Bonomi1997), capitalismo globale (Gilpin 2002), capitalismo informazionale (Castells2002), new economy (Rifkin 2000). Tali tentativi di dare un nome al postfordismo,identificandone gli assi portanti, riflettono lo sforzo di connotarlo, di qualificarlo,di definirne in positivo la natura e le principali proprietà. E, a prescindere dalladiversa valutazione in ordine alla primazia da attribuire all’uno o all’altro caratte-re o fattore costitutivo, confrontando le diverse griglie interpretative presenti inletteratura, si possono riscontrare ampie analogie e aree di sovrapposizione.

Le proprietà del postfordismoPossiamo cercare di declinare, in maniera necessariamente stilizzata, le principa-li proprietà del postfordismo, ovvero le “parole chiave” che coprono buona partedello suo spazio semantico, gli elementi coagulanti di tale paradigma.La prima proprietà è rappresentata dai processi di globalizzazione. Questo con-cetto è solo apparentemente generico. In realtà esprime un’idea precisa edimplica un effettivo salto di qualità rispetto alla tradizionale concezione interna-zionalista dell’economia. Il capitalismo diviene globale o globalizzato, quando leinterconnessioni e le interdipendenze dei flussi di merci e capitali, nonché deiflussi di tecnologia e conoscenza, risultano tanto forti da dettare il passaggio daun assetto inter-nazionale dell’economia ad una struttura di tipo trans- o meta-nazionale (Galgano 1993): quindi, tale da definire un “mercato unico globale” oun’unica “economia-mondo”, per richiamare la nota formula di Wallerstein(1979). Per quanto riguarda i processi produttivi, ciò implica la costituzione diquelli che sono stati definiti reticoli (o catene) globali (o transterritoriali) dellaproduzione (o del valore) (Geraffi 1994, Reich 1993, Revelli 1997). Per quantoriguarda i movimenti di capitale, l’idea di capitalismo globale sottende, oltre aun’intensificazione degli scambi, il passaggio dal finance-capital al money-capi-tal (Lash e Urry 1987, 201-209; cfr. anche Galgano 1993), ovvero da una situa-zione in cui i circuiti di capitale finanziario erano prevalentemente nazionali,

53

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

Page 54: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

anche per un’impronta nazionale delle business communities, ad una situazionein cui il capitale diviene fortemente mobile, apolide, autoreferenziale e sensibi-lissimo rispetto alle variazioni, anche minime, dei margini attesi di profittabilità.Il capitale è così uscito fuori dal raggio di influenza e controllo delle complessearchitetture istituzionali operanti nella precedente fase del capitalismo.La seconda proprietà riguarda l’applicazione diffusa delle tecnologie dell’infor-mazione (computer, software, macchine utensili a controllo numerico, stru-menti telematici e delle telecomunicazioni, ecc.). Tali tecnologie hanno cambia-to in maniera radicale il quadro precedente, perché hanno consentito di accre-scere enormemente le capacità di elaborazione e comunicazione delle informa-zioni (Castells 2002). Attraverso le nuove tecnologie, la conoscenza si applica “aidispositivi per la generazione della conoscenza” e si viene a creare “un ciclo difeedback cumulativo tra innovazione e usi dell’innovazione” (Castells 2002, 32)2.Vengono pertanto accorciati i cicli di innovazione (di processo e di prodotto) evengono ampliati i margini di flessibilità disponibili per i sistemi produttivi.Inoltre, cresce enormemente l’interconnettività nei e tra i sistemi. Ciò consentenon soltanto di abbattere le barriere spazio-temporali nella comunicazione, maanche di accrescere le opportunità di produzione di valore attraverso “la crea-zione di infinite connessioni tra campi diversi, nonché tra elementi e agenti ditali attività” (Castells 2002, 83). Tutto questo si combina con un’ulteriore pecu-liarità della rivoluzione tecnologica in corso: la sua pervasività, sia settoriale chefunzionale, grazie alla quale viene accresciuta in maniera generalizzata la pro-duttività del lavoro (Castells 2002; Rifkin 1995).Una terza fondamentale proprietà del postfordismo è l’accoppiamento tradomanda ed offerta che si traduce nell’imperativo della flessibilità per le orga-nizzazioni economiche e sociali. Tale proprietà emerge da un radicale riassettodei rapporti di mercato. Il regime di accumulazione fordista era fondato su un’i-dea di produzione in grado di imporsi sul mercato. Ciò significava, in prima bat-tuta, la “creazione” del mercato stesso, attraverso l’innesco di economie di scalache consentivano di aprire e diffondere il consumo di un crescente numero dibeni, concepiti, realizzati e venduti come beni di massa (Revelli 1997, 41;Accornero 1997, 41). In secondo luogo, l’imporsi della produzione sul mercatoera legata alla necessità, derivante dalle stesse economie di scala, di standardiz-zare e stabilizzare i processi produttivi. Per addivenire a tale risultato, si dovevanecessariamente allentare le interdipendenze con il mercato (Rullani 1998, 48).Non per nulla Galbraith, in The new industrial state (1977), uno dei testi “uffi-ciali” della grande impresa manageriale, ha evidenziato il costante sforzo di sov-vertire la “sovranità” del consumatore, di disaccoppiare la produzione dal mer-cato, rendendo così il sistema più simile ad un’economia pianificata che ad un’e-conomia di mercato canonicamente intesa (Galbraith 1977, 7). Nel postfordismoil principio appena enunciato viene sovvertito. Come dice Accornero: “i fabbri-canti sono nelle mani della clientela” (1997, 69). Il successo competitivo ottenu-to dalle imprese dipende dal grado di “accoppiamento” con i mercati, ovverodalla capacità di sincronizzazione dinamica della produzione con il consumo(Mariotti 1994, 41). Il tutto si traduce nel principio del just in time, dato ormai perscontato nei testi di economia aziendale: produrre nel momento, nella quantità enella qualità richiesta dai clienti. Se l’impresa fordista “creava” i propri mercati di

n.8 / 2004

54

2 In termini del tuttoanaloghi si è espressoPeter Drucker, ilquale evidenzia l’ele-mento rivoluzionariorappresentato dallaconoscenza che siapplica alla stessaconoscenza e non soloal processo ed al pro-dotto (1993, 38).Parimenti Lash e Urry,parlano di una cono-scenza “riflessiva” laquale “opera attraver-so non una singolama una doppia erme-neutica, nella quale lenorme, le regole e lerisorse del processo diproduzione vengonocostantemente riconsi-derate e rivalutate”(1994, 61).

Page 55: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

massa, l’impresa postfordista “crea” i propri mercati altamente differenziati, fron-teggiando “a viso aperto” una domanda instabile, volatile ed imprevedibile. La fles-sibilità può pertanto essere intesa come la capacità di “correre sul filo” della varie-tà. Essa consiste non solo nella capacità di adeguare continuativamente il binomioprocesso-prodotto, in termini quali-quantitativi, ai differenziati profili delladomanda, ma anche di riconoscerne ed inseguirne le tracce minori, i segnali debo-li, anticiparne le dinamiche; adottare quindi strategie di anticipazione che retroa-giscono sui mercati e ne alimentano la turbolenza e la complessità. In seguito a taliprocessi la struttura competitiva risulta molto più aperta rispetto al passato. Ilsistema competitivo esercita pertanto una forte pressione per la riduzione delleridondanze tipiche del fordismo ed una notevole intensificazione dei regimi difunzionamento dei sistemi produttivi, a cominciare dall’accorciamento dei tempidi produzione ed erogazione dei beni e servizi3. Con la flexible production tornain auge il mercato tradizionalmente inteso e con esso la funzione imprenditorialeconcepita nel senso attribuito da autori come Schumpeter, Knight e von Hayek,come capacità di innovazione o assunzione di rischio, in luogo di una concezionedell’imprenditorialità, di accezione più weberiana, legata alla funzione di combi-nazione (organizzazione, programmazione, controllo) dei fattori di produzione.Un’ulteriore proprietà concerne l’assetto reticolare delle organizzazioni eco-nomiche, a cui si riferiscono le definizioni – largamente condivise e diffusamen-te richiamate – di capitalismo reticolare (Rullani 1998), capitalismo molecola-re (Bonomi 1997) o network society (Castells 2002). Tali definizioni corrispon-dono al passaggio da strutture organizzative meccaniche, di forma piramidale efortemente integrate, a strutture organiche, decentrate e reticolari (Butera1990). Questa tendenza si produce attraverso due percorsi paralleli. Il primoriguarda lo sviluppo dei reticoli per via interna alle organizzazioni: adozione diconfigurazioni organizzative di tipo matriciale, allentamento della divisione dellavoro verticale ed orizzontale, sburocratizzazione, “appiattimento” e “snelli-mento” delle strutture organizzative, decentramento del potere decisionale(Hecksher, Donnellon 1994). Le ricadute sono notevoli, in particolare rispettoalla gestione delle risorse umane. Queste risultano valorizzate, in chiave di arric-chimento e qualificazione dei contenuti di lavoro; per altri versi, sono chiamatead un coinvolgimento crescente, per effetto di un processo di diffusione orga-nizzativa della funzione imprenditoriale (professionalità, responsabilità decisio-nale ed assunzione di rischio) (Arthur, Rousseau 1996; Bonazzi 2002; Butera,Donati, Cesaria 1997; Rullani 1998). Il secondo percorso corrisponde allo svilup-po di reticoli per via esterna: le imprese tendono a snellirsi (lean production,lean management), a ridurre la propria sfera di controllo diretto, modulariz-zandosi e esternalizzando funzioni organizzative o fasi del ciclo produttivo, nonsolo in una logica di riduzione dei costi, ma anche per far leva su specializzazio-ni esterne, in primis di tipo cognitivo (Bonazzi 2002, 193-4; Dall’Agata 2002, 45;Rullani 1998, par. 6; Trigilia 1998, 376-8). Contemporaneamente, per quantoriguarda le piccole-medie imprese, le strategie di sviluppo si basano più sulla for-mazione di alleanze stabili che sulla crescita dimensionale per vie interne(Lorenzoni 1990). S’infittisce così la trama dei reticoli organizzativi, crescono lestrutture di governance intermedie tra il mercato e la gerarchia, dove i rapportiinstaurati non sono meramente commerciali, ma costituiscono delle strutture di

55

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

3 Dall’Agata parla effi-cacemente, al proposi-to, di “economie dellavelocità” (2002, 47)

Page 56: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

cooperazione relativamente stabili, ancorché non chiuse ed esclusive. Attraversoil funzionamento dei reticoli, i “campi organizzativi” raggiungono il massimo livel-lo di flessibilità. Il sistema è infatti soggetto a processi di autoregolazione, basatisu mix regolativi variabili tra scambio, autorità e reciprocità (Blasutig 2001, 147-155). Da ciò deriva una forte variabilità dei flussi di scambio all’interno dei reti-coli, essendo così massimizzata la capacità – mutevole nel tempo e nello spazio– di produzione di valore da parte delle risorse imprenditoriali diffuse (Rullani1998, 55-6). Anche in questo caso l’impatto sul mondo del lavoro è molto forte,specie se coniughiamo l’assetto reticolare dei sistemi economici con la loro fles-sibilità. Sono evidenti le forze che spingono il lavoro verso una crescente mobi-lità (tra settori economici, imprese e professioni), ma nel contempo generano ilpresupposto per una sua precarizzazione, con le conseguenze immaginabili sullecondizioni materiali di vita e sulle identità sociali (Bologna, Fumagalli 1997;Dall’Agata 2002; Sennet 2001). Si tratta di una questione molto dibattuta su cuitorneremo.Una quinta proprietà del postfordismo è l’immaterialità della produzione. Ilfondamento teorico di questo concetto è rappresentato dall’idea, che tanta for-tuna ha avuto nelle scienze sociali, di società post-industriale (Bell 1973;Touraine 1972). A ben guardare, l’idea di società post-industriale, così come for-mulata negli anni ‘70, esprimeva soprattutto elementi attribuibili alla fase matu-ra del capitalismo manageriale. In particolare, essa sottendeva l’importanza dellaprogrammazione e del controllo sistemico esercitati da tecnocrati, specialisti,ingegneri, chiamati ad applicare sistematicamente le conoscenze scientifiche. Maaccanto a questa idea di società ed economia “ingegnerizzata”, c’era altresì il rico-noscimento di un’ulteriore connotazione portante della fase post-industriale,ovvero la centralità della produzione immateriale (i servizi) in luogo della pro-duzione materiale, la centralità della qualità rispetto alla quantità. È questa l’ere-dità teorica che viene raccolta e sviluppata dal paradigma postfordista. I risvolticontenuti nell’idea di immaterialità sono molteplici, a cominciare dalla prepo-tente crescita del settore terziario, anche trascinata dallo sviluppo di servizi inno-vativi legati alla nuove tecnologie dell’informazione (Internet, software, prodottimultimediali, telecomunicazioni, ecc.). Più in generale, le componenti immate-riali (la dimensione qualitativa) contribuiscono alla produzione del valore moltopiù di quanto facciano quelle materiali (le quantità di lavoro, energia, materieprime, ecc.) (Borghi 2002, 36; Galli 1991, 13; Rullani 1998, 57-9). Le componen-ti immateriali riguardano, in primo luogo, la capacità di attagliare il bene offertoagli specifici bisogni dei consumatori. A tal fine, i rapporti con i clienti (interni edesterni) assumono una natura relazionale, che può manifestarsi prima della fab-bricazione (progettazione su misura) e/o dopo la vendita (consulenza, assisten-za). Inoltre, i beni materiali valgono vieppiù in funzione del loro valore simboli-co (capacità di sollecitare la sfera emotiva, estetica ed identitaria dei consumato-ri), più che per le intrinseche qualità tecniche e funzionali (Galli 1991, 15; Lash,Urry 1994, 13-16). Un ultimo risvolto dell’immaterialità è rappresento dall’altaintensità di risorse cognitive richieste per la produzione, a cominciare dagli inputdi intelligenza, conoscenza e creatività (supportati in maniera decisiva dai reticolicomunicativi precedentemente menzionati) che alimentano costantemente ilmotore dell’innovazione4.

56

4 Scrive a tal propositoRullani: “Nella produ-zione pienamente de-materializzata la verascarsità è quella delleidee: le buone ideesono poche, e difficil-mente distinguibili daquelle destinate all’in-successo. Il costo dellaproduzione, allora,non è tanto il costodella predisposizionedel prodotto materia-le, quanto quello dellasperimentazione cheproduce le idee retro-stanti e le mette allaprova” (1998, 59).

Page 57: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

57

C’è veramente bisogno dei paradigmi?Alla luce delle precedenti considerazioni, il postfordismo – inteso in senso lato,ovvero comprendendo l’insieme delle varianti che di volta in volta ne enfatizzanouna o più proprietà – risulta, a mio avviso, un concetto capace effettivamente diesprimere una “visione” del capitalismo contemporaneo. Il postfordismo descriveinfatti un modello stabile e relativamente coerente di relazioni tra un insieme di fat-tori e processi. Ne abbiamo in precedenza identificato e distinto cinque principaliproprietà: processi spinti di globalizzazione, applicazione diffusa delle tecnologiedell’informazione, accoppiamento tra domanda ed offerta, assetto reticolare delleorganizzazioni economiche, immaterialità della produzione. Si tratta evidentemen-te di processi che sono fortemente interrelati e che si rafforzano vicendevolmente.Il postfordismo, quindi, difficilmente può essere considerato un concetto gene-rico, incapace di fornire precise coordinate analitiche, un concetto che riflette lacomplessità del reale, piuttosto che governarla cognitivamente. A mio avviso,invece, esso è pienamente qualificabile come un paradigma, come una guidacognitiva che fornisce categorie e criteri selettivi ed ordinatori della realtà5 (DeLeonardis 2001, 64), indica e traccia i sentieri su cui si sviluppano le routine delpensare e dell’agire (De Leonardis 2001, 55-6), fornisce criteri valutativi che legit-timano l’azione, anche assumendo una forza normativa nell’indicare i parametriper lo sviluppo razionale dell’azione stessa (Borghi 2002, 28). Se osserviamo complessivamente il paesaggio economico, definitosi in partico-lare nell’ultimo quindicennio, vediamo chiaramente come il paradigma postfor-dista, incidendo sui modi di interpretare/valutare la realtà e sulle pratiche socioe-conomiche, abbia modellato profondamente tale paesaggio. Risulta molto effi-cace, a tal proposito, l’immagine del “turbocapitalismo”, o del “capitalismo sovra-alimentato”, proposta recentemente da Luttwak (1999). Riconosciamo il funzio-namento di un mercato frenetico, “stressato”, guidato da una competitività spin-ta all’estremo. La liberalizzazione dei mercati coincide con movimenti rapidissi-mi dei capitali che rincorrono affannosamente, sul mercato globale, i miglioritassi di redditività. Le imprese ricorrono sistematicamente a politiche di ristrut-turazione, reengineering, outsourcing, delocalizzazione. Il tutto avviene anchegrazie all’introduzione diffusa delle nuove tecnologie dell’informazione. Pereffetto di tali strategie aziendali, le forme esplicite di “autorità disciplinante”,esercitate in passato dalla “mano visibile” delle grandi burocrazie, tende a “lique-farsi”, spandendosi nel reticolo interorganizzativo. In questo modo, il potere siopacizza e si trasforma in apparenti automatismi che guidano gli scambi econo-mici e sociali6. È possibile così ottenere, come rimarca Sennet, forme di “con-centrazione senza centralizzazione” (2001, 54). Non si tratta, quindi, di un ritor-no al capitalismo liberale dell’Ottocento. Il meccanismo della reciprocità, cheinforma l’insieme delle proprietà del postfordismo precedentemente descritte,determina la formazione di strutture stabilizzate di scambio che trascendono lanatura meramente commerciale dei rapporti economici. Questi infatti presup-pongono, come sostiene Rullani (1998, 53-4), la condivisione di informazioni, diesperienze, di significati e soprattutto richiedono degli “addensamenti” di fidu-cia, necessari per abbattere i crescenti costi di transazione (Fukuyama 1996).Questa stessa logica ha legittimato e sospinto la progressiva erosione della

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

5 Nel linguaggio delcognitivismo, com’ènoto, si fa riferimentoa “mappe”, “cornici”(frames), “repertori disignificati” che deter-minano i presupposticognitivi dell’azione(cfr. Bifulco 2003, 59).

6 Si trae qui spunto daquanto proposto daHardt e Negri (2002) aproposito del passag-gio dal Panopticon albio-potere. Un passag-gio concettuale analo-go è stato avanzatoanche da Bauman(2000)

Page 58: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

dimensione pubblica nella sfera economica, i diffusi processi di deistituzionaliz-zazione e deregolazione dei mercati (in particolare di quello del lavoro), le vastecampagne di privatizzazione delle proprietà pubbliche, l’assunzione di una logi-ca privatistica e aziendalista nella conduzione strategica e gestionale delle ammi-nistrazioni pubbliche7 (Bifulco, De Leonardis 1997), il rapido abbandono dellafilosofia keynesiana nell’impostazione delle politiche economiche, la crisi deisistemi di welfare state e, più in generale, l’asservimento delle politiche alla“causa” della competitività (nazionale o territoriale) (Streek 2000). Il “turbocapitalismo” postfordista, in virtù del regime spinto di generazione degliscambi economici, della variabilità, erraticità ed instabilità dei mercati, dell’inde-bolimento dei sistemi di regolazione, e quindi, in ultima analisi, della prevalenzadi meccanismi di autoregolazione, sembra essere effettivamente meno ordinatoe strutturato, rispetto al capitalismo di marca fordista. C’è quindi da essere d’ac-cordo con Revelli che, come si diceva, ha usato la metafora del fumo in rappor-to a quella del cristallo. Ma questo apparente disordine, come ho cercato diargomentare, non è privo di una logica soggiacente, una logica che è l’emana-zione di un insieme di processi, fenomeni, caratteri del capitalismo contempo-raneo, rispondenti ad un disegno sostanzialmente coerente ed organico, qual è,appunto, il paradigma postfordista. In questi termini, mi sento di dissentire daquanti, come Rullani, ravvisano una sorta di incompiutezza del postfordismonella sua veste attuale, segnalando una sua rarefazione istituzionale (1998, 26-7).In realtà, concependo le istituzioni in un’ottica sociologica, cioè come insiemi dimeccanismi e proprietà degli aggregati sociali che “strutturano e canalizzano l’a-zione individuale” (De Leondardis 2001, 26), principalmente fornendo agli atto-ri domini cognitivi, universi di significato condivisi, repertori normativi e criteriassiologici di validazione dell’azione (De Leonardis, 23-4), il capitalismo contem-poraneo risulta altrettanto istituzionalizzato (seppure apparentemente disordi-nato nelle sue manifestazioni fenomenologiche) rispetto a quello precedente. Ed è su queste considerazioni – avendo argomentato il mio scetticismo rispettoalla tesi dell’indeterminatezza – che si innesta il motivo più profondo di insod-disfazione connesso all’utilizzo del concetto di postfordismo. Esso è più profon-do perché trascende gli aspetti sostantivi del postfordismo sin qui discussi. Lemie perplessità sono invece orientate all’approccio “per paradigmi” nell’analisidella vita economica. Da questo punto di vista, traggo spunto in particolare daquanto afferma la De Leonardis a proposito delle istituzioni come “domini cogni-tivi” che guidano la nostra percezione della realtà (2001, 64), come “repertori dipratiche date per scontate” (De Leonardis 2001, 56). Tale idea di dominio cogni-tivo, in base alle note argomentazioni di Kuhn, si applica anche ai paradigmi ela-borati in ambito scientifico, da parte dei sistemi esperti a cui la società “delega”l’incessante opera di auto-riflessività. Infatti, i paradigmi non sono altro che ilriflesso dei processi di istituzionalizzazione in cui incorre lo stesso procedimen-to scientifico (De Leonardis 2001, 73). I domini cognitivi, spiega la De Leonardis,sono utili come riduttori di complessità. Ma essi determinano una “doppia opa-cità” cognitiva, rappresentata dal fatto che, da un lato, essi ci impediscono divedere quanto sta fuori dalla nostra “mappa” di inquadramento, dall’altro lato,essi agiscono in maniera automatica, irriflessa (De Leonardis 2001, 65). La pre-senza dei domini cognitivi fa sì che non si riconoscano i propri modi di vedere o

n.8 / 2004

58

7 Un esempio interes-sante di riconduzionedella sfera pubblicaalle logiche del post-fordismo ce lo fornisceVaira (2003) che harecentemente analiz-zato i processi di rifor-ma del sistema uni-versitario italiano,verificando l’ipotesi diun orientamento insenso postfordistadella riforma stessa..

Page 59: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

59

di non vedere. Tali sistemi di classificazione della realtà dati per scontati, vengo-no pertanto “naturalizzati e insieme consacrati” (De Leonardis 2001, 70).La “doppia opacità” connessa al ragionare sull’economia per paradigmi determi-na quindi, in primo luogo, il rischio di indossare occhiali cognitivi che impedi-scono di vedere, o di considerare, ciò che non è contemplato, ciò che è diversoo incoerente rispetto al paradigma (Bifulco 2003, 57). Esso finisce con il diventa-re una sorta di profezia che si autoavvera, che conferma sistematicamente sé stes-sa; le anomalie vengono trattate come esperimenti non cruciali, in termini pop-periani8. L’osservazione viene orientata soprattutto sui “segnali di avanguardia”che confermano il modello, trascurando molteplici aspetti della fenomenologiaosservabile. Le incoerenze, quand’anche vengano registrate, vengono marginaliz-zate, ridotte ad epifenomeni, standardizzate rispetto al paradigma di riferimento.L’esistenza e gli effetti di tale rischio di “parziale cecità cognitiva” (Bifulco 2003,57) è facilmente riconoscibile ragionando retrospettivamente a proposito delparadigma fordista. A titolo esemplificativo, si può richiamare quanto sostenutoda Piore e Sabel nel loro noto e dibattuto testo The second industrial divide(1987). In quest’opera essi cercano di dimostrare che il modello di capitalismobasato sulla produzione di massa ha convissuto a lungo, prima di imporsi, conmodelli alternativi di produzione artigianale. Secondo i due autori, l’affermazio-ne della produzione di massa è avvenuta in primis “nel regno delle idee” (Pioree Sabel 1987, 87). Ciò significa, in primo luogo, che “il mondo avrebbe potutoessere diverso da come è” (Piore e Sabel 1987, 74), poiché sussistevano dellealternative possibili; in secondo luogo, che forme devianti dal modello standardsono state degradate al ruolo di epifenomeni di natura transitoria e quindi deltutto trascurate dalle analisi. Il modello di produzione artigianale, anche laddovecontinuava a prosperare, “era invisibile, era una pratica senza un nome, incoe-rente per definizione” (Piore e Sabel 1987, 88). Tali conclusioni vengono larga-mente suffragate considerando quanto abbiano colto di sorpresa, ovvero sianostati per molto tempo trattati alla stregua di anomalie, fenomeni importanticome quello dei distretti industriali o del modello giapponese di strategia indu-striale (Magatti 1993, 16-18), e quanto in ritardo, rispetto al loro manifestarsi edaffermarsi, tali fenomeni siano stati oggetto di compiuti quadri interpretativi9.Il secondo momento della “doppia opacità”, causata dal ragionare per paradigminella lettura dell’economia, è rappresentato da quella che la De Leonardis chia-ma l’ “atrofizzazione delle capacità cognitive” (2001, 56). L’uso di paradigmiinduce a descrivere ed interpretare la realtà in base all’idea che esistano delletendenze che rendono sostanzialmente ineludibili determinati fenomeni e com-portamenti. Il ragionamento viene spinto verso il procedimento logico del comese, in base al quale risulta trascurabile il comportamento “reale” degli attori.Viene infatti ipotizzato un comportamento ideale, “tendenzialmente” applicatodagli attori, costretti in tal senso dalle forze selettive del mercato10. Si abbassa cosìla soglia della curiosità analitica rispetto alla realtà osservabile. Si rischia in talmodo di perdere, come già evidenziato, la sensibilità rispetto ai fenomeni ed aiprocessi interstiziali, la capacità di riconoscere le piccole o grandi incoerenzedella realtà osservata rispetto alla “realtà attesa”, l’attitudine a ricercare i meccani-smi micro attraverso cui funzionano i processi sociali. Si producono pertantodelle “inerzie analitiche” che pongono notevoli limiti alle proprietà generative del

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

8 L’economistaBiggiero (1990) osser-va che il criterio falsi-ficazionista di Popper,basato sull’idea cheuna teoria è “scientifi-ca” solo fintanto che èpossibile costruiredegli esperimenti chepossono smentirla(esperimenti cruciali),è messo in crisi intutte le scienze per ilfatto che “tutte le teo-rie si muovono inquello che Kuhn chia-ma ‘un oceano dianomalie’ ”, cioè di“esperimenti di confu-tazione già in atto”(Biggiero 1990, 41);“quando si verificaun’anomalia, cioè nelcorso del tempo in cuisi sta facendo l’esperi-mento di falsificazio-ne, è praticamenteimpossibile stabilire sequesto esperimentodeve essere assuntocome esperimentocruciale oppure no. Inaltri termini, la cru-cialità dell’esperimen-to viene stabilita infondo soltanto da ungiudizio collettivo daparte degli scienziati,cioè da un atteggia-mento tipicamentesociologico e non logi-co” (Biggiero 1990).

9 Ed è interessantenotare, ai nostri fini,che laddove degli eco-nomisti si siano impe-gnati a fornire delleadeguate spiegazionisu tali fenomeni, essihanno dovuto mettereprofondamente in dis-cussione il “paradig-ma dominante” dellateoria economica,ovvero il modello neo-classico, come ha

Page 60: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

60

pensiero e dell’azione, quindi alla possibilità di individuare varianti che possano“germogliare” dai processi embrionali o interstiziali in atto. Oltre quindi allanostra capacità di vedere, i paradigmi rischiano di ridurre la nostra capacità discegliere: di scegliere non modelli studiati a tavolino, sulla base di una realtàimmaginata (ovvero di eventuali paradigmi antagonisti), ma di scegliere percorsipossibili, che potrebbero svilupparsi a partire da movimenti già in atto, seppurembrionalmente, nel sistema sociale oggetto di osservazione ed intervento. Sipotrebbe dire quindi che viene inibita la nostra capacità di immaginazione delpossibile, la base reale delle innovazioni umane. Il ragionare per paradigmi porta,quasi inevitabilmente, a ricercare problemi e soluzioni in chiave universalistica,piuttosto che a cercare soluzioni selettive, mirate, capaci di cogliere le specificitàdelle situazioni e delle problematiche, le caratteristiche distintive, soprattutto dinatura sociale, dei tanti “locali” di cui si compone lo spazio capitalistico “globale”.Un emblematico esempio di come i paradigmi, applicati alla lettura del capitali-smo, possano inibire la nostra capacità di scegliere può essere tratto proprio dal-l’analisi della letteratura che si è sviluppata attorno all’ipotesi della varietà o diver-sità dei capitalismi e della parabola che tale dibattito ha conosciuto nel corso deglianni ’90 (Blasutig 2001; Trigilia 1998). All’inizio del decennio si affermavano posi-zioni come quella di Michel Albert o di Wolfang Streek i quali asserivano con con-vinzione l’esistenza di almeno due modelli di capitalismo, uno a bassa ed uno adalta densità istituzionale (capitalismo neo-americano vs. capitalismo renano). Essivedevano i due modelli in competizione, ma accordavano il primato al secondo,in virtù di una intrinseca capacità di coniugare la coesione sociale con la compe-titività economica. A soli dieci anni di distanza, dopo che il “turbocapitalismo”sembra aver preso il definitivo sopravvento, tali posizioni hanno conosciuto unasostanziale revisione. I medesimi autori ravvisano infatti dinamiche di convergen-za dei modelli di capitalismo, attribuendo al capitalismo nordamericano una forzadi attrazione prevalente (Albert 2001; Crouch, Streek 1997; Streek 2000). Essi rico-noscono che i processi di globalizzazione, l’enorme pressione competitivaambientale, hanno spinto ad un punto tale i requisiti di flessibilità e dinamicità deisistemi economici da renderli incompatibili con gli obiettivi di regolazione istitu-zionale. I sistemi risultano costretti ad adottare strategie che Streek (2000) defi-nisce di “solidarietà competitiva”, la quale inibisce fortemente gli spazi per la rego-lazione politica. Infatti, i portatori di interesse appartenenti ai diversi livelli siste-mici (nazioni, aree territoriali, imprese, ecc.) non sono più concentrati sul con-flitto per la distribuzione del surplus, ma tendono a fare “fronte comune” per con-sentire la sopravvivenza del sistema di appartenenza. In maniera del tutto asso-nante si è espresso Pizzorno (2001) il quale ha asserito che gli spazi concessi allepolitiche economiche dall’attuale assetto del mercato competitivo non sono piùquelli inerenti le grandi questioni del passato (distribuzione del reddito, allarga-mento del sistema dei diritti, ecc.), ma riguardano soltanto gli strumenti perattrarre il capitale (dalla riduzione della tassazione, alla politica delle infrastruttu-re, alle politiche per la qualificazione dei fattori di produzione).Quali possono essere le vie di uscita da questo secondo, più profondo, motivo diinsoddisfazione riguardante il “ragionare per paradigmi”. Non mi è possibilerispondere compiutamente a questa domanda. Tuttavia, vorrei qui proporre sol-tanto una suggestione, richiamando ed applicando il concetto di capacità negati-

affermato esplicita-mente Rullani (1994),uno dei più noti espo-nenti della scuola dieconomisti italianiche hanno studiato idistretti industriali.

10 Un esempio cristalli-no di tale atteggia-mento analitico èritrovabile nella clas-sica risposta (tutt’oravalida) fornita dall’e-conomista, premioNobel, MiltonFriedman (1954) a chisollevava il dubbiocirca l’irrealismo delleipotesi dei modelli del-l’economia politica diimpostazione margi-nalista. Egli risponde-va a tale quesito argo-mentando che a) lavalidità di una teorianon può essere misu-rata in base al reali-smo delle ipotesi (per-fetta razionalità degliattori, orientamentoalla massimizzazionedell’utilità individua-le, ecc.), ma in basealle sue capacità pre-visionali; b) nonimporta se gli attorireali corrispondanoeffettivamente agliattori teorici, in quan-to vige il principio delcome se: le forze delmercato (noi potrem-mo dire: le ineluttabilitendenze del paradig-ma) selezionano gliattori che più si avvi-cinano con le propriescelte agli attori teori-ci, indipendentementedal proprio bagagliocognitivo reale.

Page 61: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

61

va, elaborato a suo tempo da Lanzara (1993) e recentemente ripreso dalle già cita-te De Leonardis (2001) e Bifulco (2003). Entrambe le due autrici utilizzano questoconcetto per spiegare una disposizione cognitiva che favorisce l’apprendimento el’innovazione per le istituzioni; peraltro il loro ragionamento si estende anche aiparadigmi, intesi come forme istituzionalizzate dei procedimenti scientifici. È ilcaso di citare per esteso quanto scrive la Bifulco a proposito della capacità negati-va: “capacità di fare esperienza dell’indeterminazione, cioè della perdita di ordinee di senso, con una disposizione cognitiva di apertura, senza provare immediata-mente a ristabilire una direzione, sospendendo perciò la ricerca di fatti e ragionicerti” (2003, 63). In sostanza, si tratta di sospendere, indebolire o derubricare, ildominio cognitivo generato dal paradigma. Il che significa, nel caso del postfordi-smo, affrontare “a viso aperto” la complessità (le contraddizioni e le ambivalenze)di cui abbiamo parlato nel primo paragrafo, esporsi ad un certo grado di incertez-za e senso di “spaesamento”. Ciò implica altresì, come suggeriscono la Bifulco e laDe Leonardis, assumere un atteggiamento esplorativo, farsi muovere dalla curiosi-tà, non dare nulla per scontato, essere disposti a “farsi sorprendere” dalla realtà. Inquesto modo è possibile attivare il “registro riflessivo dell’apprendimento” checonsente di “vedere i propri modi di vedere” (Bifulco 2003, 91). L’apprendimentodiviene così “generativo”, facendo emergere visioni del mondo diverse e quindidiversi mondi possibili, attraverso l’osservazione di quanto “emerge” dalla realtà enon attraverso l’assunzione di modelli “rarefatti”, costruiti deduttivamente. In termini metodologici, ciò implica trattare le proprietà che riconosciamo comedistintive del capitalismo contemporaneo non come costanti, ma come variabiliche possono presentarsi secondo gradi diversi e con combinazioni differenti, infunzione delle diverse situazioni storico-sociali; significa inoltre ragionare suimeccanismi di funzionamento, osservare i processi anche a livello micro-sociale,considerare i fenomeni interstiziali, marginali e di apparente retroguardia. In altreparole, viene in questo modo colta la proposta di Elster (1993) che invita le scien-ze sociali a rappresentarsi come “cassette degli attrezzi” con i quali studiare“come” i fenomeni si producono, piuttosto che fermarsi alla ricerca di correlazio-ni causali di portata generale (Barbera 2003). Dal punto di vista della concezionesostantiva del capitalismo, ciò significa ragionare in termini di “mondi possibili”,piuttosto che “mondi ineluttabili” (perché contrassegnati dal marchio dell’onebest way). Si concepisce così il capitalismo come una struttura di opportunità chelascia agli attori effettivi margini di scelta. In chiave teorica, ciò implica rimettersinel solco della tradizione weberiana e prendere sul serio l’ipotesi della varietà deicapitalismi. Come ha sottolineato l’economista Biggiero: “la complessità conduceal mondo della razionalità plurima, dove differenti ‘versioni del mondo’ convivo-no, ignorandosi o tentando confronti non sempre possibili” (1990, 76).

Quello che i paradigmi ci impediscono di vedere e di scegliereIn questo ultimo paragrafo è mia intenzione fornire qualche esempio, tra i tantipossibili, delle opacità cognitive che possono derivare dal “ragionare per paradig-mi”. In larga parte mi ispirerò ad un testo molto ricco di spunti, da questo puntodi vista. Mi riferisco al libro di Adair Turner, Just capital (2002), nel quale sostan-ziali rilievi critici vengono mossi all’indirizzo di alcune letture dominanti del capi-talismo contemporaneo, che fanno leva sui concetti di competitività nazionale, di

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

Page 62: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

62

globalizzazione degli scambi, di nuove tecnologie dell’informazione. Secondo l’au-tore, tali concetti costituiscano delle guide ideologiche che provocano notevolidistorsioni analitiche e, conseguentemente, orientano erroneamente le strategiedi intervento. Ed è importante sottolineare che questo sforzo, di demistificazionedelle tante false visioni oggi ampiamente circolanti, proviene da un affermato eco-nomista e consulente aziendale, il quale manifesta una sostanziale fiducia verso ilmercato, sebbene egli rimarchi anche la necessità che esso venga controllato eguidato, attraverso una risoluta e consapevole azione della “mano” pubblica11.Comincerei con il dire che alcune grandi contraddizioni del capitalismo con-temporaneo sono tutt’altro che “invisibili” o trascurate. Al contrario, sono rico-noscibili come questioni emergenti nel dibattito politico e sociale: ad esempio,l’oggettivo vistoso incremento della disuguaglianza nella distribuzione del reddi-to, sia comparando le società, su scala internazionale, sia comparando le catego-rie sociali, su scala nazionale; oppure, il problema rappresentato dalla finanzia-rizzazione dell’economia globale, con i movimenti dei capitali che sembranotenere in scacco le istituzioni politiche, facendo prevalere la logica del profittosulla logica della coesione e dell’equità sociale e dando vita, oltre tutto, a vistosedegenerazioni sul piano dell’etica degli affari12; o, ancora, il crescente livello diinsicurezza e precarietà che coinvolge oggi una fetta di lavoratori sempre più ele-vata, anche a causa del proliferare dei cosiddetti contratti di lavoro atipici. Peraltro, l’evidenziazione di queste ed altre contraddizioni del capitalismo con-temporaneo, non sempre risulta del tutto soddisfacente dal punto di vista delletesi qui sostenute. Chi contribuisce a svelare tali contraddizioni, a mio avvisomeritoriamente, parte naturalmente da un atteggiamento critico o, addirittura,antagonista verso il “turbocapitalismo”, e quindi verso gli effetti del paradigmapostfordista descritto in precedenza. Pensiamo alla nutrita schiera di politici edintellettuali che ragionano a proposito di una “terza via”, intermedia tra l’assettodi libero mercato deregolato di marca nordamericana e la tradizionale socialde-mocrazia statocentrica. O pensiamo alle proposte in chiave antagonista deicosiddetti movimenti no global o new global. Il rischio che mi sembra di poterravvisare è che queste posizioni rimangano vittime dello stesso modo di proce-dere analiticamente del cosiddetto “pensiero unico” a cui esse si oppongono.Ovvero, il pericolo è quello di ragionare per paradigmi, utilizzando schemi di let-tura generali (spesso “emanazioni” dello stesso paradigma postfordista) che por-tano inevitabilmente a operare sostanziali riduzionismi sulla complessità deimeccanismi generatori dei problemi esaminati e delle possibili soluzioni. Più cheproporre percorsi per addivenire a mondi possibili si rischia di indicare soluzio-ni basate su “mondi immaginati”, o di appiattirsi su posizioni difensive che sem-plicemente cercano di frenare i processi di cambiamento13.Soggiacenti alle grandi contraddizioni prima menzionate vi sono pertanto unaserie di fenomeni, processi e meccanismi che non ricevono una sufficiente atten-zione analitica nel dibattito contemporaneo, spesso perché le proprietà del post-fordismo vengono postulate e date per scontate, non solo da parte dei suoi (tanti)entuasiasti o rassegnati assertori, ma anche da parte dei suoi (pochi) oppositori.

Le sfide della globalizzazione e lo stato minimoIl primo tra questi fenomeni è rappresentato proprio dalla rilevanza attribuita al

11 Sulle forme di inter-vento pubblico sugge-rite da Turner nonentrerò nel merito.Dico soltanto che,come ha ben eviden-ziato Trigilia (2002) inuna recensione deltesto in parola, unodei punti più discuti-bili del suo ragiona-mento sta nell’ideache le politiche debba-no incentrarsi sulladomanda (incentivi edisincentivi, politichefiscali, politiche diredistribuzione), men-tre vengono esplicita-mente scartate le ipo-tesi di intervento diret-to sull’offerta (al di làdegli interventi infra-strutturali).

12 È attualmente aglionori delle cronachel’enorme crack escandalo finanziarioche ha coinvolto unadelle maggiori impre-se italiane, laParmalat. Non si trat-ta affatto di un casoisolato. Basti pensarealle analoghe vicendeaccadute recentemen-te negli Stati Uniti(Enron, WorlCom,ecc.), o in Europa (ades. il caso Vivendi inFrancia ed il casoAhold in Olanda).

13 Rullani parla a que-sto proposito di unatteggiamento diffuso,politicamente trasver-sale, che lui chiama di“neofordismo conser-vatore” (1998, 25-6).

Page 63: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

63

fenomeno della globalizzazione. Turner (2002) sostiene che si tratta della chiavedi fondo che unifica le analisi degli apologeti del capitalismo contemporaneo edei suoi detrattori: i vincoli ineludibili che la competizione globale pone in capoai sistemi economici dei paesi sviluppati ed in particolare ai governi che cono-scerebbero una drastica riduzione dei margini di manovra, in virtù dell’ipotizza-ta necessità di difendere la competitività nazionale. Egli confuta recisamente talevisione dimostrando, dati alla mano, che le economie nazionali, nel loro com-plesso, dipendono dai mercati internazionali molto meno di quanto si pensi. Aquesto proposito, analizzando dati relativi ai paesi dell’Unione Europea, emergeche il volume del commercio estero (importazioni più esportazioni) corrispon-deva nel 1997 al 30,5% del Pil, una percentuale che è rimasta sostanzialmenteinvariata nel corso del quindicennio precedente, ovvero nel periodo in cui,secondo le retoriche dominanti, è “esplosa” la globalizzazione14 (Turner 2002, 30-1). La maggior parte di tali scambi internazionali avviene tra paesi dell’Ue (20,0%del Pil, includendo Svizzera e Norvegia). La restante parte riguarda in prevalenzaaltri paesi ad alto indice di sviluppo, Giappone, Stati Uniti, Canada, Australia,Nuova Zelanda (5,9% del Pil) ed in misura ancora inferiore i cosiddetti paesi emer-genti o in via di sviluppo (4,7% del Pil). É altrettanto significativo il fatto che, con-siderando l’andamento delle medesime percentuali nell’ultimo quindicennio, sologli scambi interni all’Europa sono cresciuti (come percentuale del Pil), mentre irestanti scambi internazionali hanno addirittura subito un decremento. Turnersostiene espressamente che, al contrario di quanto comunemente si pensa, le eco-nomie si stanno progressivamente “localizzando” piuttosto che globalizzando,ovvero che una quota crescente della ricchezza riguarda beni e servizi prodotti econsumati nell’ambito di mercati nazionali o locali, spesso molto circoscritti15. Questi dati danno una robusta spallata alla tesi della globalizzazione. Al di là disituazioni specifiche e particolari (aziendali, settoriali, territoriali), la ricchezzacomplessiva – e perciò il benessere, anche materiale – di ognuno di noi dipen-de molto meno di quanto si pensi dagli scambi internazionali. La pressione eser-citata dal mercato competitivo globale è decisamente più limitata rispetto all’im-magine che il paradigma del postfordismo ci suggerisce16.Tale conclusione determina, tra l’altro, delle implicazioni particolari rispettoal crescente squilibrio della distribuzione di ricchezze tra paesi ricchi e paesipoveri. In base a quanto appena sostenuto, l’evidente sfruttamento da partedelle imprese occidentali delle risorse materiali ed umane presenti nel Suddel Mondo, oltre a produrre in quelle realtà i deleteri effetti che sono sottogli occhi di tutti, apportano benefici collettivi irrisori ai cittadini occidentali,ad eccezione dei pochissimi che ne traggono enormi profitti. Quindi, inter-venire con misure che limitino lo sfruttamento trova non solo giustificazionietiche o politiche, ma anche economiche. Infatti, tali misure produrrebberoeffetti trascurabili sul benessere collettivo nei paesi occidentali, mentre, alcontrario, determinerebbero un incremento generalizzato del benessere neipaesi del Sud del Mondo. Se venisse osservato scrupolosamente il principioche più sta a cuore agli stessi economisti, ovvero il benessere collettivo con-cepito in termini paretiani, la globalizzazione dovrebbe essere trattata comeun’enorme occasione di sviluppo della società umana nel suo complesso. Sipotrebbe dire che oggi non c’è troppa globalizzazione, ma ce n’è troppo

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

14 Va rimarcato che ildato si riferisce nonalle variazioni delvolume degli scambicommerciali interna-zionali, ma al loro“peso” sulla ricchezzaprodotta. Tale datosconta, quindi, lamaggiore crescita deiprezzi relativi ai benie servizi scambiatiinternamente, rispettoa quelli scambiati suimercati internaziona-li (Turner 2002, 32-3).

15 Turner cita al pro-posito l’economistaamericano Krugman,il quale ha stimato chein una grande cittàamericana di oggi benil 75% dell’economia è“locale”, mentre solo il25% concerne scambicon sistemi esterni. Unsecolo prima l’econo-mia locale e quella“aperta” si eguagliava-no (Turner 2002, 34).

16 Si tratta di una con-clusione confermataanche da altri studi(Lafay 1998, Wade1998).

Page 64: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

64

n.8 / 2004

poca17 e, soprattutto, viene gestita molto male, in un’ottica di benessere col-lettivo.Quanto si è appena sostenuto in riferimento al limitato peso degli scambi inter-nazionali sulle economie nazionali trova sostanziali conferme considerando l’ef-fettivo livello di competitività dei diversi sistemi-paese. In base alla teoria cheassume come fattore centrale l’accresciuta competitività globale, ci si dovrebbeattendere delle sofferenze in corrispondenza dei paesi dove vi è un maggioreintervento dei governi nell’economia (attraverso le leve regolative o fiscali), al finedi garantire alcuni beni collettivi quali l’equità sociale, il welfare state o la qualitàdella vita. Sulla base di tale idea, è diffusa la convinzione di un modello competi-tivo europeo perdente rispetto a quello nordamericano. Ebbene, i dati sconfessa-no recisamente tale ipotesi. Complessivamente, in Europa la bilancia dei paga-menti continua a mantenere, anche in epoca di “turbocapitalismo”, un ampio sur-plus, mentre gli Stati Uniti (la patria dello “stato minimo”) sono segnati da un defi-cit cronico di tale indicatore (Turner 2002, 36). Inoltre, analizzando la crescita delPil pro-capite nel periodo 1994-1999, non è riscontrabile alcuna correlazione trala crescita economica e le dimensioni del settore pubblico. Ad esempio, Svezia eDanimarca, la cui spesa pubblica è superiore al 55% del Pil, hanno conosciutotassi di crescita analoghi a quelli degli Stati Uniti, dove invece le risorse assorbi-te dal settore pubblico sono di poco superiori al 30% (Turner 2002, 293). Ed èaltresì interessante notare che l’intervento pubblico risulta debolmente correla-to alle stesse performance del mercato del lavoro. Uno dei cavalli di battagliaargomentativi dei sostenitori del “turbocapitalismo” è proprio centrato suglieffetti benefici rispetto all’occupazione. Dati di fonte Ocse evidenziano cheDanimarca e Svezia, nonostante il persistente macroscopico differenziale sulpiano della spesa pubblica, hanno annullato nel 2001 il gap che li divideva dagliStati Uniti alla metà degli anni ’90, relativamente al livello di disoccupazione.Quanto abbiamo testé segnalato, suona come una lezione importante anche peril dibattito circa le sorti del capitalismo italiano. Vengono infatti sostanzialmenteconfermate tesi come quella recentemente sostenuta da Gallino (2003a) il qualeha stigmatizzato la diffusa invocazione delle cosiddette “riforme strutturali”. Innome dei principali postulati del postfordismo – incremento della competizio-ne globale, flessibilità, applicazione di nuovi principi organizzativi e diffusionedelle tecnologie dell’informazione – si sostiene la necessità di abbassare forte-mente il prelievo fiscale diretto e indiretto, di abbassare il costo del lavoro(soprattutto attraverso il contenimento degli oneri sociali), di flessibilizzare ilmercato del lavoro ed assumere criteri di gestione aziendale della pubblicaamministrazione (Gallino 2003a, 96-7). Gallino ritiene che tali riforme strutturaliservano a ben poco rispetto all’obiettivo dichiarato di risollevare le sorti del set-tore industriale italiano di cui lo stesso autore descrive lucidamente il declino.Servirebbero invece delle oculate ed innovative politiche industriali che orienti-no il sistema verso strategie competitive basate sulla qualificazione del prodotto,dei processi e dei fattori di produzione (a cominciare dal lavoro). A conferma diquesto prevalente bisogno di “qualità” espresso dal mondo produttivo, tutta larecente enfasi che in Italia è stata posta sulla ineluttabilità della flessibilizzazionedel rapporto di lavoro contrasta con i dati desumibili dall’ “economia reale”, dovenegli ultimi anni il ricorso a contratti di lavoro standard (lavoro dipendente a

17 È noto che gli scam-bi internazionali sonovincolati da pesantimisure protezionisti-che, a beneficiosoprattutto di alcunisettori economici neipaesi occidentali, adesempio quello dell’a-gricoltura. Si pensi sol-tanto che il redditopro-capite medio deipaesi dell’Africa sub-sahariana corrispon-de a circa la metà deisussidi dati agli alle-vatori dell’UnioneEuropea per ognicapo di bestiame pos-seduto (CapperoMartinetti 2003, 22)

Page 65: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

65

tempo indeterminato) ha segnato una ripresa (Reyneri 2002, 72) e dove nellearee più avanzate del paese il problema più impellente per le imprese non èaffatto quello di licenziare, ma quello di reperire la manodopera necessaria, vistala “strutturale” situazione di piena occupazione (Ghirardini, Pellinghelli 2000).Inoltre, il confronto con paesi che mantengono elevate performance economi-che, pur in presenza di un consistente settore pubblico, dovrebbe mettere inguardia rispetto all’applicazione pedissequa del principio, condivisibile in astrat-to, di contenimento della spesa pubblica, cominciando dalle spese per i servizidi welfare state. Gli effetti dell’applicazione di tali principi non possono esseregli stessi, in un confronto tra i diversi paesi, nella misura in cui i livelli di parten-za sono estremamente differenziati. Come si può infatti pensare di applicareall’Italia il medesimo principio, quando il nostro paese ha una spesa sociale, inrapporto al Pil (24,8%), consistentemente inferiore ad altri paesi come Svezia(34,8%) Danimarca (33,6%), Germania (30,5%) e Francia (30,5%) (dati Eurostatrelativi al 1996) e, per di più, tale spesa sociale è sbilanciata in modo del tuttoanomalo sulle prestazioni previdenziali, lasciando largamente scoperte presta-zioni come quelle di sostegno ai disoccupati o alle famiglie. Alla luce di ciò, ladistanza tra l’Italia ed i paesi con regimi di welfare “normali” viene qualificatacome “abissale” da un osservatore scrupoloso come Reyneri (2002, 170), perquanto riguarda, ad esempio, l’ammontare, la durata e la copertura dei sussidiper i disoccupati18. Il che è particolarmente grave in un’epoca di flessibilità dellavoro qual è l’attuale.

Società dei servizi, tecnologie dell’informazione e qualità del lavoroUn ulteriore “mito” del paradigma postfordista, di cui Turner evidenzia aspettitrascurati ed ambivalenze, è quello inerente l’immaterialità della produzione e laconnessa diffusione delle tecnologie dell’informazione. In primo luogo, unaspetto di fondo colto da Turner riguarda la questione ambientale, a cui l’autorededica un intero capitolo (Turner 2002, cap 9). In generale, vi è sempre stata unasorta di idiosincrasia tra la questione della crescita economica ed i problemi perl’ambiente. Chi si occupa della prima questione trascura o addirittura detesta laseconda (e viceversa). L’immagine immateriale del postfordismo (l’idea di un’e-conomia basata sulla conoscenza, che viaggia attraverso i bit, le reti virtuali deicomputer o le reti neuronali dei cervelli, la cui risorsa strategica è la creatività ela comunicazione tra le persone) in apparenza risolve le cose. Turner evidenzia,invece, quanto tale immagine sia infondata: la produzione e la distribuzione dellemerci e dei servizi, nonché il forte incremento della mobilità personale, accre-scono comunque il consumo di energia e l’immissione di agenti inquinanti nel-l’atmosfera19. Preso atto di ciò, l’autore sottolinea con dovizia di particolari che laquestione ambientale deve essere posta al centro delle agende delle stesse poli-tiche economiche ed industriali, essendo in gioco non solo la qualità della vita diognuno di noi, ma anche la sopravvivenza del pianeta e dell’umanità. Anche acosto di ridurre i tassi di incremento della ricchezza, le emissioni di anidride car-bonica, cominciando dai paesi più sviluppati, “devono scendere non del 5-10%,cioè dei traguardi fissati nel protocollo degli accordi di Kyoto, ma del 70% edanche più” (Turner 2002, 239)La seconda questione sollevata da Turner, più specifica e meno “drammatica”

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

18 Un dato su tutti: inItalia su 100 personein cerca di lavoro solo6-7 ricevono un sussi-dio di disoccupazione(peraltro, nella mag-gior parte dei casi diminima entità) controun numero di personecoperte che va da 65 a80 nei paesi con isistemi di welfare effet-tivamente rispondentiallo standard europeo(Reyneri 2002, 169-170). Alla luce di talidifferenze suona deltutto paradossale, perun italiano, un recen-te articolodell’Espresso (27marzo 2003), titolato“Welfare addio”. Pereffetto dello “smantel-lamento” del sistemadi welfare, si sostienenell’articolo, “tutti” idisoccupati tedeschipotranno beneficiare“solo” per un anno diindennità di disoccu-pazione pari al 70%dello stipendio e suc-cessivamente riceve-ranno (finché nonavranno trovato unnuovo lavoro) unassegno compreso trai 700 e gli 800 Euro.

19 Scrive Turner:“Contrariamente allenostre chiacchieresulla e-conomia, moltielementi dell’econo-mia sono più che maidi carattere fisico”(2002, 337).

Page 66: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

66

n.8 / 2004

rispetto alla precedente, ma anch’essa rilevante, concerne la falsificazione di unaconcezione tutta “avanguardista” dell’economia dei servizi, ad alta intensità diintelligenza, conoscenza e creatività detenute dalle risorse umane.Fondamentale è il supporto fornito dalle tecnologie dell’informazione, le qualisono ritenute in grado di “liberare” il lavoro dalle funzioni più degradate edequalificate, di aprire spazi per larghe schiere di lavoratori ad elevata qualifica-zione e professionalità (Butera, Donati, Cesaria 1997). Si tratta anche in questocaso di un’immagine diffusa e politicamente trasversale (Rifkin 1995; Trentin1997). Turner, nel confermare che la naturale evoluzione delle economie svilup-pate è quella di allargare il settore terziario, non manca di evidenziare quelle chesono le ambivalenze di questo processo, sul piano economico e sociale (Turner2002, cap 2). Sostiene infatti che le nuove tecnologie, terziarizzando in largaparte il lavoro, in molti casi non lo liberano affatto dalla condanna della dequali-ficazione (cfr. anche Rubery, Grimshaw 2001). Si pensi, ad esempio, a mestieridiffusi, ed in crescita, come l’operatore alla macchina a controllo numerico chia-mato unicamente ad attività di sorveglianza della macchina; l’impiegato nel set-tore contabile che inserisce meccanicamente dati nel computer; la cassiera in unsupermercato, impegnata nella ripetitiva operazione di passare i codici a barresul lettore ottico; infine, il lavoratore del call center che si relaziona al cliente inmaniera automatica, come una sorta di appendice vocale del computer. Inoltre,lo sviluppo del terziario riguarda molti mestieri in servizi tradizionali, ad alto con-tenuto relazionale ed a basso livello di qualificazione, servizi che rientrano cre-scentemente nelle preferenze dei consumatori “evoluti” delle economie più ric-che, una volta che i cosiddetti basic needs risultano soddisfatti: ad esempio, puli-zie, manutenzioni domestiche, artigianato edilizio, trasporti, consegne merci,sorveglianza, ristorazione, baby sitting, assistenza domiciliare, commercio al det-taglio. Gallino chiama queste attività di lavoro “occupazioni a qualificazionemedio-bassa e ad alta intensità di lavoro” (2001, 61) e Reyneri parla di una nuovacategoria professionale che è quella degli “operai dei servizi” (2002, 272).Entrambi sono in linea con Turner nel sostenere che il capitalismo contempora-neo sta ampliando, piuttosto che riducendo, tali spazi occupazionali20. Si deduce pertanto che l’economia dei servizi e delle nuove tecnologie informa-tiche anziché liberare il lavoro, come molti continuano a pensare, costituisconola base per nuove forme di costrizione ed oppressione per quote significative etendenzialmente in crescita di occupati. Le implicazioni, spesso trascurate, diqueste osservazioni sono molte. Io ne vorrei qui rimarcare, molto rapidamente,tre. La prima è che l’economia dei servizi e le nuove tecnologie informatichesono di per sé generative di nuove disuguaglianze sociali (Turner 2002, 87). Taliaree occupazionali a bassa produttività e bassa qualificazione inevitabilmentecorrispondono a basse retribuzioni. Perciò, parte della crescente disuguaglianzaosservabile nelle nostre società non ha nulla che fare con l’immagine della iper-competitività su scala globale desumibile dal paradigma postfordista: per loronatura le arene competitive generate dai servizi sono essenzialmente locali. Lacrescente disuguaglianza è legata invece a meccanismi di base di funzionamentodell’economia che devono essere pienamente compresi per poter apportare gliopportuni correttivi, sia ex ante (intervenendo necessariamente sui meccanismiallocativi del mercato nella determinazione delle retribuzioni, ma anche interve-

20 Gallino, dati allamano, evidenzia che,dal 1994 al 1999, inItalia gli operai gene-rici sono cresciuti inrapporto agli operaiqualificati, a dispettodi quanto comune-mente si ritiene (2001,62)

Page 67: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

67

nendo sui contratti di appalto dei servizi), sia ex post (intervenendo attraverso laleva redistributiva). La seconda implicazione riguarda il fatto che l’economia dei servizi è connatura-tamente generativa di precarietà del lavoro. Questo vale non solo per i servizi abasso valore aggiunto, ma anche per quelli ad alta qualificazione professionale(Gallino 2001, 41-56). Il servizio, contenendo in misura maggiore o minore, unadimensione relazionale, deve essere tendenzialmente erogato in tempi prossimio coincidenti con il suo consumo (la baby sitter è necessaria solo nelle ore in cuinon c’è la scuola e quando entrambi i genitori sono impegnati, la richiesta di ser-vizi di ristorazione si intensifica nei week end, il corso di lingua italiana per immi-grati si può svolgere solo nelle ore serali, il lavoro di uno studio di progettazio-ne sociale è scandito dall’uscita dei bandi pubblici, il lavoro della guida turisticasi svolge soprattutto nei mesi estivi, ecc.). L’allargamento del consumo di serviziche si registra nelle società più sviluppate produce precarietà, nel senso di unadiscontinuità e disomogeneità dell’erogazione della prestazione lavorativa nel-l’arco del tempo. Anche in questo caso non serve evocare l’immagine del “tur-bocapitalismo”. Vengono invece chiamate in causa la questione dell’organizza-zione sociale dei tempi di lavoro e dei tempi di vita, nonché la questione fonda-mentale degli ammortizzatori sociali che consentano la continuità del reddito incondizioni di lavoro discontinue. La terza implicazione è rappresentata dallo sbilancio crescente tra la qualità dellavoro socialmente richiesta e la qualità del lavoro che le dinamiche di mercatosono in grado di generare (Brynin 2002). Le nostre società evolute immettonoannualmente nel mercato del lavoro quote sempre più elevate di giovani chehanno un alto titolo di studio e che, coerentemente, manifestano aspettative ele-vate circa la qualità del lavoro cercato. A fronte di ciò l’evoluzione dei posti dilavoro messi a disposizione dell’economia, per effetto dei processi appenadescritti, non sembra conoscere lo stesso andamento. Anche in tal caso è neces-sario considerare questo meccanismo nascosto e pensare ai correttivi. Si puòpartire considerando la compresenza di una “via alta” ed una “via bassa” dell’e-conomia immateriale: nella società terziarizzata la qualità del lavoro nei servizirisulta fortemente correlata all’espansione della domanda di servizi di qualità(settore culturale, editoria, formazione, ecc.). L’espansione di tale genere di con-sumi dipende a sua volta da variabili quali il reddito disponibile, il livello ed il tipodi istruzione e, soprattutto, la disponibilità di tempo libero.Quanto detto nei passaggi argomentativi precedenti, in particolare gli accennicirca gli effetti dell’equilibrio tra tempo di lavoro e tempo libero, mi porta a svi-luppare qualche ulteriore considerazione sul modello occupazionale connesso alparadigma postfordista. L’iper-competitività del “turbo-capitalismo” genera quasiautomaticamente l’immagine di una società dell’iper-lavoro. Tale immagine èsuffragata dalle scelte che i governi stanno assumendo in materia di politiche dellavoro. In occasione del Consiglio di Lisbona del 2000, chiamata la “Maastrichtdel lavoro”, i paesi dell’Ue si sono posti l’obiettivo strategico di elevare al 70% iltasso di occupazione (Reyneri 2002, 263). Lo stesso Libro bianco adottato dal-l’attuale governo italiano ha indicato nel differenziale del tasso di occupazionerispetto alla media europea il problema fondamentale del mercato del lavoro ita-liano (tesi quest’ultima accettata sostanzialmente anche dalle attuali opposizioni

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

Page 68: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

politiche). Ed osserviamo anche che in pochissimi anni è quasi scomparsa dal-l’agenda politica e dalla discussione sociale una questione che aveva tenutobanco per tutti gli anni ’90, ovvero la questione della riduzione dell’orario dilavoro, anche sull’onda di un fervido dibattito a livello scientifico, sostenuto daaccreditati studiosi quali Gorz, Rifkin, Beck, e altri. L’impressione è che ormai sidia per scontato che, in nome dell’accrescimento della ricchezza nazionale e perfronteggiare la pressione competitiva globale, il lavoro divenga sempre più cen-trale, che tutti si debba lavorare di più e più intensamente. Secondo questoassunto gli Stati Uniti risulterebbero “superiori” ai paesi europei poiché più per-sone lavorano (nel 1998 74% negli Stati Uniti contro il 64% in Germania ed il 59%in Francia) (Turner 2002, 119-20) e poiché la media annuale delle ore lavoraterisulta significativamente più elevata (1706 ore negli Stati Uniti, contro 1558 inGermania e 1529 in Francia) (Turner 2002).Lo stesso Turner evidenzia che si tratta di una diagnosi, ancora una volta, misti-ficatoria. In primo luogo, perché parte dell’incremento del Pil, determinato daun innalzamento del tasso di occupazione, non è altro che l’effetto di un pas-saggio dall’economia informale all’economia formale di “servizi” erogati ancheall’interno di società a minore intensità di lavoro: il lavoro “prosciuga” il tempodisponibile per rispondere alle esigenze materiali ed immateriali della famiglia eimplica un crescente accesso al mercato per ricevere i beni ed i servizi cherispondano a tali esigenze (Reyneri 2002, 251-2). In parte significativa, il redditoprodotto dal lavoro corrisponde ad una sorta di “partita di giro”, come ognunodi noi è in grado di registrare, osservando quanta parte del nostro reddito èdestinata a consumi indotti dal fatto stesso di lavorare (cfr. anche Turner 2002,135). Tuttavia, con il passaggio di molte attività dall’economia informale a quellaformale, gli assetti societari risultano stravolti e c’è da chiedersi quali ragioni giu-stifichino ciò. In secondo luogo, ed in termini più generali, Turner conferma chegli Stati Uniti, in virtù del maggiore numero di ore lavorate in rapporto alla popo-lazione (anche se il livello di produttività per ora lavorata è inferiore a quello dimolti paesi europei), generano un maggiore reddito pro-capite, ovvero più ric-chezza da destinare ai consumi, rispetto a quanto avviene mediamente inEuropa. Ma, a suo avviso, risulta perlomeno “bizzarro” il fatto che questo possacostituire un obiettivo di politica economica, anche e soprattutto dal punto divista dei principi base delle scienze economiche: “Gli individui e le società ope-rano degli scambi tra reddito e impiego del tempo libero. Possono scegliere ditrarre benefici dall’aumento delle produttività o in forma di reddito aggiuntivo,o in termini di riduzione delle ore di lavoro, e non dovrebbe essere compitodelle economie liberali (…) indicar loro quale debba essere la scelta” (Turner2002, 121). Gli unici obiettivi sensati sono pertanto, secondo l’autore, l’abbatti-mento della disoccupazione volontaria e l’incremento della produttività. Tali distorsioni derivano, fondamentalmente, dal fatto che il lavoro viene quasisempre rappresentato disembedded dalla vita sociale e personale. Le analisi e gliinterventi non vengono elaborati partendo dal regime lavorativo, dato da uninsieme interrelato di dimensioni “come quelle del lavoro, della famiglia, delleforme di protezione sociale, dell’organizzazione temporale della vita quotidianae così via” (Borghi 2002, 28). Inoltre, come ha evidenziato l’illuminante opera diSennet (2001), andrebbero costantemente considerate le conseguenze del lavo-

68

Page 69: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

69

ro sulla persona, osservata nella sua pienezza di caratteri psicologici e sociali. Daquesto punto di vista, proprio da oltre oceano, dalla patria dell’iper-lavoro, ci ègiunto il monito di un noto economista, Robert Reich (2001), il quale, prenden-do spunto da una vicenda personale, ha evidenziato come il lavoro, se occupatroppe ore, anche quando è molto appassionante e coinvolgente (per non par-lare di quando è noioso, routinario e mal pagato), può avere effetti deleteririspetto ad un equilibrato e soddisfacente sviluppo dalla propria vita21. Egli lanciaun chiaro monito circa la necessità di non dare per scontata l’inevitabilità di unmodello che mette al centro il lavoro nella costruzione dell’identità e ricorda laprevisione di Keynes il quale sostenne che i progressi tecnologici avrebbero con-sentito nel 2030 di lavorare 15 ore alla settimana. Il grado di sorpresa e scettici-smo con cui ci rapportiamo a tale previsione, è inversamente proporzionale aimargini di scelta, o di libertà, che ci concediamo, o meglio, che i nostri dominicognitivi ci concedono.

Dentro o fuori dal gioco: gli spazi per scegliereTali ultime parole mi danno lo spunto per alcune riflessioni conclusive. In ultimaanalisi, ciò che è stato messo in discussione nelle pagine precedenti sono le let-ture e le concezioni “chiuse” della vita economica, che riducono al minimo glieffettivi margini di scelta per gli individui, per le imprese, per le società. Ciò nonsignifica mettere necessariamente in dubbio che gli attori sociali nella sfera eco-nomica siano mossi da un prevalente orientamento massimizzante. Il problemapiuttosto è se vi siano o meno alternative rispetto a ciò che gli attori vogliono odebbono massimizzare. In base a quanto argomentato in precedenza, la possibilità di esercizio di effetti-vi margini di scelta da parte degli attori, individuali e collettivi, nei sistemi eco-nomici contemporanei, dipende significativamente da come noi ce li rappresen-tiamo. La lettura dominante del capitalismo contemporaneo porta a privilegiarel’idea che il nuovo assetto competitivo abbia stretto fortemente le maglie delmeccanismo selettivo: inevitabile è la sensazione che tale meccanismo selettivopossa tagliarci fuori; far perdere, da un momento all’altro, le posizioni acquisitedai singoli individui, gruppi sociali, imprese, comunità territoriali o nazionali.Non a caso il concetto di “società del rischio”, proposto da Ulrich Beck (2000), haavuto tanta fortuna come pilastro concettuale, nell’inquadramento dell’attualeassetto societario. L’impressione è che vi sia un meccanismo impersonale, ester-no, non controllabile, che agisce ex-ante come fonte prescrittiva dei criteri di scel-ta, ed ex-post, come giudice implacabile ed inappellabile dei nostri comporta-menti. Quotidianamente gli organi di informazione danno molto risalto alle noti-zie riguardanti la Borsa, l’andamento dei titoli azionari e valutari; nel descrivere taliandamenti i commentatori parlano di ciò che “i mercati” vogliono e si aspettano,o di ciò che “i mercati” sanzionano (positivamente o negativamente). Se ne parlaquindi, dei mercati, personificandoli, così come usualmente gli esseri umani fannoper rappresentare entità di natura trascendentale o soprannaturale, difficilmenteimmaginabili ed esprimibili altrimenti. Parimenti, assume una posizione cardinale,nelle rappresentazioni mass-mediatiche della nostra società, l’andamento della ric-chezza, che viene rappresentata attraverso una grandezza di cui non molti cono-scono esattamente il significato, ovvero il prodotto interno lordo (Pil). Le stime

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

21 Su questa base Reichha abbandonato, incorso d’opera, unincarico prestigioso egratificante, che lovedeva membro delgabinetto di BillClinton. Egli denunciagli effetti perversideterminati dalla per-vasività, temporale esimbolica del lavoro:“Non sorprende cheogni parte della miavita si fosse inaridita.Avevo perso contattocon la mia famiglia.Vedevo poco miamoglie e i miei duefigli. Avevo perso con-tatto con i vecchiamici. Cominciavo aperdere contatto perfi-no con me stesso, conogni aspetto della miapersona che nonriguardasse il lavoro”(2001, 13).

Page 70: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

fornite dai vari istituti specializzati circa la crescita dell’economia si susseguonoincessantemente, scandiscono il nostro tempo come artefatti simbolici dellanostra fiducia verso il futuro. Anche in questo caso, come in quello dei mercatiborsistici, tali rappresentazioni, avvolte da un’aura di ineluttabilità, paiono ingrado di descrivere e determinare le nostre sorti. La crescita dell’economia, ovve-ro dei consumi, diviene un imperativo sociale a cui pare impossibile sottrarsi.L’economia, allorquando viene trattata come un’istituzione oggettivata, capacedi riprodurre da sé le regole del proprio funzionamento, prescindendo dalle isti-tuzioni sociali, inevitabilmente esautora ed imprigiona l’intelligenza, l’immagina-zione e financo il buon senso. La sfera economica risulta in questo caso ancor piùsegnata da ottusità ed irrazionalità di fondo, rispetto alla “gabbia di ferro” buro-cratica di marca weberiana. In questo senso, quindi, possiamo fare nostra l’ipo-tesi di Sofri, ricordata all’inizio di questo articolo, circa l’impossibilità di conferi-re l’attributo di sistema al capitalismo contemporaneo. Se si può riconoscere inesso una logica assumendo una visione economicista in senso stretto, allargan-do tale visione, concependo l’economia come embedded nel sociale (ovverosecondo un’idea di razionalità sostanziale in senso weberiano), se ne ravvisaun’oscura illogicità (Belohraksky 2002).È quanto si riscontra chiaramente osservando ciò che accade nei mercati finan-ziari. Si tratta dei mercati che, dal punto di vista dei requisiti formali, più si avvi-cinano all’idealtipo della concorrenza perfetta. Tuttavia, Turner ravvisa in essi deivizi sostanziali di funzionamento che li rendono del tutto anomali e pericolosa-mente irrazionali. Il motivo è che il prezzo dei “beni” scambiati su tali mercati(titoli azionari o obbligazionari, valute, ecc.) risulta quasi del tutto sganciato dalvalore intrinseco dei beni stessi, perché le scelte di acquisto o di vendita sonobasate, essenzialmente, su “scommesse” circa gli andamenti futuri (2002, 365-6).In un recente intervento Gallino (2003b) ha ben precisato come i meccanismidel capitalismo finanziario tengono in scacco un po’ tutti, non solo i vinti, maanche i vincitori. Quanto è recentemente accaduto ad importanti imprese comela Enron o la Parmalat, e che coinvolgono pezzi importanti del sistema econo-mico come il sistema bancario e le società di revisione, non è spiegabile soltan-to in termini di caduta, più o meno diffusa, dell’etica negli affari. Si tratta invece,secondo Gallino, di un una sorta di difetto congenito dei mercati finanziari. Inparticolare, il sociologo torinese pone all’indice il meccanismo di creazione delvalore: esso non si basa più sui buoni rendimenti dei titoli in termini di interessio dividendi, bensì sulla variazione della quotazione dei titoli stessi. Quest’ultimadipende essenzialmente dall’efficacia dei “segnali” lanciati dalle imprese, nel sin-tonizzarsi con gli investitori sulle frequenze generate da potenti “miti istituziona-lizzati” (Meyer e Rowan 1986): profitti di breve, ristrutturazioni organizzative,riduzione del personale, strategie di acquisizioni e fusioni. Le aspettative degliinvestitori, visto il loro atteggiamento da “scommettitori”, sono quelle di rendi-menti che la normale attività industriale non è assolutamente in grado di assicu-rare; ciò intrappola gli stessi manager i quali sono costretti a lasciar “cadere laproduzione in secondo piano, nel proprio ordine di priorità, per cimentarsi piut-tosto in rocambolesche costruzioni e manovre finanziarie, sperando di trarre daesse i profitti che la normale attività produttiva non permetterà mai (…) di rea-lizzare” (2003b). Non basta quindi pensare ad un rafforzamento degli organi di

70

n.8 / 2004

Page 71: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

controllo, in modo da dissuadere comportamenti illeciti, perché il problema difondo è rappresentato da “una concezione profondamente distorta dell’impresacontemporanea”, dove l’attività produttiva soggiace totalmente al “turbine spe-culativo”. Tale concezione, dice Gallino, “è stata alimentata da uno stuolo innu-merevole di studiosi e di commentatori economici, di centri di ricerca e di isti-tuzioni internazionali” (Gallino 2003b). Scegliere vuol dire quindi rompere talemeccanismo, spezzare il cortocircuito tra impresa e speculazione, sganciarsi daldominio cognitivo che qualifica come ineluttabili tali meccanismi.Più in generale, richiamando nuovamente le osservazioni di Turner, è utile riflet-tere su quello che è il significato del concetto di ricchezza. Le misure fornite daisistemi di contabilità nazionale tengono assieme, ad esempio, le spese effettua-te per la produzione di armi o la costruzione di prigioni, con quelle destinateall’istruzione o alla sanità; come pure, standardizzano le spese destinate all’ac-quisto di libri o all’acquisto di suonerie per i telefoni cellulari. A lume di buonsenso, è evidente che le precedenti categorie di spesa e consumo, quantunquesi equivalgano in termini di contributo alla ricchezza nazionale misurata, produ-cano benefici incommensurabili in termini di benessere personale e collettivo. Èrisaputo, inoltre, che il Pil non contabilizza il benessere generato dal lavoro svol-to non per il mercato ma per auto-consumo o su base di reciprocità (ad esem-pio le attività svolte in ambito familiare o amicale, il volontariato, ecc.). Parimenti,risultano escluse dalle misure della ricchezza i benefici derivanti da un ambientefisico e sociale non degradato, equilibrato e sostenibile, “ricco” di valori qualita-tivi tali da incidere profondamente sul livello di benessere della popolazione (adesempio la dotazione di capitale intellettuale, la coesione e l’equità sociale, lafiducia e la cooperazione interpersonale, la moralità diffusa, la partecipazionepolitica, la gradevolezza estetica del paesaggio, l’aria pulita, la bassa congestionedel traffico, ecc.)22. Alla luce delle precedenti considerazioni, dovrebbe risultare evidente che ilsuperiore reddito, o tasso di crescita pro capite, di un paese rispetto ad un altronon può essere assunto come un inequivocabile segno di “superiorità” di unodei due modelli. Il Pil più elevato può dipendere dal fatto che in un caso le per-sone lavorano di più, mentre nell’altro lavorano di meno, probabilmente perchéapprezzano maggiormente il “valore” (non misurato dalla contabilità nazionale)del tempo libero. Inoltre, possono incidere scelte che compromettono parzial-mente il livello di produttività o di consumo (ad esempio il contenimento dellaprecarietà nel mercato del lavoro, la tassazione delle produzioni e dei consumiad elevato impatto ambientale), ma producono nel contempo benefici sociali edindividuali di altra natura. Ne consegue che, come sostiene a più riprese e conforza lo stesso Turner, il Pil non può assurgere al ruolo di indicatore universaledell’insieme di aspirazioni e valori che una società può decidere di perseguire edi massimizzare. Esso piuttosto dovrebbe entrare in un rapporto di trade-off condimensioni alternative del benessere personale e collettivo. Riconoscere tali trade-off e farli riemergere nel dibattito costituisce il nodo fonda-mentale per restituire alle società margini di scelta. Il che presuppone l’adozione dischemi cognitivi aperti, la crescita di una “capacità negativa” che ci dia la forza di con-vivere con la complessità, piuttosto che negarla o rimuoverla attraverso le semplifi-cazioni che deriviamo da paradigmi troppo forti (Morin 1984). È molto facile infatti

71

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

22 Analogamente, inbase allo stesso princi-pio, anche la distru-zione di tali beneficinon viene considerataun costo.

Page 72: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

che quella complessità “torni fuori”, ci si ritorca contro e finisca per soggiogarci.Bibliografia di riferimentoAccornero A. (1997), Era il secolo del lavoro, Bologna, Il Mulino.Albert, M. (2001), “Capitalismo contro capitalismo. Dieci anni dopo”, in IlMulino, n. 3, pp. 383-395.Arthur M.B, Rousseau D. (eds.) (1996), The Boundaryless Career. A NewEmployment Principle for a New Organizational Era, Oxford, OxfordUniversity Press.Barbera F. (2003), “È nata una stella? Autori, principi e obiettivi della sociologiaanalitica”, in Rassegna italiana di sociologia, n. 4, pp. 581-608.Bauman Z. (2000), Modernità liquida, Laterza, Bari.Beck U. (2000), La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma,Carocci.Bell D. (1973), The Coming of Post-industrial Society, New York, Basic Books.Belohrasky V. (2002), Tra il vapore e il ghiaccio sulle antinomie della globa-lizzazione, Gorizia, I.S.I.G.Bifulco L. (2003), Che cos’è una organizzazione, Roma, Carocci.Bifulco L., De Leonardis O. (a cura di) (1997), L’innovazione difficile. Studi dicambiamento organizzativo nella pubblica amministrazione, Milano, Angeli.Biggiero L. (1990), Teorie dell’impresa. Un confronto epistemologico tra il pen-siero economico e il pensiero organizzativo, Milano, Angeli.Blasutig G. (2001), Capitalismi tra varietà e convergenza. Un’analisi sociolo-gica, Gorizia, I.S.I.G.Bologna S., Fumagalli A. (a cura di) (1997), Il lavoro autonomo di seconda gene-razione. Scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano.Bonazzi G. (2002), Come studiare le organizzazioni, Bologna, Il Mulino.Bonomi A. (1997), Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel NordItalia, Torino, Einaudi.Borghi V. (2002), “Lavoro e modelli organizzativi”, in M. La Rosa (a cura di),Sociologia dei lavori, Milano, Angeli, pp. 27-42.Brynin M. (2002), “Graduate density, gender, and employment”, in BritishJournal of Sociology, n. 53, pp. 363-381.Butera F. (1990), Il castello e la rete, Milano, Angeli.Butera F., Donati E., Cesaria R. (1997), I lavori della conoscenza, Milano, Angeli.Cappero Martinetti E. (2003), “Ciò che manca per vivere”, in Altreconomia,novembre 2003, pp. 18-23.Castells M. (2002), La nascita della società in rete, Milano, Egea.Crouch C., Streeck W. (1997), “Il futuro della diversità dei capitalismi”, in Stato eMercato, n. 49, pp. 3-29.Dall’Agata C. (2002), “Lavoro e nuovi lavori nel postfordismo: paradossi e cambia-menti”, in M. La Rosa (a cura di), Sociologia dei lavori, Milano, Angeli, pp. 43-60.De Leonardis O. (2001), Le istituzioni. Come e perché parlarne, Roma, Carocci.Drucker P. (1993), The Post-capitalist Society, Oxford, Butterworth Heinemann.Elster J. (1993), Come si studia la società. Una “cassetta degli attrezzi per lescienze sociali, Bologna, Mulino.Friedman M. (1953), Essay on the Methodology of Positive Economics, Chicago,Chicago University Press.

72

Page 73: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

73

Fukuyama F. (1996), Fiducia, Milano, Rizzoli.Galbraith J.K. (1977), The New Industrial State, Boston, Houghton MiffinCompany.Galgano F. (1993), “Le istituzioni della società post-industriale”, in F. Galgano, S.Cassese, T. Treu, Nazioni senza ricchezza e ricchezze senza nazione, Bologna,Il Mulino.Galli R. (1991), “Introduzione: verso nuovi assetti a geometria variabile”, in R.Galli (a cura di), Globale/locale, Torino, Isedi, pp. 1-38.Gallino L. (2001), Il costo umano della flessibilità, Bari, Laterza.Gallino L. (2003a), La scomparsa dell’Italia industriale, Torino, Einaudi.Gallino L. (2003b), “Profitti e bugie: gli azionisti in trappola”, in La Repubblica,27 dicembre 2003.Geraffy G. (1994), “The international economy and economic development”, inN.J. Smelser, R. Swedberg, The handbook of economic sociology, New York,Princeton University Press, pp. 206-233.Ghirardini P., Pellinghelli M. (2000), I non disoccupati. Laureati e diplomatinell’Italia della piena occupazione, Bologna, Il Mulino.Gilpin R. (2002), The Challenge of Global Capitalism: The World Economy inthe 21st Century, Princeton, Princeton University Press.Hardt M., Negri A., Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli,Milano, 2002.Heckscher C., Donnellon A. (1994) (eds.), The Post-bureaucratic Organization.New Perspectives on Organizational Change, London, Sage.Lafay G. (1998), Capire la globalizzazione, Bologna, Il Mulino.Lanzara G.F. (1993), La capacità negativa, Bologna, Il Mulino.Lash S., Urry J. (1987), The End of Organized Capitalism, Cambridge, Polity Press.Lash S., Urry J. (1994), Economies of Signs and Space, London, Sage.Lorenzoni G. (1990), L’architettura di sviluppo delle imprese minori, Bologna,Il Mulino.Luttwak E. (1999), La dittatura del capitalismo, Milano, Mondadori.Magatti M. (1993), “Introduzione”, in M. Magatti (a cura di), Azione economicacome azione sociale, Angeli, Milano, pp. 9-48.Mariotti S. (1994) (a cura di), Verso una nuova organizzazione della produ-zione. Le frontiere del post-fordismo, Etas, Milano.Meyer J.W., Rowan B. (1986), “Le organizzazioni istituzionalizzate: la strutturaformale come mito e cerimonia”, in P. Gagliardi, Le imprese come cultura,Torino, Isedi, pp. 237-264.Morin E. (1984), Scienza con coscienza, Milano, Angeli.Piore M.J., Sabel C.F. (1987), Le due vie dello sviluppo industriale. Produzionedi massa e produzione flessibile, Isedi, Torino.Pizzorno A. (2001), “Natura della disuguaglianza, potere politico e potere priva-to nella società in via di globalizzazione”, in Stato e Mercato, n. 62, pp. 201-236.Reich R.B. (1993), L’economia delle nazioni, Milano, Ed Il Sole 24 Ore.Reich R.B. (2001), L’infelicità del successo, Roma, Fazi Editore.Revelli M. (1997), La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, Torino, BollatiBoringhieri.Reyneri E. (2002), Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, Il Mulino.

Gabriele Blasutig Postfordismo: un paradigma troppo debole o troppo forte?

Page 74: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

Rifkin J. (1995), La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’av-vento dell’era post-mercato, Milano, Baldini&Castoldi.Rifkin J. (2000), L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Milano,Mondadori.Rubery J, Grimshaw D. (2001), ICTs and employment: The problem of job qua-lity”, in International Labour Review, n. 2, pp. 165-192.Rullani (1994), “Sistema locale mercato globale: una risposta”, in G. Becattini, S.Vaccà (a cura di), Prospettive degli studi di economia politica industriale inItalia, Milano, Angeli, pp. 376-395.Rullani E. (1998), “Dal fordismo realizzato al fordismo possibile: la difficile trans-izione”, in E. Rullani, L. Romano (a cura di), Il postfordismo. Idee per il capitali-smo prossimo venturo, Milano, Etaslibri, pp. 3-81.Sennet R. (2001), L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sullavita personale, Feltrinelli, Milano.Sofri A. (2003), “Cambiare il mondo o la cravatta di Lenin?”, in L’Unità, 1 novem-bre 2003.Streek W. (2000), “Il modello sociale europeo, dalla redistribuzione alla solida-rietà competitiva”, in Stato e Mercato, n. 58, pp. 3-24.Touraine (1972), La società post-industriale, Bologna, Il Mulino.Trentin B. (1997), La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Milano,Feltrinelli.Trigilia C. (1998), Sociologia economica, Il Mulino, Bologna.Trigilia C. (2002), “Dove si ferma la libertà di scelta”, in Stato e Mercato, n. 3, pp.525-533.Turner A. (2002), Just capital. Critica del capitalismo globale, Bari, Laterza.Vaira M. (2003), “Verso un’Università post-fordista? Riforma e ristrutturazioneorganizzativa nell’Università italiana”, in Rassegna italiana di sociologia, n. 3,pp. 337-355.Wade R. (1998), “La globalizzazione e i suoi limiti”, in S. Berger, R. Dore,Differenze nazionali e capitalismo globale, Bologna, Il Mulino, pp. 77-112.Wallerstein I. (1979), The Capitalist World-Economy, Cambridge, CambridgeUniversity Press.

Gabriele Blasutig é ricercatore all’Università di Trieste, insegna Sociologiadell’Organizzazione e Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro alla Facoltàdi Giurisprudenza.

([email protected])

74

Page 75: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

1. Le ragioni di una discontinuità preannun-ciata Dopo gli accordi di Maastricht, il Mercato europeoallargato, l’introduzione della moneta unica e lafine delle svalutazioni competitive, e soprattuttonella realtà strisciante di una globalizzazione conpoche regole o trattati (in linea con una diffusatendenza neoliberista), è opinione condivisa cheper poter affrontare la crescente competizionemondiale si sia posta per il sistema produttivoveneto l’esigenza di avviare importanti processi diristrutturazione e adeguamento strategico. In par-ticolare, che si renda necessario introdurre nelsistema e nei suoi output finali e intermedi dosi diinnovazione tecnologica nettamente maggioririspetto al passato. Le ragioni che determinano l’e-sigenza di innovare sono frequentemente richia-mate nel dibattito in corso nella nostra regione, ein genere vengono collegate ai problemi insorti sulversante della competitività. Tuttavia le difficoltàconnesse a questo tipo di strategie appaiono avolte sottovalutate. Una delle difficoltà principaliriguarda la produzione della nuova conoscenzanecessaria all’innovazione. Tentiamo qui di analizzare, nel solcodell’Economia dell’innovazione, le questioni chein proposito si aprono, segnalando alcuni luoghicomuni diffusi. In questo paragrafo viene sintetica-mente richiamata la natura delle discontinuità del-l’ambiente internazionale che generano pressionia innovare. Nel secondo paragrafo vengono illu-strate le difficoltà e i rischi che caratterizzano le

75

Passaggio a NordEst

Giorgio Gottardi

Pressioni innovative e path dependency nelsistema veneto. Come produrre la nuova conoscenza necessaria?

strategie innovative, nonché i vincoli generati dalcontesto entro il quale tali strategie dovrebberoprodursi . Nel terzo paragrafo vengono descritti insintesi i risultati recenti lo stato dell’arte del filonedell’Economia dell’innovazione. Nel quarto infine,le considerazioni e i risultati precedenti vengonoriassunti in un quadro d’insieme; il modello cheemerge fornisce, con particolare riferimento agliincentivi per la produzione di nuova conoscenza,alcune modeste indicazioni per la regolazione delprocesso innovativo, tenendo conto dei vincoli delcontesto.Sull'opportunità di affrontare le discontinuità del-l’ambiente stimolando o accelerando in qualchemodo l'evoluzione del sistema e dei suoi cluster edistretti tradizionali esistono oggi varie e robusteargomentazioni. Tra i problemi posti dal nuovoquadro internazionale, la crescente presenza suimercati di paesi terzi e a recente industrializzazio-ne viene vista come particolarmente minacciosa.Questi paesi, oltre ad avvantaggiarsi di una struttu-ra interna dei prezzi dei fattori che rende insoste-nibile il confronto nelle produzioni labour intensi-ve, riescono anche, grazie alla rapida diffusione ditecnologie, capacità e skill, ad affacciarsi al com-mercio internazionale con prodotti di buona quali-tà e contenuto tecnologico tutt’altro che banale. I dati mostrano, in linea con una tendenza nazio-nale, che la competitività delle imprese della regio-ne sta calando. Secondo le note stime del WorldEconomic Forum, nel 2003 l’Italia è scesa dal 33° al41° posto nella graduatoria della competitività

Page 76: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

internazionale (era al 19° posto agli inizi degli anni'90). Nei primi otto mesi del 2003 la competitivitàsui prezzi è scesa del 3%, dopo un calo di oltre il7,5% tra il quarto trimestre del 2002 e lo stessoperiodo del 2001 (relazione del GovernatoreFazio, 31/10/2003). Nei primi sei mesi del 2003 leesportazioni, riportate su base annua, si sonoridotte di oltre il 10%. Anche l'export veneto,soprattutto quello denominato in dollari, ha subi-to colpi non lievi.In parte, questi risultati sono imputabili al down con-giunturale dell’economia mondiale. Tuttavia è damolti anni che la quota dell’export italiano sul totalemondiale sta calando: dal 4,5% nel 1995 si è portataal 3,6% nel 2002 e risulterà direttamente inferiore nel2004. Questa tendenza, in atto da una ventina d'an-ni, non è dovuta solo al fatto che, crescendo enor-memente il volume assoluto del trade mondiale, èsempre più difficile per l’Italia e per la nostra regio-ne mantenere le percentuali acquisite nel corsodegli anni ’80; c’è una perdita effettiva di competiti-vità del nostro paese sui mercati internazionali, chegenera in alcuni settori una contrazione assoluta del-l’export, in linea con le strategie di trade-up delleimprese (progressiva focalizzazione su segmenti dimercato più ricchi ma sempre più ristretti).Gli ultimi due anni sono stati particolarmente diffi-cili per l’industria veneta. Nel primo semestre 2003gli investimenti interni in beni strumentali sonoarrivati a ridursi di oltre il 15% (dato Unioncamere),mentre gli investimenti pubblici appaiono ancorafrenati da ritardi, da vincoli amministrativi e da dif-ficoltà di bilancio. Fonti non ufficiali o confidenzia-li indicano come possibile per la nostra regione,dopo gli insoddisfacenti risultati del 2003, una stasio un calo ulteriore nel 2004 degli ordinativi e delfatturato in vari settori manifatturieri. Le attesesono naturalmente che la ripresa americana mani-festatasi nel secondo semestre del 2003 porti a riav-viare il ciclo internazionale (alcuni osservatori riten-gono anzi che la crescita degli USA, del Giappone e,a ritmi assai maggiori, della Cina attiverà una solidaespansione globale). Tuttavia gli esiti della ‘terapiapesante’ a cui Alan Greenspan (enorme liquidità,tassi tendenti a zero, robusto sostegno a WallStreet) e George Bush (forte aumento del debitopubblico) hanno sottoposto l'economia USA lascia-

no incerti alcuni analisti. Molti ritengono che gli effetti sull'economia euro-pea della crescita dei paesi più dinamici giunge-ranno alquanto ritardati; e che la debolezza deldollaro, destinata secondo alcuni osservatori a pro-trarsi, penalizzerà una parte importante dell’exportitaliano e veneto in particolare. Inoltre non è affat-to detto (e anzi è improbabile) che la crescita dellaCina migliori il saldo import/export delle produ-zioni manifatturiere venete. Infine, se da un lato lasolida struttura industriale delle aree tedesche efrancesi induce a confidare sulla loro capacità diripresa a breve-medio termine, la fragilità struttu-rale e finanziaria delle imprese venete, aggravatadai risultati dell’ultimo biennio, solleva alcunepreoccupazioni.Non è certo la prima volta che si pone per leimprese della nostra regione la necessità di rinno-vare le strategie. Questo accadde ad esempio all'i-nizio degli anni ’80; allora la soluzione fu indivi-duata nel deciso innalzamento del contenuto qua-litativo dei prodotti. Tuttavia è proprio a partire daquegli anni che le strategie aziendali e di distrettoappaiono meno vivaci, essendosi sostanzialmenteconcentrate sul tentativo di conservare i vantaggicompetitivi acquisiti nell’ambito delle specializza-zioni produttive in essere, senza svilupparne dav-vero di nuove. In quegli stessi anni emergono alcu-ne delle le attuali imprese leader, che ampliano laloro presenza sui mercati internazionali e contem-poraneamente sviluppano e regolano il tessutolocale della fornitura e della sub-fornitura.All’inizio degli anni ’90 la grave crisi di moltidistretti, dovuta a una pericolosa caduta delladomanda mondiale, viene risolta introducendomiglioramenti tecnologici nei processi e nellastruttura dei costi, lavorando ancora sulla qualità ericercando sbocchi più ampi sui mercati interna-zionali (Gottardi, 1994). E anche beneficiando diuna svalutazione secca della lira (oltre il 25%; set-tembre 1992). Nell'ultima ventina d'anni moltisforzi sono stati dedicati ad accrescere la produtti-vità del lavoro attraverso ulteriori aggiornamentitecnologici dei processi. Tuttavia, nel Veneto, lasoluzione organizzativa ha prevalso sulla soluzionetecnologica: le strategie cost-saving si sono fonda-te più che sull'automazione o su un’impiantistica

n.8 / 2004

76

Page 77: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

77

avanzata, sulla razionalizzazione delle filiere e suun modello di organizzazione industriale peculia-re, congruente con il quadro politico e sociale esi-stente. Per molti anni la competitività veneta, intermini di costi e qualità, è stata sostenuta dalmodello del distretto industriale, ossia dai vantag-gi di una divisione spinta del lavoro resa possibiledalla presenza di asset cognitivi diffusi e da costi ditransazione trascurabili.Si è trattato in definitiva di uno “sviluppo senzaricerca e sviluppo” (Gottardi, 1996) con migliora-menti qualitativi ottenuti incrementalmente. Nellamaggior parte delle piccole imprese venete, tecno-logicamente supplier dominated (Pavitt, 1984),l'attività innovativa si è rivolta (o meglio, limitata)all’acquisto di impianti e macchinari senza investi-menti in ricerca sul prodotto (salvo alcune notevo-li eccezioni). Dalla crisi degli anni '90 ad oggi, non-ostante le modifiche del quadro macroeconomico,le strategie della maggior parte dei distretti venetinon hanno subito cambiamenti sostanziali, conti-nuando per lo più a incentrarsi sul miglioramentodel rapporto qualità/prezzo e su razionalizzazioniproduttive e distributive nell’ambito delle specia-lizzazioni originarie.La natura dei rischi che incombono è ben esempli-ficata dal sistema della moda: la qualità intesacome accuratezza di lavorazione (in passato unadelle caratteristiche dell’export veneto) viene oggigarantita molto bene anche dai paesi del Sud Estasiatico e dalla Cina; mentre quella intesa comevalore d'uso (derivante dall'apporto del disegno edel brand) sta diventando di fatto una commodityottenibile dalle multinazionali della moda dietropagamento di royalties, da parte di imprese diqualsiasi paese (peraltro il design viene semprepiù spesso e prontamente imitato). In altri settorile strategie di prodotto si sono concentrate sullaqualità in senso funzionale (miglioramento delleprestazioni tecniche) e sui costi, come nella com-ponentistica industriale e nei beni tradizionali diconsumo durevole. Ma anche in questi casi non siè avuto un aumento sostanziale dei loro contenutitecnologici; e anche i tentativi di diversificazionesono stati modesti.I mutamenti nell’anfiteatro politico-economico e laprogressiva caduta delle barriere al trade stanno

portando le economie di regioni e paesi diversi aconfrontarsi direttamente. Nel caso del Veneto,nonostante la collocazione favorevole rispetto aimercati del centro e nord-Europa, questi muta-menti stanno provocando una rottura degli equili-bri che il sistema produttivo regionale aveva fati-cosamente recuperato alla fine degli anni ’90. Laconcorrenza internazionale (selvaggia in alcunicomparti) sta minando seriamente il posiziona-mento di molte piccole e medie imprese fornitricie sub-fornitrici che traevano ruolo e sostegno eco-nomico dalla rete locale. Prive di potere di merca-to, queste imprese devono soddisfare una doman-da resa sempre più esigente e volatile dalla diffu-sione massiccia di strategie di approvvigionamentoglobale. I grandi committenti, locali o meno, cam-biano oggi rapidamente fornitore o sub-fornitorein funzione del prodotto, del progetto, dell’area dioperazione e del mercato servito; e ovviamentedel prezzo. Non è un caso che la componentisticaveneta in molti settori (come fonderia, meccanica,elettromeccanica, controlli industriali, elettronica;per non parlare della sub-fornitura nell'abbiglia-mento) sia in difficoltà. Mentre aumenta il poteredi mercato delle imprese integratrici o produttriciinternazionali di sistemi per il mercato finale, cheadottano politiche di procurement globale (alcunedi queste stanno raggiungendo posizioni di oli-gopsonio mondiale). Oltre ad accendere la competizione tra fornitori esubfornitori a livello internazionale, le nuove con-dizioni facilitano la delocalizzazione di fasi o del-l'intera produzione. Questi processi investonoampiamente la nostra regione; al punto che, inmancanza di new-comer, potrebbe prodursi intempi non lunghi la deindustrializzazione di polifino a ieri molto vitali, come ad esempio il tessile-abbigliamento ma in generale sono a rischio idistretti della sub-fornitura e della componentisti-ca tecnologicamente povera in tutti i settori). Un altro aspetto preoccupante è che anche l’asset-to del territorio inizia in alcuni casi ad essere pocofavorevole: paradossalmente, una merce può usci-re ‘competitiva’ da uno stabilimento veneto e nonesserlo più subito dopo, a causa dei problemi diviabilità e in generale di infrastrutture di trasporto,logistiche e di servizio, rese inadeguate da un

Giorgio Gottardi Pressioni innovative e path dependency nel sistema veneto

Page 78: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

78

modello di divisione del lavoro che richiede lamovimentazione quotidiana di quantità sempremaggiori di merci all’interno di aree circoscritte.Provocando a volte un livello tale di urbanizzazio-ne e intasamento da renderle asfittiche. Secondo alcuni, tutto questo sta riducendo la stra-tegicità della localizzazione all’interno dei distrettitradizionali, e quindi mettendo radicalmente indiscussione un modello di crescita territoriale cheha tenuto per cinquant'anni (alcune delle ragioniche stanno spiazzando la competitività dei distret-ti manifatturieri protagonisti del miracolo venetosono descritte nei documenti di lavoro delProgramma regionale di sviluppo 2003). Per questimotivi, nei circoli imprenditoriali, politici e anchescientifici inizia a diffondersi la convinzione che lacrescita non potrà continuare a basarsi sulla lea-dership di costo e su attività (settori, tecnologie)mature o facilmente imitabili. Se in origine questeattività hanno prodotto opportunità originali dibusiness e innescato dinamiche endogene di cre-scita, oggi queste opportunità sembrano prossimead esaurirsi; e dunque si porrebbe la necessità diavviare processi di innovazione sostanziale. Questasoluzione apre tuttavia vari problemi che nonsempre appaiono analizzati a fondo, o del tuttocompresi.

2. Perché innovare è difficileIl modo verboso e alquanto prescrittivo con cui intaluni ambienti l'innovazione viene salutata comenew deal risolutivo per il sistema veneto trascura anostro avviso alcuni questioni sostanziali. In parti-colare omette di affrontare o sottovaluta le diffi-coltà di implementazione di questo tipo di strate-gie, oltre a non tenere conto del tutto dei vincolidati dal contesto entro il quale gli auspicati pro-cessi innovativi dovrebbero prodursi.

Effetti di lock-inIl fatto che l’attenzione delle imprese manifatturie-re venete si sia concentrata tanto a lungo (mezzosecolo!) sul processo produttivo e sui costi, nel-l'ambito delle specializzazioni di prodotto origina-rie, ha varie conseguenze. In tutti questi anni ilsistema delle relazioni industriali e delle capabilitysi è fortemente specializzato a livello locale. La spe-

cificità delle relazioni, degli asset e dei patrimonicognitivi che caratterizza i distretti ha generatoeconomie di specializzazione in senso ampio, ed èstata alla base delle notevoli performance espressea fino a tempi recenti. Specializzazioni produttivelocali che arrivano a coinvolgere istituzioni, socie-tà e organizzazione del territorio possono tradursiin grandi vantaggi competitivi a livello internazio-nale. Simili assetti hanno tuttavia una controparti-ta: generano forti effetti di lock-in per i soggettiche sperano al loro interno. Se da un lato l'appar-tenenza a un sistema o a una rete di questo tipogenera grandi esternalità positive per tutte leimprese insediate (dai piccoli sub-fornitori ai lea-der locali, ciascun operatore ricavando in largamisura dalla rete i fattori, gli input e le conoscenzenecessarie), dall’altro questi legami rendono diffi-cile o impossibile sviluppare attività produttive chenon siano congruenti con le specializzazioni inessere. Gli effetti di lock-in disincentivano e pos-sono di fatto impedire strategie di innovazione diprodotto o di diversificazione, con riferimento siaai beni finali che agli input intermedi lungo la cate-na del valore. Nei distretti e sistemi locali venetil’innovazione di processo è sicuramente interve-nuta, ma è stata per lo più incorporata in investi-menti produttivi e in asset immateriali dedicati; ilche può aggravare oggi lo stato di cose, perché lapresenza di capitale fisso e di capitale umano spe-cializzato accresce i costi di switching. Gli effetti dilock-in tendono inoltre ad auto-rinforzarsi e dun-que a mantenersi sui tempi lunghi: storicamente laloro interruzione è avvenuta più di fronte a crisiirreversibili che a strategie predeterminate (lasorte del calzaturiero di Vigevano è un esempio inquesto senso). Questi effetti, se da un lato spiega-no la lunghissima permanenza delle imprese vene-te all’interno delle specializzazioni produttive ori-ginarie, dall'altro potrebbero rappresentare infuturo, per l’innovazione di prodotto, un vincolonon trascurabile del quale occorrerà tenere conto.

Orientamenti tecnologiciLa Regione Veneto ha dedicato molta attenzione,nell'ultima quindicina d'anni, al tema dell'innova-zione. Oltre a vari interventi legislativi di promo-zione diretta e indiretta (come quelli sulla qualità),

Page 79: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

79

l'Ente ha favorito la costituzione di strutture perl'innovazione e la diffusione (agenzie, aziende stru-mentali, finanziaria regionale, parchi scientifici,BIC). Molte di queste azioni hanno il merito di averinterconnesso ambienti e soggetti prima poco onulla comunicanti, e di aver promosso in modo dif-fuso (non centralizzato) il dibattito sui temi delcambiamento tecnologico. Tuttavia l'Ente non si èspinto fino a definire una politica scientifico-tecno-logica (nel senso che viene dato al termine scienceand technology policy nel mondo anglosassone),preferendo politiche di sostegno alla domanda dif-fusa, sostanzialmente non coordinata, emergentedalle singole imprese. Questo approccio, a nostroavviso, ha spezzettato gli sforzi e ne ha ridotto glieffetti; ma soprattutto non ha affrontato duesostanziali questioni: il technology assessment (ilcomplesso delle analisi necessarie a valutare pro-spettive e opportunità tecnologiche, e i possibilieffetti sul sistema regionale e sui settori che lo com-pongono), e le scelte necessarie a definire in modonon eccessivamente generico gli interventi diorientamento e sostegno all’innovazione (quest’ul-timo limite è probabilmente alla base della carenzadi progettualità dei parchi scientifici). E’ vero,peraltro, che nella nostra regione la domanda diinnovazione è spesso latente, implicita, polverizza-ta in migliaia di piccole e medie imprese che ven-gono da una tradizione tecnologicamente povera; ilche rende oggettivamente complesso definire poli-tiche e interventi (queste stesse ragioni rendonodifficile alle imprese venete accedere alla ricercaapplicata prodotta negli ambienti accademici). E vaanche riconosciuto che alcune scelte recenti paio-no prefigurare una politica tecnologica più precisa(interpretiamo in questo senso, ad esempio, ildistretto delle nanotecnologie; a prescindere natu-ralmente dalla congruenza e dalle reali ricadute chepotrà avere questa scelta).

Nuova conoscenza per l’innovazioneUna questione che sembra essere sottovalutataoppure causa di misunderstanding nel dibattitosulle strategie per l’innovazione in atto nella nostraregione sono le fonti della nuova conoscenzanecessaria, ovvero i problemi posti dalla sua pro-duzione. Sembra a volte che venga dato per scon-

tato che la conoscenza necessaria a innovare siafacilmente acquisibile da parte delle imprese oche, con l'aggiunta di qualche azione di interme-diazione, il sistema possa attingere a quella pro-dotta negli ambienti accademici della ricerca,come a serbatoi o miniere di cultura e conoscenzatecnologica rapidamente trasferibile. Alla lucedelle interpretazioni recenti dell’Economiadell’Innovazione questa visione appare discutibile.E a prescindere dalla teoria, non mancano oggirilievi critici su una prescritta scersa capacità degliambienti accademici a produrre risultati utili per ilbuisness. In realtà i processi innovativi sono moltopiù complessi rispetto ai modelli naif (o al cosid-detto ‘modello lineare’ dell’innovazione), cheassumono l’esistenza di un percorso in qualchemodo deterministico dalla ricerca, allo sviluppo,allo sfruttamento commerciale (interpretazioniaggiornate sui reali modi di prodursi dei processiinnovativi sono riportate nel prossimo paragrafo).

Risorse finanziarie e umaneSi ha a volte l'impressione che anche i costi e irischi dell'innovazione siano sottovalutati.Innovare è una strategia costosa e rischiosa perchèrichiede risorse che raramente l’impresa detieneinteramente nella quantità e qualità necessarie, eperchè i risultati in termini di nuovi prodotti e delloro successo commerciale non sono mai garantitiin anticipo. Nelle strategie innovative sono critichesoppratutto le risorse finanziarie e le risorseumane. La scelta di imboccare questa strada postu-la (particolarmente nei sistemi di piccole e medieimprese finanziariamente deboli) l’esistenza sia diampie risorse pubbliche che di un mercato finan-ziario moderno, articolato, efficiente. Inoltre non èpossibile raggiungere risultati di eccellenza senzaintensificare e finalizzare le attività di ricerca appli-cata e di sviluppo, e dunque servono ricercatori.Infine, per trasformare i risultati della ricerca inbusiness profittevoli occorrono operatori o man-ager dell'innovazione, dentro l'impresa e ai suoiconfini. Non ci sembra che queste condizioni pos-sano essere date per scontate nella nostra regione.

Non stupisce quindi che, al momento, molteimprese venete battano strade differenti. Una è

Giorgio Gottardi Pressioni innovative e path dependency nel sistema veneto

Page 80: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

rappresentata dalle strategie di produzione eapprovvigionamento ‘globale’. Molto meno costo-se e rischiose rispetto a innovazioni di prodotto oprocesso, queste strategie cost saving sono giàabbastanza diffuse. Gli strumenti con cui vengonorealizzate sono l'internazionalizzazione della cate-na del valore e la selezione dei fornitori e dei terzi-sti privilegiando i paesi a basso costo del lavoro,fino alla delocalizzazione di fasi o di interi cicli pro-duttivi (oggi soprattutto nell’Est europeo). Questoconsente di mantenere più o meno invariati nonsolo prodotti e processi ma a volte anche il model-lo delle relazioni produttive, come quando si tentadi riprodurre extra moenia la struttura stessa deldistretto. E però rinviando, in questo modo, i pro-blemi connessi all'innovazione. D’altro canto ogni processo innovativo di unaqualche portata genera impatti non solo sull’im-presa ma anche sull’economia, sulla società e sulterritorio. Il discettito non sembra aver chiarito almomento né la portata delle innovazioni necessa-rie, né quanto il sistema sia ‘robusto’ (cioè capacedi assimilare l’innovazione minimizzando gli inevi-tabili effetti negativi). Né pare esistano studi su taliquestioni.

3. Economia dell’innovazione: fuori dai luo-ghi comuni L'Economia dell'innovazione, nei circa cinquant’an-ni della sua esistenza, ha raggiunto un alto grado dimaturità e oggi fornisce un solido background percomprendere il comportamento degli operatorieconomici nelle situazioni di disequilibrio e diincertezza radicale che caratterizzano le fasi inno-vative; oltre ad offrire utili elementi per la defini-zione di politiche. Ci sembra opportuno riprende-re alcune delle acquisizioni recenti, cogliendo l'oc-casione per alcuni chiarimenti e precisazioni.L'Economia dell'innovazione nasce con la scoper-ta del residuo, ossia di quella parte della crescita(aziendale, regionale o nazionale) che non è spie-gata dall’aumento dei fattori impiegati ed è inve-ce attribuibile all’introduzione di miglioramenti oinnovazioni nei processi, nei prodotti e nell’orga-nizzazione. Il concetto di residuo ha fornito labase concettuale per le valutazioni empiriche e leprime misurazioni degli effetti del progresso tec-

nico negli anni '50 (Solow, 1957; Arrow, 1962). Inseguito tuttavia vari limiti teorici hanno suggeritoletture più approfondite delle determinanti deiprocessi innovativi.Una questione cruciale che si è posta fin dall’inizio,a partire dalla tradizione economica (soprattuttoweberiana) e sociologica (Merton, 1973), sono lefonti del progresso tecnico. L’ipotesi di completaesogenità (metafora del progresso tecnico chegiunge dall’esterno coma manna per le imprese) èstata per un certo periodo accettata sia per la suacompatibilità col modello neoclassico standard, siaperché consentiva di isolare l’analisi del cambia-mento tecnico dalla complessità (dal caos) delleforze e delle interazioni sicuramente in gioco neiprocessi innovativi. La produzione della nuovaconoscenza indispensabile per l’innovazione nel-l’impresa e nell’industria è affidata, in questa pro-spettiva, agli scienziati che, negli opportuni conte-sti istituzionali (accademici), generano conoscenzascientifica come bene pubblico, e quindi fuori daimeccanismi di mercato, agendo in base a incentivinon economici (essenzialmente reputation all’in-terno della comunità scientifica). E’ su queste basiche viene istituzionalmente sancita la divisione dellavoro tra università, ossia ricerca pubblica, e uten-ti, cioè imprese. Divisione che ha prodotto peral-tro fondamentali economie di specializzazione. Inquesta prospettiva le imprese in quanto istituzionidelegate alla produzione hanno il compito di rac-cogliere le opportunità offerte dalle scopertescientifiche e tecnologiche e di trasformarle inopportunità innovative incrementando la produtti-vità. Il passaggio da conoscenza scientifica (pubbli-ca) a innovazione implica una privatizzazione dellaconoscenza: la disciplina dei brevetti (diritti di pro-prietà intellettuale) mira ad accrescere gli incentiviper i soggetti innovatori (schumpeterianamente,gli imprenditori) e di conseguenza ad innalzare iltasso di progresso tecnico. Gradualmente, matura la coscienza che l'impren-ditorialità abbia un ruolo chiave nella definizionedel tasso e della direzione del cambiamento tec-nologico. Inoltre variabili propriamente economi-che e quindi endogene, come la domanda di mer-cato, iniziano ad apparire importanti per spiegarel'introduzione di nuove tecnologie: queste infatti

80

Page 81: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Giorgio Gottardi Pressioni innovative e path dependency nel sistema veneto

richiedono forti investimenti, effettuabili solo nell'a-spettativa di una crescita del mercato.Contemporaneamente si inizia a comprendere chele opportunità tecnologiche differiscono molto traloro quanto a costi di sfruttamento e fertilità tecnicaed economica; che le nazioni e le regioni economi-che non hanno la stessa capacità di innovare e pro-durre nuova conoscenza; e soprattutto che leimprese non hanno la stessa capacità di apprendi-mento e gestione dell’innovazione. La distribuzionedei benefici del progresso tecnico inizia dunque adapparire molto più complessa rispetto all’idea dellaricaduta omogenea: diviene chiaro che l’introduzio-ne di nuove tecnologie può avere effetti fortementeasimmetrici sul sistema economico, demolire equi-libri di mercato e barriere all’entrata, erodere profit-ti monopolistici che sembravano consolidati. Questi risultati hanno stimolato le ricerche sulla dif-fusione delle nuove tecnologie, a partire daGriliches (1956) e Mansfield (1961). I numerosissi-mi studi svolti in proposito si basano sull’osserva-zione che esistono ritardi nell’adozione (analoghi aquelli della diffusione graduale di un contagio nel-l’analogia epidemica) dovuti al fatto che le impresesono eterogenee sul piano strutturale e cognitivo,hanno diverso potere di mercato, diverse capacitàdi investimento e di accesso all’informazione (ovve-ro ne sopportano i costi in modo diverso; ad es.Stoneman, 1976; Davies, 1979). Nei processi di dif-fusione la prossimità (geografica, industriale o tec-nologica) tra soggetti complementari viene indivi-duata come fattore essenziale, in quanto riduce icosti di informazione e scambio cognitivo e forni-sce maggiori opportunità di imitare le imprese chehanno avuto successo. L’approccio epidemico si èrivelato molto fertile perché ha consentito di intro-durre nuovi concetti: dalle tassonomie delle inno-vazioni (ad es. radicali, incrementali, marginali) edei modi con queste si producono, al ciclo di vitadei prodotti e delle tecnologie, fino allo studiodelle condizioni di disequilibrio. Mentre ne è uscitaindebolita la nozione di traiettoria tecnologica,metafora che era stata introdotta per spiegare icomportamenti delle imprese di fronte alle tecno-logie, immaginate come dotate di caratteristicheproprie (accettando in sostanza l’idea che strategieaziendali e cambiamenti economici e sociali fosse-

ro dettati dalla tecnologia e dalle sue evoluzioni:una visione deterministica technology push cheoggi ha pochi fautori).Ma decisiva è stata soprattutto la scoperta delruolo dell’incertezza e dei vincoli determinati dalsentiero evolutivo dell’impresa nel corso dei pro-cessi innovativi (path dependendency; tra i primiDavid, 1975). Oggi sappiamo che l’ambiente tec-nologico è caratterizzato, nella realtà, da incertez-za radicale: i soggetti non conoscono i potenzialidella ricerca, né le evoluzioni future di un nuovoparadigma, né tantomeno i suoi effetti sui mercatie sui prezzi. Assieme ad altri limiti, questo condan-na gli agenti economici ad operare in condizionedi razionalità limitata. Incertezza e razionalità limi-tata chiariscono la natura effettiva del processo checonduce l’innovazione: le imprese innovano quan-do devono affrontare un peggioramento delle pre-stazioni a causa di cambiamenti imprevisti neimercati, nei prezzi o negli assetti tecnologici domi-nanti. Lo sforzo di ricerca che conduce all’innova-zione è sempre vincolato alla specificità degli assetfisici e cognitivi detenuti dell’impresa e alle cono-scenze e competenze già accumulate in passato. Edunque il risultato di questa ricerca è specifico:due imprese diverse, nelle stesse condizioni, ela-borano risposte innovative diverse. La nozione dicambiamento tecnologico localizzato introdotta daAtkinson e Stiglitz (1969) costituisce oggi la baseper la comprensione dei processi innovativi ed èstata sviluppata da molti autori (soprattuttoAntonelli; ad es. 1995). Se la razionalità sostanziale è fuori della portatadegli agenti economici, questi possono sviluppareuna razionalità procedurale (la distinzione è diSimon) elaborando procedure di analisi e routinedecisionali in modo da risparmiare sui costi diinformazione e sui tempi di decisione. La raziona-lità procedurale spinge le imprese a limitare laricerca alle tecnologie e alle conoscenze più vicinea quelle già in uso, in modo da ridurre l’entità deglisforzi e accrescere la probabilità di successo. Lanozione di cambiamento tecnologico localizzatoemerge dalla scoperta che, in ogni dato contestoeconomico-spaziale, le imprese sono capaci diindividuare tecnologie o conoscenze appropriabilie di renderle specifiche adattandole al particolare

81

Page 82: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

contesto interno ed esterno. Il processo è assimi-labile a quello di un trasferimento cognitivo e tec-nologico, caratterizzato da costi e da rischi.Fondamentale a questo proposito è risultata ladistinzione tra conoscenza tacita e codificata(Polanyi, 1966): gli agenti hanno una conoscenzamolto più vasta di quanto non siano capaci diesprimere in modo codificato ed esplicito. Questovale soprattutto per le piccole imprese (meno perle grandi imprese manageriali), particolarmentenei contesti dove la prossimità ha favorito scambidi conoscenza e sviluppo di linguaggi informali,sintetici e efficienti, come nei distretti. Le impresesono inoltre in grado di apprendere; dal punto divista dei suoi effetti economici, l’apprendimentoall’interno di un’organizzazione, e ancor più di unarete, ha effetti molto maggiori rispetto all’appren-dimento individuale. Questa evidenza ha portato a riconoscere l’impor-tanza delle interazioni cognitive. Nuove tecnologieo nuove pratiche produttive possono essere intro-dotte e messe a punto più facilmente se muovonoda esigenze e da sforzi di molti soggetti diversi ecomplementari, operanti all’interno di una rete(Freeman, 1991; David e Forais, 1994). Questi sfor-zi determinano una traduzione delle conoscenzetacite in conoscenze condivise e trasferibili (ossiapiù generali), a vantaggio del gruppo o della rete.La produzione di conoscenza per l’innovazionepuò dunque percorre un cammino che va dall’e-sperienza pratica individuale e dalla sperimenta-zione sul campo, alla sua generalizzazione alla rete.Cammino, come si vede, che è inverso rispetto agliassunti del modello lineare della ricerca (dallaricerca scientifica alla sperimentazione pratica, allosfruttamento sul mercato). Le imprese possono dunque elaborare e accumu-lare conoscenza localizzata a partire da quellascientifica (pubblica), da quella propria dell'am-biente e da quella specifica di cui dispongono(incorporata quest’ultima nelle procedure e routi-ne interne), secondo percorsi che risultano inevi-tabilmente legati alle condizioni locali, alle espe-rienze e alle esigenze particolari. A partire da que-ste fonti, il meccanismo con cui nuova conoscenzaproduttiva e tacita viene accumulata e resa sfrutta-bile sul mercato è l’apprendimento. Gradualmente,

la conoscenza così prodotta può diventare patri-monio tecnologico aggiornato della rete o delsistema locale. Il vantaggio competitivo originadunque dall'accumulazione di conoscenza localiz-zata, sia tecnica che commerciale. Se questo van-taggio viene opportunamente amministrato dal-l’impresa, dalla rete o dal distretto che lo detiene, èpossibile usarlo per preservare le barriere all’entra-ta e consolidare il posizionamento strategico. Questa lunga precisazione si è resa necessaria perchiarire la diversità di ruoli e di modi di procederetra ricerca scientifica e innovazione nell’impresa.Mentre le attività di ricerca scientifica pubblicacondotte all’interno degli ambienti accademicisono finalizzate alla comprensione dei fenomeninaturali in ogni campo, l’innovazione comportauna selezione delle conoscenze aventi potenzialevalore economico e la loro trasformazione in valo-re effettivo sul mercato, nelle particolari condizio-ni di tempo e di luogo. L'innovazione è dunquemolto più che mera applicazione dei risultati dellaricerca scientifica, la sua produzione non ha alcun-chè di meccanico e, nella prospettiva schumpete-riana, implica elementi creativi. Se si accetta l'idea che l’innovazione sia oggi ilprincipale strumento con cui gli imprenditori per-seguono vantaggi non effimeri e consolidano lapropria posizione sul mercato, occorre ancheammettere che questi risultati non possono emer-gere da un’attività strettamente tecnico scientificacondotta da terzi fuori dall’impresa. L’imprendito-re che adotta una nuova tecnologia non è un uten-te passivo o restio, ma piuttosto un selezionatoreintelligente che valuta la congruenza di nuoveconoscenze tecnologiche rispetto alle proprie esi-genze e al contesto economico in cui si trova adagire. L’attività innovativa non è completamentedelegabile, né conviene farlo, perchè è da questache l’impresa trae le core competence su cuifonda il proprio vantaggio competitivo.L’impresa agisce solo quando valuta soggettiva-mente che il costo di mantenimento dello statusquo superi quello dell’innovazione. L’esistenza diun trade-off la porta a dare priorità ai cambiamen-ti meno costosi o più facili da conseguire. La nuovaconoscenza necessaria può essere disponibile all’e-sterno in forma adatta e facilmente appropriabile,

82

Page 83: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Giorgio Gottardi Pressioni innovative e path dependency nel sistema veneto

come spesso avviene nei distretti o nelle reti spe-cializzate. In questo caso le esternalità locali forni-scono un ambiente favorevole nel senso di intera-zioni qualificate e fruttuose con attori che svolgonoattività complementari; i costi sono essenzialmentedi costi di apprendimento dall’esperienza produtti-va e dal rapporto con i clienti e i fornitori. Viceversaquando il cambiamento è molto rapido le esterna-lità locali possono rivelarsi insufficienti a garantire iltasso di innovazione richiesto. In questo caso sirendono necessari investimenti intenzionali in atti-vità di R&S (interna o esterna), altri investimentiper rendere specifica (adattare) la nuova cono-scenza fondendola con quella già disponibile, altriancora per trasformarla in opportunità competitiva(learning by doing e by selling). Gli studi recentihanno ormai dimostrato che la produzione diconoscenza avente valore economico è assoluta-mente contestuale e quindi specifica alle condizio-ni e ai processi di accumulazione che l’hanno gene-rata; e dunque più facilmente appropriabile emeno imitabile di quanto si riteneva. Il che spiegaalcune evidenze empiriche, ad esempio perché iltrasferimento di tecnologie da un settore ad unaltro si sia rivelato molto più costoso del previsto:la ragione è che richiede una ri-localizzazione(riformulazione, riprogettazione) della conoscenzao della tecnologia non direttamente prodotta (notinvented here). Questi risultati sono importantiperché chiariscono che nel processo innovativosono in gioco sia la capacità individuale di appren-dimento e appropriazione dell’impresa che i carat-teri del contesto. Da quest’ultimo dipendono qua-lità, forme e accessibilità della conoscenza local-mente disponibile. La produzione di conoscenzaavente valore economico è tanto più efficace quan-to più viene condotta in prossimità delle imprese, icanali di comunicazione sono efficienti e le intera-zioni frequenti, e viene fornita assistenza nelle fasidi trasferimento.

4. Incentivare la produzione di nuova cono-scenza per l’innovazioneLe imprese, dunque, sono spinte a innovare, a intro-durre cambiamenti nei propri modelli interpretativie nelle proprie tecnologie e routine organizzativequando lo stato degli affari si rivela insoddisfacente.

In genere questo avviene in seguito a cambiamentipiù o meno drastici negli assetti di mercato o allacomparsa, imprevista o imprevedibile, di un nuovoparadigma tecnologico. Le aziende divengono allo-ra consapevoli dei costi della resistenza al cambia-mento, valutano il trade-off tra conservazione einnovazione e possono decidere di intraprenderesforzi nella seconda direzione. Si tratta di un’opera-zione che richiede investimenti e comporta deirischi perché i ritorni non sono garantiti ; e che nonè delegabile, né può convenire farlo, perchè è inno-vando che si formano (aggiornano, riposizionano)le competenze distintive dell’impresa. Sul piano economico e politico il problema puòessere formulato nel modo seguente: come è pos-sibile ridurre le inefficienze tipiche dei processiinnovativi? La questione si pone soprattutto neisistemi di piccole e medie imprese, dove la mode-sta attitudine alla ricerca, la fragilità finanziaria e loscarso potere contrattuale e di mercato rendonoquesti soggetti economici particolarmente debolio vulnerabili. Dal punto di vista dell'impresa, lapossibilità di generare a costi contenuti innovazio-ne utile per competere sul mercato è legata soprat-tutto alla capacità di acquisire, selezionare, adatta-re conoscenza disponibile nell’ambiente di inse-diamento sotto forma di esternalità. Il tasso diinnovazione realizzabile è quindi anche un portatodell’ambiente, una caratteristica sistemica, unrisultato influenzato dalla natura e dalla qualitàdelle interazioni locali. In proposito, concettipotenti sono quelli di sistema dell’innovazione(Lundwall, 1992) e di sistema tecnologico regiona-le (ad es. Romer, 1990). Negli ambienti innovativi,la circolazione della conoscenza tra soggetti chesvolgono attività produttive complementari (pro-duttori di beni strumentali, intermedi e finali, pro-duttori di servizi ad alta intensità di informazione,università e centri di ricerca, istituzioni per il cre-dito, per l'incentivazione e la regolazione) vieneoggi riconosciuta come un elemento determinan-te nella produzione di innovazione.

Incrementalismo inevitabile Gli investimenti in ricerca per produrre o reperirenuova conoscenza, quelli necessari per renderlaspecifica fondendola con quella già disponibile, e

83

Page 84: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

infine quelli per tradurla in opportunità competiti-va sul mercato sono tanto più impegnativi erischiosi quanto più la nuova conoscenza si distan-zia dall’ambito delle competenze originali dell'im-presa e del suo ambiente. Per questo motivo leimprese e i sistemi locali tendono a mantenersi vici-ni fin che possibile alle tecnologie (processi, pro-dotti, routine) in uso. C’è un gradualismo (incre-mentalismo) inevitabile nei processi innovativilocalizzati, dovuto ai vincoli della storia (pathdependency), alla lentezza dei processi di accumu-lazione di conoscenza, a problemi di razionamentodelle risorse, ai costi e ai rischi di una diversifica-zione accelerata. Rispetto all'esigenza di sviluppareprodotti innovativi e strategie di diversificazione, glieffetti di lock-in derivanti dall’appartenenza a retispecializzate possono tradursi, per le regioni cheattriamo testato di chiarire, in elevati costi di swit-ching. L’incrementalismo non costituisce tuttaviaun freno inaccettabile: l’Economia dell’innovazioneha evidenziato che in condizioni opportune e conun governo delle interazioni efficace, interi sistemitecnologici regionali e locali possono rapidamenteinnovarsi per questa via. Il punto essenziale è pitto-sto coordinamento delle azioni necessarie Alcuni ritengono che la caduta delle barriere inter-nazionali e la diffusione delle tecnologie dell'infor-mazione e della comunicazione riducano o azzerinoil ruolo della prossimità; prefigurando in questomodo la scomparsa dei distretti. Questa posizione ètuttavia poco plausibile. L'annullamento delladistanza fisica grazie alle tecnologie dell’informazio-ne e della comunicazione è stata l’utopia di fine anni’90, che ha già dimostrato di avere scarsi riscontri(Gottardi, 2003). In realtà il ruolo della prossimità èancora forte, sia sul piano delle relazioni cognitiveche di quelle economiche. Strategie fondate su unavisione a-spaziale, prive di relazioni col contesto econ la sua storia, sono destinate al fallimento. Cosìcome autorevolmente sostenuto da altri (ad es.Rullani), resta ancora molto difficile operare nelglobale senza solide radici locali. Curiosamente,alcuni temono la perdita di rilevanza della prossimi-tà e delle specificità locali, nel mentre che invocanoil modello della silicon valley. E questo rende opacoil dibattito.L'innovazione, in realtà, è sempre il frutto di uno

sforzo di ricerca all'interno di spazi geografici e dispazi di competenze ben definiti. La produzione el’accumulazione della conoscenza necessaria all’in-novazione è sempre il risultato di relazioni, di sfor-zi di apprendimento, di progetti e di azioni con-giunte (anche se non razionalmente pianificate) dimolti operatori che si coordinano meglio su baselocale. Ma anche il frutto di agreement, di alleanze,di compromessi più vasti che oggi superano larga-mente la dimensione del localismo anni ’80, erichiedono la convergenza di ruoli e soggetti diver-sificati: non solo imprenditori ma anche scienziati,tecnologi, manager; oltre che innovatori che ope-rano a livello meta-economico (istituzionale, poli-tico). Il fine (il successo) di queste azioni consistenella ri-definizione e ri-valorizzazione delle voca-zioni o delle specificità produttive di una regione edei suoi cluster, in linea con il mutato quadro com-petitivo internazionale. Ovviamente non c’è alcun determinismo in questipercorsi, e l’unico rimedio ai casi di obsolescenzairreversibile è la promozione del nuovo; ad esem-pio facilitando la nascita di start up innovative.L’Economia dell’innovazione esalta il ruolo dellenuove imprese come vettori di nuove tecnologie esuggerisce che alti livelli di natalità possono soste-nere alti tassi di cambiamento tecnologico. Anchein questo caso l’evidenza empirica indica comeessenziale un ambiente fertile e la prossimitàambienti tecnico scientifici.

Politiche per l'innovazione e la conoscenzaLa letteratura economica sull’innovazione, richia-mando l'attenzione sulla strategicità della produ-zione di nuova conoscenza, riporta oggi in primopiano la questione delle interazioni tra decisionipubbliche sulle risorse, ruolo della ricerca accade-mica e comportamenti innovativi delle imprese. E'ormai acquisito che non esiste in proposito unmodello unico o preferibile in generale; e appaio-no sempre meno plausibili i tentativi di importaremodelli da paesi o da regioni con caratteristiche ocondizioni diverse. La specificità dell’area venetanon ha molti punti di contiguità con quella califor-niana del silicio, o quella bostoniana, o bavarese.Venture capital, ricchi mercati finanziari con eleva-ta propensione al rischio, commesse pubbliche a

84

Page 85: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Giorgio Gottardi Pressioni innovative e path dependency nel sistema veneto

lungo termine su progetti high-tech sono i driverprincipali delle piccole e medie imprese innovativestatunitensi. Prestigiosi istituti di ricerca tedeschihanno relazioni storiche con i colossi dell'industrialocale. Ma nel Veneto le cose non stanno così; nelnostro caso il principale vettore di crescita è statala valorizzazione del lavoro e delle interazioni di ungran numero di soggetti diversi all’interno di spazigeografici precisi, assieme alla promozione dellaloro crescita qualitativa. Questa strategia, purchèaggiornata e ammodernata, appare essere ancorapercorribile, oltre ad essere più facilmente attuabi-le perché radicata nella storia veneta. Anche le soluzioni organizzative e politico-regolati-ve necessarie a incentivare l’iniezione di nuovaconoscenza e produrre infine l’innovazione nonpossono che emergere da un mix di fattori localipeculiari: da esperienze accumulate, da specializ-zazioni acquisite, da specifiche scelte politiche eistituzionali. I costi di produzione della conoscen-za adatta all’innovazione e quelli di apprendimen-to e di assimilazione sono minori nei contesti incui gli scambi tra soggetti innovatori complemen-tari vengono incentivati. Introdurre innovazioniper accrescere la competitività richiede dunque difacilitare la formazione di nuove e più estese coali-zioni; a nostro avviso le nuove catene del valoredevono oggi ampliarsi fino a comprendere i pro-duttori della conoscenza necessaria. Gli obiettivi diqueste coalizioni non sono generici, e possonoessere concretamente definiti facendo riferimentoalla nozione di barriere all’ingresso. E’ in base all’a-nalisi delle barriere che è possibile definire, valuta-re e selezionare strategie tecnologiche e organiz-zative dirette a conservare la competitività. Più lebarriere sono alte, più è difficile l’imitazione daparte dei concorrenti; e più facile inoltre è attivarereti di cooperazione (comprendenti i produttoridella conoscenza necessaria) utili ad apprendere ea consolidare il posizionamento sui mercati.Nella nostra regione una maggior permeabilità ecomunicazione tra sistemi, enti e soggetti conruoli diversi, che superi le tradizionali chiusurelocalistiche, è un’esigenza ampiamente ricono-sciuta negli interventi legislativi di questi anni afavore dell’innovazione, e ha portato a generaliz-zare la metafora della rete. La promozione di reti

di servizi tecnologici da parte di enti e societàregionali è stata un passo importante. Ma èimportante anche che le azioni istituzionali chehanno tentato di ‘mettere rete’ soggetti, cono-scenze e competenze diverse si estendano alladefinizione degli incentivi, delle regole, deglistandard di comunicazione al loro interno. Le retidevono uscire di metafora, devono precisarsi edefinirsi rispetto agli ambiti, alle specializzazioni,ai linguaggi e soprattutto agli interessi reali.L’individuazione di filoni tecnologici prioritari per ilsistema (ovviamente ricavati non a tavolino ma daampi confronti), la definizione di progetti quadro edegli incentivi più adatti per mobilitare le collabo-razioni (coalizioni) atte a realizzarli, sono soluzionisperimentate in molti paesi per produrre cono-scenza potenzialmente utile sul piano economico efacilmente appropriabile da parte delle imprese.Tutti i paesi e regioni all’avanguardia si impegnanooggi nella definizione di politiche scientifiche e tec-nologiche: le scelte statunitensi di sviluppare,poniamo, la rete Internet o le biotecnologie, oppu-re quelle giapponesi sulle memorie a stato solido ola chimica degli enzimi, hanno avuto un grandissi-mo rilievo in termini di mobilitazione dell’industria,di nascita di nuovi soggetti, di ricadute e di conqui-ste di primati competitivi. Anche paesi in via di svi-luppo si danno per questa via obiettivi ambiziosi eprecisi: la Cina ad esempio ha recentementeannunciato di puntare sulla costruzione di un’indu-stria high-tech fondata su alcuni pilastri (nella fatti-specie, software aperti a base Linux, nuovo stan-dard DVD, reti wireless ad alta capacità, rete GRIDper supercomputer).

Relazioni con il sistema della ricerca e dell’i-struzione superiore Nei sistemi di relazioni finalizzati all’innovazionedei quali stiamo parlando il rapporto con il sistemadella la ricerca e dell’istruzione superiore è assolu-tamente strategico. Le università incorporano irisultati della ricerca nei loro prodotti: laureati,pubblicistica scientifica. Da vari anni i laureati negliAtenei veneti hanno cessato di alimentare l’exportdi cervelli e iniziano a radicarsi nel sistema dellepiccole e medie imprese della regione svolgendo,al livello qualitativo oggi richiesto, il ruolo che fu

85

Page 86: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

dei giovani usciti dagli Istituti tecnico-professiona-li di prestigio nella fase pionieristica dell’industria-lizzazione veneta. Oggi gli Atenei assicurano leprofessionalità necessarie per uno sviluppo qualifi-cato dell’area veneta; di fatto stanno fornendo glioperatori dell’innovazione altamente qualificatiche sono necessari ad affrontare il cambiamento.Per quanto attiene la ricerca, i risultati recenti diEconomia dell’innovazione, indagando sui proces-si che generano nuove applicazioni tecnologiche,hanno dimostrato che la conoscenza ricavata daglispill-over scientifici è più facilmente appropriabiledi quanto si pensasse; il che potrebbe in qualchemisura modificare il ruolo tradizionalmente asse-gnato agli ambiento accademici della ricerca. Inparte, questo sta già accadendo a causa della con-trazione della quota di finanziamento pubblico: leuniversità sono oggi incentivate a brevettare e asfruttare i risultati intrattenendo relazioni econo-miche dirette con le imprese (lo strumento almomento più usato sono le convenzioni e i con-tratti di ricerca). All’interno del mondo accademi-co questa tendenza non trova consenso unanime:il timore è che queste attività distolgano dalla ricer-ca scientifica propriamente detta. Tuttavia contri-buire alla formazione di un mercato locale di servi-zi ad alta intensità di conoscenza e in particolaredella R&S, al quale possano accedere (meglio se inmodo organizzato) anche imprese di piccola emedia dimensione, costituirebbe a nostro avvisoun fatto molto positivo. Si noti che le alleanze tec-nologiche tra imprese funzionano in genere finoalla fase pre-competitiva (in quella del confrontosul mercato un primato competitivo raggiunto tra-mite un’alleanza è difficile distribuire tra i partner),mentre contratti, partnership o accordi di assisten-za tecnica con l’università o le strutture di ricercapubbliche possono protrarsi fino alla fase finaledello sviluppo prodotti.Questo processo di avvicinamento tra imprese estrutture pubbliche della ricerca ha naturalmentedei limiti, legati alla differenza dei ruoli istituziona-li. Oggi alcuni tendono a richiedere l’assimilazionedella ricerca pubblica a progetti business oriented;ma è difficile che questa possa generare prodotti oidee business per il mercato sostituendosi in qual-che modo all'impresa. Come abbiamo ricordato

precedentemente, l’attività innovativa è altamentelocalizzata e difficilmente delegabile perché è attra-verso questa che l’impresa apprende a misurarsicon il mercato; il rischio associato all’innovazionecostituisce in realtà l’essenza stessa del rischioimprenditoriale. Mentre il ruolo della ricerca appli-cata di tipo pubblico è di sviluppare le aree dellaconoscenza scientifica in cui nessun operatore pri-vato troverebbe incentivi a operare (ovvero chenessun sistema di mercato potrebbe adeguata-mente remunerare). Le nanotecnologie, ad esem-pio, non nascono come progetti business orien-ted: una lunga gestazione ne ha visto il passaggioda curiosità accademiche a oggetti di ricerca appli-cata fino alla prototipazione preliminare, e almomento le applicazioni commerciali sono ancorascarse; tuttavia pochi sarebbero disposti oggi asostenere l’inutilità o l’inadeguatezza di questofilone rispetto alle esigenze delle imprese. Se ibisogni di innovazione emergono dalle pressionidel mercato (spesso anzi da situazioni di difficoltàcontingente delle imprese), il disporre di risposteadeguate dipende dalla ricchezza delle opportuni-tà tecnologiche disponibili, le quali inevitabilmen-te si producono secondo logiche science o tech-nology push. L’obiezione che gli investimenti inricerca applicata di tipo pubblica abbiano una scar-sa redditività sul breve è fondata; tuttavia il loroscopo non è questo: in un mondo in cui semprepiù la competizione si gioca sull'innovazione tec-nologica, questi investimenti sono ritenuti indi-spensabili in tutti i paesi sviluppati per garantire gliavanzamenti di conoscenza necessari a sostenere,sul medio termine più che sul breve, le industrieesistenti e a promuoverne di nuove. Di fatto nes-sun paese affida la ricerca esclusivamente al coor-dinamento del mercato (l’uso di risorse pubblichea questo scopo è invocato anche dai più convintiprivatizzatori). Il problema che specificamente affligge l’Italia e l’a-rea veneta in particolare risiede piuttosto nel fattoche, fatto 100 la spesa totale in ricerca, quella pri-vata rappresenta una delle percentuali più bassetra i paesi OCDE, a causa della polverizzazionedella struttura industriale. Ottenere un mix megliobilanciato in un sistema in cui la domanda di inno-vazione è frantumata su centinaia di migliaia di pic-

86

Page 87: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Giorgio Gottardi Pressioni innovative e path dependency nel sistema veneto

cole e medie imprese con modesta cultura tecno-logica è difficile. Tuttavia, se da un lato la speri-mentazione di nuove opportunità di business restauna funzione insostituibile dell’impresa, dall'altroci sembra che quest’attività possa trarre grandivantaggi dallo sviluppo di nuovi modelli di colla-borazione con il mondo della ricerca accademica.Ci sembra che simili operazioni meritino la predi-sposizione di adatti incentivi (in proposito è statodimostrato che i successi maggiori si ottengononell’ambito di logiche win-win).

In conclusioneRagioni di continuità storica e di compatibilità conil contesto, sostenute dai risultati recentidell'Economia dell’innovazione, hanno fattoemergere qui un modello di regolazione ‘morbi-do’ basato sull'incrementalismo, sulla strategicitàdella produzione di nuova conoscenza, sull’incen-tivazione delle interazioni cognitive tra soggetticomplementari, sull’indicazione di filoni tecnolo-gici e di ricerca prioritari. Oltre che su un sistemadi incentivi adeguato. Esiste naturalmente anche l’alternativa del non-intervento, magari argomentata dalla perdita diruolo dell’ambiente locale nell’era della globalizza-zione, o dalla fiducia nella capacità dei singoli agen-ti di produrre strategie appropriate, o dall'attesa diaggiustamenti spontanei del sistema. Ora, grandiventate di cambiamento si manifesteranno di certo(un aggiustamento di paradigmi e una robusta sele-zione di agenti e routine, tipica delle transizioni tradue onde lunghe, è del resto già in atto). Il proble-ma è quanto potrebbero essere pesanti, localmen-te, i costi di questa trasformazione. Uno scenarionon certo inverosimile è dato dalla rapida forma-zione nell’area veneta di nuove e profonde asim-metrie a vantaggio di una minoranza di soggettiimprenditoriali leader, strutturalmente dotati dellecapacità necessarie a introdurre innovazioni di pro-dotto associate a politiche di marketing internazio-nale. Il che, unitamente a politiche di e-procure-ment globale e/o di delocalizzazione, porterebbealla rottura definitiva del sistema degli scambi edelle relazioni locali; ossia all’abbandono di moltemigliaia di imprese al loro destino. A nostro avviso le esigenze attuali vanno in dire-

zione di politiche pubbliche più schumpeterianeche keynesiane, volte gradualmente a far spazio anuove tecnologie, soggetti e mercati, mettendoulteriormente a profitto le specificità-potenzialitàdell’ambiente locale. Le aree urbane o metropoli-tane e quelle industrialmente integrate sonoambienti in cui canali di comunicazione e mecca-nismi di coordinamento sono più facili da stabilireo migliorare; e in cui queste politiche potrebberotrovare più agevole attuazione. Al momento, peral-tro, ci sembra prioritaria l’esigenza di assessment:valutare la portata delle innovazioni che si richie-dono, le soluzioni necessarie a sbloccare i proces-si innovativi, le strozzature nei processi di coordi-namento, e infine la ‘robustezza’ del sistema, cioèla sua capacità di assimilare gli impatti minimizzan-do gli inevitabili effetti negativi dell'innovazione.La disponibilità di studi analitici su tali questioni cisembra carente.

RiferimentiAntonelli, C., 1995, The economics of localizedtecnological change and industrial dynamics,Kluwer Academic Press, Boston.Arrow, K.J., 1962. “The economic implications oflearning by doing”, Review of Economic Studies,n. 29. Atkinson, A.B., Stiglitz, J.E., 1969, “A new view oftechnological change”, Economic Journal, n. 79.David, P.A., 1975, Technical choice innovationand economic growth, Cambridge UniversityPress, Cambridge. David, P.A., Forais, D., 1994, “The economics ofEDI standard diffusion”, in Pogorel, G, (ed.),General telecommunications strategies and tech-nological changes, North Holland, Amsterdam.Davies, S., 1979, The Diffusion of ProcessInnovation, Cambridge University Press,Cambridge. Freeman, C., 1991, “Networks of innovators: Asynthesis of research issues”, Research Policy, n. 20. Gottardi, G., (a cura di), 1994, Stato e traiettorieevolutive delle tecnologie caratteristiche dei setto-ri veneti maturi, Fondazione Casse di Risparmio,CUOA, Università di Padova, Rapporto finale diricerca. Gottardi, G., 1996, “Technology Strategies,

87

Page 88: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

Innovation without R&D, and the Creation ofKnowledge within Industrial Districts, Journal ofIndustry Studies, vol. 3, n. 2.Gottardi, G., 2003, “Economia digitale, governancetecnologica e tendenze neooligopolistiche”, inGottardi G., Mariotti, S. (a cura di), Crisi e trasfor-mazione dell’economia digitale. Il dibattito e ilcaso italiano, Franco Angeli, Milano. Griliches, Z., 1956, “Hybrid corn. An exploration inthe economics of technical change”, Econometri-ca, n. 25. Stoneman, P.L., 1986, “Technological diffusion:the viewpoint of economic theory”, Conference ofinnovation diffusion, Venice, Mansfield, E., 1961, “Technical change and rate ofimitation”, Econometrica, n. 29. Merton, R., 1973, The sociology of science.Teoretical and empirical investigations, Chicago

University Press, Chicago.Lundwall, B., 1992, National System ofInnovation. Towards a Theory of Innovation andInteractive Learning, Pinter, London. Pavitt, K., 1984, “Sectoral patterns of technicalchange: towards a taxonomy and a theory”,Research Policy, n. 13. Polanyi, M., 1966, The tacit dimension,Routledge& Kegan, London. Regione Veneto, 2003, Programma regionale disviluppo, Documento di lavoro n. 1, Segreteriadella Programmazione, Maggio. Romer, P.M., 1990, “Endogenous TechnologicalChange”, Journal of Political Economics, n. 95. Solow, R.M., 1957, “Technical change and theaggregate production function”, Review ofEconomics and Statistics, n. 39.

88

Giorgio Gottardi è professore ordinario di Economia e Organizzazione Aziendale all’Università di Padova.Il suo campo di studi principale è l’Economia dell'innovazione tecnologica e in particolare i processi diinnovazione e diffusione delle nuove tecnologie nelle piccole e medie imprese. Da vari anni lavora alle tec-nologie dell’informazione e della comunicazione. Insieme a F. Belussi ha curato il volume EvolutionaryPatterns of Local Industrial Systems. Toward a Cognitive Approach to the Industrial Districts, Insieme aBelussi e Rullani ha curato il volume Technology evolution of Industrial District.

([email protected])

Page 89: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Il processo costituzionale europeo e leRegioni - molte speranze e poche certezzeFra poco, esattamente il primo maggio 2004, l’allar-gamento dell’Unione Europea sarà realtà, dopodi-ché l’UE non avrà soltanto 25 Stati membri maanche più di 100.000 comuni e, da non dimentica-re, appunto, anche circa 250 Regioni. Già dal primogennaio 2004 le nuove Regioni dell’Est possonousufruire pienamente dei fondi comunitari. Maquale sarà il futuro del livello regionale nella nuovaEuropa? Quali sono le prospettive delle teorie dellaformazione del “terzo livello” o della “governancemulti-livello”? La “dimensione regionale“ europea,potrà andare di pari passo con l’integrazione? Laproposta di Costituzione dell’Unione europea pre-sentata dalla Convenzione europea il 18 luglio 2003contiene sia luci sia ombre. Dopo il clamoroso falli-mento del vertice di Bruxelles tenutosi il 12-13dicembre 2003, però, bisognerà attendere se,quando e in quale forma la Costituzione sarà appro-vata, per poter fare delle previsioni concrete.Tuttavia, se è vero che, con la nuova architetturapolitico-istituzionale dell’UE e le sue regole nuove,ci si attendono anche nuove dinamiche politiche, ese è altresì vero che le difficili trattative per la pro-grammazione dei fondi strutturali 2007-2013 (dasvolgere nel 2004/2005), porteranno ulteriori cam-biamenti significativi, oggi, più che mai, è necessa-rio un quadro completo dello stato dell’arte sulruolo delle regioni in Europa.Le Regioni nella “vecchia Europa” dei 15 Stati mem-bri ossia lo stato d’arte secondo l’analisi di Caciagli

Questo è il merito principale del libro di Caciagli(2003). Egli, infatti, con questo libro, ci forniscequesto quadro complessivo necessario trattandotanti aspetti importanti attorno al vasto tema delle“Regioni d’Europa”, aspetti che normalmente nonvengono messi insieme. Questo è il secondo meri-to principale dell’autore; in tal modo infatti, alme-no in parte, si aprono nuove chiavi di lettura. Illibro indaga la questione “perché e quanto il signi-ficato del "fait régional" sia aumentato negli ultimi15 anni in Europa”, presentando un bilancio traaspettative, che nacquero in primo luogo con ilTrattato di Maastricht, e realtà attuale. Dopo unbreve capitolo introduttivo in cui si dedica anchealla definizione dei termini “regione”, “regionali-smo”, “regionalizzazione” ecc., Caciagli impieganel suo libro un triplice approccio di prospettivaed analisi, vale a dire: (1) riforme istituzionali negliStati-nazione mirate a “decentramento”, “regiona-lizzazione” o “rifederalizzazione”, (2) dimensionidel processo di europeizzazione delle Regioni, e(3) cambiamenti socio-culturali. Nonostante su cia-scuno di questi temi esista un’abbondante lettera-tura, mancava, sino ad oggi, un libro che li legassesistematicamente al fine di renderli più accessibiliad un pubblico più ampio e, cosa ancora piùimportante, in grado di far comprendere il nessocausale esistente tra i tre fenomeni sopracitati. Ilrisultato è un libro eccellente in ambedue i sensi.Caciagli, nell’arco di nove capitoli, riesce ad evi-denziare perché regionalizzazione ed integrazioneeuropea siano processi complementari ovvero le

89

Il sestante

Alexander Grasse

La regione alla vigilia della "nuova Europa"

Page 90: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

90

due facce della stessa medaglia. Vengono analizza-te sia le spinte dal basso sia le spinte provenientidall’alto. Nei capitoli due e tre vengono considera-ti gli sviluppi di devoluzione e decentramento inatto nei 15 Paesi membri dell’UE esaminandoruolo e potere politico-amministrativo effettivo dellivello “substatale” in genere e rilevanza dell’ideafederale in particolare. Il quarto capitolo, invece,tratta la vasta gamma delle attività internazionalidelle Regioni (collaborazione transfrontaliera edinterregionale, comunità di lavoro, uffici di colle-gamento, ecc.), mentre il quinto è dedicato alruolo delle Regioni nella cosidetta multi-levelgovernance: si analizzano soprattutto le politichestrutturali dell’UE di fronte agli squilibri economi-ci e il ruolo del Comitato delle Regioni nella polityeuropea. In tale capitolo viene inoltre messo inevidenza come l’ingresso della Spagna (Paese conRegioni politicamente forti ma in molti casi econo-micamente bisognosi) nell’UE nel 1986, in conco-mitanza con la spinta proveniente da JacquesDelors allora Presidente della Commissione, siastato determinante per l‘incremento del ruolodelle Regioni in sede comunitaria. Nei capitoli sei,sette e otto, il filo d’Arianna è rappresentato dalfattore “cultura”; l’autore esamina infatti vari tipi diregionalismo e di partiti regionalistici nonché lediverse culture politiche regionali in Europa (conparticolare attenzione all’Italia, alla Germania, allaFrancia e all’Austria), per arrivare, infine, nel nonocapitolo, alle conclusioni. Una di esse è che il feno-meno di regionalizzazione sarebbe “uno degli svi-luppi istituzionali più rilevanti nell’Europa occi-dentale alla fine del secolo XX” (Caciagli 2003, p.11). Ciò nonostante Caciagli non cade nella trap-pola di assumere che ci fosse una inevitabile con-vergenza dei modelli di organizzazione dello Statogenerando, alla lunga, una qualche uniformità. Laregionalizzazione, inequivocabilmente è, e rimar-rà, una risposta ad esigenze ben diverse, a secondadel singolo contesto nazionale, quand’anche cisiano molti motivi comuni nei vari stati per la valo-rizzazione del livello substatale.Giustamente Caciagli sottolinea il fatto che la“competitività del "sistema Europa" si gioca in par-ticolare nelle realtà periferiche” (Caciagli 2003, p.96). Ciò non toglie che restano una serie di diffi-

coltà. In quest’ambito Caciagli ci presenta un elen-co di deficit da superare, di cui qui ricordo soloalcuni: (i) i problemi con la sussidiarietà, (ii) il fattoche i Governi centrali decidono sempre da solisulle risorse, (iii) il fatto che solo poche regioni(tedesche, belghe, austriache e spagnole) hannodiritto di rappresentazione nelle sedi importanti didecisione, quale il Consiglio dei ministri, e infine(iv) le continue disparità fra regioni ricche e pove-re che si sono attenuate solo in parte, nonostantei grossi investimenti attraverso le politiche struttu-rali della Commissione Europea che attualmenterappresentano più di un terzo del bilancio totalecomunitario. Le differenze economiche rispetto atassi di disoccupazione e prodotto interno lordopro capite sono ancora enormi. Visto tutto questo,anche Caciagli si dimostra, giustamente, scetticonei confronti di un quadro, per quanto riguarda ilruolo delle Regioni in Europa, tracciato spesso,nella letteratura scientifica, troppo positivamente.Infatti, c’è ancora molto da migliorare nei rapportireciproci tra UE e le sue Regioni. Malgrado ciò leRegioni si sono affermate in quanto sono indub-biamente diventate agenti economici importanti eindispensabili per un’efficace implementazione dipolitiche e riforme strutturali. Indubbiamente ilpluralismo territoriale è cresciuto e l’importanzadel livello substatale quasi non viene più contesta-to da nessuna parte. In fin dei conti il libro è ancheun’arringa per una migliore valorizzazione delpotenziale inerente alle Regioni. È anzi ovvio che ilreale policentrismo culturale ed economico richie-de anche, finalmente, un policentrismo istituzio-nale adeguato. Caciagli giustamente non vede che“vi sia incompatibilità fra i soggetti della moderniz-zazione, quali sono le istituzioni sovrastatali, e isoggetti della tradizione, quali sono le regionid’Europa” (Caciagli 2003, p. 211). Anzi, un maggiorpluralismo significherebbe anche più democrazia.“Regioni e regionalismo possono esprimere almeglio la multiformità dell’Europa” (Caciagli 2003,p. 205). Benché ci siano ancora tante difficoltà dasuperare, il libro dimostra un certo ottimismo chetrova espressione nell’enfasi dell’ultimo capitolo:“L’Europa non sarà regionalizzata, ma le identitàregionali continueranno a rafforzarsi (...) e leregioni contribuiranno alla costruzione di

Page 91: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

91

un’Europa che forse potrà avere un deficit didemocrazia inferiore a quello che tutti oggi lamen-tano (...)” (Caciagli 2003, p. 211). Il valore aggiun-to delle Regioni consiste nella funzione di fungereda punto di riferimento degli uomini, da offertaimportante di identità, di identificazione e di sicu-rezza emozionale. Il libro non ignora che sono inatto anche sviluppi pericolosi, quali etno-naziona-lismo, dissociazione, razzismo, radicalismo, sciovi-nismo del benessere regionale, ecc. Tuttavia, traopportunità e pericoli, secondo lo studioso fioren-tino, prevalgono decisamente le chances connesseal “fait régional” ossia all‘aumento del ruolo politi-co delle regioni in Europa, e ritengo che egli abbiaragione. Caciagli fa comunque intravedere la suasimpatia per l’idea di una Europa con le Regioniforti, evidentemente partendo da una convinzioneprofonda di “grassroots democracy” ossia di“democrazia dal basso”.Nonostante il fatto che la regionalizzazione vengapraticata per motivi ben diversi nei singoli Stati,questo processo, come ci spiega Caciagli dopoaver esaminato i vari regionalismi nonché i varipartiti regionalistici presenti in Europa, quasiovunque ha suscitato il risveglio o la nascita diidentità territoriali e regionalismi. Oltre a questoincontestabile intreccio tra riforme istituzionali eregionalismi vi sono altri intrecci, quale il fatto chele Regioni, in quanto enti spesso artificiali, hannoricevuto maggior legittimazione ossia “ragion d’es-sere” attraverso l’UE e le sue politiche regionali.Questo nesso viene dimostrato anche con un casosorprendente, quello dell’Irlanda, dove le politichecomunitarie hanno contribuito notevolmente all’e-volversi di un dibattito regionalista. Altra evidenzadel processo interattivo tra Europa e regioni è – aparte le forme multiple del Regionalismo transna-zionale (per un quadro completo si veda il manua-le di Schmitt-Egner 2000) – la crescente europeiz-zazione dei sistemi regionali (e nazionali), un temaal quale sempre più studi si dedicano (Fabbrini2003; Giuliani 2004). Si può osservare un adatta-mento riguardo a strategie e modalità organizzati-ve e persino riguardo alla legislazione, ma anchesviluppi profondi di riorientamento delle societàcivili regionali e delle sue associazioni che si indi-rizzano sempre di più verso l‘Europa e non verso

le Capitali nazionali. Last but not least dal libro diCaciagli risulta che i partiti regionalistici non soloesistono in quasi tutti i 15 Paesi dell’UE, ma ancheche essi sono ugualmente oggetto di un processodi europeizzazione. Le arene politiche diStrasburgo e Bruxelles hanno portato quasi tutti imovimenti regionalistici ad un atteggiamento posi-tivo nei confronti dell’integrazione europea inquanto tale, con soltanto poche eccezioni, tra cuiquello della Lega Nord.Caciagli cerca inoltre di spiegare perché alcuneRegioni, come per esempio la Baviera e il Tirolo,resistano meglio ai cambiamenti avvenuti negliultimi due-tre decenni, rispetto ad altre regioni. Icapitoli più interessanti e suggestivi del libro sonoforse, appunto, quelli dedicati al fattore “cultura”e, in particolare al nesso tra culture regionali, cul-ture politiche e identità territoriali. La domandacentrale è: per quale motivo dobbiamo costatareun nuovo pluralismo di culture e identità regiona-li in termini di differenziazione dallo Stato-nazio-ne? Una componente, come si legge nel libro, è illegame tra multiformità culturale ed economicadell’Europa. Caciagli è particolarmente interessatoal processo di trasformazione in seguito agli svi-luppi di deindustrializzazione, secolarizzazione,nuova situazione geopolitica ecc., nonché al rap-porto tra declino delle subculture e nuove identitàregionali basate sul territorio. Il libro dimostraquanto il regionalismo come ideologia sia oggispesso in grado di tradurre territorialità e culturain un programma regionale d’azione, spinto e pro-mosso da minoranze intellettuali o semplicementeelites. Ciò significa che l’esistenza di una culturapolitica in una data regione non necessariamenteporta al regionalismo, ma è anzi vero il contrario,ossia che ogni regionalismo presuppone una spe-cifica cultura politica regionale. Quintessenza delpercorso dei regionalismi europei nel XX secolopresentato nel libro è che il regionalismo oggigior-no non è più, nella maggior parte dei casi, un feno-meno regressivo nell’Europa occidentale. Dopo lalunga omogeneizzazione delle culture politichenell’era dello Stato-nazione, una nuova diversità sifa strada, mentre al tempo stesso “i confini fra iden-tità politica e identità regionale sono diventati anco-ra più labili di quanto già lo fossero nel passato”

Alexander Grasse La regione alla vigilia della "nuova Europa"

Page 92: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

92

(Caciagli 2003, p. 134). Il territorio, invece, rappre-senta la nuova risorsa centrale di mobilitazione poli-tica. L’identità regionale può contribuire persinonotevolmente alla formazione di un codice di com-portamento per politici e cittadini. Il libro dà rilievoa questo aspetto che sembra diventare sempre piùimportante nel dibattito scientifico e politico.Un’altro aspetto importante è il futuro dei modelliorganizzativi degli Stati membri. Il libro di Caciagli,giustamente, non lascia alcun dubbio sul fatto cheanche in futuro le differenze tra le forme di artico-lazione territoriale degli Stati membri dell’UErimarrano forti. Questo sarà più un vantaggio cheuno svantaggio in quanto, per motivi storici, abbia-mo bisogno di soluzioni tagliate su misura e nonsoluzioni uniformi. Questo fatto non impedirà,come è convinto anche Caciagli, che le Regioni tro-veranno i loro luoghi nella nuova Europa, che saràcaratterizzata da interdependenze forti tra i varilivelli e attori nell’arena politica. “L‘Europa dellereti” significa anche l’addio a idee troppo precise edeterminate dalle esperienze vecchie con i sistemipolitici attuali. Come dimostrano tutti gli studicomparati recenti, nei contesti nazionali i processidi rinvigorimento della dimensione regionale(Loughlin et al. 2001) e dell’idea federale (Piazoloe Weber 2004) continuano, quindi il livello substa-tale farà sentire la sua voce anche in futuro.Il bilancio finale fatto da Caciagli è che le regioninel processo di integrazione comunitaria sarebbe-ro un “successo con ostacoli” (Caciagli 2003, p.202). Bisogna dargli ragione. Le aspettative dellaprima metà degli anni novanta per quanto concer-ne il potere co-decisionale delle Regioninell’Unione Europea erano comunque maggioririspetto agli esiti reali. I dibattiti, dunque, sul“terzo livello”, sulla “multi-level governance” o“l’Europa delle regioni”, non hanno molto a chevedere con la realtà (Hooghe e Marks 2001).Semmai essi sono progetti per il futuro, schemiinterpretativi o metafore, anche se certamente nonsono totalmente privi di fondamenta.Infine, il libro di Caciagli prova anche la necessitàdi servirsi di un approccio interdisplicinare edinterattivo (in senso di analisi transnazionale emulti-livello). Di fronte al fenomeno complessodelle regioni in Europa, lo studioso non può fare a

meno di impiegare un tale approccio per poterarrivare a risultati soddisfacenti come dimostrano inuovi strumenti che si rendono disponibili per laricerca del fenomeno “Regione”. Per esempio ilmanuale di Schmitt-Egner (2004). Aspetti econo-mici, sociali, politici, costituzionali, amministrativie, non da ultimo, storici e culturali, contano ugual-mente e vanno considerati assieme. Per tuttoquanto detto il libro di Caciagli è un buon libro,ricco di informazioni e stimoli, e ottimo punto dipartenza per affrontare la nuova sfida di studi sulleregioni nell’UE allargata. Sarebbe auspicabile unasua traduzione in lingua inglese o tedesca.

Osservazioni critiche sul dibattito regionalistae qualche cenno sulle nuove sfideNondimeno mi sembra opportuno fare alcuneosservazioni sul ruolo delle Regioni in Europa. Laregionalizzazione, ad esempio, rappresenta unodegli sviluppi cruciali non solo in termini istituzio-nali, ma anche, e forse in primo luogo, in relazionealle mutate relazioni tra Stato e società, visto l’e-mergere del concetto di governance con public-private partnerships che sono diventati rilevantiproprio a livello regionale e comunale. Anzi, pos-siamo indubbiamente affermare che la regionerappresenti un vero e proprio punto di intersezio-ne del contemporaneo cambiamento politico,socio-economico e culturale causato dai processidi transnazionalizzazione, ossia di europeizzazionee globalizzazione. Segno più visibile ne è il fattoche persino la Francia, per molto tempo Paesecentralista per eccellenza, con le riforme costitu-zionali del marzo 2003 (iniziate dal GovernoRaffarin), come ultimo grande Paese dell’Europaoccidentale, ormai si è messa sul cammino di unvero decentramento, allo scopo di recuperarecapacità regolative dei mutamenti economici e deiproblemi sociali. L’ultimo decennio del secoloscorso, come anche il decennio che attualmentepassiamo, sono entrambi caratterizzati dall’emer-gere del territorio come fattore di modernizzazio-ne e crescita economica (Bullmann e Heinze 1997).Altri studi recenti vanno nella stessa direzione inquanto cercano di evidenziare il legame esistentetra identità regionali e sviluppo economico inter-pretando le prime come forma di capitale sociale

Page 93: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Alexander Grasse La regione alla vigilia della "nuova Europa"

93

(Grasse 2004). Non pochi Autori insistono sull’im-portanza del patrimonio culturale per la moderniz-zazione in termini di un processo attivo di “region-building” e l‘elaborazione di un programma di svi-luppo regionale condiviso e sostenuto nelle relativesocietà territoriali (Keating,Loughlin e Deschouwer2003). Tuttavia, sembra dubbio se l’emergere dinuove identità regionali significhi veramente lo“smussarsi delle differenze di classe” che avrebbeanche favorito i successi dei partiti regionalisticicome lo sostiene Caciagli (Caciagli 2003, p. 184). Achi scrive appare più probabile che i partiti regio-nalistici, sulla base dell’identità territoriale-regiona-le, siano in grado di fare una specie di camouflagedei conflitti sociali esistenti, poiché, come dimo-strano le statistiche, è un dato di fatto che il gap traricchi e poveri, nell’era dell’egemonia dell’ideolo-gia neoliberalista nelle società occidentali, sia verti-ginosamente cresciuto sin dagli anni ottanta del XXsecolo. Bisognerebbe dunque discutere in futuro diquesto rischio, cioè se e quanto il reale divario eco-nomico venga nascosto dalla presunta e soltantofinta uguaglianza di persone in conseguenza delsentimento condiviso di appartenenza ad unacomunità territoriale o identità regionale. Ciòpotrebbe essere invece una implicazione negativa,ossia il rovescio della medaglia, della capacità inte-grativa e di meditazione raffigurata dalle identitàregionali. Anche se probabilmente non c’è motivodi essere troppo preoccupati di una eventualeframmentazione dell’Europa, bisogna insisteresulla necessità che gli egoismi regionali vadano sor-vegliati, monitorati e bilanciati.Forse a questo punto bisogna ricordare un’altroaspetto non messo in luce nel libro di Caciagli,cioè l’ambiguità del termine “regionalizzazione”.Questo termine, da un lato, viene utilizzato perperseguire una ideologia che punta su “più merca-to” e “meno stato”, e dall’altro per far valere unconcetto secondo cui la creazione di regioni con-tribuisce alla democratizzazione delle societàodierne e serve a raggiungere meglio gli obiettividi partecipazione e coesione sociale (Grasse2001a). Dunque, in ciascun caso specifico, è neces-sario chiedersi quali siano gli obiettivi che spingo-no certi attori a favorire il concetto di regionalizza-zione. Non bisogna mai dimenticare nel dibattito

sulle Regioni in Europa che l’interesse alle regioniha le sue radici in parte anche nell’ideologia neoli-beralista e nella sua parola magica, cioè “concor-renza”. Stiamo attenti, allora, perché tra i tantiaspetti positivi, si possono nascondere anche igermi di disuguaglianza sociale voluta o quanto-meno accettata, in termini di un’ideologia di “sur-vival of the fittest” che nega sia la necessità sia ilvalore della solidarietà e significherebbe metterein pericolo il progetto di unire il vecchio continen-te, mantenendo il suo modello sociale che in pas-sato è stato garante del successo dell’integrazione.Con l’allargamento l’UE non sarà quella alla qualesiamo abituati oggi. Di sfide tra le regioni e le poli-tiche regionali comunitarie (e nazionali), ce nesono parecchie, non solo in termini di efficienza eefficacia, ma soprattutto in termini di garanzia digiustizia e sicurezza sociale. Per intenderci: tuttoquesto non toglie che esista una forte necessità didare spazio alle culture regionali in quanto l’auto-nomia regionale ha una forte componente demo-cratica in termini di “politica di riconoscimento” e“discriminazione positiva” (Taylor 1992).In più, dobbiamo renderci consapevoli della com-plessità dei processi di regionalizzazione. Bisognaesaminare, caso per caso, quanto le Regioni davve-ro possano affermare la loro centralità nei proces-si di sviluppo regionale e subregionale e in qualemodo lo facciano. Qual è il compito delle Regioninella creazione delle reti e delle coalizioni di svi-luppo e crescita, e quanto le Regioni riescono dav-vero a far muovere le reti di municipalità e le retidi sussidarietà orizzontale, cioè tra settore pubbli-co e privato? Non possiamo darlo per scontato. Laquestione delle competenze legislative a questopunto è indubbiamente di importanza, ma la capa-cità di autogoverno da parte dei politici regionali edel governo regionale non ha minore importanza.A parte questo problema, sono davvero le Regioniad essere cruciali oppure spesso non sono, invece,le reti subregionali ad essere decisive per lo svi-luppo endogeno delle regioni e la creazione diidentità territoriali? Non pochi autori, infatti, con-testano il ruolo delle Regioni in tale contesto(Bagnasco 1998). Anche se si può non condividerequesto punto di vista, considerato il fatto che esi-stono tanti studi che provano l’incidenza delle

Page 94: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

94

Regioni sul networking, è comunque vero che laregolazione dei sistemi locali spesso è difficile adeciffrare, e non di rado troviamo delle situazioniassai complicate nelle quali esiste una competizio-ne notevole tra varie reti subregionali, tra reti sub-regionali e Regioni, nonché tra città capitali regio-nali e le Regioni di appartenenza (Pichierri 2002).Infine vorrei ricordare il fatto che, mentre a livellonazionale il ruolo amministrativo e politico delleRegioni è costantemente cresciuto, gli anni dal1996 fino ad oggi, nell’arena europea, invece, sonostati più anni di crisi per le Regioni che anni di suc-cesso (Grasse 2001b). Segni di questa crisi sono ilritiro delle realtà substatali più forti, quali i Ländertedeschi, da alcuni organismi di lobbying qualel’Assemblea delle Regioni Europee. Le Regioni chedispongono di competenze legislative (presenti in8 su 15 stati rappresentando il 56% della popola-zione comunitaria attuale) hanno anzi, già da qual-che tempo, creato il proprio club per far valere ipropri interessi che si distinguono dalle altre real-tà nel Comitato delle Regioni. Esso è rimastoun‘istituzione debole, come dimostrano alcunistudi recentissimi (Avolio e Santini 2003).Nonostante il fatto che con il Trattato diAmsterdam il numero delle materie con obbligo diconsultazione del CdR sia notevolmente aumenta-to, i pareri espressi dal Comitato non si riflettononegli esiti sostanziali della legislazione europea. Inaltre parole, nella polity europea le Regioni sonoancora marginalizzate. Anche con la “nuovaEuropa”, visto il testo di costituzione presentatodalla Convenzione europea, questa situazione noncambierà molto, nonostante qualche miglioramen-to che prenderò ancora in considerazione alla finedi queste mie riflessioni. Nel campo della policypossiamo costatare una situazione variegata, conun’importanza notevole delle Regioni in alcunematerie (ad esempio riguardo ai fondi strutturali)e una serie di altre materie dove fino ad oggi leRegioni contano ben poco. Nella politics, invece, leRegioni sono in grado di influire sulle decisioni inmaniera considerevole. Ciò, innanzi tutto, a causadelle sue possibilità di intervenire nei relativi siste-mi politici nazionali, dove le Regioni istituzional-mente (cioè per i loro poteri garantiti dalla costi-tuzione) o per mezzo di canali partitici fanno pres-

sione sui Governi e le relative posizioni in materiadi politica europea dei propri Paesi; inoltre, attra-verso le loro attività transnazionali e l’influenzainformale a Bruxelles, dove alcune Regioni riesco-no, almeno parzialmente, a far valere i propri inte-ressi. Tuttavia, bisogna anche dire che molte regio-ni fanno un “doppio gioco” in quanto si impegna-no a pieno titolo nell’arena europea per contem-poraneamente accusare l’Europa nei confrontidella propria popolazione regionale, di tutti i malilocali e riversano tutte le responsabilità suBruxelles; la Baviera ne è un caso emblematico.Riepilogando: sono sostanzialmente tre gli aspettiche, secondo il sottoscritto, spiegano il boom cheattualmente vive il “fait régional”. Vale a dire: (1)modernizzazione economica, miglioramento dellecapacità regolative e di innescamento di sviluppo ecrescità, (2) necessità di identità multiple, integra-zione e protezione di minoranze, nel senso di unapolitica di riconoscimento della differenza cultura-le esistente, e (3) necessità di miglioramento dellaqualità di democrazia attraverso l’incremento dellapartecipazione dei cittadini ai processi decisionali,nonché il consolidamento della legittimazionedello Stato (Berge e Grasse 2003). Sono questianche i motivi per cui il Consiglio d’Europa, nellasua risoluzione n. 1338 del 24 giugno 2003, ha insi-stito sulla maggior valorizzazione dell’autonomiaregionale come concetto politico, unico valido agarantire un’Europa veramente unita e pacifica(Consiglio d’Europa 2003). Non dimentichiamoche già oggi molti degli Stati membri sono multi-nazionali (Gagnon e Trully 2001; Requejo 2001) eche con i nuovi Paesi membri dell’Unione la varie-tà e diversità regionali come pure il numero diminoranze aumenteranno ulteriormente. Sonoquindi necessari nuove forme e nuovi concetti disovranità statale (Keating 2001). L‘idea del pattoche è inerente anche al concetto di autonomiaregionale (Berge e Grasse 2003), sicuramenteassumerà un’importanza particolare in questo con-testo. A mio avviso ciò implica anche il compito disviluppare gli studi regionali, più di quanto non siaavvenuto fino ad oggi, come “studi sulla democra-zia”. In questo senso, una delle questioni più inte-ressanti per il futuro sarà osservare come la ristrut-turazione territoriale nei Paesi dell’Est d’Europa

Page 95: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

95

proceda e con quale successo. Alcuni risultati pre-liminari sono già disponibili (Keating e Hughes2003). Se davvero le politiche regionali e la regio-nalizzazione saranno affrontate e realizzate anchein senso di democratizzazione dei relativi sistemipolitici, tale questione è importantissima e ancoratotalmente aperta. Anche nel contesto delle politi-che strutturali comunitarie ci sono ancora moltiproblemi da risolvere come il rapporto dellaCommissione europea dell’agosto 2003 ha rileva-to. In particolare la Commissione ha criticato l’i-nerzia dei nuovi Paesi membri in dieci materieessenziali di politica regionale quali la garanzia delprincipio di partenariato, le trattative programma-tiche, il management delle finanze, i meccanismi dicontrollo e monitoraggio, la preparazione di pro-getti, il coordinamento interministeriale, etc. Vistala tradizione “real-socialista” della maggior partedei nuovi Paesi membri dell’UE, della quale eracaratterizzante per quasi mezzo secolo il suo for-tissimo centralismo, visti anche i numerosi proble-mi con minoranze nazionali ed etniche ivi presen-ti, e visti, infine, gli enormi divari economici all’in-terno di questi Stati e tra di loro, non mi sembratroppo azzardato sostenere la tesi che il futurodelle “Regioni d’Europa”, ossia della “dimensioneregionale”, si giocherà e deciderà per lo più nellaparte orientale della nuova Unione europea. Neiprossimi anni si verificherà anche se e in qualemisura i nuovi Paesi membri seguiranno i modelliorganizativi occidentali di Regione oppure qualinuovi modelli saranno sviluppati ed emergeranno.

Il futuro della “multi-level-governance” e la pro-posta della Convenzione europea in materia didemocrazia regionale e partecipazione – unaestrema sintesi

La costituzione europea ancora da varare indub-biamente determinerà il destino delle Regioni nel-l’ambito comunitario in maniera incisiva. Qualesarà, quindi, il prossimo futuro delle Regioni inEuropa? Il disegno di costituzione presentato dallaConvenzione dà già qualche indicazione in qualedirezione stiamo andando. Visto gli elementi posi-tivi che si possono trovare in questo disegno, leRegioni verosimilmente saranno meno deboli di

adesso. Se ciò sarà sufficiente per colmare l‘esi-stente deficit di “legittimazione input” (Scharpf1999) ossia l’attuale deficit di democrazia, tuttavia,mi sembra dubbio.

Tra gli elementi positivi della versione dellaCostituzione presentata dalla Convenzione visono comunque, a mio avviso, i seguenti:

(1) il diritto per il Comitato delle Regioni di ricor-rere alla Corte di giustizia europea in caso di pre-sunta violazione del principio di sussidiarietà.Dopo tanti anni di dibattito e relativa richiesta daparte delle Regioni, finalmente è prevista la possi-bilità di conferire al CdR questa possibilità impor-tante “in relazione agli atti legislativi per l’adozionedei quali la Costituzione richiede la sua consulta-zione”, per far sì che il Comitato possa salvaguar-dare le proprie prerogative (vedi art. III 270,commi 2-3, nonché il “Protocollo sull’applicazionedei principi di sussidiarietà e di proporzionalità”,punto 7); ciò significa un coinvolgimento delComitato nelle procedure di “controllo expost”;(2) il diritto dei parlamenti nazionali (ciascunacamera) di appellarsi alla Corte di giustizia in casodi supposta violazione contro i principi di sussidia-rietà e proporzionalità (art. III 270 nonché punto 7del “Protocollo sull’applicazione dei principi disussidiarietà e di proporzionalità”); ciò sta a signi-ficare un coinvolgimento delle seconde camere,cioè le “camere delle Regioni” degli Stati membri(ove sono esistenti), nella procedura giuridica dicontrollo ex post;(3) il rafforzamento del principio di sussidiarietà edella garanzia della sua applicazione con la nuovastesura del protocollo, il quale implica il doveredella Commissione europea di tener conto delladimensione regionale e locale in quanto: a) “primadi proporre un atto legislativo, la Commissioneeffettua ampie consultazioni” (punto 2 delProtocollo) e b) “ogni proposta legislativa dovreb-be essere accompagnata da una scheda contenen-te elementi circostanziati che consentano di valu-tare il rispetto dei principi di sussidiarietà e di pro-porzionalità” nonché “l’impatto finanziario e leconseguenze, quando si tratta di una legge quadroeuropea, sulla regolamentazione che sarà attuata

Alexander Grasse La regione alla vigilia della "nuova Europa"

Page 96: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

96

dagli Stati membri, ivi compresa, se del caso, lalegislazione regionale” (punto 4 del Protocollo).Inoltre, per quanto concerne la valutazione, se unobiettivo davvero possa essere o meno conseguitomeglio a livello europeo che a livello nazionale oregionale, la Commissione deve tener conto di cri-teri quantitativi e, possibilmente, anche qualitativi;(4) l’introduzione di un meccanismo di “controlloex ante”, il cosidetto “early warning system”, attra-verso l’invio di tutte le proposte legislative da partedella Commissione ai parlamenti nazionali, chepossono esprimere il loro parere riguardo all‘even-tuale conflitto con il principio di sussidiarietà (seun terzo dell’insieme dei voti attribuiti ai parla-menti nazionali si esprime in modo negativo, laCommissione è obbligata a riesaminare la sua pro-posta; nelle materie di spazio di libertà, sicurezza egiustizia, è sufficiente un quarto dei voti); laCommissione, nel caso in cui essa mantenga la suaproposta è costretta a darne motivazione; sta alpotere discrezionale dei parlamenti nazionali o diuna delle sue camere “di consultare all’occorenza iparlamenti regionali con poteri legislativi”(Protocollo, punti 4-6);(5) l’esplicito e giuridicamente vincolante ricono-scimento del principio di autogoverno regionale ecomunale in quanto “l‘Unione rispetta l‘identitànazionale degli Stati membri legata alla loro strut-tura fondamentale, politica e costituzionale, com-preso il sistema delle autonomie regionali e locali”(art. 5, comma 1); viene riconosciuto altresì il ruolodi Regioni ed enti locali riguardo alla necessità delladiversità culturale dell’Unione (art. III 181),un’Unione che deve rispettare le identità nazionalidegli Stati membri di cui viene dichiarato un ele-mento fondamentale anche l’“ordinamento deiloro pubblici poteri a livello nazionale, regionale elocale” (preambolo parte II: Carta dei diritti fonda-mentali dell’Unione); tutto sommato in questomodo il livello substatale (innanzitutto le Regioni),per la prima volta, tocca, seppur soltanto implicita-mente, il riconoscimento di qualità di elementicostitutivi (“terzo livello”), poiché la Costituzione,riguardo all’architettura politica ed istituzionaledell’Unione, non si limita più agli Stati nazionali,tanto è vero che essi rimangono gli unici soggettinel diritto internazionale e, appunto, europeo;

(6) l’introduzione di categorie di competenzedell’Unione e l’enumerazione delle medesime inmaniera alquanto concreta: competenze esclusivedell’Unione, competenze concorrenti tra UnioneEuropea e Stati membri, nonché azioni comunita-rie di sostegno, di coordinamento o di comple-mento (artt. I 11-13);(7) l‘inserimento del principio della “coesione ter-ritoriale” da nuovo obiettivo dell’UE da perseguire(accanto ai già esistenti obiettivi di coesione eco-nomica e sociale), e il rilievo della “solidarietà tragli Stati membri” (art. I 3, comma 3 nonchè artt. III116-120); “in particolare l’Unione mira a ridurre ildivario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni edil ritardo delle regioni meno favorite (...)” (art. III116) e attraverso i fondi strutturali essa contribui-sce “alla correzione dei principali squilibri regiona-li esistenti nell'Unione” (art. III 118); infine, laCommissione è obbligata a presentare ogni treanni un rapporto relativo alla realizzazione o menodegli obiettivi sopracitati;(8) il provvedimento del “principio della democra-zia partecipativa” (art. I 46) che significa l’impegnodell’Unione di coinvolgere sistematicamente e inmaniera trasparente la società civile e le sue asso-ciazioni nel processo di produzione delle politi-che; inoltre è previsto nello stesso articolo 46 che“su iniziativa di almeno un milione di cittadinidell’Unione appartenenti ad un numero rilevantedi Stati membri, la Commissione può essere invita-ta a presentare una proposta appropriata su mate-rie in merito alle quali tali cittadini ritengononecessario un atto giuridico dell’Unione ai fini del-l’attuazione della Costituzione”. Nell’articolo I 47,per giunta, l’Unione europea si obbliga di ricono-scere e promuovere “il ruolo delle parti sociali alivello dell’Unione, tenendo conto della diversitàdei sistemi nazionali”.

Aspetti negativi e punti critici sono invece iseguenti:

(1) il persistente rifiuto di riconoscere il CdR comeorgano dell’UE; il Comitato delle Regioni cosìrimane un mero elemento delle “politiche identi-tarie” europee, invece di rappresentare un pienoed effettivo attore del processo di decision-making

Page 97: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Alexander Grasse La regione alla vigilia della "nuova Europa"

97

nell’Unione;(2) il bisogno di tener conto del principio di sussi-diarietà che fa sembrare poco plausibili e convin-centi le nuove competenze dell’UE in alcune mate-rie quali lo sport o la protezione civile (azionicomunitarie di sostegno, di coordinamento o dicomplemento);(3) il mancante riconoscimento del ruolo delleRegioni possedenti poteri legislativi, per esempioin forma del diritto di fare ricorso diretto alla Cortedi giustizia;(4) il fatto che manca una base costituzionale perla collaborazione transfrontaliera ed interregionalenell’Unione, in quanto pilastri importantissimi perla realizzazione dell‘integrazione nella vita quoti-diana dei cittadini;(5) l’assenza del generale obbligo di motivazionescritta degli organi dell’Unione nel caso in cui essi,nei processi decisionali in relazione alle materieper l’adozione dei quali la Costituzione richiede laconsultazione del CdR, non tengano conto deisuoi pareri espressi;(6) il mancante rafforzamento delle funzioni delComitato delle Regioni, vale a dire un eventualediritto di veto in alcune materie che richiedono lasua consultazione; ciò significherebbe il pienocoinvolgimento nel processo di co-decisione traConsiglio, Parlamento europeo e Commissione,per esempio in riferimento ai programmi“Interreg”; in ogni caso sembra opportuno espan-dere la consultazione del CdR a tutte le materie incui, a livello nazionale, Regioni e comuni dispon-gono di competenze regolative; sarebbe in parti-colare stato ragionevole considerare una compe-tenza consultativa nell’ambito del potere di coor-dinamento dell’Unione delle politiche economi-che e, in particolar modo, delle politiche dell’ocu-pazione (art. I 14);(7) l’assenza di un apposito provvedimento nellaCostituzione che garantisse la rappresentanzadelle Regioni (per esempio membri del Comitatodelle Regioni), nelle procedure future di modificadella Costituzione stessa.

Riferimenti bibliograficiAvolio, Giuseppe e Santini, Alessandro (2003), TheCommittee of the Regions in the EU policy-making

process: actor or spectator?, paper presentato alConvegno annuale della SISP, Trento, 14-16 set-tembre 2003.Bagnasco, Arnaldo e Oberti, Marco (1998), Italy –“Le Trompe-l’oeil” of regions, in Le Galès,Patrick/Lequesne, Christian (eds.), Regions inEurope, London/New York (Routledge), pp. 150-165.Berge, Frank e Grasse, Alexander (2003), Belgien –Zerfall oder föderales Zukunftsmodell. Der flä-misch-wallonische Konflikt und dieDeutschsprachige Gemeinschaft, Opladen (Leske+ Budrich).Bullmann, Udo e Heinze, Rolf G. (Hg.) (1997),Regionale Modernisierungspolitik. Nationaleund internationale Perspektiven, Opladen (Leske+ Budrich).Caciagli, Mario (2003), Regioni d’Europa: devolu-zioni, regionalismi, integrazione europea,Bologna (Il Mulino); pp. 212, Euro 11,00, (ISBN 88-15-09352-4).Consiglio d’Europa (2003), Resolution 1334,Positive experiences of autonomous regions as asource of inspiration for conflict resolution inEurope, http://assembly.coe.int/documents/adop-tedtext/ta03/eres1334.htm.Fabbrini, Sergio (2003), L’europeizzazionedell’Italia. L’impatto dell’Unione Europea nelleistituzioni e le politiche italiane, Bari/Roma(Editori Laterza).Gagnon, Alain-G. e Trully, James (eds.) (2001),Multinational Democracies, Cambridge(Cambridge University Press).Grasse, Alexander (2001a), The Myth ofRegionalisation in Europe – Rhetoric and Realityof an Ambivalent Concept, in “Journal ofEuropean Area Studies” (Carfax Publishing, Taylor& Francis), Vol. 9, n. 1/2001, pp. 79-92.Grasse, Alexander (2001b), The Future of theRegional Dimension in the EU: Nice and Beyond,in: “Journal of European Integration/Revued’Integration Européenne” (Harwood AcademicPublishers, Gordon & Breach), Vol. 23, n. 4/2001,pp. 407-443.Grasse, Alexander (2004), Identità regionali inEuropa: quale rilevanza ai fini della moderniz-zazione? Formazione, elementi costitutivi ed effi-

Page 98: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

98

cacia di un “costrutto effimero”, in “TeoriaPolitica”, n. 1/2004.Gualini, Enrico (2004), Multi-level Governanceand Institutional change. The Europeanizationof Regional Policy in Italy, Aldeshot (Ashgate) Keating, Michael (2001), PlurinationalDemocracy. Stateless Nations in a Post-Sovereignty Era, Oxford (Oxford University Press).Keating, Michael e Hughes, James (eds.) (2003),The Regional Challenge in Central and EasternEurope. Territorial Restructuring and EuropaenIntegration, Frankfurt am Main et al. (Peter Lang).Keating, Michael e Loughlin, John e Deschouwer,Chris (2003), Culture, Institutions and EconomicDevelopment, Cheltenham/Northampton (EdwardElgar).Loughlin, John et al. (2001), SubnationalDemocracy in the European Union: Challengesand Opportunities, Oxford (Oxford UniversityPress).Hooghe, Liesbet e Marks, Gary (2001), Multi-levelGovernance and European Integration, Lanhamet al. (Rowman & Littlefield).Piazolo, Michael/Weber, Jürgen (Hg.) (2004),

Föderalismus – Zukunft und Leitbild für dieEuropäische Union?, München (Olzog Verlag).Pichierri, Angelo (2002), La regolazione dei siste-mi locali. Attori, strategie, strutture, Bologna.Requejo, Ferran (ed.) (2001), Democracy andNational Pluralism, London (Routledge).Scharpf, Fritz W. (1999), Governing in Europe:effective and democratic?, New York (OxfordUniversity Press).Schmitt-Egner, Peter (2000), Handbuch der euro-päischen Regionalorganisationen. Akteure undNetzwerke des transnationalen Regionalismusvon A bis Z, Baden-Baden (Nomos).Schmitt-Egner, Peter (2004), Handbuch zurEuropäischen Regionalismusforschung.Theoretisch-methodische Grundlagen, empirischeKonturen und strategische Optionen des transna-tionalen Regionalismus im Europa des 21.Jahrhunderts, Wiesbaden (VS Verlag fürSozialwissenschaften).Taylor, Charles (1992), Multiculturalism and “thepolitics of recognition”, New York (PrincetonUniversity Press).

([email protected])

Page 99: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

99

Il processo di secolarizzazione della modernità,nella misura in cui soddisfa le condizioni di plura-lismo ideologico richieste dalle società complesse,impone alla filosofia una sorta di astinenza dal giu-dicare la particolare direzione dei progetti di vitaindividuali e collettivi. Su questo sfondo vorrem-mo far reagire la controdomanda sollevata dallepolemiche sull’ingegneria genetica: La filosofiadeve continuare a imporsi questa astensioneanche nelle questioni relative all’etica di genere?Da diverso tempo la discussione sull’ingegneriagenetica ruota intorno al problema dello statutomorale e giuridico della vita umana prepersonale.La ricerca sugli embrioni e la diagnosi di preim-pianto turbano gli animi, soprattutto perché esem-plificano i pericoli evocati dalla metafora di una“eugenetica selettiva” sulla razza umana. Questa“astensione giustificata” della filosofia si scontradunque contro i propri limiti, non appena incappain questioni riguardanti l’etica di genere, nonappena cioè sia messa in pericolo l’autocompren-sione etica dei soggetti. Che cosa pretende la seco-larizzazione portata avanti dalle società modernedai cittadini liberi di uno stato democratico costi-tuzionale? Il progresso delle scienze biologiche elo sviluppo delle biotecnologie estendono la lorocapacità di intervento all’organismo umano, checosì viene a cadere nelle sfera della programma-zione intenzionale. Questa è la situazione cuisiamo arrivati oggi. La possibilità, concettualmentenuova, di intervenire sul corredo genetico umano,chiama in causa la nostra autocomprensione nor-

mativa in quanto specie vivente. Si tratta di unpunto che non era mai stato tematizzato prima eche adesso scopriamo essere fondamentale. Qualeruolo vogliamo conservare alla morale e al dirittonel quadro di relazioni sociali che potrebberoanche convertirsi a concezioni razzistiche? A unliberismo genetico che minaccia direttamente ifondamenti biologici, Habermas contrappone unamoralizzazione della natura umana, che non coin-cide con una sacralizzazione antimoderna dellavita, bensì con un’ autocomprensione etica delgenere umano. La presente riflessione muove dal-l’esigenza di contribuire a tale chiarificazionemorale, facendo interagire la proposta diHabermas sul Futuro della natura umana con loscenario politico istituzionale in cui Foucault arti-cola l’emancipazione del potere di regolazione econtrollo sui corpi, dalla sovranità al biopotere,dall’uomo come corpo all’uomo come specie, dalpotere di far vivere a quello di lasciar morire.Chi scrive è convinto che nessuna scienza potràmai esonerare il senso comune dal giudicare, nelmomento in cui la biologia molecolare rendeimmaginabili le manipolazioni genetiche, qualetrattamento dobbiamo adottare nei confronti dellavita umana prepersonale. La “fede” scientistica inun sapere che possa un giorno non solo integrare,ma anche rimpiazzare l’autocomprensione perso-nale tramite autodescrizione oggettivante, non èscienza, direbbe Habermas, ma “cattiva filosofia”.L’idea è che si possa contribuire a rischiarare scien-tificamente quel senso comune evitando di con-

Il sestante

Irene Strazzeri

L’oggetivazione tecnica della natura umana.Nota critica su Habermas e Foucault

Page 100: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

100

trapporre dogmaticamente le forze produttivedella scienza e della tecnica, “capitalisticamentesfrenate”, ai poteri frenanti della morale, religiosao non credente che sia. Questo gioco a sommazero, frutto di un’interpretazione ottimistico - pro-gressiva della modernità disincanta, trova rappre-sentazione in queste pagine in quella formula diconvivenza degli opposti che abbiamo definitoedonismo tragico. Questa prospettiva allude alladuplice ambiguità della figura mitica di Prometeo,benefattore degli uomini ma anche profeta dellecieche speranze. Il progresso scientifico e tecnolo-gico, nell’esempio della manipolazione genetica,come puro edonismo che ci gratifica e come tra-gedia che ci condanna. Questo l’universo moral-mente sensibile di cui disponiamo per una inizialepresa di coscienza sulla nostra universalità antro-pologica e sulla nostra forma culturale di vita.

Eschilo, raccontando il mito di Prometeo, ha versiche hanno fatto molto riflettere(versi 197/242 246-267): (...) - “Ma forse hai fatto qualche altra cosa rispet-to a quello che hai detto? - Ho tolto ai mortali l’angoscia della morte. - Quale rimedio hai trovato all’angoscia? - Le cieche speranze ho posto fra loro.”

Oltre alla techne, un altro preziosissimo donoPrometeo avrebbe fatto agli uomini: distogliere illoro sguardo dalla morte, indurli a rivolgere gliocchi altrove, affinché dimentichino l’inevitabilefine. Gli uomini, infatti, riescono a sopravvivereeffimeri giorni sulla terra solo a condizione didiventare ciechi, obliando il loro costitutivo “esse-re per la morte” (Curi, 2001). Rispondendo alla domanda del coro su quale sial’espediente con il quale sollevare l’animo umanodall’angosciosa minaccia della morte, Prometeoconfessa: ho posto in loro cieche speranze. Nonsemplici speranze dunque, ma speranze cieche.Perché? Oggi grazie allo sviluppo della scienza moderna, gliuomini possono sfidare l’invecchiamento e lamorte, da cui non hanno più bisogno di distoglie-re lo sguardo. Le malattie, l’invecchiamento e lamorte sono contrastate e combattute giornalmen-

te nei laboratori di tutto il mondo. La medicina hacompiuto un gigantesco passo in avanti da quandoè diventata capace di manipolare persino la specieumana, oltre la natura, ed è quindi capace di modi-ficare la nostra storia. Negli ultimi decenni, infatti,la genetica ha avuto importantissime applicazionifarmacologiche: nel 1978 è stato clonato il geneumano dell'insulina; nel 1998 sono state brevetta-te le pecore transgeniche in grado di produrre,con il latte, sostanze utilizzate per la cura dell'in-farto acuto; nel 1996 abbiamo avuto la nascita diDolly, il primo mammifero della storia clonato apartire da un individuo adulto; nel 1998, la scoper-ta delle cellule staminali ha aperto la strada allapossibilità di produrre tessuti e organi in laborato-rio. Risale al giugno del 2000, infine, l'annuncio,dato dal presidente americano Bill Clinton, delsequenziamento del 97% del genoma umano (i tremiliardi e passa di "lettere" chimiche del nostroDna, sono state ricomposte nell'esatta successionedagli scienziati in una sorta di codice delle istru-zioni del corredo genetico umano. Una volta deci-frato, questo codice dovrebbe chiarire il ruolo diogni singolo gene, e quindi fornire gli strumentiper approcci clinici e farmacologici totalmentenuovi). Questo sequenziamento e successiva deci-frazione consentirà di dire a quali malattie ciascu-no è predisposto e, di conseguenza, di prevederneil futuro. Ecco come, alla luce di queste ultime con-quiste, le cosiddette biotecnologie introducononuove e scottanti problematiche. La possibilitàofferta oggi dalle nuove ricerche, di eseguire testgenetici addirittura sull'embrione per poter evi-denziare eventuali difetti, apre nuovi inquietantiorizzonti, ma offre anche nuove opportunità d'in-tervento e nuove aspettative. La biologia, comestudio degli organismi viventi, e la medicina, comeversante pratico e applicativo della biologia, hannosempre avuto un ruolo importante nel processo dicivilizzazione moderna. A livello generale lo spirito moderno si è caratte-rizzato per un impulso a trascendere i limiti dellanatura e per un costante impegno a perfezionarele capacità di azione dell’uomo. Tutto ciò ha con-ferito alla biologia e alla medicina lo statuto spe-ciale di discipline orientate alla decostruzione dellamorte, considerata, in epoca moderna, l’emblema

Page 101: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Irene Strazzeri L’oggetivazione tecnica della natura umana.

101

dei limiti delle potenzialità umane. “La morte, percosì dire, colonizzò la vita, e combattere la morte -lo spirito di sopravvivenza e di autoconservazione- si traformò nel senso della vita” (Bauman 1999,pag. 134). Dalle prime ricerche biologiche e tec-nologiche maturarono ben presto vere e propriestrategie difensive, che perseguivano da un lato ilmiglioramento della salute e dall’altro l’eliminazio-ne della malattia. La buone salute divenne condi-zione perseguibile costantemente attraverso lamedicalizzazione degli stili di vita, che conducevaalla dipendenza dalle indicazione degli esperti ealla necessità di consumare prodotti tecnologiciper controllare e manipolare le reazioni del pro-prio corpo. Curiosamente gli individui confonde-vano l’adesione a queste pratiche con il loro dive-nire sempre più responsabili del proprio destino(Bauman, 1999). Il pericolo cominciò ad incarnar-si nell’Altro, portatore di infermità, malato e conta-gioso, che andava identificato, isolato e dunqueeliminato. “La logica intrinseca della strategia erauna cornice sociobiologia su cui si fondavano infondo le giustificazioni dei genocidi. Il programmadi sterminio nazista era un’estensione logica delleidee sociobiologiche e delle dottrine eugenetich”(Chorover, From genesis to genocidi: the maeningof human nature and the power of behavior con-trol, in Bauman 1999, pp. 80-81). Se da un lato ildefinitivo declino dell’assetto socio-politico che haconsentito che si sviluppasse e si effettualizzassetragicamente il genocidio rende improbabile unasua ricomparsa in epoca tardo moderna, e non ècertamente accreditabile la tesi secondo cui lagenesi del nazismo sia riducibile ad una sorta dideterminismo biologico. Dall’altro si può indivi-duare nel nazismo una retrospettiva storica, tra lenumerose possibili, in cui inserire la descrizionehabermasiana dello scenario socio-politico attualee dei nuovi rischi connessi allo sviluppo delle bio-tecnologie, altrimenti resi ancor più spaventosi dalla totaleassenza di una prospettiva storica. Da qualchetempo la ricerca scientifica biomedica tenta di cor-reggere gravi malattie ereditarie intervenendodirettamente sul corredo genetico degli individui.A livello del senso comune inoltre, è stata ricono-sciuta una certa legittimità al ricorso a diagnosi di

preimpianto, purché tale ricorso rimanga circo-scritto a casi di tare ereditarie potenzialmente nonaccettabili dalle persone colpite. Ma che succedese l’ambito del lecito viene indebitamente estesofino a ricomprendere interventi di ingegneriagenetica di carattere migliorativo sul propriocorpo o sugli embrioni? L’impossibilità di trovareuna soluzione alla disputa sullo status morale egiuridico della vita umana prepersonale induceoggi Habermas a ripresentare la problematica eticaclassica sul piano dell’universalità antropologica.Nel suo recente contributo “Il futuro della naturaumana” (2002) Habermas assume la prospettiva diun “presente proiettato al futuro”, a partire dalquale le pratiche mediche oggi maggiormente indiscusse, clonazione e diagnosi di preimpianto,potrebbero retrospettivamente apparirci come loscivolamento in una genetica liberale, vale a dire inuna genetica regolata dal mercato. Al di là dunquedei limiti strettamente terapeutici che presuppon-gono il consenso dell’interessato, il liberismogenetico potrebbe distorcere quella casualità dellanascita cui tutti i cittadini devono il destino esclu-sivo della propria socializzazione. Habermas ritie-ne pertanto necessario tutelare giuridicamentetale casualità. Tuttavia secondo il sociologo tede-sco l’avvenire della nostra specie è in pericolo.Egliinnanzitutto contrappone all’findebita estensionedelle dinamiche dispiegate dall’ingegneria geneti-ca una distinzione tra genetica terapeutica, tesaall’eliminazione di predisposizioni genetiche inde-siderate, e eugenetica liberale, tesa all’ottimizza-zione di predisposizioni desiderabili (Habermas2002, pag. 23). Attualmente la possibilità di clona-re il corredo genetico umano è percepita comeoscenità, tuttavia per soppesare in anticipo i tra-guardi drammatici prospettati dal liberismo gene-tico non è sufficiente il ricorso “ad una ragionemorale autoevidente” (Habermas 2002, pag.47). Da un punto di vista normativo è necessario capi-re se è giusto disporre della vita umana per fini diselezione, ossia: Vogliamo davvero vivere in unasocietà in cui l’edonismo delle preferenze perso-nali prevalga sulla sensibilità e il rispetto verso ifondamenti naturali della vita? L’autostrumentaliz-zazione che l’uomo sta per intraprendere a partiredai fondamenti biologici della propria esistenza ci

Page 102: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

102

rigetta improvvisamente nella tragedia: la tragediadell’oggettivazione tecnica della natura umana.L’ingegneria genetica comporta il capovolgimentodall’imprigionamento tecnico della natura all’au-toimprigionamento dell’uomo, il quale, in quantouomo programmato, non si potrebbe più conside-rare autore indiviso della propria condotta di vita.Verrebbe da pensare che ci troviamo di fronte,paradigmaticamente, a quella parabola delle razio-nalità occidentale, descritta ne La dialettica dell’il-luminismo da Adorno e Hokheimer (1982). Dastrumento di controllo della natura, la razionalitàtecnico-scientifica si sta trasformando in mezzo dioppressione e manipolazione dell’uomo. L’originestorica di questo capovolgimento è da rintracciarenella convinzione illuminista che si dia coinciden-za immediata tra ragione e progresso. Ciò significache il progresso scientifico implica un momentoregressivo non più distinguibile dalla condannasugli uomini. Come testimonia il 12° cantodell’Odissea, se nella magia la sostituibilità duranteil sacrificio è specifica, la vittima sacrificata al postodel dio possiede cioè quell’unicità del sacro che larende insostituibile nello scambio, “la cerva per lacerva, l’agnello per il primo nato” a ciò mette finela scienza, non c’è in essa sostituibilità specifica:vittime sì, ma nessun dio. La sostituibilità si rove-scia in fungibilità universale (Adorno, Horkheimer1982, pp.17-20). La natura unilaterale e irreversibi-le della clonazione minerebbe, proprio quelladimensione E’ la metamorfosi del mezzo a scopo,che assumerà il capitalismo, con la sua capacità disoddisfare i bisogni dell’uomo rendendo impossi-bile quella soddisfazione, distruggendo la società intesa come essere socialeautonomo dalle istanze meramente individualisti-che di soddisfazione del benessere personale; lanatura unilaterale e irreversibile della clonazioneminerebbe, proprio quella dimensione fondamen-tale dell’esperienza umana, che è l’integrazionesociale, facendo svanire quella corrispondenza traesseri viventi, che ci consente di riconoscercicome liberi ed eguali. A questo punto compare ladimensione fondamentale della nostra epoca, ilrelativismo: “ Per un verso, se noi accettiamo il pluralismodelle visioni del mondo, non possiamo ascrivere

aprioristicamente all’embrione quella tutela asso-luta della vita di cui godono le persone che sonotitolari di diritti fondamentali. Per l’altro verso,non possiamo neppure eludere l’intuizione percui non ci è mai lecito disporre della vita umanaprepersonale quasi fosse un valore tra gli altri,ossia un bene in concorrenza con altri beni”(Habermas 2002, pag.45)

Una interessante distinzione tra ciò che è natural-mente cresciuto e ciò che è artificialmente prodot-to si trova nel Il futuro della natura umana (cap.II,parag.4 “Lo spontaneo e l’artificiale, pp. 46-54,mentre per quanto riguarda l’indisponibilità deifondamenti biologici della nostra specie e il valoresui generis della vita prenatale si può fare riferi-mento rispettivamente al parag.2 “Dignità dell’uo-mo versus dignità della vita umana”, pp.32-40 e alparag.7 “Stiamo scivolando nella strumentalizzazio-ne del genere?” pp.67-74). Dunque secondoHabermas l’atteggiamento relativistico rischia diavallare quella parificazione tra ciò che cresce natu-ralmente e ciò che è artificialmente prodotto,sostenuta ideologicamente dai genetisti. Ma non sitratta né di ritessere la trama di una stucchevole cri-tica dell’ideologia (per il riferimento esplicito allacritica dell’ideologia vedi pag.23), né, com’ è statodetto, di attribuire una sorta di “dignità dell’uomo”all’embrione. Habermas propone di assumere chela vita umana prepersonale abbia una rilevanza “suigeneris” tale per cui le modalità naturali con cuil’inviolabilità di una persona s’ incarna in un corporimangano indisponibili a qualunque strumentaliz-zazione. Soltanto mantenendo indisponibile quel-l’eguaglianza casuale della natalità i cittadini posso-no garantirsi democraticamente l’accesso all’idealecomunità dei soggetti morali e politici. In questoconsiste la moralizzazione della natura umana. Certamente con la terapia genetica si sfiora quellimite oltre il quale, nessuno scopo medico, tantomeno edonistico, può giustificare l’ulteriore sub-ordinazione dell’uomo alla scienza. Quel limite èdentro la contraddizione tra le possibilità che lascienza ci mette a disposizione, e la necessità eticadi un freno a quelle stesse possibilità. Purtropponessuna chiarificazione dei nostri sentimentimorali ha mai fermato il progresso scientifico. Anzi

Page 103: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Irene Strazzeri L’oggetivazione tecnica della natura umana.

103

c’è da chiedersi: per quale ragione dovremmovoler essere morali? Lanza, ne La tragedia e il tragico (1996), ci ricordache Holderin sosteneva che il significato delle tra-gedie classiche si coglie nella maniera più imme-diata dal paradosso. Esso si manifesta non solo nelfatto che l’impulso edonistico che è alla base dellosviluppo delle pratiche scientifiche deve essereregolato da norme, ma anche nel dato di fatto cheil medesimo impulso annichilisce i fondamenti dacui tali norme dovrebbero scaturire. Sintomati-camente nelle scienze sociali la tematizzazione del-l’impotenza dell’uomo a fondare un senso corri-sponde al cosiddetto disincanto postmoderno, quiinteso come declino del presupposto umanisticodella ricerca scientifica e tecnologica, che non èpiù mezzo per rendere l’umanità padrona di sé edel proprio intelletto, come avrebbe voluto il tita-no Prometeo, ma è divenuta valore in sé, crescitaper la crescita incapace di fondare un senso, svin-colata com’è da qualsiasi orientamento di caratte-re etico. L’interpretazione postmoderna del disin-canto vede nel processo di secolarizzazione il pro-gressivo esaurirsi di ogni spinta religiosa, di ogniconoscenza che aspiri alla totalità, di ogni metafisi-ca, intesa come ricerca di presupposti assoluti. C’èchi polemizzando con “le facili rotte del disincantopost-moderno”, o con la sua versione “emancipati-va”, coglierà il carattere tragico e paradossale diun’epoca in cui il progresso tecnico-scientifico sipresenta come Phármakon: tanto una terapiaquanto un veleno. Sia Givone (Disincanto delmondo e pensiero tragico 1988) che Cassano (Latrascendenza necessaria 1989) sostengono che l’e-saltazione della debolezza del pensiero rende oggiquel disincanto un momento della tragedia e nonuna liberazione da essa. Se poi la tragedia è una sintesi storica in cui leesperienze individuali e quelle collettive coincido-no, nel senso che la scienza e la tecnica non sonopiù strumenti che ogni singolo uomo può critica-mente decidere di usare, ma che incidono sul suohabitat al punto da costringerlo ad adattarvisi, allo-ra prende forma il ritratto foucaltiano di un’epocain cui la vacuità morale, come abolizione della per-cezione del tragico, ha il potere di far vivere e alcontempo di lasciar morire.

Michel Foucault descrive proprio la nascita dellabiopolitica come passaggio dal potere di sovranità,che si esercitava sull’uomo-corpo, al potere sullavita, che si concentra sull’uomo come specie. Imeccanismi di controllo della biopolitica si con-nettono a due obiettivi principali, l’ottimizzazioneedonistica dello stato di vita e la squalificazione tra-gica della morte, testimoniata dalla volontà del bio-potere di prendere in gestione i processi biologicidell’uomo-specie. Ciò che caratterizzava la teoriaclassica della sovranità era infatti il diritto di vita edi morte, vale a dire che il sovrano poteva far mori-re o lasciar vivere (Foucault 1976). A partire dalXVII e XVIII secolo si dispiega una sorta di anato-mo-politica che, attraverso l’utilizzo di una serie ditecniche incentrate sul corpo, possa consentire unsistema permanente di sorveglianza sugli indivi-dui.La razionalizzazione economica della societàrichiedeva, infatti, gerarchie, ispezioni, esercizioed addestramento dei corpi nel tentativo diaumentarne la forza utile alla produttività. Questepratiche vengono definite da Foucault “ tecnologiedisciplinari del lavoro” intendendo con ciò la sepa-razione, l’allineamento, la suddivisione in serie e lasorveglianza esercitati dal potere per gestire la dis-tribuzione dei corpi nello spazio. A metà del XVIII sec. queste tecnologie si integra-no con quelle di tipo bio-politico, che non inve-stono più l’uomo come corpo ma, ad un livello piùgenerale, l’uomo come specie. I principali obietti-vi di controllo della biopolitica si sono manifestatiin tutti quei processi attinenti alle prime ricerchedemografiche, come la proporzione tra il tasso dinatalità e il tasso di mortalità, il tasso di riprodu-zione e di fecondità, connessi con i problemi eco-nomici e politici del tempo. In questa tecnologia dipotere appare un nuovo corpo, non più individua-le ma molteplice, designato con la nozione di“popolazione”(Foucault 1976, pp.208-213) Tutti questi meccanismi della bio-politica, nel con-nettersi a due obiettivi principali, l’ottimizzazioneedonistica dello stato di vita e la squalificazione tra-gica della morte, testimoniano della volontà delpotere di prendere in gestione i processi biologicidell’uomo-specie:“ Al di qua, dunque, di quel grande potere assolu-to, drammatico, fosco, che era il potere della

Page 104: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

104

sovranità, e che consisteva nel poter far morire,ecco ora apparire, con la tecnologia del bio-potere,con questa tecnologia del potere su la popolazio-ne in quanto tale, e sull’uomo in quanto esserevivente, un potere continuo, scientifico: il poteredi “far vivere.” La sovranità faceva morire e lasciavavivere. Ora appare invece un potere che definireiun potere di regolazione, il quale consiste, al con-trario, proprio nel far vivere e nel lasciar morire”(Foucault 1976, p.213)La decostruzione della morte condurrà tragica-mente al moderno e drammatico esercizio deldiritto di morte. Se pertanto il fine della biopoliti-ca, e dunque delle biotecnologie, è quello dipotenziare la vita, di prolungarne la durata rimo-vendone gli “accidenti genetici” come si eserciteràil diritto di lasciar morire? Secondo Foucault sarà ilrazzismo in forma indiretta, inteso quale praticadiffusa di espulsione, emarginazione e di rifiuto, ilcampo privilegiato di applicazione del bio-potere.Il completamento della mappatura genetica del-l’uomo, comporta, infatti, un tale ripensamentodelle differenze tra gli individui umani da nonpoter escludere, come sembrerebbe fareHabermas, la possibilità di una “eugenetica” asso-ciata allo stesso razzismo, vale a dire orientata apreservare la qualità della “razza.” Sino ad ora ilegami tra gli individui sono sempre stati vincolatida fattori prettamente storico-sociali, la geneticapotrebbe invece far emergere dei legami ben piùrigidi, basati su scelte riproduttive. La natura irre-versibile della manipolazione genetica metterebbeinoltre fortemente in crisi il modello sociale dell’a-gire comunicativo, nella misura in cui esso si fondasulla natura intersoggettiva delle libere scelte deicittadini. L’uso sperimentale degli embrioni e delladiagnosi di preimpianto potrebbe favorire uno svi-luppo selettivo e razziale: il rischio di un comuni-tarismo genetico non è una possibilità remota allaluce di alcuni recenti avvenimenti: il 28 dicembre 2002 sarebbe venuto al mondo ilprimo clone umano, una bambina chiamata Eva,grazie a tecniche di clonazione messe a punto nel-l’ambito della CLONAID, la prima società espertain clonazione, facente capo ad una setta esoterica,i Raeliani, secondo i quali la clonazione è il primopasso verso la vita eterna, il ricongiungimento con

l’infinito e l’armonia (Il messaggero, 28 dic. 2002pag.2 e 4). La frammentazione delle razze, la lorodiversa qualificazione genetica, potrebbe diventareun modo per inserire nuovi criteri di suddivisionetra gli uomini, nuovi squilibri, introducendo nuovecesure in quel continuum biologico che è stata laspecie umana. Tali cesure declinerebbero le nostrepossibilità di sopravvivere sulla necessità di farmorire altri esseri viventi, distruggere gli altri signi-ficherebbe sempre di più rafforzare se stessi.L’eugenetica razziale, non più subordinata alleideologie o alle menzogne del potere, si leghereb-be così alla tecnologia del bio-potere. E’ questo ilparadosso a cui potrebbe condurre l’artificializza-zione della natura umana, al limite dell’edonismo enel cuore della tragedia: l’obbligo di assumere ilcomplesso mandato di gestire il futuro della nostraspecie. Inizialmente abbiamo cercato di ricondur-re il carattere “mitico” del progresso scientifico aduna rivisitazione del mito di Prometeo, in cui ilsenso della tragedia si traduce nell’edonismo diuna crescita tecnologica indifferente a qualsiasietica. L’edonismo, pura ricerca del piacere, fine ase stessa, non è soltanto un aspetto della vita del-l’uomo, ma rinvia direttamente alla tragedia.L’edonismo è talmente interiorizzato dagli indivi-dui da impedire loro di essere consapevoli dellatragedia in cui vivono; questa interiorizzazione,come tragico indifferente all’etica, declinata sulrapporto tra uomo e tecnica nella nostra epoca, èvisibile nella chiave interpretativa fornita dal carat-tere etico della tragedia di Prometeo. In tutte leversioni e con tutte le numerose interpretazionidel suo mito, Prometeo è considerato il benefatto-re degli uomini, colui che largisce loro tutti i bene-fici del sapere e della tecnica, nel tentativo di sot-trarre il genere umano all’ira implacabile di Zeus.

Afferma il Prometeo di Eschilo: "...gli uominiprima non capivano e io li ho resi coscienti epadroni del loro intelletto.(...) Prima guardavano enon vedevano, ascoltavano e non sentivano, similia forme di sogno, vivevano a caso una vita lunga econfusa...” dunque il figlio di Titano, mosso a com-passione per i mortali - simili a forme di sogno - sischiera dalla loro parte contro Zeus che odia gliuomini, perché sente la loro salvezza (il diventarcoscienti e padroni di sé attraverso la techne)

Page 105: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Irene Strazzeri L’oggetivazione tecnica della natura umana.

105

come una minaccia al suo potere. Prometeo si facosì salvatore degli uomini, sottraendo agli dei ilfuoco, considerato fattore genetico di civiltà. Daquesti versi di Eschilo deriva una concezione dellatecnica come intrinsecamente neutrale, e subordi-nabile alla volontà degli uomini, che servendosistrumentalmente di essa, diventano artefici del pro-prio destino e autonomi dalla potenza delle divini-tà. Tutto ciò aveva senso fino a quando la technerimaneva all’interno del ciclo naturale, che nonriusciva a modificare. A ragione Eschilo afferma che"la tecnica è di gran lunga più debole della necessi-tà"(natura), la tecnica antica infatti, non era inquie-tante poiché era incapace di oltrepassare l’ordinenaturale. Sebbene si continui a pensare la scienzacome strumento a nostra disposizione, essa èdiventata ormai il nostro ambiente, il suo funziona-mento planetario non esita e subordinare le esi-genze dell’uomo alle esigenze del suo apparato. Lamoderna tecnologia ha superato il concetto di limi-te ed è divenuta più forte della necessità: dalla rico-struzione del genoma alla clonazione, dai miracolidell’ingegneria genetica al trapianto di organi, dall’esplorazione del sistema solare e dello spazio inter-stellare allo sbarco sulla luna, dal dominio sull’ato-mo a infiniti altri esempi. Eschilo non manca dimetterci in guardia sulla mirabile crescita della tec-nica, infatti, nella tragedia di Prometeo Technainon sono soltanto i benefizi elargiti agli esseriumani ma anche le catene che inchiodanoPrometeo alla roccia, ecco perché la tecnica moder-na è "deinà" (tremenda) a differenza di quella anti-ca, del tempo di Prometeo. Non stupisce allora l’in-tuizione preveggente di Eschilo: "L’uomo scopriràuna fiamma più potente del fulmine, un rimbombosuperiore al tuono" (versi 757-762). Ed ancora poco prima aveva scritto: "L’uomo ungiorno avrà un potere per nulla inferiore a quellodi Zeus" (versi 509-510). Che la tecnologia rappre-senti la moderna costruzione sociale della realtà,l’ambiente che gli uomini producono ma da cuisono anche prodotti, è proprio ciò che vogliamosostenere. Come sostiene Galimberti (Psiche eteche. L’uomo nell’età della tecnica, 1999) il con-dizionamento tecnico del pensiero, con i suoischemi di efficienza e intelligibilità, impone la tec-nica come mediazione culturale della realtà.

L’ambiente, ormai, non solo è figlio della tecnica,ma è esso stesso tecnica, nel senso che nel mondoin cui abitiamo, prosegue Galimberti (1999), "fini emezzi, scopi e ideazioni, condotte, azioni e passio-ni, persino sogni e desideri sono tecnicamente arti-colati e hanno bisogno della tecnica per esprimer-si", basti pensare alla fantascienza, come genere let-terario e cinematografico che ha saputo mettere inscena orizzonti tecnologizzati e paradossali traguar-di pseudoscientifici. Dunque la tecnica non si qua-lifica in dipendenza dall’uso che se ne fa, non èstrumento, ma è “lo strumento” e assieme loscopo. I risultati da essa raggiunti sono visibili pertutti, costituiscono un patrimonio comune, la cuiutilità è tanto evidente quanto incontestabile.Eppure la società della tecnica è tragicamenteammalata, soffre a causa dei danni generati dall’e-sasperazione di una razionalità strumentale, quellatecnologico-scientifica che ha prodotto aberrazioniinaccettabili i cui sintomi sono diffusi e allarmanti;basti pensare all’incidenza attuale di stati ansiogenie/o depressivi, di attacchi di panico, di tentazioni emanie suicide, chiaro sintomo di un complesso col-lettivo di “ansia da prestazione”, come ci ricordaancora Galimberti (in Ferro, 1999) ogni nuovo tra-guardo ci getta nel panico, ci spinge freneticamen-te a metterci al passo col nuovo livello raggiunto, ciassilla affinché sia afferrato quello successivo. L’etàdella tecnica esige un uomo sempre all’avanguardiasui tempi, sempre efficiente, un uomo sempre disuccesso. Ci prospetta mete troppo elevate, daconquistare in tempi brevissimi. Condanna l’inca-pacità di reggere i suoi ritmi e l’insuccesso perso-nale come cause di inesorabile fallimento.Ci sottopone a livelli di stress che sono ai limiti

dell’umana sopportazione. Mortifica la nostrapaura di non essere all’altezza dei suoi brillanti tra-guardi. Anche in questo la tecnica si presenta nellasua duplice ambiguità: da un lato è la tragedia, lacausa prima dei nostri malesseri, dall’altro puroedonismo che ci gratifica. La sua doppia natura è ilsuo fascino e la sua condanna. La società della tec-nica è potente, ma anche incredibilmente fragile.Le sue meraviglie ci riempiono di entusiasmo, etuttavia ci rendono inquieti. Per ogni suo ritrovatogridiamo al miracolo, tuttavia ne paventiamo irischi. Questi sono solo alcuni degli esempi da cui

Page 106: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

muove l’esigenza di ricondurre la nostra realtà sto-rico-sociale alla dimensione dell’edonismo tragico.Quanto alla tecnica, la divina Tecnica, essa si è giàtrasformata da supporto alla vita in strumento dimorte.

Bibliografia:Bauman Zigmunt., La società dell’incertezza,Bologna, Il Mulino, 1999Eschilo., Prometeo incatenato, I persiani, I settecontro Tebe, Le supplici, con introduzione di EzioSavinio, Garzanti, Milano, 1980

Foucault Michel., Bisogna difendere la società,Milano, Feltrinelli, 1976, trad. it.1997 Habermas Jurgen., Teoria dell’agire comunicati-vo, Bologna, ilMulino, 1984Habermas Jurgen., Il futuro della natura umana.I rischi di una genetica liberale, a cura di Ceppa,Torino, Einuadi, 2002A. Panzavolta., La procreazione medicalmenteassistita in Italia, parte VI, tra terapia e manipo-lazione eugenetica I, Il secolo della genomica,http://www.braingiotto.com/BIOETICA/Par6%2F1.HTML

106

([email protected])

Page 107: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

Il Gruppo di ricerca nazionale sulla cultura e la filo-sofia del Settecento britannico ha organizzato, nelcorso di quest’ultimo quinquennio d’attività, alcuniseminari di studio e un grande convegno internazio-nale; ora sono disponibili i contributi che una cin-quantina di studiosi, italiani e stranieri, hanno pro-dotto, e che con tempestività sono stati pubblicati.Con questo primo intervento, intendiamo avviareun resoconto del lavoro compiuto, mettendo via viain luce i risultati storiografici più innovativi, insiemeal ribadimento di valutazioni note, con materiali ine-diti e ulteriori argomentazioni. Il risultato comples-sivo che emerge da questo lavorìo critico è unanuova immagine della cultura britannica delSettecento. Ci soffermiamo, in quest’occasione, suiseminari in cui è stato discusso il pensiero e l’attivi-tà di Toland e di Shaftesbury. Uno dei risultati rag-giunti da questi due seminari, è di aver fatto cono-scere in maniera approfondita figure di filosofi che,pur essendo stati tra i protagonisti della vita cultu-rale e politica del tempo, non hanno avuto, fino adoggi, una larga udienza o una presenza significativanella cultura italiana, rispetto ad altri, come Hume eReid, peraltro anch’essi sottoposti a una revisionecritica nel corso degli incontri a loro dedicati. Gli argomenti dei due seminari sono stati: JohnToland e il deismo nella Gran Bretagna del '700,e Il terzo conte di Shaftesbury e il deismo in GranBretagna nel XVII secolo. Cinque contributi sonostati dedicati al pensiero e all'attività di Toland(1660-1720): Alfredo Sabetti, Chiara Giuntini,Justin Champion, Giancarlo Carabelli, PierreLurbe; due ai rapporti fra Toland e altri pensatoridell'epoca: Luisa Simonutti e Paola Zanardi; treall'influenza di Toland su alcuni pensatori: MiguelBenitez, Dario Pfanner, Lia Mannarino. Ad Alfredo Sabetti è stata affidata la relazione d'a-pertura, in segno di riconoscimento della sualunga e feconda attività storiografica, volta a far

conoscere e apprezzare il pensiero di Toland, cuiha dedicato alcuni importanti lavori, e più in gene-rale, il pensiero filosofico settecentesco. Sabetti haparlato di JohnToland e la “critica della terra”; unacritica che si affianca alla “critica del cielo”, per riaf-fermare che solo l'uomo libero, ossia emancipatodalle superstizioni, può creare una “città” nuova, amisura d'uomo. Sabetti ha ribadito la sua immagi-ne di Toland politico, critico radicale della religio-ne intesa essenzialmente come superstizione: inciò sempre coerente al di là di possibili fraintendi-menti di certe sue posizioni. Avverso alle formeestreme dei levellers e alla tirannia degli Stuart,Toland delineò un ideale panteistico contro unaconcezione trascendente. Di fronte alle difficoltà eagli ostacoli che ha via via incontrato e che hannoreso difficile la sua attività e la sua stessa vita,Toland approdò a una forma di nicodemismo:“Siamo soli, riassume Sabetti, in un mondo chenon ci può capire e a cui non possiamo professarela nostra fede”.Chiara Giuntini, che ha recentemente curato leopere di Toland per l’Utet, ha affrontato il proble-ma delle fonti di Toland, sostenendo che non sitratta tanto (o solo) di individuare, secondo unmodello veteropositivista, testi e autori che sonoall'origine o presenti nelle opere di Toland, mapiuttosto vedere quali revisioni, rielaborazioni,contaminazioni ha compiuto il filosofo irlandeseper rendere più efficace il suo lavoro di criticadelle autorità religiose e politiche, recuperando, atal fine, tradizioni di pensiero emarginate o censu-rate, e perciò bloccate nella loro virtualità di ulte-riori utilizzi fecondi. In altri termini, occorresoprattutto individuare le modalità d'uso dellefonti, i criteri che sono alla base della loro scelta,perchè Toland affida loro il compito di trasmettereuna visione coerente della natura e della società. Inquesta prospettiva, Toland va oltre la contrapposi-

107

Asterischi

ANTONIO SANTUCCI (A CURA DI), FILOSOFIA E CULTURA NEL SETTECENTO BRITANNICO, I. FONTI E CON-NESSIONI CONTINENTALI. JOHN TOLAND E IL DEISMO, BOLOGNA, IL MULINO, 2000, PP. XXXVIII-474, € 33.57.GIANCARLO CARABELLI E PAOLA ZANARDI (A CURA DI), IL GENTLEMAN FILOSOFO. NUOVI SAGGI SUSHAFTESBURY, PADOVA, IL POLIGRAFO, 2002, PP. 239, € 22.

Page 108: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

zione tra “antichi” e “moderni”; un originale usodelle fonti gli consente, infatti, di stabilire connes-sioni dirette tra passato e presente, nel quadro diuna sostanziale continuità fra le tradizioni intellet-tuali del mondo pagano e le filosofie cristiane dellamodernità.Una volta stabilita questa mappa interpretativa, laGiuntini ne ha fornito una persuasiva esemplifica-zione. Tutti i topoi fondamentali di Toland, dallaricostruzione genealogica del pensiero fornitanelle Lettere a Serena, alla difesa di Tito Livio inAdeisidaemon, dall'indagine sulle origini delloStato mosaico in Origines Judaicae, alla riscopertadelle sette antiche sopraffatte dalla Chiesa romanain Nazarenus, fino alla discussione delle cosmo-gonie sacre di fine Seicento in Pantheisticon, sonostati sobriamente analizzati dalla Giuntini con que-sto nuovo criterio. Champion, della Royal Holloway di Londra, nellarelazione su Toland and the politics of eruditionha enunciato tre obiettivi: verificare la “reputazio-ne” di Toland (gli era riconosciuta una grande eru-dizione); studiare A Catalogue of books, 1699-1718nelle varie edizioni: uno strumento essenziale percomprendere la natura dell'erudizione di Toland, einfine individuare il suo modo di attaccare, ossiadecostruire, l'autorità culturale della Chiesa.Secondo lo studioso inglese, Toland ha sovvertito laprocedura comune di notazione e di citazione,aprendo una vera e propria “guerra delle note”. Inaltri termini, Toland corrode la distinzione tradizio-nale tra testi autentici e testi spuri, mette in crisi ilcanone degli studi di patristica, ed elabora una pro-pria strategia comunicativa: critica l'autorità religio-sa ma anche quella monarchica, attraverso la tra-sformazione della metodologia della citazione e del-l'analisi testuale, elevando a canone fondamentale laregola secondo cui “il lettore deve giudicare da sè”.Carabelli ha centrato la relazione su Toland el'Ercole gallico, ove la figura d’Ercole, che appare inopere come Clito (1700), e nel progetto per unastoria dei druidi uscito postumo, è presentata nonpiù come il simbolo della forza bruta ma dell'elo-quenza, la cui efficacia comunicativa consente divincere i mostri della superstizione e della tirannide.Toland elogia l'eloquenza come forma di comunica-zione orale, ma soprattutto scritta: l'orazione astampa è più moderna. Secondo Carabelli egli è,

prima di tutto, un propagandista che analizza i mec-canismi del linguaggio politico, il suo potere per-suasivo. A tale proposito, Carabelli ricorda il com-mento che Toland ha fatto di un trattatello diQuinto Tullio Cicerone, L'arte di fare propagandaelettorale, pubblicato nel momento in cui inInghilterra c'erano le elezioni politiche e due partitisi fronteggiavano: le elezioni, questo è il messaggiod’estrema attualità, si vincono con la propaganda.Quest’argomento assume un'importanza eccezio-nale perchè è discusso nel periodo in cui in GranBretagna entrano, da protagonisti, la forma partitoe le elezioni, ossia le due componenti fondamenta-li della modernità politica. Con Toland, affermaCarabelli, assistiamo al passaggio dalla retorica clas-sico-rinascimentale, in cui essa ha il compito, asse-gnatole da Aristotele, di tecnica della persuasione,a quella moderna, in cui essa è lo strumento fonda-mentale della propaganda politica; infatti, utilizzacon spregiudicatezza tutte le sue potenzialità sua-sorie per raggiungere un preciso obiettivo politico.L'opera sui druidi ha una notevole importanza sto-rica; è una delle prime apparse in Gran Bretagna ein Irlanda, in cui si esce dal mitologismo tradizio-nale e si affronta l'argomento in termini scientifici.In questo repêchage druidico, Toland si rifà allastoriografia nazionalista francese, che nelCinquecento scorse nei druidi i proto-eroi nazio-nali francesi. I druidi sono, insomma, gli antenatidella libertà religiosa e politica, e la difesa dellasuperiorità politica e culturale dei Galli è, di fatto,un discorso anti-greco e anti-romano. Lurbe ha affrontato in modo singolare il rapportotra Individuo e società in Toland, assumendocome riferimento il paradigma sociologico espres-so da Louis Dumont nell'opera Homo hierarchi-cus. Il sistema delle caste e le sue implicazioni(Adelphi, 1991). Egli ha sostenuto che, contraria-mente ad una credenza diffusa, Toland è più vici-no alla sociologia che alla filosofia politica. Lurbe sirichiama all’affermazione di Dumond sul parados-so della sociologia, una disciplina nata come scien-za in una civiltà che riconosce il primato all'indivi-duo e non alla società.Per comprendere la modernità occorre, secondoDumont, l'“appercezione sociologica”, ossia lapresa d'atto che nell'individuo c'è del sociale; un'o-perazione difficile in un universo mentale, come

108

Page 109: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

quello odierno, essenzialmente individualista. Inaltri termini, in questa società individualistica lascoperta del sociale non è automatica; avvienequando possiamo compiere una comparazione eopporre due tipi distinti di situazioni sociali. La tesicentrale di Lurbe è che Toland si è trovato in unatale situazione. La sua concezione anti-individuali-stica trae, dunque, origine da una precisa espe-rienza personale; egli ha conosciuto una metamor-fosi radicale, il cui punto d'approdo è stato l'acqui-sizione di una nuova identità personale. Dopo diche, egli ha cambiato nome, status sociale, religio-ne, lingua e paese; in conclusione, ha ricostruitointegralmente la sua personalità “sociale”, e taleesperienza ha un riscontro nelle sue opere.Se confrontiamo l'approccio al problema del rap-porto individuo-società di Toland con quello diHobbes e di Locke, rileviamo che la nozione di statodi natura è assente nel primo, mentre gioca unruolo centrale nel pensiero dei due filosofi inglesi.Toland rimane sostanzialmente fedele al modelloaristotelico di uomo come animale sociale, mentreHobbes e Locke considerano l'uomo un essere iso-lato che decide di entrare nella società attraverso uncontratto. In altri termini, per il filosofo irlandese ilprimato spetta alla società, mentre per Hobbes eLocke è l'individuo il primum. Siamo così di frontea due approcci opposti; uno olista: Toland conside-ra la società una totalità (nella prima delle Lettere aSerena la società precede l'individuo e determina lasua concezione del mondo), e uno di stampo ato-mistico o individualistico. Due interventi hanno analizzato i rapporti diToland con filosofi del tempo; Luisa Simonutti halumeggiato, con ricchezza di dati e fatti, un perio-do poco noto dell'attività di Toland, quando parte-cipò al circolo “La Lanterna”, fondato dal riccomercante Benjamin Furly, che possedeva una ric-chissima biblioteca cui attingevano molti studiosi.Toland ha trascorso alcuni mesi cruciali della suavita intellettuale in Olanda; ad Amsterdam haconosciuto Philippus van Limborch e il suo circo-lo, e ha collaborato con Jean Le Clerc; nel circolodi Furly quaccheri, medici, eruditi olandesi, esulifrancesi e mitteleuropei s’incontravano e discute-vano con passione i problemi politici e religiosi delmomento. Tra i visitatori inglesi, la studiosa ricor-da William Penn, Algernon Sydney, John Locke e

109

William Popple: presenze che hanno dato un'im-pronta ben definita e un'importanza notevole aquesto circolo.Paola Zanardi ha tratteggiato la figura poco nota diMolesworth e i rapporti che ha intrattenuto conShaftesbury e Toland. Robert Molesworth (1656-1725) frequentò l'università di Dublino, e secondoTaylor, storico di quell’istituzione, il giovane era“dotato di una notevole capacità di apprendimen-to”. Nel 1694 pubblicò la sua opera principale, AnAccount of Denmark, in cui presentò il governodella Danimarca (nel 1679 era stato ambasciatorein quel paese) come arbitrario e tirannico. Inoltre,criticò con una certa asprezza anticlericale il ruolodegli ecclesiastici, sostenitori del potere politico edel principio d’obbedienza. L'opera ottenne subitoun grande successo (se ne pubblicarono trediciedizioni nel corso dei primi sei anni), e fu consi-derata un manifesto dei repubblicani. Essa fuapprovata da Shaftesbury e da Locke (quest'ultimoconsiderò il filosofo irlandese “un uomo d’ingegnoe straordinario”), e la sua influenza si protrasse allenuove generazioni, che si erano battute contro gliStuart e avevano favorito la dinastia protestantedegli Orange. Nel 1695 Moleswort ritorna in Irlanda e per quattroanni siede nel Parlamento come membro diDublino. Nel 1698 è stato ammesso nella RoyalSociety, e nel 1723 pubblica Considerazioni per losviluppo dell'agricoltura, considerate da Swift “uneccellente discorso”. Inoltre si occupò della rifor-ma della scuola, sollecitando i giovani a compiereutili viaggi d’istruzione. Assieme a Toland e aShaftesbury, Moleswort rappresenta un elementodi punta del partito Whig; egli lottò con fermezza,in Gran Bretagna e in Irlanda, per il mantenimentodi una monarchia equilibrata, secondo i principidella virtù repubblicana. Con questo contributo, ricco di dati e di riflessionistorico-culturali, la Zanardi ha posto in evidenza ilcontributo di pensiero e d’azione di Moleswort nelmovimento repubblicano, che è risultato incisivonella lotta culturale contro i manipolatori dellecoscienze (la classe sacerdotale), e per affermare ivalori della libertà e del repubblicanesimo. Ma lanovità dell'impianto metodologico di questo con-tributo non risiede solo nell’esauriente biografiaculturale di Moleswort (di cui non è stato taciuto

Page 110: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

opinioni sul miracolo. La tesi di Benitez è che infondo la posizione di Spinoza, secondo cui se permiracolo s'intende un'azione contro o al di fuoridella natura, esso non esiste, è ancora valida.Blount afferma che c'è un ordine immutabile nellanatura che non lascia alcun spazio alla contingen-za, ossia al casuale, all'imprevisto; un ordine fon-dato sull'identità di Dio e natura.Dario Pfanner si è soffermato sul pensiero delmedico William Coward, il quale nel 1702 ha pub-blicato un trattato teologico-filosofico sull'anima,in cui confluiscono diverse componenti: il mate-rialismo stoicizzante, la psico-fisiologia vitalista dimatrice medica e l'ipotesi lockiana sulla “materiapensante”. Con la sua difesa della concezione mor-talista, approfondita in altri tre trattati sullo stessoargomento, Coward è stato, per tutto il Settecento,un riferimento polemico della letteratura antidei-sta inglese e continentale.Questo convegno ha approfondito vari aspetti delpensiero e dell'attività politica di Toland (egli harappresentato l’ala radicale del deismo); un filoso-fo verso cui la cultura italiana ha manifestato unrinnovato interesse (la stagione in cui sono statetradotte in Italia il maggior numero di opere tolan-diane va dalla metà degli anni Settanta alla metàdegli anni Ottanta). Va comunque segnalato cheoggi l'Irlanda, che sta ricomponendosi politica-mente e culturalmente in autonomiadall'Inghilterra, e perciò si sta riappropriando dellasua tradizione nella molteplicità delle sue compo-nenti, ha riconosciuto a tutti gli effetti l'apparte-nenza alla sua cultura di Toland, posto accanto ai“grandi” Swift e Berkeley, dopo un ostracismo chedurava da troppo tempo. Dal volume Il gentleman filosofo trascegliamo alcu-ni contributi che hanno posto in luce aspetti nuovidel pensiero di Shaftesbury (1671-1713) e della suapresenza nella nostra cultura, mentre un cenno èriservato ad altri contributi d’approfondimento diproblemi specifici e comunque importanti peravere, del filosofo inglese, un quadro completo. Paolo Casini ha analizzato il rapporto traShaftesbury e Locke, che fu suo medico di casa, maanche consigliere e precettore, come appare inuna lettera-confessione che il diciottenne scrissenell’agosto 1689, durante il suo “gran tour” inEuropa. In questa lettera il giovane conte esprime

n.8 / 2004

qualche aspetto tradizionalista, come l'atteggia-mento verso le donne), pur importante dalmomento che non ce ne sono altre; ma anche, edessenzialmente, nella scelta che la studiosa ferrare-se ha compiuto, di leggere l'attività di Moleswort instretta connessione con quella di Shaftesbury e diToland attraverso i loro carteggi. Tali carteggi,infatti, danno la misura del valore umano e cultu-rale di questi uomini, che hanno avviato la primarivoluzione culturale borghese, pienamente consa-pevoli della posta in gioco, politica e personale. Dall'analisi dei loro rapporti epistolari, emerge cheessi non agiscono in ordine sparso, o come ungruppo di pressione con scopi delimitati. Essisanno di avere ingaggiato una battaglia che per l'a-sprezza delle reazioni che provocherà, avrà effettianche sulle loro vicende (individuali e di gruppo).Un rapporto d’amicizia e di solidarietà li ha peròtenuti uniti, pur in una distinzione di ruoli, perchètutti e tre sono consapevoli di condurre una lottadecisiva per una riforma generale della cultura edella vita politica inglese.Vediamo infine gli interventi sulla presenza diToland in altri pensatori. La Mannarino si è soffer-mata su Toland, Giannone e il progetto originaledel cristianesimo, individuando con precisi riferi-menti testuali i rapporti tra i due filosofi. In dueopere di Giannone scritte in carcere tra il 1736 e il1742, Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio eIstoria del pontificato di Gregorio Magno, siriscontrano alcuni tipici temi tolandiani fra cui, fon-damentale, l'idea che il cristianesimo rappresentòall'inizio, nel suo fondatore e nei primi proseliti (gliebrei convertiti o nazareni), un progetto di rinno-vamento radicale dell'antica legge morale e spiri-tuale. Quella legge che aveva subìto un'eclissi e checoesisteva con le legislazioni civili dei singolipopoli. Entrambi sostengono che i nazareni eranoportatori di un disegno di tolleranza tra etnie etradizioni diverse, e solo la successiva paganizza-zione del cristianesimo, caratterizzata dalla costru-zione di dogmi e culti, segnò l'inizio della “monar-chia papale”, ossia della massima mostruosità cui,secondo Giannone, giungerà il cristianesimo. Miguel Benitez ha analizzato il trattato di CharlesBlount sui miracoli, costruito utilizzando scritti diSpinoza, Hobbes e Burnet. Non si tratta di unamera compilazione; l’autore ha utilizzato differenti

110

Page 111: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

111

apertamente la sua opposizione contro colui checonsidererà, in seguito, il distruttore dei fonda-menti della moralità della vita pubblica. Locke nonè, e non può essere, un “virtuoso”, perché non haavuto una formazione “classica”, ossia non ha attin-to alla fonte dell’autentico pensiero etico-civile. Inun “linguaggio tortuoso”, nota Casini, il giovanefilosofo affronta un problema centrale in Locke,ossia il rapporto tra materia e pensiero, indivi-duando nel pensiero lockiano una “mascheratapropensione in senso materialistico”.Questa lettera è un classico “scarico di coscienza”nei confronti dell’onnipresenza pervasiva del pre-cettore. Certo è, che quelle prime considerazioni,con cui il giovane prendeva le distanze da quel“mago e incantatore” di Locke (i termini sono diShaftesbury), sono state successivamente elabora-te, e nell’età matura il filosofo inglese radicalizzò laposizione lockiana sulla negazione del concetto disostanza,. Tale concetto attorno cui si svolge granparte del pensiero filosofico seicentesco, viene dis-solto da Shaftesbury in un “contesto pampsichisti-co, panvitalistico, panteistico, anziché materialisti-co”, afferma Casini, con ciò avvicinandosi, in qual-che modo, alla posizione del suo tutor.Comunque, nella sua conclusiva concezione dellanatura “d’impronta stoico-platonizzante e sostan-zialmente pagana”, Shaftesbury non aveva piùbisogno di ricorrere alla sostanza, e nella sua operamaggiore, Characteristics, afferma Casini, perma-ne una “valenza antilockiana”.Paola Zanardi, che al pensiero di Shaftesbury hadedicato un lavoro d’insieme (Filosofi e repubbli-cani alle origini dell’illuminismo. Shaftesbury e ilsuo circolo, Padova, Edizioni Sapere, 2001), èintervenuta con un’ampia relazione su La fortunadi Shaftesbury in Italia. È un problema storiogra-ficamente rilevante, nell’economia di questa ricer-ca, ove uno degli obiettivi è stabilire quali rapportici siano stati fra la cultura britannica e quella italia-na. Ora, Shaftesbury non ha avviato, da noi, una“tradizione”, come Hume; la sua presenza è stataintermittente sì, ma, per così dire, “carsica”, per-tanto la studiosa ha dovuto accertare non solo lapresenza testuale degli scritti del filosofo inglese,ma anche come sia stato utilizzato il suo pensierodai filosofi italiani, entro i loro programmi di ricer-ca. Non solo: Shaftesbury è stato apprezzato e uti-

lizzato, e ciò costituisce un altro motivo d’interes-se e novità, anche al di fuori della cerchia dei filo-sofi. È il caso di Carlo Goldoni, che ha accolto l’i-dea guida dell’etica shaftesburiana in una comme-dia del 1754, Il filosofo inglese; o dell’avvocato distato Angelo Querini, o di Giacomo Nani che tra-dusse e commentò, per suo uso, la lettera sull’en-tusiasmo.La presenza del filosofo si riscontra in due aree,Napoli e Venezia, centri di comunicazione cultura-le con l’Europa, che mantennero tra loro rapportiattraverso le rispettive massonerie di stampo ingle-se. Shaftesbury ha trascorso gli ultimi tre anni dellasua breve vita a Napoli, dove morì a soli 42 anni nel1713; qui egli ha avuto dei contatti sia con il circo-lo di Giuseppe Valletta, proprietario di una riccabiblioteca, ricorda l’autrice, sia con il mondo degliartisti, verso cui esercitò un’indubbia influenza conle sue teorie estetiche, e da cui ricevette sollecita-zioni nell’elaborazione conclusiva della sua teoriaestetico-morale.Nella seconda metà del Settecento, Genovesi accol-se le teorie sociali di Shaftesbury, rafforzando il fron-te anti-hobbesiano, ribadito dai suoi allievi, i qualihanno così assicurato, insieme a Filangeri, una certacontinuità alla presenza del pensiero shaftesburianoin quell’area culturale. “Genovesi, afferma Zanardi,si mostrava molto vicino all’impostazione filosoficadi Shaftesbury nel momento in cui ammetteva lapresenza nel cosmo della legge di natura, cui gliuomini si devono adeguare, e nel credere che l’uo-mo abbia una tendenza naturale all’azione virtuosache sviluppa grazie all’aiuto dell’intelletto, e cioèall’appercezione razionale dell’ordine morale”. Maanche in Filangeri ci sono evidenti tracce della sualettura del gentleman filosofo.Nell’area veneta, è ricordata l’attività di AntonioConti, gran mediatore fra la cultura inglese e italia-na, conoscitore dell’opera di Shaftesbury, comepure Melchiorre Cesarotti. Importante, poi, fu l’o-pera del somasco Jacopo Stellini, docente di eticanell’Ateneo patavino, il quale cita e commenta l’e-tica di Shaftesbury; anch’egli, come Genovesi, haavuto una nutrita schiera di allievi. La studiosa fer-rarese ha compiuto una breve incursione sulla pre-senza di Shaftesbury nell’Otto-Novecento, doveemerge l’interesse dei positivisti, specie diLudovico Limentani, che “ricostruì in un percorso

Page 112: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

112

esauriente e approfondito la filosofia del sensomorale” del filosofo inglese, fino al noto e citatissi-mo saggio di Benedetto Croce su Shaftesbury del1924, integrato da lettere inedite del periodonapoletano. Si giunge così agli studi di LuigiBandini ed Eugenio Garin degli anni Trenta eQuaranta, che hanno aperto una nuova fase nellostudio del gentleman filosofo. In conclusione, nelcorso del Settecento, il pensiero etico-politicoshaftesburiano andò a costituire una componentedel laicismo italiano, fondato sulla distinzione oseparazione tra religione e morale.Andrea Gatti ha cercato di individuare I movimen-ti nascosti del deismo di Shaftesbury; un deismoche si caratterizza per il radicale rifiuto di una divi-nità o dio trascendente. La novità del suo atteggia-mento verso il deismo è che in lui è presente“un’indubitabile adesione e una critica del dei-smo”, critica verso il modello di deismo di Hobbes,Locke e dei liberi pensatori. L’autore ritiene cheper comprendere il deismo moderato, diremmo,del filosofo inglese, si debba tener conto di duesue posizioni; la prima riguarda una considerazio-ne della religione come motivo di stabilità dell’or-dine sociale, la seconda che l’uomo “ha un impul-so naturale alla socialità”.Ma al fondo del pensiero di Shaftesbury, Gatti indi-vidua un’aporia tra un determinismo cosmologicoe l’affermazione del libero arbitrio, ossia la creden-za che alla base dell’azione etica ci sia una liberascelta dell’uomo. La ragione di quest’aporia trareligione e morale è indicata nel “desiderio diarmonizzare i filosofi da lui prediletti della filosofiagreca: Socrate da un lato, Marco Aurelio edEpitteto dall’altro”. L’ammirazione qui documenta-ta, specie verso Socrate, avrebbe costituito, dun-que, un ostacolo alla consapevolezza di tale con-traddizione. Sullo stesso argomento si soffermaFranco Crispini, il quale sottolinea che la morale diShaftesbury non si è completamente emancipatadalla “ratio ordinis” dell’universo.Infine, una proposta fortemente innovativa è statatenuta da Giuseppe Cambiano su Shaftesbury e lapolitica degli antichi, di cui enunciamo i quattroquesiti sui quali lo studioso torinese ha fornitorisposte che sollecitano una lettura, per alcuniaspetti nuova, del filosofo inglese. Cambiano haprecisato che si tratta d’ipotesi di lavoro sulle posi-

zioni assunte da Shaftesbury nel corso delle sueopere, non sempre univoche, e comunque diversa-mente motivate. (1) Come valutare l’atteggiamentoriduttivo, presente negli Askemata, nei confrontidell’impegno politico e dei progetti di trasformazio-ne della realtà politica, anche sulla base di un appel-lo ai modelli delle città antiche; (2) come valutare laportata dell’utilizzazione differenziata, compiuta daShaftesbury, dei testi dello stoicismo imperiale(Epitteto, ma soprattutto Marco Aurelio), e meno dialtri (Seneca), alla luce della rinascita, alla fine delCinquecento, di questi autori e del neostoicismo;(3) come valutare il significato della predilezione diOrazio, interpretato in chiave repubblicana, in rela-zione all’uso compiuto dal Seicento inglese di taleautore; (4) come valutare lo spostamento del bari-centro da Roma alla Grecia e l’importanza dellacompetizione in relazione alla tematica del piccolostato. A tutte queste questioni, Cambiano ha fornitorisposte che aprono nuove possibilità di ricerca sulfilosofo inglese.Luisa Simonutti ha ripreso, con mano sicura, la suaricerca su quel circolo olandese, “La Lanterna”,organizzato dal quacchero Benjamin Furly, e sull’in-fluenza che esercitò sulla formazione intellettuale diShaftesbury, quando quest’ultimo risiedette inOlanda. Qui egli conobbe molti dissidenti, tra cuiPierre Bayle, Jacque Basnage, Pierre Des Maizeaux,Jean Le Clerc, con cui poi carteggiò, e l’analisi diqueste lettere consente alla studiosa di fornirci unquadro di letture e riflessioni di Shaftesbury cheritroveremo, in parte, nelle opere. La fortuna diShaftesbury in Gran Bretagna è stata affrontata daIsabel Rivers attraverso un’attenta lettura di untesto di Cherles Bulkey del 1752, in cui questopastore anglicano difende il “moral sense” diShaftesbury.Lawrence E. Klein ha compiuto una sottile analisidel vasto epistolario, per vedere fino a che punto ilfilosofo inglese rispetti le regole da lui stesso elabo-rate sul modo di scrivere le lettere, allora un vero eproprio “genere” di scrittura. Lo studioso ha rileva-to una discrasia tra le regole e la pratica scrittoria diShaftesbury, fornendone una spiegazione. BrunelloLotti ha discusso le diverse formulazioni che siriscontrano, negli scritti di Shaftesbury, dell’“argu-ment from design”, ossia del cruciale problema del-l’identità e continuità dell’io personale e della natu-

Page 113: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

113

ra. Shaftesbury ribadisce più volte che l’uomo è unessere naturale, considerando la natura una mani-festazione divina: da ciò la conseguenza che l’uo-mo non riceve l’idea di ordine da un dio trascen-dente. Andrea Branchi ha compiuto un ampio epersuasivo confronto fra Shaftesbury e Mendeville,ossia fra due modelli opposti di etica, senza possi-bilità di mediazione, e Laurent Jaffro si è intratte-nuto sull’atteggiamento assunto dal filosofo ingle-se sul “cogito” cartesiano, la cui evidenza, secondoShaftesbury, non è sufficiente per spiegare l’identi-tà personale.Inoltre, il “cogito” non rende conto di ciò che iodevo essere, ossia non è produttore di regolemorali. La soluzione del filosofo inglese consistenell’indebolire, per così dire, il “cogito”, assegnan-do un ruolo decisivo all’idea stoica del controllodelle rappresentazioni nel fondamento della sog-gettività. Infine, Jaffro ha rilevato la modernità diquesta soluzione, sia perché prefigura la tesi diThomas Reid sulla conoscenza comune di sé, siaperché consente di apprezzare le ipotesi storiogra-fiche sostenute da Michel Foucault nell’operaErmeneutica del soggetto (Feltrinelli, 2003), oratradotta in italiano, ove si trovano le opposizionitra “sapere di conoscenza” e “sapere di spirituali-tà”, tra “conoscenza” e “cura di sé”. “La tradizionestorica, afferma Foucault, e pertanto anche la tra-dizione filosofica, ha sempre privilegiato la cono-scenza di sé, come se solo questa potesse fungereda filo conduttore di tutte le analisi del soggetto.[…] Ma credo che si debba essere in parte ciechiper non constatare fino a che punto la cura di sésia costante in tutto il pensiero greco” (p. 412).

Alcune considerazioni (provvisorie)

Com’è noto, la cultura filosofica anglosassone haconosciuto, in Italia, periodi di ostracismo e altri diappassionamenti; quando sarà possibile pubblica-re il lavoro inedito di Mario Manlio Rossi sull’an-glomania nel Sette-Ottocento, avremo un nuovostrumento fondamentale per conoscere aspettinoti e meno noti di questo contrastato rapporto.Qui basterà ricordare che il movimento neo-illumi-nista, sorto in Italia negli anni Cinquanta, ha fattodell’empirismo inglese l’asse per un rinnovamentodella filosofia italiana in una direzione anti-metafi-

sica e anti-idealistica.Il richiamo all’illuminismo inglese non è stato unescamotage retorico, convenzionale, ma ha assun-to il segno di un’impegnativa scelta laica e liberal-democratica che si è espressa in precisi program-mi di ricerca (filosofica e storiografica). Non solo:l’empirismo come istanza illuministica è stato unacomponente fondamentale, interna a diverse cor-renti in cui si è articolato tale movimento: dall’esi-stenzialismo positivo di Abbagnano all’empirismocritico di Preti, dal trascendentalismo della prassidi Dal Pra al neopositivismo di Geymonat, fino almarxismo di della Volpe. Nell’ambito di questomovimento si è ritrovata e riconosciuta una nuovagenerazione di filosofi (Rossi-Landi, Lecaldano,Paolo Rossi, Santucci, e molti altri).Così, la cosiddetta “terza forza” laica e liberal-democratica ha mantenuto una presenza incisiva eautonoma nella filosofia italiana; essa ha rappre-sentato la modernità dell’Italia uscita a pezzi dal-l’esperienza del regime fascista e da una catastrofi-ca guerra mondiale. In tale situazione, il movimen-to neo-illuminista, che ha puntato soprattutto sulmodello culturale anglosassone, ha compiuto unafeconda mediazione con quella tradizione italiana,che da Cattaneo giunge a Vailati, sostanzialmenteemarginata o abbandonata dalle correnti filosofi-che dominanti negli anni Trenta-Quaranta. È statoun innesco che è durato nel tempo, tanto che unodei promotori, vent’anni fa, di questa nuova sta-gione di studi sulla cultura illuministica britannica,Antonio Santucci, è stato uno dei protagonisti, nellontano 1956, del convegno La ricerca filosoficanella coscienza delle nuove generazioni: unmomento importante di confronto e di aggrega-zione di una nuova generazione filosofica.La lettura di questi lavori suggerisce, in primaapprossimazione, una differenza marcata fra l’o-dierno interesse per la cultura britannica delSettecento e quello espresso dal movimento neo-illuminista, da cui sono sorti, occorre precisare,traduzioni di testi, saggi e opere sui filosofi britan-nici, dal Bacone di Paolo Rossi allo Hume di DalPra, ma l’elenco è abbastanza lungo. Negli anniCinquanta l’illuminismo britannico e, più in gene-rale, l’empirismo, ha costituito una piattaformaculturale contro forme diverse di “dogmatismo”allora imperanti, rappresentate dalla cultura catto-

Page 114: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

114

lica e da quella marxista (nel movimento neoillu-minista non si trova alcun filosofo cattolico o mar-xista). In questo movimento forte è stata la valenzaideologica e politico-culturale, e pertanto, le stessescelte dei filosofi e delle tematiche interne all’illu-minismo sono state fatte in ragione delle necessitàdella lotta culturale in corso, in Italia, fra i diversiorientamenti filosofici.Oggi tutto ciò non si riscontra nell’attività di studiodelle ultime generazioni, che hanno partecipato aquesta vera e propria rinascita della filosofia bri-tannica del Settecento. L’interesse prevalente è oradi carattere storico, nel senso che questi lavoriintendono fornire un quadro il più completo eorganico possibile della cultura britannica, comecondizione per un fecondo confronto e dialogocon quella italiana. In altri termini, non siamo difronte a “militanti” di un credo (sia pure illumini-stico), ma a studiosi che portano nuova luce suicomplessi rapporti esistenti nella cultura inglesefra programmi di ricerca diversi e, spesso, conflig-genti. Essi ci propongono una lettura spesso inno-vativa di filosofi, come Hume o Reid, che da noihanno conosciuto una continuità di studi nel corsodei secoli, ed altri, come Toland e Shaftesburyhanno trovato nuovi, acuti “lettori”.Nel momento in cui ci avviamo a costruireun’Europa unita non solo economicamente maanche politicamente e culturalmente, ci serve unaconoscenza non “ideologica” della cultura anglo-sassone, perché il problema non è più quello dicompiere, come negli anni Cinquanta, scelte tradiverse tradizioni al fine di condurre un’opera diaggiornamento modernizzante: quella anglosasso-ne o francese o tedesca. Oggi, una profonda cono-scenza delle diversità ci permetterà un dialogo per-manente fra le differenti tradizioni, le quali convi-vono accettando confronti, selezioni, ibridazioni.Ora si tratta, dunque, di un’unità nelle diversitàaccettate e con cui confrontarsi. Per questi, e altrimotivi, è importante far conoscere il lavorìo criticoche sulla cultura e la filosofia britannica delSettecento, hanno compiuto gli studiosi italianidelle ultime generazioni in un dialogo con quellistranieri (anche questa, una novità rispetto alla tra-dizione precedente).In ogni modo, ci sono motivi di oggettiva attualitànella scelta dei filosofi e argomenti discussi in que-

sti seminari. È del tutto comprensibile che i temi ei problemi dell'illuminismo inglese ritornino diattualità, in un momento in cui è viva l'esigenza diricomporre la cultura post-illuminista, andata apezzi, nel Novecento, con la vittoria dei totalitari-smi. L'illuminismo inglese costituisce ancora unodei riferimenti necessari, perchè di una certa con-sistenza culturale e politica della civiltà liberal-democratica, una civiltà ricca di fermenti prote-stanti, di conflittualità culturali, entro però l'accet-tazione della tolleranza come idea-guida, regolatri-ce dei rapporti sociali e politici. Com’è noto, inFrancia abbiamo avuto l'illuminismo grande-bor-ghese di Voltaire e quello di Rousseau. Nella fon-damentale opera Lettres philosophiques, Voltaireindicò alla Francia che la via del progresso civilerisiedeva in quella anticipata dalla società inglese,le cui istituzioni e conseguentemente l'ideologia distampo illuministico, assumevano un valore dimodello etico-politico. Invece Rousseau accolsecome paradigma il modello romano di repubblica,in polemica con il regime inglese, che egli consi-derava di stampo aristocratico.La cultura di massa totalitaria del Novecento hafatto dimenticare i fondamenti della nostra civiltàliberal-democratica, e pertanto si fa più urgente unrecupero dell'empirismo laicizzante, che di taleciviltà è stato una componente essenziale. Si parlaoggi di una concezione liberal-democratica perchènon può essere nè solo liberale dal momento cheil liberalismo ha storicamente escluso le masse, nèsolo democratica, perchè la democrazia ha accoltosì i diritti individuali e sociali, ma storicamente si èdimostrata fragile di fronte ai totalitarismi. D'altraparte la lotta antireligiosa non ha più un rilievodecisivo, dal momento che ciò che caratterizza lediverse religioni è il rifiuto dei totalitarismi e l'ac-cettazione senza riserve dello Stato laico. (Un dis-corso a parte deve essere fatto, ovviamente, per ilfondamentalismo islamico).Ora, uno dei problemi che sono emersi in questiultimi decenni, in cui peraltro ci sono stati tentati-vi, senza seguito, sia di rilanciare sul piano cultura-le l’illuminismo, sia di proporne un bilancio politi-co attualizzante, è il rapporto che si è (o si deve)stabilire tra liberalismo e religione, e, più in gene-rale, il ruolo che in Europa può avere la religione,tanto che il Papa ha reclamato, con insistenza, che

Page 115: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

115

nella costituzione europea sia inserito il riconosci-mento della matrice cristiana dell’Europa. A taleproposito basterà ricordare, in quest’occasione,che già Tocqueville sostenne che in regime dilibertà, senza una morale comune, ossia senza lacredenza in valori morali universalmente ricono-sciuti validi, un regime liberale è sottoposto a con-flitti drammatici. Ma senza il fondamento di unareligione trascendente, aggiunse, la morale comu-ne è fragile. Ora, dopo la fine del “secolo breve”, sipuò affermare che l’insegnamento delle “religionisecolari” che la cultura laica ha elaborato nel corsodegli ultimi secoli, dalla “religione dell’umanità” diComte a quella neopagana del nazismo fino alfascismo, elaboratore di un “misticismo fascista”,

cui è stato associato il marxismo nella versione delsocialismo reale dell’Urss, è che esse non hannoretto alla prova. Da ciò scaturisce la situazioneodierna, che vede le religioni all’offensiva, consullo sfondo la presenza del fondamentalismo isla-mico (ma anche in prospettiva quello ebraico e cri-stiano), fronteggiare un laicismo in difficoltà, per-ché appesantito dall’inganno delle religioni imma-nenti, e incapace di praticare quella genuina criticadelle religioni, che era stato un point d’honneurdella grande stagione illuministica; perché, comeci ha insegnato il giovane Marx, presupposto diogni critica è la critica della religione.

L’opera, nel suo complesso, rappresenta i principidella sostenibilità ecologica e ricerca un più armo-nico rapporto con l’ambiente naturale e storico, ingrado di assicurare ottimali condizioni di benesse-re psico-fisico e sociale agli abitanti coinvolti nellarealizzazione di nuove opere ar-chitettoniche o inprocessi di trasformazione urbana.Gli autori documentano come, per molti anni,questa esigenza sia rimasta confinata nell’ambito diconvegni, di dibattiti e di articoli di alcune rivistespecializzate, che hanno comunque avuto il me-rito di porre le basi per una radicale revisione criti-ca di alcuni fondamentali paradigmi del Movi-mento Moderno in Architettura e per la messa inluce dei preoccupanti “effetti collaterali” (per lasalute umana) di molti materiali e di molte tecno-logie utilizzati nell’edilizia contemporanea. Il lavoro rappresenta, inoltre, un contributo allapanoramica delle esperienze maturate in diverseregioni del mondo, Argentina, USA, Brasile,Australia ed Ungheria, dove in maniera diversa èstato offerto un contributo sostanziale alla divulga-zione ed all’applicazione dell’ecologia nell’archi-tettura, nell’urbanistica e nella trasformazione, in

Mario Quaranta ([email protected])

SERGIO LIRONI E MARIO MARTELLI (A CURA DI), LA CITTÀ ECOLOGICA: PROGETTI, REALIZZAZIO-NI, IDEE, CON IL COORDINAMENTO EDITORIALE DI ENZO VICTORIO BELLIA, EDIZIONE CLEUP,PADOVA, 2003.

senso lato, del territorio.In generale può dirsi che il nucleo del dibattitoarchitettonico attuale (almeno della parte di dibat-tito che interessa commentare), ci riporta ad unquesito sostanziale e costitutivo: fin tanto, e findove, come e perché, l’architettura deve aggiornar-si, discutere, negarsi, al fine di essere sostenibile?Fin dove le nozioni tradizionali di linguaggio e mor-fologia devono legarsi a nuove incidenze, a nuoviparadigmi, a nuove letture? La linea di discrimine ènetta: da un lato i bio-, gli eco-, i sost-; dall’altro gliarchitetti. Inaccettabile banalizzazione!In questo senso valutiamo male le resistenze degliarchitetti a studiare, conoscere, crescere; ma valu-tiamo addirittura peggio le forzature dei nuoviarchitetti, che in una sorta di esposizione (fie-risti-ca) d’avanguardia figurativa, tendono a vendere leloro produzioni come “altre” e come “migliori”:ammesso che lo siano, dal punto di vista energeti-co e comportamentale, per essere ar-chitetturedovranno essere complessivamente migliori,dovranno computare in sé ogni aspetto del pro-blema e non solo quelli dell’esposizione, dei ventie dell’inerzia termica.

Page 116: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

116

Ma l’architettura sostenibile di qualità scontaanche un pesante gap rappresentativo: non ve n’ètraccia, o quasi, nei fori abituali, sulle riviste anzi-tutto. E se di un tema culturale non si parla, lo sicostringe in un ambito di nicchia, lo si riduce aduna sorta di sperimentazione non divulgabile, dun-que non criticabile, non vendibile, non commenta-bile. Le forze in campo, d’altronde, sono impari,così come le possibilità – date ai progettisti e alleopere – di proporsi. I lavori presentati in questa sezione del volume,rappresentano pertanto luoghi diversi, intenzionidifferenti, esperienze non confrontabili in ampiez-za, misura, dimensione. Essi non sono “esposti”come merci da apprezzare e vendere: la loro espo-sizione ha il valore riassuntivo di testimonianze diquanto si sia fatto (e si stia facendo) in parti diver-se del pianeta, a cura di protagonisti diversi. Leggi,risorse, finalità, capacità eterogenee, danno cosìluogo ad esiti originali, a scala perlopiù sopravan-zante quella prettamente architettonica.Il libro, suddiviso in tre sezioni raccoglie idee, pro-getti e realizzazioni, nazionali ed internazionali,che si distinguono per l’adozione nella progetta-zione di criteri ecologici.La prima delle due sezioni nazionali, affidataall’arch. Sergio Lironi, interprete solitario di quellaPubblica Amministrazione italiana restia a coglierele istanze più sensibili della società civile, fa ilpunto sullo stato dell’arte nazionale, aggiornatoalle più significative esperienze a scala urbani-stica.Tra le molte iniziative in corso vengono, in parti-colare, illustrate quelle del Comune di Padova,esemplificativa delle rilevanti potenzialità operati-ve delle amministrazioni locali, e quelle dellaCooperativa Oikos Bioedilizia, attiva in molticomuni della Regione Veneto.L’esperienza acquisita dal Settore EdiliziaResidenziale del Comune di Padova, con i numero-si interventi di edilizia bioecologica realizzati a par-tire dal 1995 in diversi quartieri urbani, ha posto lepremesse per la progettazione e l’avvio della faserealizzativa di un complesso ed ambiziosoProgramma di Recupero Urbano, il “Contratto diQuartiere Savonarola” gestito in collaborazione condiversi enti pubblici e privati. L’esperienza delContratto ha promosso, nell’ecosistema locale, la

partecipazione degli abitanti nella progettazionedel quartiere. Ha promosso, quindi, la cultura ditrasformarsi e di “correggersi” nel tempo, portandogli esperti a interagire e co-evolvere con i residenti.È d’altra parte importante sottolineare come l’e-sperienza in corso a Padova, pur caratterizzata daqualità e contenuti del tutto peculiari, fa parte di unpiù generale programma di sperimentazione attiva-to dal Ministero dei Lavori Pubblici (ora Ministerodelle Infrastrutture), che vede coinvolte ben 45amministrazioni locali, tra le quali si sta cercando ditessere una stabile rete di relazioni, essenziale perconferire continuità e significatività ai processiavviati, senza dimenticare di porsi come interlocu-tore di quelle realtà che faticano a decollare.Sul piano delle ricerche, il Dipartimento diSociologia di Padova, portando come esempio le in-dagini operate sul Contratto di Quartiere di Padova,ha ricevuto, infatti, per il biennio 2002 - 2004, unfinanziamento Miur, nel quale sono coinvolte seiUniversità italiane e otto responsabili locali impe-gnati nelle seguenti azioni di ricerca: le trasforma-zioni sociali e la salute mentale (G. Lo Verso); larealtà dell’immigrato: i sik del Punjab nell’EmiliaRomagna (A. Tarozzi); la scuola pubblica e la nuovaformazione civica (A. Zamperini); la stigmatizzazio-ne delle fasce deboli pre-senti nel territorio nazio-nale e a Catania (G. Priulla); psichiatria di territorio:la carta di rete (G.M. Ferlini); il contributo dei comi-tati per la salvaguardia e la prevenzione delle acque(E. Trevisiol); osservatorio nazionale sui Contratti diQuartiere (I. Spano e G. Licari); la carta del nuovoMunicipio (A. Magnaghi), tutti aspetti che il gruppodi ricerca del Dipartimento di Sociologia di Padovanel “Contratto di Quartiere Savonarola” ha studiatonel territorio specifico promuovendo unOsservatorio Locale che adesso, alla luce del premiodi ricerca ricevuto dal Ministero dell’Istruzione,dell’Università e della Ricerca, si amplia, divenendoOsservatorio Nazionale per tutti i Contratti diQuartiere presenti sul territorio italiano.I materiali della ricerca sono disponibilinell’Osservatorio nazionale ospitato dal portalewww.koisema.org . L’Osservatorio si fa già caricodi diffondere sul tutto il territorio nazionale leesperienze più significative, presenti nei vari pro-getti, allo scopo di facilitare una migliore realiz-

Page 117: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

117

zazione dell’esperienza locale.Una seconda sezione nazionale è dedicata allaSicilia, crogiuolo di valori forti e contradditori,quale invito e monito a guardare senza ipocrisiaverso il Mediterraneo in cui i problemi ambientalied i segni passati di un’architettura e di un’urbani-stica a misura d’uomo, rappresentano un puntoindiscutibile di riferimento assoluto per lo svilup-po delle città ecologiche ma nel contempo una dif-ficile scommessa attuale da vincere, quale Sud sim-bolico non solo dell’Europa, per ridare speranzaalla qualità di vita globale. Perché, come suggerisceMartelli, parafrasando un noto libro di LeonardoSciascia dal titolo: “La Sicilia come Metafora”, contutto il pessimismo proprio del suo conterraneo,amaramente sottolinea che “l’Isola si proponecome metafora del panorama italiano”. La Sicilia presenta, nel suo complesso, un panora-ma piuttosto sconfortante di interventi ispirati acriteri di sostenibilità in ambito di approvvigiona-mento e produzione di energia da fonti alternati-ve, e in ambito di urbanistica e architettura.L’Isola si propone così come metafora del panora-ma italiano perché, più che altrove, al gran par-lare, dibattere, promuovere fa riscontro unamodestissima produzione edilizia, fin quasi a sfio-rare l’immobilismo.Poco o quasi nulla segue ai molti convegni, semi-nari (anche di altissimo livello), corsi, (Erice 1997,“Complessità sistemica e sviluppo ecosostenibile”,promosso dal Dipartimento di Sociologia diPadova e patrocinato dalla XII Direzione dellaUnione Europea e dove erano presenti studiosi divarie nazionalità impegnati sul tema dello sviluppoeco-sostenibile: E. Lazslo, E. Morin, A. Magnaghi etal.), stages, produzioni bibliografiche; poco o quasinulla segue a mostre e pre-miazioni (tra cui ilPrimo premio Eurosolar Italia categoria“Associazioni” assegnato all’istituto i.id.e.a. medi-terranea di Palermo nell’anno 2000). Ne derivano- figli legittimi seppure indesiderati - sconfortopropositivo e mortificazione professionale, appiat-timento e banalizzazione.Sotto questo aspetto la Sicilia si vede usata comehabitat che ospita iniziative che non lasciano al-cun segno sugli abitanti locali. Mi chiedo se questeiniziative non debbano essere più energiche nel far

partecipare oltre agli studiosi parte della popola-zione locale interessata ai programmi. In questa sezione del volume è rappresentato ilpanorama pressoché completo di quanto si stia fa-cendo in Sicilia, nella ricerca di soluzioni architet-toniche e urbanistiche sostenibili, scegliendo e-spressioni tecniche e culturali appartenenti a fontidiverse e a diversi obiettivi finalizzate: i pro-getti diMario Martelli e del gruppo Alessi-Di Chiara(entrambi commissionati dal Municipio di Palermodurante l’esperienza della giunta Orlando); il verdepensile di Annibale Sicurella; le e-sperienze acca-demiche di Irene Caltabiano e Rossella Carlino; lapersonale esperienza di Giovanni Giannone.Vorrei concludere questa presentazione ripren-dendo la terza parte del testo e cioè la scena inter-nazionale dell’architettura sostenibile. A fronte,infatti, di comportamenti illuminati di singoli, dicomunità, di amministrazioni, si assiste ad unsostanziale disinteresse da parte dei grandi gruppi(economici, politici, amministrativi) che gestisco-no il patrimonio globale. L’arroganza inaudita con cui gli Stati Unitid’America hanno rifiutato e rifiutano l’adesione alprotocollo di Kyoto (un gigantesco, piccolissimopannicello caldo globale), le recentissime, piccoledeterminazioni del summit di Johannesburg, laportata limitata degli interventi profondamentebenefici sul territorio nei vari Stati mondiali in ter-mini di edilizia sostenibile, danno una lettura scon-certante e avvilente degli indirizzi cui, come citta-dini e professionisti, siamo interessati.Dove troviamo epigoni di un modo sostenibile diragionare e di “fare”? In Australia: si pensi alle esperienze di GlennMurcutt e la reinterpetrazione di un vernacolo indivenire (queste ampiamente circuitate presso glieditori mondiali); all’esperienza (documentata nelvolume) di Paul F. Downton ad Adelaide, che sipone come campo di confronto tra le tensioni pro-gettuali innovative e sostenibili e la volontà degliamministratori e dei finanziatori di aderire ad unprogetto speculativo, di indirizzo eticamente cor-retto e foriero di nuove possibilità e finalità.Certamente – e ampiamente - nell’Europa centra-le: in Germania, in Austria, in Svizzera, in Olanda.E in Ungheria, dove la grande lezione (documen-

Page 118: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

118

tata in questo volume) del recupero ar-chitettoni-co e ingegneristico del legno, si pone però comeuno spunto di difficile trans-litterazione e comegioiello irripetibile. Altri Paesi svolgono ricerche particolari: in Spagnagrande influsso sta avendo l’approfondimento piùschiettamente bioclimatico. La profonda cono-scenza delle caratteristiche comportamentali del-l’edifico e dei suoi componenti sta portando allaformazione di una generazione di progettisti assaiattenti ai dati climatici e prestazionali dei volumiedilizi, forse a scapito di altrettanto attente valuta-zioni architettoniche: s’è cioè scelta una stradamigliorativa a livello energetico a parziale scapitodelle valenze legate al linguaggio “classico” dell’ar-chitettura.Negli Stati Uniti - in cui la straordinaria esperienza“anarchica” di Paolo Soleri e della sua scuola, puòforse trovare una eco in quella di Hassan Fathy inEgitto -, pochi spunti possono rinvenirsi nella pro-duzione recente: grandi differenze culturali, inse-diative e climatiche fra le parti del paese; la tipolo-gia della casa unifamiliare in legno, rapida e fun-zionale, contrapposta ai centri economico-direzio-nali delle grandi città, pongono forse un freno aduna ricerca originale in cui l’esperienza documen-

tata di Richard Register, in California, si pone comeforma utopica di sperimentazione urbana sosteni-bile, proprio lí dove la spinta al massimo sfrutta-mento delle potenzialità edificatorie dei suoli,costituisce un limite estremo nel rapporto trauomo e contesto insediativo.In Sud-America, le esperienze urbanistiche (docu-mentate nel volume) sviluppate in Brasile a Cu-riti-ba - quasi un affiche culturale a scala urbana - e dalgruppo CEPA in Argentina e Uruguay, permettonodi intravedere temi e logiche di sviluppo sostenibi-le applicate agli àmbiti territoriale e urbano.Per finire, gli autori suggeriscono, aldilà di stanchiproclami, la ri-lettura della Charta di Calcutta: “...Dobbiamo smettere di vedere la Città comeProblema. Dobbiamo vedere la Città come Solu-zione. Perché la Città è la nostra dimora. La Città ècome la facciamo noi. La Città è il posto dove vivia-mo ... La Città può salvare il mondo!”. E l’aspetto più interessante, di molte esperienzeavviate negli ultimi anni, dovrà leggersi nell’esten-sione alla scala urbana dei principi dell’Ecologia edella Bioarchitettura, attraverso il ridisegno – conla partecipazione attiva degli abitanti – di aspettisignificativi del governo della città e della costru-zione sociale del territorio.

Giuseppe Licari ([email protected])

J.H.H., WEILER, LA COSTITUZIONE DELL’EUROPA, BOLOGNA, IL MULINO, 2003, PP. 640 € 40

Un articolato bilancio fin de sieclè, sostanzia l’anti-dogmatica riflessione di J.J. H., Weiler, uno dei piùautorevoli rappresentanti della comunità scientifi-ca nel campo degli studi europei. Ricorrono in talericognizione, le pressochè inevitabili parole d’ordi-ne presenti ormai nella quasi totalità della pubbli-cistica di settore, anche per gli evidenti nessi conl’attualità del processo di integrazione, ovvero itermini-concetti costituzione e costituzionalismo;nel solco tracciato dalla polemica Grimm-Habermas in ordine al prius ed al posterius deiprocessi di istituzionalizzazione – ovvero preesi-stenza del ‘demos’ costituente versus costituzionedemocratizzante – Weiler, di fronte alla sfida deltest di unificazione politica dell’Unione, ripropone

in certo senso, il frame di un’UE come costruzio-ne istituzionale sui generis – il cosiddetto ‘ecce-zionalismo’ europeo - le cui ‘particolarità positive’,costituiscono non un limite ma un patrimonio daconservare. I dieci saggi, che strutturano il testo - frutto di unariflessione decennale sul tema dell’Europa - con-fluiscono in un unico alveo, in cui ogni tema riac-quista, alla luce dell’ultima fase dell’integrazioneeuropea, un significato ed una pregnanza rinnova-ti; una riflessione, quella di Weiler, che mette incomunicazione tra loro ‘memoria’ e prospettiveper il futuro, attraverso un linguaggio mai retorico,seppure disseminato di immagini e metafore.Nel tentativo di chiarire i termini della questione

Page 119: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

119

esso era contenuto e quindi, successivamente, di‘riflettere’; l’inversione dell’agire che precedere ilriflettere, implica una condizione in cui l’accetta-zione è la condizione dell’accettazione medesima,quando cioè è il patto stesso a definire l’autono-mia morale di fondo, necessaria perché un sogget-to compia un libero e consapevole atto di accetta-zione. In questi termini “la situazione circolare, ilparadosso logico, è evidente. Come si può averel’accettazione di un soggetto che solo l’accettazio-ne verrebbe a creare? Da qui lo stratagemma deltesto: faremo e rifletteremo” (p. 24). Il frame delle situazione attuale dunque secondo

Weiler, è dato dalla circostanza per cui il risultatodel fare – il processo di integrazione europeo -non è un ordinamento giuridico senza una costitu-zione formale, quanto piuttosto il suo oppostoovvero “un ordinamento costituzionale la cui teo-ria costituzionale ancora non è stata pienamenteelaborata e i cui valori trascendenti e di lungoperiodo non sono stati ancora metabolizzati, i suoielementi ontologici non ancora compresi e la sualegittimità e il suo radicamento sociale ancora alta-mente contingenti” (p. 28).L’adozione della Carta Costituzionale e la costitu-zionalizzazione del patrimonio dei trattati, toccanoentrambe le questioni cardine del processo di inte-grazione, nella sua duplice dinamica di allarga-mento e approfondimento; la riforma istituzionaleinfatti si è resa ancora più urgente, in vista delprossimo ingresso dei nuovi membri, nella pro-spettiva dell’unificazione politica, anche nel qua-dro di un’Europa a più velocità.Alle più diffuse motivazioni emerse nel dibattitopolitico per l’adozione della Carta, - dalla promo-zione della ‘percezione’ e costruzione di un’identi-tà europea, alla promozione di un testo chiaro ecoerente, quintessenza dei processi di ‘codificazio-ne’, che contenga una lista dei diritti non più attin-ti in via giurisprudenziale dalla corte un vero e pro-prio judge made law, ancora, alla possibilità diintrodurre innovazioni nella disciplina di diritti dinuova emersione – Weiler risponde con alcuneobiezioni di fondo. La prima si riferisce ad una let-tura in termini ‘regressivi’ degli effetti indotti dallapresenza di un ‘elenco’ di diritti, dal momento chein tal modo verrebbe meno quella proficua prassigiurisdizionale che guarda, nell’ambito di unostretto dialogo tra la Corte europea ed i giudici

fondamentale, ossia che portata e quale significatoabbia la costruzione dell’architettura costituziona-le europea, il riferimento al ‘costituzionalismo’costituisce la pietra di paragone attorno alla qualeruota l’intera trattazione.Di più: “il costituzionalismo è il DOS o il Windows

della Comunità Europea” (p. 451); esso è il ‘soste-gno sistemico’ dello stesso sistema, il ‘sancta sanc-torum’ nell’ambito dell’acquis communautaire, il“sistema operativo che condiziona il processo digovernance, al cui interno tutti i programmi dellaComunità – economici, sociali e politici- funziona-no e non funzionano” (p. 452).Tale spazio costitu-zionale europeo si sostanzia attraverso i processi di‘trasformazione dell’Europa’, di strutturazione diuno spazio giuridico europeo di tutela dei dirittiumani, di definizione dei reciproci rapporti tra Statimembri e Comunità nell’ambito delle relazioniesterne, di costituzione del mercato comune, nelladelineazione di una lettura federale, confederale o‘policentrica’, ovvero dialogica della costruzioneeuropea; ciascuno di tali processi è fatto oggetto diun’attenta analisi lungo la sequenza dei saggi.A sostegno dell’intera architettura del testo, data lapluralità degli approcci con cui si guarda al calei-doscopico fenomeno europeo - l’unidentified poli-tical object di deloriana memoria - si riscontra ilricorso ad una molteplicità di metafore. Se la fun-zione della metafora, nella logica e nella comuni-cazione, è quella di attraversare le ‘barriere seman-tiche’ preesistenti in una costellazione di discorso,assumendo significati diversi in contesti diversi,nella dinamica del testo, c’è una metafora fondan-te l’intera trattazione, in grado di fornire un pecu-liare codice di interpretazione delle dinamiche del-l’integrazione europea. I diversi saggi infatti trova-no sistemazione in due parti, che costituisconoanche l’indicazione di due macro-piste di lettura;l’una legata alla dimensione del ‘faremo’, l’altra aquella del ‘rifletteremo’. Il processo di costruzioneeuropeo, sviluppatosi fino a questo momentosecondo una ‘inconsapevole’ dinamica funzionali-sta, vivrebbe ora questo sostanziale passaggio alladimensione della riflessione, dell’accettazione diun ‘patto’ per la costruzione della polity europea; itermini di questo processo sono assimilati dalnostro alle vicende del popolo ebraico narratenell’Esodo quando, cioè, il popolo, alla lettura delPatto di Geova, affermava di ‘fare’ tutto ciò che in

Page 120: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

120

nazionali, proprio al patrimonio giuridico di ognistato membro ‘come ad’ una sorta di “laboratorioorganico e vivente della protezione dei dirittiumani” (p. 635); la seconda ancora ad un possibilescenario “regressivo” quanto ai processi di innova-zione del panorama dei diritti garantiti, posto chein tal caso il timore è diretto alla eventualità percui, una volta presa in esame e respinta l’introdu-zione di un nuovo diritto comunitario da un’as-semblea politica costituente – la Convenzione –sarebbe molto più difficile per la Corte operareper ‘cristallizzare’ giudizialmente tale diritto.Piuttosto, continua l’autore, “Il vero problemadella Comunità è l’assenza di una specifica politicaper i diritti umani, con tutto ciò che questo com-porta: un Commissario, una Direzione Generale,un bilancio ed un piano d’azione generale per ren-dere effettivi quei diritti già riconosciuti dai trattatie tutelati giudizialmente dai vari livelli degli organidi giustizia europei” (p. 216).Se “ il processo di seduzione è iniziato a Colonia nel1999” (p. 213), ai fini dell’adozione della Carta, ‘sim-bolo’ principe dell’integrazione politica, l’attenzio-ne per gli aspetti simbolici, soprattutto se si tratta diun simbolismo di carattere ‘statalista’, come già aMaastricht, (chiamato a rafforzare la retorica delsuper-stato, che il nostro, convintamente sovrana-zionalista, deplora), pare essersi accresciuta nell’at-tualità dell’integrazione; ma “il linguaggio dei sim-boli, proprio in quanto tale, è simbolico. Perciò nonsi dovrebbe leggere più di tanto in esso” (p. 505).Se non l’attenzione ai simboli, forte è la presenza inWeiler, della riflessione sui valori. E¢ in questo con-testo che egli procede ad una acuta lettura di unEuropa fin de siecle, dal ‘morale basso’, per via della“perdita della più profonda raison d’etre dell’im-presa comunitaria” (p. 506), con la “sconcertantepresa di coscienza che l’Europa è diventata un finein sé, non più uno strumento per raggiungere piùelevati fini umani” (p. 506).Nel tentativo di “(re)introdurre un discorso sugliideali nell’attuale dibattito sulla integrazione euro-pea” (p. 476), posto che l’autore riscontra unacerta difficoltà nell’individuare “la fenomenologiadegli ideali del ventesimo secolo”, emerge una par-ticolare sensibilità verso gli aspetti ‘cognitivi’ delledinamiche sociali, il ruolo della ‘retorica’ nelle rela-zioni sociali, ancora la valenza ‘definitoria’ degliideali considerati quali ‘strumento principale

“attraverso cui gli individui e i gruppi percepisco-no la realtà, danno un senso alla loro vita e defini-scono la loro identità” (p. 483), nella ulteriore con-sapevolezza che non si possa “apprezzare la cultu-ra politica di una società senza far riferimento aisuoi valori e ai suoi ideali” (p. 483). Al fine di “collocare l’idea di Comunità lungo il per-corso della storia del pensiero europeo” (p. 484),egli rintraccia rispettivamente nell’idea di pace, diprosperità e nel sovranazionalismo, gli ideali fonda-mentali del periodo della integrazione europea.L’Europa ha vissuto, dopo il disastro della secondaguerra, una fase di ricostruzione materiale e simbo-lica, una vera e propria rigenerazione che attraver-so la ‘costituzione del Mercato comune’, - hardcore dell’intero edificio europeo - , approda alladefinizione di un sistema politico ‘costituzionale’,in ordine al quale l’ideale sopranazionale definisceun ordinamento a carattere ‘policentrico’, propriodi una struttura tenuta insieme dalla costante dia-lettica tra gli Stati membri e la Comunità, sinonimodi un peculiare Sonderweg europeo.Accanto ad una lettura in termini “modernisti” deltransnazionalismo europeo, considerato quale epi-tome dell’idealismo illuminista, ed alla considera-zione del ‘vuoto di ideali’ quale sano ‘sospetto’affinché gli ideali non diventino idolatria, il nostrocoglie i segni di un ressentiment sociale nei con-fronti degli aspetti tecnocratici dell’integrazione,affrontando così il problema della ‘legittimazione’delle istituzioni e del modus operandi comunitario.Se “assicurare benessere e sicurezza potrebbeessere tutto quello che ci aspettiamo dal poterepubblico dell’era post-moderna” (p. 506), “il fattoche l’Unione abbia cessato di essere portatricedegli ideali fondamentali della Comunità e che siadiventata qualcosa di provvisorio, un’esperienzaavulsa da un quadro di riferimento di valori, rap-presenta un’affascinante svolta post-modernarispetto all’ansia modernista” (p. 508). E tuttavia la ‘riconcettualizzazione’ della costruzio-

ne europea in termini esclusivamente strumentalie tecnologici, finisce col sottovalutare il caratterefondamentale delle scelte operate da parte dei regi-mi di regolamentazione tecnocratica (si pensi alle‘virtù’ socialmente omologanti del mercato), maanche con il trascurare una ‘missione storica’ dellaComunità, chiamata ad assumersi una sorta di“responsabilità putativa verso i paesi dell’Est” (p.

Page 121: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

121

509), nel diffondere un ethos sopranazionale, capa-ce di “smorzare gli eccessi di nazionalismo chepotrebbero divampare furiosamente” (p. 510).Un rinnovato slancio ideale potrebbe venire dalladiffusione del filone comunitario nell’ethos costi-tuzionale europeo, attraverso la riedificazionedell’Unione “in quanto organizzazione che appar-tiene ai propri cittadini, più che ai cittadini deglistati membri” (p. 510), e tutto ciò nella consape-volezza che “la Comunità non è né condannata némortalmente ferita, e la capacità di emergere dallecrisi è parte della sua storia: le crisi dopotutto sonosempre state un segno della sua vitalità e della suaimportanza. L’Europa, però, ci guadagnerebbe sel’attuale dibattito sul suo futuro vertesse non solosui mezzi ma anche sui fini” (p. 510).Prendiamo congedo momentaneamente dalletematiche connesse alla dimensione del ‘riflettere-mo’, per soffermarci sulla delineazione dei caratte-ri fondanti lo spazio del ‘faremo’, meglio, di ciòche costituisce il patrimonio socio-istituzionaledella presente architettura europea. Il ricorso alle categorie hirschmaniane, definisce i

termini dell’attenta analisi storico-politica dellacostruzione europea, attraverso la lettura di benquattro fasi di tale percorso. Così il periodo ‘istitutivo’ che data ‘1958- metà deglianni ’70’, considerato quale ‘punto di chiusura’ nelprocesso di costituzionalizzazione (che pure è tut-tora in corso), - nel senso che, in quella fase, “tutti iprincipali pilastri costituzionali erano stati collocati”(p. 45) - , è quello in cui viene definita la categoriadell’Exit, ‘completa’ e ‘selettiva’; la prima si identifi-ca con il recesso unilaterale dello Stato membrodalla Comunità, che integrerebbe la fattispecie del-l’illecito e, pertanto, risulterebbe ‘preclusa’.L’eliminazione dell’uscita selettiva invece, “identifi-ca il processo per il cui tramite viene ridotta la capa-cità degli Stati membri di applicare in modo seletti-vo l’acquis communautaire e grazie al quale vengo-no erette barriere alla loro capacità di violare o nonrispettare gli obblighi vincolanti discendenti dai trat-tati e dal diritto derivato” (p. 45).A sostanziare l’eliminazione di tale opzione sono iprocessi di costituzionalizzazione dell’ordinamen-to comunitario e la definizione del sistema digaranzie giuridiche e giudiziali. In riferimento alprimo processo Weiler ripercorre le tappe segnatedalle ‘sentenze miliari’ della Corte di Giustizia, con

cui si affermano i principi fondamentali dell’effettodiretto, della supremazia del diritto comunitario,della dottrina dei poteri impliciti, accanto allagaranzia dei diritti fondamentali, mentre si aggiun-ge la dimensione ‘verticale’, (gli effetti sui cittadi-ni) dell’integrazione stessa.Contrappeso inevitabile, nella logica costituziona-

le, rispetto all’estensione dei poteri, l’ampliamentodei margini di garanzia delle libertà, la definizionedi un sistema di controllo giurisdizionale a garanziadei diritti fondamentali dei cittadini europei.La stipulazione di un vero e proprio “contratto giu-ridico-giurisdizionale” (p. 112) stipulato tra laCorte e i giudici nazionali degli stati membri, con-tribuisce a strutturare la nuova architettura euro-pea di origine giudiziale, con garanzie ‘azionabili’,secondo le procedure di infrazione […] o di rin-vio pregiudiziale, il quale comporta che il cittadinodiventi “volente o nolente, un organo decentratocapace di controllare il rispetto da parte degli Statimembri dei loro obblighi comunitari” (p. 61).Assai illuminante risulta essere la ridefinizione del-l’altra categoria hirschmaniana, quella della Voice;nella dinamica sinergica dei rapporti tra tali opzio-ni, l’apertura di canali di ‘protesta’ è consustanzia-le alla sopravvivenza stessa della costruzione costi-tuzionale europea. In questi termini viene avviata una stimolante lettu-ra di altre fasi dell’evoluzione comunitaria, general-mente connotata nei termini negativi che indicano,nella crisi della ‘sedia vuota’, nella loudeur del pro-cesso decisionale determinata dal successivoCompromesso di Lussemburgo, una fase altrettantoessenziale nella costruzione ‘politica’ dell’Unione. E’ in tale contesto che è possibile dare, con Weiler,una spiegazione all’apparente paradosso dellevalutazioni relative alla prima ed alla seconda fasedell’integrazione, dal 1973 alla metà degli anni ’80;egli constata come il giurista richiesto di un parerein forza della comparazione tra Stati Uniti edUnione europea, avrebbe certamente ravvisato inquest’ultima, particolarmente nel periodo istituti-vo, il delinearsi di uno stadio federale o quanto-meno confederale dell’evoluzione costituzionale,mentre lo scienziato politico avrebbe risposto l’e-satto contrario, notando piuttosto un progressivodistacco da questi stessi modelli.L’equilibrio tra ‘costituzionalismo’ e ‘istituzionali-smo’, ovvero tra exit limitata e voice rafforzata,

Page 122: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

122

vera e propria eredità del periodo istitutivo, sidetermina proprio nella fase dello ‘stallo’ nell’evo-luzione dell’integrazione europea, quando, cioè, isingoli stati membri attraverso il compromesso diLussemburgo, imprimono all’integrazione un fortecarattere consensuale: il raggiungimento dell’una-nimità nel consesso istituzionale europeo, con ilcontestuale ‘crollo’ di tutti gli elementi soprana-zionali del processo decisionale, garantisce ilpieno ‘controllo’ del processo medesimo. Solo questa assicurazione di fondo, data dalla con-fortante visione di un processo di crescita delledinamiche comunitarie all’ombra del ‘veto’, puòconsentire l’estensione delle competenze comuni-tarie e l’erosione del principio dei poteri attribuiti,che fa della Comunità, pure nel pieno possesso deisuoi caratteri peculiari, un ordinamento semprepiù simile ai caratteri istituzionali federali. Certo ladinamica del veto esemplifica piuttosto gli aspetticonfederali dell’integrazione, ma il ‘brusco risve-glio’ degli stati membri dopo l’AUE e l’introduzio-ne del voto a maggioranza, rivela il pieno successodell’operare ‘carsico’ della “geologia” del costitu-zionalismo europeo, considerato quale “vena auri-fera che va dalle profondità fino alla superficie econtinua a produrre frutti” (p. 457). Si inserisce qui la proposta di una tesi sulla “circo-larità” della dinamica costituzionale europea, neitermini della meccanica di un delicato ingranaggioin cui ha operato una sorta di ‘dissonanza cogniti-va’ (p. 84), tale per cui non vennero percepite leconseguenze date dalla ‘graduale’ erosione (attra-verso le modalità del mutamento già enucleate),del principio dei poteri attribuiti . Erosione che siè spinta fino al punto per cui (così afferma Weiler,citando Lenaerts), “non vi è più alcun nucleo disovranità che gli Stati membri possano invocare,come tale contro la Comunità” (p. 83). E ciò avven-ne proprio durante la seconda fase della ‘trasfor-mazione’ dell’Europa, quando, dopo il Vertice diParigi del 1972, gli Stati membri decisero di fareampio uso della cosiddetta clausola elastica. Per tornare al percorso diacronico dell’integrazio-ne, si passa alla delineazione della terza fase, intro-dotta dagli eventi epocali del 1992, e dell’accelera-zione impressa da Maastricht al processo in parola.L’understatement del tenore squisitamente ‘tecni-co’ del Libro Bianco della Commissione, chiamatoa delineare i caratteri del Progetto 1992, bene

esemplifica, ancora una volta, la metafora della dis-sonanza cognitiva e dei bruschi risvegli di alcuniStati, quando, pur nella ferma convinzione di con-trollare istituzionalmente, attraverso le prassi con-sensuali, le dinamiche della voce, si imprimonosvolte significative verso un’ulteriore tappa nellacreazione di ‘unione sempre più stretta tra i popo-li europei’, per citare il Preambolo del Trattato isti-tutivo. Il decision-making europeo ora è costrettoa svolgersi all’ombra del voto di maggioranza, conil rischio evidente di far saltare l’equilibrio delperiodo istitutivo, posto che la crescita per via giu-diziale delle competenze comunitarie non è bilan-ciata dal controllo statale del processo decisionale,che scatta verso una dinamica più federale checonfederale. E’ in tale contesto che l’Europa è chiamata adaffrontare alcune fondamentali ‘sfide’; una voltaalterato l’equilibrio del periodo istitutivo tra Exit eVoice, la pressione ‘politica’ ingenerata dal voto amaggioranza, avrebbe potuto favorire le scelte diuscita, qualora non fosse intervenuta l’influenzadella terza categoria hirschmaniana, quale è quelladella loyalty; nel corso delle prime fasi della trasfor-mazione dell’Europa pare si sia “sviluppata una leal-tà alle istituzioni che va oltre la necessità di un equi-librio e di un bilanciamento costanti. Un ventenniodi voice rafforzata ha rappresentato un processo dieducazione e adattamento il cui esito è stato unaforte socializzazione. […] Sarà il tempo a dire cosaaccadrà ma vi sono chiari segni che la Loyalty, conuna forte dose di opportunismo, potrà prevenire oalmeno ridurre le altrimenti destabilizzanti conse-guenze della trasformazione” (p. 136). La lettura della fase attuale è colta nei termini diun’ulteriore sfida della democrazia e della legitti-mità, costituita dal deficit democratico: posto che“dal punto di vista politico, ma non giuridico, laComunità è una confederazione”, il dibattito simuove intorno alla seguente alternativa, “se iltempo sia ormai maturo per una trasformazioneradicale a favore di una struttura federale, o seinvece il processo debba continuare in modo gra-duale” (p. 146).L’attenzione al ‘fare’ passa attraverso l’analisi dellefondamenta architettoniche – gli ‘aspetti struttura-li’ – della costruzione europea; così la struttura-zione delle opzioni hirschmaniane, avviene attra-verso il ‘gradualismo’ che caratterizza la costruzio-

Page 123: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

123

ne dell’architettura europea: dal mercato comune,alle relazioni esterne della Comunità, alla definizio-ne dell’autonomia dell’ordinamento comunitario,alla costruzione di uno spazio giuridico europeo. Il mercato comune si configura come “il cuore dellacostituzione materiale o sostanziale dellaComunità” (p. 308), frutto anch’esso, in gran parte,di una costruzione giurisprudenziale. La dinamicacostitutiva viene scandita attraverso il susseguirsi dicinque ‘generazioni’ di giurisprudenza comunitariain materia; certamente non casuale la scelta del ter-mine ‘generazione’, dal momento che Weiler faancora una volta appello ad una metafora per indi-care insieme i ‘cambiamenti’ da un periodo all’al-tro, e sottolineare la ‘continuità’ del processo nelsuo complesso. Noti i passaggi fondamentali di talecostruzione giudiziale, che l’autore rispettivamenteidentifica nella ‘fase istitutiva’ degli anni ’60-’70,nella seconda fino agli inizi degli anni ’80, nellaterza, verso la metà degli anni ’80, in cui si colloca-no interventi non solo giurisprudenziali ma anche‘politici’ (si pensi al Libro Bianco dellaCommissione per l’istituzione del mercato unico,ma anche all’Atto Unico, nonché alla NuovaStrategia di Armonizzazione), ancora nella quarta,dei primi anni ’90, alla quinta generazione, quellacioè che appartiene al ‘presente’ ed al futuro pros-simo. In forza di tali passaggi vengono delineati glielementi cardine della costituzione economicaeuropea, dal divieto di discriminazione in base allanazionalità, alla definizione delle misure di effettoequivalente, al parallelismo funzionale. Una nota-zione particolare meritano , secondo l’autore,rispettivamente la quarta e la quinta generazione disentenze; la quarta perché con il caso Keck, sisarebbe avuta un’inversione di tendenza, verso una‘nuova teoria del settore’ che avrebbe due pregi,dal momento che “comporta un cambiamento, unamaturazione verso un sistema che mira al raggiun-gimento effettivo del mercato unico piuttosto che aribadire la necessità di raggiungerlo” (p. 382), men-tre implica un ‘perfezionamento’ del mercato chepermette una maggiore tolleranza delle diversitànelle normative nazionali e locali. Nella quintagenerazione Weiler legge l’avvio di un processo di‘convergenza’ tra “disparati regimi commerciali,incluso il GATT [oggi WTO] e la CE” (p. 383); inparticolare, nel contesto ‘globale’, “il più interes-sante sviluppo in questo senso sarà la convergenza

dei regimi di regolamentazione nazionale tra i gran-di blocchi commerciali (USA, EU, Canada, ecc.)come mezzo per garantire alle loro corporations dimuoversi con facilità nel mercato” (p. 388). In materia di relazioni esterne della Comunità,riemerge il paradigma della specificità europea; lamodalità dell’approccio misto, è assai peculiare,posto che essa non ha “precedenti o analogie nellaprassi internazionale” (p. 220). Il ‘dilemma’ nascenegli ordinamenti federali nel loro relazionarsi asoggetti ‘unitari’ nell’ambiente esterno, in unmondo fatto di rapporti tra stati, tipico dell’ordinewestfaliano; in tale contesto, a fare quadrare il cer-chio tra necessità di unitarietà nell’esercizio dellapolitica estera ed esigenze di tutela dell’autonomiadei membri dell’ordine federale, provvede la solu-zione del federalismo cooperativo, che garantisceil rispetto dell’autonomia delle diverse componen-ti l’assetto federale.Nel caso specifico della Comunità, “l’approcciomisto, accanto ad accordi comunitari ‘puri’, e adaccordi degli Stati membri ‘puri’, costituisceun’opzione aggiuntiva per la gestione delle rela-zioni giuridiche esterne da parte di soggetti nonunitari, statali o meno” (p. 305); non solo, essi con-tribuiscono ad unire “i principali soggetti dell’inte-grazione europea”, grazie “alla costituzione di unarete sempre più grande in cui la Comunità e gliStati membri guadagnano forza, a livello interna-zionale in modo simultaneo”, dando un “contribu-to al consolidamento del quadro generale dell’in-tegrazione europea” (p. 305). La costruzione di uno spazio giuridico europeoper la tutela dei diritti ha tipicamente matrice giu-risprudenziale, mentre costituisce il segno più evi-dente della natura ‘costituzionale’ dell’ordinamen-to giuridico comunitario; il costituzionalismo euro-peo dei diritti poggia su un “fondamento di tipocommon law”, che attinge e integra al tempo stes-so, “gli ordinamenti costituzionali nazionali” (p.448); la Corte pertanto “non usa le prassi costitu-zionali degli Stati membri per verificare la costitu-zionalità del provvedimento comunitario, ma solocome fonte per selezionare i ‘principi’” (p. 192) ,strutturanti ciascuno dei diritti tutelati. In questitermini, Weiler prende le distanze dall’approcciomassimalista che privilegerebbe lo standard piùelevato di tutela dei diritti, in ogni circostanza.Se ogni collettività ha il diritto di conservare la pro-

Page 124: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

124

pria autonomia e ‘autodeterminazione’ nel decide-re la misura della tutela accordata ai diritti fonda-mentali, la scelta comunitaria di tutelare i dirittiattingendo, al di là dello standard minimo rappre-sentato dalla Convenzione europea, al ‘laboratoriovivente’ degli ordinamenti dei singoli stati, finiscecon il dare un contributo specifico al “discorso delmulticulturalismo e del pluralismo nelle nostresocietà” (p. 196).In una società “multiculturale composta da indivi-dui monoculturali” (p. 197), il sistema dei dirittiumani europei, “non sostituisce quelli nazionali[…] o internazionali […]” ma “coesiste accantoad essi, nell’ambito di applicazione del dirittocomunitario, il quale si sovrappone solo parzial-mente all’ambito nazionale e a quello internazio-nale della Convenzione europea” (p. 199). L’ethoscostituzionale europeo, nel tener conto di unapluralità di tradizioni, contribuisce a che vengariconosciuta “la Comunità e l’Unione come un’en-tità politica con una propria identità distinta e conle proprie sensibilità costituzionali” (p. 197). L’Unione va dunque considerata come un ordina-mento dotato di autonomia, status questo da riba-dirsi anche di fronte alle prese di posizione di alcu-ne Corti nazionali, quale quella tedesca, messasi inluce in particolare nel 1993, con la sua ‘decisionedi Maastricht’. Tale Corte ha contestato sostanzial-mente alla CGE la prerogativa della Kompetenz-Kompetenz, giurisdizionale, ossia la “competenzadi dichiarare, o determinare, i limiti delle compe-tenze della comunità. (p. 394). In questo senso,“se la Corte tedesca ha ammesso che la Corte digiustizia europea ha un suo ruolo da giocare, haanche precisato che dal punto di vista del dirittocostituzionale nazionale (tedesco) l’autorità ultimaper decidere di tali questioni [di competenza]spetta la diritto interno” (p. 395). Se pure è possi-bile essere d’accordo con l’affermazione per cui “ildiritto internazionale ha fornito l’unica base sullaquale fondare l’ordinamento giuridico comunita-rio” (p. 398), questo tuttavia non esclude, anziimplica, che proprio questo ‘radicarsi’ nel dirittointernazionale consente alla CGE di assumere laposizione di ‘arbitro ultimo’ del sistema; infatti “ildiritto internazionale non concederebbe certo agliStati, presi singolarmente, il diritto di avere l’ulti-ma parola sulle questioni riguardanti le competen-ze di un’organizzazione internazionale, proprio

come non concederebbe tale strumento decisivoad uno Stato su qualsiasi aspetto del trattato a cuiavesse aderito” (p. 398). Pertanto, se all’ordina-mento comunitario è riconoscibile il carattere‘costituzionale’, a fortiori, non è possibile accoglie-re un approccio internazionale ‘purista’, dalmomento che “non pensiamo che un ritorno aldiritto pubblico internazionale sia in qualchemodo meno artificioso della caratterizzazionecostituzionale” (p. 409).A conclusione del volume, il tema del costituzio-nalismo torna nelle vesti del ‘rifletteremo’, dopoaver costituito il filo rosso della costruzione euro-pea, il ‘fare’ del periodo istitutivo. In questi termi-ni, Weiler reintroduce il discorso sul costituziona-lismo con l’immagine di un “prisma attraverso ilquale si può osservare un paesaggio in un deter-minato modo, un artefatto accademico tramite cuisi organizzano le pietre miliari e i confini all’inter-no di questo stesso paesaggio” (p. 454); nel trac-ciare una ‘mappa’ della storia intellettuale delcostituzionalismo e della costituzionalizzazionedell’Europa, l’autore intraprende una ‘discussionesulla discussione’ su questi concetti, tanto dapotersi parlare di una sorta di ‘meta-costituzionali-smo’. In una fase in cui, per Weiler, la ‘chiesa del costi-tuzionalismo’ (p. 464), è sottoposta ad una serie disfide – dagli stati nel loro complesso, qualora sifaccia riferimento alla costruzione europea comead un mosaico, una sorta di patchwork, fatto dibits and pieces, da talune Corti nazionali in parti-colare, nei termini appena discussi – riveste uncarattere fondamentale l’avvio di una diversa con-cettualizzazione del costituzionalismo ‘classico’. In questi termini, nell’abbandonare “il prisma dua-lista dell’immagine tradizionale costituzionale” (p.470), fondato su di un principio di gerarchia deirapporti tra Comunità-Unione e Stati, si profila“un’immagine differente, ‘orizzontale’, ‘policentri-ca’, ‘infranazionale’ del sistema di governo euro-peo e della sua struttura costituzionale” (p. 470).Seppure gli studi di settore, nel definire i caratteridel sistema politico europeo nei termini della poli-tica comparata, rifuggono ormai dalla considera-zione di un ‘eccezionalismo’ europeo – l’Europacome sistema politico sui generis – tuttavia è pos-sibile leggere i caratteri del costituzionalismo neitermini di un Sonderweg, ovvero di un percorso

Page 125: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

125

alternativo, terzo, rispetto al profilo istituzionale,essenzialmente intergovernativo-confederale ed alprofilo costituzionale, apparentemente ‘conver-gente’ con i sistemi federali, dai quali invece sidistingue perché riduce i rischi di “concentrazionedi potere costituzionale ed istituzionale a livellocentrale” (p. 513). Il ‘progetto’, la ‘visione’ alterna-tiva europea si sostanzia nell’idea di ‘comunita’,un’unione politica cioè “nella quale la Comunità egli Stati membri continuino la loro difficile coesi-stenza, per quanto sempre più legati tra loro” (p.161). Se il Preambolo del Trattato CEE fa riferi-mento ad un’unione sempre più stretta tra i popo-li europei, questo significa, argomenta Weiler, che,nel respingere l’idea di un melting pot e di costru-zione di una nuova ‘nazione’, l’espressione ‘un’u-nione sempre più stretta’ fa riferimento ad un“andare avanti all’infinito”, che “vuol dire anchenon arrivare mai” (p. 161). Il ‘percorso particolare’ europeo si sostanzierebbenel ‘principio della tolleranza costituzionale’ – “lasua vera Grundnorm” (p. 622) –, inclusa già nel-l’obiettivo ‘meta-politico’ indicato nel Preambolo,quale “tratto prescrittivo veramente distintivo delfederalismo europeo” (p. 527). In termini concettuali, esso si riferisce direttamen-te alla costruzione di un ordinamento in grado diconsolidare la democrazia “all’interno e nelle rela-zioni reciproche di diversi Stati membri, vecchi enuovi” (p. 527); sotto il profilo della sua ‘applica-zione operativa’, esso, nelle “nostre società multi-culturali” (p. 528), approda ad una modalità alter-nativa nella definizione dei nostri rapporti con lo‘straniero’. Né omologazione, né esclusione ma,potrebbe dirsi, con Habermas, ‘inclusione’, che siha “quando superiamo le differenze in nome dellanostra comune umanità” (p. 529). Riconoscere erispettare la diversità, “non ci impedisce di attra-versare le differenze, in forza della nostra naturaultima di uomini” (p. 574), secondo “il senso dellalegge mosaica” (p. 574). Il sovranazionalismo, “in quanto progetto comuni-tario di integrazione europea, influisce sugli “ecces-si della nazione-Stato” (p. 493) e vigila contro la vio-lazione delle ‘frontiere’, ovvero dei limiti in cui puòessere declinata l’appartenenza allo ‘Stato’, alla‘nazione’, al ‘gruppo’; limiti questi che rivelanotutta la loro importanza tutte le volte che si rischiadi passare dal sentimento di appartenenza (inteso

come socialità), a quello di ‘superiorità’, quando “ilsignificato di identità nazionale collettiva implical’esistenza” “di un altro ‘inferiore’” (p. 491). Nel respingere il concetto di una ‘democrazia com-battente’ (p. 525), e temendo una caratterizzazionein termini di superiorità del demos nazional-costitu-zionale inteso nei termini del pouvoir constituent –ricorda come il sovranazionalismo rappresenti una“sfida alle espressioni codificate della nazionalità”;in forza delle sue norme relative alla libertà di movi-mento “che non permettono con mezzi statali diescludere l’influenza di culture diverse”, esso costi-tuisce una “ferma proibizione di discriminazionibasate sulla cittadinanza/nazionalità” (p. 494).Pienamente compreso nella visione liberale dellasocialità, solo apparentemente distante dall’attualedibattito sul repubblicanesimo, in tutte le sue pos-sibili declinazioni – posta la sua attenzione ad rin-novato progetto europeo di ‘sfida’ allo Stato etni-co-nazionale’, nella costruzione di un’Unioneattorno ad un nucleo di ‘valori civici’, di cittadi-nanza intesa come ‘solidarietà civica’ (p. 510),Weiler denuncia in maniera esplicita i rischi insitinella definizione della ‘cittadinanza’ europea intermini confinari, quando semplicemente le ‘fron-tiere’ tra il ‘noi’ dei singoli stati membri vengono‘trasferite’ nel definire un rapporto tra un ‘noi’europei e un ‘loro’ di non europei, di tutti quellicioè “al di fuori della Comunità” o di “quelli dentrola Comunità che però non godono dei privilegidella cittadinanza” (p. 163). Richiamandosi ad un altro fondamentale aspettodel dibattito costituzionale, circa la natura federaleo confederale dell’Unione, Weiler propone una let-tura peculiare della questione; se è vero che,seguendo le ‘fasi’ della costituzionalizzazionedell’Europa da lui proposta, si sarebbe in definitivagiunti rispettivamente ad un assetto istituzionaleconfederale e ad uno giuridico ‘federale’, ciò nonesclude di prendere in considerazione una pecu-liare lettura del ‘federalismo costituzionale’.Seguendo le orme del ‘compianto’ D. J. Elazar,secondo il quale il ‘principio federativo’ nondovrebbe essere confuso con la sua specifica mani-festazione nello Stato federale, l’UE avrebbe già‘creato’ un suo modello di federalismo costituzio-nale, il cui cardine consiste nel ‘principio della tol-leranza costituzionale’. Il nostro tentativo a questopunto è quello di individuare i passaggi attraverso

Page 126: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

n.8 / 2004

126

i quali l’autore giunge all’elaborazione di questoconcetto. Ci sembra importante partire dalla que-stione che Weiler ritiene preminente nell’attualedibattito costituzionale: il problema ‘normativo’della legittimazione e dell’obbedienza. Nella realtàistituzionale attuale, esso si pone nei termini del-l’assenza di un ‘consenso esplicito’ dei cittadini,rispetto alle richieste di obbedienza di “sistemapolitico assai impegnativo per gli Stati membri” (p. 519). Si tratta di un sistema politico che rispettoalle realizzazioni esistenti di modelli costituzionalifederali (primo fra tutti il federalismo americano)possiede alcune caratteristiche comuni, come ilprincipio dell’effetto diretto e quello della supre-mazia del diritto comunitario su quello interno, maè collocato in una ‘cornice’ assai diversa, con con-seguenti diverse implicazioni; negli assetti federali“le istituzioni dello Stato federale sono poste in unambito costituzionale che presuppone l’esistenzadi un demos costituzionale, un singolo pouvoirconstituent, composto dai cittadini della federazio-ne nella cui sovranità, come potere istitutivo, e innome della cui suprema autorità, l’assetto costitu-zionale specifico viene a trovare le sue fondamen-ta” (p. 514). Tale ‘presupposto giuridico’ di fondo‘manca’ nell’attuale architettura costituzionaleeuropea, che “non è mai stata convalidata da unprocedimento di adozione costituzionale da partedi un demos europeo” (p. 515). L’esistenza di unacostituzione senza alcuni dei requisiti classici delcostituzionalismo, potrebbe far pensare ad unacondizione di ‘perenne instabilità’; al contrariol’UE si configura come un sistema politico ‘sor-prendentemente’ stabile. Questo equilibrio èriconducibile al peculiare Sonderweg europeo, al‘principio della tolleranza costituzionale’, quale“tratto prescrittivo veramente distintivo del federa-lismo europeo” (p. 527). La struttura costituziona-le dell’Unione non ha ancora ricevuto la supremalegittimazione di un ‘unico’ demos costituenteeuropeo, né dovrebbe riceverla; il telos originariodell’UE infatti, è quello di creare un’unione sem-pre più stretta tra i ‘popoli europei’, rifiutando l’i-deale di ‘una sola nazione’. Certo, è “assai più dif-ficile conseguire un’unione sempre più stretta sele componenti mantengono le loro identità distin-te” (p. 530), mentre “chiedere di legarsi agli altri inun’unione sempre più stretta significa chiedereun’interiorizzazione – individuale e sociale – di un

altissimo grado di tolleranza” (p. 530). In questitermini, i ‘soggetti costituzionali’ nei singoli Statiaccettano la disciplina costituzionale europea, neisettori di competenza della Comunità, “come attovolontario autonomo di subordinazione, rinnovatoall’infinito ad ogni occasione, nei confronti di unanorma che è la manifestazione, in aggregato, dialtre volontà, altre identità politiche, altre comuni-tà politiche” (p. 531). L’obbedienza che vienerichiesta in nome dei ‘popoli europei’, è un’obbe-dienza ‘costituzionale’, in cui ‘accettazione’ e ‘sog-gezione’, sono ‘volontarie’ e ‘continuative’, mentredarebbero vita “ad un atto di vera libertà ed eman-cipazione dall’arroganza collettiva del sé e dal fana-tismo costituzionale: un’espressione altissima ditolleranza costituzionale” (p. 532). Per chiarirneulteriormente le caratteristiche, occorre spostarsisul piano della ‘prassi’, “per esaminare la tolleran-za costituzionale all’opera nella dimensione politi-ca e sociale effettiva” (p 532). Nella sfera dell’am-ministrazione pubblica, negli usi e nei costumi deifunzionari pubblici degli Stati europei esso eserci-ta la sua influenza, mentre “abitua una miriade dioperatori a tutti i livelli dell’amministrazione pub-blica ad esercitare le loro virtù nascoste” (p. 533).In questi termini, non ha più senso il lungo dibat-tito costituzionale, “dominato per anni da una‘strana combinazione’ di Kelsen e Schmitt; esso è‘kelseniano’ nel “descrivere, definire e compren-dere la Grundnorm europea, la fonte da cui derival’autorità della disciplina costituzionale europea”(p. 520), mentre è ‘schmittiano’, quando ricerca la“fonte ultima di autorità, quella che conta nel casoestremo, quello del contrasto” (p. 520). Se secon-do taluni ‘europeisti’, in forza del principio disupremazia, la Grundnorm si sarebbe ‘spostata’ indirezione dell’Europa, per coloro i quali la legitti-mazione ultima risieda ancora negli ordinamentigiuridici nazionali, essa deve ancora ‘spostarsi’; ciòpotrebbe avvenire solo “se si collocassero gli esi-stenti precetti costituzionali in una costituzioneformale, adottata da un demos costituzionaleeuropeo – alias i popoli europei che in quell’occa-sione agirebbero come un popolo europeo – “ ,qualora vi fosse cioè, “un trasferimento di fatto e didiritto, di autorità costituzionale a favoredell’Europa” (p. 520). In forza del principio di tol-leranza costituzionale – quale carattere ‘unico’ delfederalismo europeo – non occorre procedere ad

Page 127: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

127

alcuno spostamento verso la sede ‘ultima’ della‘norma fondamentale’, né adottare un testo costi-tuzionale formale. Piuttosto, per evitare che la tol-leranza costituzionale ‘collassi in se stessa’ comeethos dei costumi pubblici, in una ‘società muliti-culturale’ come quella europea (il riferimento, inparticolare, è alle politiche dell’immigrazione),occorre impedire che essa venga ‘ristretta’ “solo aiprescelti con passaporti colore viola” (p. 533); l’o-biettivo, semmai, è quello di ingenerare un ‘effettodi spillover’, nel senso di una estensione ad euro-pei e non europei in ugual modo, della tolleranzacostituzionale, intesa come vera e propria virtù diconvivenza civile tra ‘cittadini’. Se la quinta fase del processo di costruzione euro-pea è quella dell’infranazionalismo, considerataquale dimensione altra, aliena dal consueto conte-sto costituzionale europeo, una sorta di “virus percui gli antibiotici, predisposti per combatteregermi e microbi, sono semplicemente inadatti” (p.169), pure esso non è né incostituzionale né costi-tuzionale; “è semplicemente al di fuori della costi-tuzione” (p. 168), laddove il ‘glossario’ costituzio-nale è costruito attorno ai rami del potere, dai con-torni ben definiti. “L’insistenza costituzionale sulladefinizione chiara dei confini di un soggetto” (p.603), si scontra con la proteiforme natura della‘Comitologia’, che struttura il fenomeno dell’infra-nazionalismo; essa “richiede la totale riscrittura delsettore dei processi decisionali a causa dell’impor-tanza della cellula-Comitato in tutti i suoi stadi” (p.599), mentre individua un livello ‘meso’ di gover-no. Opera ad un livello di mutamento ‘sub-atomi-co’, che Weiler definisce ‘einsteniano’ - a differen-za dei ‘grandi eventi’ newtoniani rappresentatidagli appuntamenti delle CIG - come una sorta di“neutrino, un quark che interferisce sull’interoprocesso della fisica molecolare” (p. 599). Affiancando la Commissione nella sua funzioneesecutiva ed il Consiglio nell’esercizio del suopotere di delega, la Comitologia ha acquisito unapropria ‘autonomia costruttivista’; le dinamiche dinetwork informali, lo sviluppo di una sub-culturaspecialistica al suo interno, il superamento deilimiti della ‘delega’, contribuiscono a delinearne icaratteri come quelli di un ‘terzo paradigma’,accanto all’intergovernamentalismo e al sovrana-zionalismo. L’infranazionalismo non ‘cancella’ glialtri due paradigmi interpretativi, “ma opera al loro

fianco. Se si pensa alla Comunità nei termini digovernance, l’infranazionalismo ci aiuta a definireun livello importante del sistema multistratificatoeuropeo” (p. 602). Tanto più stimolante l’analisi di tale ‘paradigma’,quanto più esso consente di dare una possibilerisposta alla “facile obiezione democratica allaComitologia” (p. 608), che, posta la sua forte carat-terizzazione ‘tecnocratica’, confermerebbe piena-mente il quadro di un’Unione afflitta dal ‘deficitdemocratico’, con istituzioni ‘distanti’ dai suoi cit-tadini, come constata la recente Dichiarazione diLaeken sul futuro dell’Unione . In questo contesto,Weiler si accosta alle questioni presenti nell’attua-le dibattito intorno ad un nuovo paradigma demo-cratico, quello ‘deliberativo’. Esso si fonda sullapietra miliare della costruzione habermasiana, cheri-costruisce la dimensione democratica e della‘politica’ nei termini del ‘discorso’. Al di là dell’analisi politologica relativa ai possibilisviluppi di tale paradigma, il nostro formula un giu-dizio improntato alla cautela intorno a tale possibi-le declinazione della comitologia; questo perchépiù che un ‘microcosmo della soluzione’ essacostituirebbe piuttosto il microcosmo dei proble-mi della democrazia. La natura elitaria di tali comi-tati, l’omogeneità socio-economica dei membriche popolano tale complessa struttura, insiemealle questioni connesse all’uguaglianza dell’acces-so – nei termini dell’inclusione di alcuni interessie dell’esclusione di altri – al network deliberativoin parola, rappresentano le obiezioni fondamenta-li addotte dall’autore. L’obiezione di fondo è peròche le ‘decisioni’ piuttosto che ‘a porte chiuse’, dagruppi con la mentalità da impiegati pubblici e da‘esperti’, “dovrebbero essere prese apertamente”(p. 612) nell’arena pubblica. Il ‘sovranazionalismodeliberativo’, individuato dai due studiosi Joergese Neyer, dunque, secondo il giudizio di Weiler, vaconsiderato come “il nobile ideale deliberativo diHabermas” che può essere “valido solo se assimi-lato all’ideale ebraico del Messia: si crede fervida-mente che verrà (tempo futuro); colui che vera-mente viene è sempre falso. La Comitologia non èche un aspetto ordinario di tale verità” (p. 612).

Ancora, la ‘specificità’ costituzionale europea,viene esemplificata da alcune tematiche particola-ri, come quelle relative alle possibili scelte politi-che per un’Europa sociale, in relazione alla quale la

Page 128: Culture Economie e TerritoriRivista Quadrimestrale SOMMARIO · novità e, quindi era, insieme alle altre visioni teori-che, oggetto di discussione senza che questo implicasse l’espressione

posizione di Weiler è largamente condivisa neglistudi di settore (segnatamente, in riferimento adun ruolo peculiare dell’UE nel contesto della glo-balizzazione). “L’Europa è orgogliosa della sua tra-dizione di solidarietà sociale che ha trovato espres-sione politica e giuridica nello Stato sociale” (p.625); tanto più orgogliosa quanto più essa puòessere chiamata a spendere questo suo principiodi identificazione nel contesto globale. Ma la scelta di dare espressione formale a questoimpegno nella Costituzione europea è problemati-ca sotto due profili; in primo luogo perché com-porta peculiari scelte di politica redistributiva, insecondo luogo perché “quando qualcosa è inseri-to nelle Costituzioni è sottratto al normale proces-so politico” (p. 626) ed in questa fase in cui non èchiaro se le politiche sociali in Europa godano “deltipo di consenso sufficiente a giustificare talepasso” (p. 626), una scelta di questo tipo potrebbeconfigurarsi come una minaccia de-integrativa. Altra fondamentale questione al centro della dis-cussione è quella delle competenze; la definizionedel principio di sussidiarietà, la problematica del-l’equilibrio delle strutture e dei processi di gover-nance, quindi del rapporto tra Comunità e Statimembri, si ricollega alla problematica emersa “intutte le esperienze federali” (p. 631) di frenare lacentralizzazione del potere. L’inserzione di unelenco di competenze nel dettato costituzionalenon sembra aver risolto il problema. Nel caso dell’UE, la soluzione sembra dunque esse-re quella di “ripensare al soggetto a cui si deman-da di interpretare la portata delle funzioni e deipoteri delle Comunità e dell’Unione” (p. 631). Laproposta di Weiler in tal caso è quella di definireuna nuova istituzione, un Consiglio costituzionalealla francese, composto da giudici nazionali ecomunitari, cui sarebbe attribuita la giurisdizionesulle questioni relative alla competenza, oggiespletata dalla Corte europea. Ancora una volta una soluzione originale, che

riflette la natura ‘composita’ della costruzioneeuropea; un’Europa in cerca di una ‘filosofia’ quan-do si propone come l’ambiente istituzionale piùprossimo all’assetto di una ‘democrazia post-nazio-nale’, una delle più recenti issue entrate nel dibat-tito europeo; Weiler la introduce nel definire lasua profonda diffidenza nei confronti di un super-Stato europeo, dal momento che tale prospettivarappresenta lo sforzo di concettualizzare un’entitàche superi il concetto di Stato-nazione e che siapoliticamente percorribile. In un contesto globale in cui il costituzionalismotende a configurarsi come una sorta di collettoredel mutamento giuridico e istituzionale, in gradocioè di raccogliere e tener dietro ai flussi econo-mici, giuridici e comunicativi, anch’essi globali, lariflessione sul costituzionalismo tout court e sullediverse opzioni costituzionali, assume una valenzaparadigmatica; all’interrogativo se “esiste qualchevirtù nel Trattato costituzionale, nello status quo”,quindi nel conservare i trattati senza approdare adun testo costituzionale formale – si pensi allerecenti vicende della Convenzione e alla mancataapprovazione del progetto di trattato di unaCostituzione per l’Europa – o se questa, piuttosto,sia “una dimostrazione di poco coraggio [?]” (p.620), la risposta del nostro è che comunque que-sta opzione riflette ‘valori profondi’. Nella consa-pevolezza che “l’adozione di una Costituzione daparte di un popolo è un invito alla creazione di unapolity” (p. 620), di un demos, di una ‘lealtà’, Weilerrimane convinto assertore delle virtù, potremmodire demo-poietiche del patto di biblica memoria:“se in molti casi la dottrina costituzionale presup-pone l’esistenza di ciò che essa stessa crea”, ildemos “che è chiamato ad accettare laCostituzione è, giuridicamente, costituito da que-sta stessa Costituzione, e spesso questo atto diaccettazione è uno dei primi passi verso una piùprofonda nozione politica e sociale di demos costi-tuzionale” (p. 621).

n.8 / 2004

128

Lidia Lo Schiavo ([email protected])